L’alba dell’indipendenza

Genesi del dramma avoriano

Per capire la crisi avoriana è necessario ripercorrere gli eventi che hanno portato alla guerra e ai massacri degli ultimi sei anni. Un’immagine più di ogni altra descrive la fine di un’epoca di prosperità e di pace che era valsa alla Costa d’Avorio la palma di perla dell’Africa occidentale: il gotha dell’Africa francofona e la Francia che conta, in primis François Mitterand, Jacques Chirac e Valéry Giscard d’Estaing, presenziano vestiti a lutto alla cerimonia funebre di Félix Houphouët-Boigny il 7 febbraio del 1994.
Nella colossale basilica di Yamoussoukro, la San Pietro della giungla voluta dal «Vecchio» per onorare le radici cattoliche della Costa d’Avorio, accanto ai politici siedono i signori dell’economia franco-avoriana: il costruttore Martin Bouygues, l’armatore Vincent Bolloré e quel Jacques Foccart,amico di Mobutu e di tutti i dittatori degli anni ‘60, che ha fatto da eminenza grigia dei rapporti franco-africani per almeno un ventennio, organizzando colpi di stato qua e là e influenzando le politiche del continente nero.
I funerali solenni del padre della nazione, quell’Houphouët soprannominato Boigny (ariete in baoulé, la sua lingua e gruppo etnico), che gli avoriani credevano immortale, si svolsero a tre mesi dalla sua morte in un’atmosfera di fine regno: al di qua e al di là del Mediterraneo tutti sapevano che con la morte del «Vecchio» si estingueva il contratto tra francesi e avoriani che aveva fatto della prosperità senza libertà la parola d’ordine della Françafrique. Il miracolo economico avoriano basato sull’indipendenza formale, voluta più dal generale Charles De Gaulle che da Houphouët, e sull’assoluta dipendenza militare della Costa d’Avorio dalla Francia era già finito da qualche anno. Ma la morte del presidente avoriano accelerò il processo.  

Personalità complessa e sfaccettata, il presidente dell’indipendenza aveva messo il suo genio politico al servizio di un principio: tutto cambi perché nulla cambi. La scelta di fare del suo villaggio natale, la piccola Yamoussoukro in cui era nato nel 1905, la nuova capitale politica del Paese ne era stata l’ultima dimostrazione: Abidjan, infatti, continuava a rimanere il vero centro nevralgico del potere politico ed economico, sede del governo avoriano e dell’Ambasciata di Francia, mentre Yamoussoukro si riempiva di ampi viali e giganteschi palazzi vuoti.
L’ex-potenza coloniale era presente ovunque, in ogni snodo economico, in ogni ganglio politico. Ma si trattava di una presenza discreta, lontana dagli occhi dei cittadini avoriani, che vedevano invece scuole funzionanti, rete stradale in rapida espansione, ospedali efficienti e, soprattutto, aumento della produzione di cacao, che dalle mille tonnellate annue del 1920 si era attestata sulle 380 mila del 1978.
Specchio del benessere derivato dall’oro marrone, Abidjan espandeva il suo quartiere chic, il Plateau dei grattacieli in perfetto stile Manhattan. Il momento d’oro coincise con la costruzione dell’Hotel Ivoire, il più grande e lussuoso dell’Africa occidentale.  
Mentre il denaro del cacao scorreva a fiumi nelle tasche degli alti papaveri e le briciole tenevano buoni i lavoratori avoriani attirandone di stranieri, i germi della crisi futura erano già al lavoro. Nessuno si preoccupò di dotare il paese di un’industria di trasformazione o di costruire alternative economiche da mettere in campo nel caso in cui le fluttuazioni del prezzo del cacao avessero portato a periodi di recessione.
La bella meccanica concepita da Houphouët si inceppò alla fine degli anni ‘70, quando l’offerta di cacao superò per la prima volta la domanda europea, facendo precipitare i prezzi. La Costa d’Avorio entrò così nella spirale economica negativa del debito pubblico: per mantenere il tenore di vita degli avoriani il governo si mise nelle mani delle istituzioni finanziarie inteazionali, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e ai loro piani di ristrutturazione economica. Le riforme colpirono i salari dei dipendenti pubblici e costrinsero l’esecutivo a vendere la rete elettrica e idrica agli amici francesi.
Nonostante gli sforzi, gli errori del Fmi e del governo avoriano resero irreversibile la crisi. Nel 1987 una serie di speculazioni finanziarie innescarono la cosiddetta guerra del cacao: il governo avoriano congelò le esportazioni delle fave per costringere i cioccolatai europei a offrire un prezzo più favorevole ad Abidjan. Non fu così: le grandi società del cacao si rivolsero al vicino Ghana e alla lontana Malesia.
Houphouët  uscì sconfitto dalla prima e unica battaglia della sua vita e milioni di fave rimasero a marcire nella foresta, lacerando il già usurato tessuto economico del paese degli elefanti. Per la prima volta, all’inizio degli anni ‘90, il padre della patria subì le contestazioni della piazza. Migliaia di persone invasero le strade di Abidjan al grido di «Houphouët  voleur, Houphouët  démission!» (ladro, vattene). Era l’inizio della fine: l’Ariete aprì alle opposizioni e si arrese alla nascita di un sistema politico multipartitico.

Il 7 dicembre 1993, arrivò così, con un largo preavviso: la stampa avoriana diede la notizia della morte del «Vecchio» senza avere un nome degno della sostituzione. Lo scialbo Henry Konan Bédié divenne presidente ad interim in virtù del suo incarico di presidente dell’assemblea Nazionale, nonostante fosse stato il primo ministro Alassane Ouattara a garantire la continuità di governo nei giorni della malattia di Houphouët. La guerra degli eredi era cominciata sulle ceneri di un’economia distrutta. Di lì a poco sarebbero emerse le tensioni etniche che avrebbero reso ingovernabile la Costa d’Avorio del xxi secolo.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Si erano tanto amati

La Francia nel pantano avoriano

I francesi in Costa d’Avorio come gli americani in Iraq. Questo il senso dei titoli di alcuni siti internet, di alcuni giornali italiani e di molti giornali avoriani. In realtà il ruolo della Francia va ridimensionato: anche se la vecchia potenza coloniale ha dimostrato limiti enormi nella gestione del conflitto e le società francesi hanno cercato di difendere i loro interessi, il problema è molto più complesso.

Una piscina vuota, un tappeto spelacchiato, un’orchestra jazz che suona per pochi clienti annoiati, volti anonimi che si aggirano per il giardino d’inverno senza guardarsi attorno e un alone di tristezza che vela di grigio anche le stoffe sgargianti dei negozi di souvenir. Difficile immaginare che proprio in questo scenario, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, sfilassero francesi eleganti e sorridenti, che si godevano le vacanze nella perla dell’Africa occidentale al culmine del suo splendore e ricchezza, racchiusa in migliaia di tonnellate di fave di cacao.
Eppure l’Hotel Ivoire, il più grande albergo dell’Africa occidentale, l’unico dei tantissimi grattacieli di Abidjan a ergersi fuori dal quartiere chic del Plateau, è stato l’emblema dell’idillio tra la Francia di Charles de Gaulle e François Mitterand e la Costa d’Avorio del presidente e padre della nazione Houphouët-Boigny.

MEMORIA RANCOROSA

Oggi, di quell’idillio da rivista patinata non rimane neppure un’immagine ingiallita e consunta: la visione dell’esercito francese che spara su una folla disarmata di manifestanti, all’indomani dello scontro tra l’aviazione avoriana e la missione francese Licoe del novembre del 2004, ha cancellato dalla memoria nazionale ogni ricordo degli anni d’oro.
Nella Costa d’Avorio del 2007, il rapporto tra avoriani e francesi è riassunto nella fotografia di un bianco che minaccia con il fucile un nero. L’esasperazione politica è dappertutto, perfino nei nomi delle salse che si accompagnano al fufù, negli slogan pubblicitari dei cellulari, nelle competizioni sportive.
Nel sud dominato dal governo del presidente Laurent Gbagbo, l’astio verso la Francia occupa una grossa parte del discorso politico. «Macché francesi – sbotta Kamsi, l’agente della polizia avoriana che presidia il posto di blocco all’entrata di Yamoussoukro, rispondendo al suo giovane collega che si informa sulla nazionalità degli europei di passaggio -. Se fossero francesi li avrei già spediti via invece di chiacchierare con loro».
«Sembra uno scherzo – aggiunge il cancelliere dell’ambasciata d’Italia ad Abidjan -, ma l’odio per i francesi è tale che la vittoria italiana ai mondiali di calcio è stata una vera manna diplomatica: abbiamo sconfitto i francesi e siamo automaticamente diventati eroi per gli abitanti della Costa d’Avorio».
L’ostilità degli avoriani nei confronti degli ex-colonizzatori, tangibile, a volte ostentata, si mescola al timore di non essere ascoltati, creduti, interpellati nelle decisioni che li riguardano da vicino. Come quella di fare la guerra. «Ditelo ai vostri amici europei, ditelo che qui non c’è nessuna guerra, che sono i francesi ad averla inventata per continuare a rubarci quello che è nostro» si raccomandano tutti gli avoriani, dai militari alla gente comune.
La campagna antifrancese della stampa pro-Gbagbo ha dato i suoi frutti e, da Abidjan a Yamoussoukro, tutta la Costa d’Avorio a sud della zona di interposizione Onu vede nell’esecutivo di Parigi un ostacolo all’apertura dell’economia ai partner inteazionali. Una forza militare di occupazione che si nasconde dietro al dito del mandato Onu per mantenere il controllo delle risorse avoriane.
Una cricca di cospiratori che muovono i fili delle marionette locali con l’appoggio di leader stranieri compiacenti e venduti, primo fra tutti il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Una parte della stampa internazionale, inoltre, specialmente quella online, non risparmia alla Francia l’accusa di aver fatto della Costa d’Avorio il proprio Iraq, o il proprio Vietnam.
Thomas Hofnung, giornalista di Libération, trova la causa del divorzio tra Parigi e Abidjan in una più ampia «incapacità francese a ridefinire la sua politica verso un continente diverso da quello della decolonizzazione e in piena mutazione». Secondo Hofnung, la diplomazia francese è confusa: da una parte non se la sente di abbandonare la Costa d’Avorio al suo destino per timore di una nuova carneficina; dall’altra è rimasta a guardare senza schierarsi quando, dopo la morte del presidente Boigny nel 1993, la Costa d’Avorio si è lanciata nella spirale dell’ivoirité, dei colpi di Stato e delle «elezioni calamitose» del 2000.

LA PRESENZA MILITARE

Se la presenza militare francese sul territorio avoriano è una realtà che fin dal 1978 ha permesso al Paese degli Elefanti di non doversi preoccupare delle spese per la difesa e di dedicare le sue risorse allo sviluppo economico, l’intervento vero e proprio della Francia in Costa d’Avorio arriva solo alla fine del 2002. Il conflitto armato che segue il fallito colpo di stato ai danni di Gbagbo, tra il 18 e il 19 settembre, spacca il paese a metà, lasciando il sud nelle mani del governo e portando il nord sotto il controllo dei ribelli delle Forces Nouvelles.
È a quel punto che l’Eliseo affianca ai militari francesi già presenti sul territorio altri 4 mila soldati e lancia l’operazione Licoe. Pochi giorni dopo il mancato golpe, i militari di Parigi ricevono l’incarico di interporsi tra esercito regolare e ribelli e mettere in salvo i quasi 20 mila connazionali in Costa d’Avorio.
Ma i dubbi sull’effettivo ruolo dei francesi nella serie di colpi di stato che hanno sconvolto il paese rimangono. «È difficile credere – scrive su Le Monde Diplomatique la giornalista belga Colette Braekman – che gli onnipresenti servizi di intelligence francesi ignorassero che nei sobborghi della capitale burkinabé, Ouagadougou, dei militari avoriani stavano preparando in clandestinità un’invasione della Costa d’Avorio, reclutando espatriati avoriani del nord, ma anche combattenti burkinabé o maliani».
Se è vero che i francesi non hanno organizzato attivamente la ribellione, è altrettanto vero che non hanno fatto nulla per stroncarla sul nascere. Ovviamente la diplomazia d’oltralpe, a partire dall’allora ambasciatore ad Abidjan, Renaud Vignal, nega ogni responsabilità negli eventi e nel gennaio del 2003, a pochi mesi dal colpo di stato di settembre, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin lancia un ciclo di trattative diplomatiche che si tengono a Linas-Marcoussis, nella periferia parigina, per dimostrare a tutti che la Francia è in grado di tenere sotto controllo la sua ex colonia.
A Marcoussis sono presenti tutti i principali attori della crisi avoriana e tutti sembrano disposti ad accettare un accordo, sintetizzato nell’ennesima road map della storia più recente. In realtà Gbagbo non si presenta: si fa rappresentare dal capo del suo partito, Pascal Affi Nguessan, con intenzioni che diventano chiare pochi giorni dopo e fanno dimenticare il sorriso soddisfatto con cui de Villepin affronta le conferenze stampa.

DALLA TENSIONE ALLO SCONTRO

Secondo l’Inteational Crisis Group, gruppo di esperti in monitoraggio del conflitto, «la mancanza di buona fede e di volontà politica hanno compromesso gli accordi di Linas-Marcoussis sul nascere». All’indomani della conferenza di pace, al grido di «a ciascuno il suo francese!», Charles Blé Goudé e i suoi Jeunes Patriotes, le milizie pro-Gbagbo, invadono le strade di Abidjan, alla notizia che i ribelli di Guillaume Soro hanno ottenuto il ministero della Difesa e quello degli Intei.
Gbagbo non deve nemmeno scomodarsi a sconfessare gli accordi. Il suo «non ero presente alle negoziazioni» è sufficiente agli occhi dei suoi sostenitori.
 L’inserimento della missione Licoe sotto l’egida dell’Onu, nel febbraio del 2003, in seguito alle pressioni francesi sul Consiglio di sicurezza, non allenta la tensione. Anzi. A fine ottobre, un poliziotto avoriano uccide di fronte a decine di testimoni Jean Hélène, corrispondente di Radio France Inteational (Rfi), freddandolo con un colpo di pistola alla testa. «Siamo in guerra e ho sparato a un nemico – dirà il sergente dopo l’arresto – non facevo nulla di male».
E non è l’unico avoriano a pensarla così, se pochi mesi dopo, nell’aprile del 2004, Abidjan viene scossa dai disordini di piazza e dagli scontri tra opposizione e Jeunes Patriotes che fanno almeno 120 morti (fonte Onu).
Quando il 4 novembre del 2004 Gbagbo decide di lanciare l’«operazione dignità», l’offensiva finale contro i ribelli, la situazione è già avviata al disastro, nonostante la Francia e le Nazioni Unite siano state informate da Gbagbo stesso delle intenzioni del governo. Pare che la sera prima dell’attacco, in una telefonata riportata da François Soudan su Jeune Afrique, Jacques Chirac abbia cercato di convincere il presidente avoriano a desistere, senza successo. «Se non lascio mano libera ai militari – dice Gbagbo – questi finiranno per rivoltarsi contro di me».
Il 4 e il 5 novembre gli aerei avoriani, due Sukhoi-25, decollano dall’aeroporto di Yamoussoukro e bombardano le aree controllate dai ribelli di fronte a 5 mila peacekeepers delle Nazioni Unite e a 4 mila uomini della Licoe che restano a guardare. Solo i caschi blu marocchini si attivano per impedire alla fanteria governativa di forzare la zone de confiance e scontrarsi direttamente con le Forces Nouvelles.
Il 6 novembre, l’aviazione avoriana però si spinge oltre: durante un’incursione su Bouaké, uno dei due Sukhoi punta sul Liceo Descartes – che ospita una caserma della Licoe – e sgancia una bomba. Il bilancio è di 9 morti tra i militari francesi, a cui si aggiunge un civile americano, impegnato in una missione umanitaria. «Ho visto i militari francesi correre dappertutto, gridare e piangere – racconta padre Gilles, della diocesi di Bouaké -; c’erano uomini a terra con ferite e ustioni, un caos generale».
La reazione francese è immediata: il generale Henri Poncet, comandante della Licoe e responsabile nel 1994 dell’evacuazione dei francesi dal Rwanda, ordina l’immediata distruzione dell’aviazione avoriana. Appena i due velivoli atterrano all’aeroporto di Yamoussoukro, partono i missili che li distruggono. Insieme al Liceo Descartes e ai due Sukhoi vanno in frantumi le relazioni cordiali tra Francia e Costa d’Avorio, al punto che Chirac non telefonerà a Gbagbo nemmeno per fargli le condoglianze per la perdita del padre.
Abidjan insorge la mattina dopo: la voce del leader dei Jeunes Patriotes, Blé Goudé, tuona in tutte le radio. «Mostrate la vostra dignità – grida agli avoriani -. Se state mangiando, fermatevi. Se state dormendo, svegliatevi. Tutti all’aeroporto, tutti alla base militare francese!». È la fine. I francesi sono diventati i cobelligeranti che hanno fomentato la guerra per continuare il pillage (saccheggio) della Costa d’Avorio. La mattina dell’8 novembre i militari francesi, che stanno seguendo le operazioni di evacuazione dei civili all’Hotel Ivoire, si trovano di fronte a una folla inferocita e reagiscono aggravando la loro posizione.
«Si sono levati in volo due elicotteri francesi – racconta un testimone italiano che vuole rimanere anonimo, ma la sua versione è suffragata da un rapporto di Amnesty Inteational – e hanno iniziato a sparare sulla folla per tenerla lontana. Ufficialmente ci sono stati 60 morti, ma io ho visto i francesi sparare migliaia di proiettili su una folla compatta di migliaia di persone e secondo me le vittime sono molte di più».

FINE DELLA FRANCIA IN AFRICA

Comunque siano andate le cose, qualunque sia il numero di morti, la fretta di seppellirli si rivela più forte del bisogno di un conteggio: a distanza di pochi giorni tutte le parti in causa, dai francesi al governo avoriano, iniziano a sgonfiare gli eventi. «La paura di un nuovo incontrollato genocidio rwandese – scrive ancora Hofnung – aleggiava nell’aria. In quei giorni la radio avoriana fu ribattezzata Radio Milles Lagunes sulla falsariga della rwandese Radio Milles Colines che incitava alla strage dei tutsi». Gbagbo stesso moltiplica gli appelli alla calma, anche se non smette di parlare di armate di occupazione e di una regia francese nei colpi di stato.
La fine ufficiale degli scontri, peraltro, non ha restituito ai francesi il loro prestigio. L’inaugurazione dell’enorme ambasciata americana ad Abidjan è forse il simbolo più evidente del passaggio di testimone. «La voglia di America degli avoriani è maggiore dell’interesse mostrato dall’amministrazione statunitense per la Costa d’Avorio – si legge nel libro di Hofnung – George Bush infatti non ha voluto scontrarsi direttamente con gli interessi francesi e non ha mai voluto ricevere Laurent Gbagbo alla Casa Bianca, ma è solo questione di tempo».
Oltre a ciò Washington ha fatto escludere il Paese degli Elefanti dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act), che promuove gli scambi economici tra Usa e Africa, almeno fino a quando la situazione non si sarà regolarizzata.
La Francia comunque sta perdendo terreno e il rifiuto di Bush a Gbagbo viene letto più come un atto di clemenza verso Parigi che un avvicinamento tra le due potenze. «Il declino della Francia – conclude Hofnung – è legato alla fine di una generazione di politici francesi nati in Africa nel periodo coloniale e alla fine di una generazione di dinosauri africani che con la Francia facevano affari».
Le grandi aziende francesi che per anni hanno agito sul continente nero stanno registrando perdite economiche per milioni di euro e, al di là delle reali responsabilità di Parigi, molti africani sono ormai convinti che i francesi siano un manipolo di bianchi attaccati ai loro privilegi. Un nemico che ostacola lo sviluppo del continente.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Caccia allo straniero

Il dramma degli «allogeni»

Tollerati durante il periodo d’oro dell’economia avoriana come manodopera nelle piantagioni di cacao, migliaia di immigrati burkinabé, maliani, togolesi, senegalesi e guineani, che da 50 anni vivono in Costa d’Avorio, oggi sono diventati «les allogènes», gli stranieri naturalizzati, e sono considerati una minaccia per le ricchezze della ormai non più ricca Costa d’Avorio.

La strada ombrosa che attraversa palmeti e piantagioni di cacao tra la città di Gagnoua e il villaggio di Sago è fatta di fango. Ogni giorno le enormi ruote dei camion che la percorrono scavano la terra, creando buche profonde che si riempiono d’acqua anche durante la stagione secca, diventando piscine infestate di zanzare. Il fango rosso è appiccicoso e non si stacca più di dosso. Ne sono pieni i pneumatici dei camioncini, delle vecchie automobili e delle biciclette che ci passano sopra, i sandali di quelli che camminano e i risvolti dei pantaloni degli uomini.
È sporco di fango anche il militare che presidia l’entrata del villaggio di Gueyo. I suoi stivali però sono nuovi e lucidi, segno questo che le coltivazioni di cacao che lo circondano portano ricchezza a tutti. Ferma i pochi turisti di passaggio per scambiare due chiacchiere e consiglia di non proseguire dopo il tramonto. «Ci sono i coupeurs de route – dice -, banditi che approfittano della cattiva condizione della strada per intrappolare e assalire chi passa».
Anche questo è un segnale di ricchezza: i commercianti che vengono a comprare il cacao girano per la foresta con in tasca moneta contante. Parecchia. «Un chilo di cacao – spiega padre Silvio Gullino con un accento ligure, rimasto intatto nonostante 20 anni di Africa – vale sui 350-400 cfa, mezzo euro. E visto che gli acquisti vengono fatti sull’ordine della tonnellata non è difficile capire quanto denaro circola in questa zona».

Ma il cacao non richiama solo i ricchi commercianti avoriani. Negli anni ha attirato decine di migliaia di lavoratori stranieri che si sono tuffati a testa bassa nelle operazioni di raccolta. Durante il periodo dello splendore economico, la Costa d’Avorio ha conosciuto un tasso di immigrazione che superava il 25% (a fronte di quello italiano del circa 3%) e, in 40 anni, è passata da 3 milioni di abitanti ai 20 milioni di oggi.
«Oltre tre quarti dei fedeli nelle cappelle intorno a Sago sono di origine burkinabé – chiarisce padre Jean Benedetti – sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e la foresta si è popolata di villaggi. Molti di loro lavorano per qualche anno in Costa d’Avorio e poi tornano nelle loro case d’origine, altri sono qui da molto più tempo».
Nessuno si è mai preoccupato della presenza di questi immigrati. Anzi. Finché hanno lavorato nelle piantagioni di cacao e hanno permesso all’economia avoriana di crescere a ritmi costanti erano tollerati. «Oggi le cose sono cambiate – spiega Maurizio Crivellaro di Inteational Rescue Committee -. Con la recessione economica degli anni ‘90, molti avoriani che si erano trasferiti in città per lavorare come impiegati o funzionari sono restati senza lavoro e sono tornati nei loro villaggi d’origine, trovando le terre che erano dei loro padri occupate da altre persone».
A 400 km da Sago, nel villaggio di Duékoué gli abidjanesi di ritorno hanno assalito con le armi i lavoratori di origine burkinabé che lavoravano nelle piantagioni. Il risultato è stato disastroso: a causa delle scarse conoscenze agricole gli ex impiegati hanno danneggiato le fave di cacao, facendo precipitare la produzione della zona da 3 mila tonnellate a meno di 500 l’anno.
D i fronte alla crisi politica e alla recessione, molti avoriani hanno trovato un capro espiatorio proprio in quei burkinabé e in quei maliani che prima avevano fornito parte della manodopera su cui si basava l’architettura economica del paese. «Siamo diventati les étrangers, gli stranieri – dice Idrissa Zungurane, un vecchio dioula di origine burkinabé, che ha passato più anni in Costa d’Avorio che nella sua madrepatria – perché i gueré (una delle etnie avoriane di maggioranza) sono gelosi di quello che abbiamo guadagnato onestamente con il nostro lavoro e usano le milizie per cacciarci dalle case che ci siamo costruiti. Sono razzisti».
Ma le accuse di razzismo non sembrano toccare i giovani avoriani. «Sono xenofobo: e allora?» è lo slogan che si sono fatti stampare gli studenti di Abidjan sulle magliette, quando due anni fa hanno sfilato per le strade della metropoli per la prima volta, al seguito dei Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé, leader delle milizie ultranazionaliste e capo indiscusso del movimento studentesco.
«La presenza straniera – grida continuamente ai suoi studenti il trentenne Blé Goudé, che sfoggia anche in piazza impeccabili completi gessati, impreziositi da cravatte colorate – è una minaccia per la purezza della razza avoriana e per tutto il paese. Cacciamo gli stranieri!». Il più citato da Blé Goudé nelle sue agorà improvvisate è il presidente «de l’Afrique digne», il rwandese Paul Kagame, l’uomo che ha saputo cacciare i francesi e gli stranieri.
«Da qualche tempo durante le riunioni dei Jeunes Patriotes – aggiunge Ehouman Kassy, corrispondente da Abidjan di Afrique Magazine – viene proiettato il documentario Touez-les tous! (ammazzateli tutti), in cui scorrono le immagini del genocidio rwandese. Secondo i leader degli studenti, tutto ciò serve per sensibilizzare la gente alle mostruosità della guerra civile, secondo altri per dimostrare ai nuovi adepti che si può compiere un massacro sotto gli occhi della comunità internazionale e delle Nazioni Unite senza preoccuparsi delle conseguenze».

A rafforzare la tesi di Kassy, il totale disorientamento dei caschi blu della Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) all’inizio di gennaio, quando un gruppo non identificato di combattenti ha fatto razzia nel villaggio di Kahin, uccidendo quasi 40 persone sotto gli occhi di alcuni peacekeepers, nel bel mezzo della zona cosiddetta de confiance. «Si è trattato di un gruppo armato di burkinabé esasperati dalla situazione – dice James Copnall della Bbc – che hanno deciso di vendicarsi delle violenze subite recentemente dai militari avoriani. Da 7 anni in Costa d’Avorio si sta ripetendo la storia di Yopougon», il quartiere di Abidjan dove si è verificato il primo massacro.
Nel 2000 un gruppo di poliziotti irruppe nel quartiere di Yopougon e uccise oltre 50 dioula, i cittadini avoriani di origine burkinabé o maliana, accusati dalla radio e da tutti i giornali di essere i colpevoli della recessione economica. «Fu orribile – raccontavano i testimoni dell’ecatombe -. Per salvarci ci siamo dovuti nascondere sotto i cadaveri dei nostri familiari mentre i poliziotti continuavano a sparare».
La vendetta non tardò ad arrivare: due anni dopo, durante la guerra civile, una sessantina di gendarmi e le loro famiglie furono catturati da un gruppo di dioula ribelli e furono passati per le armi al grido di «ricordatevi di Yopougon: adesso tocca a voi».

Nella zona di Sago non si sono verificati massacri ma la situazione è molto tesa. «Nelle nostre parrocchie – dice padre Silvio – non ci sono state violenze di massa, ma ogni volta che uno dei nostri catechisti di origine burkinabé si deve spostare tra un villaggio e l’altro nella foresta, la polizia e i militari gli rendono la vita difficile: lo minacciano e gli estorcono soldi».
Sulla costa gli allogènes di etnia dioula, mossi, krumen e fante, che in passato vivevano nei villaggi della foresta nelle piantagioni di cacao, si sono riuniti in un’enorme baraccopoli alla periferia  di San Pedro «e da quando è iniziata questa guerra – dice Maurice, le cui cicatrici rituali sul volto rivelano una provenienza burkinabé – non siamo più né avoriani né stranieri. Siamo dei disoccupati».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Chi comanda in Internet?

Le mani sulla Rete (2)

Quale «governance» occorre dare a internet? Questo slogan è stato il
tema di un incontro svoltosi recentemente (novembre 2006) ad Atene,
sotto l’egida delle nazioni Unite. Esponenti della società civile e
policy makers si sono incontrati per decidere da chi debba essere
guidata l’internet del futuro.

Il mito dell’anarchia di internet
È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo,
«governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una
rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una
periferia. Ma l’idea di un’internet egalitaria nella struttura, capace
di sfuggire a controlli e pressioni estee, non è che un mito. In
realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta
rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di
potere.
Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi
governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di
molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è
cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete,
capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società
civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio
privo di confini nazionali.
Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in
balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che,
ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento.
Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso
delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello
politico – economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la
distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non
equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo
tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente
vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo
politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.
Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta
di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di
computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di
connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità
di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un
valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di
dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare
attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali,
altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini
esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese
possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi
facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza
politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche
anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della
Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel
cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.

Tutto il potere di «Icann»
Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un
formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali.
Icann (Inteet Corporation for Assigned Names and Numbers) è
l’istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il
custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un
indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere
paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i
computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una
determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si
precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui
torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di
quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera
Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano
perfino l’esistenza.
Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa
di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato
attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella Califoia,
formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta
a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente
condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna
trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte
chiuse.
Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di
internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di
eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e
Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa
Icann, mentre in Europa e nell’America del Nord, dove il dibattito
attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due
candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri
particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu
sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero
ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla
società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste
mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano
l’istituzione nel caos più completo.

Nelle mani degli Stati Uniti
Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a
discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po’
più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense,
preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione
di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e
ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann,
parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro,
un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina
stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un
organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare
l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione,
tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci
sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa
essere più snella e meno burocratica dell’attuale Icann. Dall’altra vi
è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento
nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare
soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da
parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le
consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria
rete internet.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Se New York vale l’Africa

La «frattura digitale» (digital divide)

Non molto tempo fa tutti parlavano di «villaggio
globale». Oggi, dopo il successo delle nuove tecnologie, si discute di
«digital divide». Per capire, è sufficiente un semplice dato: soltanto
lo 0,3% degli utenti internet (i cosiddetti «navigatori») vive nel Sud
del mondo. Perché esiste la «frattura digitale»? Essa rappresenta una
priorità come altri bisogni? Ovvero: vale la pena colmarla?

Una delle questioni più invocate nell’agenda del recente Summit
dell’Onu sulla «Società dell’informazione» (World Summit on the
Information Society, Ginevra 2003 – Tunisi 2005) è stata quella
relativa al «digital divide» (divario digitale), un termine con cui ci
si riferisce alle disparità nella possibilità di accedere alle
tecnologie e alle risorse dell’informazione e della comunicazione, in
particolare internet. È anch’esso uno dei frutti perversi della
globalizzazione, in particolare del processo di digitalizzazione
dell’economia e della società che, ben lungi dal trasformare il mondo
in un villaggio globale, ha contribuito a differenziare e allontanare
individui e strati sociali, aree rurali e zone urbane, paesi ricchi e
paesi poveri.
È di queste settimane la notizia che gli utenti internet nel mondo
avrebbero raggiunto il miliardo di persone, e già sono partiti
innumerevoli piani per connettere «il secondo miliardo». Tuttavia, non
sarebbe male astenersi qualche momento dal fantasticare, per osservare,
invece, come si distribuisce, nel mondo, il primo miliardo di
navigatori. Secondo i dati di Nua Inteet Surveys, un’agenzia che si
occupa di monitorare a livello mondiale lo sviluppo della rete internet
e l’utilizzo che ne viene fatto, la grande maggioranza della
popolazione del mondo è ancora priva del tutto dell’accesso a internet.
L’88% degli utenti vive nei paesi industrializzati, contro il solo 0,3%
che abita nei paesi poveri. Per riflettere sull’enormità delle
disuguaglianze esistenti, si ripete spesso che vi sono più connessioni
internet nella sola città di New York che in tutto il continente
africano, mentre vi sono più nodi di accesso (host) in un paese poco
popolato come la Finlandia che in tutto il Sud America messo insieme.

INTERNET O ACQUA E MEDICINE?
Se osserviamo la distribuzione geografica, scopriamo che Stati Uniti e
Canada insieme (Nord America) assommano un terzo degli utenti di tutto
il mondo, pur rappresentando solamente il 5% della popolazione
mondiale; l’Africa sub-sahariana, per contro, possiede l’1,1% degli
utenti internet, nonostante nel continente viva l’11% della popolazione
mondiale. Occorre poi prendere queste cifre, di per sé comunque
esplicite, con estrema cautela: i già pochi utenti internet africani,
infatti, sono concentrati quasi interamente (il 58%) nel solo
Sudafrica, che non è certo un paese in via di sviluppo, mentre gli
utenti asiatici sono quasi tutti circoscritti al Giappone e alle ricche
«enclave» di Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, tagliando
fuori la quasi totalità degli abitanti della popolosa Cina continentale.
La frattura risultante è certamente una sfida più complessa di quanto
appaia da queste cifre, altrimenti non si spiegherebbe il grande
fiorire di iniziative, finalizzate a «colmare» il divario digitale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un impegno intensificato, da
parte dei colossi delle tecnologie dell’informazione e delle grandi
compagnie mondiali delle telecomunicazioni, in favore di una rapida
diffusione delle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo. Ad esso
si sono affiancate le rumorose proteste di coloro che, in occasione dei
vari vertici inteazionali, bruciano sulla piazza i computer
portatili, sostenendo che «il Terzo Mondo ha bisogno di acqua e di
medicine, più che di nuove tecnologie».
Ciascuna delle due opposte reazioni pecca di eccessiva superficialità:
le grandi multinazionali tecnologiche faticano a comprendere che il
problema reale non è quello di incentivare l’utilizzo delle tecnologie,
bensì quello di subordinarle agli obiettivi di sviluppo umano; i
contestatori di piazza, invece, non sanno valutare appieno il ruolo
dell’informatica nei processi di sviluppo e la dimensione sempre meno
collaterale che questa sta assumendo. Oggi il cosiddetto «cyberspazio»,
lo spazio elettronico generato dalle reti informatiche, non è più uno
spazio autonomo, con dinamiche di funzionamento proprie, ma riflette i
valori e le prerogative della realtà concreta, con gli stessi rischi di
vedersi affermare modelli di sviluppo insostenibile.

LE BARRIERE DEL «DIGITAL DIVIDE»
Le barriere cui oggi assistiamo in materia di accesso alle informazioni
e alle risorse informatiche non si sono prodotte per caso, ma sono il
risultato di alcuni precisi fattori di tipo tecnologico, culturale, ed
economico. Vediamo dunque di che cosa si tratta.

• Le barriere dell’analfabetismo e delle risorse energetiche
Molti saranno forse sorpresi nell’apprendere che il primo grande
ostacolo per l’accesso alle tecnologie dell’informazione non ha nulla a
che vedere con la tecnologia: si tratta dell’analfabetismo, che
colpisce la quasi totalità delle persone che vivono al di sotto della
soglia di povertà, privandole degli strumenti linguistici per scrivere,
leggere e comunicare le proprie esperienze.
Il secondo ostacolo è rappresentato dalla distribuzione delle risorse
energetiche. Nel mondo ci sono più di due miliardi di persone che non
possono accedere all’energia elettrica e altrettante che la possono
utilizzare solo sporadicamente. Anche per queste persone, come è ovvio,
le cosiddette «autostrade dell’informazione» risultano inaccessibili.

• Le barriere infrastrutturali
Il fatto di possedere un’istruzione di base e di trovarsi vicino a una
presa di corrente non è però sufficiente per «entrare in rete»: sono
necessarie anche delle adeguate infrastrutture telefoniche e almeno un
computer. Anche per quanto riguarda tali indicatori, le disuguaglianze
sono evidenti. Per dirla con una celebre battuta dell’attuale
presidente del Sudafrica: «la metà della popolazione mondiale non ha
ancora fatto la prima telefonata».
Molti sono ingenuamente convinti che queste siano le uniche barriere
rilevanti. Anche le organizzazioni inteazionali si servono
abitualmente del termine «e-readiness» (prontezza digitale) per
alludere alla dotazione infrastrutturale di un paese, intendendo
implicitamente che, una volta recuperati i ritardi infrastrutturali, un
paese possa dirsi «pronto« a fare il suo ingresso nel mondo digitale.
• La barriera dei costi
In Italia, perlomeno da qualche anno, non si pensa più al costo
dell’accesso a internet come a una barriera; tuttavia, nel Sud del
mondo, la bassa densità di utenti non consente di sfruttare, come al
Nord, collegamenti specializzati a costi forfetari e rende assai
costosa una connessione internet. Questo, aggiunto ai costi per gli
spazi web su cui ospitare le pagine ipertestuali, ai costi delle
periferiche e ai tassi delle tariffe doganali sui prodotti delle
tecnologie dell’informazione, costituisce una grave forma di
emarginazione dalle strutture di comunicazione.

• Le barriere economiche
Oggi il settore delle telecomunicazioni nei paesi del Sud del mondo si
trova stretto in una morsa. Da una parte c’è il settore pubblico, che
procede arrancando. Dall’altra parte ci sono invece le imprese,
assetate di nuovi profitti. I paesi in via di sviluppo costituiscono,
in questo momento, il più grande mercato per l’investimento in
telecomunicazioni e di certo quello che sta crescendo in maniera più
vistosa. Da qualche tempo, in risposta a queste spinte, è stato avviato
un brutale processo di liberalizzazione, che ha portato a cospicui
investimenti nelle aree più redditizie del Sud (i centri urbani e la
clientela più ricca) e ha progressivamente emarginato le aree rurali e
le popolazioni più povere.

• La barriera dei contenuti
I paesi poveri, nonostante i massicci tentativi di creare punti di
accesso all’informazione («edicole multimediali», «Inteet caffè»,
etc…) continuano a rimanere consumatori passivi di informazioni
provenienti dal Nord del mondo. Anche il fattore linguistico accentua
questa frattura, dal momento che più dell’80% delle pagine web sono in
inglese, contro il 10% o meno della popolazione globale che parla
l’inglese come lingua madre.

• La barriera della censura
Forse non tutti sanno che il Patto Internazionale delle Nazioni Unite
relativo ai diritti civili e politici possiede un articolo, l’art. 19,
che enuncia un vero e proprio «diritto a comunicare». Tale diritto
resta largamente disatteso e l’ostacolo più appariscente è
rappresentato dalle restrizioni e dalle censure che sono state imposte
da diversi stati. L’organizzazione Reporters sans Frontières ha
elaborato una lista nera di paesi dichiarati «nemici di internet». Essi
si sono macchiati di gravi violazioni, per esempio stabilendo un
monopolio di stato sulla foitura di accesso alla rete, controllando i
provider privati, filtrando siti web ospitati da server stranieri,
violando la confidenzialità degli scambi privati su internet, infine
lanciando procedimenti penali contro utenti della rete.
• La barriera della multimedialità
L’ultima delle barriere è probabilmente la meno considerata e la più
insidiosa: si tratta della multimedialità. Oggi, le pagine web a cui
accediamo normalmente sono sempre più cariche di multimedialità,
rendendo le pagine internet praticamente illeggibili per molte persone,
anche nel Nord: innanzitutto per le migliaia di persone disabili, che
possono utilizzare il computer nella sola modalità testuale e che sono
costrette a interagire attraverso tastiere braille o dispositivi di
sintesi vocale. In secondo luogo per gli abitanti del Sud, che
dispongono di collegamenti internet lenti e realizzati su linee
telefoniche fatiscenti. Ricordiamo che multimedialità è sinonimo di
collegamenti veloci e costosi e che in tali paesi la velocità di
trasmissione dei dati via modem è ancora troppo bassa per utilizzare
l’audio e il video nella stessa modalità intensiva dei paesi del Nord.

PER UNA NUOVA SOBRIETÀ
Il nodo della questione non è quello di aumentare
indefinitamente la capacità delle reti di trasmissione («banda larga»)
che, essendo di proprietà dei grandi colossi multimediali, rimarranno
estremamente costose e la cui accessibilità già oggi pone seri dubbi a
coloro che si occupano di «libertà in rete». Una risposta più adeguata
dovrebbe portarci a recuperare la dimensione etica, riscoprendo una
nuova sobrietà nella comunicazione, che ci permetta di esprimere i
contenuti informativi che desideriamo senza eccedere nel traffico di
dati.
Forse la sfida tecnologica più grande è, paradossalmente, quella di
fare «marcia indietro», impegnandoci a inseguire un modello di
formazione online veramente sostenibile, caratterizzato non da un
eccesso di informazione multimediale ad alto consumo di risorse, ma da
una nuova sobrietà nella comunicazione e nell’utilizzo degli strumenti
che abbiamo a disposizione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Internet, ma non per tutti

Lavoro da diversi anni per una Organizzazione non governativa (Ong).
Siccome mi occupo di informatica, molti sono convinti che il mio lavoro
consista nel portare le nuove tecnologie nei paesi più poveri. Qualcuno
ne ricava motivi di entusiasmo, qualcun altro di sospetto.
I primi sono abbastanza facili da identificare: i loro discorsi
contengono immancabilmente elogi sperticati a quella grande
«rivoluzione tecnologica» che il Nord ha già sperimentato e che il Sud,
presto o tardi, potrà godere. Agli apprezzamenti seguono, quasi sempre,
proposte di pacchetti tecnologici «chiavi in mano», pronti per essere
esportati nel Sud. A costoro rispondo che i poveri non sanno che
farsene di tecnologie di punta, soprattutto se sono state ideate e
prodotte nei laboratori occidentali. Cercherò di spiegae il motivo
nella prima parte (Per una tecnologia dal volto umano) di questo
dossier, percorso da una domanda di fondo: come coniugare i supposti
benefici della società dell’informazione con quelli di un autentico
sviluppo umano?
I critici del mio lavoro, invece, sono più sfuggenti, ma non meno
categorici: la mia attività consisterebbe nel colonizzare i paesi del
Sud e nel soddisfare bisogni inesistenti: il Sud del mondo avrebbe
bisogno di medicine, di acqua e di scuole piuttosto che di informatica.
A costoro rispondo che hanno perfettamente ragione, ma che hanno
dimenticato due bisogni vitali: l’informazione e la comunicazione.
Nella seconda parte (L’informazione? Oligopoli e nuove povertà), grazie
a una rapida carrellata storica, cercherò di mostrare il faticoso
processo con cui la comunità internazionale ha preso coscienza dello
squilibrio mondiale nell’informazione e nella comunicazione,
presentando le svariate proposte – a volte brillanti, molto più spesso
fallimentari – che sono state poste in atto per arginare lo squilibrio.
Tuttavia, ci sono domande a cui è più complicato rispondere. Provengono
talvolta dagli stessi abitanti dei paesi poveri, che chiedono a gran
voce di non rimanere esclusi da quegli spazi di comunicazione, di
crescita umana e di democrazia che la rete per eccellenza, internet,
sta rendendo possibile. Per loro è già stato coniato il termine
«infopoveri» e si profila una minaccia del tutto inedita, indicata con
il nome di «divario digitale». Quali ne sono le caratteristiche? Come
riconoscere le forme di esclusione nella Rete? A coloro che non si
stancano di porre domande come queste, è rivolta la terza parte (Se New
York vale l’Africa) di questo dossier.

GianMarco Schiesaro

Il Glossario

Banda (larghezza di banda) – È la capacità
di trasmettere le informazioni: maggiore è la «larghezza di banda», più
veloce è la trasmissione. La cosiddetta «banda larga» permette l’invio
di segnali complessi, come quelli multimediali.

Browser – Programma di visualizzazione di contenuti, utilizzato per navigare nel web.

Codice sorgente – È un insieme di istruzioni scritte in un linguaggio di programmazione, in grado di far funzionare un programma.

Cyberspazio – Termine coniato dallo
scrittore di fantascienza William Gibson: è usato per fare riferimento
allo spazio formato dalla totalità dei documenti e dei servizi resi
disponibili in Rete.

Database – Raccolte di dati strutturati in modo da compiere ricerche logiche al loro interno e svolgere elaborazioni automatiche.

Dominio (nome di) – Nome utilizzato per identificare la posizione
elettronica e talvolta geografica di un computer. I nomi di dominio
hanno sempre due o più parti, separate da punti: quella a sinistra è la
più specifica e la parte a destra la più generale (i suffissi
statunitensi come .com, .org, .edu, .net, eccetera, o dei paesi come
.it).

E-commerce (e-business) – Si tratta di transazioni commerciali condotte a distanza attraverso la Rete.

Filtro – Software che permette di
effettuare, per esempio tramite parole chiave, una scelta dei contenuti
internet accessibili all’utente.

Hacker – Termine di uso comune per
identificare una persona con competenze tecniche tali da poter
penetrare nei sistemi informatici protetti. Coloro che si definiscono
«hacker», in realtà, operano in base a un rigoroso codice etico, il cui
principio fondamentale è quello di liberare il flusso della
comunicazione informatica e abbattee le barriere, differenziandosi
così dai pirati informatici, che vengono definiti «crackers».

Hardware – In un computer indica la
macchina, la componentistica fisica in opposizione al software (che
indica i programmi, la parte logica).

Inteauta (cybeauta) – Utente che naviga nei «mari» di internet.

Inteet Caffè (Cybercaffè) – Locale pubblico dotato di computer che consentono agli avventori di navigare in internet.

Modem – Dispositivo hardware che converte i dati informatici per la trasmissione degli stessi sulle linee telefoniche.

Motore di ricerca – Programma
raggiungibile attraverso la Rete e in grado di indicizzare e fornire su
richiesta dell’utente informazioni presenti su internet; strumento
indispensabile per effettuare una corretta e rapida navigazione.

Multimediale – Indica l’integrazione, su uno stesso supporto, di dati di diversa natura: testi, suoni, immagini.

Nodo – Singolo computer direttamente connesso alla Rete.

Provider (Inteet Access Provider) – Foitore di accesso a internet, società che fornisce collegamenti con internet.

Rete (la) – Sinonimo di internet.

Sistema operativo – Programma che controlla la maggior parte delle funzioni base di un computer.

Standard – Insieme di regole o di
specifiche che riguardano la progettazione di dispositivi informatici.
Possono essere di due tipi: gli «standard proprietari» sono quelli
proposti dalle società a pagamento, gli «standard aperti» sono quelli
resi pubblici e messi a disposizione di chiunque.

Telematica – Fusione delle parole
informatica e telecomunicazioni; indica l’insieme delle trasmissioni di
dati tra computer attraverso linee telefoniche o reti.

Word processor – Programma di scrittura che permette la composizione di testi.

GianMarco Schiesaro

Laureato in ingegneria elettronica presso l’Università di Padova, ha
poi conseguito il Master in Cooperazione allo sviluppo presso la
European School of Advanced Studies dell’Università di Pavia.
Successivamente, ha approfondito il tema del rapporto tra tecnologie e
formazione conseguendo il Master in Computer Mediated Communication
presso l’Institute of Education dell’Università di Londra.
Lavora da alcuni anni nel mondo della cooperazione internazionale,
occupandosi presso il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo)
dei progetti di e-leaing nei paesi in via di sviluppo, in particolare
in Albania, Kosovo e Libano.  È inoltre direttore del «Centro di
formazione per lo Sviluppo umano» del Vis, attivo nella formazione
online sui temi della cooperazione, della globalizzazione e dei diritti
umani.
Da alcuni anni si interessa della divulgazione delle tematiche relative
al «digital divide». Nel corso del 2003 è stato rappresentante della
società civile presso il ministero degli Esteri in vista della
partecipazione al Vertice mondiale delle Nazioni Unite sulla Società
dell’Informazione. Ha collaborato con il secondo canale della Radio
svizzera italiana per la realizzazione di alcuni servizi radiofonici
sul tema del divario digitale.
Cura infine il modulo di «Cooperazione allo sviluppo» presso il Master
in Educazione alla pace dell’Università di Roma Tre ed è docente del
corso: «Mass media e paesi del Sud del mondo». Ha pubblicato:
• La sindrome del computer arrugginito,  Nuove tecnologie nel Sud
del mondo tra sviluppo umano e globalizzazione, SEI, Torino 2003
• Formazione online e mondialità, all’interno del volume Tecnologie per
la didattica (a cura di Davide Parmigiani), Franco Angeli Editore,
Milano 2004.

Introduzione e cornordinamento di Paolo Moiola.

GianMarco Schiesaro




Per una tecnologia dal volto umano

Le nuove tecnologie: vanno sempre bene?

Inteet e le nuove tecnologie rappresentano una
rivoluzione, ma non hanno una valenza salvifica. A volte, nel Sud del
mondo (con l’Africa in testa) sono più utili una radio ed un telefono
mobile. Senza dimenticare che le grandi multinazionali tecnologiche non
sono associazioni benefiche. Semplicemente vogliono trasformare i
«poveri» in «clienti». Soltanto mettendo da parte la retorica e
ragionando con senso critico, le nuove tecnologie potranno essere
d’aiuto ai paesi poveri.

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre
(Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire
l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna
e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai
riflettori della modeità e scorre sui binari tranquilli della
tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo
sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà,
tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso
un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo
online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a
questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto
il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modeità non deve stupire: internet
sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e
le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto
è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un
ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture
indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale,
circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di
popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global
Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura
di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete
mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad
internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica
satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con
l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli
standard stabiliti dalle organizzazioni inteazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via
internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di
prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi
in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di
cataclismi naturali.

SE LA SALUTE  VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di
inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato.
Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per
cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti:
la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud
l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione
sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui
trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché
non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro
diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989,
offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30
paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali
servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere
adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni
alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico
affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle
ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono
sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un
software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a
raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà
attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio
spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale
HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene
Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese.
Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità
infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina –
sostiene Maria – è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi
attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento
dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe
un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato
nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate
di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono
certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa.
Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico
successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni,
fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è
bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è
valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus,
inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen
Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la
sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha
esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del
Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale,
solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un
telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani.
La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata.
Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale,
molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso
canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per
garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari
frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una
regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri
contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai
prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che
appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le
chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai
contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a
ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più
avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e
moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli
ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri
Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con
quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org)
trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici
domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto
di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database
contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di
accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per
effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata
impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto
quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse
infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo
alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia
elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano
replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo
strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più
che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i
cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di
oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove
tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro
immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle
raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel
mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti,
che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri
stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella
pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia
per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno
di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano
e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet… Ci
sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La
tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in
Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè…».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e
Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Inteet) serve
a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere
delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società
siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei
casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cornoperative locali,
che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi
correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi:
dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al
turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi
potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere
accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché
delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è
necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni
in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze
rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle
e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé
del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i
poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione.
Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che,
grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di
gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno
ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità
delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con
l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società
dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono
con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo
strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità
internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a
internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare
di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in
una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e
nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché
dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in
Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta
da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba
necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di
migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi
di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali
programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le
uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di
utenti contemporaneamente. Perché – è la domanda ricorrente – non
incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di
base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all’ingresso in massa del mondo del
business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di
trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in
partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti»,
destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente)
a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività
delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di
retorica e da un’assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni
volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno
sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della
tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una
riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un
valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le
finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto
sulle fasce più deboli della popolazione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Dal «computer a manovella» al «simputer»

Tecnologia e cultura

Durante il «Vertice mondiale sulla Società dell’informazione», svoltosi
a Ginevra nel dicembre 2003, una novità del tutto particolare catturò
l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo non poco sogghignare i
giornalisti presenti. Era quello che venne prontamente battezzato
«computer a manovella», in realtà un ambizioso progetto di computer a
basso costo. Completamente rivestito da gomma a prova di urto (per
resistere a condizioni ambientali avverse) includeva anche una
manovella per fornire energia in quegli angoli del globo dove la
corrente elettrica è ancora un’utopia. Ogni minuto di manovella
equivale a dieci minuti di funzionamento. Tale computer, secondo i suoi
ideatori, avrebbe dovuto costituire una speranza di inclusione
tecnologica per molte persone povere del Sud.
Molto più significativo, in quanto maggiormente attento alla dimensione
culturale, si era rivelato il progetto «Simputer», un piccolo portatile
a basso consumo in grado di «leggere» il testo trovato sulle pagine web
in un certo numero di lingue native indiane e dunque particolarmente
adatto al gran numero di utenti analfabeti presenti in quell’area
geografica. Il segreto risiede in un apposito software, che consente al
Simputer di riprodurre ben 1200 suoni elementari, adeguati alla maggior
parte delle lingue indiane.
La differenza qualitativa tra il «computer a manovella» e il «Simputer»
risulta lampante se si pensa che il primo è stato concepito nei
laboratori del Media Lab di Boston, mentre il secondo è stato creato da
un nutrito gruppo di scienziati e ingegneri indiani di Bangalore. La
dimensione culturale appare imprescindibile in ogni creazione
proveniente dall’India, crogiolo di lingue e di culture. Ed è ancora
più rilevante nel caso del software che, ben lungi dall’essere un
prodotto tecnologico, è soprattutto il frutto di un lavoro culturale,
di un lungo processo artigianale messo in moto dall’ingegno dei
programmatori.

Il software: lingue, icone, colori
Chi non fosse convinto dell’importanza della dimensione culturale del
software, può provare il seguente esperimento. Apra il proprio browser
(un software), si colleghi a internet e utilizzi un motore di ricerca
(un altro software), magari Google, di gran lunga il più comune. Sarà
sorpreso nel notare che è possibile effettuare ricerche in una lingua
come l’estone, parlata da nemmeno un milione di individui, mentre non è
possibile ottenere risultati nella lingua hindi, che conta circa 400
milioni di parlanti. Come è possibile? La causa è da ricercarsi nella
mancanza di uno standard univoco nella codifica della lingua hindi, a
sua volta frutto di una disattenzione tecnologica nei confronti di
quest’area culturale.
Pressoché tutti i linguaggi di programmazione, i sistemi operativi e le
applicazioni maggiormente diffusi a livello mondiale sono scritti,
almeno in origine, nella lingua inglese. L’uso di tali programmi da
parte di persone che non parlano la lingua inglese richiede un processo
di adattamento del tutto particolare, chiamato «localizzazione».
La localizzazione è ben più che una semplice traduzione dalla lingua di
origine a quella di destinazione. Essa richiede una profonda capacità,
da parte dei programmatori, di adattare le proprie creazioni alla
cultura dell’utilizzatore, di cui la lingua non è che una delle
espressioni. Pensiamo, per fare qualche esempio, a quanta attenzione
debba essere prestata alle icone grafiche, ormai componente
irrinunciabile dei modei sistemi operativi. Uno stesso simbolo può
assumere significati completamente diversi in un’altra cultura. Oppure
si pensi al linguaggio dei colori: mentre il rosso indica «stop» o
«pericolo» nei paesi occidentali, esso può significare «vita» o
«speranza» in altre culture.

Gli errori di Microsoft
Un altro esempio è dato dalla tipologia di scrittura di una lingua: i
caratteri utilizzati dall’alfabeto, la particolare modalità di
scorrimento del testo. Ugualmente importanti sono il modo in cui
vengono scritte le date, il calendario adottato, le modalità di ricerca
utilizzate dai dizionari incorporati nei programmi di videoscrittura.
Questi aspetti sfociano facilmente nella dimensione politica: i bambini
delle regioni andine del Perù dovrebbero usare programmi localizzati in
quechua o in spagnolo? Le scuole e gli uffici di Calcutta dovrebbero
adottare software in bengali, in hindi o in inglese?
Nel 1992 Microsoft introdusse in Cina programmi software localizzati in
lingua cinese. Questi però, piuttosto maldestramente, erano stati
impostati con un insieme di caratteri utilizzato nella Cina
pre-rivoluzionaria, oggi non più in vigore se non a Taiwan. I
rappresentanti della Cina Popolare si ritennero offesi dal fatto che
una decisione così importante fosse stata presa negli Stati Uniti,
senza il coinvolgimento di agenti locali. I rapporti tra l’azienda
informatica e le autorità cinesi diventarono così problematici e si
deteriorarono rapidamente negli anni successivi.
Questo esempio dimostra come una decisione tecnica in apparenza banale
abbia assunto un significato politico e culturale che non si era saputo
prevedere e che ha condotto in seguito a pesanti ripercussioni di
carattere economico: l’azienda leader mondiale nel campo del software è
stata di fatto esclusa dal più grande mercato del mondo.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Le idee, prigioniere dei «brevetti»

La mercificazione della conoscenza

Che ci piaccia o no, la conoscenza è ormai diventata una merce. Ha
perso il carattere di bene pubblico, liberamente condivisibile, per
assumere i tratti di un bene privato, cui associare un valore monetario.
Le idee, una volta trasformate in merce, diventano proprietà di chi
riesce ad accaparrarsele per primo, anche quando gli «inventori» sono
altri: ed ecco che, con una sbalorditiva disinvoltura, grandi
multinazionali si impadroniscono di musiche di strada, suonate da
secoli dalla gente comune, oppure brevettano spudoratamente piante
medicinali esotiche, frutto di millenni di evoluzione. Un bene
vendibile poi, secondo meccanismi ben noti agli economisti, diventa più
prezioso se è anche scarso, dunque è bene che le idee rimangano ben
chiuse e sigillate, protette da eventuali malintenzionati.

Le trappole dei software proprietari
Qualcosa del genere sta accadendo con il software, uno dei prodotti più
puri e più complessi dell’ingegno umano. Nonostante la Convenzione di
Monaco, nel 1973, abbia stabilito che il software non si possa
brevettare, oggi, con una serie impressionante di provvedimenti
legislativi, si è riusciti a rendere legale il brevetto su una grande
quantità di programmi informatici. Il risultato è stato una crescente
diffusione dei «software proprietari», programmi chiusi non
modificabili dall’utente per essere adattati ai propri interessi e ai
propri bisogni. Parallelamente, si sono moltiplicati i divieti: per
esempio quello di accedere liberamente ad archivi digitali, dati di
biblioteche pubbliche e via dicendo.
Si comprende quanto questa tendenza sia dannosa, in modo particolare
per i paesi del Sud. Innanzitutto vengono vanificate le loro
possibilità di rilancio economico, legate proprio al software. Produrre
software, infatti, non richiede grosse infrastrutture e, soprattutto, è
legato ad investimenti in risorse umane, un elemento che è del tutto
abbondante nei paesi in via di sviluppo.
Inoltre per i più poveri, che dispongono soprattutto di computer
obsoleti, è diventato sempre più oneroso utilizzare software
proprietari, così come localizzare autonomamente i propri programmi
informatici, per adattarli alla propria lingua e alla propria cultura.
Non è più possibile accedere a pubblicazioni scientifiche online,
mentre quelle cartacee continuano a rimanere inaccessibili per motivi
di costo. Insomma, la conoscenza in formato digitale, che coincide
ormai con la quasi totalità della conoscenza disponibile al mondo, sarà
sempre meno accessibile. Le ragioni di tipo economico, come si vede, si
fondono con le esigenze di giustizia sociale: quando la proprietà
intellettuale viene estesa all’informazione, in gioco c’è un diritto
fondamentale come l’accesso all’informazione e la libertà di
espressione.

Le alternative del software libero
In queste condizioni lo sviluppo di standard tecnologici diversi è
ormai diventato un tema non più rinviabile. Negli ultimi anni è fiorito
un vero e proprio movimento alternativo: quello che si batte in favore
degli «standard aperti» (open source) e del «software libero» (free
software). Questo movimento è nato con un carattere del tutto
particolare, dato che è formato per lo più da tecnici e informatici, ma
ha assunto cifre talmente cospicue da non potersi più considerare un
semplice gruppo d’interesse settoriale: si tratta di circa 300.000
sviluppatori di software sparsi in non meno di 70 paesi. Il suo cavallo
di battaglia è costituito dall’idea che le risorse informatiche debbano
avere la massima circolarità e la massima accessibilità. Questa
singolare comunità di «programmatori idealisti» è animata da un’etica
nuova (ribattezzata «etica hacker»), un’etica di libertà, di altruismo
e di cooperazione. È la stessa etica che, in tempi passati, ha
consentito a internet (un tipico prodotto «open source») di svilupparsi
così rapidamente e di raggiungere la vastità delle dimensioni attuali.
Eppure il World intellectual property organization, l’organismo delle
Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale (www.wipo.int),
condizionato com’è dalle grandi corporations tecnologiche, si rifiuta
di riconoscere l’importanza del software libero (il software realizzato
secondo gli standard aperti) e di promuoverlo presso i paesi più
poveri. Al contrario, non fa che restringere ulteriormente, con
innumerevoli strumenti legali, la circolazione delle conoscenze
informatiche e la possibilità di accesso all’informazione digitale: per
questo motivo, è stato pesantemente criticato da un gruppo di paesi del
Sud (tra cui Brasile, Argentina e Sud Africa) che lo hanno richiamato a
perseguire gli obiettivi di sviluppo umano per i quali è stato fondato.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro