IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie

Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

  1. Popoli indigeni, afro e periferie
  2. La scelta degli indigeni della Guajíra
  3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
  4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
  5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
  6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Popoli indigeni, afro e periferie

È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.

È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.

In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.

I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.

La Quebrada e le altre

Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.

Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.

Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.

Cantiere in costruzione

Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.

Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.

Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.

Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.

Una missione che si apre

Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.

Sergio Frassetto


Quattro scelte

Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.

«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».

Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».

Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».

S.F.


Il primo

Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.

Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.


Lo stratega

Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.

In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.

Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.

Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.

S.F.




IMC Venezuela 50: la scelta dei popoli indigeni

I Missionari della Consolata in Venezuela hanno tra le loro finalità principali l’animazione missionaria e vocazionale. Presto il loro carisma ad gentes li spinge anche sulle frontier dell’annuncio, tra i popoli indigeni. Nasce così la scelta della Guajíra che li vedrà impegnati sul suo vasto territorio per 22 anni, dal 1976 al 1998.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

La scelta degli indigeni

La Guajíra

Il fuoristrada solca veloce il deserto lungo piste invisibili ma ben conosciute dall’indigeno che guida. Il sole spacca le pietre e il vento sferza la faccia riempiendo gli occhi di sabbia.

Dopo tre ore di sobbalzi e sbandate, giungiamo alla meta: un piccolo cimitero cresciuto nel nulla di una landa sconfinata, popolato da morti e frequentato da una tribù di vivi. Qualcuno tra i vivi dorme appollaiato nella sua amaca, qualcuno mangia, qualcun altro beve e gioca a domino.

«Casáchiqui tawala you» («buongiorno amico»). Appena il mio saluto viene udito, un gruppo di donne vestite di mante nere si avvicina alla bara del defunto e inizia il pianto rituale.

Dopo la messa, vengono sacrificati alcuni animali e si consuma un banchetto in onore del defunto. Il tempo passa tra saluti, chiacchiere e racconti, fino all’ora di tornare in parrocchia.

Siamo alla fine degli anni Settanta. Ci troviamo nella Guajíra, la penisola al confine con la Colombia che si sporge nel Mare dei Caraibi all’estremità Nord occidentale del paese, creando il Golfo del Venezuela. È il mondo dei Wayú che, dopo aver saggiato l’amicizia dei missionari, li accolgono con simpatia e li rendono partecipi dei loro riti ancestrali sulla vita e la morte.

E pensare che a fine 1976, quando sono arrivati i Missionari della Consolata nel villaggio di Guarero, quasi al confine con la Colombia, al loro passaggio, la gente si nascondeva. I missionari vedevano solo le ombre muoversi furtive dietro i canneti. È stato grazie a suor Maria, una missionaria laurita, che è sorta l’amicizia tra i missionari nuovi arrivati e la gente.

Suor Maria, colombiana, da cinquant’anni calca il deserto della Guajíra, ed è difficile trovare qualcuno che non la conosca, che non abbia ricevuto una sua visita, un suo aiuto, una medicina, una preghiera. È la carità fatta carne, e i Guajíros, quando hanno bisogno di qualcosa, cercano sempre lei, sicuri di trovare aiuto.

Guarero

Padre Francesco Babbini, fin dal suo arrivo in Venezuela nel 1974, aveva svolto un’intensa opera di animazione missionaria in diverse diocesi del paese. Aveva visitato anche i vicariati apostolici del Caroní (nella zona Sud Est) e di Machiques (nella Guajíra, a Nord Ovest), affidati ai Cappuccini spagnoli, ottenendo di poter stabilire anche lì una missione Imc.

Nell’ottobre del 1976 padre Tullio Bosello, seguito da padre Miguel Sotelo, hanno iniziato a lavorare nella missione di Guarero, l’ultimo avamposto venezuelano prima della frontiera con la Colombia e della città di Maicao, da cui dista appena 20 chilometri, centro del commercio e del contrabbando di tutta la regione.

Guarero vive nel marasma tipico dei posti di frontiera, con la dogana, i venditori ambulanti di cibi, le bevande e migliaia di persone che transitano o attendono impazienti il disbrigo delle pratiche doganali.

Nella missione dedicata al Sacro Cuore di Gesù, le suore missionarie di Madre Laura (di fondazione colombiana) lavorano nel collegio per bambine povere che comprende l’asilo infantile, la scuola elementare, un atelier di arti e mestieri e il centro giovanile. Una volta alla settimana, i missionari visitano i villaggi più importanti dove celebrano la liturgia domenicale. Nei giorni feriali, il lavoro di catechesi nelle numerose scuole della regione è intenso.

Paraguaipoa

Nel 1981, i Missionari della Consolata estendono la loro presenza alla missione di Paraguaipoa, il centro più importante della Guajíra venezuelana. Qui convergono gli indigeni da tutta la penisola per comprare o vendere nel mercato di Los
Filuos, per iscrivere i neonati all’anagrafe o cercare, nell’archivio parrocchiale, il documento di battesimo con cui farsi fare la carta d’identità.

Nel febbraio del 1982, giungono a Paraguipoa, chiamate da padre Sandro Faedi, anche le missionarie della Consolata.

La visita quotidiana alle famiglie, facendosi carico di tanti casi difficili di povertà ed emarginazione, le attività di promozione della donna, dei bambini e della gioventù, e la capacità di dialogo e accoglienza dei missionari e missionarie sono le carte vincenti.

Lavorando in équipe, padri e suore si inoltrano nel deserto della Guajíra seminando, anche nei villaggi più lontani, il Vangelo fatto di amicizia e interesse per i problemi della gente.

Sulla scia di queste visite, nascono scuole e asili, ambulatori, centri comunitari, pozzi per l’acqua e centri di culto.

Sinamaica

Sinamaica, che l’Imc prende in carico nel 1983, è la più antica delle tre missioni, e la più meridionale. Sorge su alcune dune della costa atlantica. È circondata a Est da grandi saline naturali, a Ovest dalla laguna omonima, disseminata di misere palafitte abitate dagli indigeni paraujanos.

Il lavoro di evangelizzazione è rivolto innanzitutto alla scuola della missione, frequentata da oltre 700 alunni, e poi ai villaggi circostanti, dove sorgono piccole comunità del Vangelo, impegnate a vivere la fede e a cercare soluzioni alla povertà e all’emarginazione.

Le feste patronali di san Bartolomeo apostolo, le celebrazioni in onore di san Benito da Palermo, i riti del Natale e della Settimana Santa sono molto sentiti e vengono celebrati nelle forme tipiche della religiosità popolare, ricca di spunti folcloristici e suscettibile di un ampio lavoro di evangelizzazione.

Sergio Frassetto

I Guajíros

Diviso in due dal confine tra Venezuela e Colombia, il popolo indigeno della Guajíra lotta da secoli per preservare identità, tradizioni e lingua. Molti si stanno urbanizzando. Molti altri resistono.

I Guajíros sono una vasta etnia che abita le terre desertiche della Guajíra, la penisola che si protende verso il mare dei Caraibi, a cavallo tra Colombia e Venezuela. Si conoscono tra loro come wayú (persona) e chiamano alijunas (stranieri) i bianchi e i meticci.

Dal 1833 vivono divisi da una frontiera arbitraria che assegna un quinto del loro territorio al Venezuela, e tutto il resto alla Colombia.

Le alte temperature unite agli scarsi rilievi montagnosi, la mancanza di corsi d’acqua e i forti venti dell’Est, fanno della Guajíra un deserto semi arido e inospitale, dove possono trascorrere mesi, e a volte anni, senza che si registrino precipitazioni importanti.

Secondo l’ultimo censimento del 2011, la popolazione wayú residente oggi nella parte venezuelana della penisola, conta 415mila persone (380mila nella Guajíra colombiana). Una forte migrazione verso la vicina città di Maracaibo, importante centro petrolifero del paese, ha formato interi quartieri nei quali vivono, pare, più di 60mila Guajíros.

Nel contesto urbano di Maracaibo si è determinato un veloce processo di perdita dell’identità culturale da parte degli indigeni che hanno subito l’imposizione dei modelli della società dei «bianchi». Molti abbandonano le tradizioni, perdono il senso dell’importanza dei clan, e persino la loro lingua madre.

Per quanto riguarda la condizione economica, in Guajíra non esistono fonti di lavoro o di guadagno: alcuni, pochi, si dedicano alla pastorizia, all’agricoltura o alla pesca. La maggioranza sopravvive nella marginalità con attività informali, tra le quali il narcotraffico e il contrabbando dalla Colombia.

Quest’ultimo contribuisce a indebolire la famiglia, i cui componenti passano gran parte della vita viaggiando. Nelle case rimangono anziani e bambini abbandonati a se stessi.

La Guajíra autentica

Nonostante questo processo, però, la Guajíra autentica esiste ancora. La si trova, ad esempio, nel mercato di Los Filuos, alle porte di Paraguaipoa, dove confluiscono gli indigeni da tutta la penisola per vendere e comprare capre, pecore, pelli e prodotti del loro artigianato, per rifornirsi di filuos (banane da cuocere), riso, carburante, utensili, qualche machete, e anche pallottole.

La Guajíra si scopre nei cimiteri dispersi nella penisola, durante i velorii (veglie funebri) per i morti: là gli uomini, a volte ancora in guayuco (perizoma), e le donne, avvolte nella manta (vestito dai colori vivaci, lungo fino ai piedi), celebrano i riti della vita e della morte, seguendo una tradizione antica.

La Guajíra si scopre ancora nelle carovane di donne e bambini che attraversano la savana polverosa, abbarbicati sui loro asini sotto il sole inclemente, per cercare l’acqua lontana. E si ritrova ancora di più inoltrandosi tra i palmeti dove sorgono piccoli abitati di poche case nascoste tra le dune: minuscole monadi, tagliate fuori dal mondo, fatte di silenzio, lavori di tessitura, orticelli coltivati a mais e yuca (manioca), recinti di capre e pecore. Ambienti familiari semplici: capanne nelle quali di notte si appendono le amache per dormire, con un recinto di pali riservato alla cucina e la enramada (tettoia) di rami di palma, alla cui ombra si svolgono le attività diurne, si ricevono i visitatori e si legano le amache per fare la siesta nei momenti più caldi della giornata.

Questi piccoli villaggi si chiamano rancherie e sono distanti qualche chilometro l’uno dall’altro per facilitare il maneggio delle greggi. (S.F.)


Nascita di una Chiesa  L’alta Guajíra

Cojoro, la selvaggia

La vita cresce dispersa a Cojoro, uno dei villaggi della missione di Paraguaipoa. L’intenso lavoro di promozione umana dei missionari la fa rifiorire. E la costruzione della chiesa dà un cuore e un’identità a questo «non popolo» del deserto.

La savana attorno a noi sembra non avere confini, la vastità del deserto si confonde con l’arco del cielo. Il nostro andare per l’alta Guajíra ha quasi il sapore della profanazione di una cattedrale fatta di silenzio e solitudine. Ci accompagna un sole abbacinante e un sibilo di vento sulla sterpaglia. Qua e là, un albero spinoso resiste all’accanimento del vento. I cactus alzano le loro braccia al cielo, indifferenti.
Un jaguey (stagno) pantanoso, un gregge di capre sonnolente, una capanna di stecche di cactus, dicono che, anche nel deserto, fiorisce la vita. È il 1981. Arriviamo a Cojoro, piccolo villaggio nel territorio della missione di Paraguaipoa nell’alta Guajíra. Ci sono poche capanne avvolte nel silenzio e poi cimiteri che sanno di altre epoche dalle quali dipanano i fili dei numerosi clan dispersi nella penisola.

In lontananza emerge l’ombra rassicurante dei rilievi montuosi di Macuira e la cima del Litujulu, l’Olimpo del popolo wayú. Proprio lassù si consumò il duello tra Maleiwa e il Mare che pretendeva di inondare la terra. Con potenti sassate e frecce di fuoco, Maleiwa mise in fuga il Mare e salvò la terra. I reperti archeologici marini che, ancora oggi, si trovano su quella montagna, costituiscono, per i Guajíros, la testimonianza perenne di quella lotta primigenia.

Dopo la lotta contro il Mare, Maleiwa scese verso la spiaggia bianchissima di Cojoro dove modellò, col fango, uomini e animali: i Wayú innanzitutto, e poi tutti gli altri.

È qui, dunque, nella selvaggia Guajíra, che i missionari, meravigliati, incontrano storie che assomigliano a quelle bibliche, e semi di quella verità con cui Dio arricchisce ogni popolo. Egli non «manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali» (Redemptoris missio 55). Questi miti servono come supporto per innestare la buona notizia del Vangelo.

Dalla dispersione all’unità

La vita cresce dispersa a Cojoro. Visitando le capanne si palpa un senso di abbandono e desolazione. La lontananza, la durezza della vita, la diffidenza reciproca, hanno fatto dimenticare ai suoi abitanti la bellezza dell’incontro, il senso della festa, lo spirito del clan.

La presenza del missionario e delle suore serve a smuovere quelle acque stagnanti.

Si comincia con il catechismo nella scuola, e si cercano testi scolastici con i quali i bambini possano studiare. La ristrutturazione del dispensario medico, in completo abbandono, motiva il rincontrarsi della comunità. Si organizza il processo di iscrizione della gente all’anagrafe. Si forma una commissione che vada dal governatore a chiedere acqua per la regione.

Giorno dopo giorno, gli abitanti di Cojoro cominciano a interessarsi dei problemi della comunità per risolverli.

Dato che manca un luogo di coesione che vinca la dispersione geografica, ma soprattutto interiore, sorge la chiesetta, e in essa viene ad abitare la Madonna Consolata. Attorno a questa madre di popoli, un popolo disperso trova motivi per incontrarsi, celebrare e fare festa.

Cojoro, la selvaggia, non è più completamente sola: nel deserto ora fiorisce la vita e nei cuori rinasce la speranza.

Comunità del Vangelo

Animati da questo spirito che ci spinge a cercare la gente del deserto di Cojoro, raggiungiamo i luoghi più isolati della penisola. Fuori dei villaggi costituiti in epoca coloniale, l’indigeno guajíro tende a sistemarsi lontano dagli altri. Il movimento delle greggi esige grandi spazi. La necessità di autodifesa vuole una zona di sicurezza attorno alla casa per avvistare i nemici e non esserne sorpresi.

A questo si aggiunge la realtà del contrabbando, per cui componenti della famiglia passano la maggior parte del tempo lontano da casa, viaggiando da una città all’altra. Per queste ragioni non è pensabile poter formare grandi comunità cristiane. In Guajíra difficilmente sorgerà un cristianesimo di massa.

Coscienti di questa realtà, i missionari passano di casa in casa offrendo parole di amicizia e cercando di stimolare la nascita di interessi comuni tra vicini, non basati semplicemente sulla parentela o lo scambio di favori, ma sulla Parola annunciata da Gesù che riguarda l’unico Padre che ci rende fratelli. Questa verità si esprime concretamente nel gesto di ritrovarci periodicamente per leggere la Parola, celebrarla nell’eucaristia e attuarla in un «darsi da fare» a favore di tutti.

In questo modo nasce la chiesa della Guajíra: una realtà costituita da tante piccole «comunità del Vangelo», dove i gesti della condivisione e della testimonianza sono segno della presenza di Gesù che consola, infonde speranza, e offre salvezza.

Sergio Frassetto


Un’evangelizzazione inculturata

L’opera missionaria nella Guajíra è una sorta di pellegrinaggio nel quale i missionari «camminano assieme» alla gente, accompagnando il popolo in atteggiamento di ascolto, accoglienza e dialogo. Nel rispetto della coscienza dei Guajíros e delle loro tradizioni culturali.

L’anima religiosa dei Guajíros si esprime innanzitutto in relazione ai defunti che costituiscono una presenza importante e, a volte, dominante nella vita delle famiglie. Far celebrare messe per i defunti, rispettare i voti fatti a san Benito da Palermo (un santo nero la cui devozione è stata diffusa dai Cappuccini), battezzare i bambini, guardare la processione che passa, sono alcuni dei modi tramite i quali molta gente esprime la propria fede in Dio.

In questo contesto, dal 1976 al 1998, l’opera di evangelizzazione dei missionari della Consolata si è concretizzata, innanzitutto, nell’amicizia e nella vicinanza alla quotidianità delle persone.

La testimonianza è diventata annuncio, e l’annuncio ha favorito l’acquisizione di valori fondamentali come la famiglia, il perdono, il senso della comunità, e la coscienza che Dio è «padre dei viventi». Questo lavoro è avvenuto innanzitutto mediante la catechesi nelle decine di scuole del territorio visitate ogni settimana.

Nella Guajíra non si può immaginare una catechesi «preconfezionata», estranea alla cultura e alle modalità della narrazione, del racconto, dell’immagine, del gesto.

Così i missionari, rimettendo i panni degli studenti, hanno imparato che, invece di parlare di Dio, è più comprensibile per gli indigeni il nome di Maleiwa, il demiurgo mitico che salvò la terra dall’invasione delle acque e modellò gli uomini con il fango. Il demonio è meglio conosciuto come Wanülü, lo spirito del male, che provoca malattie e morte in chi lo incontra, o Yolujá, lo spirito dei morti, altrettanto pericoloso.

E per spiegare agli alunni la somiglianza dell’uomo con Dio, anziché ricorrere alla filosofia, è più efficace usare uno specchio: la faccia che vedono riflessa assomiglia a quella di Dio.

Tra il sabato e la domenica, i Missionari della Consolata raggiungevano quasi tutte le cappelle e offrivano alle comunità la celebrazione eucaristica in un tour de force che, alla fine, lasciava esausti.

A volte si celebrava la messa, spesso soltanto la liturgia della Parola. L’importante era valorizzare il momento comunitario in modo che diventasse tempo di salvezza per i partecipanti.

I missionari, per comunicare la vicinanza di Dio alla vita quotidiana delle persone, rinunciavano al ruolo di maestri. Questo permetteva agli indigeni di essere soggetti della loro scoperta di Dio e della loro fede, con la loro identità e secondo i paradigmi della loro cultura.

Nell’accompagnare il cammino storico dei Wayú, illuminandoli con l’annuncio della buona notizia, la missione diventava pellegrinaggio spirituale verso il Regno. Si trattava di «camminare assieme» accompagnando un popolo in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e dialogo.

Molti segni, negli anni, hanno indicato che i Guajiros camminano verso la propria realizzazione storica. L’impegno e la testimonianza di un piccolo gruppo di cristiani, uniti alla diffusione di tante comunità ecclesiali, nate dal lavoro dei missionari, sono realtà tangibili. Si tratta di «comunità del Vangelo» nelle quali crescono rapporti umani di solidarietà e impegno per la trasformazione della realtà alla luce della parola di Dio. (S.F.)

Nascita di una Chiesa – Sinamaica

Tra le palafitte della laguna

A Sinamaica, il popolo añú (del gruppo Aruache, che nell’ultimo censimento del 2011 contava circa 21mila unità) vive in una condizione di marginalità e indigenza, anche a causa dello sfruttamento ambientale che degrada il territorio. Al loro arrivo, i missionari cercano di promuovere la vita a tutti i livelli: da quello materiale a quello spirituale.

Nel 1983 la missione ci spinge a navigare anche per la laguna di Sinamaica alla ricerca del popolo añú. Sembra di sognare quando ci addentriamo, per la prima volta, in questo angolo di paradiso. Di fronte a noi si presenta la visione di una placida distesa di acquitrini, solcata da canali, disseminata di palafitte e abbellita da una vegetazione lussureggiante. L’insieme dà l’impressione di un mondo incantato. Eppure capiamo presto che si tratta di una quiete agonica. La laguna, che con le sue palafitte e canali può evocare una lontana piccola Venezia o «Venezuela», sta morendo.

Una laguna che muore

La canalizzazione del lago di Maracaibo, per consentire alle navi petroliere di accedere ai ricchi giacimenti dello stato di Zulia, ha compromesso il delicato equilibrio ecologico di quest’ambiente, provocando la salinizzazione delle acque, la distruzione delle risaie e la scomparsa di molte specie vegetali e marine.

Di lì è iniziato pure il calvario di questi indigeni (chiamati anche «Paraujanos», o abitanti della costa del mare), causato dall’abbassamento e inquinamento delle acque, dalla loro sedimentazione e dall’impaludamento della laguna. Le eliche dei motori delle barche si rompono sui fondali a causa dell’acqua troppo bassa, ed è difficile raggiungere le palafitte che rimangono piantate nel fango.

Bisogna entrare in esse per conoscere la deplorevole condizione di miseria e abbandono in cui vive la gente. Colpisce il sovraffollamento di questi tuguri, stanzette dove vivono anche venti persone con gli occhi fissi sull’acqua torbida.

È la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’abbandono e dell’ingiustizia.

Oltre alle persone, nelle palafitte ci sono poi altri inquilini: galline, cani, gatti e addirittura maiali.

La quantità di persone con disabilità ci fa sorgere numerosi interrogativi.

Di fuori, sul pontile, c’è un eterno fuoco sul quale si abbrustolisce il pesce, e grandi fasci di enea, il giunco che cresce nei pantani, ai margini della laguna, e che serve per fare stuoie, l’unica povera ricchezza di queste famiglie.

Privati della loro lingua, l’añú, che ormai più nessuno parla, e della loro cultura, gli stessi indigeni stanno morendo di stenti e malattie. Vivono nell’acqua, eppure ne sono privi, perché salmastra, inquinata, putrida. Alto è anche il tasso di mortalità infantile dovuto ai parassiti che aggrediscono l’intestino dei bambini. Gli uomini sono costretti a emigrare a Sud di Maracaibo, verso i porti di Altagracia, dove si dedicano alla pesca al servizio di grandi compagnie. Le donne, come la maggioranza dei Guajíros, praticano il contrabbando. Chi rimane nella laguna, si dedica alla pesca o alla raccolta di enea.

 

Una realtà da promuovere

In quest’ambiente, la Chiesa è chiamata a costruire il Regno di Dio tramite gesti di solidarietà concreta, specialmente verso i più poveri. È così che le suore missionarie Laurite decidono di andare a vivere nella laguna per incarnarsi nella sua realtà e condividere la vita dei suoi abitanti.

La scelta dell’inserzione, del radicamento, permette ai missionari di accompagnare gli Añú nella vita quotidiana aiutandoli a scoprire i loro carismi e possibilità.

I frutti non tardano: sorge l’asilo per i bambini, la scuola di tessitura dell’enea e della lavorazione del legno per i giovani. In un edificio costruito appositamente, si realizza l’esposizione e la vendita permanente dell’artigianato locale. Si crea un mercatino dove si commerciano al prezzo di costo i prodotti più comuni della dieta.

L’attenzione si rivolge anche alle tagliatrici di enea: quasi tutte donne anziane, costrette a stare l’intera giornata nell’acqua con il pericolo dei serpenti e delle razze marine.

Si tratta di un lavoro duro che, alla lunga, rompe le ossa, e che i commercianti di stuoie pagano una miseria. Bisogna promuovere una forma di lavoro solidale che sostenga la produzione e assicuri una più giusta retribuzione. Con difficoltà si riesce a vincere la loro riluttanza a riunirsi e si forma la «Cooperativa delle tagliatrici di enea»: una specie di sindacato che decide il prezzo unico e giusto del loro lavoro. Queste iniziative smuovono le acque, la gente si anima e crea la «Fondazione pro Laguna», costituita da rappresentanti del popolo añú. La fondazione si propone di migliorare le condizioni di vita della popolazione. I risultati positivi sfociano nella visita del presidente della repubblica Luis Herrera, e in quelle successive di sua moglie. L’acqua potabile arriva fino al porto, è installata l’elettricità in un settore della laguna e cominciano i lavori per dragare i canali tappati dalla sedimentazione delle acque.

Una chiesa su palafitta

La Madonna del Carmine rappresenta una lunga tradizione di fede per il popolo añú. Una piccola statua scrostata langue in una palafitta che, secondo il dire di alcuni, un tempo fungeva da cappellina.

In una notte di burrasca il fiume si porta via la chiesetta, vecchia e malandata, ma con l’aiuto di alcuni benefattori e il lavoro degli Añú, i missionari ne fanno sorgere una nuova, più grande ed elegante: si tratta, naturalmente, di una robusta palafitta dallo stile in perfetta armonia con le abitazioni dei Paraujanos. Le colonne possenti in legno, le travature a vista, le pareti a forma di palizzata e il tetto di giunco ne fanno un luogo di pace particolarmente adatto alla preghiera.

Qualcuno regala una nuova immagine della Madonna e qualcun altro una campanella, delizia dei bambini che non smettono di suonarla. Le feste patronali si fanno più sentite e partecipate. La regata della Madonna, lungo i canali, diventa una tradizione di incomparabile bellezza. Sboccia un germoglio di vita liturgica con le prime comunioni, qualche messa per i defunti e il primo matrimonio religioso.

Nella Laguna di Sinamaica si cerca di concretizzare il Vangelo attraverso uno sforzo di promozione umana non indifferente. Da qui nasce la Chiesa: una piccola comunità di cristiani, uniti da vincoli di carità, impegnati in prima persona nella crescita della loro gente.

Sergio Frassetto


Identificazione piena

I Missionari della Consolata nei 22 anni della loro presenza nella Guajíra, hanno cercato di identificarsi con il popolo, senza paura di perdere la loro dignità. Tra gli avventizi di Campamento, sotto una capanna, o tra i baraccati della Rancheria, sotto una tettoia di palme e, ancora, nell’emarginata Laguna del passero, sotto un albero. Si sono fatti transumanti come il popolo wayú, e l’hanno accompagnato, nomadi, attraverso il deserto, dietro le sue greggi, nei cimiteri con i suoi antenati, nei luoghi di festa condividendo le sue tradizioni, sulle strade del contrabbando mentre cercava la propria sopravvivenza.

È stato un cammino difficile, così come lo fu quello di Israele durante i 40 anni trascorsi nel deserto: quel gruppo di israeliti ex schiavi ebbe modo di sperimentare la presenza di Dio come di colui che si china sul povero per liberarlo dalla miseria e dall’oppressione. Per questo divenne l’«opzione» dei poveri d’Israele.

Allo stesso modo, i missionari e le missionarie della Consolata, nella Guajíra, hanno cercato di dare voce, attraverso la loro voce, alla parola di Gesù, di attualizzare negli eventi sacramentali i suoi gesti, di essere testimonianza del suo amore mediante uno sforzo di conoscenza e assunzione della realtà umana in cui erano chiamati a operare a favore dei poveri. In questo modo sono diventati il sacramento della compassione di Gesù che si china su coloro che hanno fame e sete, che piangono e soffrono, che muoiono. È così che la Chiesa ha conquitato il cuore della Guajíra e che Gesù è diventato l’opzione dei suoi poveri. (S.F.)

1976-1998: Guajíra, missione compiuta

La Guajíra che faceva parte del vicariato apostolico di Machiques, nel 1998 è diventata parte dell’arcidiocesi di Maracaibo, e i Missionari della Consolata, dopo 22 anni di presenza, si sono ritirati per aprirsi a un nuovo campo di lavoro.

Padre Giano Benedetti, ai tempi superiore della delegazione, ha descritto l’addio così: «Il 4 luglio 1998, durante una concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Ovidio Pérez, arcivescovo di Maracaibo, abbiamo consegnato la parrocchia di san José di Paraguaipoa al clero diocesano. Sinamaica e Guarero erano già state consegnate, rispettivamente a marzo del ’97 e del ’98. I Missionari della Consolata sono stati ringraziati, all’inizio e alla fine della messa, per il lavoro che hanno svolto fin dal 1976, quando era stata affidata loro la parrocchia di Guarero.

Sono stati ricordati per nome e cognome tutti i Missionari della Consolata che hanno annunciato il Vangelo nella Guajíra venezuelana. Anche mons. Ovidio ha ringraziato per la nostra opera e ci ha ricordato che le porte della sua arcidiocesi rimanevano aperte per noi.

I Missionari della Consolata hanno lasciato la Guajíra, ma la Consolata e il nostro carisma rimangono nella terra dei Wayú. Le Missionarie della Consolata continueranno [per qualche anno] la loro presenza a Paraguaipoa, e la
Madonna continuerà come patrona dei caseríos di Cojoro e san Rafael de Paraguachón.

Lasciando questa terra abbiamo ringraziato Dio per il dono della vocazione missionaria, coscienti d’averla vissuta con il nostro servizio, affinché anche i Wayú fossero un’offerta gradita a Dio e perché abbiamo cercato l’unica ricompensa di tutti gli apostoli: annunciare gratuitamente il Vangelo». (S.F.)

Le missionarie della Consolata

In Venezuela dal 1982, hanno collaborato con i loro fratelli missionari a Paraguaipoa, in Guajíra, e poi, dal 2006 al 2015, a Nabasanuka, tra i Warao. Si sono spinte fino al vicariato apostolico di Puerto Ayacucho, dove svolgono apostolato urbano in città; nella missione di Tencua, in piena selva amazzonica, tra gli indigeni Yecuana. La collaborazione con i missionari prosegue nel campo dell’animazione missionaria a Caracas.

 




IMC Venezuela 50: con gli afro discendenti

La regione di Barlovento, caratterizzata da un clima tropicale caldo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del cacao. Questo ha determinato la maggiore concentrazione di afrodiscendenti di tutto il Venezuela. I padroni delle piantagioni sono i bianchi, gli stessi di un tempo, mentre i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa continuano a raccogliere il cacao come i loro antenati.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana


Nella terra del cacao

Tra gli afro di Barlovento

«Barlovento, Barlovento, tierra ardiente y del tambor», canta l’afro quella terra «calda e del tamburo» che lo vide schiavo, costretto a lavorare nelle piantagioni di cacao dei padroni europei, ma libero di danzare al ritmo del tamburo che ricorda quelli lontani dell’Africa, sua terra di origine.

«Barlovento» è il nome di una regione prospicente al Mare dei Caraibi, a un centinaio di chilometri a Est della capitale Caracas, abitata in prevalenza da afrodiscendenti1.

Il clima tropicale, caldo umido, insieme a particolari correnti ventose marine, provoca precipitazioni quasi quotidiane che fanno arrivare l’umidità fino al 70%. La produzione del cacao è in mano a pochi latifondisti originari delle isole Canarie, e la popolazione continua a raccoglierlo come al tempo della colonia.

I popoli afrodiscendenti costituiscono nel 2020 un terzo degli abitanti dell’America Latina. Insieme ai popoli indigeni, sono la fetta di popolazione più svantaggiata, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione, il lavoro, la salute, le infrastrutture, l’accesso ai servizi pubblici in generale e la povertà.

Tutto ciò è il prodotto di una situazione di esclusione e discriminazione strutturale, legata a secoli di razzismo.

Eppure, anche se vivono ai margini, loro sono lì, cantano e ballano al ritmo dei tamburi, offrendo i loro valori originari e originali. Chiedono rispetto, dignità e opportunità. La famiglia missionaria della Consolata cammina con loro dal 1986.

Un po’ di storia

A Barlovento, i Missionari della Consolata oggi lavorano nelle parrocchie di Tapipa, Panaquire, Il Clavo e Caucagua, paesi a un centinaio di chilometri a Est da Caracas. Vi sono arrivati nel 1986.

L’antefatto della presenza dell’Imc nella zona sta nell’arrivo dei nostri missionari, nel 1978, alla parrocchia della Sacra Famiglia di Los Castores (piccolo centro urbano a pochi chilometri a Sud di Caracas, lontana 100 km da Tapipa, Panaquire e Il Clavo, ma ai tempi nella stessa diocesi).

Lì, a Los Castores, erano stati chiamati da mons. José Bernal, vescovo di Los Teques. Era una realtà pastorale relativamente giovane che si innestava sul fenomemo dell’urbanizzazione residenziale della media borghesia che lavorava nella capitale. Era una bella parrocchia, con una buona partecipazione della gente alla messa domenicale e alle altre attività, e un elevato spirito missionario che si esprimeva in aiuti concreti e sostanziosi alle missioni della Guajíra. La parrocchia costituiva anche un aiuto finanziario per il gruppo della Consolata in Venezuela che non aveva molte altre entrate.

Dopo qualche anno, il vescovo mons. Pio Bello, successore di mons. Bernal, ha chiesto all’Istituto di assumere la responsabilità pastorale anche delle tre parrocchie di Barlovento (oggi nella diocesi di Guarenas-Guatire). «Avete una parrocchia buona – ha detto – ed è giusto che ne prendiate altre più bisognose, perché povere e senza prete».

Fin dall’inizio dell’Istituto, i missionari della Consolata si erano dedicati all’Africa e, stando in America, il campo più appropriato cui dedicarsi sembrava quello degli indigeni. Inoltre il numero di missionari, piuttosto ridotto, non sembrava poter assicurare una presenza duratura in queste nuove aperture. Ciò nonostante in Venezuela hanno deciso di rispondere positivamente alla proposta del vescovo, anche grazie alle esortazioni del superiore generale di allora, padre Giuseppe Inverardi: «Los Castores e La Puerta sono due parrocchie che hanno permesso il nostro consolidamento e sviluppo in Venezuela, anche attraverso l’aiuto finanziario. Tuttavia, per fedeltà a noi stessi e alle nostre finalità, credo che non possiamo perpetuare la nostra presenza in queste parrocchie. […] Da anni si parla di questa apertura tra gli afroamericani della zona di Barlovento. Non può rimanere, tuttavia, una semplice prospettiva. È un discorso da concludere il prossimo anno […]».

Presa la decisione, è stato necessario valutare quale delle parrocchie nelle quali eravamo presenti avremmo lasciato. La scelta, alla fine, non è caduta su Los Castores o La Puerta, bensì su Zorca, una parrocchia nella regione del Táchira, a 800 km a Sud Ovest, ai confini con la Colombia.

 

Il superiore della delegazione, padre Nelson Lachance, ha scritto ai suoi confratelli per l’occasione: «Il 2 settembre 1985, dopo 10 anni di infaticabile attività pastorale, i padri lasciano Zorca, dopo aver ricevuto da tutta la parrocchia una grande manifestazione di affetto e di gratitudine. Per la gente di Zorca il saluto commovente e grandioso vuole essere non un “addio”, ma solo un “arrivederci a presto”. Così la Delegazione del Venezuela conserva l’incarico di due sole parrocchie: quella di La Puerta (Diocesi di Trujillo) e quella di Los Castores (Diocesi di Los Teques) e si assume il compito di aprire un seminario in Caracas per il corso di filosofia e di iniziare una missione nel territorio di Barlovento tra gli afroamericani».

Nel 1986, tre missionari sono stati destinati a lavorare tra gli afrodiscendenti di Barlovento. Facendo vita comune a Tapipa, la prima delle tre parrocchie, hanno iniziato a servire anche le altre due: Panaquire a 10 km e Il Clavo a 30 km.

A novembre del 2018, dopo 32 anni, la responsabilità pastorale dei missionari della Consolata che lavorano a Barlovento, si è estesa alla vicina parrocchia di Caucagua, il capoluogo della regione, dove si sono trasferiti e da dove continuano a servire le parrocchie precedenti e le altre comunità cristiane (circa una quarantina), sparse sul territorio.

Sergio Frassetto

Nota:

1 – Con il termine afrodiscendenti si intende tutti i popoli e le persone di discendenza africana nel mondo. In America Latina, il concetto si riferisce alle diverse culture «nere» o «afroamericane» emerse dai discendenti degli africani, quelle sopravvissute alla tratta degli schiavi avvenuta nell’Atlantico dal XVI al XIX secolo.


Fino al 1854: la schiavitù

La tratta degli schiavi in Venezuela fu un fenomeno relativamente contenuto rispetto a altre nazioni come Cuba, Brasile, Colombia e Perù. La colonia spagnola del Venezuela era una delle poche che non possedeva metalli preziosi o altri prodotti che avrebbero permesso una prosperità economica immediata, così gli appetiti degli schiavisti furono attirati da altre regioni. I documenti dell’epoca indicano che, alla fine del XVIII secolo, il Venezuela aveva «a malapena» 60mila schiavi, una piccola cifra rispetto ai 450mila neri e mulatti liberi residenti allora nel paese.

Sfumato il mito dell’«El Dorado», i coloni si dedicarono all’agricoltura, e lo fecero sfruttando dapprima la manodopera indigena, e poi quella africana. Quest’ultima fu utilizzata nelle piantagioni costiere di zucchero, cacao, tabacco e caffè.

Il cacao, soprattutto, coltivato nella regione di Barlovento, fu all’origine di un processo relativamente rapido di accumulo di capitale e di ricchezza da parte dei coloni.

Lo schiavo era un investimento economico utile alla produzione di una determinata merce da collocare sul mercato internazionale. I diritti del padrone, codificati, recitavano: «I padroni hanno diritto di frustare i loro schiavi, di incatenarli o metterli ai ceppi, ma non di ferirli o di ucciderli. Se la punizione è stata eccessiva al punto di diventare scandalosa, il padrone può essere obbligato a vendere lo schiavo maltrattato a una persona meno crudele. E deve venderlo al prezzo di acquisto».

Il lavoro forzato e le sofferenze indicibili della schiavitù portarono molti uomini e donne alla ribellione e alla fuga. Nel 1721 le autorità calcolavano che fossero circa 20mila i fuggitivi chiamati «Cimarrones», nella zona di Caracas. I nomi Cumbo, Cumbito, Maroma, Quilombo, Rochelas, Palenque, ricordano ancora oggi quelle ribellioni e i luoghi nei quali avvennero.

Durante tutto il tempo della colonia, la Chiesa battezzò e catechizzò gli schiavi. Secondo molti, questo atteggiamento favorì l’istituzione della schiavitù. Secondo altri fu un’opera di misericordia per alleviare le loro sofferenze e aiutarli attraverso la famigliarità e la solidarietà che nascevano dal professare la stessa fede nell’unico Dio.

Rovesciato il regime coloniale spagnolo, nel 1811 la Giunta suprema di Caracas abolì la tratta degli schiavi, ma non la schiavitù che fu abolita del tutto solo nel 1854. (S.F.)

Religiosità afro

Le celebrazioni comunitarie, il gusto di fare processioni insieme, di rullare i tamburi per dare ritmo al canto, alla danza e alla musica, sono elementi caratteristici della cultura degli afrodiscendenti dell’America Latina.

L’aspetto religioso occupa un posto rilevante nella vita degli afroamericani ed emerge, soprattutto, nei periodi di crisi, negli eventi più importanti della vita, come la nascita e la morte, e nei tempi significativi della comunità, come le feste patronali, la Settimana Santa, il Natale.

Le espressioni della loro religiosità affondano le radici nell’incontro tra i culti e le tradizioni che i neri portarono dall’Africa e la prima evangelizzazione. Ne sono scaturite peculiari espressioni della fede che chiamiamo «religiosità popolare».

La suggestione simbolica delle immagini di Cristo e dei santi, proposte dai primi missionari, è calata nell’anima delle popolazioni afro, ma è vissuta quasi sempre in maniera slegata dalla storia evangelica.

Oltre alle radici religiose degli afrodiscendenti, e ai nuovi modelli sociali nei quali si sono venuti a trovare, ha contribuito a reinterpretare il significato di tali immagini l’esigenza degli schiavi di ritrovarsi, in terra d’esilio, per celebrare i riti dell’Africa e capirsi tramite il linguaggio dei tamburi.

Attraverso il culto dei santi, hanno cercato scampo alla dura condizione imposta loro dagli europei e hanno mantenuto vivo il dialogo con le divinità delle loro origini. (S.F.)


La Settimana Santa e la croce fiorita di maggio

Tra folklore e fede

Tra il venerdì che precede la Settimana Santa, chiamato «Venerdì del concilio», e il Sabato Santo, si susseguono a Barlovento otto processioni, chiamate «Passi», nelle quali si evocano i vari aspetti della passione del Signore. Ogni passo viene «illustrato» da immagini sacre collegate ciascuna a una confraternita che gestisce la processione con tutti i suoi corollari: candele, fiori, banda musicale e mortaretti.

Il sentimento religioso degli afroamericani di Barlovento si manifesta in modo speciale nelle celebrazioni della settimana santa che cominciano il venerdì che precede la domenica delle palme. Viene chiamato «venerdì del concilio», con riferimento al conciliabolo tra il Sinedrio e Giuda che, per 30 denari, vende Gesù.

Il venerdì del concilio è una giornata a carattere penitenziale. Viene esposta alla venerazione dei fedeli l’immagine della Madonna «dolorosa», una statua rivestita di un manto nero, con parrucca e merletti di foggia spagnola cinquecentesca, e con il cuore trafitto da spade.

La domenica delle Palme moltissima gente si accalca per ricevere il ramo d’ulivo benedetto; quindi, si inaugura la prima di una serie impressionante di processioni, che si susseguiranno per tutta la settimana. Le processioni costituiscono un elemento fondamentale della religiosità popolare afroamericana. Esse esprimono la dinamica delle peregrinazioni e simboleggiano il tema della vita: chi è vivo cammina e si accompagna agli altri.

Ogni giorno della settimana santa ha luogo un «passo», cioè la rievocazione di un episodio della passione del Signore per accompagnare Cristo sofferente, con il quale ci si identifica.

La domenica delle palme, alla sera, ha inizio il primo «passo», che ricorda Gesù che suda sangue nel Getsemani: viene portata in processione un’enorme statua di Cristo in ginocchio, sovrastato dall’angelo che gli porge il calice della passione.

Nei giorni seguenti si va in processione con altre statue: il lunedì con quella di «Gesù flagellato alla colonna», il martedì con quella di Cristo «umiltà e pazienza» e il mercoledì santo con quella del Nazareno che si apre la strada verso il Calvario.

Il Nazareno

Il Nazareno rappresenta Gesù, vestito di una tunica viola, che sale la collina del Calvario con la croce sulle spalle. È l’«uomo dei dolori», cantato dal profeta Isaia, che personifica tutto ciò che la gente vive e soffre. Nello stesso tempo riflette il volto di un Dio solidale, che si mette nel cammino della vita condividendone con noi i rischi e le conseguenze.

In questo giorno si «pagano» le promesse e i voti fatti a Dio durante l’anno: alcuni si vestono da «nazareni», altri fanno il «velorio», ossia vegliano accanto alla statua durante tutto il giorno, con una candela accesa in mano. La gente compie sacrifici che non farebbe in nessun’altra occasione.

Alla sera la gente partecipa alla processione: centinaia di mani sorreggono la portantina per tutte le strade del paese mentre si canta e si prega, rivivendo le stazioni della via crucis. Ogni cento metri la banda intona una marcia funebre. La processione si blocca e la statua viene fatta «ballare» avanti e indietro per tutta la durata della musica.

La processione dell’incontro

Il giovedì santo, dopo la messa vespertina, «si fa morire» Cristo prima del tempo, portando in processione il crocifisso.

Il venerdì, le processioni sono due. Al mattino, i fedeli accompagnano il crocifisso, seguito dalla bara di cristallo, alla cappella del Calvario, situata in cima al paese dove viene rievocata la deposizione dalla croce e la sepoltura.

Nel pomeriggio, la gente si riunisce di nuovo in chiesa per la tradizionale «adorazione della croce» e il «sermone» sulle «sette parole» pronunciate da Gesù in croce.

Alla sera, la popolazione si divide in due gruppi: il primo parte dalla chiesa parrocchiale portandosi dietro le statue della Madonna dolorosa, di san Giovanni e Maria Maddalena, ognuna montata sul proprio carroccio. Il secondo gruppo si raccoglie all’altro estremo del paese, nella cappella del Calvario. Da qui discende lentamente verso la chiesa, accompagnando il «santo corpo». È la «processione dell’incontro». A metà strada, infatti, la Dolorosa e le altre due immagini s’incontrano con Cristo morto, e gli fanno «la riverenza».

È il momento culminante della tradizione religiosa degli afroamericani, nessuno è disposto a perderselo. La gente si accalca, la banda fa ricorso alle note più ispirate e commoventi. Il carroccio della Madonna viene sollevato di peso e piegato in avanti: è la madre che fa la riverenza al figlio. Il rito si ripete per tre volte. Seguono le riverenze di san Giovanni e della Maddalena. Il popolo accompagna con esclamazioni di approvazione e applausi.

La Pasqua di Giuda

Per la maggioranza della gente la settimana santa termina il venerdì. Il sabato, dopo una veloce processione mattutina, chiamata «della solitudine», in cui la Madonna va in cerca del figlio morto, la gente dedica il resto della giornata all’allestimento del pupazzo di Giuda, in collaborazione con amici e vicini. Una volta pronto, il pupazzo viene esposto nei crocicchi delle strade.

La domenica di Pasqua, la gente diserta la chiesa e nel pomeriggio si lancia nell’ultima processione. Il «santo di turno» è proprio lui, Giuda Iscariota. I tamburi rullano, i balli sono sfrenati, i lazzi e le battute si sprecano senza pietà. Giunti sul luogo prestabilito, viene letto il «testamento di Giuda», nel quale sono nominate le persone a cui lascia i suoi averi. È l’occasione per prendere in giro le persone del paese che durante l’anno, per diversi motivi, sono state protagoniste della cronaca locale. Alla fine, il povero Giuda, impiccato al ramo di un albero, viene bruciato.

La croce fiorita di maggio

La Pasqua, tuttavia, non è dimenticata, ma viene «rimandata» al 3 di maggio, alla festa della Santa Croce. In questa ricorrenza legata alla fertilità e alla vita che rinasce, viene ricuperato il senso completo del mistero pasquale.

Popolarmente è chiamata «velorio», o veglia della croce. Comincia la sera della vigilia e si protrae fino al giorno seguente, intercalando preghiere e balli culminanti in una grande festa popolare.

Le radici della festa vanno cercate nelle tradizioni cristiane giunte dalla Spagna. Nei tempi più antichi, in Spagna si eleggeva una regina col nome di Maya, la quale evocava l’omonima dea romana e presiedeva le feste contadine di maggio e giugno; il suo trono veniva posto vicino a un albero.

A poco a poco si riempì questa ritualità con un contenuto cristiano: invece dell’albero si iniziò a piantare una croce e, dal primo giorno di maggio, la gente cominciò a collocare, all’entrata delle case, su piccoli altari, croci adornate di fiori. Si facevano offerte, non più a Maya, ma alla croce, che diventò quindi oggetto della festa popolare.

Questa tradizione, combinata con elementi religiosi autoctoni, ha dato origine all’attuale festa della «Croce fiorita di maggio». Oggi si celebra in tutto il paese, ma è soprattutto nella regione di Barlovento, tra gli afroamericani, che assume il carattere di manifestazione tipica della religiosità popolare.

Nel luogo prescelto, l’altare viene abbellito con fiori e teli colorati, quindi viene sistemata la croce vestita a festa: è bianca, sormontata da una ghirlanda di fiori, con ornamenti colorati sulle braccia. Sulla croce non c’è l’immagine di Cristo crocifisso. Egli, infatti, ha vinto la morte ed è risorto. Si tratta dunque di una croce pasquale.

La veglia dura tutta la notte ed è caratterizzata da rosari intervallati da litanie e balli cadenzati dai tamburi.

Il giorno dopo si celebra la messa solenne, alla quale i membri della confraternita partecipano con la loro uniforme rosso sangue. Segue la processione al monte della croce dove il presidente della confraternita offre al bacio della gente un ostensorio con una improbabile reliquia della croce.

Data la stretta relazione con la natura e la fertilità, la celebrazione della croce fiorita di maggio parla di creazione, vita, vittoria sulle forze del male, in altre parole, esprime la dimensione pasquale del mistero di Cristo.

Si stabilisce così una connessione ideale con il venerdì santo, quando le celebrazioni della Pasqua terminavano con la venerazione di Cristo nel sepolcro. Quello che apparentemente era un finale senza relazione con la risurrezione, trova la sua proiezione in questa festa: Cristo viene celebrato come vincitore della croce e della morte.

Sergio Frassetto


Il riscatto dell’identità afroamericana

L’attività pastorale dei Missionari della Consolata a Barlovento è tesa afar emergere i «semi del Verbo» presenti nella cultura degli afrodiscendenti. Essa è motivo di fiducia e speranza nell’attuale difficile situazione socio-economica.

Durante il periodo coloniale, agli schiavi, deportati per lavorare nelle fattorie di cacao della costa venezuelana, fu proibito manifestare la loro cultura e religione. Fu loro imposto il cattolicesimo, dando luogo a un sincretismo nel quale le immagini del culto cristiano vennero assimilate alle divinità delle loro religioni tradizionali.

I Missionari della Consolata, provenienti da altri contesti socioculturali e religiosi, sono andati incontro al popolo afro solidarizzando con la sua cultura e cercando di valorizzarla nelle sue multiformi espressioni.

L’obiettivo era, ed è, quello di riscattarne l’identità e i valori negati lungo i secoli, facendo crescere nel popolo la coscienza che «essere afro» è un valore che può integrarsi nella pratica di una vita cristiana autentica e che può incidere nella società.

Incontrare il popolo nella sua identità

Come dichiara il Documento di Aparecida (il documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi – Celam -, tenutosi nella città brasiliana di Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007): «Conoscere i valori culturali, la storia e le tradizioni degli afroamericani, entrare in un dialogo fraterno e rispettoso con loro, è un passo importante nella missione evangelizzatrice della Chiesa […]. La Chiesa con la sua vita di predicazione, sacramentale e pastorale aiuterà affinché le ferite culturali ingiustamente subite nella storia degli afroamericani non assorbano, né paralizzino dall’interno, il dinamismo della loro personalità umana, della loro identità etnica, della loro memoria culturale, del loro sviluppo sociale nei nuovi scenari che si presentano» (Aparecida n. 532).

Per lungo tempo la Chiesa non ha riconosciuto l’identità del popolo afro ed è necessario lavorare ancora molto per superare tante resistenze. Basti ricordare un piccolo esempio, ma dal forte valore simbolico: il rintocco delle campane, nel passato, serviva ad avvisare della fuga di uno schiavo. La chiesa non può usarlo per invitare il popolo nero a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Succede infatti oggi che la campana sia lassù, nella torre campanaria, ma che l’invito alle celebrazioni venga fatto con la musica.

È un processo lento, quello dell’incontro della Chiesa con il popolo nero, portato avanti insieme alla gente, per individuare nelle espressioni proprie della sua religiosità «i semi del Verbo» e portarli a maturazione dando origine a una Chiesa dal volto afroamericano.

I missionari della Consolata di nuova generazione, provenienti dall’Africa e da altri paesi del continente americano, accompagnano gli afrodiscendenti di Barlovento nel percorrere questo cammino.

La violenza non ferma i missionari

Essi portano avanti la loro azione pastorale, fatta di incontro e di rispetto, a volte scontrandosi con grandi difficoltà, non ultima quella della sicurezza personale.

L’intero territorio di Barlovento, infatti, è controllato da gruppi criminali che attaccano, rapinano o rapiscono chi viaggia per le strade, come fanno, appunto, i missionari. Questi gruppi di «malandros» sono costituiti da ragazzi molto giovani. In diverse occasioni, i missionari e persino il vescovo locale, si sono ritrovati con le armi puntate alla tempia.

Non è un problema della sola zona di Barlovento. In Venezuela la violenza aumenta un po’ ovunque: secondo le statistiche, il paese ha 30 milioni di abitanti e circa 15 milioni di armi nelle mani dei civili. Nel 2020 sono state uccise circa 25mila persone. In assenza dello stato, le bande armate si organizzano nei loro feudi, come ad esempio nelle miniere d’oro clandestine, dove prevale la legge del più forte.

Nonostante tutto, i missionari continuano il loro servizio al fianco della gente. Non smettono di visitare le comunità per celebrare i sacramenti, organizzare catechesi, formare animatori, fare attività con i giovani e accompagnare le famiglie più bisognose.

A Barlovento la presenza dei Missionari della Consolata è motivo di fiducia per la gente che ha fede in un Dio che dà sempre a chi chiede ciò di cui ha bisogno, che si rende presente per chi lo cerca e che apre la porta a chi bussa.

Essi, oltre a venire incontro ai bisogni materiali delle persone, si preoccupano di mantenere viva la speranza divenendo presenza di consolazione spirituale.

Nella loro azione pastorale non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo messe o semplicemente visitiamo – dice uno di loro – basta passare per strada ed essere visti perché la gente dica che non è sola».

Di fronte alla drammatica situazione socio-economica vissuta dal Venezuela, molte persone vorrebbero andarsene dal paese, come quei cinque milioni e mezzo che sono emigrati in altre nazioni del continente. Ma vedendo che i missionari rimangono, cambiano di idea e restano a lottare.

Jaime Carlos Patias




IMC Venezuela 50: nelle periferie urbane

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Nei «barrios» di Caracas

Periferia esistenziale

Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.

Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.

Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.

Promesse (non mantenute) di Caracas

Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.

Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.

La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.

Il populismo di Chávez e Maduro

Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.

Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.

I missionari nel barrio

I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.

Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.

Sergio Frassetto


Carapita

Salita al barrio

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.

Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.

Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.

Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.

Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.

Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.

Primi passi a Carapita

Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.

È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.

Un discernimento fatto con attenzione

Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».

Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.

Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».

I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).

La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).

Missionari delle periferie

Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.

È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.

Sergio Frassetto


Vita nelle barriadas

Missione nei vicoli dell’alveare

Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.

«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.

Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».

Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.

«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».

Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.

«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».

Tra pendenze e spazi risicati

Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.

Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.

Parrocchia missionaria

Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.

I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.

Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).

Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).

Organizzare una parrocchia immensa

I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.

I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.

In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.

Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».

Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».

Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».

La «olla solidaria»

Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).

L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.

L’87% della popolazione vive in povertà  e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.

Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.

Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.

Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.

Un parroco psicoteraperuta

D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.

«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».

Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».

Sergio Frassetto

 




IMC Venezuela 50: la missione alla foce dell’Orinoco

I missionari e le missionarie della Consolata iniziano, insieme, la missione a Nabasanuka il giorno della Consolata del 2006. Dopo otto anni da quando hanno lasciato la Guajíra, affidano a lei l’opera di evangelizzazione di un altro popolo indigeno, quello dei Warao.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


La missione alla foce dell’Orinoco

Nabasanuka, porto dei Warao

La curiara (canoa) solca veloce le acque del fiume che, pigro, scorre tra ali di maestosa foresta tropicale mentre uccelli, come usciti dalla tavolozza di qualche pittore naïf, intonano il loro concerto mattutino osservando incuriositi il passaggio di alcuni naviganti, «turisti per caso».

Siamo nello stato Delta Amacuro, un paradiso di acque, animali e piante creato dalla foce dell’Orinoco, il fiume più grande del Venezuela che, avvicinandosi all’Atlantico, per una lunghezza di 200 km, crea in una fitta ragnatela di canali, lagune e zone palustri che si intrecciano tra loro.

La barca, partita col buio, sette ore fa dalla città di Tucupita, sta per giungere alla meta: Nabasanuka, la casa del popolo warao.

Diciotto anni dopo la Guajíra

È il 20 febbraio 2006, quattro giorni dopo la festa del beato Giuseppe Allamano. I missionari e le missionarie della Consolata iniziano il loro lavoro apostolico a Nabasanuka, affidandosi al fondatore e alla Consolata, chiedendo di poter essere presenza di consolazione in mezzo ai Warao.

Prende forma così un sogno coltivato a lungo dai missionari in Venezuela. Dopo aver lasciato la Guajíra nel 1998, essi non hanno mai rinunciato alla speranza di tornare a lavorare tra gli indigeni per esprimere pienamente e al meglio il loro carisma missionario.

È stato proprio inseguendo questo sogno che, nel duemila, durante la V Conferenza della Delegazione, essi hanno deciso di iniziare una nuova presenza fra i popoli indigeni, possibilmente in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’anno successivo, i Consigli generali dei due istituti hanno approvato la decisione che nel 2004 è poi sfociata nella scelta del vicariato di Tucupita, degli indigeni warao.

Nel 2005 due équipe di padri e suore, hanno raggiunto la missione di Nabasanuka in tempi diversi e, durante varie settimane, hanno realizzato un primo approccio con l’ambiente e la popolazione locale. L’obiettivo era di conoscere la realtà e di fare l’esperienza del vivere in équipe: era, infatti, la prima volta che padri e suore lavoravano insieme vivendo sotto lo stesso tetto.

Missionari e missionarie insieme

Il 20 febbraio 2006 i padri Josiah K’Okal e Vilson Jochem giungono a Nabasanuka e iniziano una presenza stabile. Tuttavia, come è stato programmato, l’inizio ufficiale della loro missione insieme alle missionarie della Consolata nel vicariato di Tucupita avviene il 20 giugno 2006, festa della Consolata. La messa solenne è presieduta dal Vicario apostolico, mons. Felipe González, accompagnato da tutti i Missionari della Consolata e dai Cappuccini. Durante la celebrazione sono presentati alla comunità i missionari e le loro consorelle, le suore Carla Pianca, Luigina Goffi, Rosemary Kabbis e Ivana Cavallo che da oggi condivideranno la vita dei Warao a Nabasanuka.

Coinvolgere i laici

L’alto numero di comunità, le notevoli distanze e la difficoltà delle vie di comunicazione, rende impossibile visitarle con frequenza. Per questo, nel loro programma pastorale, i missionari decidono di dare la priorità alla formazione di animatori e di catechisti capaci di coltivare la vita cristiana nei loro villaggi anche in assenza del missionario. L’iniziativa parte fin da subito nelle comunità di Nabasanuka, Bononia e Araguabasi: si radunano una quarantina tra uomini e donne che, in futuro, rappresenteranno i pilastri dell’evangelizzazione nella parrocchia.

Per venire incontro ai costi dei viaggi, la missione crea un piccolo fondo che, grazie alla Provvidenza, non si esaurirà per molto.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida

Il Vangelo si incultura

Nell’ottobre del 2007 si tiene un’assemblea allargata degli agenti di pastorale, laici e religiosi, che lavorano nelle diverse comunità del vicariato nel quale, tra l’altro, si è deciso di creare una équipe di Pastorale indigena con l’obiettivo di costruire una chiesa inculturata, con un’identità propria, dove l’esperienza di fede sia espressione del mondo warao, della sua cultura e lingua, delle sue tradizioni e valori.

Da questo obiettivo nasce un piano di pastorale suddiviso in otto ambiti principali: la religiosità, la spiritualità e l’inculturazione; la promozione della cultura warao e l’assunzione dei valori presenti in essa; la lotta contro la povertà e l’impegno per uno sviluppo solidale; la democrazia partecipativa; la difesa della terra e dell’ambiente; lo sviluppo umano tramite la salute e l’educazione; l’appartenenza e l’integrazione nazionale e internazionale; la promozione e la difesa dei diritti umani.

Nel 2008, i missionari e le missionarie, alla luce di questo piano, e rispondendo alle attese della comunità, redigono il loro primo progetto apostolico nel quale l’evangelizzazione viene definita come «inculturazione del Vangelo a partire dalla spiritualità e religiosità tradizionale dei Warao, preservando, promuovendo e difendendo la loro identità culturale e i loro diritti come nativi del Delta Amacuro».

Percorrendo questa strada, i missionari scoprono nel mondo spirituale warao molti semi del Vangelo che attendono solo di giungere a maturazione. Bella, per esempio, è l’espressione che gli indigeni usano per indicare il Regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Non c’è immagine migliore per definire l’opera dei missionari: fare di questo popolo una casa dove ci si accoglie e si collabora fraternamente.

Promozione umana

Percorrendo i canali del delta, fermandosi a ogni attracco di barche, entrando in questa o quella palafitta, i missionari possono constatare che, al di là della facciata da cartolina, vi è una realtà di povertà e di abbandono, di fame e di malattie endemiche che lasciano sgomenti: bambini denutriti, ragazzi non scolarizzati, anziani abbandonati a se stessi e senza cure mediche.

In tutta la regione (15mila km2, un territorio più grande del Trentino Alto Adige) c’è un solo dispensario, con un medico residente che, volontariamente, si prende cura di questa gente.

Per quanto riguarda l’educazione, in tutto il territorio ci sono due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani termina solo il ciclo della scuola elementare. Inoltre, l’insegnamento non eccelle per serietà e rendimento, a causa della mancanza di maestri professionalmente qualificati.

Questa situazione spinge i missionari a impegnarsi come insegnanti nel liceo di Nabasanuka dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Un impegno in più nel già gravoso lavoro di evangelizzazione, ma anche un’opportunità per conoscere i giovani e accompagnarli nella loro crescita umana, culturale e religiosa.

Va ricordato che il popolo warao è sempre stato nomade, migrando da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni di vita. Per fermare la migrazione e migliorare la qualità della vita delle persone, l’équipe missionaria porta avanti progetti in ambito sanitario come giornate mediche nelle comunità, distribuzione di medicine e forniture sanitarie, e un programma di assistenza medica e alimentare per chi convive con Aids e tubercolosi. «Molti, purtroppo, sono morti aspettando un mezzo di trasporto», esclama un missionario. Ecco perché la missione cerca anche di aiutare con ambulanze fluviali e terrestri per trasferire i malati in città.

Altri progetti riguardano il settore dell’istruzione con borse di studio per studenti, il «Computer Center» (una sala computer a uso comunitario), con l’equipaggiamento necessario per studiare via internet, e la fornitura di materiale scolastico (quaderni, matite, divise).

La generosità fa sbizzarrire la fantasia. Così nascono progetti di micro auto sostenibilità per accedere all’energia solare, per l’acquisto di reti e accessori utili per la pesca, sementi per piantare, tessuti per i corsi di taglio e cucito per le donne.

Sergio Frassetto


I Warao

Warao è un termine che significa «Gente di canoa» e indica un popolo indigeno che conta circa 50mila persone. I Warao costituiscono il secondo gruppo etnico più numeroso in Venezuela dopo i Wayú.

Vivono su palafitte costruite ai margini dei fiumi, formando piccoli villaggi di famiglie unite fra loro da forti legami di collaborazione e solidarietà. Il più anziano del gruppo, chiamato «aidamo», svolge la funzione di autorità della comunità.

I Warao si dedicano alla pesca e alla caccia di sussistenza. Dove è possibile, in piccole radure (conuchi) coltivano l’ocumo, una pianta erbacea che produce tubercoli commestibili che rappresentano il «pane» del Warao. Esercitano un artigianato vario e di grande qualità: amache, ceste, utensili, ecc.

Giungendo a Nabasanuka come ospiti e pellegrini, i missionari hanno potuto sperimentare la sorprendente ricchezza umana e sociale di questo popolo. Infatti, sono stati accolti non come stranieri, ma come «daje» (fratello maggiore) o «daka» (fratello minore).

La parrocchia di Nabasanuka, dedicata a Maria «Divina Pastora de Araguaimujo», sorge nel centro abitato principale nel quale vivono circa 800 persone.

Il resto della popolazione è suddiviso in una sessantina di piccole comunità, alcune già evangelizzate, altre con una vita cristiana embrionale, altre che attendono ancora il primo annuncio del Vangelo.

La prima sfida che i missionari hanno affrontato con i Warao, è stata l’apprendimento della lingua indigena, allo scopo di intessere relazioni e di conoscere la cultura. Nello stesso tempo, hanno cominciato a visitare le comunità raggiungendole sulle curiaras via acqua.

Uno dei problemi più grossi della zona sono proprio le comunicazioni e i trasporti: il posto più vicino nel quale rifornirsi di benzina è Tucupita, a sette ore di curiara. Per raggiungerlo con barche vecchie e malandate, succede di rimanere in panne nelle acque dell’Orinoco.

Da qualche anno è stata acquistata una nuova barca, regalata da amici e battezzata La Consolata. Ora i missionari girano per le terre dei Warao con più speditezza. (S.F.)


Una giornata tra i Warao

Padre Andrés García Fernández, spagnolo, ha al suo attivo un’invidiabile esperienza missionaria. Ha lavorato tre anni in Costa d’Avorio fra gli immigrati, cinque in Spagna, nel campo dell’animazione missionaria, tredici in Congo RD fra i pigmei e dal 2019 è tra i Warao del Delta Amacuro.

Arrivando in Venezuela tra i Warao, la sfida è stata quella di entrare nell’anima di questo popolo, conoscerne la cultura, la lingua, l’organizzazione, e scoprirne la relazione con la natura e la trascendenza. Cercare di capire dove Dio lo conduce, e accompagnarlo in questo processo.

La classe politica sta litigando, lotta per il potere, cercando di abbattere l’avversario. Mentre va avanti questa lotta, quelli che soffrono sono i poveri, la gente umile.

I popoli indigeni stanno soffrendo molto per quello che viene chiamato «El Amo» (l’Arco minerario dell’Orinoco), le cui ricchezze del sottosuolo (oro, coltan e altro) sono appetite dal governo attuale, dalla guerriglia colombiana (le Farc e altri gruppi) e anche dall’opposizione.

La selva viene depredata e distrutta con tutte le conseguenze che la devastazione ambientale comporta per coloro che la abitano. Nel delta l’acqua arriva di colore quasi nero. Nel periodo di crescita del fiume arriva tutto il mercurio con cui si lava l’oro, il cianuro e altri veleni. I pesci galleggiano morti, l’acqua ha l’aspetto della spuma e noi la beviamo e ci laviamo con essa. E le malattie proliferano sotto forma di piaghe, diarrea, febbre, soprattutto nei bambini.

La gente soffre per mancanza di potere d’acquisto: il governo non paga con denaro effettivo, ma dà un numero che indica una somma, ma se non c’è elettricità per tutta una settimana, come capita spesso, non si può ritirare dalla banca il proprio «numero» per andare comprare quello che serve. La gente soffre per mancanza dei servizi essenziali, degli alimenti di base, delle medicine. E il fatto di aver chiuso la porta agli aiuti che vengono dall’estero peggiora la situazione. La gente si dispera.

Quando ho chiesto a un Warao scappato in Brasile: «Perché te ne sei andato dal Venezuela?», mi ha risposto: «Mi è morto il primo figlio, è morto il secondo e non ho voluto che morisse anche il terzo».

Giorno dopo giorno

Ciononostante, la missione è appassionante, e condividere il trascorrere dei giorni con la gente è bello. Chiedo a Dio di non abituarmi mai a questa realtà. Vivendo nel seno della foresta pluviale, è bello alzarsi al mattino e vedere tutta la ricchezza della natura: quei fiumi, quegli alberi, quei paesaggi, i bambini, il modo di vivere della gente, la cultura.

In genere cerco di alzarmi alle quattro del mattino per pregare, perché, a partire dalle sei, quando celebriamo la messa, fino alle 8 o 10 di sera non riesco più a sedermi.

Dopo la preghiera preparo un po’ di colazione, a volte per due giorni in modo che mi duri di più, e poi faccio il bucato e riordino la casa.

Dopo l’eucaristia inizia a venire la gente con le proprie necessità: c’è chi viene a chiedere una medicina, chi cerca cibo o altro.

Con un gruppo di collaboratori organizziamo gli incontri per i giovani, il programma di alfabetizzazione dei bambini e quello per la formazione delle donne.

Una volta preparato il materiale, usciamo con la lancia e navighiamo per i vari canali alla volta delle comunità. Nella nostra parrocchia ce ne sono una sessantina che cerchiamo di visitare ogni mese. Lascio un gruppetto di collaboratori nella prima, un altro gruppetto nella seconda e, mentre essi svolgono l’attività programmata, io vado alla seguente. Quando ho finito la formazione e l’eucaristia, faccio il percorso inverso: torno alla seconda comunità dove il gruppetto ha già terminato la formazione, celebro l’eucaristia e poi, insieme, torniamo alla prima.
In questo modo cerchiamo di visitarne due o tre ogni giorno. Le accompagniamo e le formiamo
in questo modo.

Trascorro poi il pomeriggio in casa, giocando con i bambini, ricevendo la gente, visitando gli infermi e parlando con i giovani che chiedono una speranza (cosa facciamo, dove andiamo, dove possiamo trovare lavoro?).

 

I Warao non esistono senza il delta

Ci sono anche i maestri che hanno bisogno di imparare come insegnare. La maggioranza di loro ha frequentato solo la scuola secondaria e non ha avuto altra preparazione. Devono imparare a fare un programma pedagogico, a trasmettere i contenuti, ecc.

È appassionante anche seminare speranza e aiutare le persone a organizzarsi, a sognare, e a sognare un ritorno di tutti quei Warao che se ne sono andati, sognare di tornare a essere il popolo che erano, ma più organizzato, con più coscienza di quello che sono.

Questo discorso vale per il delta dell’Orinoco, ma anche per tutta l’umanità.

Io, spesso, dico loro: «Il delta con tutta la sua biodiversità non esisterebbe senza i Warao, senza la vostra maniera di essere e di vivere». Anche i Warao senza il delta, pur sopravvivendo, non vivrebbero più come Warao. Hanno bisogno del loro ambiente per continuare a essere come sono stati finora.

Dio dietro ogni cosa

Una cosa bella è vedere come il Warao chiede permesso all’albero per tagliarlo e fare la sua
curiara, vedere come chiede permesso alla natura per tagliare alcuni alberi per fare il suo orto dove produrre l’ocumo, o come chiedono permesso all’acqua quando vanno a pescare o a navigare.

È importante scoprire come per essi c’è una vita, c’è un dio della vita, che sta dietro a tutta la natura e che sostiene l’esistenza di ciascuno, di ogni essere e di ogni persona.

Allora la mia quotidianità è scoprire e accompagnare tutto questo, non solo condividendo il poco che ho, ma anche i loro sogni, le difficoltà, gli ideali e il ritmo di Dio nelle loro anime.

Verso le ore 20 mi chiudo in casa, solo con nostro Signore, ricapitolando la giornata, rendendo grazie e programmando il giorno dopo. In questo modo il giorno trascorre pieno di gente e scoprendo in essa la presenza di Dio.

Andrés García Fernández


Dalle sponde del fiume alla città

Con gli indigeni a Tucupita

Alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi può o chi è costretto dalla povertà, abbandona la sponda del fiume e raggiunge la città. Sradicati dalla comunità, i Warao si ritrovano soli in un ambiente ostile che non sa offrire loro altro che marginalità e povertà ancora più profonda di quella lasciata nella terra nativa.

La «transumanza» è una caratteristica dei popoli indigeni. Da sempre i Warao la praticano realizzando una stretta interconnessione con Tucupita e altre città dentro e fuori i confini del Venezuela. Nel corso degli anni, ampi strati di popolazione indigena si sono trasferiti nel capoluogo della regione in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, vivendo la marginalità, dispersi nella grande città e senza punti di riferimento sicuri come la famiglia e il clan, facilmente perdono la loro identità e i loro valori.

Allo scopo di accompagnare anche i Warao migranti nel loro cammino umano e spirituale, i missionari, fin dal loro arrivo a Nabasanuka, concepiscono una loro presenza nella città di Tucupita.

Pastorale indigena urbana

Il progetto di stabilire una presenza a Tucupita si realizza nel marzo 2009, quando padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata keniano, si trasferisce nella città e assume la responsabilità del lavoro pastorale con i Warao emigrati lì, facendo base nella parrocchia di san Giuseppe.

A Tucupita i missionari diventano così fattore di incontro e comunione per gli indigeni, contribuendo, con diverse iniziative, a promuovere in essi il senso di appartenenza, tassello fondamentale per una presa di coscienza della propria identità e dignità.

Uno dei progetti sviluppati è quello dei due corsi di taglio, cucito e sartoria per 50 donne all’anno. Il corso fornisce loro le conoscenze necessarie a realizzare manufatti sartoriali per le loro famiglie e per la vendita, e quindi generare reddito.

Risiedendo a Tucupita, i Missionari della Consolata possono anche offrire un servizio diretto in favore del vicariato Delta Amacuro. Così, padre Zachariah (che nel 2018 tornerà in Kenya e verrà sostituito da padre Silvanus Ngugi) svolge le funzioni di vicario generale del vescovo, direttore delle Pontificie opere missionarie e responsabile, dal 2016, della nuova vicaria denominata «Dani Consolata» dedicata al servizio degli indigeni.

Avere una parrocchia in Tucupita, poi, rappresenta un vero e proprio punto di approdo per chi arriva dalla missione dopo sette ore di curiara. Qui i missionari possono mangiare, riposare e appoggiarsi per le mille faccende da sbrigare prima di ripartire per Nabasanuka.

E così, a Tucupita come a Nabasanuka, nel cemento della città come nelle acque dell’Orinoco, i Missionari della Consolata, nonostante il loro numero ristretto a causa della difficoltà a ottenere dal governo i permessi, lavorano uniti alla costruzione del Regno di Dio tra i Warao.

Sergio Frassetto


Verso il Brasile

Le tragiche condizioni socio economiche del Venezuela hanno costretto milioni di cittadini a emigrare nei paesi vicini. Tra loro, migliaia sono Warao. I missionari continuano a seguirli anche in Brasile.

Sommerso da una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela sta vivendo una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggi, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni di vita peggiorano ogni giorno, mettendo a rischio molte vite.

Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà, al punto che alla fine del 2020, una famiglia di cinque persone avrebbe dovuto guadagnare 98 salari minimi per acquistare beni di prima necessità. Questa situazione ha causato enormi migrazioni nei paesi vicini, in particolare in Colombia e Brasile.

Secondo le statistiche ufficiali, sono oltre 5 milioni i venezuelani che hanno lasciato il regime di Maduro in cerca di migliori condizioni di vita.

I Warao a Pacaraima e Boa Vista

Anche molti indigeni warao del Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare il paese. Si sono stabiliti inizialmente a Pacaraima, una città dello stato brasiliano di Roraima appena oltre il confine con il Venezuela, ma molti si sono poi spinti all’interno dello stato di Roraima, in città come Boa Vista, e in altri stati, come a Manaus, in Amazonas.

Sopravvivono con le donazioni di enti privati e di beneficenza. Molti hanno portato con sé prodotti di artigianato dal Venezuela e lavorano come venditori ambulanti. Alcuni vorrebbero restare a vivere in Brasile e vanno alla ricerca di lavoro, ma senza successo, anche perché privi di documenti di identità.

La situazione di precarietà aumenta la loro vulnerabilità, i rischi di sfruttamento, l’uso di droghe, la fame e le malattie.

Missionari itineranti

Per i Missionari della Consolata in Venezuela, il futuro di queste comunità indigene è motivo di grande preoccupazione. La Direzione generale dell’Istituto, venendo incontro a questa situazione, a maggio del 2018, ha approvato la creazione di un’équipe missionaria itinerante per accompagnare proprio gli immigrati e rifugiati venezuelani a Pacaraima e Boa Vista.

Il team è composto da tre missionari, uno dei quali lavora con i Warao a Tucupita.

Le sfide da affrontare giorno per giorno riguardano tutti i settori: documentazione, salute, sicurezza, trasporti, educazione, lavoro e integrazione. Oltre a queste sfide e all’assistenza religiosa, i missionari si dedicano in modo speciale all’alimentazione dei bambini fra i quali si riscontrano molti casi di denutrizione. A loro vengono offerti due pasti a settimana accompagnati da formazione umana, culturale e igienica. (S.F.)

 




IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC




Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




Perù: 1821-2021. Duecento anni sono pochi

Sommario

 

 


Il maestro venuto dalle Ande

Le elezioni e un bicentenario difficile

Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe  «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.

Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.

Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).

Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).

(Photo by Ernesto BENAVIDES / AFP)

Pedro Castillo

Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.

Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.

Keiko Fujimori

La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).

L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.

Keiko Fujimori (Photo by Miguel Yovera / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Il nuovo colonialismo

Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».

Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).

Golpe, stallo e resistenza

Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.

Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.

Dal 28 luglio 2021

Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.

Paolo Moiola


Da una parte (e dall’altra)

La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni

Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.

Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.

Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.

Un imprevisto di nome Castillo

Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.

Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.

Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).

Una battaglia ideologica

Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.

Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.

Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).

Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».

Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).

Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.

Il crocefisso di Keiko

monseñor Pedro Barreto

Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).

A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.

Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».

Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».

Correzione di rotta e mediazione

Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.

Paolo Moiola


Perù, tempi di maccartismo

La conversazione

Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.

«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.

(Photo by Carlos MAMANI / AFP)

Sono 44.176 voti in più

Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?

«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».

Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?

«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».

Giustizia: carcere sì, carcere no

La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?

«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.

Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».

(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).

Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?

«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori, ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Quel «comunista» di Pedro Castillo

Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?

«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».

La religione e la famiglia peruviana

Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?

«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».

Un paese razzista

Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?

«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.

È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».

La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo

La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?

«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».

Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?

«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa

A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?

«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.

«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».

Il futuro sarà complicato

Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?

«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».

Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?

«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».

 Paolo Moiola


I padroni delle notizie


NOTE:

(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione.
(2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc.
(3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio.
(4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese.
(5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.

FONTI:

Reuters Institute, «Digital News Report 2021»;
OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»;
Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.

A cura di Paolo Moiola
(Luglio 2021)


(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP


Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi

Il fenomeno delle «invasioni»

Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.

Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.

Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.

La Lima bianca e l’altra Lima

Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.

Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.

Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.

La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.

La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.

Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.

Le invasioni, come e perché

Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.

Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.

Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.

In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.

Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.

La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».

«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.

Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.

Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.

Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.

«Al fondo hay sitio»

Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.

Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.

Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.

Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.

Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).

Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.

La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».

Giovanni (Gianni) Vaccaro


Hanno firmato questo dossier

  • Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
  • Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
  • Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.

 




Venezuela – Colombia: le donne dell’esodo

Sommario

La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia

Uno zaino di sofferenza

Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.

Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.

Il migrante venezuelano

Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.

Migranti venezuelani attraversano il fiume Tachira, che segna il confine tra Venezuela e Colombia (19 novembre 2020). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

Donna venezuelana, immagine e mito

In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.

L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.

Un cartello dell’organizzazione «Hermanos caminantes», che ha istituito vari punti di aiuto lungo i percorsi dei migranti venezuelani. Foto Diego Battistessa.

Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»

Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.

Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.

Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso.  In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.

Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.

La mossa della Colombia

Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.

Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.

Diego Battistessa

Folla di migranti al ponte internazionale Simón Bolivar, trecento metri che attraversano il fiume Tachira e collegano Venezuela e Colombia. Foto Cristal Montañéz.

La migrazione: la via di Cúcuta

Al di là del ponte Simón Bolívar

Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.

San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.

Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».

Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».

L’entrata della «Casa de paso Divina Providencia», istituita dalla diocesi di Cúcuta e coordinata dal padre José David Cañas Pérez, a La Parada. Foto Diego Battistessa.

«Trochas» e «trocheros»

Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.

Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.

Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.

Padre José David Cañas Pérez alla «Casa de paso Divina Providencia». Foto Cristal Montañéz.

I problemi in territorio colombiano

Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.

Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.

Per il corpo e per lo spirito

In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.

Migranti venezuelani in cammino (si noti il cartello con le distanze). Foto Cristal Montañéz.

Cúcuta e prostituzione come necessità

A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).

La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.

Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.

Verso altre piazze

In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.

Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.

Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.

Le tende e la «lavanda» dei piedi

Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.

Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.

Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.

Diego Battistessa

La migrazione: la via della Guajira

Quando il destino è la strada

Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.

La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.

Prima tappa a Maicao, Colombia

Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.

Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.

Sulla strada di Cúcuta migranti venezuelani con mascherina attendono in fila per avere cibo e medicine dalla Croce rossa (2 febbraio 2021). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

A Riohacha, capitale della Guajira

Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.

Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.

In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.

Due donne migranti allattano i loro piccoli in un punto istituito da «Hermanos caminantes». Tra le migranti venezuelane ci sono mamme e donne incinte. Foto Cristal Montañéz.

Le Ong di Barranquilla

Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.

Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international,  Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).

La prostituzione a Barranquilla

Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.

Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.

«Io proteggo le donne», promette la frase sul cappellino. Foto Diego Battistessa.

… e a Cartagena de Indias

Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.

Diego Battistessa

Ritratto di un giovane migrante venezuelano. Foto Diego Battistessa.

Inserti

Una baracca costruita da migranti. Foto Diego Battistessa.

«Ranchitos»

Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».

Di.Ba.

Torturatori

Prostituzione venezuelana per le strade della Colombia. Foto Diego Battistessa.

A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.

 Di.Ba

I morti di Sonia

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.

Di.Ba

Sonia Bermudez Robles, tanatologa forense, davanti ai loculi del cimitero. Foto Diego Battistessa.

 

 

 

 




South Africa Fifty (Il giubileo d’oro della Consolata in Sudafrica)

Indice

I tre aspetti salienti della consolata in Sudafrica

Nati in terra di frontiera

Sono gli anni dopo il concilio Vaticano II. Anche i Missionari della Consolata cercano un nuovo stile di evangelizzazione. Si aprono per loro nuovi paesi di missione, nuove culture con cui confrontarsi, ma anche nuove forme organizzative. Così si diffonde l’approccio delle piccole comunità missionarie, agili ad adattarsi alle situazioni. Fondamentale anche la componente formativa per i giovani che iniziano il cammino missionario.

La nascita della delegazione (chiamata così in quanto piccolo gruppo, ndr) del Sudafrica avvenne il 10 marzo 1971. Fu l’avvio di un cammino nuovo per l’Istituto, nella ricerca di nuove terre e di nuovi stili di evangelizzazione, e pertanto una vera «terra di frontiera». Erano gli anni che seguivano il concilio Vaticano II e la celebrazione del Capitolo generale del 1969. L’Istituto si sforzava di aprire nuove strade che potessero incarnare al meglio il carisma di Giuseppe Allamano in un’epoca di grandi cambiamenti nella Chiesa e nella società.

Terra di frontiera

Ai nostri primi missionari destinati al Sudafrica veniva affidato l’impegnativo compito di camminare su terre da noi non ancora esplorate, a contatto con nuove realtà missionarie e di evangelizzazione, capaci di arricchire il tradizionale stile missionario dell’Istituto.

Il 9 novembre del 1971, padre Mario Bianchi, superiore generale, a pochi mesi dall’inizio dell’avventura sudafricana, così scriveva in una lettera circolare all’Istituto: «[…] Ma già ora vi è uno sviluppo importante nell’Istituto, non di numero, ma di qualità; cioè di situazioni nuove in cui l’Istituto viene a trovarsi e a cui deve fare fronte: inserimento in nuovi campi di missione e quindi in confronto con popoli, culture e religiosità differenti (è il caso dell’Etiopia e Sudafrica); cambiamenti talora profondi nelle aree geografiche in cui già siamo inseriti, sotto il punto di vista di Chiesa, vita politica o sociale; cambiamenti e sviluppi anche nella sensibilità spirituale, vita comunitaria e organizzativa all’interno dell’Istituto. Queste nuove situazioni conducono a una crescita qualitativa e spirituale dell’Istituto se tutti noi sapremo affrontarle con coraggio, pazienza e saggezza».

Quanto padre Mario Bianchi proponeva all’inizio di questa avventura missionaria, penso che mantenga ancora oggi tutta la sua validità: l’invito a scoprire sempre nuove strade della missione nella comunione con il cammino delle chiese, nel cercare e trovare nuovi modi per rendere più efficace la comunicazione del Vangelo di Cristo e nel solidarizzare con i popoli. Nel fare tutto ciò in maniera efficace, è necessario che il nostro discernimento sia sempre accompagnato dalla preghiera costante allo Spirito Santo, e dal desiderio di rispondere al meglio allo spirito del nostro beato fondatore Giuseppe Allamano.

Piccoli gruppi

L’Istituto desiderò che le nuove aperture realizzate dopo il Concilio fossero tutte di piccole dimensioni. Simili a quella del Sudafrica furono le altre nuove aperture di quegli anni: Etiopia, Congo (Zaire) e Venezuela. Il fatto di andare in piccoli gruppi, sebbene possa apparire un elemento di fragilità e povertà, offre innumerevoli risvolti positivi: una maggiore agilità nell’attuare scelte nuove e migliorare situazioni, crescita costante nella comunione e fraternità comunitaria, ricambio facile di personale nelle nostre presenze pastorali, maggiori possibilità di collaborazione con la Chiesa locale evitandole inopportuni condizionamenti.

Siamo coscienti che l’elemento comunitario gioca un ruolo importante nella nostra crescita personale e nello svolgimento del nostro servizio.

Grazie alla ricorrenza dei 50 anni dalla nostra apertura in Sudafrica, abbiamo avuto l’opportunità di ripercorrere il cammino fatto dai confratelli negli anni passati, e le scelte da loro operate. Tutto ciò ci può servire a confrontare la situazione attuale della nostra missione con il sogno che l’Istituto ebbe nell’avviare la nostra presenza in Sudafrica e nel corso di questi cinquant’anni. Ogni celebrazione giubilare, come desiderava il Beato Allamano, deve attingere ispirazione dalle origini e alimentare gli impegni attuali con lo sguardo sempre aperto al futuro.

Una comunità formativa

Pensando alla delegazione attuale del Sudafrica, non posso dimenticare di sottolineare il privilegio che abbiamo avuto accogliendo la comunità del seminario di Merrivale, e la responsabilità che abbiamo nell’assicurare ai nostri giovani missionari l’ambiente migliore per la loro crescita e maturazione vocazionale. Li sentiamo come parte integrante e importante della delegazione. Gioiamo con loro per le varie tappe che ogni anno essi raggiungono. Li accogliamo volentieri nelle nostre comunità durante le loro esperienze pastorali. Sperimentiamo con loro la bellezza del fare missione in Sudafrica anche se poi la maggioranza emigrerà in altre terre di missione. La convivenza con i missionari li spinge a rallegrarsi per la scelta missionaria fatta e a un impegno sempre maggiore nella loro ultima fase formativa di base.

In conclusione, voglio riaffermare la convinzione profonda che l’efficacia apostolica, e quella missionaria in primo luogo, è basata sulla testimonianza dell’amore che lega le persone che proclamano il Dio della misericordia.

Stefano Camerlengo


Breve racconto di cinquant’anni di presenza

Le sei «fasi» della storia

Dai pionieri Jack Viscardi e John Berté a Piet Retief, e dal loro lavoro «ponte» con le famiglie dei migranti mozambicani, all’arrivo nelle townships di Newcastle e poi di Pretoria e Johannesburg. Con l’attività pastorale e di formazione di leader. E poi l’apertura del seminario di Merrivale, per arrivare alla «figliazione» con la nuova missione nel regno di Eswatini.

Alla fine degli anni Sessanta, il Capitolo generale dei Missionari della Consolata accettò la richiesta di iniziare una presenza missionaria nella prefettura di Volksrust (oggi diocesi di Dundee). I padri Giovanni (Jack) Viscardi e Giovanni (John) Berté furono i primi ad arrivare il 10 marzo 1971. La prima missione fu Piet Retief. Per 24 anni essi diffusero il Vangelo in diverse zone, nel territorio oggi conosciuto come diocesi di Dundee.

Giovanni Berté, durante un’intervista che gli feci nel 1996, per il venticinquesimo, divise in quattro fasi il lavoro dell’Istituto nei primi 24 anni passati unicamente nel territorio della diocesi di Dundee. Trovandoli attuali, voglio riportarli qui di seguito.

I primi quattro passi

Primo. La prima tappa in Sudafrica fu nella Prefettura di Volksrust, guidata dal vicario monsignor Marius Banks. I missionari iniziarono a Piet Retief, poi gradualmente andarono a Ermelo (Damesfontein), Evander, Secunda, Embalenhle, Kriel, Standerton e Bethal. Un importante atto di consolazione fu quello di diventare ponte tra alcuni mozambicani, lavoratori delle miniere del Transvaal, e le loro mogli e figli in Mozambico. Questo fu possibile perché i missionari della Consolata erano presenti anche nel paese di origine dei migranti.

Secondo. Al momento della creazione della diocesi di Dundee (anni Ottanta), i missionari andarono nelle aree rurali di Pongola e Pomeroy. Ci fu l’idea di andare a Amakhasi, ma non si materializzò. Tutte le attività erano volte a enfatizzare la presenza della consolazione tra i poveri. In quel periodo i missionari aiutavano anche il vescovo nella parrocchia di Dundee.

Terzo. Nel 1991 i Missionari della Consolata, incoraggiati dal vescovo Michael Paschal Rowland, andarono nelle townships (città riservate ai neri) di Newcastle. Le energie spese al centro pastorale di Damesfontein per la formazione di leader e catechisti, con la nuova area pastorale, iniziarono ad essere utilizzate a beneficio dell’area densamente popolata del decanato di Newcastle. Presto i segni dei tempi chiamarono i missionari a focalizzarsi su progetti, raduni di studio e ritiri in aiuto dei malati di Hiv.

Quarto. Il 20 giugno 1995 si iniziò una presenza missionaria a Waverley e Mamelodi West rispettivamente un sobborgo e una township di Pretoria, capitale del Sudafrica. Qui uno degli obiettivi era rafforzare la consapevolezza della responsabilità missionaria nella chiesa locale, e formare giovani a diventare missionari della Consolata dal Sudafrica al mondo.

Avendo lavorato per molti anni in aree rurali, dai primi anni Novanta, consapevoli del fenomeno di urbanizzazione, i missionari della Consolata iniziarono una presenza in diverse townships, inizialmente nella diocesi di Dundee e successivamente nell’arcidiocesi di Johannesburg (Daveyton 2004). Molti giovani furono accompagnati nel loro discernimento vocazionale, le comunità parrocchiali pregavano per le vocazioni e una squadra vocazionale diocesana fu attivata nella diocesi di Dundee, dove religiose e religiosi, preti e clero locale potevano incontrarsi e pianificare periodicamente. Una squadra simile fu realizzata pure in Eastern Deanery, Pretoria. Sfortunatamente queste due squadre dovettero sciogliersi per mancanza di nuove forze, dopo la tragica morte del padre comboniano Giorgio Stefani a Pretoria (20 ottobre 2005), e di suor Anna Thole, delle Nardini Sisters, nella diocesi di Dundee (1 aprile 2007).

Due passaggi ulteriori

Il padre John Berté (andato in Paradiso il 5 gennaio 2005), all’epoca, non mi aveva menzionato altri possibili passaggi storici.

Voglio però aggiungere due passaggi successivi che reputo importanti.

Quinto. Grazie all’intuizione del consigliere generale per l’Africa, padre Matthew Ouma, il primo settembre 2008 ha aperto i battenti il seminario teologico interculturale di Merrivale (Kwa Zulu Natal), e un anno dopo è stata pure aperta la parrocchia St. Martin de Porres, Woodlands, nell’arcidiocesi di Durban. Il seminario è composto dagli studenti religiosi professi della Consolata originari di diversi paesi dell’Africa, ma non ancora da sudafricani.

Sesto. Un nuovo capitolo della storia dell nostro istituto in Sudafrica è iniziato nel 2016, con l’apertura della missione nel piccolo regno di Eswatini (che si scrive pure eSwatini, ndr), dove il missionario argentino José Luis Ponce de León è diventato il vescovo della diocesi di Manzini, l’unica nel piccolo regno.

Passato remoto

Voglio ricordare qui due momenti storici che hanno anticipato la nostra presenza in Sudafrica e hanno legato l’istituto al paese.

Nel 1940, 89 missionari della Consolata furono portati dagli inglesi in Sudafrica dal Kenya, come prigionieri di guerra italiani. Furono rinchiusi a Koffiefontein, cittadina mineraria nel Free State al centro del paese, per tre anni.

Nel 1948 alcuni missionari, invece, furono mandati dall’Italia all’Università di Cape Town, per specializzazioni o per accreditare i loro titoli di studio secondo il sistema britannico, prima di partire per Kenya e Tanzania come insegnanti.

Devo infine ricordare che, anche se l’Istituto è presente nel paese da così tanti anni, non c’è ancora un missionario della Consolata sudafricano, perché inizialmente l’obiettivo fu lo sviluppo della chiesa sudafricana, attraverso la promozione del clero locale.

Rocco Marra


Un missionario «senior» fresco di Sudafrica

Riflessioni dell’ultimo arrivato

Padre Mario Barbero è un missionario della Consolata di lungo corso. Questo significa che conosce molti confratelli del passato e del presente. In Sudafrica era stato solo per brevi visite, quando lavorava in altri paesi del continente. Da poco più di un anno si è trasferito a Pretoria, dove si sente l’ultimo arrivato. Ci racconta le sue avventure con il calore che sempre lo contraddistingue.

Non è la prima volta che vengo in Sudafrica, ma adesso sono arrivato con un regolare permesso di lavoro e con visto di residente. La prima volta venni nell’ottobre 2003 proveniente dalla Repubblica democratica del Congo assieme a una coppia congolese per prendere parte all’incontro panafricano del Marriage encounter. Dal 1978, infatti, faccio parte del Wwme (Worldwide marriage encounter, in Italia Incontro matrimoniale), movimento familiare internazionale e, dovunque ho lavorato, mi sono sentito sostenuto da coppie, sacerdoti, consacrate e consacrati di questa associazione.

Andavo a Johannesburg con una coppia di Kinshasa per prendere parte a una settimana d’incontro con coppie e sacerdoti di nove paesi africani impegnati nella pastorale familiare. In quell’occasione avevo chiesto al superiore delegato, padre Ponce de León (ora vescovo di Manzini in Eswatini), di poter prolungare di una settimana il mio soggiorno per visitare le nostre missioni in questo paese. Così nel giro di una settimana visitai quasi tutte le comunità dei missionari della Consolata nel paese. Fu con grande emozione che nei pressi di Delmas pregai sul luogo dell’incidente mortale dei padri Paolino Ferreira e Alexius Lipingu.

Una seconda visita in Sudafrica, sempre con visto turistico, fu più lunga, da dicembre 2007 a giugno 2008, un soggiorno di sei mesi nella parrocchia di Daveyton, nell’arcidiocesi di Johannesburg, come aiuto al mio amico padre Ettore Viada, compagno di studi a Roma.

Sebbene fossi prete da oltre quarant’anni, era la prima volta che mi trovavo in una parrocchia a tempo pieno, e fu molto bello. Quasi ogni giorno, accompagnato da un parrocchiano, visitavo le persone malate e gli anziani nelle loro case, leggendo sui loro volti la gioia nel ricevere la visita di un sacerdote e soprattutto la Comunione. Indimenticabile la scena di una signora anziana che, vedendomi arrivare, esclamò: «I am so happy, father!». Sabato e domenica prestavo servizio nelle chiese succursali di San Martin e San Lambert.

Tre giorni dopo il mio arrivo a Daveyton, mi chiamò la responsabile della pastorale familiare di Johannesburg per invitarmi a pranzo e per farmi conoscere un salesiano impegnato nella pastorale giovanile e dei fidanzati, naturalmente non me lo feci ripetere due volte.

In quei sei mesi ebbi anche la possibilità di prendere parte alla celebrazione del trentesimo anniversario del Marriage encounter in Sudafrica (iniziò nel 1978 come in Kenya) e di animare due fine settimana del programma Retrouvaille.

Inoltre, con padre Tarcisio Foccoli, mio compagno di ordinazione e superiore delegato dell’epoca, vissi un’altra esperienza memorabile: andare a Merrivale, nell’arcidiocesi di Durban, per vedere una casa che sarebbe poi stata la prima residenza del seminario teologico che si progettava di aprire (e che di fatto si aprì il primo settembre 2008): una novità molto importante per la nostra presenza sudafricana.

Sorpresa gradita

Nel mese di novembre 2019, mentre da tre anni risiedevo nella nostra comunità di Rivoli (To), il padre generale, Stefano Camerlengo, mi propose una nuova partenza per il Sudafrica, questa volta con regolare visto di residenza. Era la terza destinazione in Africa dopo il Kenya e la RdC, inframmezzati da due «parentesi» di dodici anni ciascuna, in Usa e in Italia.

Mentre preparavo i documenti per richiedere il visto regolare, cercai di rinfrescare le mie memorie sull’Istituto in Sudafrica cominciando dalla sua preistoria.

Infatti la prima presenza di missionari della Consolata nel paese non era stata pianificata dai nostri superiori o da una decisione di un Capitolo generale, ma dal governo inglese che allo scoppio della guerra nel 1940, senza tanti complimenti, vi deportò ben 89 nostri missionari che lavoravano in Kenya (foto sopra), i quali da un giorno all’altro si trovarono con l’etichetta di nemici di sua Maestà britannica. Questi nostri confratelli, con la laboriosità tipica dei missionari, durante quasi quattro anni nel campo di concentramento di Koffiefontein pregarono, studiarono, si tennero aggiornati sulla Bibbia e sulla teologia, tessendo anche relazioni con altri prigionieri italiani confinati con loro, aiutandoli anche a rinfrescare la loro pratica religiosa. Scorrendo il loro elenco vidi che li avevo conosciuti quasi tutti in Italia o durante i miei dodici anni in Kenya, e alcuni di loro (in particolare fratel Guido Grosso, indimenticabile formatore al Consolata seminary di Langata) mi raccontarono come si erano tenuti occupati in quel periodo.

Nel 1948 c’era stata poi una presenza Imc programmata per il Sudafrica: l’apertura, a Cape Town, di una «casa di studi» per i missionari destinati a frequentare corsi di specializzazione per insegnare nelle scuole, soprattutto in Kenya. Tra i tanti, non posso non ricordare qui padre Giuseppe Bertaina (ucciso in Kenya nel 2009), che avrebbe lasciato memoria indelebile, e padre Carlo Capone che si laureò in medicina (cosa rara per un prete a quel tempo, per cui richiese un permesso speciale dal Vaticano) e svolse poi un grande lavoro nel coordinare i servizi del Catholic Relief Services (la Caritas degli Stati Uniti, ndr) in tutta l’Africa.

Mi ricordo bene quando l’Istituto, dopo il Capitolo del 1969, decise di programmare nuove aperture anche per snellire la presenza massiccia nelle nostre zone storiche d’Africa: Kenya, Tanzania e Mozambico.

E così vennero, nei primi anni ‘70, la riapertura in Etiopia, e le nuove aperture in Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), e in Sudafrica. Conobbi i due pionieri, i padri Giovanni Berté e Jack Viscardi, fin da quando erano ancora studenti di teologia a Torino.

Quanti nomi conosciuti

Per prepararmi all’arrivo in Sudafrica, padre Rocco Marra, attuale superiore delegato, mi inviò la lista di tutti i confratelli che dal 1971 fino all’ultimo (che sarei io, credo) erano stati destinati a questa delegazione. Per me, scorrere quell’elenco fu come fare un pellegrinaggio nella storia del nostro Istituto. Essendovi entrato da ragazzino nel 1950, avevo avuto modo di conoscere buona parte di quei 68 nomi che erano sulla lista: missionari dapprima solo italiani poi di varie nazionalità, che avevano lavorato qui per brevi o lunghi periodi, ognuno con le proprie caratteristiche, dando ciascuno il suo contributo in questa Chiesa durante i passati cinquant’anni. Quattordici sono già stati «trapiantati» sull’altra sponda dal Signore.

Guardando alla lista dei missionari e alle zone dove l’Istituto aveva lavorato notavo una certa mobilità, sia di personale, sia geografica. Molte missioni erano state iniziate e poi cedute ad altri. All’inizio c’era stata una concentrazione nella zona del Kwa Zulu Natal e Mpumalanga, dove poi era nata l’odierna diocesi di Dundee. In seguito erano venute le aperture nelle arcidiocesi di Pretoria (1995) e Johannesburg (2004). Sono stati passaggi da una sola diocesi a varie diocesi, da zone prevalentemente rurali ad aree urbane.

Le novità più rilevanti negli ultimi quindici anni furono l’apertura del seminario teologico di Merrivale (2008) e l’apertura di una comunità nello Swaziland/Eswatini (2016), con il vescovo, monsignor José Luis Ponce de León (già dal 2013). Mi sembrano, ancora oggi, due segni di vitalità e di coraggio: l’impegno «ad gentes» in Eswatini, e l’impegno nella formazione di missionari per il mondo.

La decisione di aprire un seminario teologico internazionale e interculturale fu un dono per la nostra piccola delegazione, non solo per contribuire a formare missionari per l’Istituto, ma anche perché la presenza di seminaristi missionari, dà un volto giovanile e dinamico al nostro gruppo. I seminaristi infatti trascorrono dei periodi di servizio nelle varie parrocchie portando una testimonianza dell’universalità della Chiesa. In dodici anni, il seminario di Merrivale ha «prodotto» diciassette sacerdoti missionari, che ora servono in dieci paesi di quattro continenti, ognuno portando qualche impronta di quanto ricevuto dalla società e Chiesa sudafricana.

Negli ultimi vent’anni il nostro gruppo di missionari della Consolata ha cambiato visibilmente composizione sia come provenienza che come età. Nei primi trent’anni di presenza in Sudafrica i missionari erano europei e latinoamericani, dopo, la maggioranza ha iniziato a provenire da paesi del continente.

La nostra è una delegazione giovane, con un’età media dei sacerdoti di 45 anni, quella dei seminaristi di 30 anni.

Chissà se i nostri primi missionari, arrivati in Sudafrica nel 1940 come prigionieri di guerra dal Kenya, avrebbero mai immaginato che in pochi decenni vari confratelli proprio del Kenya sarebbero stati le nuove forze della Consolata ad annunciare il Vangelo nel paese.

Covid relief projects

«Lockdown in Pretoria»

Sono arrivato in Sudafrica il 26 febbraio 2020, con uno degli ultimi voli Alitalia, Roma-Johannesburg, in tempo per concelebrare con padre Rocco la messa serale del mercoledì delle Ceneri. Un mese dopo, anche qui è scattato il lockdown e le chiese sono state chiuse alla partecipazione dei fedeli. La quaresima si è interrotta alla terza domenica, quando avevo appena conosciuto alcuni parrocchiani. Ho vissuto questi lunghi mesi come un regalo del Signore per prepararmi meglio al ministero parrocchiale, ricordando che «la preghiera è il nostro primo dovere». Per me la chiesa non era chiusa e potevo, non solo celebrare messa ogni giorno, ma anche passare un po’ più di tempo a pregare per i miei parrocchiani. Anche se non li conoscevo ancora, il Signore sapeva dove indirizzare le mie preghiere! Ho cominciato a comunicare con loro con messaggi whatsapp e con video quasi settimanali di commento alle letture liturgiche. Ho potuto apprezzare anche la generosità di famiglie che (come i corvi per il profeta Elia, in 1 Re 17,6) mi portavano da mangiare. Con il passare delle settimane ho migliorato la mia competenza culinaria e sono diventato sempre più esperto a preparare gli spaghetti al dente.

La parrocchia dove mi trovo, Queen of the most holy Rosary di Waverley, Pretoria (capitale della nazione), è la prima nostra presenza in città dal 1995. Nel 2020 era in programma la celebrazione del Giubileo d’argento (25 anni dalla fondazione). Naturalmente, a causa della pandemia, non si è fatta nessuna festa, se non il ricordo nella preghiera.

Il primo parroco della Consolata è stato padre Jack Viscardi, che era in comunità con padre Alexius Lipingu, tanzaniano, responsabile di St. Mary’s Mamelodi West, una parrocchia della township a mezz’ora di macchina da Waverley. I due confratelli prestavano il loro servizio pastorale nelle due parrocchie come coparroci.

Padre Alexius lo avevo accolto in seminario a Nairobi nel 1978, e accompagnato all’ordinazione nella sua parrocchia nel 1987. Destinato al Sudafrica nel 1993, era diventato superiore della delegazione, e nel 1999, a 43 anni, è morto in un incidente stradale. Mai avrei immaginato di diventare suo successore in questa parrocchia dove egli è ricordato con simpatia e gratitudine.

In questi 25 anni, vari confratelli di varie nazionalità si sono succeduti qui nel servizio pastorale. Oltre a padre Lipingu, altri due sono già in Paradiso, Jesus Ossa, colombiano, e Jack Viscardi. Li ho frequentati in Italia negli ultimi anni della loro vita: padre Jesus lavorava con la comunità latinoamericana a Torino e padre Jack era nella casa di Alpignano (To). Quando prego il rosario passeggiando su e giù nella chiesa del Santo Rosario e quando celebro la messa, quasi sento la loro presenza fisica nel mistero della comunione dei Santi a intercedere per i loro (ora miei) parrocchiani.

Mario Barbero

St. Gabriela Healin Center, a Mtubatuba: centro di prevenzione e cura dell’Hiv/Aids,


Il vescovo di Manzini indica i fattori di successo

Piccole comunità, grandi greggi

Piccoli gruppi missionari, anziché presenze ingombranti. E la capacità di aderire con dinamismo al mutare delle esigenze del contesto. Ma anche un’attività pastorale dominante, che ha favorito la formazione di leader della chiesa locale. Questi gli aspetti determinanti nei cinquant’anni di missione appena trascorsi.

Era il 1992 quando ho scritto a padre Giuseppe Inverardi, prima della fine del suo secondo mandato come superiore generale, chiedendo di essere destinato altrove. Da sei anni ero in Argentina, dove sono nato. Ero entrato nell’Istituto «per essere inviato» e non per rimanere. È vero che avevo anche la curiosità di sapere se sarei riuscito ad imparare un’altra lingua (avevo fatto il noviziato e la teologia in Colombia), e a inserirmi in un’altra cultura, diversa di quella dell’America Latina.

Durante una sua visita in Argentina lui mi ha chiesto: «Dove vorresti andare?». Anche se mi ero reso disponibile per andare in qualsiasi nazione, ho detto: «Preferirei un gruppo piccolo». Dietro la mia risposta c’era l’immagine delle nostre presenze dove, dopo tanti anni di servizio missionario, siamo cresciuti nel personale ma anche nelle strutture, cose che possono rendere più difficile una nostra disponibilità a rispondere alle nuove sfide.

Lui aveva già un’indicazione: «Abbiamo pensato al Sudafrica». Mesi dopo, nel 1993 sono stato ufficialmente destinato al Sudafrica dove sono arrivato all’inizio del 1994 dopo alcuni mesi passati a Londra per migliorare la lingua inglese.

Quasi trent’anni dopo, penso che quella intuizione sia stata importante.

La nostra presenza in Sudafrica è stata marcata da due elementi particolari: è sempre stata «piccola» nel numero dei sacerdoti missionari (la delegazione non ha mai avuto fratelli) e non è mai stata legata a una infrastruttura. Questo ha permesso ai missionari di spostarsi con facilità per dare una risposta alle diverse sfide.

È stato così che nel 1991, in risposta al vescovo della diocesi di Dundee, l’Istituto ha preso in consegna le parrocchie del decanato di Newcastle, per sviluppare un lavoro d’équipe secondo il nostro carisma missionario.

Qualche hanno dopo, nel 1994, è stata decisa la prima presenza fuori della diocesi di Dundee: due parrocchie nell’arcidiocesi di Pretoria (Waverley e Mamelodi) e nel 2003 la prima presenza nell’archidiocesi di Johannesburg.

La comunità dei professi è nata nel 2008 seguita da una parrocchia «a fianco» nell’arcidiocesi di Durban nel 2009, e poi una seconda parrocchia a Mamelodi (Pretoria) nel 2015.

Più tardi, nel 2016, è iniziata la presenza dell’Istituto nella diocesi di Manzini, nel Regno di Eswatini(*).

Quando guardo indietro vedo una grande dinamicità in un gruppo così piccolo e una grande capacità di risposta ai bisogni della diocesi e alle proposte dei vescovi.

Una presenza pastorale

Un altro elemento di questi 50 anni è che la nostra è sempre stata una presenza «pastorale». In molti luoghi sono state costruite delle cappelle o delle chiese, ma non c’è mai stato il bisogno di costruire delle scuole o centri di salute (realizzati questi dal governo). La nostra chiamata è sempre stata quella di creare o consolidare delle comunità, nella visita alle famiglie e nella formazione dei loro leader.

Per tanti anni, la Conferenza episcopale ha offerto corsi di formazione per i laici attraverso il centro pastorale Lumko. Ancora oggi ricordo quella volta in cui una delle incaricate del centro ha incontrato padre Pietro Trabucco, in visita in Sudafrica, e gli ha raccontato: «Voi, missionari della Consolata, non soltanto avete curato la formazione dei laici ma, in tutti i corsi, i religiosi erano seduti in mezzo alla gente. Anche loro hanno voluto essere formati insieme al popolo». Ed è vero. Diverse generazioni di missionari sono passate in Sudafrica, arrivate dall’Europa, dall’America Latina e dal resto dell’Africa, ma la cura della formazione dei laici è stata sempre presente nel cuore di ciascuno, forse nella consapevolezza che noi siamo di passaggio e sarà la gente del posto a portare avanti la crescita della chiesa.

L’anno scorso, un sacerdote diocesano al quale è stata affidata una delle nostre missioni, mi ha scritto dicendo: «Sono io oggi a godere dei frutti del lavoro dei Missionari della Consolata. Posso contare su leader preparati con grande cura».

Anche se tutto questo è parte essenziale della nostra identità, non è sempre facile vedere dei frutti quando si lavora in un contesto dove le chiese cristiane si moltiplicano come funghi, il senso di appartenenza a una chiesa è spesso debole, o quando uno dei laici formati sceglie di andare via e di dare inizio alla propria chiesa.

Ho sempre il ricordo di un incontro del nostro gruppo di missionari, una ventina di anni fa. Nella condivisione riguardo al nostro essere in Sudafrica era presente, in quasi tutti, la sensazione di non essere stati di grande aiuto alla chiesa locale. Io ero superiore delegato e ho guardato tutti in silenzio senza dire una parola. Eravamo già presenti in tre diocesi e i vescovi parlavano benissimo di tutti i nostri missionari, ma eravamo noi stessi a non riuscire a vedere l’impatto della nostra presenza.

Il Sudafrica è sempre una realtà molto sfidante, ed è soltanto la convinzione che è lo Spirito di Gesù risorto che si occupa dei frutti, la forza che ci guida e ci sostiene.

José Luis Ponce de León

 (*) Nota: dal 2018 lo Swaziland ha assunto il nome regno di eSwatini, ovvero terra degli Swazi. In questo dossier si è scelta la scrittura alternativa Eswatini.

foto dell’icona della Consolata che secondo una nostra tradizione e` stata donata dal Fondatore ai suoi missionari, conservata nell’ufficio di Mons. Luigi Santa, il quale l’ha data ai primi missionari che sono arrivati a Cape Town nel 1948, quando abbiamo aperto una casa per missionari destinati a fare corsi di specializzazione. Da Cape Town e` stata portata a Damesfontein, probabilmente nel 1981 e infine nell’attuale casa della delegazione a Waverley-Pretoria in aprile 2004.


Il partito di Nelson Mandela è spaccato in due

Alta tensione,  tra i figli di Madiba

Il presidente Ramaphosa cerca di fare pulizia nel partito al potere. Ma non è cosa facile, perché la corruzione è radicata e lui ha una maggioranza interna ristretta. Intanto la xenofobia verso gli immigrati africani non sembra diminuire. Anche a causa della crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19. Riuscirà il presidente nel suo intento? Ne parliamo con un esperto di Cape Town.

«Il presidente Cyril Ramaphosa sta facendo un buon lavoro, ma lentamente. Penso che non ci sia nessuno nell’Anc (African national congress, ndr) che potrebbe fare un lavoro migliore del suo, ma allo stesso tempo, lui non può fare il migliore lavoro di cui avrebbe le capacità, a causa del fatto che è in un partito molto diviso». Chi parla è padre Peter John Pearson, dell’arcidiocesi di Cape Town, contattato telefonicamente. Padre Pearson è incaricato dalla Conferenza episcopale del Sudafrica dei rapporti con il parlamento, ed è coinvolto in una dinamica democratica che prevede la partecipazione della società civile nella definizione di policy e nell’osservazione del lavoro legislativo.

L’African national congress è il partito al governo dalla fine dell’apartheid e le prime elezioni libere nell’aprile 1994. «È uno dei principali partiti che hanno portato alla liberazione del Sudafrica, non l’unico – ricorda padre Pearson -, ma quello con la storia più lunga. È molto vicino alla gente». In quelle elezioni vinse Nelson Mandela che fu presidente fino al 1999. Gli succedette Tabo Mbeki, sempre storico personaggio dell’Anc, per due mandati. Nel 2009 venne eletto Jacob Zuma, controverso personaggio, già indagato per corruzione quando era vicepresidente di Mbeki.

Zuma fu poi obbligato a dimettersi prima della fine del secondo mandato, nel febbraio 2018, per le pressioni dell’Anc, perché eraè coinvolto in troppi casi di corruzione.

L’Anc scelse Cyril Ramaphosa, diventato segretario generale del partito nel 2017, per sostituirlo. Alle elezioni generali del 2019 Ramaphosa fu confermato.

South African President Cyril Ramaphosa is briefed by a nurse before getting inoculated with a Covid-19 vaccine shot at the Khayelitsha Hospital in Cape Town on February 17, 2021. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / POOL / AFP)

La corruzione, «benefit» del potere

«L’Anc è fortemente diviso – spiega padre Pearson – tra chi pensa che il potere sia l’occasione per approfittare [per arricchirsi], come fecero i bianchi prima, e chi ha una visione diversa. Il precedente presidente, Jacob Zuma, è accusato di molti casi di corruzione e irregolarità negli appalti. Secondo una stima, a causa della corruzione, sia nel pubblico che nel privato, il paese avrebbe perso tre trilioni di rand (circa 170 miliardi di euro, ndr), una cifra molto elevata per un paese a medio reddito come il nostro. Ogni atto di corruzione è un furto ai poveri. Rubando questi soldi si è sottratto un enorme investimento in servizi sociali per la gente, casa, educazione».

Nel mondo della politica è difficile togliere la corruzione, perché chi è dentro si è abituato a beneficiare dei suoi frutti.

La fazione del presidente attuale non è nel filone della corruzione, ma di chi lotta contro essa. Ramaphosa, sindacalista prima e poi uomo d’affari, è stato molto attivo nella lotta anti apartheid. «Purtroppo è arrivato al potere con una maggioranza molto piccola, per cui se vuole fare qualcosa, lo deve fare a piccoli passi, altrimenti mette a rischio il suo futuro politico».

Ramaphosa lavora molto con le commissioni, che si occupano dei casi di corruzione nelle diverse istituzioni di governance: «Verificano ad esempio i flussi di reddito di persone con incarichi importanti. Per cambiare le persone, il presidente usa le commissioni, in questo modo non può essere accusato di favoritismi. Però il processo ha bisogno di più tempo. Intanto almeno non sacrifica il suo avvenire politico nel breve periodo».

Suo feroce oppositore è Ace Magashule, segretario generale dell’Anc che guida una fazione del partito legata a Zuma. «Il presidente ha chiesto a Mashule e altri di dimettersi dai loro incarichi di partito. Ma questi non ne hanno intenzione. Si andrà allo scontro che potrebbe arrivare alle aule del tribunale. È un momento molto delicato», sostiene padre Pearson. «C’è un gruppo di persone nell’Anc che difende la democrazia. Ci sono alcuni veterani del partito che dicono: “Questa gente sta buttando tutto quello per cui abbiamo lottato e siamo finiti in carcere”. Per cui appoggiano Ramaphosa affinché faccia pulizia».

«Fortunatamente in Sudafrica abbiamo istituzioni molto indipendenti: il sistema giudiziario, la stampa, la libertà accademica, il diritto di organizzarsi e criticare il governo. Sono tutte cose che stanno ancora funzionando molto bene. E noi come chiesa stiamo appoggiando queste istituzioni, affinché la democrazia resti forte».

Migranti africani? No grazie

Il Sudafrica, essendo una delle economie più importanti del continente, attira molti africani dei paesi confinanti, e non solo, alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Padre Pearson si occupa della tematica: «La legislazione e la Costituzione in Sudafrica su migranti, rifugiati e richiedenti asilo è abbastanza liberale, sulla carta. Nella pratica c’è la tendenza a ridurre le possibilità e i diritti della gente che viene nel paese. Non sappiamo quanti siano, ma si stima intorno ai 4 milioni da altri paesi africani, dei quali la maggior parte ha passato la i confini di stato illegalmente, evitando i posti di frontiera».

Atti di xenofobia ricorrente occupano spesso le cronache. «Le cause sono molte, tra le quali complesse ragioni storiche. Uno dei motivi è il lavoro. Il tasso di disoccupazione nel paese è di circa il 32%, ovvero una persona su tre non lavora, senza contare i sotto occupati, che sono un’altra categoria. La gente pensa che i pochi lavori che ci sono siano minacciati dai migranti, i quali sono disposti a lavorare per salari più bassi e per più tempo, non appartenendo a sindacati. In realtà analisi e studi mostrano che non è esattamente così», sostiene Pearson.

«Anche a livello governativo, ci sono molti segnali, nelle politiche e nelle leggi, di chiusura verso gli stranieri, principalmente nei confronti degli africani. Per un europeo o un indiano, venire a vivere in Sudafrica non è così difficile, mentre per un nero africano sì. La chiamiamo esclusione strisciante, ovvero attuata poco alla volta».

Molti migranti fanno dei lavori, creano piccoli business, come la vendita di bevande e frutti per strada, altri hanno competenze e trovano lavoro in aree nelle quali i sudafricani non sono qualificati. «Vengono nella speranza che qui le cose siano un po’ migliori, perché nei loro paesi se la passano male, ad esempio in Zimbabwe. Sappiamo che ci sono circa due milioni di zimbabwesi che vanno e vengono dal Sudafrica. Alcuni lavorano sei mesi poi tornano indietro. Prendono i rischi per venire qui, perché nel loro paese non c’è nulla. Molti migranti però arrivano e non trovano lavoro, così aumentano il numero dei poveri», conclude padre Pearson.

La pandemia che preoccupa

Il lockdown a causa della pandemia è stato rigido in Sudafrica e solo adesso è meno restrittivo. «La pandemia è sotto controllo ma c’è molta preoccupazione per una terza ondata, a causa delle varianti e della stagione invernale che si avvicina», indica padre Pearson, «inoltre è chiaro che l’economia non può affrontare un altro lockdown duro».

Il nostro interlocutore termina con un monito: «L’anno prossimo ci sarà il congresso dell’Anc. Ramaphosa dovrebbe essere rieletto dal partito. In quell’occasione i falchi sperano di farlo fuori».

Marco Bello

Covid relief projects


Pennellate di Sudafrica

Il Sudafrica si trova all’estremo Sud del continente africano. I primi europei a toccare le coste di questo paese, grande quattro volte l’Italia, furono i portoghesi nel 1487. Da allora se ne servirono come scalo obbligato gli inglesi, i francesi e gli olandesi diretti verso oriente. I primi che ne rivendicarono il possesso, costruendo una base fortificata, furono i coloni olandesi che arrivarono a Città del Capo nel 1652. Essi cominciarono subito a espropriare la terra agli indigeni (Boscimani e Ottentotti).

Questi coloni, con 200 ugonotti francesi, formarono la comunità boera, che cercò poi l’indipendenza dall’Olanda.

Nel 1795 l’Olanda, occupata dalla Francia, chiese aiuto all’Inghilterra, e questa decise di occupare una parte del Sudafrica. Seguirono poi lunghe tensioni e guerre fra boeri e inglesi che si conclusero con la vittoria di questi ultimi. Nel frattempo in Inghilterra avveniva la rivoluzione industriale e le fabbriche necessitavano di molti minerali: l’Africa del Sud poteva darglieli.

I coloni, padroni di tutte le miniere, avevano però il problema della manodopera. La popolazione africana viveva ancora esclusivamente di agricoltura. Il governo locale, composto di soli bianchi, emanò delle leggi fatte apposta per costringere la popolazione a lasciare le terre e andare a lavorare in miniera. Così però i raccolti diminuirono e le famiglie s’impoverirono. Dall’Asia poi, soprattutto dall’India, arrivarono in cerca di lavoro numerosi immigrati.

Agli inizi del XX secolo, i bianchi decisero, sulla base di conquiste militari, di impadronirsi di quasi tutta la terra dei neri.

Nel 1951 si sancì la divisione dei bianchi dal resto della popolazione, e poi la separazione degli africani in gruppi linguistici. Nacque così l’apartheid: un’astuta struttura politica che assicurava alla minoranza bianca di avere il dominio su tutto il paese e sulla maggioranza nera.

Nel 1991, grazie anche alle pressioni internazionali, il governo del Sudafrica si aprì alla formazione di un governo di transizione multietnico e nel 1993 fu pubblicata una bozza della Costituzione per l’abolizione di ogni forma di discriminazione. Con le elezioni popolari del 1994, il paese iniziò a respirare una nuova aria di libertà e tranquillità, sotto la guida del presidente Nelson Mandela. La strada percorsa è stata lunga, ma il Sudafrica di oggi è un paese pacifico, affrancato dal suo passato e consapevole del suo potenziale economico.

Economia

Le potenzialità economiche del Sudafrica sono impressionanti. Tra di esse, una delle principali è il settore minerario che produce il 30% delle entrate totali di valuta straniera. Grazie a esso il Sudafrica è uno dei paesi più ricchi al mondo e le sue compagnie di estrazione sono molto importanti e di notevoli dimensioni (sono presenti vasti giacimenti di oro, zinco, uranio, platino, piombo, ferro, argento e miniere di diamanti).

Molto importanti sono l’industria chimica, della lavorazione della plastica e l’industria dei mezzi di trasporto. Quest’ultima ha registrato una crescita pressoché continua anche grazie alle società multinazionali dell’automobile attratte dagli incentivi del governo di Pretoria. La Fiat, ad esempio, ha avviato nel ’99 la produzione in Sudafrica delle sue automobili destinate ai mercati emergenti.

Un altro settore importante è quello agricolo che ha notevoli potenzialità, data la grande estensione di terreno coltivabile e un clima temperato. I prodotti del Sudafrica stanno ora conquistando i maggiori mercati africani, e non solo.

Altri due settori sono quello delle attrezzature mediche, in forte espansione grazie all’estensione dei servizi sanitari alla popolazione nera, e quello dei sistemi di sicurezza, provocato dalla piaga, purtroppo molto diffusa nella realtà sudafricana, della criminalità.

Il visitatore straniero è subito colpito dagli alti muri di recinzione e dai fili elettrici che circondano le abitazioni della popolazione bianca e delle fabbriche. Con la fine dell’apartheid, nel 1994, i bianchi hanno abbandonato i centri cittadini delle principali città andando a insediarsi nelle periferie che nel tempo si sono trasformate in confortevoli centri residenziali e commerciali. La popolazione di colore invece ha intrapreso il percorso inverso, uscendo dalle townships in cui era stata relegata (anche se tuttora esse sono vicine alle grandi città e mostrano dimensioni impressionanti) per occupare i centri città svuotati.

Il turismo è un’altra realtà importante e ancora poco sviluppata in rapporto al potenziale esistente: i parchi a Nord di Johannesburg, la natura tropicale e il mare dell’area di Durban, la bellezza di Città del Capo con i vigneti a perdita d’occhio, le montagne dolomitiche, una fauna e una flora che lasciano senza fiato, sono solo alcuni aspetti che testimoniano la varietà della bellezza di questo paese.

Alle prospettive positive esistenti nel campo economico e politico, si oppongono però aspetti negativi, che gettano un’ombra sulle speranze di sviluppo di questo paese: l’altissimo livello della disoccupazione (32%), diffusa soprattutto nella popolazione nera, la scarsa formazione dei lavoratori, una situazione sociale con una forte disparità, la criminalità dilagante, la piaga dell’Aids che pare colpisca circa il 18% della popolazione.

Pietro Trabucco

 

Padre Benedetto Bellesi che ha servito in Sudafrica per molti anni e poi redattore e direttore di MC

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Archivio MC