Dal «computer a manovella» al «simputer»

Tecnologia e cultura

Durante il «Vertice mondiale sulla Società dell’informazione», svoltosi
a Ginevra nel dicembre 2003, una novità del tutto particolare catturò
l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo non poco sogghignare i
giornalisti presenti. Era quello che venne prontamente battezzato
«computer a manovella», in realtà un ambizioso progetto di computer a
basso costo. Completamente rivestito da gomma a prova di urto (per
resistere a condizioni ambientali avverse) includeva anche una
manovella per fornire energia in quegli angoli del globo dove la
corrente elettrica è ancora un’utopia. Ogni minuto di manovella
equivale a dieci minuti di funzionamento. Tale computer, secondo i suoi
ideatori, avrebbe dovuto costituire una speranza di inclusione
tecnologica per molte persone povere del Sud.
Molto più significativo, in quanto maggiormente attento alla dimensione
culturale, si era rivelato il progetto «Simputer», un piccolo portatile
a basso consumo in grado di «leggere» il testo trovato sulle pagine web
in un certo numero di lingue native indiane e dunque particolarmente
adatto al gran numero di utenti analfabeti presenti in quell’area
geografica. Il segreto risiede in un apposito software, che consente al
Simputer di riprodurre ben 1200 suoni elementari, adeguati alla maggior
parte delle lingue indiane.
La differenza qualitativa tra il «computer a manovella» e il «Simputer»
risulta lampante se si pensa che il primo è stato concepito nei
laboratori del Media Lab di Boston, mentre il secondo è stato creato da
un nutrito gruppo di scienziati e ingegneri indiani di Bangalore. La
dimensione culturale appare imprescindibile in ogni creazione
proveniente dall’India, crogiolo di lingue e di culture. Ed è ancora
più rilevante nel caso del software che, ben lungi dall’essere un
prodotto tecnologico, è soprattutto il frutto di un lavoro culturale,
di un lungo processo artigianale messo in moto dall’ingegno dei
programmatori.

Il software: lingue, icone, colori
Chi non fosse convinto dell’importanza della dimensione culturale del
software, può provare il seguente esperimento. Apra il proprio browser
(un software), si colleghi a internet e utilizzi un motore di ricerca
(un altro software), magari Google, di gran lunga il più comune. Sarà
sorpreso nel notare che è possibile effettuare ricerche in una lingua
come l’estone, parlata da nemmeno un milione di individui, mentre non è
possibile ottenere risultati nella lingua hindi, che conta circa 400
milioni di parlanti. Come è possibile? La causa è da ricercarsi nella
mancanza di uno standard univoco nella codifica della lingua hindi, a
sua volta frutto di una disattenzione tecnologica nei confronti di
quest’area culturale.
Pressoché tutti i linguaggi di programmazione, i sistemi operativi e le
applicazioni maggiormente diffusi a livello mondiale sono scritti,
almeno in origine, nella lingua inglese. L’uso di tali programmi da
parte di persone che non parlano la lingua inglese richiede un processo
di adattamento del tutto particolare, chiamato «localizzazione».
La localizzazione è ben più che una semplice traduzione dalla lingua di
origine a quella di destinazione. Essa richiede una profonda capacità,
da parte dei programmatori, di adattare le proprie creazioni alla
cultura dell’utilizzatore, di cui la lingua non è che una delle
espressioni. Pensiamo, per fare qualche esempio, a quanta attenzione
debba essere prestata alle icone grafiche, ormai componente
irrinunciabile dei modei sistemi operativi. Uno stesso simbolo può
assumere significati completamente diversi in un’altra cultura. Oppure
si pensi al linguaggio dei colori: mentre il rosso indica «stop» o
«pericolo» nei paesi occidentali, esso può significare «vita» o
«speranza» in altre culture.

Gli errori di Microsoft
Un altro esempio è dato dalla tipologia di scrittura di una lingua: i
caratteri utilizzati dall’alfabeto, la particolare modalità di
scorrimento del testo. Ugualmente importanti sono il modo in cui
vengono scritte le date, il calendario adottato, le modalità di ricerca
utilizzate dai dizionari incorporati nei programmi di videoscrittura.
Questi aspetti sfociano facilmente nella dimensione politica: i bambini
delle regioni andine del Perù dovrebbero usare programmi localizzati in
quechua o in spagnolo? Le scuole e gli uffici di Calcutta dovrebbero
adottare software in bengali, in hindi o in inglese?
Nel 1992 Microsoft introdusse in Cina programmi software localizzati in
lingua cinese. Questi però, piuttosto maldestramente, erano stati
impostati con un insieme di caratteri utilizzato nella Cina
pre-rivoluzionaria, oggi non più in vigore se non a Taiwan. I
rappresentanti della Cina Popolare si ritennero offesi dal fatto che
una decisione così importante fosse stata presa negli Stati Uniti,
senza il coinvolgimento di agenti locali. I rapporti tra l’azienda
informatica e le autorità cinesi diventarono così problematici e si
deteriorarono rapidamente negli anni successivi.
Questo esempio dimostra come una decisione tecnica in apparenza banale
abbia assunto un significato politico e culturale che non si era saputo
prevedere e che ha condotto in seguito a pesanti ripercussioni di
carattere economico: l’azienda leader mondiale nel campo del software è
stata di fatto esclusa dal più grande mercato del mondo.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Le idee, prigioniere dei «brevetti»

La mercificazione della conoscenza

Che ci piaccia o no, la conoscenza è ormai diventata una merce. Ha
perso il carattere di bene pubblico, liberamente condivisibile, per
assumere i tratti di un bene privato, cui associare un valore monetario.
Le idee, una volta trasformate in merce, diventano proprietà di chi
riesce ad accaparrarsele per primo, anche quando gli «inventori» sono
altri: ed ecco che, con una sbalorditiva disinvoltura, grandi
multinazionali si impadroniscono di musiche di strada, suonate da
secoli dalla gente comune, oppure brevettano spudoratamente piante
medicinali esotiche, frutto di millenni di evoluzione. Un bene
vendibile poi, secondo meccanismi ben noti agli economisti, diventa più
prezioso se è anche scarso, dunque è bene che le idee rimangano ben
chiuse e sigillate, protette da eventuali malintenzionati.

Le trappole dei software proprietari
Qualcosa del genere sta accadendo con il software, uno dei prodotti più
puri e più complessi dell’ingegno umano. Nonostante la Convenzione di
Monaco, nel 1973, abbia stabilito che il software non si possa
brevettare, oggi, con una serie impressionante di provvedimenti
legislativi, si è riusciti a rendere legale il brevetto su una grande
quantità di programmi informatici. Il risultato è stato una crescente
diffusione dei «software proprietari», programmi chiusi non
modificabili dall’utente per essere adattati ai propri interessi e ai
propri bisogni. Parallelamente, si sono moltiplicati i divieti: per
esempio quello di accedere liberamente ad archivi digitali, dati di
biblioteche pubbliche e via dicendo.
Si comprende quanto questa tendenza sia dannosa, in modo particolare
per i paesi del Sud. Innanzitutto vengono vanificate le loro
possibilità di rilancio economico, legate proprio al software. Produrre
software, infatti, non richiede grosse infrastrutture e, soprattutto, è
legato ad investimenti in risorse umane, un elemento che è del tutto
abbondante nei paesi in via di sviluppo.
Inoltre per i più poveri, che dispongono soprattutto di computer
obsoleti, è diventato sempre più oneroso utilizzare software
proprietari, così come localizzare autonomamente i propri programmi
informatici, per adattarli alla propria lingua e alla propria cultura.
Non è più possibile accedere a pubblicazioni scientifiche online,
mentre quelle cartacee continuano a rimanere inaccessibili per motivi
di costo. Insomma, la conoscenza in formato digitale, che coincide
ormai con la quasi totalità della conoscenza disponibile al mondo, sarà
sempre meno accessibile. Le ragioni di tipo economico, come si vede, si
fondono con le esigenze di giustizia sociale: quando la proprietà
intellettuale viene estesa all’informazione, in gioco c’è un diritto
fondamentale come l’accesso all’informazione e la libertà di
espressione.

Le alternative del software libero
In queste condizioni lo sviluppo di standard tecnologici diversi è
ormai diventato un tema non più rinviabile. Negli ultimi anni è fiorito
un vero e proprio movimento alternativo: quello che si batte in favore
degli «standard aperti» (open source) e del «software libero» (free
software). Questo movimento è nato con un carattere del tutto
particolare, dato che è formato per lo più da tecnici e informatici, ma
ha assunto cifre talmente cospicue da non potersi più considerare un
semplice gruppo d’interesse settoriale: si tratta di circa 300.000
sviluppatori di software sparsi in non meno di 70 paesi. Il suo cavallo
di battaglia è costituito dall’idea che le risorse informatiche debbano
avere la massima circolarità e la massima accessibilità. Questa
singolare comunità di «programmatori idealisti» è animata da un’etica
nuova (ribattezzata «etica hacker»), un’etica di libertà, di altruismo
e di cooperazione. È la stessa etica che, in tempi passati, ha
consentito a internet (un tipico prodotto «open source») di svilupparsi
così rapidamente e di raggiungere la vastità delle dimensioni attuali.
Eppure il World intellectual property organization, l’organismo delle
Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale (www.wipo.int),
condizionato com’è dalle grandi corporations tecnologiche, si rifiuta
di riconoscere l’importanza del software libero (il software realizzato
secondo gli standard aperti) e di promuoverlo presso i paesi più
poveri. Al contrario, non fa che restringere ulteriormente, con
innumerevoli strumenti legali, la circolazione delle conoscenze
informatiche e la possibilità di accesso all’informazione digitale: per
questo motivo, è stato pesantemente criticato da un gruppo di paesi del
Sud (tra cui Brasile, Argentina e Sud Africa) che lo hanno richiamato a
perseguire gli obiettivi di sviluppo umano per i quali è stato fondato.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




L’informaizone? Oligopoli e nuove povertà

Tra lusso e bisogno

L’affermazione delle nuove tecnologie di
comunicazione non ha ridotto il divario tra Nord e Sud. Anzi, ha spesso
prodotto una sorta di nuova «colonizzazione». Chi fa arrivare le
notizie del Sud ai maggiori organi informativi del Nord? Un pugno di
agenzie e di network televisivi del Nord. Con l’arrivo della
globalizzazione, l’informazione si è concentrata nelle mani di grandi
gruppi transnazionali, che guardano soltanto ai profitti, alla Borsa o
a precisi interessi di potere. Un fenomeno che accomuna Nord e Sud del
mondo, ma che mostra le conseguenze più negative nei paesi più poveri.
 

In tempi recenti la Banca mondiale ha ampliato la propria definizione
di povertà. Oltre ai componenti purtroppo diventati classici
(un’alimentazione inadeguata, la mancanza di istruzione, un reddito
basso e via dicendo…) sono stati inclusi anche i seguenti elementi:
«senso di impotenza, mancanza di una voce, vulnerabilità e paura».
Ormai anche un’istituzione del rango della Banca mondiale (notoriamente
più in sintonia con le politiche di crescita economica che con quelle
di sviluppo umano) ha riconosciuto che si può essere poveri anche per
la mancanza di informazione o per l’incapacità di comunicare.
Eppure, nella consapevolezza comune, questa urgenza non è ancora
abbastanza radicata, né tra gli addetti ai lavori (pensiamo ad esempio
alle Organizzazioni non governative, Ong) né tra i professionisti
dell’informazione (giornalisti o altro). Prevale ancora, purtroppo,
l’idea che i bisogni primari (i cosiddetti basic needs) siano soltanto
quelli alimentari o sanitari, mentre l’informazione costituisca un
lusso di cui si possa fare a meno nelle fasi iniziali dello sviluppo.
Forse è per questo che non desta alcuno stupore l’esistenza di uno
squilibrio nello stato dell’informazione tra Nord e Sud: a una
crescente e dominante affermazione delle tecnologie, e quindi del
potere informativo, si contrappone un impoverimento della capacità di
«farsi ascoltare» da parte dei soggetti (paesi, popoli, comunità) meno
dotati di mezzi. Qualcuno ha parlato di una nuova forma di sfruttamento
in cui, alle risorse naturali e alle materie prime, si sono sostituite
le informazioni che provengono dai paesi più poveri. I più audaci si
sono spinti perfino a parlare di «colonizzazione mediatica».

I CIRCUITI INFORMATIVI E GLI OLIGOPOLI
Oggi le quattro maggiori agenzie stampa del mondo gestiscono da sole
l’80% del flusso di notizie: si tratta delle statunitensi Associated
Press e United Press Inteational, della britannica Reuters e della
francese France Press. La quasi totalità delle informazioni provenienti
dal Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa
prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri telegiornali. Lo
spazio che esse dedicano ai paesi più poveri è stimato intorno al 10 –
30% delle notizie complessive.
L’esclusione di larga parte del Sud dai circuiti informativi è soltanto
una parte del problema. In realtà, l’aspetto più preoccupante è il
crescente predominio e la frequente manipolazione, da parte dei paesi
più ricchi, dell’informazione proveniente dal Sud. Il genere di notizie
di provenienza dal Sud che trovano ospitalità nei nostri mass media
sono generalmente quelle che le grandi centrali di comunicazione (le
poche agenzie inteazionali e i potenti network televisivi) decidono
di trasmettere, secondo una scelta che rispecchia la cultura e gli
interessi occidentali. Inoltre, la distribuzione delle informazioni che
dal Sud riescono a raggiungere il Nord segue ancora criteri che
rispecchiano gli antichi legami coloniali, di fatto ancora operanti: le
notizie provenienti dall’Africa Orientale hanno accesso prevalentemente
ai media inglesi; quelle dell’Africa Occidentale ai media francesi, e
così via.
Gli Stati Uniti sono i primi esportatori di informazione e di programmi
nel mondo; ma occorre ricordare che sono statunitensi anche i sistemi
di controllo, il management, le norme di regolamentazione dei sistemi
televisivi. Sono compagnie statunitensi quelle che hanno assistito, con
la loro consulenza tecnico – organizzativa, la creazione dei sistemi e
degli impianti televisivi di molta parte dei paesi in via di sviluppo.
E questo non ha potuto non incidere anche in termini di influenza
culturale: il fatto di usare una tecnologia concepita in Occidente, con
codici e regole lì predisposte, condiziona il modo di far televisione,
le scelte di linguaggio, la strutturazione dei palinsesti,
l’orientamento verso un determinato pubblico. È quella che Massimo
Ghirelli, nel suo libro L’antenna e il baobab, ha definito la
«vischiosità culturale» dei mass media.

IL MITO (OCCIDENTALE) DELLA «MODERNIZZAZIONE»
Negli anni ‘50, agli albori del concetto di sviluppo, veniva attribuita
un’enorme importanza ai mezzi di comunicazione di massa, identificati
come strumenti straordinariamente efficaci per trasformare una comunità
«tradizionale» in una società «modea». L’approccio adottato era
quello, quanto mai ingenuo, della «modeizzazione»: ai mass media,
cioè, veniva affidato il compito di preparare gli individui a un rapido
cambiamento sociale, a imitazione delle società occidentali.
Oggi risulta difficile comprendere quanto fosse radicata l’idea che
un’adeguata esposizione ai mass media potesse modificare le strutture
cosiddette «arretrate» di vita, di valori e di comportamento esistenti
nelle società tradizionali. Basti pensare che i media furono utilizzati
non solo come agenti, ma anche come indici di modeizzazione nei paesi
in via di sviluppo. L’Unesco (www.unesco.org) giunse addirittura a
stabilire uno standard minimo necessario di disponibilità di mass media
nei paesi in via di sviluppo, più precisamente: 10 quotidiani, 5 radio,
2 televisioni e 2 posti cinema ogni 100 persone.
Negli anni ’60 e ’70 l’enfasi posta sulle capacità, da parte dei
singoli individui, di rinunciare alla tradizione venne sostituita da
una sottolineatura marcata delle barriere sociali, economiche e
culturali. Cominciò a diffondersi la coscienza di quanto fossero
ineguali i meccanismi di scambio, anche relativamente alla risorsa
informazione. Si prese coscienza del controllo pressoché totale del
mondo dell’informazione da parte dell’Occidente. Nell’ottobre 1970,
alla conferenza Unesco di Parigi, per la prima volta si parlò di
«squilibrio dell’informazione», evidenziando la necessità di un «nuovo
Ordine mondiale della comunicazione». Nel 1973, alla conferenza di
Algeri, venne avanzata la proposta di dare vita a un’agenzia stampa dei
paesi non allineati.

LE SCOMODE VERITÀ DEL «RAPPORTO MACBRIDE»
Nel 1980 il processo raggiunse il suo culmine con il Rapporto MacBride
(presentato all’assemblea Unesco di Belgrado), ancora oggi un punto di
riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano di
informazione nei paesi poveri. Esso indicava come obiettivo primario
l’«eliminazione di squilibri e disparità negli strumenti della
comunicazione» e definiva il nuovo Ordine mondiale della comunicazione
come «lo stabilirsi di nuove relazioni derivanti dai progressi
annunziati dalle nuove tecnologie e di cui dovrebbero beneficiare tutti
i popoli».
È importante la caratterizzazione dell’informazione che il rapporto
offriva: «strumento di potere», «arma rivoluzionaria», «mezzo
educativo», «strumento di liberazione o di oppressione»… Dai termini
usati è evidente la sottolineatura del problema del controllo
dell’informazione e dell’influenza da questa esercitata sull’azione
sociale, e sulle diseguaglianze che essa finisce per alimentare e
ratificare, confermando il predominio di chi è più potente e meglio
attrezzato. Un nuovo Ordine mondiale può fondarsi soltanto
sull’uguaglianza dei diritti, sull’indipendenza, sullo sviluppo libero
e autonomo di paesi e popoli.
Il documento suscitò, com’è facile immaginare, polemiche e proteste. Lo
scontro si protrasse per tutti gli anni Ottanta, soprattutto in sede
Unesco, fino a mettere seriamente in crisi l’organizzazione: dapprima
gli Stati Uniti e in seguito la Gran Bretagna decisero di abbandonarla,
con l’accusa di aver trasformato i propri programmi sociali in veicoli
di azione politica, sotto lo sguardo complice dell’Unione Sovietica e
dei suoi satelliti.

«NUOVO» ORDINE O «VECCHIO» DIRITTO?
A partire dagli anni ‘90, il dibattito comincia a perdere le
connotazioni più ideologiche e ad acquistare un certo pragmatismo. La
richiesta di un «nuovo Ordine mondiale della comunicazione» viene
progressivamente accantonata, così come l’obiettivo di giungere a una
completa emancipazione dei media esistenti nei paesi più poveri. La
causa è da ricercarsi nella progressiva degenerazione delle nuove
democrazie, nate con la decolonizzazione, verso sistemi di governo
autocratici e illiberali. Diventa evidente che, all’interno di molti
paesi del Sud, i media rimangono monopolio di regimi autoritari e
l’informazione viene manipolata a scopo di potere.
A conti fatti, si sono rivelate effimere entrambe le illusioni: quella
della modeizzazione (diffusa nel dopoguerra) e quella di
un’automatica funzione di emancipazione, in senso democratico, dei
media (diffusa negli anni ‘70): si sono dimostrati decisivi fattori
fino a quel momento trascurati, perché relativi alla sfera micro
anziché quella macro: chi produce l’informazione, chi sono i formatori
del consenso, quali strumenti di valutazione critica sono disponibili
ai cittadini; e soprattutto, quanti sono i cittadini in grado di
acquistare un apparecchio televisivo, o saper leggere un giornale.
Quando, alla fine degli anni ’90, comincia a porsi con forza il
problema della democratizzazione della comunicazione e del controllo
dell’informazione, è ormai troppo tardi. Il processo di globalizzazione
e le forze del mercato concorrono a sganciare i media dai singoli
governi nazionali e a consegnarli nelle mani dei grandi gruppi di
potere.
La possibilità, da parte di governi e istituzioni, di elaborare
politiche adeguate e di indirizzare i processi in corso si fa sempre
più esigua, anche perché l’informazione perde gradualmente il suo ruolo
di «bene pubblico» e viene progressivamente privatizzata. Domina una
sola legge, quella del rendimento, e i media sono ormai diretti da
manager spesso interessati solo ai profitti e alle quotazioni in borsa
dei titoli.
Esiste poi una preoccupante tendenza verso la concentrazione dei media,
legata alla diffusione di economie neo-liberiste e allo sviluppo
tecnologico. L’enfasi su un contenuto orientato al profitto, e
alimentato dalla pubblicità, ha già portato a una diminuzione del
ventaglio delle possibilità di scelta e a una perdita di spazio per il
dibattito informativo. Anche lo spettro audiovisivo, che è di dominio
pubblico, è sotto l’assedio degli interessi commerciali. Alle persone
comuni è reso sempre più difficile l’accesso a canali mediatici
indipendenti e a visioni alternative del futuro.
Per i paesi del Sud si apre una nuova sfida: non più soltanto
l’obiettivo di un’informazione più equilibrata e più rispondente ai
loro bisogni, ma la difesa del «diritto all’informazione», ovvero la
possibilità di accedere liberamente a questa preziosa risorsa. •

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




La rete strappata

Le mani sulla Rete (1)

È possibile spegnere internet? Per alcuni di noi questa domanda è
semplicemente inconcepibile. Siamo troppo abituati a pensare alla
«grande rete» come al simbolo stesso della libertà e della democrazia.
Inteet è una realtà volatile e diffusa, che oltrepassa le singole
realtà geografiche o le giurisdizioni territoriali: tentare di
esercitare un effettivo controllo rappresenta uno sforzo titanico, tale
da far impallidire la mitica fatica compiuta da Ercole per abbattere
l’Idra di Lea: internet è un gigante che possiede ben più di dodici
teste e, quando ne abbiamo abbattuta una, altre mille sono pronte a
spuntare in qualunque angolo del mondo.

Dove la Rete è prigioniera
In realtà, molti governi, lontani dai riflettori dell’opinione
pubblica, hanno ormai rivolto lo sguardo verso la rete, cercando di
frenare il crescente protagonismo di uno strumento che, forse troppo
frettolosamente, era stato incaricato di aprire la strada a una
rivoluzione democratica. E così, nei pochi anni di esistenza della
Rete, hanno potuto svilupparsi metodi raffinati e variegati per
esercitare il dominio e la censura. Secondo Reporters sans frontières,
13 paesi del mondo possono essere qualificati come veri e propri
«nemici« di questo medium. Si tratta di una «lista nera» piuttosto
eterogenea, che non risparmia alcuna area geografica e che è del tutto
priva di qualsiasi pregiudiziale di natura ideologica.
Una parte di questo poco invidiabile gruppo è composta dagli stati più
autoritari, quelli che, senza troppi scrupoli, proibiscono l’accesso a
internet. La Corea del Nord, per esempio, ha scelto la strada
dell’isolamento totale, rifiutando l’installazione di provider al suo
interno. Altri paesi, come il Myanmar, pur connessi alla rete, hanno
quasi raggiunto l’obiettivo di bloccarla interamente, restringendo
l’accesso degli utenti a una manciata di siti consentiti: circa 800
siti inteazionali, più una dozzina disponibili nella rete intea del
paese. Ciò equivale a costringere gli utenti a «navigare in una
pozzanghera».
Ci sono alcuni paesi che, in forma più subdola, consentono l’accesso a
internet, ma lo limitano alle persone di fiducia, che vengono
debitamente autorizzate dopo avere subito rigorosi controlli. È il caso
di Cuba, il cui governo esercita un controllo ferreo sull’accesso. In
tutto il paese esiste un solo cybercaffè pubblico, aperto in seguito
alle necessità del turismo e il cui prezzo è di 5 dollari l’ora, la
metà del salario medio mensile dei cubani.
A frenare l’accesso concorrono certamente cause che non si possono
ricondurre direttamente ai governi: per esempio, i costi eccessivi
della tecnologia. Tuttavia, queste difficoltà vengono spesso mantenute
artificialmente dai governi, a scopo di controllo. In Kazakistan, per
esempio, gli operatori devono pagare costi di utilizzazione e di
connessione assolutamente proibitivi, che scoraggiano queste attività.
Anche la presenza di monopoli di stato nel settore delle
telecomunicazioni è un problema oggettivo: in Sudan lo stato controlla
tutte le connessioni alla rete attraverso Sudanet, l’unico rudimentale
provider statale.
Che cosa si voglia effettivamente controllare, non è difficile capirlo…
In Sierra Leone, nel contesto di una campagna di repressione nei
confronti della stampa critica, le autorità hanno attaccato anche un
giornale online e hanno arrestato due giornalisti. Uno dei casi più
clamorosi è stato quello della Bielorussia che, in vista delle elezioni
presidenziali del 2000, peraltro costellate di brogli e di
irregolarità, ha fatto chiudere tutti i siti dell’opposizione. Metterli
a tacere è stato un compito facile, visto che nel paese esiste un solo
provider, ovviamente statale.

Dal filtraggio dei contenuti ai «dissidenti telematici»
Ad un livello di maggiore sofisticazione, si sfruttano le possibilità
offerte dalla tecnologia. Il filtraggio dei contenuti è una di queste
e, come è facile immaginare, è operato in base a motivazioni
squisitamente politiche. Ma non si deve sottovalutare il fatto che, in
molte aree del mondo, prevalgono le componenti culturali. Il pericolo
rappresentato da internet per i precetti della religione di Allah è il
pretesto usato da molti paesi del Medio Oriente per giustificare la
censura. Nell’Iran i provider sono costretti a bloccare i siti
«immorali» o quelli che «minano» la sicurezza dello stato, cosicché gli
studenti iraniani di medicina, tanto per fare un esempio, non possono
collegarsi a pagine web che parlino di anatomia. Nella ricca Arabia
Saudita tutto il traffico transita nei server di un gigantesco sistema
di filtraggio chiamato «Djeddah»: esso impedisce completamente
l’accesso ai siti che propongano «informazioni contrarie ai valori
islamici». È appena il caso di osservare che una tale «salvaguardia«
dei valori islamici è operata servendosi quasi esclusivamente di
tecnologia coercitiva proveniente dall’Occidente.
Sebbene sia evidente la pretestuosità di certi argomenti, è indubbio
che alcuni paesi, soprattutto quelli del continente asiatico, siano
caratterizzati da una notevole diversità culturale e da sistemi di
valori distanti da quelli occidentali, ritenuti una minaccia. In Cina
il governo ha vietato l’installazione di Inteet caffè a meno di 200
metri dalle scuole, e questo la dice lunga sul timore di una
contaminazione culturale occidentale.
Proprio la Cina è il paese in cui le restrizioni poste a internet
toccano il vertice. In questo paese vige un rigoroso monitoraggio degli
utenti, costantemente vigilati da corpi politici speciali appositamente
incaricati. Le chiusure di Inteet caffè sono all’ordine del giorno,
con il pretesto della scarsa sicurezza dei locali: del resto, è vero
che porte e finestre vengono frequentemente bloccati dall’interno
proprio per evitare i controlli improvvisi degli agenti governativi. In
Cina esiste una vera e propria «cyberpolizia», formata da tecnici
specializzati incaricati di vigilare sul software in dotazione negli
Inteet caffè e sul comportamento degli utenti, non esitando a violare
la confidenzialità della posta elettronica.
Come non bastasse il rigido controllo poliziesco, la Cina utilizza a
pieno regime anche gli strumenti giudiziari. Ai «dissidenti telematici»
vengono comminate pene durissime. Dal gennaio 2001 l’invio di materiale
clandestino o «reazionario» attraverso la Rete viene punito perfino con
la pena capitale.

GianMario Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Chi comanda in Internet?

Le mani sulla Rete (2)

Quale «governance» occorre dare a internet? Questo slogan è stato il
tema di un incontro svoltosi recentemente (novembre 2006) ad Atene,
sotto l’egida delle nazioni Unite. Esponenti della società civile e
policy makers si sono incontrati per decidere da chi debba essere
guidata l’internet del futuro.

Il mito dell’anarchia di internet
È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo,
«governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una
rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una
periferia. Ma l’idea di un’internet egalitaria nella struttura, capace
di sfuggire a controlli e pressioni estee, non è che un mito. In
realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta
rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di
potere.
Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi
governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di
molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è
cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete,
capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società
civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio
privo di confini nazionali.
Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in
balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che,
ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento.
Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso
delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello
politico – economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la
distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non
equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo
tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente
vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo
politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.
Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta
di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di
computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di
connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità
di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un
valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di
dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare
attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali,
altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini
esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese
possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi
facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza
politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche
anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della
Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel
cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.

Tutto il potere di «Icann»
Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un
formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali.
Icann (Inteet Corporation for Assigned Names and Numbers) è
l’istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il
custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un
indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere
paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i
computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una
determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si
precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui
torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di
quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera
Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano
perfino l’esistenza.
Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa
di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato
attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella Califoia,
formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta
a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente
condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna
trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte
chiuse.
Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di
internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di
eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e
Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa
Icann, mentre in Europa e nell’America del Nord, dove il dibattito
attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due
candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri
particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu
sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero
ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla
società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste
mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano
l’istituzione nel caos più completo.

Nelle mani degli Stati Uniti
Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a
discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po’
più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense,
preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione
di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e
ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann,
parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro,
un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina
stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un
organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare
l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione,
tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci
sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa
essere più snella e meno burocratica dell’attuale Icann. Dall’altra vi
è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento
nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare
soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da
parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le
consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria
rete internet.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Se New York vale l’Africa

La «frattura digitale» (digital divide)

Non molto tempo fa tutti parlavano di «villaggio
globale». Oggi, dopo il successo delle nuove tecnologie, si discute di
«digital divide». Per capire, è sufficiente un semplice dato: soltanto
lo 0,3% degli utenti internet (i cosiddetti «navigatori») vive nel Sud
del mondo. Perché esiste la «frattura digitale»? Essa rappresenta una
priorità come altri bisogni? Ovvero: vale la pena colmarla?

Una delle questioni più invocate nell’agenda del recente Summit
dell’Onu sulla «Società dell’informazione» (World Summit on the
Information Society, Ginevra 2003 – Tunisi 2005) è stata quella
relativa al «digital divide» (divario digitale), un termine con cui ci
si riferisce alle disparità nella possibilità di accedere alle
tecnologie e alle risorse dell’informazione e della comunicazione, in
particolare internet. È anch’esso uno dei frutti perversi della
globalizzazione, in particolare del processo di digitalizzazione
dell’economia e della società che, ben lungi dal trasformare il mondo
in un villaggio globale, ha contribuito a differenziare e allontanare
individui e strati sociali, aree rurali e zone urbane, paesi ricchi e
paesi poveri.
È di queste settimane la notizia che gli utenti internet nel mondo
avrebbero raggiunto il miliardo di persone, e già sono partiti
innumerevoli piani per connettere «il secondo miliardo». Tuttavia, non
sarebbe male astenersi qualche momento dal fantasticare, per osservare,
invece, come si distribuisce, nel mondo, il primo miliardo di
navigatori. Secondo i dati di Nua Inteet Surveys, un’agenzia che si
occupa di monitorare a livello mondiale lo sviluppo della rete internet
e l’utilizzo che ne viene fatto, la grande maggioranza della
popolazione del mondo è ancora priva del tutto dell’accesso a internet.
L’88% degli utenti vive nei paesi industrializzati, contro il solo 0,3%
che abita nei paesi poveri. Per riflettere sull’enormità delle
disuguaglianze esistenti, si ripete spesso che vi sono più connessioni
internet nella sola città di New York che in tutto il continente
africano, mentre vi sono più nodi di accesso (host) in un paese poco
popolato come la Finlandia che in tutto il Sud America messo insieme.

INTERNET O ACQUA E MEDICINE?
Se osserviamo la distribuzione geografica, scopriamo che Stati Uniti e
Canada insieme (Nord America) assommano un terzo degli utenti di tutto
il mondo, pur rappresentando solamente il 5% della popolazione
mondiale; l’Africa sub-sahariana, per contro, possiede l’1,1% degli
utenti internet, nonostante nel continente viva l’11% della popolazione
mondiale. Occorre poi prendere queste cifre, di per sé comunque
esplicite, con estrema cautela: i già pochi utenti internet africani,
infatti, sono concentrati quasi interamente (il 58%) nel solo
Sudafrica, che non è certo un paese in via di sviluppo, mentre gli
utenti asiatici sono quasi tutti circoscritti al Giappone e alle ricche
«enclave» di Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, tagliando
fuori la quasi totalità degli abitanti della popolosa Cina continentale.
La frattura risultante è certamente una sfida più complessa di quanto
appaia da queste cifre, altrimenti non si spiegherebbe il grande
fiorire di iniziative, finalizzate a «colmare» il divario digitale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un impegno intensificato, da
parte dei colossi delle tecnologie dell’informazione e delle grandi
compagnie mondiali delle telecomunicazioni, in favore di una rapida
diffusione delle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo. Ad esso
si sono affiancate le rumorose proteste di coloro che, in occasione dei
vari vertici inteazionali, bruciano sulla piazza i computer
portatili, sostenendo che «il Terzo Mondo ha bisogno di acqua e di
medicine, più che di nuove tecnologie».
Ciascuna delle due opposte reazioni pecca di eccessiva superficialità:
le grandi multinazionali tecnologiche faticano a comprendere che il
problema reale non è quello di incentivare l’utilizzo delle tecnologie,
bensì quello di subordinarle agli obiettivi di sviluppo umano; i
contestatori di piazza, invece, non sanno valutare appieno il ruolo
dell’informatica nei processi di sviluppo e la dimensione sempre meno
collaterale che questa sta assumendo. Oggi il cosiddetto «cyberspazio»,
lo spazio elettronico generato dalle reti informatiche, non è più uno
spazio autonomo, con dinamiche di funzionamento proprie, ma riflette i
valori e le prerogative della realtà concreta, con gli stessi rischi di
vedersi affermare modelli di sviluppo insostenibile.

LE BARRIERE DEL «DIGITAL DIVIDE»
Le barriere cui oggi assistiamo in materia di accesso alle informazioni
e alle risorse informatiche non si sono prodotte per caso, ma sono il
risultato di alcuni precisi fattori di tipo tecnologico, culturale, ed
economico. Vediamo dunque di che cosa si tratta.

• Le barriere dell’analfabetismo e delle risorse energetiche
Molti saranno forse sorpresi nell’apprendere che il primo grande
ostacolo per l’accesso alle tecnologie dell’informazione non ha nulla a
che vedere con la tecnologia: si tratta dell’analfabetismo, che
colpisce la quasi totalità delle persone che vivono al di sotto della
soglia di povertà, privandole degli strumenti linguistici per scrivere,
leggere e comunicare le proprie esperienze.
Il secondo ostacolo è rappresentato dalla distribuzione delle risorse
energetiche. Nel mondo ci sono più di due miliardi di persone che non
possono accedere all’energia elettrica e altrettante che la possono
utilizzare solo sporadicamente. Anche per queste persone, come è ovvio,
le cosiddette «autostrade dell’informazione» risultano inaccessibili.

• Le barriere infrastrutturali
Il fatto di possedere un’istruzione di base e di trovarsi vicino a una
presa di corrente non è però sufficiente per «entrare in rete»: sono
necessarie anche delle adeguate infrastrutture telefoniche e almeno un
computer. Anche per quanto riguarda tali indicatori, le disuguaglianze
sono evidenti. Per dirla con una celebre battuta dell’attuale
presidente del Sudafrica: «la metà della popolazione mondiale non ha
ancora fatto la prima telefonata».
Molti sono ingenuamente convinti che queste siano le uniche barriere
rilevanti. Anche le organizzazioni inteazionali si servono
abitualmente del termine «e-readiness» (prontezza digitale) per
alludere alla dotazione infrastrutturale di un paese, intendendo
implicitamente che, una volta recuperati i ritardi infrastrutturali, un
paese possa dirsi «pronto« a fare il suo ingresso nel mondo digitale.
• La barriera dei costi
In Italia, perlomeno da qualche anno, non si pensa più al costo
dell’accesso a internet come a una barriera; tuttavia, nel Sud del
mondo, la bassa densità di utenti non consente di sfruttare, come al
Nord, collegamenti specializzati a costi forfetari e rende assai
costosa una connessione internet. Questo, aggiunto ai costi per gli
spazi web su cui ospitare le pagine ipertestuali, ai costi delle
periferiche e ai tassi delle tariffe doganali sui prodotti delle
tecnologie dell’informazione, costituisce una grave forma di
emarginazione dalle strutture di comunicazione.

• Le barriere economiche
Oggi il settore delle telecomunicazioni nei paesi del Sud del mondo si
trova stretto in una morsa. Da una parte c’è il settore pubblico, che
procede arrancando. Dall’altra parte ci sono invece le imprese,
assetate di nuovi profitti. I paesi in via di sviluppo costituiscono,
in questo momento, il più grande mercato per l’investimento in
telecomunicazioni e di certo quello che sta crescendo in maniera più
vistosa. Da qualche tempo, in risposta a queste spinte, è stato avviato
un brutale processo di liberalizzazione, che ha portato a cospicui
investimenti nelle aree più redditizie del Sud (i centri urbani e la
clientela più ricca) e ha progressivamente emarginato le aree rurali e
le popolazioni più povere.

• La barriera dei contenuti
I paesi poveri, nonostante i massicci tentativi di creare punti di
accesso all’informazione («edicole multimediali», «Inteet caffè»,
etc…) continuano a rimanere consumatori passivi di informazioni
provenienti dal Nord del mondo. Anche il fattore linguistico accentua
questa frattura, dal momento che più dell’80% delle pagine web sono in
inglese, contro il 10% o meno della popolazione globale che parla
l’inglese come lingua madre.

• La barriera della censura
Forse non tutti sanno che il Patto Internazionale delle Nazioni Unite
relativo ai diritti civili e politici possiede un articolo, l’art. 19,
che enuncia un vero e proprio «diritto a comunicare». Tale diritto
resta largamente disatteso e l’ostacolo più appariscente è
rappresentato dalle restrizioni e dalle censure che sono state imposte
da diversi stati. L’organizzazione Reporters sans Frontières ha
elaborato una lista nera di paesi dichiarati «nemici di internet». Essi
si sono macchiati di gravi violazioni, per esempio stabilendo un
monopolio di stato sulla foitura di accesso alla rete, controllando i
provider privati, filtrando siti web ospitati da server stranieri,
violando la confidenzialità degli scambi privati su internet, infine
lanciando procedimenti penali contro utenti della rete.
• La barriera della multimedialità
L’ultima delle barriere è probabilmente la meno considerata e la più
insidiosa: si tratta della multimedialità. Oggi, le pagine web a cui
accediamo normalmente sono sempre più cariche di multimedialità,
rendendo le pagine internet praticamente illeggibili per molte persone,
anche nel Nord: innanzitutto per le migliaia di persone disabili, che
possono utilizzare il computer nella sola modalità testuale e che sono
costrette a interagire attraverso tastiere braille o dispositivi di
sintesi vocale. In secondo luogo per gli abitanti del Sud, che
dispongono di collegamenti internet lenti e realizzati su linee
telefoniche fatiscenti. Ricordiamo che multimedialità è sinonimo di
collegamenti veloci e costosi e che in tali paesi la velocità di
trasmissione dei dati via modem è ancora troppo bassa per utilizzare
l’audio e il video nella stessa modalità intensiva dei paesi del Nord.

PER UNA NUOVA SOBRIETÀ
Il nodo della questione non è quello di aumentare
indefinitamente la capacità delle reti di trasmissione («banda larga»)
che, essendo di proprietà dei grandi colossi multimediali, rimarranno
estremamente costose e la cui accessibilità già oggi pone seri dubbi a
coloro che si occupano di «libertà in rete». Una risposta più adeguata
dovrebbe portarci a recuperare la dimensione etica, riscoprendo una
nuova sobrietà nella comunicazione, che ci permetta di esprimere i
contenuti informativi che desideriamo senza eccedere nel traffico di
dati.
Forse la sfida tecnologica più grande è, paradossalmente, quella di
fare «marcia indietro», impegnandoci a inseguire un modello di
formazione online veramente sostenibile, caratterizzato non da un
eccesso di informazione multimediale ad alto consumo di risorse, ma da
una nuova sobrietà nella comunicazione e nell’utilizzo degli strumenti
che abbiamo a disposizione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Nello spirito di Assisi

Il legame fra pace e religioni è uno dei temi di maggiore attualità: troppo spesso strumentalizzato e fatto oggetto di polemiche feroci e pretestuose. Fra le diverse iniziative attivate su di esso, di cui siamo venuti a conoscenza, abbiamo trovato particolarmente interessante, per taglio e pacatezza di ragionamenti, quella organizzata dal Comune di Cusano Milanino, una cittadina alle porte di Milano. La presentiamo in questo dossier.

Per diverse ragioni il 2006 è stato un anno significativo per le religioni e la pace. In primo luogo perché lo scorso 27 ottobre ricorreva il ventesimo anniversario del primo storico incontro interreligioso per la pace convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii nel 1986.
È stato anche il primo anno nel quale, dopo il suo lungo pontificato, non è stato Giovanni Paolo ii a tenere il consueto messaggio del primo gennaio per la Giornata Mondiale della Pace (tradizione della chiesa cattolica cominciata dal papa Paolo vi nel 1968).
Nel raccogliere il testimone dal suo predecessore, papa Benedetto xvi, nel proprio messaggio del 1° gennaio 2006, ne citava un’affermazione di grande attualità: «Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine».
Sensibile a queste problematiche, il comune di Cusano Milanino ha voluto celebrare la ricorrenza citata in apertura. Così, facendo propria la frase di papa Wojtyla, ha proposto alla cittadinanza una serie di incontri dedicati al tema della pace e alle sue implicazioni con le religioni attualmente più seguite nel mondo.
Se tutti concordiamo sul fatto che l’umanità soffre per guerra, terrorismo, sfruttamento, ingiustizia, schiavitù, degrado sociale e ambientale… non c’è invece convergenza di opinioni sulle cause di tutto ciò.
Per il nostro tempo, ma anche per i secoli passati, c’è chi individua nella religione la causa di questi problemi. Altri ritengono sia vero il contrario: è proprio l’assenza, o l’insufficiente comprensione della religione, a impedire che la pace si instauri definitivamente nel mondo.
Per confrontarsi con queste tesi e con il pubblico, una serie di esperti e testimoni della propria religione sono stati invitati ad animare sei affollate serate tenutesi nella sala del consiglio comunale.

Organizzata senza la pretesa di voler proporre considerazioni di valore assoluto, né di voler presentare la posizione ufficiale delle religioni protagoniste di ogni serata, l’iniziativa voleva semplicemente essere un primo approccio con l’argomento. Un tentativo di capire se, sulle vie della pace che l’umanità vorrebbe percorrere, le religioni possono essere un aiuto o se invece sono proprio loro la causa prima dei conflitti.
Gli esperti hanno introdotto ciascuna religione (in particolare le meno conosciute perché più lontane dalla nostra cultura occidentale) dai punti di vista teologico, storico, socio-politico ed anche geografico, esaminati in relazione al tema conduttore del ciclo.
Da parte loro i testimoni, personalità anche di rilievo nell’ambito delle rispettive comunità religiose, si sono proposti in veste di semplici credenti, disposti a condividere con il pubblico l’esperienza individuale di persone che si sforzano quotidianamente di vivere la pace secondo i principi dettati dalle proprie religioni; anche mettendosi in discussione sulle questioni più problematiche.
Un aspetto importante, questo del chiedere agli ospiti di far emergere la propria spiritualità, anche attraverso la lettura di brevi brani tratti dai testi sacri di ognuno. In occasioni analoghe viene spesso messo un po’ in secondo piano; col rischio di ridurre le religioni a semplici espressioni della cultura e della filosofia di alcuni gruppi umani. Cosa che effettivamente sono, ma che non le descrive compiutamente: gli aspetti spirituali e trascendenti di una religione ne sono infatti l’elemento più importante senza del quale perderebbero il loro specifico significato.

L’iniziativa, impostata col preciso intento di favorire un serrato dialogo fra relatori e pubblico, sembra di poter dire che sia riuscita nello scopo. I presenti, credenti e non credenti, accorsi sempre in buon numero, hanno approfittato con interesse dell’ampio spazio loro dedicato, riservando ai relatori una fitta serie di domande che, anche quando non strettamente inerenti con il tema della serata, erano sintomatiche del diffuso bisogno di spiritualità esistente nella nostra società.
Più in generale dimostravano il desiderio di capirsi, di trovare punti di incontro… di dialogare. Il fatto che tutto ciò sia avvenuto in un clima estremamente sereno e rispettoso del pensiero di ciascuno è il risultato dell’iniziativa di cui andare tutti più soddisfatti, pubblico e organizzatori.
Spesso incontri di questo genere, soprattutto sotto la spinta della drammatica attualità e dell’inopportuna politicizzazione, degenerano presto in poco fruttuose polemiche. Nel nostro piccolo, abbiamo dimostrato che la pace non è fatta solo dalle cancellerie, dalla politica, dalle autorità religiose…, ma può e deve cominciare anche dagli atteggiamenti più semplici e quotidiani di ciascuno; con un impegno forse maggiore per chi è credente: la pace si costruisce più sforzandosi di vivere con coerenza la propria fede (cosa per niente facile) che rivendicando la supremazia della propria religione.
Convinzioni queste espresse da tutti i relatori e principale filo conduttore del ciclo di incontri.

Con estrema soddisfazione abbiamo accolto l’invito di Missioni Consolata a raccogliere in un dossier un’ampia sintesi, non rivista dai relatori, di quanto emerso nel corso dell’iniziativa. Considerando la diffusione nazionale della rivista, fa piacere se quanto di buono siamo riusciti a fare a Cusano Milanino potrà contribuire alla crescita di una cultura di pace anche in altre parti d’Italia.

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




INDUISMO

L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO

L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al iii millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.
Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.
È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione… Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.
Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venie trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.

Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità.
Il primo incontro con l’islam (xii-xiii sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.
Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.
Pur in declino dalla metà del xvii secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.
Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel xvii secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.
Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.

Marilia Albanese

MIGLIORARE SE STESSI PER PORTARE LA PACE

In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri… Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?
Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende…
Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.
L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.
La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.
Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.
Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.
Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.
Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.
A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.
Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».

Sushama Swarup Sahai

DOMANDA

Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?

Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi… è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.

Albanese


Marilia Albanese, docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.
Sushama Swarup Sahai, psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.

Marilia Albanese e Sushama Swarup Sahai




BUDDISMO

Generosità: primo gradino per la pace

Il buddismo è stato fondato dal Buddha Sakiamuni. Nato in India nel 500 a.C., quindi di religione indù, ebbe l’intuizione della sofferenza, da cui cominciò il suo insegnamento. Uomo qualsiasi, con esperienze comuni a tutti gli individui normali, è quindi una figura storica, nonostante la sua realtà umana sia «condita» di leggenda.
Sakiamuni diffuse le conoscenze dai bramini (indù) al popolo, proponendo una liberazione non solo spirituale ma anche concreta e la rivalutazione della figura femminile (ad esempio, prima non c’erano monache). Comunque resta anche lui un po’ maschilista: nella tradizione tibetana i monaci hanno 253 ordini (voti), le monache 436!
Pur nascendo come una filosofia, a mio avviso, il buddismo può essere considerato una religione. Di essa ha, ad esempio, gli ordini monastici. Il fatto che Buddha non abbia parlato di Dio non è perché non ne ritenesse vera l’esistenza, ma perché la figura di Dio è indicibile e la mente umana non può comprenderlo. Penso questo, nonostante sul suo insegnamento ci sia incertezza: sono infatti trascorsi tantissimi anni e altrettante interpretazioni prima che si cominciasse a trascriverlo.
Storicamente in India il buddismo diventa anche religione di stato, ma ne viene espulso dai bramini dopo 700 anni. Successivamente fece presa nel nord della Cina, Giappone, Corea… e oggi in Occidente.
Cercando di adattarsi all’ambiente sociale in cui viene a trovarsi e innestandosi in tutte le culture dei paesi dove arriva, il buddismo ne ingloba le tradizioni locali. Questo genera tante scuole diverse, che seguono differenti tradizioni, legate a quella originaria e tutte fondate sul concetto base e comune della sofferenza.
In Tibet, ad esempio, avviene il sincretismo con la preesistente tradizione sciamanica, che porta a sviluppare il metodo della visualizzazione. In Giappone, invece, si sviluppa un altro modo di concentrarsi: lo zen. Infatti le differenze nell’ambito del buddismo sono legate alla meditazione, assimilabile in un certo senso alla preghiera, perché esistono tanti modi diversi per praticarla e pacificare la mente e gli animi.
Il buddismo, non proponendo una fede o dogmi ma un obiettivo, è una tradizione trasversale applicabile a tutte le religioni e fondata su quattro nobili realtà, fra cui pacifismo, equilibrio, armonia… L’illuminazione (realizzazione) della persona nasce dalle sue esperienze e qualità, la «buddità» viene dall’interno, impegnandosi e agendo secondo i principi di pace, armonia e positività.
Nessuna preghiera e influenza estea ci può cambiare se non vogliamo cambiare noi. Le scritture (per quanto possano essere attendibili, visto quanto detto in precedenza) e il maestro possono solo indicarci la via.
Desiderio, avversione (discriminazione) e confusione mentale (per desiderio ci creiamo illusioni) sono i tre elementi fondamentali che ci impediscono di redimerci. L’io e il mio condizionano la nostra esistenza. In sostanza il buddismo è una religione facile da descrivere e difficile da attuare.
All’attuale realtà di guerre il buddismo si rapporta considerando alcune parole chiave, fra cui altruismo, compassione, generosità… L’amore è augurare a tutti di essere felici; la compassione è far di tutto per vincere la sofferenza altrui.
Il primo gradino per costruire la pace è la generosità: il saper dare. Molti amici della tradizione buddista sono impegnati per la pace, ma se non la viviamo nel nostro quotidiano, anche praticando il dubbio, dal quale nascono la ricerca e la capacità di migliorarsi, questo genere di impegno è un impegno inutile.

Lama Paljin Tulku Rinpoce

In ogni persona brilla una fiamma

Qualsiasi riflessione sulla pace deve partire dal presupposto che nel cuore di ogni persona brilla sempre una fiamma, una scintilla d’intelligenza. Bisogna poi recuperare la consapevolezza, la forza del «sentire» e del sentirsi parte di un tutto: se io respiro, l’intero universo respira; se raccolgo da terra un mozzicone, è l’intero universo che compie questo gesto; e sbaglia chi, vedendomi, pensasse che sto pulendo il marciapiede: è il mondo che sto pulendo!
È il principio di separazione dal tutto che genera i conflitti. Il buddista rispetta tutti e tutto, perché sa che compongono il «Tutto Universale», al quale appartiene anche lui. Togliendo qualcosa all’universo, lo togliamo anche a noi stessi, e viceversa.
È fondamentale l’azione della persona, il far bene quel che si fa: perché serve al mondo. È la nostra vita che deve essere messa in gioco e costruita sui grandi pilastri dell’Armonia, del Rispetto, della Purezza, e della Pulizia interiore. Non è attraverso il male degli altri che si raggiungono la felicità e la realizzazione di sé. Perciò dobbiamo cambiare partendo da noi stessi e dal nostro ambiente.
Anche la pace non va cercata negli altri, ma dentro di sé. Imparando ad affrontare i problemi quando si presentano, senza vacillare al solo pensiero che «forse arriverà il vento!». Come nulla intacca il diamante, nulla potrà compromettere una coscienza adamantina e pura.
Venendo alla domanda se, ai fini della pace, la religione sia troppa o troppo poca, penso che, se ha radici profonde nella storia dell’uomo, la religione non è mai troppa: i vertici delle organizzazioni e delle religioni predicano sempre bene!
Il mondo però non è migliorato, nel senso che non ha accolto i loro insegnamenti e non vi regna la pace. Sembrerebbe quindi che i grandi maestri abbiano fallito. Ma il maestro può solo aprire la porta; è il discepolo, con il suo piede, che può entrare. Chi non è se stesso fino in fondo deve sapere che nessuno può esserlo al suo posto.
Dunque la religione non sarà mai troppa in quanto a principi etici. Semmai sono troppo pochi a praticarla. Oggi dobbiamo quindi domandarci fino a che punto siamo praticanti: la nostra generazione non sa più bene in cosa sta credendo, ha bisogno di ritrovare i riferimenti giusti.
Dobbiamo anche considerare che mai ci sarà una religione unica sulla terra. Ci sarà, forse, un’integrazione interreligiosa, in vista della quale è necessaria una maggiore comprensione della religione altrui, anche da parte di chi non crede. È quindi importante lo sviluppo di tutte le religioni e la ricerca di opportune occasioni per praticarle assieme.
Per questo credo nella necessità e nel valore del lavoro culturale nella nostra società. I bambini già ci hanno superato, sono già uniti, ma gli adulti devono creare un ambiente favorevole, perché questo atteggiamento spontaneo possa radicarsi nelle loro coscienze.
Più delle ore di religione passate a scuola, conta la testimonianza vissuta dai genitori in famiglia; dove la religione potrebbe aiutare a crescere meglio i figli e a costruire una società migliore. Anche se essere buoni praticanti non è garanzia di successo.
Vorrei infine segnalare che, dal 2000, i leader delle religioni presenti a Milano si stanno incontrando con continuità. Un lavoro che ha portato alla firma, il 21 marzo 2006, dello statuto costitutivo del Forum delle religioni a Milano. Anche se è stato uno sforzo impegnativo, raggiungere questo obiettivo è stato più facile di quanto non sembrasse al principio.

Rosa Myoen Raja

DOMANDA

La malvagità è innata nell’uomo?
Il bene è equilibrio e positività. Il male è confusione, che arriva quando ci si allontana dal bene.
Paljin

Constato che nell’essere umano esiste la dimensione del male, ma la domanda mi supera. Nella mia attività con i carcerati sento che non mi è estraneo quel che hanno commesso. Nelle stesse condizioni forse avrei fatto di peggio, la vita mi ha dato una realtà estremamente favorevole. Quando apprendo di eventi drammatici o tragici non riesco a prendere parte per qualcuno.
In realtà, purtroppo, c’è indifferenza in tutti noi per le tragedie dell’umanità che accadono anche in questo stesso istante.
Myoen

Paljin Tulku Rinpoce (Aaldo Graglia) è da oltre 30 un monaco buddista di tradizione tibetana. Fondatore e guida del centro studi tibetani Mandala di Milano, siede fra i maestri reggenti il monastero di Lamayuru a Ladakh (India) ed ha assunto la guida del monastero di Atitse destinato a diventare un centro internazionale di meditazione.
Rosa Myoen Raja ha iniziato nel 1988 la pratica zen presso il centro «Il Cerchio» di Milano, di cui è diventata presidente, avendo ricevuto dal maestro Tetsugen l’ordinazione monastica. È membro fondatore della sezione milanese di «Religioni per la Pace», Forum delle religioni a Milano, associazione Buddhist Peace Fellowship Italia.

Paljin Tulku Rinpoce e Rosa Myoen Raja




ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.
Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (vi sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.
Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.
Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.
Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.
Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modeità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.
Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.
Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.
Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.
Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.
Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.
Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!
Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

Camille Eid

Diffondere l’islam moderato

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.
Oggi i musulmani immigrati in Occidente non vi trovano l’anima e allora… anche loro chiedono diritti. È più diffusa la cultura del diritto che quella del dovere.
Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi… è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.
Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.
Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.
Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita… Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole… Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo ii vi ha pregato a Damasco.
Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.
La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani… Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».
Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.
In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.
Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!
Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

 Ali Schuetz

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.
Schuetz

Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull’islam; I cristiani venuti dall’islam.
Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.

Camille Eid e Ali Schuetz