I temi degli studenti

Macerie televisive

Una domanda che si faranno in molti: ma le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore?
La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità e attesa, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati.
Palinsesti sommersi da valanghe di reality show tutti uguali: un gruppo di persone chiuse in un posto diverso, controllate dalla popolazione attraverso telecamere, che fanno prove, distruggendosi a vicenda, insultandosi, e all’arrivo di una becera maratona, vincono addirittura dei premi.
Oppure talk show dove lo scopo è intromettersi nella vita dei VIP, convinti che a tutti possano interessare gli amori, i fatti o le abitudini di attori o, addirittura, di politici. Purtroppo i documentari, i programmi di approfondimento giornalistico, o di cultura vengono trasmessi solo in seconda serata o alla mattina, nel fine settimana, facendo in modo di non urtare il tasso di ascolto di una rete.
Il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una TV demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli. Ma cosa la rende così “irresistibile”? Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva.

Roberta Panero

Quanti soldi buttati!

Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura.
Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse.
Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso sui nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale da Wild West e l’Isola dei famosi a Raidue, a Realitycorsos, e la Pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era susseguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana ecc… Se tutto si limitasse e finisse qua saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo e company con i concorrenti dei veri reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni.
È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grezzità dei programmi.  Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi di altre emittenti dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti. Quello che mi fa pensare di più e che allo stesso tempo mi sciocca maggiormente è il fatto che tutte queste porcherie viene fatto dietro lauto compenso, soldi buttati per vedere la gente rivoltarsi…
La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza, la voglia, il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza.

Denis Agostini

Quel telegiornale di «Italia Uno»…

La tv di oggi sta cambiando, cerca di adattarsi alle attenzioni ed ai bisogni dei giovani in particolare. Nei canali televisivi, da diversi anni ormai, vengono trasmessi reality show; il primo trasmesso in Italia, che ha spianato la strada ad un grande successo ai reality show in televisione è stato il Grande fratello. Negli anni successivi sono stati trasmessi diversi altri reality show, quali: L’Isola dei famosi, La pupa e il secchione, La fattoria e molti altri ancora. A mio parere, questi programmi sono stupidi, finalizzati unicamente a raggiungere un alto livello di odiens lasciando poco spazio ai programmi culturali sicuramente più intelligenti e rivolti maggiormente ad un pubblico generalmente adulto, ma che però riscuotono un minore livello di odiens e per questo spesso sono costretti a slittare o in seconda serata o nelle ore mattutine. La televisione spazzatura (o tv trash) provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le «pupe» vengono dipinte come «stupide» e i «secchioni» devono essere per forza «brutti»; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo «sfìgato» di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera. Oltre ai reality show, possono essere considerati «televisione spazzatura» tutti i programmi prodotti al solo scopo di raggiungere un alto livello di odiens che tralasciano alcuni aspetti fondamentali di una buona trasmissione, anche i telegiornali possono rientrare in questa categoria, per esempio quando i giornalisti sono «di parte» e lo fanno vedere o quando si assume un giornalista più in base all’ importanza del nome che alla bravura del soggetto: ne è un chiaro esempio Cristina Parodi, passata dal condurre varie trasmissioni come “Verissimo” al condurre il telegiornale di Canale Cinque oppure telegiornali che si preoccupano più di parlare di gossip e del mondo dello spettacolo che trattare i vari problemi che affliggono l’Italia e il mondo nella vita quotidiana, come ad esempio il telegiornale di Italia Uno.

 Marco Querro

La febbre del Grande Fratello

È ormai appurato e consolidato: la febbre Grande Fratello travolge tutti, favorevoli o meno, nel suo impeto distruttivo continuamente interrotto dagli spot pubblicitari: è inutile cercare di sfuggire all’attrazione irresistibile che questo programma della tv spazzatura esercita sul pubblico televisivo.
Marina, Roberta, Francesca, Pietro, Rocco, Salvo, Maria Antonietta, Sergio, Cristina, Lorenzo, aleggiano sopra di noi come i postumi di una sbornia, una sbornia architettata brillantemente da chi conosce bene l’indole umana, o più precisamente quella italiana: l’italiano guardone, pettegolo, moralista nei confronti della donna (vedi Marina, la «gattamorta») ed al contempo emulatore del grande Pietro Taricone, lo «sciupafemmine» che ha irretito la povera e indifesa Cristina, la quale pende dalle sue labbra, un italiano che s’illude di aver scoperto qualcosa di nuovo, un «Truman Show» in cui può interagire limitandosi ad alzare la cornetta del telefono (al modico costo di 1 Euro al minuto più scatto alla risposta), mentre non si accorge di una cosa che invece dovrebbe sembrare ovvia: quello che la tv ci propina sono le frustrazioni, le paranoie, la staticità della nostra vita, su cui purtroppo non possiamo agire così semplicemente.
Chi non si riconosce, o si vorrebbe riconoscere, in Pietro, il superpalestrato ma che è don Giovanni, o in Rocco, l’ambiguo e troppo sensibile, dalle argomentazioni deboli per le quali viene sempre preso in giro? Chi non vede se stessa in Cristina, così forte in apparenza ma in realtà vulnerabile e facile al pianto da una parola in su, oppure in Maria Antonietta, la docile Heidi della situazione, ma pronta a sfoderare una sensualità casalinga e poco credibile?
Laddove non ci riconosciamo, poi, siamo pronti alla critica: giudichiamo il comportamento di Roberta, spregiudicata e sempre sincera, dalla lingua tagliente, o quello di Marina, accusata di raggirare gli uomini né più né meno di quanto  lo faccia con le donne il «big Jim» Taricone, o la franchezza di Salvo che, ammette di aver bisogno dei 250 milioni delle vecchie Lire per sua moglie e sua figlia.
Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto.

Debora Manzo

Una tv per spettatori pigri e manipolati

La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura, si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni.
I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente di una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media e di contenitore di informazione. Gli stessi politici e anche la moglie dell’ex presidente della repubblica Ciampi hanno definito la televisione del nostro secolo una televisione che non offre spunti intellettivi alla gioventù causando così un immagazzinamento di notizie di tutti i generi senza permettere loro di effettuare una revisione, una selezione e una pulizia di esse.

Valentina Venturuzzo

Veline, letterine o schedine?

Nella tv spazzatura che abbiamo oggi, dove veline, letterine o schedine… tanto non fa differenza… si spogliano, fanno calendari…
Abbiamo programmi che ci fanno vincere soldi, reality che mettono in evidenza la profonda ignoranza di alcune persone e allora come poteva mancare un programma che ci permette di fidanzarci? Visto che fuori non ne abbiamo la possibilità, e quindi bisogna andare in un programma!
La domanda che ci si pone è perché delle ragazze e dei ragazzi di bell’aspetto devono andare in tv per fidanzarsi?
Le risposte sono tante: questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un «trampolino» di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. Oppure forse pensano che verranno invitati in altri programmi…
Toando sul discorso dei reality, ad esempio, la pupa e il secchione, che senso ha mettere dei ragazzi che nemmeno si conoscono, a dormire nella stessa stanza e addirittura nello stesso letto?
Ma oltre questo, che senso ha mettere in evidenza le profonde lacune di queste ragazze… che oltretutto sono anche laureate (cosa che mette in evidenza il livello della scuola italiana).
Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Anche se sei stupida puoi fare televisione». E sì perché queste «pupe» sono diventate in breve tempo le idole di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi.
Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari.

Alessia

Voglia di identificazione

La televisione, oggigiorno, è diventata un mezzo di comunicazione molto importante per tutti: attraverso la tv si può essere al corrente delle ultime notizie attraverso i telegiornali; si possono imparare «cose» nuove seguendo i documentari; se ci si sta annoiando, si può passare del tempo guardando cartoni, per i bambini, e programmi trash per ragazzi e adulti.
Ci si può quindi chiedere: a chi sono rivolte queste tre tipologìe di programmi? I telegiornali vengono seguiti da buona parte delle persone e sono idealizzati per mettere a conoscenza dell’uomo ciò che avviene quotidianamente all’interno e/o all’esterno della propria Nazione. È anche vero, però, che i fatti di cronaca mettono alla luce avvenimenti terribili come attentati, omicidi, suicidi, guerre… possono quindi essere da ispirazione ai bambini, che ne traggono modelli da imitare. I documentari sono invece indirizzati a persone di qualsiasi età perché servono per l’istruzione e la cultura generale di ognuno di noi. Sono purtroppo seguiti da pochi perché considerati noiosi e meno graditi, ad esempio, di film o telefilm. I programmi trash,come soap opere e reality sono seguiti da molte e molte persone: bambini, ragazzi, aduIti. proprio perché intrigano. Un esempio di programma trash è il reality «Grande Fratello», conosciuto in tutte le parti del mondo. Il tema di un Grande Fratello che ci sorveglia e ci condiziona in ogni nostro pensiero e in qualsiasi scelta personale è tornato alla ribalta: ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi «normali», tratti dalla vita reale. Come spiegare il gradimento? La risposta forse è che ciascuno di noi è sollecitato dal penetrare nelle vicende segrete delle persone e che certa televisione abbia elevato lo spettacolo stesso della vita della gente «della porta accanto». Un altro motivo per cui questi tipi di programmi vengono seguiti da molti, oltre che per il contenuto, è perché vengono trasmessi in una fascia oraria in cui sono tutti a casa: vengono appunto mandati in onda in prima serata, cioè alle 21.00, quando le famiglie hanno già finito di mangiare e sono sedute davanti alla televisione. È quindi giusto e istruttivo guardare questo genere di programmi? Non è possibile cambiare le abitudini delle persone facendo in modo che i programmi trash vengano seguiti di meno e i documentari di più? Tutto ciò spetta solo a noi decidere, sperando in un cambiamento del pensiero
«umano»…

Vanessa Mortari

«Stupidi» a chi?

I Vostri figli vanno male a scuola?
Hanno attegiamenti violenti? Vi sorprende che la maggior parte delle persone giovani non hanno un livello culturale elevato?
È solo colpa della «tv spazzatura», o quasi.
I ragazzi compresi dai 6 ai 18 anni adorano guardare  reality show, ma la maggior parte di questi programmi vengono ritenuti dalla società «tv spazzatura».
Almeno un ragazzo su due guarda questi reality, affermando che è consapevole della sua stupidità ma è fortemente attratto dall’odiens che produce!
Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi.
Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza. Ma non è questo il problema. Quello vero è che questi programmi vengono mandati in onda troppo presto in modo che anche i bambini che non riescono a distinguere completamente ciò che si deve fare da quello che non si deve, in quanto vengono seguiti poco dai genitori ma dai nonni e dalle bambinaie che si sa, li viziano o li lasciano fare ciò che vogliono.
Ma allora come fare per evitare questi problemi?
C’è chi dice. «Sono stupidi, bisogna eliminarli e sostituirli con programmi più culturali», e altri che dicono. «No, non eliminiamoli, spostiamo semplicemente gli orari!».
Beh, sicuramente in questi tempi è difficile dire a qualcuno di non fare o produrre qualcosa, in quanto abbiamo la libertà di pensiero, di stampa, di parola, ma è ancora più difficile mettersi contro i produttori in quanto sono già stati autorizzati dai vari programmi a mandarli in onda.
Ma secondo voi è davvero colpa dei produttori? Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro.

 Carla

Studenti




Davanti alla Tv, felicemente inebetiti

Qualche conclusione

2 marzo 2007, ore 15.00, in tv c’è Maria – I Simpson, il cartone quotidiano sulla famiglia «modello» statunitense, sono appena terminati portandosi dietro la loro dissacrante ironia sui vizi e le virtù di un intero popolo. Il tasto del telecomando scivola per sbaglio su un altro programma Mediaset molto quotato: Uomini e donne, condotto da Maria De Filippi. Un universo si schiude davanti a noi!
La scena ci appare così: due file di poltrone ospitano un pubblico composto da donne di mezz’età, tutte con i capelli biondi tinti e i vestiti «trendy». È il «coro greco»‚ de Roma. Al centro del palcoscenico se ne stanno, uno a fianco all’altro, tre maschietti palestrati, truccati e abbronzati in stile solarium. Sono gli «eroi». Dalla parte opposta, uno stuolo di belle figlie del popolo, le «villane» disperatamente innamorate e alla ricerca del fidanzato ideale.
Gli elementi della tragedia… italica ci sono tutti: il tono, nient’affatto solenne, scende nello slang buzzicone. La «lotta tra bene e male» è trasformata in battaglia per conquistare er coatto di tuo. La «catarsi» degenera in cagnara accusatoria: il coro di biondone attempate urla insulti ai ragazzotti muscolosi e narcisisticamente truccati, le vergini in trepida attesa si trasformano anch’esse in borgatare sbercianti. Una vera scenetta appassionante e liberatoria (nel senso che, dopo cinque minuti, una persona normale dovrebbe cambiare canale, tirando un sospiro di sollievo).
Ma veniamo alla piéce teatrale così come ci appare. I tre giovani uomini (bellocci) se ne stanno seduti ostentando i loro muscoli. Le fanciulle (belline) li guardano adoranti (ammiccando alle telecamere): «Sei bello, ti voglio conoscere», dice una a quello seduto in mezzo agli altri due; «Quanto sei figo, voglio frequentarti», gli dice un’altra; «Quanto mi piaci, sono venuta su dalla Calabria per vederti». Il prescelto, da buon galletto, non sa chi scegliere, fa il prezioso, il capriccioso. Gli altri due ragazzi si arrabbiano, perché «le ragazze sono tutte per lui». Il coro di madame inizia a inveire, a insultarlo. La De Filippi cerca di mediare; le giovani si inviperiscono perché lui le osserva «solo dal punto di vista fisico e non lascia trasparire la personalità di ciascuna». Insomma, un mercato all’ora di punta. Uno spettacolino costruito sul niente. Anzi, sul vuoto totale. L’amore, i sentimenti, la ricerca del fidanzato/a qui non c’entrano nulla, e neanche i rapporti tra «uomini e donne». C’entra la messa all’asta televisiva di carne umana, di facce, tette, muscoli e sederi. C’entra la pornografia, la perdita di ogni senso della misura e del pudore. C’entra la spazzatura.
La sintesi: 30 anni di «femminismo» buttati via grazie a un gruppetto di aspiranti veline pronte a prostituirsi pur di mettersi in mostra. Chi scrive e organizza questo zoo trash mira in basso, pensa a non far accendere il cervello.

Le ragazze «cin cin» – «Cin cin – cin cin assaggia e poi mi dici – cin cin, cin cin diventeremo amici…». Era la sigletta cantata dalle «ragazze cin cin» di Colpo Grosso, una delle prime trasmissioni a sfondo erotico, mandata in onda alla fine degli anni ’80 su Italia 7 e condotta da Umberto Smaila. Fece gran concorrenza ai programmi della Rai e di Mediaset.
Lo studio di Colpo Grosso era una sorta di sala scommesse: chi vinceva faceva svestire le «mascherine«, maschi e femmine. Poi, nel programma vennero inserite le ragazze «portafortuna» o «ragazze cin cin» usate per alcuni giochi e per eseguire gli «stacchetti» con tanto di strip tease.
Il format, vincente, venne acquistato da Svezia, Germania, Spagna e Brasile. Insomma, divenne un programma di successo nazionale e internazionale.
Colpo Grosso fece da apripista a tutte la spazzatura a sfondo commerciale-sessuale-antifemminile mandata in onda da allora in poi. Una vera vittoria per la tv italiana…
Se a quei tempi fece un po’ di scandalo e rivoluzionò il «varietà« nostrano con tette e sederi come madre natura li aveva fatti, ora tutte le sere e su tutti i canali Rai e Mediaset possiamo trovare «stacchetti» di veline, di corpi mercificati e esposti alle telecamere, programmi pseudo-culturali o di informazione che fanno scempio di ogni valore e intelligenza umana, fiction insulse con attori che non hanno mai imparato a recitare, telefilm comprati a chili dagli scarti americani, cartoni giapponesi intrisi di cattiverie e violenza, e così via.

«Ma perché te la prendi?» – Abbiamo scritto, nelle pagine di questo dossier, che i nostri figli (io ne ho 2) stanno crescendo di fronte a questa tv, usata come baby-sitter per tutte le stagioni, nutrendosi delle schifezze vomitate dal tubo catodico. Schifezze che livellano verso il basso ogni velleità intellettuale, ogni possibilità di far buon uso della ragione, del cervello; che insegnano a diventare indolenti, che anestetizzano di fronte ai problemi nazionali e inteazionali. Che tengono incollati davanti allo schermo a guardare, felicemente inebetiti, Sanremo sapendo che, per strapagare Baudo e la Hunziker e i loro ospiti, il governo ha emendato una legge che poneva un tetto ai cachet televisivi. Quello stesso governo che ha introdotto nuovi ticket, mentre le scuole hanno i banchi rotti e i laboratori di chimica e di informatica e di inglese e di biologia non funzionano perché non ci sono soldi… Quello stesso governo che per rifinanziare la missione di guerra in Afghanistan (approvata da destra-centro-sinistra insieme), potrebbe levarci altri servizi pubblici o per pagare l’inutile, dannosa e costosissima Alta Velocità, potrebbe ipotecare i Tfr dei lavoratori… Da bravi spettatori addormentati non ci accorgiamo che stanno facendo a pezzi il nostro presente, il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti e pronipoti…
«Massì, dài, perché te la prendi? In tv danno il Grande Fratello!».

Angela Lano

Angela Lano




I coccodrilli della palude avoriana

I camion e gli autobus che percorrono la strada che da Bouaké va a Yamoussoukro rallentano all’improvviso. Sul ponte di Minabo la strada si restringe fino a ridursi a un’unica corsia. Dietro a qualche sacco di sabbia e a un cingolato bianco, un paio di soldati delle Nazioni Unite osservano il passaggio dei veicoli nella zona di confiance, l’area controllata dai caschi blu.
Poco dopo sono i militari avoriani a intimare l’alt. È la dogana che separa la zona controllata dai ribelli da quella in mano alle forze del governo.
A qualche metro di distanza, una donna litiga con un soldato. Gesticola, si agita e pesta i piedi. Il nodo del pagne, il fazzoletto rettangolare che le fa da copricapo, è sfatto, la sua t-shirt sgualcita, ma lei non cede. Per nessun motivo permetterà al militare di perquisire la grossa borsa di tela che stringe tra le mani. Sono i suoi effetti personali, qualche rotolo di franchi Cfa, tutto il denaro che ha a disposizione per il viaggio, e ha paura che le venga sequestrato.
Dietro di lei i gbaka, i camioncini a diciotto posti che attraversano il paese, sono pieni di gente esasperata per i continui controlli della polizia e le estenuanti attese.
Dopo alcune ore un ufficiale con il berretto rosso e lo stemma dei paracadutisti sblocca la situazione: dice qualcosa all’autista di un gbaka e velocemente una mazzetta di banconote cambia padrone. Un ordine secco e il traffico riprende a muoversi.
Non è così per il resto del paese, bloccato ormai da cinque anni da una guerra civile che non sembra avere soluzioni. «È una situazione di ni paix ni guerre – dice padre Martino Bonazzetti della Società dei missionari d’Africa – non c’è pace, ma non si può parlare di guerra».
Gli scontri armati sono limitati alla regione occidentale, ma l’odio negli animi degli avoriani è rimasto immutato e ha traslocato dal campo di battaglia alle piazze di Abidjan, dove ogni settimana si verificano incidenti tra i manifestanti e la polizia.

Nessuno dei protagonisti della crisi sembra interessato a uscire dalla situazione di stallo. Nel nord i ribelli hanno organizzato commerci illegali di cotone e armi con il Mali e il Burkina Faso e non cessano di vessare la popolazione con continue esazioni di denaro; a sud gli alti papaveri del governo avoriano controllano gran parte dell’esportazione del cacao e i profitti delle aziende a partecipazione statale.
«Di fatto – scrive il giornalista di Liberation, Thomas Hofnung, nel suo La Crise en Cote d’Ivoire – la Costa d’Avorio è prigioniera degli interessi di tutti quelli che traggono vantaggi diretti e indiretti dall’agonia del “Paese degli elefanti”. A soffrire rimangono solo i cittadini ordinari».
A fine dicembre il presidente Laurent Gbagbo è apparso alla televisione di stato avoriana proponendo una road map alternativa a quella voluta dalle Nazioni Unite e dalle forze ribelli per uscire rapidamente dalla crisi. «Un programma in cinque punti che non sarà mai accettato dalle opposizioni – ipotizza in via confidenziale il responsabile di una grande Ong internazionale – e che permetterà a tutti di continuare il gioco delle reciproche accuse, mantenendo lo stallo».
Quello che è certo è che la retorica di Gbagbo ha convinto i militari e la polizia. «La nostra fiducia nel presidente non è cieca e incondizionata – sbotta il doganiere avoriano al posto di blocco tra Sassandra e San Pedro, sulla costa oceanica -, ma se non lo lasciano lavorare non saremo mai in grado di giudicarlo. Non abbiamo bisogno di una tutela internazionale, non abbiamo bisogno dei militari francesi, delle Nazioni Unite e dei caschi blu. Se Gbagbo non fa il suo dovere saremmo noi avoriani a scegliere qualcun altro alle prossime elezioni».

Senza saperlo, il doganiere tocca il punto dolente dell’impianto della crisi: anche se i sondaggi condotti dall’Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) hanno confermato che l’attuale presidente è molto più amato di quanto lo siano i suoi avversari Alassane Ouattara, Henri Konan Bédié e Guillaume Soro; la sua rielezione rimane un’incognita.
Nel 2000, infatti, Gbagbo vinse grazie all’esclusione dal voto delle migliaia di immigrati burkinabé, maliani e guineani che negli anni erano stati naturalizzati avoriani e che per i calcoli dei predecessori di Gbagbo erano stati esclusi dalle liste elettorali.
Nel 1995, alla vigilia delle prime elezioni presidenziali multipartitiche, l’attuale candidato dell’opposizione ed ex presidente, Henry Konan Bédié, introdusse una legge che dava il diritto a candidarsi alla presidenza solo a chi avesse risieduto in Costa d’Avorio per almeno i precedenti cinque anni e avesse entrambi i genitori avoriani.
«La legge non mirava a togliere il voto agli stranieri che erano in Costa d’Avorio da più di 50 anni – sottolinea Hofnung -, ma aveva l’obiettivo di eliminare gli avversari di Bédié, in quanto l’allora candidato presidente Alassane Ouattara era detentore di un passaporto burkinabé».
Le conseguenze sull’elettorato, però, sono state immediate e sono una delle cause mai affrontate della crisi avoriana. Gli esclusi dal voto del 2000, almeno nei timori di Gbagbo, si aggiungerebbero oggi agli elettori favorevoli all’opposizione, non dimentichi che le milizie del presidente si sono a più riprese rese responsabili di atti di violenza contro gli stranieri.
Per questo, la presidenza ha ostacolato con ogni mezzo il regolare svolgimento delle cosiddette audiences foraines, durante le quali piccoli tribunali itineranti dovrebbero raccogliere i dati anagrafici degli abitanti dei villaggi per stabilire chi è avoriano e chi straniero.
Ma anche in questo caso, la diffidenza tra governo e ribelli ha congelato le operazioni. L’inizio delle audiences foraines si è scontrato con enormi problemi logistici e con le contestazioni spesso violente dei sostenitori di Gbagbo. Secondo questi, le condizioni in cui si dovrebbero svolgere le operazioni di riconoscimento dei quasi 3 milioni e mezzo di sans papiers non garantiscono l’assenza di frodi massicce. «Un gruppo di giudici, che va a raccogliere i dati dei contadini nei villaggi più sperduti con i mitra delle Forces nouvelles puntati alla tempia, non può essere obiettivo – dice uno dei tanti poliziotti ai posti di blocco nel sud del paese -. È necessario che i ribelli consegnino le armi prima di fare il censimento».
In realtà, secondo le informazioni dell’Inteational Crisis Group, le forze ribelli non hanno per nulla ostacolato o viziato le operazioni di riconoscimento. Quello che hanno fatto è stato invece rifiutare di disarmarsi fino al completamento delle audiences foraines.

Si è creata così una impasse: la contrapposizione tra la presidenza e i ribelli ha minato la già debole autorità del primo ministro della transizione Charles Konan Banny, che è diventato la principale vittima dei giochi di potere e ha deluso le aspettative degli avoriani che avevano intravisto una via d’uscita dalla crisi.
Nemmeno lo scandalo del traffico di rifiuti tossici che, nell’autunno del 2006, aveva costretto alcuni alti funzionari e ministri alle dimissioni è servito a dare una spallata decisiva al potere di Gbagbo, complice la poca incisività dei suoi oppositori. L’impressione è che Ouattara e Bédié preferiscano aspettare che il potere sia loro servito su un piatto d’argento dalla comunità internazionale, piuttosto che lanciarsi nell’agone politico contro i coniugi Gbagbo.

Lontano dai palazzi del potere, le razzie nei villaggi sono all’ordine del giorno tra Man e Guiglo, che si sono guadagnati l’appellativo mediatico di selvaggio west.
Ancora più preoccupante la voce che i mercenari liberiani del Model (Movimento per la democrazia in Liberia) sarebbero pronti a restituire il favore a Gbagbo, che li aveva ospitati sul territorio avoriano mentre organizzavano la loro resistenza contro il presidente del genocidio liberiano, Charles Taylor. «Questi miliziani – afferma Ehouman Kassy di Africa Magazine – si troverebbero in una piantagione vicina alla frontiera e aspetterebbero solo un cenno del presidente avoriano per attaccare i ribelli».
La paralisi ha fatto degenerare il tessuto sociale avoriano: i frequenti posti di blocco e le esazioni da una parte e dall’altra della zone de confiance hanno indotto un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il pane ha subito nell’ultimo anno un aumento del 30%, per metà  imputabile ai continui taglieggiamenti da parte delle forze dell’ordine.
Tutto è diventato a pagamento, comprese le ricette mediche e, se i funzionari pubblici almeno continuano a ricevere gli stipendi, la corruzione ha invaso tutti i livelli dell’amministrazione.
«Diventare commissario di polizia costa 3 milioni di franchi Cfa in mazzette – spiega Jean Claude, giovane studente di giurisprudenza, oggi arruolato nelle file dell’esercito avoriano -. Molte famiglie si indebitano per fare entrare i figli all’accademia di polizia sapendo che una volta riusciti nel concorso si faranno a loro volta rimborsare con nuove tangenti».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Galleria degli «errori»

Chi è chi nel conflitto avoriano

Da una parte la coppia presidenziale degli onnipresenti Laurent e Simone Gbagbo, con la loro retorica aggressiva ma anche brillante, almeno nel caso del presidente, e le milizie armate. Dall’altra un’opposizione fatta di personaggi con antichi conti in sospeso, da cui si stacca il giovane leader dei ribelli Guillaume Soro, la cui reale volontà di uscire dalla crisi è però tutta da verificare. Galleria dei protagonisti del conflitto che da cinque anni impedisce alla Costa d’Avorio di risollevarsi dal baratro di miserie politiche ed economiche in cui è precipitata alla morte del padre della patria, Félix Houphouët-Boigny.

Laurent Koudou Gbagbo
presidente della Costa d’Avorio
dal 2000

Nulla descrive Laurent Gbagbo meglio delle sue stesse parole: «I miei avversari dicono che ho una propensione a ingannare tutti? Se io li inganno, è perché loro sono ingannabili». E ancora: «Per arrivare dove sono oggi, sono passato attraverso gli anni difficili dell’opposizione, della clandestinità, della prigione. I miei avversari, invece, non sanno aspettare il loro tuo nella storia: vogliono il potere anche quando non spetta a loro».
Pirotecnico nell’eloquio, ironico, insolente, ma anche appassionato, determinato, razionale, Laurent Gbagbo è l’animale politico per eccellenza nella Costa d’Avorio del dopo Houphouët-Boigny. Abilissimo a giocare al gatto col topo con la diplomazia francese, specialista nel negare oggi quello che ha giurato ieri; la lotta politica è il suo pane fin dai tempi in cui, insieme all’energica moglie Simone, tramava contro il regime a partito unico di Houphouët, il «Vecchio» che per quasi mezzo secolo ha regnato sulla Costa d’Avorio in un rapporto quasi simbiotico con la Francia.
Figlio di un poliziotto che aveva combattuto nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale, Laurent Gbagbo nasce 62 anni fa vicino a Gagnoa, nella Costa d’Avorio occidentale, in piena cintura del cacao e area bété, una delle etnie non certo favorite dal vecchio presidente.
Storico di formazione, è già attivo negli anni dell’università come sindacalista, ispirato da «idee marxiste di tendenza maoista». Imprigionato alla fine degli anni ‘60, fonda nel 1982 il Front Populaire Ivorien (Fpi) e si autoesilia a Parigi per 6 anni, da dove continua il suo lavoro di opposizione a Houphouët e l’elaborazione del suo programma politico. Rientra ad Abidjan nel 1988 e nel 1990 è l’unico sfidante del Vecchio alle elezioni, dove ottiene il 18% dei voti.

Nel 1992 è al governo Alassane Ouattara, scelto da Houphouët per mettere ordine, nei conti e non solo. Le leggi anti-sommossa promulgate dal premier porteranno Gbagbo in carcere per altri 6 mesi.
Nel 2000, dopo la morte del Vecchio e dopo il colpo di stato del generale Robert Gueï, si ricandida alle elezioni presidenziali: i requisiti per candidarsi, tutti incentrati sul concetto di ivoirité, sono talmente restrittivi che Gbagbo è l’unico avversario di Gueï. A sorpresa vince le elezioni, ma rifiuta di rimettere in palio il titolo includendo anche i candidati che la clausola di ivoirité aveva escluso.
Il conflitto avoriano, secondo Gbagbo, si riassume in poche parole: si tratta di una guerra di successione, iniziata dagli eredi di Houphouët, Alassane Ouattara e Henri Konan Bédié, una guerra nella quale i francesi non hanno saputo stare al loro posto. Cioè fuori.

Acclamato dai suoi come il patriota che può portare a termine la seconda decolonizzazione e la completa liberazione dalla tutela della Francia, i suoi detrattori lo dipingono come il despota che controlla veri e propri squadroni della morte e che si è abbandonato al fanatismo religioso, dopo che la moglie lo ha convinto ad avvicinarsi alla sètta evangelica americana Inteational Church of the Foursquare Gospel.
Quel che è certo è che Gbagbo non ha nessuna intenzione di abbandonare il potere: attaccandosi strenuamente alle prerogative presidenziali garantite dalla Costituzione, ha più volte ostacolato il lavoro del primo ministro Charles Konan Banny, scelto dai mediatori africani e dalle Nazioni Unite per portare la Costa d’Avorio fuori dalla crisi. D’altronde Gbagbo ha tutto l’interesse a coltivare questa situazione di stallo: finché resta alla presidenza, la comunità internazionale non può attivare contro di lui le procedure che lo porterebbero davanti al Tribunale penale internazionale, dove dovrebbe rispondere delle sue ambiguità nel gestire la violenza organizzata, appannaggio dei Jeunes Patriotes, che lascia a briglia sciolta – o addirittura fomenta – contro le opposizioni e gli stranieri.

Simone Ehivet Gbagbo
moglie di Gbagbo
e first lady della Costa d’Avorio

Niente asili, orfanotrofi e tagli di nastri: la first lady avoriana Simone Ehivet Gbagbo non ha tempo per queste cose da moglie del presidente. Di etnia akan, discendente di una famiglia reale, non si veste all’occidentale, preferendo i tessuti e tagli avoriani, e non si interessa di diplomazia. Anzi, la detesta, se è vero che ha liquidato gli avversari di suo marito con espressioni decisamente non tenere: «Henri Konan Bédié? Un idiota. Guillaume Soro? Un giovane manipolato e sotto pressione. Alassane Ouattara? Uno straniero».
E nemmeno a suo marito risparmia critiche, frecciate e aut-aut: durante le negoziazioni degli accordi di Marcoussis, la first lady dichiarò: «Se i nostri uomini vanno a Parigi per prendere decisioni che non ci soddisfano, al loro rientro non ci troveranno nel loro letto».

Classe 1949, figlia di un gendarme, perde la madre alla nascita e si trova rimbalzata da un angolo all’altro della Costa d’Avorio, insieme ai suoi 18 fratelli e sorelle. Appassionata di politica fin dal collège, è durante gli studi in Letteratura all’università di Abidjan che inizia la sua militanza: aderisce alla sezione femminile del movimento studentesco cattolico, rimane affascinata dalle tesi marxiste e dalla loro riedizione in chiave africana nei pensieri di Patrice Lumumba e Kwame Nkrumah.
Nel 1972, sotto lo pseudonimo di «Adèle», aderisce al movimento clandestino che si trasformerà nel Front Populaire Ivorien  (Fpi). Qui incontra «Petit Frère», nome di battaglia di un giovane professore di storia, Laurent Gbagbo, che diventa suo marito. Con lui condivide le lotte politiche contro il regime di Houphouët-Boigny, la prigione e, dal 2000, anche il potere.
Eletta deputata del Fpi nella circoscrizione di Abobo, quartiere povero di Abidjan, la sua propaganda è intrisa di elementi religiosi: da quando è diventata seguace della sètta evangelica Shekinah Glory Memories (Church of the Foursquare Gospel), guidata in Costa d’Avorio da Moïse Koré, pare che la first lady passi molto tempo a leggere la bibbia e digiuni spesso.
Ma i richiami a Dio e i discorsi dai toni quasi messianici non l’hanno tenuta lontana dalle pesanti accuse mosse tra gli altri da Onu e Radio France Inteational. La moglie del presidente sarebbe implicata nello scandalo dei rifiuti tossici scaricati qualche mese fa ad Abidjan e il suo entourage controllerebbe da presso gli squadroni della morte e i Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé. Sembrerebbe quasi che alla lady di ferro avoriana spetti la parte di lavoro sporco che Gbagbo non può permettersi di fare in prima persona.

Henri Konan Bédié
il delfino di Houphouët

Definito «personaggio scialbo» da Le Monde Diplomatique, Henri Konan Bédié è l’erede designato del padre della nazione Houphouët-Boigny. Muove i primi passi della carriera politica all’ombra del Vecchio, che gli spiana la strada e lo mette al riparo dagli scandali e accuse di corruzione. Dopo gli studi di economia è nominato ambasciatore negli Stati Uniti dal 1961 al 1966, ministro delle Finanze di Abidjan dal 1966 al 1977 e presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 al 1993.
Settantatreenne, originario del centro paese, di etnia baoulé come Houphouët, Bédié diventa presidente della Costa d’Avorio ad interim alla morte del suo predecessore, sopraggiunta nel dicembre del 1993.

Appena un anno dopo il suo insediamento fa indispettire Parigi, decidendo di concedere ai giganti americani Cargill e Adm alcuni contratti di esportazione del cacao, senza consultare le multinazionali francesi. Ma il suo nome è legato soprattutto all’introduzione della clausola dell’ivoirité nella competizione elettorale.
Dopo aver dichiarato, nel maggio 1994, «non ritireremo mai il diritto di voto a persone che votano in questo paese fin dal 1945», cede subito alla tentazione di eliminare con un solo colpo di spugna il suo più temibile avversario politico, Alassane Ouattara, l’ex primo ministro avoriano accusato di essere in realtà un burkinabé. Incarica dunque una commissione di intellettuali di definire il concetto di «ivoirité» attraverso il quale stabilire chi è avoriano e chi no, di conseguenza, chi ha diritto a far parte dell’elettorato attivo e passivo.

Messo così fuori gioco Ouattara, Bédié viene eletto con il 96% dei voti in uno scrutinio elettorale boicottato da tutta l’opposizione. Il suo mandato si caratterizza per la corruzione dilagante, nepotismo e incapacità di uscire dalla crisi economica, cominciata già alla fine degli anni ‘80 sull’onda del crollo del prezzo del cacao.
Nel dicembre del 1999, il colpo di stato del generale Robert Gueï mette fine alla presidenza di Bédié e apre le porte a Laurent Gbagbo.
In esilio in Francia fino al 2001, Bédié rientra per prendere parte al Forum di riconciliazione nazionale. È attualmente il presidente del partito fondato da Houphouët, il Pdci.

Alassane Ouattara
il grande escluso

«Uomo distinto e cortese, dai modi lenti, ma dall’intelligenza viva» per il giornalista di Libération T. Hofnung, «creatura satanica» per l’entourage di Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara ha tutti i tratti del tecnocrate razionale e posato.
Ado, come lo chiamano i suoi sostenitori, non infiamma le folle, non ingaggia duelli politici o gare retoriche. Fa conti. Nel gennaio 2006, in occasione del suo rientro in Costa d’Avorio dopo tre anni di esilio in Francia, sbriga in due parole la parte toccante del suo discorso e va dritto al punto: «Vorrei dire ai giovani che i momenti difficili sono davanti a noi. Dal momento che la situazione economica è difficile, come economista direi addirittura catastrofica, vorrei dire loro che è questa la nostra priorità e che la pace ci aiuterà a uscire rapidamente dalla crisi economica».
Nato 65 anni fa a Kong, nel nord della Costa d’Avorio, musulmano, Ado studia economia negli Stati Uniti e inizia una brillante carriera che lo porta al Fondo monetario internazionale come economista e alla Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) come governatore.
Nel 1990 Félix Boigny lo richiama in Costa d’Avorio per mettere ordine nei conti avoriani, estremamente provati da un corso sfavorevole del cacao e da anni di corruzione imperante. Divenuto primo ministro, si trova fuori dal gioco politico poco dopo la morte del Vecchio, quando il suo principale avversario Konan Bédié fa approvare la clausola di ivoirité: Ado, che nel frattempo ha accettato l’incarico di vicedirettore generale al Fondo monetario internazionale, è nato in Costa d’Avorio, ma è titolare di un passaporto burkinabé. Per questo non può candidarsi alle elezioni.
La sua temporanea alleanza con quel Gbagbo, che tre anni prima aveva fatto arrestare, non sposta minimamente le sorti del voto, e Konan Bédiè è eletto presidente.

La sua nazionalità avoriana è riconosciuta solo nel 2001 dal Forum di riconciliazione nazionale, voluto dal presidente Gbagbo, che però rifiuta di metter in pratica le decisioni prese durante lo stesso Forum.
Oggi però, Ado, alla testa del Rassemblement des Rèpublicains, può esibire la sua carta d’identità avoriana e affermare: «Sono un figlio di Kong e ne sono orgoglioso. Le carte d’identità dei miei genitori sono disponibili e non sono state fatte ieri. Tutti le conoscono perché sono state pubblicate». Ma per Ado la strada è ancora tutta in salita.

Guillaume Soro
il capo dei ribelli

Il suo nome in lingua senoufo significa «invincibile», come spiega con un sorriso malizioso al corrispondente della Bbc. Guillaume Kigbafori Soro, 32 anni, orfano di entrambi i genitori, originario del nord della Costa d’Avorio, non ha bisogno di trovarsi un nome di battaglia come fanno i suoi uomini, i ribelli delle Forces Nouvelles. Sul campo di battaglia non c’è probabilmente mai stato, ma delle lotte politiche, nonostante la sua giovane età, è già un veterano.
Comincia con la militanza come capo della Federazione degli studenti avoriani (Fesci), che gli procura numerosi soggiorni in carcere durante la presidenza Bédié, ogni volta che una manifestazione degenera in disordini e scontri con la polizia.
Dopo aver lasciato il paese per continuare gli studi in Francia e in Inghilterra, riappare in Costa d’Avorio all’indomani del colpo di stato di Robert Gueï e tra il 1999 e il 2000 per cercare un’intesa con la giunta militare e lanciare un’operazione «mani pulite».

Ma il «Che» avoriano, come lo chiamano i suoi compagni del movimento studentesco, divorzia presto da Gueï e si rivolge al Rdr di Alassane Ouattara, con cui ha in comune tra l’altro la provenienza geografica. Nei giorni dell’ivoirité e dell’estromissione di Ouattara dalla competizione elettorale, condanna pubblicamente la campagna xenofoba, messa in atto contro le etnie del nord e gli stranieri, e sparisce di nuovo dalla scena avoriana.
Riappare nell’ottobre del 2002, un mese dopo lo scoppio della ribellione e la divisione del paese. Noto ora come «il generale» o «dottor Koumba», Soro si presenta come capo del Mouvement patriotique de Côte d’Ivoire (Mpci), che rappresenta le Forces Nouvelles e altri gruppi ribelli armati (ad esempio il Mpigo, movimento nato a ovest da combattenti liberiani).
La sua opposizione a Gbagbo non potrebbe essere più netta. È passato molto tempo da quando il giovane Soro, affascinato dal socialista Gbagbo, vedeva in lui il leader in grado di permettere agli avoriani di «non nascere e morire sotto il governo di Houphouët».
Nemmeno la comunità internazionale è al riparo dalle sue critiche. «Non ci si mette tra due litiganti – dice il giovane leader – se non si ha abbastanza forza per separarli».
Guillaume Soro, come Simone Gbagbo e Charles Blé Goudé, figura sulla lista nera delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani in Costa d’Avorio: il segretario generale delle Forces Nouvelles sarebbe colpevole di aver avallato le esecuzioni sommarie compiute dai ribelli. Ma, osservano molti commentatori, la sua è l’unica faccia nuova in un panorama politico popolato da dinosauri: se si andasse a elezioni questo potrebbe rivelarsi un vantaggio non da poco.
Dopo essersi visto attribuire il ministero degli Intei e della Difesa, un rimpasto di governo lo ha nominato ministro delle Comunicazioni nell’esecutivo di transizione guidato da Charles Konan Banny.

Charles Blé Goudé
il capo dei Jeunes Patriotes

«L’esercito francese? Saccheggia, stupra, uccide. Occupa il nostro Paese come la Germania faceva con la Francia». Questa dichiarazione è una delle più pacate tra quelle rilasciate da Charles Blé Goudé, il leader del movimento nazionalista dei Jeunes Patriotes. Succeduto al coetaneo Guillaume Soro alla testa della Federazione degli studenti (Fesci), Blé Goudé studia inglese all’università di Cocody, nella capitale avoriana, e frequenta un master in prevenzione e gestione del conflitto a Manchester.
Blé Goudé è il braccio propagandistico e armato di Gbagbo nelle strade di Abidjan: il suo appoggio attivo alla repressione delle manifestazioni in favore degli accordi di Marcoussis, nel marzo 2004, contribuirà al bilancio finale di centoventi morti e venti dispersi.
All’indomani dello scontro tra esercito avoriano e militari della Licoe, nel novembre dello stesso anno, sarà lui a incitare la folla inferocita a occupare l’aeroporto al grido di «a ciascuno il suo francese». Grande ammiratore del presidente rwandese Paul Kagame per i suoi continui attacchi frontali al ruolo della Francia in Africa, Blé Goudé è noto per le dichiarate posizioni razziste, riprese anche nel suo libro La mia parte di verità, di recente pubblicazione.

Charles Konan Banny
il premier di Mbeki e Obasanjo

Sessantaquattro anni di vita consacrata alle istituzioni economiche e finanziarie e l’appartenenza all’etnia baoulé di Houphouët-Boigny sono i tratti salienti della carta d’identità di Charles Konan Banny, l’attuale primo ministro avoriano.
Scelto nel dicembre 2005 dal duo di mediatori incaricati dall’Onu – il presidente sudafricano Thabo Mbeki e quello nigeriano Olusegun Obasanjo – l’ex governatore della Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) non è per ora riuscito a raggiungere l’obiettivo primario del suo incarico: quello di organizzare le elezioni presidenziali in Costa d’Avorio.
Lo scrutinio elettorale previsto per l’ottobre 2006 è stato rimandato di un altro anno, mentre Konan Banny si è visto colpito da velate accuse di connivenza con Gbagbo. Altre questioni spinose che si trova per le mani sono il mancato disarmo dei ribelli e le difficoltà nel regolare il funzionamento delle audiences foraines, i tribunali itineranti che hanno il compito di verificare l’effettivo numero di avoriani, e quindi di elettori, presenti sul suolo nazionale.

Di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




L’alba dell’indipendenza

Genesi del dramma avoriano

Per capire la crisi avoriana è necessario ripercorrere gli eventi che hanno portato alla guerra e ai massacri degli ultimi sei anni. Un’immagine più di ogni altra descrive la fine di un’epoca di prosperità e di pace che era valsa alla Costa d’Avorio la palma di perla dell’Africa occidentale: il gotha dell’Africa francofona e la Francia che conta, in primis François Mitterand, Jacques Chirac e Valéry Giscard d’Estaing, presenziano vestiti a lutto alla cerimonia funebre di Félix Houphouët-Boigny il 7 febbraio del 1994.
Nella colossale basilica di Yamoussoukro, la San Pietro della giungla voluta dal «Vecchio» per onorare le radici cattoliche della Costa d’Avorio, accanto ai politici siedono i signori dell’economia franco-avoriana: il costruttore Martin Bouygues, l’armatore Vincent Bolloré e quel Jacques Foccart,amico di Mobutu e di tutti i dittatori degli anni ‘60, che ha fatto da eminenza grigia dei rapporti franco-africani per almeno un ventennio, organizzando colpi di stato qua e là e influenzando le politiche del continente nero.
I funerali solenni del padre della nazione, quell’Houphouët soprannominato Boigny (ariete in baoulé, la sua lingua e gruppo etnico), che gli avoriani credevano immortale, si svolsero a tre mesi dalla sua morte in un’atmosfera di fine regno: al di qua e al di là del Mediterraneo tutti sapevano che con la morte del «Vecchio» si estingueva il contratto tra francesi e avoriani che aveva fatto della prosperità senza libertà la parola d’ordine della Françafrique. Il miracolo economico avoriano basato sull’indipendenza formale, voluta più dal generale Charles De Gaulle che da Houphouët, e sull’assoluta dipendenza militare della Costa d’Avorio dalla Francia era già finito da qualche anno. Ma la morte del presidente avoriano accelerò il processo.  

Personalità complessa e sfaccettata, il presidente dell’indipendenza aveva messo il suo genio politico al servizio di un principio: tutto cambi perché nulla cambi. La scelta di fare del suo villaggio natale, la piccola Yamoussoukro in cui era nato nel 1905, la nuova capitale politica del Paese ne era stata l’ultima dimostrazione: Abidjan, infatti, continuava a rimanere il vero centro nevralgico del potere politico ed economico, sede del governo avoriano e dell’Ambasciata di Francia, mentre Yamoussoukro si riempiva di ampi viali e giganteschi palazzi vuoti.
L’ex-potenza coloniale era presente ovunque, in ogni snodo economico, in ogni ganglio politico. Ma si trattava di una presenza discreta, lontana dagli occhi dei cittadini avoriani, che vedevano invece scuole funzionanti, rete stradale in rapida espansione, ospedali efficienti e, soprattutto, aumento della produzione di cacao, che dalle mille tonnellate annue del 1920 si era attestata sulle 380 mila del 1978.
Specchio del benessere derivato dall’oro marrone, Abidjan espandeva il suo quartiere chic, il Plateau dei grattacieli in perfetto stile Manhattan. Il momento d’oro coincise con la costruzione dell’Hotel Ivoire, il più grande e lussuoso dell’Africa occidentale.  
Mentre il denaro del cacao scorreva a fiumi nelle tasche degli alti papaveri e le briciole tenevano buoni i lavoratori avoriani attirandone di stranieri, i germi della crisi futura erano già al lavoro. Nessuno si preoccupò di dotare il paese di un’industria di trasformazione o di costruire alternative economiche da mettere in campo nel caso in cui le fluttuazioni del prezzo del cacao avessero portato a periodi di recessione.
La bella meccanica concepita da Houphouët si inceppò alla fine degli anni ‘70, quando l’offerta di cacao superò per la prima volta la domanda europea, facendo precipitare i prezzi. La Costa d’Avorio entrò così nella spirale economica negativa del debito pubblico: per mantenere il tenore di vita degli avoriani il governo si mise nelle mani delle istituzioni finanziarie inteazionali, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e ai loro piani di ristrutturazione economica. Le riforme colpirono i salari dei dipendenti pubblici e costrinsero l’esecutivo a vendere la rete elettrica e idrica agli amici francesi.
Nonostante gli sforzi, gli errori del Fmi e del governo avoriano resero irreversibile la crisi. Nel 1987 una serie di speculazioni finanziarie innescarono la cosiddetta guerra del cacao: il governo avoriano congelò le esportazioni delle fave per costringere i cioccolatai europei a offrire un prezzo più favorevole ad Abidjan. Non fu così: le grandi società del cacao si rivolsero al vicino Ghana e alla lontana Malesia.
Houphouët  uscì sconfitto dalla prima e unica battaglia della sua vita e milioni di fave rimasero a marcire nella foresta, lacerando il già usurato tessuto economico del paese degli elefanti. Per la prima volta, all’inizio degli anni ‘90, il padre della patria subì le contestazioni della piazza. Migliaia di persone invasero le strade di Abidjan al grido di «Houphouët  voleur, Houphouët  démission!» (ladro, vattene). Era l’inizio della fine: l’Ariete aprì alle opposizioni e si arrese alla nascita di un sistema politico multipartitico.

Il 7 dicembre 1993, arrivò così, con un largo preavviso: la stampa avoriana diede la notizia della morte del «Vecchio» senza avere un nome degno della sostituzione. Lo scialbo Henry Konan Bédié divenne presidente ad interim in virtù del suo incarico di presidente dell’assemblea Nazionale, nonostante fosse stato il primo ministro Alassane Ouattara a garantire la continuità di governo nei giorni della malattia di Houphouët. La guerra degli eredi era cominciata sulle ceneri di un’economia distrutta. Di lì a poco sarebbero emerse le tensioni etniche che avrebbero reso ingovernabile la Costa d’Avorio del xxi secolo.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Si erano tanto amati

La Francia nel pantano avoriano

I francesi in Costa d’Avorio come gli americani in Iraq. Questo il senso dei titoli di alcuni siti internet, di alcuni giornali italiani e di molti giornali avoriani. In realtà il ruolo della Francia va ridimensionato: anche se la vecchia potenza coloniale ha dimostrato limiti enormi nella gestione del conflitto e le società francesi hanno cercato di difendere i loro interessi, il problema è molto più complesso.

Una piscina vuota, un tappeto spelacchiato, un’orchestra jazz che suona per pochi clienti annoiati, volti anonimi che si aggirano per il giardino d’inverno senza guardarsi attorno e un alone di tristezza che vela di grigio anche le stoffe sgargianti dei negozi di souvenir. Difficile immaginare che proprio in questo scenario, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, sfilassero francesi eleganti e sorridenti, che si godevano le vacanze nella perla dell’Africa occidentale al culmine del suo splendore e ricchezza, racchiusa in migliaia di tonnellate di fave di cacao.
Eppure l’Hotel Ivoire, il più grande albergo dell’Africa occidentale, l’unico dei tantissimi grattacieli di Abidjan a ergersi fuori dal quartiere chic del Plateau, è stato l’emblema dell’idillio tra la Francia di Charles de Gaulle e François Mitterand e la Costa d’Avorio del presidente e padre della nazione Houphouët-Boigny.

MEMORIA RANCOROSA

Oggi, di quell’idillio da rivista patinata non rimane neppure un’immagine ingiallita e consunta: la visione dell’esercito francese che spara su una folla disarmata di manifestanti, all’indomani dello scontro tra l’aviazione avoriana e la missione francese Licoe del novembre del 2004, ha cancellato dalla memoria nazionale ogni ricordo degli anni d’oro.
Nella Costa d’Avorio del 2007, il rapporto tra avoriani e francesi è riassunto nella fotografia di un bianco che minaccia con il fucile un nero. L’esasperazione politica è dappertutto, perfino nei nomi delle salse che si accompagnano al fufù, negli slogan pubblicitari dei cellulari, nelle competizioni sportive.
Nel sud dominato dal governo del presidente Laurent Gbagbo, l’astio verso la Francia occupa una grossa parte del discorso politico. «Macché francesi – sbotta Kamsi, l’agente della polizia avoriana che presidia il posto di blocco all’entrata di Yamoussoukro, rispondendo al suo giovane collega che si informa sulla nazionalità degli europei di passaggio -. Se fossero francesi li avrei già spediti via invece di chiacchierare con loro».
«Sembra uno scherzo – aggiunge il cancelliere dell’ambasciata d’Italia ad Abidjan -, ma l’odio per i francesi è tale che la vittoria italiana ai mondiali di calcio è stata una vera manna diplomatica: abbiamo sconfitto i francesi e siamo automaticamente diventati eroi per gli abitanti della Costa d’Avorio».
L’ostilità degli avoriani nei confronti degli ex-colonizzatori, tangibile, a volte ostentata, si mescola al timore di non essere ascoltati, creduti, interpellati nelle decisioni che li riguardano da vicino. Come quella di fare la guerra. «Ditelo ai vostri amici europei, ditelo che qui non c’è nessuna guerra, che sono i francesi ad averla inventata per continuare a rubarci quello che è nostro» si raccomandano tutti gli avoriani, dai militari alla gente comune.
La campagna antifrancese della stampa pro-Gbagbo ha dato i suoi frutti e, da Abidjan a Yamoussoukro, tutta la Costa d’Avorio a sud della zona di interposizione Onu vede nell’esecutivo di Parigi un ostacolo all’apertura dell’economia ai partner inteazionali. Una forza militare di occupazione che si nasconde dietro al dito del mandato Onu per mantenere il controllo delle risorse avoriane.
Una cricca di cospiratori che muovono i fili delle marionette locali con l’appoggio di leader stranieri compiacenti e venduti, primo fra tutti il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Una parte della stampa internazionale, inoltre, specialmente quella online, non risparmia alla Francia l’accusa di aver fatto della Costa d’Avorio il proprio Iraq, o il proprio Vietnam.
Thomas Hofnung, giornalista di Libération, trova la causa del divorzio tra Parigi e Abidjan in una più ampia «incapacità francese a ridefinire la sua politica verso un continente diverso da quello della decolonizzazione e in piena mutazione». Secondo Hofnung, la diplomazia francese è confusa: da una parte non se la sente di abbandonare la Costa d’Avorio al suo destino per timore di una nuova carneficina; dall’altra è rimasta a guardare senza schierarsi quando, dopo la morte del presidente Boigny nel 1993, la Costa d’Avorio si è lanciata nella spirale dell’ivoirité, dei colpi di Stato e delle «elezioni calamitose» del 2000.

LA PRESENZA MILITARE

Se la presenza militare francese sul territorio avoriano è una realtà che fin dal 1978 ha permesso al Paese degli Elefanti di non doversi preoccupare delle spese per la difesa e di dedicare le sue risorse allo sviluppo economico, l’intervento vero e proprio della Francia in Costa d’Avorio arriva solo alla fine del 2002. Il conflitto armato che segue il fallito colpo di stato ai danni di Gbagbo, tra il 18 e il 19 settembre, spacca il paese a metà, lasciando il sud nelle mani del governo e portando il nord sotto il controllo dei ribelli delle Forces Nouvelles.
È a quel punto che l’Eliseo affianca ai militari francesi già presenti sul territorio altri 4 mila soldati e lancia l’operazione Licoe. Pochi giorni dopo il mancato golpe, i militari di Parigi ricevono l’incarico di interporsi tra esercito regolare e ribelli e mettere in salvo i quasi 20 mila connazionali in Costa d’Avorio.
Ma i dubbi sull’effettivo ruolo dei francesi nella serie di colpi di stato che hanno sconvolto il paese rimangono. «È difficile credere – scrive su Le Monde Diplomatique la giornalista belga Colette Braekman – che gli onnipresenti servizi di intelligence francesi ignorassero che nei sobborghi della capitale burkinabé, Ouagadougou, dei militari avoriani stavano preparando in clandestinità un’invasione della Costa d’Avorio, reclutando espatriati avoriani del nord, ma anche combattenti burkinabé o maliani».
Se è vero che i francesi non hanno organizzato attivamente la ribellione, è altrettanto vero che non hanno fatto nulla per stroncarla sul nascere. Ovviamente la diplomazia d’oltralpe, a partire dall’allora ambasciatore ad Abidjan, Renaud Vignal, nega ogni responsabilità negli eventi e nel gennaio del 2003, a pochi mesi dal colpo di stato di settembre, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin lancia un ciclo di trattative diplomatiche che si tengono a Linas-Marcoussis, nella periferia parigina, per dimostrare a tutti che la Francia è in grado di tenere sotto controllo la sua ex colonia.
A Marcoussis sono presenti tutti i principali attori della crisi avoriana e tutti sembrano disposti ad accettare un accordo, sintetizzato nell’ennesima road map della storia più recente. In realtà Gbagbo non si presenta: si fa rappresentare dal capo del suo partito, Pascal Affi Nguessan, con intenzioni che diventano chiare pochi giorni dopo e fanno dimenticare il sorriso soddisfatto con cui de Villepin affronta le conferenze stampa.

DALLA TENSIONE ALLO SCONTRO

Secondo l’Inteational Crisis Group, gruppo di esperti in monitoraggio del conflitto, «la mancanza di buona fede e di volontà politica hanno compromesso gli accordi di Linas-Marcoussis sul nascere». All’indomani della conferenza di pace, al grido di «a ciascuno il suo francese!», Charles Blé Goudé e i suoi Jeunes Patriotes, le milizie pro-Gbagbo, invadono le strade di Abidjan, alla notizia che i ribelli di Guillaume Soro hanno ottenuto il ministero della Difesa e quello degli Intei.
Gbagbo non deve nemmeno scomodarsi a sconfessare gli accordi. Il suo «non ero presente alle negoziazioni» è sufficiente agli occhi dei suoi sostenitori.
 L’inserimento della missione Licoe sotto l’egida dell’Onu, nel febbraio del 2003, in seguito alle pressioni francesi sul Consiglio di sicurezza, non allenta la tensione. Anzi. A fine ottobre, un poliziotto avoriano uccide di fronte a decine di testimoni Jean Hélène, corrispondente di Radio France Inteational (Rfi), freddandolo con un colpo di pistola alla testa. «Siamo in guerra e ho sparato a un nemico – dirà il sergente dopo l’arresto – non facevo nulla di male».
E non è l’unico avoriano a pensarla così, se pochi mesi dopo, nell’aprile del 2004, Abidjan viene scossa dai disordini di piazza e dagli scontri tra opposizione e Jeunes Patriotes che fanno almeno 120 morti (fonte Onu).
Quando il 4 novembre del 2004 Gbagbo decide di lanciare l’«operazione dignità», l’offensiva finale contro i ribelli, la situazione è già avviata al disastro, nonostante la Francia e le Nazioni Unite siano state informate da Gbagbo stesso delle intenzioni del governo. Pare che la sera prima dell’attacco, in una telefonata riportata da François Soudan su Jeune Afrique, Jacques Chirac abbia cercato di convincere il presidente avoriano a desistere, senza successo. «Se non lascio mano libera ai militari – dice Gbagbo – questi finiranno per rivoltarsi contro di me».
Il 4 e il 5 novembre gli aerei avoriani, due Sukhoi-25, decollano dall’aeroporto di Yamoussoukro e bombardano le aree controllate dai ribelli di fronte a 5 mila peacekeepers delle Nazioni Unite e a 4 mila uomini della Licoe che restano a guardare. Solo i caschi blu marocchini si attivano per impedire alla fanteria governativa di forzare la zone de confiance e scontrarsi direttamente con le Forces Nouvelles.
Il 6 novembre, l’aviazione avoriana però si spinge oltre: durante un’incursione su Bouaké, uno dei due Sukhoi punta sul Liceo Descartes – che ospita una caserma della Licoe – e sgancia una bomba. Il bilancio è di 9 morti tra i militari francesi, a cui si aggiunge un civile americano, impegnato in una missione umanitaria. «Ho visto i militari francesi correre dappertutto, gridare e piangere – racconta padre Gilles, della diocesi di Bouaké -; c’erano uomini a terra con ferite e ustioni, un caos generale».
La reazione francese è immediata: il generale Henri Poncet, comandante della Licoe e responsabile nel 1994 dell’evacuazione dei francesi dal Rwanda, ordina l’immediata distruzione dell’aviazione avoriana. Appena i due velivoli atterrano all’aeroporto di Yamoussoukro, partono i missili che li distruggono. Insieme al Liceo Descartes e ai due Sukhoi vanno in frantumi le relazioni cordiali tra Francia e Costa d’Avorio, al punto che Chirac non telefonerà a Gbagbo nemmeno per fargli le condoglianze per la perdita del padre.
Abidjan insorge la mattina dopo: la voce del leader dei Jeunes Patriotes, Blé Goudé, tuona in tutte le radio. «Mostrate la vostra dignità – grida agli avoriani -. Se state mangiando, fermatevi. Se state dormendo, svegliatevi. Tutti all’aeroporto, tutti alla base militare francese!». È la fine. I francesi sono diventati i cobelligeranti che hanno fomentato la guerra per continuare il pillage (saccheggio) della Costa d’Avorio. La mattina dell’8 novembre i militari francesi, che stanno seguendo le operazioni di evacuazione dei civili all’Hotel Ivoire, si trovano di fronte a una folla inferocita e reagiscono aggravando la loro posizione.
«Si sono levati in volo due elicotteri francesi – racconta un testimone italiano che vuole rimanere anonimo, ma la sua versione è suffragata da un rapporto di Amnesty Inteational – e hanno iniziato a sparare sulla folla per tenerla lontana. Ufficialmente ci sono stati 60 morti, ma io ho visto i francesi sparare migliaia di proiettili su una folla compatta di migliaia di persone e secondo me le vittime sono molte di più».

FINE DELLA FRANCIA IN AFRICA

Comunque siano andate le cose, qualunque sia il numero di morti, la fretta di seppellirli si rivela più forte del bisogno di un conteggio: a distanza di pochi giorni tutte le parti in causa, dai francesi al governo avoriano, iniziano a sgonfiare gli eventi. «La paura di un nuovo incontrollato genocidio rwandese – scrive ancora Hofnung – aleggiava nell’aria. In quei giorni la radio avoriana fu ribattezzata Radio Milles Lagunes sulla falsariga della rwandese Radio Milles Colines che incitava alla strage dei tutsi». Gbagbo stesso moltiplica gli appelli alla calma, anche se non smette di parlare di armate di occupazione e di una regia francese nei colpi di stato.
La fine ufficiale degli scontri, peraltro, non ha restituito ai francesi il loro prestigio. L’inaugurazione dell’enorme ambasciata americana ad Abidjan è forse il simbolo più evidente del passaggio di testimone. «La voglia di America degli avoriani è maggiore dell’interesse mostrato dall’amministrazione statunitense per la Costa d’Avorio – si legge nel libro di Hofnung – George Bush infatti non ha voluto scontrarsi direttamente con gli interessi francesi e non ha mai voluto ricevere Laurent Gbagbo alla Casa Bianca, ma è solo questione di tempo».
Oltre a ciò Washington ha fatto escludere il Paese degli Elefanti dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act), che promuove gli scambi economici tra Usa e Africa, almeno fino a quando la situazione non si sarà regolarizzata.
La Francia comunque sta perdendo terreno e il rifiuto di Bush a Gbagbo viene letto più come un atto di clemenza verso Parigi che un avvicinamento tra le due potenze. «Il declino della Francia – conclude Hofnung – è legato alla fine di una generazione di politici francesi nati in Africa nel periodo coloniale e alla fine di una generazione di dinosauri africani che con la Francia facevano affari».
Le grandi aziende francesi che per anni hanno agito sul continente nero stanno registrando perdite economiche per milioni di euro e, al di là delle reali responsabilità di Parigi, molti africani sono ormai convinti che i francesi siano un manipolo di bianchi attaccati ai loro privilegi. Un nemico che ostacola lo sviluppo del continente.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Caccia allo straniero

Il dramma degli «allogeni»

Tollerati durante il periodo d’oro dell’economia avoriana come manodopera nelle piantagioni di cacao, migliaia di immigrati burkinabé, maliani, togolesi, senegalesi e guineani, che da 50 anni vivono in Costa d’Avorio, oggi sono diventati «les allogènes», gli stranieri naturalizzati, e sono considerati una minaccia per le ricchezze della ormai non più ricca Costa d’Avorio.

La strada ombrosa che attraversa palmeti e piantagioni di cacao tra la città di Gagnoua e il villaggio di Sago è fatta di fango. Ogni giorno le enormi ruote dei camion che la percorrono scavano la terra, creando buche profonde che si riempiono d’acqua anche durante la stagione secca, diventando piscine infestate di zanzare. Il fango rosso è appiccicoso e non si stacca più di dosso. Ne sono pieni i pneumatici dei camioncini, delle vecchie automobili e delle biciclette che ci passano sopra, i sandali di quelli che camminano e i risvolti dei pantaloni degli uomini.
È sporco di fango anche il militare che presidia l’entrata del villaggio di Gueyo. I suoi stivali però sono nuovi e lucidi, segno questo che le coltivazioni di cacao che lo circondano portano ricchezza a tutti. Ferma i pochi turisti di passaggio per scambiare due chiacchiere e consiglia di non proseguire dopo il tramonto. «Ci sono i coupeurs de route – dice -, banditi che approfittano della cattiva condizione della strada per intrappolare e assalire chi passa».
Anche questo è un segnale di ricchezza: i commercianti che vengono a comprare il cacao girano per la foresta con in tasca moneta contante. Parecchia. «Un chilo di cacao – spiega padre Silvio Gullino con un accento ligure, rimasto intatto nonostante 20 anni di Africa – vale sui 350-400 cfa, mezzo euro. E visto che gli acquisti vengono fatti sull’ordine della tonnellata non è difficile capire quanto denaro circola in questa zona».

Ma il cacao non richiama solo i ricchi commercianti avoriani. Negli anni ha attirato decine di migliaia di lavoratori stranieri che si sono tuffati a testa bassa nelle operazioni di raccolta. Durante il periodo dello splendore economico, la Costa d’Avorio ha conosciuto un tasso di immigrazione che superava il 25% (a fronte di quello italiano del circa 3%) e, in 40 anni, è passata da 3 milioni di abitanti ai 20 milioni di oggi.
«Oltre tre quarti dei fedeli nelle cappelle intorno a Sago sono di origine burkinabé – chiarisce padre Jean Benedetti – sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e la foresta si è popolata di villaggi. Molti di loro lavorano per qualche anno in Costa d’Avorio e poi tornano nelle loro case d’origine, altri sono qui da molto più tempo».
Nessuno si è mai preoccupato della presenza di questi immigrati. Anzi. Finché hanno lavorato nelle piantagioni di cacao e hanno permesso all’economia avoriana di crescere a ritmi costanti erano tollerati. «Oggi le cose sono cambiate – spiega Maurizio Crivellaro di Inteational Rescue Committee -. Con la recessione economica degli anni ‘90, molti avoriani che si erano trasferiti in città per lavorare come impiegati o funzionari sono restati senza lavoro e sono tornati nei loro villaggi d’origine, trovando le terre che erano dei loro padri occupate da altre persone».
A 400 km da Sago, nel villaggio di Duékoué gli abidjanesi di ritorno hanno assalito con le armi i lavoratori di origine burkinabé che lavoravano nelle piantagioni. Il risultato è stato disastroso: a causa delle scarse conoscenze agricole gli ex impiegati hanno danneggiato le fave di cacao, facendo precipitare la produzione della zona da 3 mila tonnellate a meno di 500 l’anno.
D i fronte alla crisi politica e alla recessione, molti avoriani hanno trovato un capro espiatorio proprio in quei burkinabé e in quei maliani che prima avevano fornito parte della manodopera su cui si basava l’architettura economica del paese. «Siamo diventati les étrangers, gli stranieri – dice Idrissa Zungurane, un vecchio dioula di origine burkinabé, che ha passato più anni in Costa d’Avorio che nella sua madrepatria – perché i gueré (una delle etnie avoriane di maggioranza) sono gelosi di quello che abbiamo guadagnato onestamente con il nostro lavoro e usano le milizie per cacciarci dalle case che ci siamo costruiti. Sono razzisti».
Ma le accuse di razzismo non sembrano toccare i giovani avoriani. «Sono xenofobo: e allora?» è lo slogan che si sono fatti stampare gli studenti di Abidjan sulle magliette, quando due anni fa hanno sfilato per le strade della metropoli per la prima volta, al seguito dei Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé, leader delle milizie ultranazionaliste e capo indiscusso del movimento studentesco.
«La presenza straniera – grida continuamente ai suoi studenti il trentenne Blé Goudé, che sfoggia anche in piazza impeccabili completi gessati, impreziositi da cravatte colorate – è una minaccia per la purezza della razza avoriana e per tutto il paese. Cacciamo gli stranieri!». Il più citato da Blé Goudé nelle sue agorà improvvisate è il presidente «de l’Afrique digne», il rwandese Paul Kagame, l’uomo che ha saputo cacciare i francesi e gli stranieri.
«Da qualche tempo durante le riunioni dei Jeunes Patriotes – aggiunge Ehouman Kassy, corrispondente da Abidjan di Afrique Magazine – viene proiettato il documentario Touez-les tous! (ammazzateli tutti), in cui scorrono le immagini del genocidio rwandese. Secondo i leader degli studenti, tutto ciò serve per sensibilizzare la gente alle mostruosità della guerra civile, secondo altri per dimostrare ai nuovi adepti che si può compiere un massacro sotto gli occhi della comunità internazionale e delle Nazioni Unite senza preoccuparsi delle conseguenze».

A rafforzare la tesi di Kassy, il totale disorientamento dei caschi blu della Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) all’inizio di gennaio, quando un gruppo non identificato di combattenti ha fatto razzia nel villaggio di Kahin, uccidendo quasi 40 persone sotto gli occhi di alcuni peacekeepers, nel bel mezzo della zona cosiddetta de confiance. «Si è trattato di un gruppo armato di burkinabé esasperati dalla situazione – dice James Copnall della Bbc – che hanno deciso di vendicarsi delle violenze subite recentemente dai militari avoriani. Da 7 anni in Costa d’Avorio si sta ripetendo la storia di Yopougon», il quartiere di Abidjan dove si è verificato il primo massacro.
Nel 2000 un gruppo di poliziotti irruppe nel quartiere di Yopougon e uccise oltre 50 dioula, i cittadini avoriani di origine burkinabé o maliana, accusati dalla radio e da tutti i giornali di essere i colpevoli della recessione economica. «Fu orribile – raccontavano i testimoni dell’ecatombe -. Per salvarci ci siamo dovuti nascondere sotto i cadaveri dei nostri familiari mentre i poliziotti continuavano a sparare».
La vendetta non tardò ad arrivare: due anni dopo, durante la guerra civile, una sessantina di gendarmi e le loro famiglie furono catturati da un gruppo di dioula ribelli e furono passati per le armi al grido di «ricordatevi di Yopougon: adesso tocca a voi».

Nella zona di Sago non si sono verificati massacri ma la situazione è molto tesa. «Nelle nostre parrocchie – dice padre Silvio – non ci sono state violenze di massa, ma ogni volta che uno dei nostri catechisti di origine burkinabé si deve spostare tra un villaggio e l’altro nella foresta, la polizia e i militari gli rendono la vita difficile: lo minacciano e gli estorcono soldi».
Sulla costa gli allogènes di etnia dioula, mossi, krumen e fante, che in passato vivevano nei villaggi della foresta nelle piantagioni di cacao, si sono riuniti in un’enorme baraccopoli alla periferia  di San Pedro «e da quando è iniziata questa guerra – dice Maurice, le cui cicatrici rituali sul volto rivelano una provenienza burkinabé – non siamo più né avoriani né stranieri. Siamo dei disoccupati».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Internet, ma non per tutti

Lavoro da diversi anni per una Organizzazione non governativa (Ong).
Siccome mi occupo di informatica, molti sono convinti che il mio lavoro
consista nel portare le nuove tecnologie nei paesi più poveri. Qualcuno
ne ricava motivi di entusiasmo, qualcun altro di sospetto.
I primi sono abbastanza facili da identificare: i loro discorsi
contengono immancabilmente elogi sperticati a quella grande
«rivoluzione tecnologica» che il Nord ha già sperimentato e che il Sud,
presto o tardi, potrà godere. Agli apprezzamenti seguono, quasi sempre,
proposte di pacchetti tecnologici «chiavi in mano», pronti per essere
esportati nel Sud. A costoro rispondo che i poveri non sanno che
farsene di tecnologie di punta, soprattutto se sono state ideate e
prodotte nei laboratori occidentali. Cercherò di spiegae il motivo
nella prima parte (Per una tecnologia dal volto umano) di questo
dossier, percorso da una domanda di fondo: come coniugare i supposti
benefici della società dell’informazione con quelli di un autentico
sviluppo umano?
I critici del mio lavoro, invece, sono più sfuggenti, ma non meno
categorici: la mia attività consisterebbe nel colonizzare i paesi del
Sud e nel soddisfare bisogni inesistenti: il Sud del mondo avrebbe
bisogno di medicine, di acqua e di scuole piuttosto che di informatica.
A costoro rispondo che hanno perfettamente ragione, ma che hanno
dimenticato due bisogni vitali: l’informazione e la comunicazione.
Nella seconda parte (L’informazione? Oligopoli e nuove povertà), grazie
a una rapida carrellata storica, cercherò di mostrare il faticoso
processo con cui la comunità internazionale ha preso coscienza dello
squilibrio mondiale nell’informazione e nella comunicazione,
presentando le svariate proposte – a volte brillanti, molto più spesso
fallimentari – che sono state poste in atto per arginare lo squilibrio.
Tuttavia, ci sono domande a cui è più complicato rispondere. Provengono
talvolta dagli stessi abitanti dei paesi poveri, che chiedono a gran
voce di non rimanere esclusi da quegli spazi di comunicazione, di
crescita umana e di democrazia che la rete per eccellenza, internet,
sta rendendo possibile. Per loro è già stato coniato il termine
«infopoveri» e si profila una minaccia del tutto inedita, indicata con
il nome di «divario digitale». Quali ne sono le caratteristiche? Come
riconoscere le forme di esclusione nella Rete? A coloro che non si
stancano di porre domande come queste, è rivolta la terza parte (Se New
York vale l’Africa) di questo dossier.

GianMarco Schiesaro

Il Glossario

Banda (larghezza di banda) – È la capacità
di trasmettere le informazioni: maggiore è la «larghezza di banda», più
veloce è la trasmissione. La cosiddetta «banda larga» permette l’invio
di segnali complessi, come quelli multimediali.

Browser – Programma di visualizzazione di contenuti, utilizzato per navigare nel web.

Codice sorgente – È un insieme di istruzioni scritte in un linguaggio di programmazione, in grado di far funzionare un programma.

Cyberspazio – Termine coniato dallo
scrittore di fantascienza William Gibson: è usato per fare riferimento
allo spazio formato dalla totalità dei documenti e dei servizi resi
disponibili in Rete.

Database – Raccolte di dati strutturati in modo da compiere ricerche logiche al loro interno e svolgere elaborazioni automatiche.

Dominio (nome di) – Nome utilizzato per identificare la posizione
elettronica e talvolta geografica di un computer. I nomi di dominio
hanno sempre due o più parti, separate da punti: quella a sinistra è la
più specifica e la parte a destra la più generale (i suffissi
statunitensi come .com, .org, .edu, .net, eccetera, o dei paesi come
.it).

E-commerce (e-business) – Si tratta di transazioni commerciali condotte a distanza attraverso la Rete.

Filtro – Software che permette di
effettuare, per esempio tramite parole chiave, una scelta dei contenuti
internet accessibili all’utente.

Hacker – Termine di uso comune per
identificare una persona con competenze tecniche tali da poter
penetrare nei sistemi informatici protetti. Coloro che si definiscono
«hacker», in realtà, operano in base a un rigoroso codice etico, il cui
principio fondamentale è quello di liberare il flusso della
comunicazione informatica e abbattee le barriere, differenziandosi
così dai pirati informatici, che vengono definiti «crackers».

Hardware – In un computer indica la
macchina, la componentistica fisica in opposizione al software (che
indica i programmi, la parte logica).

Inteauta (cybeauta) – Utente che naviga nei «mari» di internet.

Inteet Caffè (Cybercaffè) – Locale pubblico dotato di computer che consentono agli avventori di navigare in internet.

Modem – Dispositivo hardware che converte i dati informatici per la trasmissione degli stessi sulle linee telefoniche.

Motore di ricerca – Programma
raggiungibile attraverso la Rete e in grado di indicizzare e fornire su
richiesta dell’utente informazioni presenti su internet; strumento
indispensabile per effettuare una corretta e rapida navigazione.

Multimediale – Indica l’integrazione, su uno stesso supporto, di dati di diversa natura: testi, suoni, immagini.

Nodo – Singolo computer direttamente connesso alla Rete.

Provider (Inteet Access Provider) – Foitore di accesso a internet, società che fornisce collegamenti con internet.

Rete (la) – Sinonimo di internet.

Sistema operativo – Programma che controlla la maggior parte delle funzioni base di un computer.

Standard – Insieme di regole o di
specifiche che riguardano la progettazione di dispositivi informatici.
Possono essere di due tipi: gli «standard proprietari» sono quelli
proposti dalle società a pagamento, gli «standard aperti» sono quelli
resi pubblici e messi a disposizione di chiunque.

Telematica – Fusione delle parole
informatica e telecomunicazioni; indica l’insieme delle trasmissioni di
dati tra computer attraverso linee telefoniche o reti.

Word processor – Programma di scrittura che permette la composizione di testi.

GianMarco Schiesaro

Laureato in ingegneria elettronica presso l’Università di Padova, ha
poi conseguito il Master in Cooperazione allo sviluppo presso la
European School of Advanced Studies dell’Università di Pavia.
Successivamente, ha approfondito il tema del rapporto tra tecnologie e
formazione conseguendo il Master in Computer Mediated Communication
presso l’Institute of Education dell’Università di Londra.
Lavora da alcuni anni nel mondo della cooperazione internazionale,
occupandosi presso il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo)
dei progetti di e-leaing nei paesi in via di sviluppo, in particolare
in Albania, Kosovo e Libano.  È inoltre direttore del «Centro di
formazione per lo Sviluppo umano» del Vis, attivo nella formazione
online sui temi della cooperazione, della globalizzazione e dei diritti
umani.
Da alcuni anni si interessa della divulgazione delle tematiche relative
al «digital divide». Nel corso del 2003 è stato rappresentante della
società civile presso il ministero degli Esteri in vista della
partecipazione al Vertice mondiale delle Nazioni Unite sulla Società
dell’Informazione. Ha collaborato con il secondo canale della Radio
svizzera italiana per la realizzazione di alcuni servizi radiofonici
sul tema del divario digitale.
Cura infine il modulo di «Cooperazione allo sviluppo» presso il Master
in Educazione alla pace dell’Università di Roma Tre ed è docente del
corso: «Mass media e paesi del Sud del mondo». Ha pubblicato:
• La sindrome del computer arrugginito,  Nuove tecnologie nel Sud
del mondo tra sviluppo umano e globalizzazione, SEI, Torino 2003
• Formazione online e mondialità, all’interno del volume Tecnologie per
la didattica (a cura di Davide Parmigiani), Franco Angeli Editore,
Milano 2004.

Introduzione e cornordinamento di Paolo Moiola.

GianMarco Schiesaro




Per una tecnologia dal volto umano

Le nuove tecnologie: vanno sempre bene?

Inteet e le nuove tecnologie rappresentano una
rivoluzione, ma non hanno una valenza salvifica. A volte, nel Sud del
mondo (con l’Africa in testa) sono più utili una radio ed un telefono
mobile. Senza dimenticare che le grandi multinazionali tecnologiche non
sono associazioni benefiche. Semplicemente vogliono trasformare i
«poveri» in «clienti». Soltanto mettendo da parte la retorica e
ragionando con senso critico, le nuove tecnologie potranno essere
d’aiuto ai paesi poveri.

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre
(Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire
l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna
e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai
riflettori della modeità e scorre sui binari tranquilli della
tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo
sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà,
tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso
un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo
online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a
questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto
il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modeità non deve stupire: internet
sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e
le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto
è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un
ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture
indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale,
circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di
popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global
Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura
di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete
mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad
internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica
satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con
l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli
standard stabiliti dalle organizzazioni inteazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via
internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di
prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi
in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di
cataclismi naturali.

SE LA SALUTE  VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di
inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato.
Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per
cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti:
la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud
l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione
sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui
trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché
non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro
diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989,
offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30
paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali
servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere
adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni
alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico
affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle
ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono
sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un
software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a
raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà
attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio
spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale
HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene
Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese.
Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità
infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina –
sostiene Maria – è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi
attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento
dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe
un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato
nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate
di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono
certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa.
Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico
successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni,
fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è
bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è
valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus,
inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen
Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la
sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha
esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del
Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale,
solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un
telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani.
La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata.
Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale,
molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso
canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per
garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari
frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una
regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri
contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai
prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che
appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le
chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai
contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a
ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più
avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e
moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli
ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri
Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con
quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org)
trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici
domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto
di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database
contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di
accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per
effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata
impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto
quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse
infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo
alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia
elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano
replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo
strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più
che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i
cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di
oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove
tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro
immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle
raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel
mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti,
che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri
stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella
pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia
per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno
di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano
e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet… Ci
sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La
tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in
Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè…».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e
Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Inteet) serve
a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere
delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società
siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei
casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cornoperative locali,
che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi
correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi:
dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al
turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi
potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere
accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché
delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è
necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni
in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze
rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle
e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé
del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i
poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione.
Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che,
grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di
gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno
ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità
delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con
l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società
dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono
con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo
strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità
internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a
internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare
di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in
una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e
nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché
dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in
Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta
da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba
necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di
migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi
di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali
programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le
uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di
utenti contemporaneamente. Perché – è la domanda ricorrente – non
incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di
base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all’ingresso in massa del mondo del
business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di
trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in
partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti»,
destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente)
a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività
delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di
retorica e da un’assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni
volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno
sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della
tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una
riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un
valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le
finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto
sulle fasce più deboli della popolazione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro