Tu vuoi fare l’africano

Le sfide della nuova cooperazione

I comuni italiani sono sempre più impegnati in progetti di cooperazione con città del Sud del mondo. Che sia per aiutare il decentramento amministrativo,  fornire consulenze specifiche o realizzazioni pratiche, si scontrano con le diversità culturali e il divario di risorse. Per questo si fanno spesso accompagnare da associazioni e Ong del loro territorio.

In nessuno dei Paesi cosiddetti «ricchi» del mondo è ancora stata scoperta la formula magica che permetta di stabilire quale sia il giusto equilibrio di ripartizione dei poteri (legislativo, giudiziario e amministrativo) tra un governo centrale e i suoi enti locali per un’ottimale gestione del territorio ed il miglioramento del benessere dei suoi abitanti. Non c’è bisogno di ricordare, ad esempio, quanto in Italia sia ancora oggi acceso il dibattito su come attuare il decentramento, o anche solo il federalismo fiscale, sulla base di quanto scritto nella nostra costituzione oltre mezzo secolo fa, all’articolo 5 e nell’ormai famoso titolo V.
La verità è che questa formula non esiste. I nostri politici (a tutti i livelli istituzionali) dovranno continuare a cercare i migliori compromessi per adattare quanto le teorie economiche e ideologie propongono, in funzione dei cambiamenti sociali e delle continue difficoltà finanziarie che ogni governo si ritrova ad affrontare in questa epoca di globalizzazione.
è in questo contesto che, da più di dieci anni, in Italia va sviluppandosi una nuova forma di cooperazione internazionale che viene ormai comunemente definita come «cooperazione decentrata». Una cooperazione che vede come protagonisti gli enti locali italiani (comuni, province, regioni, ecc.), che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto la possibilità di spendere fuori dal loro territorio e per progetti di cooperazione e solidarietà internazionale una cifra pari all’otto per mille dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione. Nel 2000, ad esempio, la cifra complessivamente stanziata dagli enti locali italiani nel loro insieme ha cominciato a superare in termini economici i 50 milioni di euro annuali.

Un mondo più giusto?

Fra le ragioni di questa cooperazione decentrata normalmente vengono citati diversi aspetti.
Prima di tutto la volontà della società civile nel suo insieme di partecipare attivamente alla costruzione di un mondo più giusto e più pacifico. Volontà di cui le istituzioni locali vogliono sempre più spesso farsi portavoce e anche promotrici in prima persona.
In secondo luogo la determinazione delle istituzioni locali di promuovere iniziative che permettano di avere ricadute importanti in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone più svantaggiate della terra. Azioni che al tempo stesso permettano la crescita di una cultura di pace e di solidarietà sul loro stesso territorio. Soprattutto alla luce dei sempre più rilevanti fenomeni migratori e dell’importanza che questi vengano gestiti in un’ottica di integrazione sociale e di valorizzazione delle diversità culturali. Questa ultima motivazione è fra le più utilizzate per spiegare ai cittadini perché per fare cooperazione internazionale vengono in realtà usate le loro tasse due volte, cioè prima quelle da loro pagate a livello locale per la cooperazione decentrata e poi quelle già pagate dagli stessi cittadini allo stato per fare la stessa cosa nel quadro più ampio della politica estera nazionale.
Infine, il desiderio di mettere a disposizione le competenze maturate nel corso della nostra esperienza di decentramento politico e amministrativo. Questo punto è sempre più spesso sottolineato quando si vogliono difendere le spese sostenute per entrare in contatto e costruire un rapporto di collaborazione duraturo con un ente «omologo» (comune, ecc.) di un paese estero.
Naturalmente sperando che tutto ciò possa essere utile, in particolare che altri, grazie al nostro impegno e alla nostra disponibilità, possano evitare di ripetere errori da noi commessi, in un passato comunque molto recente.

Aiuto al decentramento

Quindi la cooperazione non solo come ulteriore impegno e contributo delle istituzioni locali a favore della pace e della lotta contro la povertà a livello globale. Ma come un processo, che se non nel breve termine, nel medio o lungo, potrà aiutare i governanti degli stati e degli enti locali partner a elaborare i loro propri modelli di gestione del territorio, promozione dello sviluppo locale, ripresa economica. Ma soprattutto di lotta contro le micidiali disuguaglianze che vedono nei paesi più poveri poche élites vivere sulle spalle di masse di persone in condizioni di estrema povertà.
Facendo questo ambizioso e ammirevole ragionamento, comuni e regioni italiane danno però quasi per assodato (così come la maggior parte delle organizzazioni inteazionali prime fra tutte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che il decentramento politico e amministrativo dei poteri nei paesi cosiddetti in «via di sviluppo» sia un fatto assolutamente necessario, perché gli Stati centrali da soli non ce la possono fare. Così come spesso viene dato per certo che l’apertura al liberalismo sia l’unica possibilità di salvezza per le economie più deboli (ma la partecipazione di 8 regioni, 21 province e 29 comuni al recente Forum sociale mondiale di Nairobi dimostra che molti la pensano diversamente).
Queste due tesi sono tutt’altro che dimostrate. Ed è proprio qui che si dovrebbe inserire il ruolo cruciale delle organizzazioni non governative italiane (Ong), che lavorano per la cooperazione allo sviluppo da oltre mezzo secolo. Così come l’innumerevole schiera di esperti italiani che a livello nazionale e internazionale hanno lavorato e lavorano al ministero Affari esteri, nelle agenzie delle Nazioni Unite, presso l’Unione Europea. Ma anche il mondo universitario, che da sempre si occupa di studiare le politiche socio-economiche a livello internazionale e che da una decina di anni ha avviato simili percorsi di cooperazione decentrata (si chiama sempre così) con gli atenei di numerosissimi paesi del Sud del mondo.

Meglio soli o accompagnati?

Il Consorzio delle Ong piemontesi (Cop) ha accettato nel 2004 (ma diverse singole Ong lo facevano sin dal 1997) la proposta fatta dalla Regione Piemonte di «accompagnare» i processi di cooperazione decentrata intrapresi dai suoi enti locali in otto paesi dell’Africa Occidentale, arrivando a fine 2006 alla firma di un accordo programmatico triennale (in forma di Convenzione) sulla base del quale Regione e Consorzio definiranno gli interventi progettuali annuali e co-progetteranno le azioni di dettaglio. Questo, con l’idea di aprire una discussione e un confronto costruttivo, oltre che per mettere a disposizione l’esperienza delle Ong. Il quadro è quello del Programma regionale per «la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà». Un’esperienza unica in Italia, che dal 1997 vede la Regione Piemonte impegnata con uno stanziamento annuale di circa 2 milioni di euro. Dopo soli 10 anni di lavoro ha coinvolto in collaborazione con le Ong una rete di oltre 150 enti locali piemontesi e un grande numero di associazioni, enti religiosi, scuole, parchi regionali, strutture sanitarie, enti di formazione e associazioni di categoria.

Due mondi

Un lavoro enorme che, se si guarda oltre le innumerevoli opere obiettivamente concrete e positive realizzate insieme ad altrettanti partner locali, come ad esempio pozzi, interventi agricoli, corsi di formazione, ecc.  ha davanti a sé proprio l’immensa sfida di collaborare con le autorità locali africane per capire ed elaborare, magari insieme e in un’ottica di disinteressata solidarietà, i modelli politici e amministrativi capaci di generare uno sviluppo locale partecipato.
Sfida immensa, appunto. Soprattutto considerando le sconvolgenti differenze esistenti tra il nostro paese e i loro, evidenti quando si leggono ad esempio gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite, a partire da quello dell’aspettativa di vita che in Italia ha ormai raggiunto gli 80 anni e, ad esempio, in Burkina Faso è appena di 48. Può sembrare banale, ma immaginatevi una discussione con un sindaco cinquantenne di una cittadina burkinabè su cosa si possa fare nei prossimi dieci anni per migliorare la situazione della sua città. Vi risponderà vedremo, cominciamo a sperare che io sia ancora qui l’anno prossimo.
Ma soprattutto, continuando con il caso del Burkina, consideriamo che il Pil (prodotto interno lordo) italiano supera i 1.800 miliardi di dollari (2005), quello del Burkina Faso è poco meno di 6 miliardi. E quasi a parità di dimensioni, in Italia siamo 58 milioni di abitanti e in Burkina solo 14. In Italia sono oltre 40 milioni le persone che vivono in città (70% del totale), mentre in Burkina circa 2 milioni (il 17% del totale). E a proposito delle finanze pubbliche? Se in Italia la spesa per l’amministrazione pubblica nazionale equivale al 25% del Pil e quella dei comuni a circa il 6%, in Burkina il governo centrale spende il 12% del Pil e i comuni solo lo 0,3% (e il Pil del Burkina è meno di un centesimo del nostro). In altri termini, da noi i comuni gestiscono risorse pari al 26% di quanto gestisce il governo centrale, mentre in Burkina questa percentuale scende al 2%. Un sindaco del Burkina Faso ha in realtà in questo momento ben pochi euro  da spendere, e non può pretendere più di tanto il pagamento di tasse da parte di una cittadinanza che come reddito procapite annuale guadagna in media circa 430 euro mentre la nostra, di media (si intende) è pari a 20.000 euro.

Quante potenzialità

Di fronte a questi dati, certo è difficile sostenere che il decentramento politico e amministrativo può essere uno strumento in grado di consentire nel breve termine ai paesi del sud del mondo di risolvere i problemi legati alla povertà estrema della maggioranza della popolazione e della pressoché totale mancanza di servizi pubblici per i cittadini. Oppure che il decentramento può creare spazi per la partecipazione della società civile alla promozione dello sviluppo locale, o ancora garantire una più efficiente allocazione delle poche risorse disponibili (incluso quelle provenienti dalla cooperazione internazionale) e promuovee anche la maggiore mobilitazione a livello locale. O ancora che possa migliorare la governance a livello locale così come a livello nazionale. Tutto questo si scontra per il momento con una sostanziale mancanza di risorse come rivelano gli sconfortanti dati appena considerati, situazione nella quale si trova la maggior parte dei paesi del mondo non industrializzato.
Ma è proprio in questo contesto che la cooperazione decentrata può e deve cercare di muoversi, a piccoli passi e chiamando alla riflessione su quali siano le possibili soluzioni, il maggior numero di soggetti, dal mondo del terzo settore e delle Ong a quello delle istituzioni pubbliche, dagli enti fornitori di servizi (educativi e di ricerca, sanitari, ambientali, ecc.) fino al mondo imprenditoriale ed economico. Senza scoraggiarsi, ben inteso, e nella consapevolezza che anche un piccolo impegno può dare vita, in questo contesto, a grandissimi risultati.

di Andrea Micconi


Andrea Micconi




L’Harmattan non ci spaventa

Comminando sul filo tra «primo» e «terzo» mondo

Un gruppo di assessori, funzionari comunali, associazioni e insegnanti sbarcano in un paese saheliano. Incontrano un sindaco e la società civile del suo comune. Il clima è torrido, il sole picchia e la polvere ricopre ogni cosa. Ma i nostri riescono a creare un legame tra le città e i loro abitanti. Con la scusa di un progetto di sviluppo. Reportage.

Aicha ha sette anni. Nel suo zainetto di plastica ha un quaderno con la copertina colorata e una matita. Come ogni giorno percorre i tre chilometri che separano la sua casa dalla scuola, nel villaggio di Tirgo. Siamo nel Nord del Burkina Faso, nei pressi di Ouahigouya, la quarta città del paese. In pieno Sahel, savana secca, spazzata dall’Harmattan, il vento che arriva dal Sahara. La polvere è ovunque, copre ogni cosa, fa parte della vita. Qui sono tutti agricoltori, lavorano per strappare la poca terra rimasta all’avanzata del deserto, ma piove solo tre – quattro mesi all’anno.
Da queste parti, in ambiente rurale, le bambine non vanno a scuola. I genitori preferiscono tenerle a casa e avviarle, fin da piccole, ai lavori domestici. La scuola ha un costo: iscrizione, materiali, divisa. I maschietti hanno più fortuna e magari frequentano le prime due o tre classi di elementari.
Fatimata percorre in bicicletta molti chilometri. Va da un villaggio all’altro per distribuire copie di «Pagb yell goama» (sguardo di donna), una semplice rivista stampata su otto fogli di carta grigia. è scritta in mooré, la lingua più diffusa in questa zona, per sensibilizzare le donne contro l’escissione (mutilazione genitale femminile), il matrimonio forzato, la violenza di cui sono vittime da secoli. Di solito chi legge ad alta voce è circondato da molte che ascoltano.
Awa vive in un quartiere povero di Ouahigouya. Non sapeva né leggere né scrivere e non aveva un mestiere. Ha potuto frequentare per due anni di seguito i corsi di alfabetizzazione e poi una formazione sulla gestione di un piccolo commercio. In seguito ha ottenuto una piccola sovvenzione, che le ha permesso di acquistare alcuni montoni, allevarli e rivenderli.
Aicha, come altre 350 bambine dei villaggi vicini, Fatimata, Awa e le sue compagne, beneficiano di un progetto di cooperazione decentrata nato a fine 2002 grazie alla collaborazione di cinque comuni piemontesi (Rivoli, Moncalieri, Nichelino, Beinasco e Settimo Torinese) membri del Coordinamento comuni per la pace della provincia di Torino e la città di Ouahigouya.
Un legame sempre più forte tra territori italiani e africani. Le attività in Italia puntano a informare i cittadini sul Burkina Faso, paese sconosciuto ai più, nelle scuole, si organizzano mostre fotografiche, proiezioni, si stampano documenti sul tema. è stato anche attivato uno scambio di giovani che ha permesso visite in Piemonte e in Burkina.

Sicurezza alimentare e cellulare

A Ouahigouya, in questi anni, sono pure state realizzate alcune scuole e appoggiata la biblioteca comunale, su richiesta delle autorità della città.
«Ho trovato grosse differenze con la nostra realtà, anche a livello del comune e dei servizi che può offrire. Non ne sono rimasto scioccato perché ero preparato». Angelo Ferrero presidente del Cocopa e assessore alla pace di Moncalieri, descrive così una sua recente visita ai partner burkinabè. «Una cosa che mi ha colpito è che quasi tutti abbiano il cellulare, quando ci sono ancora gravi problemi di sicurezza alimentare. Ho notato, inoltre, che sono piuttosto abituati a fare cooperazione». «Posso parlare di due livelli: i rapporti con le istituzioni, nelle quali ho trovato una buona disponibilità e accoglienza. Si tratta di amministratori pubblici: hanno chiaro l’importanza di avere della cooperazione internazionale sul loro territorio. L’altro livello sono le associazioni: ancora più calorose, ma anche sfacciatamente interessate all’appoggio finanziario».
Il sindaco della città saheliana, Abdoullaye Sougouri, ci spiega l’importanza di questa cooperazione: «Ouahigouya è un comune relativamente vecchio, con molte ambizioni ma mezzi limitati. Adesso è il momento dello sviluppo alla base. Per questo motivo, il sostegno di amici all’estero è determinante, per favorire l’accesso della popolazione ai servizi minimi per tutti. Parlando di educazione, sanità, giovani, molte cose sono realizzate ma molte altre restano da fare.  Una sinergia d’azione è quindi fondamentale. Nel corso del 2007 abbiamo elaborato un bilancio di 287 milioni di franchi (ca 437 mila euro). Se guardiamo i servizi che bisogna realizzare nella città, ad esempio per l’acqua, anche se utilizzassimo interamente questa cifra, sarebbe come una goccia nell‘oceano».
Ma la cooperazione tra enti locali deve andare nelle due direzioni, volendo essere il legame tra due territori. Anche se lo squilibrio di risorse finanziarie si fa sentire, gli africani hanno molto da insegnarci.
«Cooperazione è innanzitutto costruire legami tra comunità e città nell’ambito dell’amicizia e della pace. Attraverso questi aspetti si sviluppa la solidarietà, che gioca un grande ruolo. Con gli amici si condividono le stesse preoccupazioni e difficoltà, ecco perché sovente i nostri partner del Nord vengono a sostenerci nelle azioni di sviluppo. Ed è piuttosto l’aspetto finanziario che viene sottolineato, dimenticando le cose fondamentali. Penso che nell’ambito culturale i paesi del Sud possono portare le loro esperienze e contributi, attraverso i legami che si creano». Continua Sougouri.

«Un’altra visione del mondo»

Quarantacinque chilometri più a sud, un’altra città, Gourcy, ha iniziato nel 2005 un percorso di cooperazione con un altro gruppo di comuni piemontesi: Grugliasco, Alpignano, Brandizzo e Pianezza.
Roberto Montà, assessore alla pace di Grugliasco vede così il contributo degli africani al suo comune nella cintura torinese: «Possono trasferirci un’altra visione del mondo utile per amministratori e cittadini. Possiamo superare gli stereotipi nei confronti degli africani. D’altro lato abbiamo da imparare sul piano culturale e sull’approccio ai problemi e alla vita. I nostri bisogni sono molto più generali e sovradimensionati. Il nostro modello di sviluppo è sproporzionato. Per approccio alla vita intendo anche il confrontarci sui nostri modelli di sviluppo. Ad esempio in Africa ho visto che talvolta copiano i nostri modelli. Questo non ha senso. La mia speranza è che ognuno prenda il meglio dei due approcci. Noi dobbiamo capire quali sono le loro esigenze, ma anche il loro valore aggiunto in termini di cultura e visione del mondo. Loro però devono capire che alcuni nostri modelli sono sbagliati».
Il sindaco di Gourcy, Dominique Ouedraogo, replica: «Abbiamo culture molto diverse, noi non abbiamo soldi, ma abbiamo sviluppato quello che in fondo ci può assicurare un minimo di vita, che è la solidarietà. Io conosco l’Euro­pa e penso che questi valori si stiano perdendo. Anche le relazioni umane contano molto nella società africana: il rispetto dei valori tradizionali, dei valori trasmessi dai nostri genitori, ad esempio nell’educazione dei bambini. Qui il rispetto degli anziani impone che un giovane debba obbedire ai suoi genitori, al contrario di quello che vediamo in Europa».
Ma come fare a trasmettersi tutte queste esperienze? «Con gli scambi culturali. Mandateci i piccoli italiani e anche i loro genitori. Diamo la possibilità a qualcuno di venire a vivere le nostre realtà. Si renderanno conto che l’Africa ha qualcosa da condividere: questo calore umano, che non troviamo in Europa, dove invece ognuno va per se. Da noi non immaginiamo qualcuno che viva fuori dall’ambito famigliare, che per noi è sacro. Mentre in Europa vince sempre più l’individualismo nella vita. Penso che con gli scambi e i viaggi, i nostri amici europei possono rendersi conto che hanno perso molte cose».
A Gourcy, città di 80.000 abitanti, i quattro comuni italiani stanno realizzando, grazie anche all’appoggio finanziario della Regione Piemonte, un polo zootecnico, composto da un nuovo mercato del bestiame e un mattatornio. Lo sviluppo di questo programma è previsto in tre anni e vuole diventare un riferimento non solo a livello comunale, ma provinciale. Gourcy ha anche proposto lo sviluppo della biblioteca comunale. Un altro livello di intervento è quello scolastico. Non solo è stata realizzata una scuola elementare ma si è messo in piedi uno scambio tra gli allievi di questa scuola e di una decina di classi di scuole medie ed elementari di Grugliasco e Alpignano. I licei di Grugliasco e il liceo provinciale di Gourcy comunicano via posta elettronica, grazie al progetto.

Collegamento istituzionale

Montà spiega il valore di interagire con un comune africano: «Sul piano istituzionale è riconoscere alle istituzioni locali il ruolo fondamentale sullo sviluppo del loro territorio. Inoltre consente ai comuni italiani di esercitare in prima persona il ruolo di partner di sviluppo e quindi di farsi carico di questo compito sul proprio territorio. Il comune non si limita a dare i soldi in beneficenza, ma controlla l’intero processo. Questo gli permette di interagire, collaborando, relazionandosi e rafforzando colleghi eletti che hanno bisogno di sostegno. La cooperazione tradizionale (governativa, ndr.) è più efficiente, noi siamo più farraginosi, articolati, ma abbiamo la possibilità di mobilitare le coscienze, dialogare con comuni al sud del mondo. Perché, con gli amministratori, dal dialogo può nascere il reciproco interesse, su tematiche comuni, come l’erogazione dei servizi».
Un chiaro esempio di raccordo istituzionale è stato il ruolo giocato dal comune di Orbassano, come ci racconta il sindaco, Mario Marroni, nel distretto di Taraka, in Kenya, nei pressi della missione Mariamanti, della Consolata: «In collaborazione con le autorità locali abbiamo sviluppato il progetto sull’acqua, la costruzione di un acquedotto, promosso da un’associazione locale. Anche grazie al nostro intervento, il governo del Kenya ha poi investito sulla depurazione. La nostra presenza ha facilitato i rapporti con le istituzioni. Il nostro ruolo è creare il collegamento istituzionale nei nostri limiti e possibilità».
Una preoccupazione di un amministratore eletto, che ha dunque un mandato preciso, è anche rendere conto alla popolazione, come racconta Ferrero: «Cerchiamo di fare informazione sul nostro territorio rispetto a questi progetti. Ma penso che siamo ancora carenti. Il cittadino fa fatica a sapere cosa succede. Per spiegarlo, tento di descrivere la situazione nel paese in cui operiamo e le nostre attività. Spesso c’è molta sensibilità e la gente mi chiede cosa può fare, come singoli o associazioni».
Il sistema messo in piedi dal comune di Grugliasco prevede di coinvolgere le diverse realtà del proprio territorio, stimolarle a intraprendere un percorso di cooperazione con realtà similari in Africa e accompagnarle qualora queste iniziative si concretizzino. Roberto Montà ci descrive come: «Ai cittadini diciamo che con i soldi pubblici stiamo portando avanti progetti certi, ben definiti e controllati direttamente da noi. Il comune si assume la responsabilità in toto. Favoriamo la riflessione con tutti i soggetti del nostro territorio, in particolare con il settore scolastico e l’associazionismo. Ci serve per portare a tutta la città l’importanza di questi temi. Per costruire una domanda su base locale di sensibilizzazione e formazione, che punta a fornire gli strumenti per intraprendere in piccolo attività in società in via di sviluppo. Come i gemellaggi di 30 anni fa con i paesi francesi. In questo caso però c’è anche un gap finanziario, che rende necessarie più risorse. Non è un’attività singola ma un cornordinamento generale. Con il nostro progetto consortile in Burkina Faso abbiamo creato un tavolo di lavoro tra le associazioni e abbiamo attivato le nostre scuole per scambi con istituti africani. è una cooperazione organizzata con obiettivi, metodologia, criteri ben precisi. Se il comune riesce a cornordinare in modo generale i vari soggetti che portano avanti questo tipo di cooperazione su base locale è un buon risultato. Per accompagnarli occorre monitorare i loro progetti e aiutarli a reperire risorse. Il comune cornordina ma non è lesivo delle autonomie».

Quel filo tra Nord e Sud

Ma chi esegue  progetti di cooperazione decentrata, oltre a scontrarsi con le complessità tecniche e legate al contesto, comuni agli altri progetti di sviluppo, deve affrontare problematiche intrinseche dovute al gran numero e diversità di attori coinvolti. I comuni piemontesi si avvalgono in Burkina Faso dell’appoggio tecnico dell’Ong Cisv di Torino, che mette a disposizione la sua struttura nel paese. «Il problema maggiore riscontrato nella cornordinazione e nella gestione di questi progetti è indubbiamente quello di lavorare “in bilico” tra due realtà diametralmente opposte. è come camminare su un filo che collega direttamente Nord e Sud, primo e terzo mondo, modeità e tradizione, benessere e sottosviluppo. Chi lavora sul campo si trova su questo filo: è il facilitatore nelle relazioni tra gli attori» racconta Fabio Carbone, responsabile della cooperazione decentrata in Burkina Faso per la Cisv. «Chi cornordina questi progetti ha il compito, non facile, di smussare un po’ le divergenze, di far capire agli uni le esigenze e i bisogni degli altri, di metterli a confronto, sempre nel rispetto delle usanze e delle abitudini di chi sta dall’altra parte» continua Carbone.
Aicha torna a casa, dopo una giornata di scuola. Il suo passo leggero percorre uno dei centinaia di sentirneri nella savana burkinabè. Qui le automobili sono molto rare e i più fortunati si spostano in bicicletta. Il caldo inizia a farsi sentire in questa stagione, che in Europa si chiama primavera, ma nel Sahel è solo il periodo più caldo e secco dell’anno. Superiamo i 45 gradi all’ombra e l’acqua scarseggia. è così difficile per Aicha pensare a come sia la giornata tipo di un bambino italiano. Impossibile anche per un suo coetaneo di Moncalieri o Grugliasco, pur dotato di televisione e playstation, immaginare la vita di Aicha. Chissà se, un giorno, queste enormi distanze si ridurranno.

Di Marco Bello

Marco Bello




Nelle mani dell’Agenzia

La nuova legge per la cooperazione

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 12 gennaio scorso il Disegno di legge Delega al Goveo per la riforma della disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo. Un passo atteso da anni che avvia il processo di riforma della ormai obsoleta legge 49 del 1987.  Entro 24 mesi il governo dovrà produrre i decreti legislativi che riformeranno il sistema di cooperazione italiano.
Tra le grandi novità c’è l’istituzione di una Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale, ente di diritto pubblico con capacità di diritto privato, che avrà lo scopo di attuare gli indirizzi e le finalità stabiliti dal ministro degli Affari esteri o dal vice ministro delegato.
La nuova legge sarebbe incentrata su due istituzioni: il ministro decide le linee e l’Agenzia le attua, il tutto considerando la cooperazione internazionale parte integrante della politica estera italiana. Le priorità, disponibilità finanziarie per paese e area di intervento saranno quindi decise in questo contesto.

La legge delega esplicita che i decreti dovranno tenere conto e «riconoscere la funzione della cooperazione decentrata, prevedendo modalità di cornordinamento con la politica nazionale di cooperazione allo sviluppo»,  e anche «prevedere che nell’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo sia riconosciuto e valorizzato il ruolo dei soggetti pubblici e privati, nazionali e locali».
L’Agenzia concentra non solo l’attuazione delle politiche governative di cooperazione, ma potrà erogare servizi di assistenza e supporto delle amministrazioni. Potrà eseguire progetti finanziati dalla Commissione europea e altri organismi inteazionali. Dovrebbe assicurare la coerenza con le linee di indirizzo di tutte le iniziative di cooperazione allo sviluppo, incluse quelle proposte e finanziate dalle regioni e dagli enti locali.

L’Agenzia disporrà di un fondo unico dove confluiranno i finanziamenti del bilancio dello stato per l’aiuto pubblico allo sviluppo, proventi derivati dai servizi erogati e anche fondi apportati  «dalle regioni e dagli altri enti locali allorché questi ritengano di avvalersi dell’Agenzia».
Un ruolo preponderante quindi che occorrerà conciliare con la miriade di iniziative italiane di cooperazione decentrata e non. Attendiamo i decreti attuativi.

Ma.B.

Marco Bello




Creare «reti complesse»

La voce della Regione Piemonte, intervista a Giorgio Garelli

Il dottor Giorgio Garelli lavora al Settore Affari Inteazionali e Comunitari, Gabinetto della Presidenza della Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega, vedi box).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «intea» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre – quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800  enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione intea.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?
In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?
Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il cornordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni inteazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

a cura di Ma.B.

Marco Bello




Sitema Italia cercasi

Il valore aggiunto della cooperazione tra enti locali

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio

In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. è espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment (vedi glossario, ndr). Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto

Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1. L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni inteazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord – Sud.

Risorse in aumento

Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Intea­zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or­ga­nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio­ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’inteazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni inteazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»

Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e cornordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e cornordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

Di Andrea Stocchiero

Andrea Stocchiero




Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai: lo «storico» della decentrata

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.  

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato,  anche nell’ambito della cooperazione internazionale.  Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza  delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario.  La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere  sulla  politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli   obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni  pubblici e governativi.

 a cura di Ma.B.
Per scambi d’opinione : italia@lvia.it

Marco Bello




L’unione fa la forza

Cocopa: oltre la sigla

Fino a qualche anno fa le attività inteazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Ceobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di inteazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace

Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e cornordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento,  la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa

è un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni…), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

Di Edoardo Daneo

Edoardo Daneo




La prevalenza dell’«homo videns»

Introduzione

Secondo la rivista scientifica Biologist, in Gran Bretagna i bambini di 6 anni hanno già passato in media un anno a guardare la televisione. Questa teledipendenza produrrebbe deficit visivo, obesità, autismo, alterazione dei ritmi biologici di sonno-veglia (1). D’altra parte, per capire l’invadenza della televisione nella vita quotidiana, è sufficiente osservare l’evoluzione delle sue dimensioni fisiche. I televisori sono talmente grandi che le persone sembrano uscire dallo schermo. Oppure sono talmente piccoli (si pensi ai videofonini), che possono stare in una tasca. Sia in un caso che nell’altro, la televisione «entra» nella vita delle persone. Se si ascoltano le sirene della pubblicità, questo è un vantaggio che il progresso ci regala. Se invece si fanno prevalere l’intelligenza e la razionalità, le cose non stanno proprio così.

Il Grande Fratello e la globalizzazione del trash

La cosa che più impressiona è la globalizzazione del trash televisivo. Attraverso i format (2), in mezzo mondo si vedono gli stessi programmi (magari adattati all’audience nazionale) e soprattutto gli stessi reality show o reality game. Ecco qualche titolo.
Uno dei format più famosi è il Grande Fratello (in inglese Big Brother, in spagnolo Gran Hermano), proprietà della società olandese Endemol. Vari programmi di quiz – Il prezzo è giusto, La ruota della fortuna, ecc. – sono stati prodotti dall’australiana Grundy, oggi proprietà del colosso tedesco Bertelsmann. Alla Grundy-Bertelsmann si debbono anche il reality show West Wild West e l’impossibile Distraction, condotto da Enrico Papi, che già aveva avuto la conduzione de La pupa e il secchione, format sessista della società statunitense The WB Television.
Altri reality noti della televisione italiana sono L’isola dei famosi (Rai), La fattoria (Mediaset) e La talpa (Mediaset). Questi programmi hanno come protagonisti personaggi noti, tali da garantire un adeguato ritorno pubblicitario. Sono programmi che non faticano a trovare autogiustificazioni alla loro esistenza. Sono programmi infarciti di pubblicità (diretta o indiretta), di luoghi comuni, di divismo ridicolo. Con l’aggravante di essere girati in luoghi naturali affascinanti – gli ultimi sono stati l’Honduras, il Marocco, il Kenya -, che vengono «usati» con l’arroganza tipica dei ricchi e potenti verso i meno fortunati.   
Non mancano neppure i programmi sui «buoni sentimenti», l’«amore» e le «lacrime»: Uomini e donne (Mediaset), C’è posta per te (Mediaset), Stranamore (Mediaset), Amici di sera (Mediaset). Insomma, parafrasando uno slogan, in televisione c’è di tutto e di più.
Si dice che questi programmi vogliono regalare momenti di serenità, facendo evadere da una realtà spesso faticosa o insopportabile. Nessuno nega che la televisione possa perseguire anche una finalità di questo tipo. Ma quando questo obiettivo diventa prevalente, la finzione (attenzione a questo termine!) televisiva finisce con il sostituirsi alla realtà, che diventa secondaria.

La pubblicità snatura l’informazione (o la uccide)
Abbiamo già introdotto il tema della pubblicità. Ebbene, una delle regole fondamentali di chi fa informazione dovrebbe essere quella di tenere ben distinte informazione e pubblicità. Invece, da una parte la pubblicità sta soffocando l’informazione; dall’altra, dove la pubblicità viene a mancare (come nei media più deboli) l’informazione rischia di scomparire per carenza di risorse economiche.  Insomma, in un caso o nell’altro, l’informazione si dibatte in un circolo mortale.
La conseguenza ultima, in atto in tutto il mondo, è la concentrazione dei media nelle mani di poche multinazionali dell’informazione e della comunicazione. Si pensi all’impero mediatico di Rupert Murdoch, che spazia dall’Australia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Italia (dove possiede la televisione satellitare Sky).
Ora, la prima conseguenza della concentrazione è la riduzione del pluralismo (esempio: se tutti i principali telegiornali dicono che i cattivi sono quello stato o quel gruppo, è evidente che con più difficoltà il pubblico potrà elaborare un’idea diversa; è accaduto per tutte le ultime guerre dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia fino al possibile, prossimo attacco all’Iran). D’altra parte, la crescita di potere delle multinazionali produce altre gravi conseguenze: la sottomissione dell’informazione al potere economico (esempio: «se parlate male di quell’industria, di quella banca, di quel farmaco, di quella grande opera, di quel fondo d’investimento o di quella privatizzazione, i vostri posti di lavoro saranno a rischio»; «se scrivete che i Suv sono una mostruosità ambientale, il nostro ufficio marketing si rivolgerà ai vostri concorrenti») (3) da cui – nessun dubbio al riguardo – dipende il potere politico (esempio: «se tu politico ti schieri diversamente, io ordino ai miei giornali e alle mie televisioni di fare una campagna contro di te e il tuo partito»).  
Ancora più complesso è il caso italiano. In Italia, infatti, forse non sarà mai possibile una riforma del sistema della comunicazione e in particolare del sistema televisivo. E il motivo è presto detto: chi è da tempo sul mercato (la Rai, ma soprattutto Mediaset), non vuole perdere neppure una fettina della torta pubblicitaria di cui si è impossessato. Con una duplice conseguenza: i programmi (in primis, quelli di Mediaset) trasudano pubblicità e gli altri media (in particolare, la stampa) non raccolgono pubblicità sufficiente a far quadrare i bilanci, mettendo quindi a rischio la loro indipendenza o, per i più piccoli tra essi, la loro stessa sopravvivenza.

Leggere o vedere? Vedere, vedere, vedere
Toiamo alla tv e cerchiamo di capire perché ha surclassato gli altri media. La prima risposta è (apparentemente) facile facile: leggere costa più fatica che guardare.
Come ha splendidamente spiegato Giovanni Sartori: «La televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie» (4). Insomma, «l’homo sapiens viene soppiantato dall’homo videns».
In Italia, il Censis distingue 5 categorie di utenti dei media: i pionieri (con 8 o più diversi media), gli onnivori (con 6-7 media), i consumatori medi (con 4-5 media), i poveri di media (con 2-3 media) e i marginali (con un solo mezzo).  Tra i marginali, la categoria meno evoluta di utenti dei media, la televisione è il mezzo nettamente prevalente. Nel 2006, la popolazione italiana ha usato la televisione (94,4%), i quotidiani (59,1%), i libri (55,3%), internet (37,6%). La televisione, dunque, vince alla grande, ma – dicono le indagini – il grado di soddisfazione degli utenti è modesto (5).
Lo strapotere della televisione è chiarito dai numeri. Nel 2006 il quotidiano più letto d’Italia è stato La Repubblica, con una media giornaliera di 3.015.000  lettori (6). Confrontiamo questo dato con alcuni dati televisivi relativi al 21 e 22 febbraio: il Tg2 delle 20.30 ha avuto un’audience di 3.131.000 spettatori; il programma di intrattenimento Cultura modea slurp ha avuto 5.519.000 e il reality show Grande Fratello è arrivato a 5.693.000 spettatori (7).

L’obiettività? Non esiste
Altra risposta per spiegare la vittoria della televisione sugli altri media, potrebbe essere quella di una maggiore credibilità della tv.
Sfortunatamente, l’obiettività non esiste. Non può esistere. Tanto meno in televisione. Scrive Claudio Fracassi: «La distinzione, necessaria ma non ovvia, tra fatti e notizie, tra realtà e racconto, si confonde quando – attraverso la tv – siamo messi apparentemente in grado di vedere i fatti, e quindi di viverli direttamente. L’immagine – essa stessa frutto di una scelta (quella certa fetta di realtà, quella certa inquadratura) – ha assunto la forza propria della concretezza e della verità.  (…) Eppure dovrebbe essere evidente che l’immagine della cosa non è la cosa, né può sostituirsi ad essa» (8).
«La televisione – scrive la psicologa Anna Oliverio Ferraris – ha l’ambizione di mostrare la realtà. Ma mentre la mostra la filtra, la trasforma. E lo fa secondo le proprie regole. Secondo la propria ottica. (…) Purtroppo però la gente, molta gente, crede ciecamente a ciò che vede in tv, soprattutto nei Tg grazie al clima di autorevolezza che li circonda. (…) Prendiamo il caso dell’uomo politico che, nel corso di una manifestazione, si trovi al centro delle proteste di un gruppo di cittadini: il giornalista, insieme all’operatore, può decidere di mostrare, attraverso le immagini e il più fedelmente possibile, ciò che sta avvenendo indipendentemente dalle proprie simpatie politiche; oppure può accentuare la protesta inquadrando soltanto il gruppo dei contestatori e non il resto dei partecipanti; può anche, al contrario, ridurre le immagini della protesta confinandola a un impercettibile sottofondo mostrando soprattutto primi piani del politico mentre, sorridente, riceve gli applausi della folla» (9).

Se i fatti diventano irrilevanti
Dopo aver parlato tanto male della televisione (meglio: di questa televisione), uno si chiede se i media scritti siano migliori e più affidabili della tv. La risposta è «no». Per raccogliere acquirenti, i giornali imitano la tv e scelgono di stupire, a qualsiasi costo. Emblematico l’esempio di Libero, uno dei pochi quotidiani italiani che negli ultimi anni ha conquistato lettori (probabilmente proprio per la sua volgarità). Così, nel numero del 22 febbraio, il giorno seguente alla caduta del governo Prodi, il quotidiano di Vittorio Feltri, per esteare la propria gioia, ha fatto una prima pagina di bassissima pornografia (10).
Lo stato dell’informazione in Italia è analizzato, senza fare sconti, da Marco Travaglio nel suo ultimo libro (11). «C’è chi nasconde i fatti – scrive il giornalista – perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggioarsi. C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore, stufo di pagare gli avvocati per qualche rompi… in redazione. C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, prostitute e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno. C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale. C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione».

Anno 2040: la morte dei giornali
«La stampa scritta – ha riconosciuto con preoccupazione Ignacio Ramonet, direttore del prestigioso mensile Le Monde Diplomatique – sta attraversando la crisi peggiore della sua storia» (12).
Per non soccombere, i media tradizionali si sono dovuti reinventare (vendendo il giornale assieme a svariati gadget: libri di ogni fatta, cd, video, ma anche orologi, magliette ecc.) oppure adattarsi ad una mera logica mercantile (che guarda al profitto e non alla qualità dell’informazione). «Forse la logica mercantile e del profitto fine a se stesso ha preso il sopravvento sulle altre funzioni dei mass media», conclude amaramente Giuseppe Altamore. Comunque, la morte dei giornali e dei media scritti in generale è stata prevista per il 2040.

Persi tra telecomandi,  MP3 ed Sms
«Il mondo di oggi – scrive John Pilger – è pieno di illusioni. La prima di tutte consiste nel credere che viviamo nell’”era dell’informazione”. In realtà ci muoviamo nell’era dei media, un’epoca caratterizzata da un apparente eccesso di informazioni, che di fatto non è altro che la ripetizione di notizie rigorosamente controllate, quindi non pericolose» (13).
Lo scorso 15 febbraio è morto negli Stati Uniti Robert Adler, lo scienziato che nel 1956 inventò il telecomando, uno strumento che non è esagerato definire rivoluzionario. Uno strumento essenziale per fare zapping. Lo spettatore che cambia di continuo canale televisivo (zapper) è come l’utente che cambia di continuo il sito web o il brano sull’I-pod. Per questo, con il diffondersi delle nuove tecnologie e del bombardamento di notizie (information overload), si è iniziato a discutere di «economia dell’attenzione».
Per esempio, mentre legge queste righe uno studente può – contemporaneamente – spedire un Sms ed ascoltare una canzone sul lettore MP3. Ma alla fine cosa gli sarà rimasto in testa? Gli esperti dicono che il nostro cervello è flessibile (soprattutto quello delle donne) e capace di suddividere l’attenzione su molteplici attività, ma che nessuna di queste va a fissarsi sulla memoria a lungo termine.  
Questo dossier andrà in alcune scuole superiori, anche perché prende spunto da una serie di temi scolastici sulla televisione. E allora auguriamoci che sia letto e discusso da molti giovani. Magari mettendo da parte, almeno per qualche momento, il cellulare o il telecomando. Anzi, osiamo di più: speriamo che, dopo aver letto, qualcuno di loro riuscirà a ridere di un programma spazzatura, a guardare con sospetto ad una pubblicità, ad ascoltare criticamente un telegiornale o, magari, a spegnere la televisione.  

 Paolo Moiola


Note:
(1) Citato da Daniele Damele, Università di Udine.
(2) Si veda il glossario finale. Sito: www.tvformats.com.
(3) Si veda l’illuminante saggio di Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie, Bruno Mondadori Editore 2006. A pagina 41 di questo dossier un’intervista all’autore.
(4) Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Editori Laterza 1997.
(5) Pasquale Borgomeo, Le diete mediatiche degli italiani, in «La civiltà cattolica», 3 febbraio 2007. Si tratta di un commento ai dati del Censis.
(6) Dati Audipress, seconda indagine 2006. Va precisato che gli acquirenti sono sempre in numero inferiore ai lettori. Ad esempio, con 3 milioni di lettori La Repubblica vende circa 600.000 copie al giorno.
(7) Questi dati – riferiti al 21 e 22 febbraio 2007 – sono facilmente reperibili sul sito di Auditel: www.auditel.it.
(8) Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, I libri dell’Altritalia, 1994; un saggio vecchio di qualche anno, ma sempre attuale e certamente utile per un percorso didattico sui media e l’informazione.
(9) Anna Oliverio Ferraris, Grammatica televisiva. Pro e contro la Tv, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
(10) Ciò non ha impedito al suo direttore di continuare a pontificare da tutti i canali televisivi, di cui è un assiduo frequentatore.
(11) Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Editrice Il Saggiatore, Milano 2006.
(12) Ignacio Ramonet, Minacce all’informazione, Le Monde Diplomatique, gennaio 2007.
(13) John Pilger, Sydney Moing Herald, 28 dicembre 1995, ripreso dal settimanale Internazionale, marzo 1996.

Paolo Moiola




Al falò dell’intelligenza

I danni di una televisione senza qualità

Mai come oggi la televisione offre una scelta infinita di programmi eppure mai come oggi impera un’assoluta povertà di idee. La gente si inebetisce davanti a trasmissioni dove il nulla viene spacciato per il tutto. Sotto i riflettori televisivi  passano corpi perfetti e menti leggere. E, sullo sfondo, l’accettazione di modelli imposti dall’alto, senza ideali alti, senza sogni che non siano il denaro e la notorietà. La situazione è chiara a molti, eppure, almeno per ora, è questa Tv spazzatura che continua a vincere e ad imperversare. Come fosse una tossicodipendenza.

È la tv che condiziona i giovani, le loro scelte e abitudini, o sono loro a influenzare con «nuovi modelli» la creazione dei format televisivi?
Un dubbio amletico, a cui possiamo tentare di dare alcune risposte: basta fare zapping in tv; frequentare le scuole, soprattutto superiori; avere figli adolescenti e ascoltare i discorsi dei loro amici e compagni…
La tv ha un potere enorme, ben superiore a quello (già notevole) di giornali, riviste, web. E lo esercita.
Quella scatola sempre più tecnologizzata, accessoriata, esercita il fascino disarmante di un giocattolo attraente e pericoloso allo stesso tempo.
Adolescenti e adulti ne sono attratti, fagocitati, plasmati, modificati, per poi essere ributtati, da bravi soldatini ubbidienti (qualcuno un po’ più recalcitrante), nel ciclo riproduttivo del consumismo in modo da perpetuae il modello.
I canali televisivi sono tanti e se si aggiungono quelli satellitari, la scelta è enorme. Ma è solo un’apparenza: a parte qualche eccellente eccezione (documentari, film d’autore, programmi culturali), si passa senza notare sensibili differenze da un reality-show all’altro, da una trasmissione demenziale all’altra. Il menù è lo stesso dovunque: mariti-mogli, fidanzati che si mandano a quel paese davanti a milioni di telespettatori; politici, attori, assessori alla cultura-esperti d’arte (!) che insultano; veline-schedine-letterine-vallette che s’aggirano esibendo pochi centimetri di stoffa che cerca di coprire il bendiddio; attricette-portavoci che dissertano nei salotti tv di quel poco che sanno e di quel molto che ignorano; grandi fratelli e grandi sorelle che recitano di far finta di essere spontanei. E poi ancora, secchioni-bruttoni che gareggiano in stupidità con bellone-sciacquette; telepremi, lotterie, quiz per semi-ignoranti; e isole, e case, e una noia mortale…
Una tv che vorrebbe essere di continuo intrattenimento ma che si riduce a spazzatura, e che mette in luce i nostri «istinti più bassi»: la stupidità, la collera, l’animalità. Che indubbiamente riflette una parte di noi stessi, come singoli, e una parte come nazione.
E che, per questo, attira, affascina, seduce. E conforma.
È la tv commerciale, studiata per produrre lauti guadagni alle aziende pubblicitarie, alle industrie, alle multinazionali, e ai proprietari delle emittenti, ai loro azionisti, per i canali privati; per incentivare carriere, promozioni, poltrone, ecc.- per quelli pubblici. Ma anche per omologare i gusti e le idee, gli usi e i comportamenti del pubblico. Per renderlo duttile e pronto consumatore, insofferente alla politica e alle scelte nazionali e inteazionali, per indurlo ad accettare soprusi, violenze, ingiustizie e nuove guerre di rapina.
Siamo di fronte a un momento di svolta epocale, non solo per i cambiamenti climatici planetari, ma anche per la democrazia occidentale, per la nostra vita quotidiana.
Tutto ormai passa attraverso l’immagine. Attraverso il tubo catodico.  È la «democrazia del tubo catodico». O la «mediumcrazia». I nostri figli saranno la chiave di volta per comprendere il prossimo futuro dell’umanità. E i nostri figli, con qualche eccellente eccezione, guardano la tv, questa tv, per ore, ogni giorno.

UNA TV DISEDUCATIVA E MANIPOLATRICE

A questi ragazzi, adolescenti, abbiamo chiesto cosa pensano della televisione e quali programmi seguono. L’occasione ci è stata offerta durante un corso di giornalismo che abbiamo svolto presso alcuni istituti scolastici superiori.
Nel corso delle lezioni, abbiamo dato loro qualche elemento del mestiere, e delle tecniche di cui spesso i mezzi di informazione si avvalgono per «manipolare le notizie». Abbiamo parlato della «scomparsa dei fatti a favore dei commenti». Abbiamo creato simulazioni del lavoro in redazione.
E abbiamo discusso, elaborato. E loro hanno scritto, soprattutto di tv. Ne è emerso un quadro complesso. Uno spaccato generazionale interessante.
Nei paragrafi che seguono, proponiamo alcune riflessioni degli allievi di tre classi (III anno) dell’«Istituto tecnico Oscar Romero» di Rivoli, in provincia di Torino. Si tratta di adolescenti di 16-17 anni.

L’ADEGUAMENTO AL POSTO DELL’UTOPIA

Il dato che ci è balzato subito agli occhi è il realismo, la piena, o quasi, consapevolezza da parte di questi ragazzi dei meccanismi della televisione e di quel mondo che essa propaganda.
È disarmante ascoltare ragazzine di 16 anni raccontare che, sì, fare la velina che «sculetta davanti alle telecamere non è molto dignitoso, ma questo le permette di essere conosciuta e di fare carriera in fretta», e allora, «se le cose vanno così, e se per avere successo, e in fretta, bisogna mettere in mostra tette e sederi e andare a letto con persone importanti, perché io dovrei fare diversamente e impiegare vent’anni per arrivare laddove mi sono prefissa?».
Il pensiero maschile non è molto diverso: «Se partecipando a trasmissioni televisive come il Grande Fratello o Amici, ed esibendo muscoli ben palestrati, e cervello poco allenato, io ho successo, perché devo fare tanta fatica in altro modo? Perché seguire strade più faticose e lunghe?».
La coscienza di un sistema fasullo e malato non scatena una reazione eguale e contraria che implica una volontà o un desiderio di cambiamento – azzardiamo, di sovversione – ma, al contrario, in molti casi suscita un totale adeguamento.
Questa, forse, è la più percepibile differenza rispetto alle generazioni passate, dove tra sogni e utopie (poi tutte clamorosamente disilluse), s’intravedevano velleità di cambiamento. Anche qui i sogni ci sono, ma sono quelli che la tv coltiva, amplifica, proietta con forza al di là dello schermo. E sono spesso simili per tutti, come avviene con l’abbigliamento e gli atteggiamenti conformati di molti adolescenti. Manca l’utopia, che ha lasciato il posto al realismo spicciolo, pratico: «Se è necessario, se è richiesto, lo faccio».
Ma la colpa non è certo loro, dei ragazzi: questo è il modello offerto dagli adulti, che l’hanno creato (forse dopo aver visto frantumarsi le giovanili utopie…). E molti vi si adeguano, almeno a parole, senza contestare più di tanto.
Ovviamente, non tutti sono così: né tra gli adolescenti che abbiamo incontrato a Rivoli né in altre zone dell’Italia. Non sono pochi, infatti, quelli che lottano con tutte le forze per cambiare «il marcio che c’è in giro». Lo abbiamo visto con i giovani in Calabria, lo osserviamo con chi si impegna contro le mafie e l’illegalità, o si interessa di ambiente, natura, squilibri nord-sud del mondo, chi fa politica, chi ha una passione profonda (non per il calcio, s’intende!). Laddove ci sono modelli positivi, guide forti da seguire, in casa o nell’ambiente esterno, i giovani si lanciano in coraggiose sfide. Dove c’è il vuoto umano, culturale, sociale, ci sono altri miti: quello della velina e del palestrato o del calciatore, corpi perfetti e pensieri leggeri. Soldi a volontà e riflettori, in stile Francesco Totti-Hilary Blasi, la coppia vincente a livello nazionale.

LA TV SPAZZATURA: ATTRAZIONE IRRESISTIBILE?

La consapevolezza del basso livello e della ripetitività imposti dall’attuale tv – pubblica e commerciale – è piuttosto diffusa. Qualche adolescente arriva a palesare segni di «stanchezza», di tedio. Come Alessia: «(…) cercavo di trovare un programma televisivo “furbo”, che attirasse la mia attenzione… Soap opere, fìction, programmi che, come argomento principale hanno la vita artificiale dei vari vip, sfilate di moda con modelle che rasentano l’anoressia, talk show dove le persone si insultano gratuitamente, notizie artefatte solo per fare ascolti più alti. Spuntano come funghi nuovi reality show (…)». Nuovi nei titoli e nei luoghi, ma i contenuti sono tutti uguali: volgarità, bestemmie, sesso a volontà; sovente i protagonisti sono senza qualità, non sanno ballare, cantare e discutere e per emergere danno il peggio di loro stessi. «Cominciamo veramente a non potee più, considerato che programmi interessanti e ben fatti ne esistono, alcuni però vengono trasmessi in orari impossibili o sono poco pubblicizzati… (…)».
Alessia sembra riuscire a non farsi fagocitare dalla «scatola magica» e a mantenere lucidità, arrivando a consigliare che è «molto meglio spegnere il televisore e rilassarsi in compagnia di un buon libro».
Il senso di fastidio per la volgarità imperante in programma cult domenicali per famiglie medie italiane emerge anche negli scritti di Giulia e Valeria: «Nella trasmissione (del 7 gennaio 2007, ndr) Buona domenica si è parlato dell’impiccagione di Saddam. Alcune persone erano pro e altre contro. Questi ultimi hanno solamente urlato le loro opinioni pur sapendo di essere in onda».
Sulla relazione di interdipendenza tra società e tv, Valentina sembra nutrire pochi dubbi: «Un fattore che influenza molto la gente di oggi è la televisione, da una parte molto utile per informare tutti su quello che accade nel mondo oltre ai giornali, ma in alcuni programmi ci sono veramente scene e avvenimenti orribili!».          
In un’intervista simulata, invece, Simona spiega a Denise: «Non sono un’amante della televisione, preferisco ascoltare musica e leggere. La tv la guardo ogni tanto, quando si trasmette un bel film, a volte i telegiornali, e a volte i video musicali. Mi è però capitato di fare zapping in tv e trovare programmi poco soddisfacenti e dal mio punto di vista poveri di sostanza e di interesse. (…) non sopporto assolutamente le loro finzioni e le liti che si svolgono frequentemente».          
Roberta si chiede: «Le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore? La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati». E poi conclude: «Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva».
Valentina V. è molto netta: «La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni».

«PIÙ SEI VOLGARE, PIÙ SEI INVITATO»

Anche Denis A. lascia poco spazio alla «compassione» nei confronti dei palinsesti televisivi: «Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura. Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse. Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso nei nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale – da Wild West e l’Isola dei famosi su Raidue, a La pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era seguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana, ecc… Se tutto si limitasse a questo, saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo & Company con i concorrenti dei reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni. È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grossolanità nei programmi. Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi e di altre emittenti, dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti».
In alcuni scritti emergono giudizi di valore, di tipo etico-morale: «È incredibile come la gente riesca ad accettare alcune parti per diventare famoso – si sorprende Valentina -, ma allo stesso tempo anche a farsi passare per ignorante, come ad esempio le ragazze e i ragazzi che sprecano la loro intelligenza nello show La pupa e il secchione».
«La televisione spazzatura (o tv trash) – sottolinea Marco –  provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le “pupe” vengono dipinte come “stupide” e i “secchioni” devono essere per forza “brutti”; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo “sfìgato” di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera».
Per Eleonora «i giovani guardano sempre di più la televisione limitando lo studio e le uscite con gli amici e parenti. Alla lista dei programmi spazzatura si stanno aggiungendo programmi volgari e senza alcun senso logico, e mentre le trasmissioni trash aumentano, documentari e telegiornali diminuiscono a vista d’occhio. Lentamente ci stiamo dirigendo verso l’era della televisione che non ci lascerà più tempo per fare altro, saremo talmente persi in quella scatola parlante da non potee più fare a meno. (…) La televisione è lo spettacolo delle vite altrui e gli spettatori persi nella loro insoddisfazione cercano di colmare il vuoto che c’è in loro».
«Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico – tuona Carla rivolgendosi direttamente ai genitori – è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi. Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza».
Denis non usa mezzi termini: «La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza e la voglia di (cfr ANGELA) il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza».

CONSAPEVOLI E RASSEGNATI? O SOLTANTO REALISTI?

Chi in un modo chi nell’altro, molti degli studenti delle tre classi III con cui abbiamo lavorato hanno espresso giudizi negativi nei confronti dei programmi tv più di «tendenza» e più seguiti dal pubblico.
Ed è proprio su questo punto che la questione si complica: pur considerati «trash», spazzatura, questi spettacoli riscuotono successo. Fanno «audience», anche tra chi li critica. Quindi, anche tra i ragazzi.
«La domanda da porsi – sbotta Eleonora – è perché nonostante le critiche, che noi stessi facciamo alla televisione, continuiamo a guardarla? Una delle cose più indecenti, è che, chi produce questa tv “spazzatura” ci guadagna incantando milioni di spettatori con programmi che non valgono nulla perché non trasmettono niente».
Per Roberta «il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una tv demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli».
Denise e Simona sembrano stupite del fatto che i programmi-spazzatura come i reality «hanno portato a un incremento dei telespettatori, specialmente fra i giovani». E ancora Denise: «Nella mia classe queste trasmissioni vengono molto seguite, e spesso discusse. Mi è capitato di sentire parlare alcune mie compagne scambiandosi informazioni sull’accaduto delle puntate precedenti del programma».
Stefano sembra quasi divertito dall’interesse che certi programmi suscitano: «Uomini e donne (di Maria De Filippi, ndr): Un ragazzo va a cercare la donna della sua vita. Ma… scusate, per cercare la donna della sua vita deve per forza cercarla in uno studio? Ma sai quante donne ci sono nella vita? C’è posta per te, ma ditemi voi cos’è questo “C’e posta per te”. Io non capisco come questi reality riescono ad appassionare milioni di questi telespettatori che vedono, sentono e guardano attentamente cosa combinano gli altri. Sono tutti pazzi».
In un’intervista Linna chiede a Barbara se si ritiene una «spettatrice assidua» e la compagna le risponde: «Sì, assolutamente, credo che se non ci fosse la televisione sarei persa. È diventata realmente un elemento fondamentale della vita quotidiana». E conclude: «Per me è come una droga, ma non penso di essere l’unica a pensarla così».
Molto interessante è questo botta-risposta tra Giulia C. e Margherita:
G.: Cosa intendi per tv «trash»?
M.: Intendo quei programmi che non hanno nessun fine educativo, ed oggi ce ne sono veramente troppi.
G.: Ad esempio?
M.: Ce ne sarebbe una lunga lista: i reality show; Buona Domenica.
G.: Tu che genere di programmi proporresti?
M.: Sarebbe, o meglio, sono più interessanti ed educativi i cartoni animati, e i programmi culturali.
G.: Se posso permettermi… se hai queste opinioni riguardo i programmi televisivi perché ti ostini a guardare la tv?
M.: Non saprei darti una valida risposta ma probabilmente ormai è entrata a far parte della nostra routine e viene automatico guardarla.
G.: Quindi tu sprechi energia elettrica inutilmente?
M.: Effettivamente sì!

LA TV LIBERA LA MENTE? NO, LA COLONIZZA

Talvolta la scelta di incollarsi davanti a programmi-spazzatura è dettata dal semplice desiderio di riposarsi, di «liberare la mente», o di non trovae altri più validi, come racconta Giulia D.P. a Valeria: «A volte capita di vedee uno, ma solo perché in tv non c’è altro di decente, oppure sono trasmessi solo reality».
C’è chi, come Valentina V., si addentra in analisi di tipo antropologico-sociologico: «I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show, dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente da una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo, ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media».
Forse è proprio quel «danno il peggio di loro stessi», di cui parla Alessia nel suo scritto in riferimento ai protagonisti dei reality, a costituire la chiave di lettura del successo della tv trash: nei vizi pubblici, nella rozzezza elevata a sistema nei rapporti interpersonali, il telespettatore medio proietta se stesso e, specchiandosi, si perdona e, alla fine, si piace pure. Ne è convinta anche Debora: «Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto».
Vanessa sostiene che nel Grande Fratello «ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi “normali”, tratti dalla vita reale».
Tuttavia, non bisogna dimenticare l’«insegnamento» che veline-letterine-schedine e palestrati offrono ai ragazzi che li guardano in tv: «Se ti spogli, se ti esibisci davanti alle telecamere hai la carriera garantita e senza faticare tanto sui libri. Anche se sei una con poco cervello, ma sei bella e disponibile, le porte ti si apriranno». Alessia è molto critica: «Questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un “trampolino” di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. (…) Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Sono diventate in breve tempo l’idolo di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti (si riferisce a “La pupa e il secchione”, ndr) vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi. Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari».
Nel dialogo tra Linna e Barbara, la prima chiede: «Esiste secondo te qualcosa per combattere questo fenomeno?», e la seconda risponde quasi con cinismo: «Penso proprio di no. Come ho detto prima penso che sia questa la televisione che piace (reality show ecc….) se si mettessero a confronto programmi culturali o programmi detti “demenziali” non ci sarebbero dubbi sui vincitori».
Per Valentina non sembrano possibili cambiamenti positivi. Lo scenario che percepisce non dà speranza, e allora, tanto vale smetterla di prendersela, anche se non è scontato che per lei sarà così: «Non resta che rassegnarsi perché questi saranno i programmi che proprio non verranno mai tolti dalla televisione poiché attirano troppi ascolti, anzi si arriverà addirittura a diminuire lo spazio dedicato a programmi intelligenti (telegiornali, programmi culturali ecc..) per inventae di nuovi, magari anche più sciocchi!».
Come conclusione di questa carrellata di scritti, riflessioni e discussioni, proponiamo i «consigli» di Carla: «Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro». 

Di Angela Lano

Angela Lano




Senza pubblicità, senza censura

Arcoiris Tv, un’esperienza unica al mondo

La televisione via internet di Modena è nata prima della (più) famosa «You Tube» …
intervista a Rodrigo Vergara

Arcoiris è un esempio di televisione intelligente.  Arcoiris è una tv gratuita, accessibile via internet.
Lo spettatore può decidere cosa vedere in qualsiasi momento, senza più vincoli d’orari e palinsesto. I filmati sono girati dall’equipe della tv e da contribuiti estei.
L’accesso è semplice: basta entrare nel sito www.arcoiris.tv, scegliere un film all’interno delle categorie presenti attraverso la connessione adeguata al proprio modem (Adsl per le connessioni a larga banda, 56K per i modem analogici), e il film è immediatamente visibile.
Con Arcoiris Tv è lo spettatore a scegliere cosa vedere e quando e accedere a informazioni che la tv tradizionale non offre per questioni di censura o altro.
Il sito offre un servizio di newsletter per informare gli iscritti sull’inserimento di nuovi filmati o di comunicazioni utili. Chiunque può collaborare con Arcoiris Tv con filmati o idee, scrivendo a comunicazioni@arcoiris.tv.
Rodrigo Vergara, argentino da anni in Italia, è il responsabile di Arcoiris. Lo abbiamo intervistato:  dice di non sapere nulla di tv…

Quando è nata Arcoiris?
«A novembre del 2003. Avvertivamo la necessità di fare qualcosa di diverso in campo televisivo: una tv senza pubblicità e senza censura, gratuita e senza palinsesto. E grazie a internet tutto ciò è stato possibile. Abbiamo in archivio 8.365 video (al 25 febbraio 2007, ndr), ma il numero non è stabile: ogni giorno ne arrivano di nuovi, tanto che non riusciamo a stare dietro alla mole di filmati da inserire online. Non hanno valore commerciale, ma culturale. Ci stiamo specializzando in tutto ciò che non viene trasmesso dalla tv tradizionale, commerciale, appunto. Quando abbiamo iniziato eravamo i soli: la tv via internet era una novità. Ora ce ne sono altre, per esempio You Tube».

Ha parlato di «noi». Chi siete? Avete una redazione?
«Per “noi” intendo il gruppo di lavoro a Modena e i tanti che sono iscritti alla nostra newsletter – 54 mila – e chi ci invia video da tutto il mondo e in tante lingue. Quanto alla redazione, no, non esiste. Ci limitiamo a fare film e ricevere quelli che ci inviano e a mandarli in onda senza manipolazioni o censure. Noi, l’informazione, non la manipoliamo. Infatti, il nostro slogan è: “Non vogliamo dimostrare, ma mostrare”. L’unica selezione che operiamo è sui contenuti razzisti, volgari, sul terrorismo e sulla pornografia (di video poografici è già piena internet). Per il resto, diffondiamo tutto ciò che ci inviano».

Da chi siete finanziati?
«Dalla Fondazione Logos, che si occupa anche di inviare a una mailing-list di 198 mila persone in tutto il mondo una frase tratta da opere letterarie, politiche o culturali in genere, tradotta in diverse lingue. Siamo finanziati anche da chi è iscritto, chi ci manda video, insomma, dalla gente comune che apprezza il nostro progetto e che vi contribuisce con offerte. Dunque, la nostra è la “tv di tutti” anche per questo».

Siete molto democratici, allora…
«Beh, questo non lo so. Ma sappiamo per certo che tanta gente ci segue e ci scrive. Abbiamo capito che c’è il forte desiderio di partecipare, di discutere su ciò che si vede e noi offriamo questa possibilità. Inoltre, abbiamo anche un satellite. Attraverso un meccanismo di votazioni, i nostri visitatori scelgono i video che vogliono guardare nel nostro canale satellitare: il film che ha ottenuto maggiori richieste viene proiettato».  

Lo spettatore, dunque, è attivo, non passivo ricettore delle scelte altrui.
«Certo, noi non siamo una tv tradizionale. La tv tradizionale è commerciale, cioè è fatta per vendere prodotti, non per informare, diffondere cultura, sapere. Manipola lo spettatore, lo convince subliminalmente a consumare tutto ciò che, in realtà, non serve. I contenuti della tv commerciale sono gli spot, che vengono interrotti per trasmettere programmi o film. Ora, c’è pubblicità anche all’interno degli stessi programmi: se si potessero eliminare e trasmettere solo spot, le aziende e chi beneficia dei proventi della pubblicità sarebbero molto più contenti. Ecco perché le tv puntano tanto all’audience: più spettatori ha un programma – con la sequenza ininterrotta di spot – più il prezzo della pubblicità per i prodotti reclamizzati sale. Più gente sta davanti alla tv più pubblicità si riesce a vendere. Questa logica vale sia per le tv private sia per quelle pubbliche, in Italia e nel resto del mondo».

In quanti paesi vi vedono?
«In 176, insomma in tutto il pianeta. La tv via web è visibile dovunque. È veramente globale. È una televisione fatta dalla gente e per la gente. Possiamo chiamarla della “società civile”, dove lo spettatore è attivo e non passivo fruitore. Riteniamo importante che le persone diventino capaci di fare tv da sole, ormai con le telecamere digitali è possibile. Noi foiamo loro l’attrezzatura e il mezzo per diffondere il lavoro così realizzato. Con la televisione tradizionale, invece, il ruolo attivo è solo di pochi, in genere raccomandati. Inoltre, essa ha lo scopo di raggiungere il grande pubblico, quante più persone si può, questo, per le ragioni pubblicitarie e commerciali di cui abbiamo parlato prima. Per essere attraente verso una fascia sempre più ampia di spettatori, la tv deve proporre programmi e film di qualità sempre più bassa, scadente. Chi, infatti, vuole palinsesti di qualità, sceglie ormai la tv satellitare e i video, ma deve pagare decine e decine di euro al mese di abbonamento. Non tutti possono permetterselo. La stragrande maggioranza dei telespettatori deve accontentarsi di ciò che propone la tv commerciale, con le ore di pubblicità giornaliere e i programmi “spazzatura”. Per fortuna c’è internet. Speriamo che attraverso questo spazio libero nascano migliaia di tv, libere e gratuite. Purtroppo, adesso le televisioni tradizionali sono monopolio di pochi che si spartiscono una percentuale altissima di spettatori. Nel prossimo futuro sarà il pubblico a scegliere».

La televisione ha un grande potere, soprattutto sui giovani.
«Sì, non è come i giornali: uno li può sfogliare distrattamente e non capire nulla di quello che sta scritto. Con la tv non hai bisogno di essere attento, di avere il cervello sveglio e recettivo: lei ti influenza comunque. Con i suoi programmi spazzatura rovescia tonnellate di schifezza sulla gente, e più il pubblico è costituito da bambini, da persone deboli e più il suo potere persuasivo è forte. Ci si stupisce della violenza che imperversa nelle scuole – handicappati picchiati e videoregistrati – o negli stadi, ma da dove si apprende un comportamento tanto incivile? Dalla tv. E, bisognerebbe aggiungere, dai parlamentari che si insultano e si aggrediscono l’uno con l’altro davanti alle telecamere che li inquadrano e mandano in onda nei Tg… Uno spettacolo penoso che incoraggia i ragazzi a imitarli: “Se lo fanno deputati e senatori, perché non lo posso fare anche io?”, pensano. E giù botte, magari contro il più indifeso. O allo stadio.
Poi, ci sono le emulazioni dei “personaggi”: molti giovani vorrebbero seguire le orme dei loro “eroi” in tv. Fare le veline o i palestrati opinionisti. Grandi risultati con poco sforzo. Allora, perché studiare? Perché sudare al liceo e poi fare l’università, se basta spogliarsi in tv o esibire qualche muscolo? Questo è il messaggio devastante che passano certi – molti – programmi televisivi. E i risultati disastrosi si stanno vedendo. D’altronde, la tv commerciale ha come “valore” il consumismo. L’importante è “far girare” l’economia, di tutto il resto, chi se ne frega! Abbiamo importato il modello statunitense».

Angela Lano

Il potere economico della pubblicità

MADE IN COCA-COLA

L’obiettivo della televisione non è più informare, ma formare il consumatore

È vice-caporedattore di Famiglia Cristiana e saggista. Nel suo ultimo libro, «I padroni delle notizie (come la pubblicità occulta uccide le notizie)», Giuseppe Altamore (www.giuseppealtamore.it) ha l’ingrato compito di farci riflettere sullo stato dell’informazione in Italia. 

Chi sono i «padroni delle notizie»?
«Gli inserzionisti pubblicitari, le concessionarie di pubblicità e le imprese editoriali controllate da queste. La minaccia alla libertà di informazione arriva dal potere economico della pubblicità. Il vero obiettivo dei mezzi di comunicazione non è quello di informare il cittadino, ma quello di formare il consumatore. Il lettore e il telespettatore sono diventati i “consumatori”. Ecco che, partendo da questa logica, si è sviluppato un giornalismo da “intrattenimento”».

La tv italiana è accusata di proporre programmi sempre più scadenti, sembra che nulla riesca a fermare la sua caduta verso il basso.
«La tv, questa tv, è profondamente influenzata dagli introiti pubblicitari. I programmi sono creati per soddisfare le esigenze degli inserzionisti, che mirano a raggiungere un pubblico sempre più vasto. È chiaro che tutto è orientato al ribasso. I programmi trash costano poco e rendono molto e, nella logica del profitto, questo conta più di tutto. La tv attuale non svolge funzioni educative, come invece faceva la “vetero-televisione” (quella degli esordi), ma mira a catturare un grande numero di telespettatori da influenzare nelle scelte commerciali. È una televisione influenzata dagli introiti e dai marchi pubblicitari.
Un esempio di quanto possa manipolare la pubblicità è rappresentato da Babbo Natale, inventato dalla Coca-Cola nel 1931. Il rosso dei suoi abiti riprendeva il colore delle bottiglie della bibita. Una réclame è stata trasformata in simbolo per milioni di persone! Il potere del marchio, della pubblicità è così forte da influenzare tutto il resto. Il pubblico, noi tutti, siamo vittime di un sistema in cui si deve produrre sempre di più. Tutta la nostra vita ne è plagiata».

Secondo lei, sono i programmi tv che offrono modelli di comportamento alla società, o è la società che influenza i format televisivi?
«È un problema che ha a che fare con la comunicazione: c’è un ricevente e un emittente, e entrambi influenzano la comunicazione. Se uno ha gli strumenti culturali adeguati, quando vede che in tv trasmettono certi programmi spegne o cambia canale, se non li ha, subisce. I programmi interessanti costano e adesso che la televisione è finanziata quasi esclusivamente da inserzionisti pubblicitari, la qualità è scesa molto. È un problema economico e andrebbe affrontato con leggi, regole che limitino l’intromissione pubblicitaria. Il nostro è un caso unico in tutta l’Europa: all’estero, la distribuzione delle risorse pubblicitarie è più equa. Quando un gruppo come Mediaset controlla con il 45% la stragrande maggioranza del mercato pubblicitario, il problema è serio. Il bombardamento pubblicitario è passato dai 20 mila spot della Rai monopolista (prima degli anni ’80) agli 800 mila di Rai e tv commerciali negli anni ’90. È un crescendo inarrestabile di interruzioni pubblicitarie che fruttano capitali incredibili e che manipolano, influenzano, condizionano il pubblico».
I bambini e gli adolescenti sono le categorie di spettatori più a rischio. Come si possono tutelare?
«Prima di tutto, i bambini piccoli non dovrebbero stare molto davanti alla tv, invece ci passano ore, ogni giorno, e spesso da soli, assimilando di tutto. Durante le pause pubblicitarie vengono veicolati messaggi che li influenzano profondamente, per non parlare dei programmi in sé. In secondo luogo, bisogna fornire ai ragazzi più grandi strumenti critici che li rendano in grado di difendersi. Nelle scuole bisognerebbe parlare di comunicazione, di pubblicità, fare corsi di giornalismo, mentre questo accade di rado».

Come mai tutti criticano il Grande Fratello eppure è un programma di grande successo?

«Perché quei personaggi rappresentano delle maschere, sono vicini alla persona qualunque. Non incarnano l’eroe irraggiungibile… Sono uomini e donne in cui chiunque può identificarsi. Si badi bene a non limitarsi a definire questi programmi semplicisticamente “spazzatura”: dietro ognuno di essi c’è una strategia comunicativa efficace. Chi li progetta – gli autori – ha un’abilità notevole nel saper veicolare messaggi. All’interno del programma nulla è casuale: è costruito per attirare proponendo modelli facilmente imitabili».                                                        

Angela Lano

Angela Lano