L’informaizone? Oligopoli e nuove povertà

Tra lusso e bisogno

L’affermazione delle nuove tecnologie di
comunicazione non ha ridotto il divario tra Nord e Sud. Anzi, ha spesso
prodotto una sorta di nuova «colonizzazione». Chi fa arrivare le
notizie del Sud ai maggiori organi informativi del Nord? Un pugno di
agenzie e di network televisivi del Nord. Con l’arrivo della
globalizzazione, l’informazione si è concentrata nelle mani di grandi
gruppi transnazionali, che guardano soltanto ai profitti, alla Borsa o
a precisi interessi di potere. Un fenomeno che accomuna Nord e Sud del
mondo, ma che mostra le conseguenze più negative nei paesi più poveri.
 

In tempi recenti la Banca mondiale ha ampliato la propria definizione
di povertà. Oltre ai componenti purtroppo diventati classici
(un’alimentazione inadeguata, la mancanza di istruzione, un reddito
basso e via dicendo…) sono stati inclusi anche i seguenti elementi:
«senso di impotenza, mancanza di una voce, vulnerabilità e paura».
Ormai anche un’istituzione del rango della Banca mondiale (notoriamente
più in sintonia con le politiche di crescita economica che con quelle
di sviluppo umano) ha riconosciuto che si può essere poveri anche per
la mancanza di informazione o per l’incapacità di comunicare.
Eppure, nella consapevolezza comune, questa urgenza non è ancora
abbastanza radicata, né tra gli addetti ai lavori (pensiamo ad esempio
alle Organizzazioni non governative, Ong) né tra i professionisti
dell’informazione (giornalisti o altro). Prevale ancora, purtroppo,
l’idea che i bisogni primari (i cosiddetti basic needs) siano soltanto
quelli alimentari o sanitari, mentre l’informazione costituisca un
lusso di cui si possa fare a meno nelle fasi iniziali dello sviluppo.
Forse è per questo che non desta alcuno stupore l’esistenza di uno
squilibrio nello stato dell’informazione tra Nord e Sud: a una
crescente e dominante affermazione delle tecnologie, e quindi del
potere informativo, si contrappone un impoverimento della capacità di
«farsi ascoltare» da parte dei soggetti (paesi, popoli, comunità) meno
dotati di mezzi. Qualcuno ha parlato di una nuova forma di sfruttamento
in cui, alle risorse naturali e alle materie prime, si sono sostituite
le informazioni che provengono dai paesi più poveri. I più audaci si
sono spinti perfino a parlare di «colonizzazione mediatica».

I CIRCUITI INFORMATIVI E GLI OLIGOPOLI
Oggi le quattro maggiori agenzie stampa del mondo gestiscono da sole
l’80% del flusso di notizie: si tratta delle statunitensi Associated
Press e United Press Inteational, della britannica Reuters e della
francese France Press. La quasi totalità delle informazioni provenienti
dal Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa
prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri telegiornali. Lo
spazio che esse dedicano ai paesi più poveri è stimato intorno al 10 –
30% delle notizie complessive.
L’esclusione di larga parte del Sud dai circuiti informativi è soltanto
una parte del problema. In realtà, l’aspetto più preoccupante è il
crescente predominio e la frequente manipolazione, da parte dei paesi
più ricchi, dell’informazione proveniente dal Sud. Il genere di notizie
di provenienza dal Sud che trovano ospitalità nei nostri mass media
sono generalmente quelle che le grandi centrali di comunicazione (le
poche agenzie inteazionali e i potenti network televisivi) decidono
di trasmettere, secondo una scelta che rispecchia la cultura e gli
interessi occidentali. Inoltre, la distribuzione delle informazioni che
dal Sud riescono a raggiungere il Nord segue ancora criteri che
rispecchiano gli antichi legami coloniali, di fatto ancora operanti: le
notizie provenienti dall’Africa Orientale hanno accesso prevalentemente
ai media inglesi; quelle dell’Africa Occidentale ai media francesi, e
così via.
Gli Stati Uniti sono i primi esportatori di informazione e di programmi
nel mondo; ma occorre ricordare che sono statunitensi anche i sistemi
di controllo, il management, le norme di regolamentazione dei sistemi
televisivi. Sono compagnie statunitensi quelle che hanno assistito, con
la loro consulenza tecnico – organizzativa, la creazione dei sistemi e
degli impianti televisivi di molta parte dei paesi in via di sviluppo.
E questo non ha potuto non incidere anche in termini di influenza
culturale: il fatto di usare una tecnologia concepita in Occidente, con
codici e regole lì predisposte, condiziona il modo di far televisione,
le scelte di linguaggio, la strutturazione dei palinsesti,
l’orientamento verso un determinato pubblico. È quella che Massimo
Ghirelli, nel suo libro L’antenna e il baobab, ha definito la
«vischiosità culturale» dei mass media.

IL MITO (OCCIDENTALE) DELLA «MODERNIZZAZIONE»
Negli anni ‘50, agli albori del concetto di sviluppo, veniva attribuita
un’enorme importanza ai mezzi di comunicazione di massa, identificati
come strumenti straordinariamente efficaci per trasformare una comunità
«tradizionale» in una società «modea». L’approccio adottato era
quello, quanto mai ingenuo, della «modeizzazione»: ai mass media,
cioè, veniva affidato il compito di preparare gli individui a un rapido
cambiamento sociale, a imitazione delle società occidentali.
Oggi risulta difficile comprendere quanto fosse radicata l’idea che
un’adeguata esposizione ai mass media potesse modificare le strutture
cosiddette «arretrate» di vita, di valori e di comportamento esistenti
nelle società tradizionali. Basti pensare che i media furono utilizzati
non solo come agenti, ma anche come indici di modeizzazione nei paesi
in via di sviluppo. L’Unesco (www.unesco.org) giunse addirittura a
stabilire uno standard minimo necessario di disponibilità di mass media
nei paesi in via di sviluppo, più precisamente: 10 quotidiani, 5 radio,
2 televisioni e 2 posti cinema ogni 100 persone.
Negli anni ’60 e ’70 l’enfasi posta sulle capacità, da parte dei
singoli individui, di rinunciare alla tradizione venne sostituita da
una sottolineatura marcata delle barriere sociali, economiche e
culturali. Cominciò a diffondersi la coscienza di quanto fossero
ineguali i meccanismi di scambio, anche relativamente alla risorsa
informazione. Si prese coscienza del controllo pressoché totale del
mondo dell’informazione da parte dell’Occidente. Nell’ottobre 1970,
alla conferenza Unesco di Parigi, per la prima volta si parlò di
«squilibrio dell’informazione», evidenziando la necessità di un «nuovo
Ordine mondiale della comunicazione». Nel 1973, alla conferenza di
Algeri, venne avanzata la proposta di dare vita a un’agenzia stampa dei
paesi non allineati.

LE SCOMODE VERITÀ DEL «RAPPORTO MACBRIDE»
Nel 1980 il processo raggiunse il suo culmine con il Rapporto MacBride
(presentato all’assemblea Unesco di Belgrado), ancora oggi un punto di
riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano di
informazione nei paesi poveri. Esso indicava come obiettivo primario
l’«eliminazione di squilibri e disparità negli strumenti della
comunicazione» e definiva il nuovo Ordine mondiale della comunicazione
come «lo stabilirsi di nuove relazioni derivanti dai progressi
annunziati dalle nuove tecnologie e di cui dovrebbero beneficiare tutti
i popoli».
È importante la caratterizzazione dell’informazione che il rapporto
offriva: «strumento di potere», «arma rivoluzionaria», «mezzo
educativo», «strumento di liberazione o di oppressione»… Dai termini
usati è evidente la sottolineatura del problema del controllo
dell’informazione e dell’influenza da questa esercitata sull’azione
sociale, e sulle diseguaglianze che essa finisce per alimentare e
ratificare, confermando il predominio di chi è più potente e meglio
attrezzato. Un nuovo Ordine mondiale può fondarsi soltanto
sull’uguaglianza dei diritti, sull’indipendenza, sullo sviluppo libero
e autonomo di paesi e popoli.
Il documento suscitò, com’è facile immaginare, polemiche e proteste. Lo
scontro si protrasse per tutti gli anni Ottanta, soprattutto in sede
Unesco, fino a mettere seriamente in crisi l’organizzazione: dapprima
gli Stati Uniti e in seguito la Gran Bretagna decisero di abbandonarla,
con l’accusa di aver trasformato i propri programmi sociali in veicoli
di azione politica, sotto lo sguardo complice dell’Unione Sovietica e
dei suoi satelliti.

«NUOVO» ORDINE O «VECCHIO» DIRITTO?
A partire dagli anni ‘90, il dibattito comincia a perdere le
connotazioni più ideologiche e ad acquistare un certo pragmatismo. La
richiesta di un «nuovo Ordine mondiale della comunicazione» viene
progressivamente accantonata, così come l’obiettivo di giungere a una
completa emancipazione dei media esistenti nei paesi più poveri. La
causa è da ricercarsi nella progressiva degenerazione delle nuove
democrazie, nate con la decolonizzazione, verso sistemi di governo
autocratici e illiberali. Diventa evidente che, all’interno di molti
paesi del Sud, i media rimangono monopolio di regimi autoritari e
l’informazione viene manipolata a scopo di potere.
A conti fatti, si sono rivelate effimere entrambe le illusioni: quella
della modeizzazione (diffusa nel dopoguerra) e quella di
un’automatica funzione di emancipazione, in senso democratico, dei
media (diffusa negli anni ‘70): si sono dimostrati decisivi fattori
fino a quel momento trascurati, perché relativi alla sfera micro
anziché quella macro: chi produce l’informazione, chi sono i formatori
del consenso, quali strumenti di valutazione critica sono disponibili
ai cittadini; e soprattutto, quanti sono i cittadini in grado di
acquistare un apparecchio televisivo, o saper leggere un giornale.
Quando, alla fine degli anni ’90, comincia a porsi con forza il
problema della democratizzazione della comunicazione e del controllo
dell’informazione, è ormai troppo tardi. Il processo di globalizzazione
e le forze del mercato concorrono a sganciare i media dai singoli
governi nazionali e a consegnarli nelle mani dei grandi gruppi di
potere.
La possibilità, da parte di governi e istituzioni, di elaborare
politiche adeguate e di indirizzare i processi in corso si fa sempre
più esigua, anche perché l’informazione perde gradualmente il suo ruolo
di «bene pubblico» e viene progressivamente privatizzata. Domina una
sola legge, quella del rendimento, e i media sono ormai diretti da
manager spesso interessati solo ai profitti e alle quotazioni in borsa
dei titoli.
Esiste poi una preoccupante tendenza verso la concentrazione dei media,
legata alla diffusione di economie neo-liberiste e allo sviluppo
tecnologico. L’enfasi su un contenuto orientato al profitto, e
alimentato dalla pubblicità, ha già portato a una diminuzione del
ventaglio delle possibilità di scelta e a una perdita di spazio per il
dibattito informativo. Anche lo spettro audiovisivo, che è di dominio
pubblico, è sotto l’assedio degli interessi commerciali. Alle persone
comuni è reso sempre più difficile l’accesso a canali mediatici
indipendenti e a visioni alternative del futuro.
Per i paesi del Sud si apre una nuova sfida: non più soltanto
l’obiettivo di un’informazione più equilibrata e più rispondente ai
loro bisogni, ma la difesa del «diritto all’informazione», ovvero la
possibilità di accedere liberamente a questa preziosa risorsa. •

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




La rete strappata

Le mani sulla Rete (1)

È possibile spegnere internet? Per alcuni di noi questa domanda è
semplicemente inconcepibile. Siamo troppo abituati a pensare alla
«grande rete» come al simbolo stesso della libertà e della democrazia.
Inteet è una realtà volatile e diffusa, che oltrepassa le singole
realtà geografiche o le giurisdizioni territoriali: tentare di
esercitare un effettivo controllo rappresenta uno sforzo titanico, tale
da far impallidire la mitica fatica compiuta da Ercole per abbattere
l’Idra di Lea: internet è un gigante che possiede ben più di dodici
teste e, quando ne abbiamo abbattuta una, altre mille sono pronte a
spuntare in qualunque angolo del mondo.

Dove la Rete è prigioniera
In realtà, molti governi, lontani dai riflettori dell’opinione
pubblica, hanno ormai rivolto lo sguardo verso la rete, cercando di
frenare il crescente protagonismo di uno strumento che, forse troppo
frettolosamente, era stato incaricato di aprire la strada a una
rivoluzione democratica. E così, nei pochi anni di esistenza della
Rete, hanno potuto svilupparsi metodi raffinati e variegati per
esercitare il dominio e la censura. Secondo Reporters sans frontières,
13 paesi del mondo possono essere qualificati come veri e propri
«nemici« di questo medium. Si tratta di una «lista nera» piuttosto
eterogenea, che non risparmia alcuna area geografica e che è del tutto
priva di qualsiasi pregiudiziale di natura ideologica.
Una parte di questo poco invidiabile gruppo è composta dagli stati più
autoritari, quelli che, senza troppi scrupoli, proibiscono l’accesso a
internet. La Corea del Nord, per esempio, ha scelto la strada
dell’isolamento totale, rifiutando l’installazione di provider al suo
interno. Altri paesi, come il Myanmar, pur connessi alla rete, hanno
quasi raggiunto l’obiettivo di bloccarla interamente, restringendo
l’accesso degli utenti a una manciata di siti consentiti: circa 800
siti inteazionali, più una dozzina disponibili nella rete intea del
paese. Ciò equivale a costringere gli utenti a «navigare in una
pozzanghera».
Ci sono alcuni paesi che, in forma più subdola, consentono l’accesso a
internet, ma lo limitano alle persone di fiducia, che vengono
debitamente autorizzate dopo avere subito rigorosi controlli. È il caso
di Cuba, il cui governo esercita un controllo ferreo sull’accesso. In
tutto il paese esiste un solo cybercaffè pubblico, aperto in seguito
alle necessità del turismo e il cui prezzo è di 5 dollari l’ora, la
metà del salario medio mensile dei cubani.
A frenare l’accesso concorrono certamente cause che non si possono
ricondurre direttamente ai governi: per esempio, i costi eccessivi
della tecnologia. Tuttavia, queste difficoltà vengono spesso mantenute
artificialmente dai governi, a scopo di controllo. In Kazakistan, per
esempio, gli operatori devono pagare costi di utilizzazione e di
connessione assolutamente proibitivi, che scoraggiano queste attività.
Anche la presenza di monopoli di stato nel settore delle
telecomunicazioni è un problema oggettivo: in Sudan lo stato controlla
tutte le connessioni alla rete attraverso Sudanet, l’unico rudimentale
provider statale.
Che cosa si voglia effettivamente controllare, non è difficile capirlo…
In Sierra Leone, nel contesto di una campagna di repressione nei
confronti della stampa critica, le autorità hanno attaccato anche un
giornale online e hanno arrestato due giornalisti. Uno dei casi più
clamorosi è stato quello della Bielorussia che, in vista delle elezioni
presidenziali del 2000, peraltro costellate di brogli e di
irregolarità, ha fatto chiudere tutti i siti dell’opposizione. Metterli
a tacere è stato un compito facile, visto che nel paese esiste un solo
provider, ovviamente statale.

Dal filtraggio dei contenuti ai «dissidenti telematici»
Ad un livello di maggiore sofisticazione, si sfruttano le possibilità
offerte dalla tecnologia. Il filtraggio dei contenuti è una di queste
e, come è facile immaginare, è operato in base a motivazioni
squisitamente politiche. Ma non si deve sottovalutare il fatto che, in
molte aree del mondo, prevalgono le componenti culturali. Il pericolo
rappresentato da internet per i precetti della religione di Allah è il
pretesto usato da molti paesi del Medio Oriente per giustificare la
censura. Nell’Iran i provider sono costretti a bloccare i siti
«immorali» o quelli che «minano» la sicurezza dello stato, cosicché gli
studenti iraniani di medicina, tanto per fare un esempio, non possono
collegarsi a pagine web che parlino di anatomia. Nella ricca Arabia
Saudita tutto il traffico transita nei server di un gigantesco sistema
di filtraggio chiamato «Djeddah»: esso impedisce completamente
l’accesso ai siti che propongano «informazioni contrarie ai valori
islamici». È appena il caso di osservare che una tale «salvaguardia«
dei valori islamici è operata servendosi quasi esclusivamente di
tecnologia coercitiva proveniente dall’Occidente.
Sebbene sia evidente la pretestuosità di certi argomenti, è indubbio
che alcuni paesi, soprattutto quelli del continente asiatico, siano
caratterizzati da una notevole diversità culturale e da sistemi di
valori distanti da quelli occidentali, ritenuti una minaccia. In Cina
il governo ha vietato l’installazione di Inteet caffè a meno di 200
metri dalle scuole, e questo la dice lunga sul timore di una
contaminazione culturale occidentale.
Proprio la Cina è il paese in cui le restrizioni poste a internet
toccano il vertice. In questo paese vige un rigoroso monitoraggio degli
utenti, costantemente vigilati da corpi politici speciali appositamente
incaricati. Le chiusure di Inteet caffè sono all’ordine del giorno,
con il pretesto della scarsa sicurezza dei locali: del resto, è vero
che porte e finestre vengono frequentemente bloccati dall’interno
proprio per evitare i controlli improvvisi degli agenti governativi. In
Cina esiste una vera e propria «cyberpolizia», formata da tecnici
specializzati incaricati di vigilare sul software in dotazione negli
Inteet caffè e sul comportamento degli utenti, non esitando a violare
la confidenzialità della posta elettronica.
Come non bastasse il rigido controllo poliziesco, la Cina utilizza a
pieno regime anche gli strumenti giudiziari. Ai «dissidenti telematici»
vengono comminate pene durissime. Dal gennaio 2001 l’invio di materiale
clandestino o «reazionario» attraverso la Rete viene punito perfino con
la pena capitale.

GianMario Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Nello spirito di Assisi

Il legame fra pace e religioni è uno dei temi di maggiore attualità: troppo spesso strumentalizzato e fatto oggetto di polemiche feroci e pretestuose. Fra le diverse iniziative attivate su di esso, di cui siamo venuti a conoscenza, abbiamo trovato particolarmente interessante, per taglio e pacatezza di ragionamenti, quella organizzata dal Comune di Cusano Milanino, una cittadina alle porte di Milano. La presentiamo in questo dossier.

Per diverse ragioni il 2006 è stato un anno significativo per le religioni e la pace. In primo luogo perché lo scorso 27 ottobre ricorreva il ventesimo anniversario del primo storico incontro interreligioso per la pace convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii nel 1986.
È stato anche il primo anno nel quale, dopo il suo lungo pontificato, non è stato Giovanni Paolo ii a tenere il consueto messaggio del primo gennaio per la Giornata Mondiale della Pace (tradizione della chiesa cattolica cominciata dal papa Paolo vi nel 1968).
Nel raccogliere il testimone dal suo predecessore, papa Benedetto xvi, nel proprio messaggio del 1° gennaio 2006, ne citava un’affermazione di grande attualità: «Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine».
Sensibile a queste problematiche, il comune di Cusano Milanino ha voluto celebrare la ricorrenza citata in apertura. Così, facendo propria la frase di papa Wojtyla, ha proposto alla cittadinanza una serie di incontri dedicati al tema della pace e alle sue implicazioni con le religioni attualmente più seguite nel mondo.
Se tutti concordiamo sul fatto che l’umanità soffre per guerra, terrorismo, sfruttamento, ingiustizia, schiavitù, degrado sociale e ambientale… non c’è invece convergenza di opinioni sulle cause di tutto ciò.
Per il nostro tempo, ma anche per i secoli passati, c’è chi individua nella religione la causa di questi problemi. Altri ritengono sia vero il contrario: è proprio l’assenza, o l’insufficiente comprensione della religione, a impedire che la pace si instauri definitivamente nel mondo.
Per confrontarsi con queste tesi e con il pubblico, una serie di esperti e testimoni della propria religione sono stati invitati ad animare sei affollate serate tenutesi nella sala del consiglio comunale.

Organizzata senza la pretesa di voler proporre considerazioni di valore assoluto, né di voler presentare la posizione ufficiale delle religioni protagoniste di ogni serata, l’iniziativa voleva semplicemente essere un primo approccio con l’argomento. Un tentativo di capire se, sulle vie della pace che l’umanità vorrebbe percorrere, le religioni possono essere un aiuto o se invece sono proprio loro la causa prima dei conflitti.
Gli esperti hanno introdotto ciascuna religione (in particolare le meno conosciute perché più lontane dalla nostra cultura occidentale) dai punti di vista teologico, storico, socio-politico ed anche geografico, esaminati in relazione al tema conduttore del ciclo.
Da parte loro i testimoni, personalità anche di rilievo nell’ambito delle rispettive comunità religiose, si sono proposti in veste di semplici credenti, disposti a condividere con il pubblico l’esperienza individuale di persone che si sforzano quotidianamente di vivere la pace secondo i principi dettati dalle proprie religioni; anche mettendosi in discussione sulle questioni più problematiche.
Un aspetto importante, questo del chiedere agli ospiti di far emergere la propria spiritualità, anche attraverso la lettura di brevi brani tratti dai testi sacri di ognuno. In occasioni analoghe viene spesso messo un po’ in secondo piano; col rischio di ridurre le religioni a semplici espressioni della cultura e della filosofia di alcuni gruppi umani. Cosa che effettivamente sono, ma che non le descrive compiutamente: gli aspetti spirituali e trascendenti di una religione ne sono infatti l’elemento più importante senza del quale perderebbero il loro specifico significato.

L’iniziativa, impostata col preciso intento di favorire un serrato dialogo fra relatori e pubblico, sembra di poter dire che sia riuscita nello scopo. I presenti, credenti e non credenti, accorsi sempre in buon numero, hanno approfittato con interesse dell’ampio spazio loro dedicato, riservando ai relatori una fitta serie di domande che, anche quando non strettamente inerenti con il tema della serata, erano sintomatiche del diffuso bisogno di spiritualità esistente nella nostra società.
Più in generale dimostravano il desiderio di capirsi, di trovare punti di incontro… di dialogare. Il fatto che tutto ciò sia avvenuto in un clima estremamente sereno e rispettoso del pensiero di ciascuno è il risultato dell’iniziativa di cui andare tutti più soddisfatti, pubblico e organizzatori.
Spesso incontri di questo genere, soprattutto sotto la spinta della drammatica attualità e dell’inopportuna politicizzazione, degenerano presto in poco fruttuose polemiche. Nel nostro piccolo, abbiamo dimostrato che la pace non è fatta solo dalle cancellerie, dalla politica, dalle autorità religiose…, ma può e deve cominciare anche dagli atteggiamenti più semplici e quotidiani di ciascuno; con un impegno forse maggiore per chi è credente: la pace si costruisce più sforzandosi di vivere con coerenza la propria fede (cosa per niente facile) che rivendicando la supremazia della propria religione.
Convinzioni queste espresse da tutti i relatori e principale filo conduttore del ciclo di incontri.

Con estrema soddisfazione abbiamo accolto l’invito di Missioni Consolata a raccogliere in un dossier un’ampia sintesi, non rivista dai relatori, di quanto emerso nel corso dell’iniziativa. Considerando la diffusione nazionale della rivista, fa piacere se quanto di buono siamo riusciti a fare a Cusano Milanino potrà contribuire alla crescita di una cultura di pace anche in altre parti d’Italia.

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




INDUISMO

L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO

L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al iii millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.
Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.
È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione… Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.
Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venie trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.

Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità.
Il primo incontro con l’islam (xii-xiii sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.
Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.
Pur in declino dalla metà del xvii secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.
Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel xvii secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.
Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.

Marilia Albanese

MIGLIORARE SE STESSI PER PORTARE LA PACE

In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri… Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?
Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende…
Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.
L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.
La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.
Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.
Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.
Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.
Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.
A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.
Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».

Sushama Swarup Sahai

DOMANDA

Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?

Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi… è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.

Albanese


Marilia Albanese, docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.
Sushama Swarup Sahai, psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.

Marilia Albanese e Sushama Swarup Sahai




BUDDISMO

Generosità: primo gradino per la pace

Il buddismo è stato fondato dal Buddha Sakiamuni. Nato in India nel 500 a.C., quindi di religione indù, ebbe l’intuizione della sofferenza, da cui cominciò il suo insegnamento. Uomo qualsiasi, con esperienze comuni a tutti gli individui normali, è quindi una figura storica, nonostante la sua realtà umana sia «condita» di leggenda.
Sakiamuni diffuse le conoscenze dai bramini (indù) al popolo, proponendo una liberazione non solo spirituale ma anche concreta e la rivalutazione della figura femminile (ad esempio, prima non c’erano monache). Comunque resta anche lui un po’ maschilista: nella tradizione tibetana i monaci hanno 253 ordini (voti), le monache 436!
Pur nascendo come una filosofia, a mio avviso, il buddismo può essere considerato una religione. Di essa ha, ad esempio, gli ordini monastici. Il fatto che Buddha non abbia parlato di Dio non è perché non ne ritenesse vera l’esistenza, ma perché la figura di Dio è indicibile e la mente umana non può comprenderlo. Penso questo, nonostante sul suo insegnamento ci sia incertezza: sono infatti trascorsi tantissimi anni e altrettante interpretazioni prima che si cominciasse a trascriverlo.
Storicamente in India il buddismo diventa anche religione di stato, ma ne viene espulso dai bramini dopo 700 anni. Successivamente fece presa nel nord della Cina, Giappone, Corea… e oggi in Occidente.
Cercando di adattarsi all’ambiente sociale in cui viene a trovarsi e innestandosi in tutte le culture dei paesi dove arriva, il buddismo ne ingloba le tradizioni locali. Questo genera tante scuole diverse, che seguono differenti tradizioni, legate a quella originaria e tutte fondate sul concetto base e comune della sofferenza.
In Tibet, ad esempio, avviene il sincretismo con la preesistente tradizione sciamanica, che porta a sviluppare il metodo della visualizzazione. In Giappone, invece, si sviluppa un altro modo di concentrarsi: lo zen. Infatti le differenze nell’ambito del buddismo sono legate alla meditazione, assimilabile in un certo senso alla preghiera, perché esistono tanti modi diversi per praticarla e pacificare la mente e gli animi.
Il buddismo, non proponendo una fede o dogmi ma un obiettivo, è una tradizione trasversale applicabile a tutte le religioni e fondata su quattro nobili realtà, fra cui pacifismo, equilibrio, armonia… L’illuminazione (realizzazione) della persona nasce dalle sue esperienze e qualità, la «buddità» viene dall’interno, impegnandosi e agendo secondo i principi di pace, armonia e positività.
Nessuna preghiera e influenza estea ci può cambiare se non vogliamo cambiare noi. Le scritture (per quanto possano essere attendibili, visto quanto detto in precedenza) e il maestro possono solo indicarci la via.
Desiderio, avversione (discriminazione) e confusione mentale (per desiderio ci creiamo illusioni) sono i tre elementi fondamentali che ci impediscono di redimerci. L’io e il mio condizionano la nostra esistenza. In sostanza il buddismo è una religione facile da descrivere e difficile da attuare.
All’attuale realtà di guerre il buddismo si rapporta considerando alcune parole chiave, fra cui altruismo, compassione, generosità… L’amore è augurare a tutti di essere felici; la compassione è far di tutto per vincere la sofferenza altrui.
Il primo gradino per costruire la pace è la generosità: il saper dare. Molti amici della tradizione buddista sono impegnati per la pace, ma se non la viviamo nel nostro quotidiano, anche praticando il dubbio, dal quale nascono la ricerca e la capacità di migliorarsi, questo genere di impegno è un impegno inutile.

Lama Paljin Tulku Rinpoce

In ogni persona brilla una fiamma

Qualsiasi riflessione sulla pace deve partire dal presupposto che nel cuore di ogni persona brilla sempre una fiamma, una scintilla d’intelligenza. Bisogna poi recuperare la consapevolezza, la forza del «sentire» e del sentirsi parte di un tutto: se io respiro, l’intero universo respira; se raccolgo da terra un mozzicone, è l’intero universo che compie questo gesto; e sbaglia chi, vedendomi, pensasse che sto pulendo il marciapiede: è il mondo che sto pulendo!
È il principio di separazione dal tutto che genera i conflitti. Il buddista rispetta tutti e tutto, perché sa che compongono il «Tutto Universale», al quale appartiene anche lui. Togliendo qualcosa all’universo, lo togliamo anche a noi stessi, e viceversa.
È fondamentale l’azione della persona, il far bene quel che si fa: perché serve al mondo. È la nostra vita che deve essere messa in gioco e costruita sui grandi pilastri dell’Armonia, del Rispetto, della Purezza, e della Pulizia interiore. Non è attraverso il male degli altri che si raggiungono la felicità e la realizzazione di sé. Perciò dobbiamo cambiare partendo da noi stessi e dal nostro ambiente.
Anche la pace non va cercata negli altri, ma dentro di sé. Imparando ad affrontare i problemi quando si presentano, senza vacillare al solo pensiero che «forse arriverà il vento!». Come nulla intacca il diamante, nulla potrà compromettere una coscienza adamantina e pura.
Venendo alla domanda se, ai fini della pace, la religione sia troppa o troppo poca, penso che, se ha radici profonde nella storia dell’uomo, la religione non è mai troppa: i vertici delle organizzazioni e delle religioni predicano sempre bene!
Il mondo però non è migliorato, nel senso che non ha accolto i loro insegnamenti e non vi regna la pace. Sembrerebbe quindi che i grandi maestri abbiano fallito. Ma il maestro può solo aprire la porta; è il discepolo, con il suo piede, che può entrare. Chi non è se stesso fino in fondo deve sapere che nessuno può esserlo al suo posto.
Dunque la religione non sarà mai troppa in quanto a principi etici. Semmai sono troppo pochi a praticarla. Oggi dobbiamo quindi domandarci fino a che punto siamo praticanti: la nostra generazione non sa più bene in cosa sta credendo, ha bisogno di ritrovare i riferimenti giusti.
Dobbiamo anche considerare che mai ci sarà una religione unica sulla terra. Ci sarà, forse, un’integrazione interreligiosa, in vista della quale è necessaria una maggiore comprensione della religione altrui, anche da parte di chi non crede. È quindi importante lo sviluppo di tutte le religioni e la ricerca di opportune occasioni per praticarle assieme.
Per questo credo nella necessità e nel valore del lavoro culturale nella nostra società. I bambini già ci hanno superato, sono già uniti, ma gli adulti devono creare un ambiente favorevole, perché questo atteggiamento spontaneo possa radicarsi nelle loro coscienze.
Più delle ore di religione passate a scuola, conta la testimonianza vissuta dai genitori in famiglia; dove la religione potrebbe aiutare a crescere meglio i figli e a costruire una società migliore. Anche se essere buoni praticanti non è garanzia di successo.
Vorrei infine segnalare che, dal 2000, i leader delle religioni presenti a Milano si stanno incontrando con continuità. Un lavoro che ha portato alla firma, il 21 marzo 2006, dello statuto costitutivo del Forum delle religioni a Milano. Anche se è stato uno sforzo impegnativo, raggiungere questo obiettivo è stato più facile di quanto non sembrasse al principio.

Rosa Myoen Raja

DOMANDA

La malvagità è innata nell’uomo?
Il bene è equilibrio e positività. Il male è confusione, che arriva quando ci si allontana dal bene.
Paljin

Constato che nell’essere umano esiste la dimensione del male, ma la domanda mi supera. Nella mia attività con i carcerati sento che non mi è estraneo quel che hanno commesso. Nelle stesse condizioni forse avrei fatto di peggio, la vita mi ha dato una realtà estremamente favorevole. Quando apprendo di eventi drammatici o tragici non riesco a prendere parte per qualcuno.
In realtà, purtroppo, c’è indifferenza in tutti noi per le tragedie dell’umanità che accadono anche in questo stesso istante.
Myoen

Paljin Tulku Rinpoce (Aaldo Graglia) è da oltre 30 un monaco buddista di tradizione tibetana. Fondatore e guida del centro studi tibetani Mandala di Milano, siede fra i maestri reggenti il monastero di Lamayuru a Ladakh (India) ed ha assunto la guida del monastero di Atitse destinato a diventare un centro internazionale di meditazione.
Rosa Myoen Raja ha iniziato nel 1988 la pratica zen presso il centro «Il Cerchio» di Milano, di cui è diventata presidente, avendo ricevuto dal maestro Tetsugen l’ordinazione monastica. È membro fondatore della sezione milanese di «Religioni per la Pace», Forum delle religioni a Milano, associazione Buddhist Peace Fellowship Italia.

Paljin Tulku Rinpoce e Rosa Myoen Raja




ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.
Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (vi sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.
Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.
Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.
Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.
Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modeità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.
Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.
Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.
Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.
Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.
Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.
Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!
Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

Camille Eid

Diffondere l’islam moderato

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.
Oggi i musulmani immigrati in Occidente non vi trovano l’anima e allora… anche loro chiedono diritti. È più diffusa la cultura del diritto che quella del dovere.
Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi… è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.
Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.
Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.
Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita… Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole… Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo ii vi ha pregato a Damasco.
Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.
La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani… Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».
Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.
In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.
Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!
Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

 Ali Schuetz

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.
Schuetz

Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull’islam; I cristiani venuti dall’islam.
Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.

Camille Eid e Ali Schuetz




EBRAISMO

Il sentirnero di Isaia

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi aesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani… Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentirnero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.
In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a essee il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.
Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.
Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.
Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.
Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.
Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d’Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.
La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

Don Paolo Farinella

Più vicini a dio, più luce ci sarà

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.
I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.
Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.
A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintornisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.
I l popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»… di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.
Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.
È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.
Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.
Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!
Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

Rabbino David Sciunnach

DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».
Rabbino Sciunnach

Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ben noto ai lettori di Missioni Consolata per la rubrica biblica «Così sta scritto» da lui curata e per altri articoli di attualità, ha grande esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.
Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.

Paolo Farinella e David Sciunnach




PROTESTANTI E ORTODOSSI

Troppa religione  crea conflitti

Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: foiscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.

Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione intea), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti.

Giampiero Comolli

La fede…non è mai troppa

Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti… Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.

Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan…) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.

 Giovanni Genre

DOMANDA

Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Comolli

L’appartenenza alla chiesa aiuta; la chiesa è necessariamente comunitaria. Ho bisogno di confrontarmi con gli altri, di pregare assieme. Non può esistere un mondo a-religioso. D’altra parte è vero che in occasione dei conflitti le religioni sono strumentalizzate, ma sono anche convinto che le chiese hanno un po’ lasciato fare e non hanno denunciato a sufficienza i genocidi.
Genre

Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.

Giampiero Comolli e Giovanni Genre




CATTOLICESIMO

 

La pace: riposo di dio nell’uomo

Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.
È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).
Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.
Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.
Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.
Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace… non come la dà il mondo».
La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.
La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.
In pieno medioevo, il padre della chiesa san Beardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.
Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio…).
Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).
Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi modea, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».
Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima modea: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.
La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.
Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».

Andrea Sciffo


Il papa: risorsa formidabile per la pace

Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!
La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!
Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna…». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.
Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.
I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!
Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.
Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.
Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.
Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena… sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.
Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».

Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!
Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti… Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!
Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti…

 Don Armando Cattaneo


DOMANDA

Pace come riposo in Dio, bello… ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.
Don Cattaneo

Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).
Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana.

Andrea Sciffo e Armando Cattaneo




Il limbo degli emigrati

La disperazione degli emigranti sub-sahariani

Intervista ad Araj Jelloul, esperto di immigrazione clandestina e cornordinatore dell’organizzazione Homme et Environnement.

Oujda. Araj Jelloul sta seduto alla scrivania del suo ufficio nei locali della parrocchia di Saint Louis. È un marocchino corpulento, con spessi occhiali da vista e un viso bonario. Veste la tunica tipica dei musulmani e mastica tabacco. Una volta fumava. Ha smesso durante i sei anni passati nelle prigioni del defunto re del Marocco, Hassan ii: militava in un sindacato e un giorno scrisse su un quotidiano un articolo troppo critico nei confronti del regime.
Oggi Araj cornordina l’associazione Homme et environnement, che raccoglie cristiani, musulmani e atei, per assistere gli immigrati che tentano di raggiungere l’Europa e rimangono incastrati in Marocco. L’associazione sostenuta dal parroco di Saint Louis, padre Joseph Lepine, e da Medicins Sans Frontières, fornisce assistenza medica di primo soccorso, procura abiti e cibo per gli immigrati e fornisce consulenze legali gratuite ai richiedenti asilo.

Noi conosciamo il fenomeno dell’immigrazione attraverso le centinaia di disperati che sbarcano sulle coste europee in cerca dell’eldorado. Chi sono quelli che non ce la fanno? E perché rimangono in Marocco?
Sono i cosiddetti immigrati di passaggio: si tratta di persone che fanno tappa in Marocco per prepararsi a passare in Europa. Spesso però non ce la fanno perché passare il confine è sempre più difficile e si trovano intrappolati qui: l’Europa è loro preclusa ma, al tempo stesso, non hanno né il denaro né le forze per tornare nei loro paesi.
Ad aggravare gli impedimenti materiali, inoltre, c’è anche il fatto che rientrare a casa sarebbe per loro motivo di vergogna nei confronti delle loro famiglie e comunità. E non è solo una questione psicologica perché a volte sono le stesse tribù a cui appartengono che hanno finanziato il viaggio di due o tre elementi del villaggio. Di solito li scelgono tra i più forti, preferibilmente con competenze professionali di qualche tipo, e procurano loro il denaro per pagare il viaggio, nella speranza che una volta arrivati in Europa aiutino tutti inviando del denaro. L’immigrazione è una specie di investimento.

Chi è che emigra?
Di solito si tratta di sub-sahariani tra i 19 e i 34 anni, in buone condizioni di salute, di livello culturale medio o, più raramente, alto. Vengono dalle aree più povere del loro paese, a eccezione della Nigeria, i cui emigranti vengono da tutto lo stato. Il loro sogno è quello di potersi comprare un’automobile e solo qualcuno desidera tornare a casa.

Chi organizza i viaggi della speranza?
Spesso sono mafie locali, magari collegate ai gruppi criminali che operano in Europa. Ma noi non veniamo in contatto con queste organizzazioni se non tramite i racconti delle persone che soccorriamo. Le mafie sono molto ben organizzate e hanno punti di raccolta nascosti ovunque, per ogni tappa del viaggio.
Io stesso sono venuto a conoscenza dell’esistenza di queste reti mafiose accidentalmente, quando due persone vennero ad avvertirci che c’era una donna che stava per partorire e che aveva urgente bisogno di cure mediche. Noi ci precipitammo sul posto che ci era stato indicato e nel bagno trovammo la donna, ormai cadavere, riversa in un lago di sangue e con la neonata accanto. All’interno dell’appartamento c’erano, stipate, almeno altre 50 persone, ma quando uscimmo, per portare la bambina in ospedale e chiamare la polizia, sparirono tutti.
Al nostro ritorno, nell’edificio non c’era più nessuno. Fu allora che capimmo che i due che ci avevano avvertiti non erano soli: ci avevano detto di essere nigeriani, vestivano firmato e avevano dei cellulari ultimo grido. Era evidente che si trattava dei mafiosi che organizzavano il traffico.

I mercanti di schiavi appartengono a un paese in particolare?
Immagino che ci siano diverse varianti; ma secondo le informazioni in mio possesso, per la maggior parte provengono dal Ghana. È da là che vengono organizzate la maggior parte delle traversate del deserto. Ed è nel deserto che muoiono la maggior parte degli immigrati. Quando qualcosa va storto i trafficanti abbandonano gli immigrati a se stessi e quando non riescono a farli arrivare in Europa li portano sulle montagne intorno a Oujda, promettendo che toeranno a chiamarli quando le condizioni saranno più favorevoli.
Mi è capitato di conoscere alcuni di quelli che vivono nei boschi e di rimproverarli per la loro ingenuità; ma la loro fiducia, alimentata dalla disperazione, è cieca e irrazionale. Spesso, nella rete mafiosa cade chi ha già un parente in Europa in grado di trovare il denaro per pagare il biglietto.

Quanto pagano questi disperati per emigrare?
Dipende. Esistono varie forme di pagamento. Posso citare la storia di una ragazza nigeriana che abbiamo assistito qui a Oujda. Nel suo caso, simile a quello di molte altre, la prima parte del viaggio lo ha pagato la famiglia, in contanti.
La seconda tranche l’ha dovuta pagare lei, prostituendosi lungo la strada. In alcuni casi, le ragazze che rimangono incinte devono cedere il neonato a organizzazioni che procurano bambini per le adozioni illegali.
Il saldo della terza parte del biglietto avviene in Europa, dove le ragazze sono inserite nelle reti della prostituzione. Gli uomini invece spesso pagano in contanti. Pagano circa 500 euro per attraversare l’Algeria o il Marocco e altri 4-6 mila euro per arrivare in Europa.

Ma sono un sacco di soldi per vivere in Africa! Perché gli immigrati non scelgono di usare quel denaro per fare altro, ad esempio aprire un’attività commerciale nel loro paese?
Per tanti motivi. In primo luogo, l’Europa è il sogno di una vita per molti. Poi bisogna aggiungere che intraprendere un’attività in Africa non è così semplice. Basta vedere l’esempio delle téléboutique, in cui si trovano i servizi telefonici e internet: se qualcuno ne apre una e inizia a guadagnare, in poco tempo ne apriranno altre dieci nello spazio di poche centinaia di metri e nessuno riuscirà più a sbarcare il lunario.
Questo è dovuto alla mancata applicazione delle leggi che regolano l’economia e la concorrenza. La totale mancanza di regole è uno dei più gravi problemi di tutto il continente.

Ma allora non c’è proprio futuro?
Un futuro c’è. Sono ottimista. Noi africani abbiamo le carte in regola e le potenzialità per avere un domani più roseo, anche se siamo lontani dal risolvere il problema della corruzione delle élite e delle lotte tra le tribù per la spartizione del potere e del denaro.

Quale ruolo può avere l’Europa nello sviluppo africano?
L’Europa è un punto di riferimento per quanto riguarda democrazia e diritti umani. Nonostante gli abusi e la corruzione che esistono dappertutto, in Europa le regole vengono applicate e i cittadini sono uguali davanti alla legge.
In Africa non si può nemmeno parlare di cittadini, ma di sudditi, che hanno doveri ma non diritti.
Ma non è così semplice. L’Europa è in parte responsabile della condizione in cui versa l’Africa oggi: se lavorasse più attivamente ed efficacemente per contribuire allo sviluppo dei paesi africani, ci sarebbero dei risvolti positivi anche sull’immigrazione verso il vecchio continente.

Ma a voler essere cinici, si potrebbe dire che a noi europei conviene tenere l’Africa nelle condizioni in cui si trova oggi. Un grande supermercato a cielo aperto e un bacino di manodopera a basso costo è meglio di un concorrente, o no?
Forse. Ma allora l’Europa dovrà rassegnarsi a sopportare anche i costi che comporteranno il terrorismo, l’immigrazione selvaggia, le orde di disperati che cercano e cercheranno di raggiungere le coste spagnole, francesi, italiane. Credo invece che, grazie alla prossimità geografica, l’Europa sarebbe la prima a beneficiare di un’Africa più sviluppata e stabile.
Da che mondo è mondo, gli esseri umani si sono spostati da una parte all’altra del globo e la mondializzazione è ormai un dato di fatto. Non si può pensare che i problemi dell’Africa non coinvolgano il resto del pianeta. Le conseguenze di questi problemi, piaccia o non piaccia, pesano sulle spalle di ognuno. Il sottosviluppo dell’Africa è un problema per tutti e a tutti è richiesto un piccolo sacrificio.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti