Tu vuoi fare l’africano

Le sfide della nuova cooperazione

I comuni italiani sono sempre più impegnati in progetti di cooperazione con città del Sud del mondo. Che sia per aiutare il decentramento amministrativo,  fornire consulenze specifiche o realizzazioni pratiche, si scontrano con le diversità culturali e il divario di risorse. Per questo si fanno spesso accompagnare da associazioni e Ong del loro territorio.

In nessuno dei Paesi cosiddetti «ricchi» del mondo è ancora stata scoperta la formula magica che permetta di stabilire quale sia il giusto equilibrio di ripartizione dei poteri (legislativo, giudiziario e amministrativo) tra un governo centrale e i suoi enti locali per un’ottimale gestione del territorio ed il miglioramento del benessere dei suoi abitanti. Non c’è bisogno di ricordare, ad esempio, quanto in Italia sia ancora oggi acceso il dibattito su come attuare il decentramento, o anche solo il federalismo fiscale, sulla base di quanto scritto nella nostra costituzione oltre mezzo secolo fa, all’articolo 5 e nell’ormai famoso titolo V.
La verità è che questa formula non esiste. I nostri politici (a tutti i livelli istituzionali) dovranno continuare a cercare i migliori compromessi per adattare quanto le teorie economiche e ideologie propongono, in funzione dei cambiamenti sociali e delle continue difficoltà finanziarie che ogni governo si ritrova ad affrontare in questa epoca di globalizzazione.
è in questo contesto che, da più di dieci anni, in Italia va sviluppandosi una nuova forma di cooperazione internazionale che viene ormai comunemente definita come «cooperazione decentrata». Una cooperazione che vede come protagonisti gli enti locali italiani (comuni, province, regioni, ecc.), che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto la possibilità di spendere fuori dal loro territorio e per progetti di cooperazione e solidarietà internazionale una cifra pari all’otto per mille dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione. Nel 2000, ad esempio, la cifra complessivamente stanziata dagli enti locali italiani nel loro insieme ha cominciato a superare in termini economici i 50 milioni di euro annuali.

Un mondo più giusto?

Fra le ragioni di questa cooperazione decentrata normalmente vengono citati diversi aspetti.
Prima di tutto la volontà della società civile nel suo insieme di partecipare attivamente alla costruzione di un mondo più giusto e più pacifico. Volontà di cui le istituzioni locali vogliono sempre più spesso farsi portavoce e anche promotrici in prima persona.
In secondo luogo la determinazione delle istituzioni locali di promuovere iniziative che permettano di avere ricadute importanti in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone più svantaggiate della terra. Azioni che al tempo stesso permettano la crescita di una cultura di pace e di solidarietà sul loro stesso territorio. Soprattutto alla luce dei sempre più rilevanti fenomeni migratori e dell’importanza che questi vengano gestiti in un’ottica di integrazione sociale e di valorizzazione delle diversità culturali. Questa ultima motivazione è fra le più utilizzate per spiegare ai cittadini perché per fare cooperazione internazionale vengono in realtà usate le loro tasse due volte, cioè prima quelle da loro pagate a livello locale per la cooperazione decentrata e poi quelle già pagate dagli stessi cittadini allo stato per fare la stessa cosa nel quadro più ampio della politica estera nazionale.
Infine, il desiderio di mettere a disposizione le competenze maturate nel corso della nostra esperienza di decentramento politico e amministrativo. Questo punto è sempre più spesso sottolineato quando si vogliono difendere le spese sostenute per entrare in contatto e costruire un rapporto di collaborazione duraturo con un ente «omologo» (comune, ecc.) di un paese estero.
Naturalmente sperando che tutto ciò possa essere utile, in particolare che altri, grazie al nostro impegno e alla nostra disponibilità, possano evitare di ripetere errori da noi commessi, in un passato comunque molto recente.

Aiuto al decentramento

Quindi la cooperazione non solo come ulteriore impegno e contributo delle istituzioni locali a favore della pace e della lotta contro la povertà a livello globale. Ma come un processo, che se non nel breve termine, nel medio o lungo, potrà aiutare i governanti degli stati e degli enti locali partner a elaborare i loro propri modelli di gestione del territorio, promozione dello sviluppo locale, ripresa economica. Ma soprattutto di lotta contro le micidiali disuguaglianze che vedono nei paesi più poveri poche élites vivere sulle spalle di masse di persone in condizioni di estrema povertà.
Facendo questo ambizioso e ammirevole ragionamento, comuni e regioni italiane danno però quasi per assodato (così come la maggior parte delle organizzazioni inteazionali prime fra tutte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che il decentramento politico e amministrativo dei poteri nei paesi cosiddetti in «via di sviluppo» sia un fatto assolutamente necessario, perché gli Stati centrali da soli non ce la possono fare. Così come spesso viene dato per certo che l’apertura al liberalismo sia l’unica possibilità di salvezza per le economie più deboli (ma la partecipazione di 8 regioni, 21 province e 29 comuni al recente Forum sociale mondiale di Nairobi dimostra che molti la pensano diversamente).
Queste due tesi sono tutt’altro che dimostrate. Ed è proprio qui che si dovrebbe inserire il ruolo cruciale delle organizzazioni non governative italiane (Ong), che lavorano per la cooperazione allo sviluppo da oltre mezzo secolo. Così come l’innumerevole schiera di esperti italiani che a livello nazionale e internazionale hanno lavorato e lavorano al ministero Affari esteri, nelle agenzie delle Nazioni Unite, presso l’Unione Europea. Ma anche il mondo universitario, che da sempre si occupa di studiare le politiche socio-economiche a livello internazionale e che da una decina di anni ha avviato simili percorsi di cooperazione decentrata (si chiama sempre così) con gli atenei di numerosissimi paesi del Sud del mondo.

Meglio soli o accompagnati?

Il Consorzio delle Ong piemontesi (Cop) ha accettato nel 2004 (ma diverse singole Ong lo facevano sin dal 1997) la proposta fatta dalla Regione Piemonte di «accompagnare» i processi di cooperazione decentrata intrapresi dai suoi enti locali in otto paesi dell’Africa Occidentale, arrivando a fine 2006 alla firma di un accordo programmatico triennale (in forma di Convenzione) sulla base del quale Regione e Consorzio definiranno gli interventi progettuali annuali e co-progetteranno le azioni di dettaglio. Questo, con l’idea di aprire una discussione e un confronto costruttivo, oltre che per mettere a disposizione l’esperienza delle Ong. Il quadro è quello del Programma regionale per «la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà». Un’esperienza unica in Italia, che dal 1997 vede la Regione Piemonte impegnata con uno stanziamento annuale di circa 2 milioni di euro. Dopo soli 10 anni di lavoro ha coinvolto in collaborazione con le Ong una rete di oltre 150 enti locali piemontesi e un grande numero di associazioni, enti religiosi, scuole, parchi regionali, strutture sanitarie, enti di formazione e associazioni di categoria.

Due mondi

Un lavoro enorme che, se si guarda oltre le innumerevoli opere obiettivamente concrete e positive realizzate insieme ad altrettanti partner locali, come ad esempio pozzi, interventi agricoli, corsi di formazione, ecc.  ha davanti a sé proprio l’immensa sfida di collaborare con le autorità locali africane per capire ed elaborare, magari insieme e in un’ottica di disinteressata solidarietà, i modelli politici e amministrativi capaci di generare uno sviluppo locale partecipato.
Sfida immensa, appunto. Soprattutto considerando le sconvolgenti differenze esistenti tra il nostro paese e i loro, evidenti quando si leggono ad esempio gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite, a partire da quello dell’aspettativa di vita che in Italia ha ormai raggiunto gli 80 anni e, ad esempio, in Burkina Faso è appena di 48. Può sembrare banale, ma immaginatevi una discussione con un sindaco cinquantenne di una cittadina burkinabè su cosa si possa fare nei prossimi dieci anni per migliorare la situazione della sua città. Vi risponderà vedremo, cominciamo a sperare che io sia ancora qui l’anno prossimo.
Ma soprattutto, continuando con il caso del Burkina, consideriamo che il Pil (prodotto interno lordo) italiano supera i 1.800 miliardi di dollari (2005), quello del Burkina Faso è poco meno di 6 miliardi. E quasi a parità di dimensioni, in Italia siamo 58 milioni di abitanti e in Burkina solo 14. In Italia sono oltre 40 milioni le persone che vivono in città (70% del totale), mentre in Burkina circa 2 milioni (il 17% del totale). E a proposito delle finanze pubbliche? Se in Italia la spesa per l’amministrazione pubblica nazionale equivale al 25% del Pil e quella dei comuni a circa il 6%, in Burkina il governo centrale spende il 12% del Pil e i comuni solo lo 0,3% (e il Pil del Burkina è meno di un centesimo del nostro). In altri termini, da noi i comuni gestiscono risorse pari al 26% di quanto gestisce il governo centrale, mentre in Burkina questa percentuale scende al 2%. Un sindaco del Burkina Faso ha in realtà in questo momento ben pochi euro  da spendere, e non può pretendere più di tanto il pagamento di tasse da parte di una cittadinanza che come reddito procapite annuale guadagna in media circa 430 euro mentre la nostra, di media (si intende) è pari a 20.000 euro.

Quante potenzialità

Di fronte a questi dati, certo è difficile sostenere che il decentramento politico e amministrativo può essere uno strumento in grado di consentire nel breve termine ai paesi del sud del mondo di risolvere i problemi legati alla povertà estrema della maggioranza della popolazione e della pressoché totale mancanza di servizi pubblici per i cittadini. Oppure che il decentramento può creare spazi per la partecipazione della società civile alla promozione dello sviluppo locale, o ancora garantire una più efficiente allocazione delle poche risorse disponibili (incluso quelle provenienti dalla cooperazione internazionale) e promuovee anche la maggiore mobilitazione a livello locale. O ancora che possa migliorare la governance a livello locale così come a livello nazionale. Tutto questo si scontra per il momento con una sostanziale mancanza di risorse come rivelano gli sconfortanti dati appena considerati, situazione nella quale si trova la maggior parte dei paesi del mondo non industrializzato.
Ma è proprio in questo contesto che la cooperazione decentrata può e deve cercare di muoversi, a piccoli passi e chiamando alla riflessione su quali siano le possibili soluzioni, il maggior numero di soggetti, dal mondo del terzo settore e delle Ong a quello delle istituzioni pubbliche, dagli enti fornitori di servizi (educativi e di ricerca, sanitari, ambientali, ecc.) fino al mondo imprenditoriale ed economico. Senza scoraggiarsi, ben inteso, e nella consapevolezza che anche un piccolo impegno può dare vita, in questo contesto, a grandissimi risultati.

di Andrea Micconi


Andrea Micconi




L’Harmattan non ci spaventa

Comminando sul filo tra «primo» e «terzo» mondo

Un gruppo di assessori, funzionari comunali, associazioni e insegnanti sbarcano in un paese saheliano. Incontrano un sindaco e la società civile del suo comune. Il clima è torrido, il sole picchia e la polvere ricopre ogni cosa. Ma i nostri riescono a creare un legame tra le città e i loro abitanti. Con la scusa di un progetto di sviluppo. Reportage.

Aicha ha sette anni. Nel suo zainetto di plastica ha un quaderno con la copertina colorata e una matita. Come ogni giorno percorre i tre chilometri che separano la sua casa dalla scuola, nel villaggio di Tirgo. Siamo nel Nord del Burkina Faso, nei pressi di Ouahigouya, la quarta città del paese. In pieno Sahel, savana secca, spazzata dall’Harmattan, il vento che arriva dal Sahara. La polvere è ovunque, copre ogni cosa, fa parte della vita. Qui sono tutti agricoltori, lavorano per strappare la poca terra rimasta all’avanzata del deserto, ma piove solo tre – quattro mesi all’anno.
Da queste parti, in ambiente rurale, le bambine non vanno a scuola. I genitori preferiscono tenerle a casa e avviarle, fin da piccole, ai lavori domestici. La scuola ha un costo: iscrizione, materiali, divisa. I maschietti hanno più fortuna e magari frequentano le prime due o tre classi di elementari.
Fatimata percorre in bicicletta molti chilometri. Va da un villaggio all’altro per distribuire copie di «Pagb yell goama» (sguardo di donna), una semplice rivista stampata su otto fogli di carta grigia. è scritta in mooré, la lingua più diffusa in questa zona, per sensibilizzare le donne contro l’escissione (mutilazione genitale femminile), il matrimonio forzato, la violenza di cui sono vittime da secoli. Di solito chi legge ad alta voce è circondato da molte che ascoltano.
Awa vive in un quartiere povero di Ouahigouya. Non sapeva né leggere né scrivere e non aveva un mestiere. Ha potuto frequentare per due anni di seguito i corsi di alfabetizzazione e poi una formazione sulla gestione di un piccolo commercio. In seguito ha ottenuto una piccola sovvenzione, che le ha permesso di acquistare alcuni montoni, allevarli e rivenderli.
Aicha, come altre 350 bambine dei villaggi vicini, Fatimata, Awa e le sue compagne, beneficiano di un progetto di cooperazione decentrata nato a fine 2002 grazie alla collaborazione di cinque comuni piemontesi (Rivoli, Moncalieri, Nichelino, Beinasco e Settimo Torinese) membri del Coordinamento comuni per la pace della provincia di Torino e la città di Ouahigouya.
Un legame sempre più forte tra territori italiani e africani. Le attività in Italia puntano a informare i cittadini sul Burkina Faso, paese sconosciuto ai più, nelle scuole, si organizzano mostre fotografiche, proiezioni, si stampano documenti sul tema. è stato anche attivato uno scambio di giovani che ha permesso visite in Piemonte e in Burkina.

Sicurezza alimentare e cellulare

A Ouahigouya, in questi anni, sono pure state realizzate alcune scuole e appoggiata la biblioteca comunale, su richiesta delle autorità della città.
«Ho trovato grosse differenze con la nostra realtà, anche a livello del comune e dei servizi che può offrire. Non ne sono rimasto scioccato perché ero preparato». Angelo Ferrero presidente del Cocopa e assessore alla pace di Moncalieri, descrive così una sua recente visita ai partner burkinabè. «Una cosa che mi ha colpito è che quasi tutti abbiano il cellulare, quando ci sono ancora gravi problemi di sicurezza alimentare. Ho notato, inoltre, che sono piuttosto abituati a fare cooperazione». «Posso parlare di due livelli: i rapporti con le istituzioni, nelle quali ho trovato una buona disponibilità e accoglienza. Si tratta di amministratori pubblici: hanno chiaro l’importanza di avere della cooperazione internazionale sul loro territorio. L’altro livello sono le associazioni: ancora più calorose, ma anche sfacciatamente interessate all’appoggio finanziario».
Il sindaco della città saheliana, Abdoullaye Sougouri, ci spiega l’importanza di questa cooperazione: «Ouahigouya è un comune relativamente vecchio, con molte ambizioni ma mezzi limitati. Adesso è il momento dello sviluppo alla base. Per questo motivo, il sostegno di amici all’estero è determinante, per favorire l’accesso della popolazione ai servizi minimi per tutti. Parlando di educazione, sanità, giovani, molte cose sono realizzate ma molte altre restano da fare.  Una sinergia d’azione è quindi fondamentale. Nel corso del 2007 abbiamo elaborato un bilancio di 287 milioni di franchi (ca 437 mila euro). Se guardiamo i servizi che bisogna realizzare nella città, ad esempio per l’acqua, anche se utilizzassimo interamente questa cifra, sarebbe come una goccia nell‘oceano».
Ma la cooperazione tra enti locali deve andare nelle due direzioni, volendo essere il legame tra due territori. Anche se lo squilibrio di risorse finanziarie si fa sentire, gli africani hanno molto da insegnarci.
«Cooperazione è innanzitutto costruire legami tra comunità e città nell’ambito dell’amicizia e della pace. Attraverso questi aspetti si sviluppa la solidarietà, che gioca un grande ruolo. Con gli amici si condividono le stesse preoccupazioni e difficoltà, ecco perché sovente i nostri partner del Nord vengono a sostenerci nelle azioni di sviluppo. Ed è piuttosto l’aspetto finanziario che viene sottolineato, dimenticando le cose fondamentali. Penso che nell’ambito culturale i paesi del Sud possono portare le loro esperienze e contributi, attraverso i legami che si creano». Continua Sougouri.

«Un’altra visione del mondo»

Quarantacinque chilometri più a sud, un’altra città, Gourcy, ha iniziato nel 2005 un percorso di cooperazione con un altro gruppo di comuni piemontesi: Grugliasco, Alpignano, Brandizzo e Pianezza.
Roberto Montà, assessore alla pace di Grugliasco vede così il contributo degli africani al suo comune nella cintura torinese: «Possono trasferirci un’altra visione del mondo utile per amministratori e cittadini. Possiamo superare gli stereotipi nei confronti degli africani. D’altro lato abbiamo da imparare sul piano culturale e sull’approccio ai problemi e alla vita. I nostri bisogni sono molto più generali e sovradimensionati. Il nostro modello di sviluppo è sproporzionato. Per approccio alla vita intendo anche il confrontarci sui nostri modelli di sviluppo. Ad esempio in Africa ho visto che talvolta copiano i nostri modelli. Questo non ha senso. La mia speranza è che ognuno prenda il meglio dei due approcci. Noi dobbiamo capire quali sono le loro esigenze, ma anche il loro valore aggiunto in termini di cultura e visione del mondo. Loro però devono capire che alcuni nostri modelli sono sbagliati».
Il sindaco di Gourcy, Dominique Ouedraogo, replica: «Abbiamo culture molto diverse, noi non abbiamo soldi, ma abbiamo sviluppato quello che in fondo ci può assicurare un minimo di vita, che è la solidarietà. Io conosco l’Euro­pa e penso che questi valori si stiano perdendo. Anche le relazioni umane contano molto nella società africana: il rispetto dei valori tradizionali, dei valori trasmessi dai nostri genitori, ad esempio nell’educazione dei bambini. Qui il rispetto degli anziani impone che un giovane debba obbedire ai suoi genitori, al contrario di quello che vediamo in Europa».
Ma come fare a trasmettersi tutte queste esperienze? «Con gli scambi culturali. Mandateci i piccoli italiani e anche i loro genitori. Diamo la possibilità a qualcuno di venire a vivere le nostre realtà. Si renderanno conto che l’Africa ha qualcosa da condividere: questo calore umano, che non troviamo in Europa, dove invece ognuno va per se. Da noi non immaginiamo qualcuno che viva fuori dall’ambito famigliare, che per noi è sacro. Mentre in Europa vince sempre più l’individualismo nella vita. Penso che con gli scambi e i viaggi, i nostri amici europei possono rendersi conto che hanno perso molte cose».
A Gourcy, città di 80.000 abitanti, i quattro comuni italiani stanno realizzando, grazie anche all’appoggio finanziario della Regione Piemonte, un polo zootecnico, composto da un nuovo mercato del bestiame e un mattatornio. Lo sviluppo di questo programma è previsto in tre anni e vuole diventare un riferimento non solo a livello comunale, ma provinciale. Gourcy ha anche proposto lo sviluppo della biblioteca comunale. Un altro livello di intervento è quello scolastico. Non solo è stata realizzata una scuola elementare ma si è messo in piedi uno scambio tra gli allievi di questa scuola e di una decina di classi di scuole medie ed elementari di Grugliasco e Alpignano. I licei di Grugliasco e il liceo provinciale di Gourcy comunicano via posta elettronica, grazie al progetto.

Collegamento istituzionale

Montà spiega il valore di interagire con un comune africano: «Sul piano istituzionale è riconoscere alle istituzioni locali il ruolo fondamentale sullo sviluppo del loro territorio. Inoltre consente ai comuni italiani di esercitare in prima persona il ruolo di partner di sviluppo e quindi di farsi carico di questo compito sul proprio territorio. Il comune non si limita a dare i soldi in beneficenza, ma controlla l’intero processo. Questo gli permette di interagire, collaborando, relazionandosi e rafforzando colleghi eletti che hanno bisogno di sostegno. La cooperazione tradizionale (governativa, ndr.) è più efficiente, noi siamo più farraginosi, articolati, ma abbiamo la possibilità di mobilitare le coscienze, dialogare con comuni al sud del mondo. Perché, con gli amministratori, dal dialogo può nascere il reciproco interesse, su tematiche comuni, come l’erogazione dei servizi».
Un chiaro esempio di raccordo istituzionale è stato il ruolo giocato dal comune di Orbassano, come ci racconta il sindaco, Mario Marroni, nel distretto di Taraka, in Kenya, nei pressi della missione Mariamanti, della Consolata: «In collaborazione con le autorità locali abbiamo sviluppato il progetto sull’acqua, la costruzione di un acquedotto, promosso da un’associazione locale. Anche grazie al nostro intervento, il governo del Kenya ha poi investito sulla depurazione. La nostra presenza ha facilitato i rapporti con le istituzioni. Il nostro ruolo è creare il collegamento istituzionale nei nostri limiti e possibilità».
Una preoccupazione di un amministratore eletto, che ha dunque un mandato preciso, è anche rendere conto alla popolazione, come racconta Ferrero: «Cerchiamo di fare informazione sul nostro territorio rispetto a questi progetti. Ma penso che siamo ancora carenti. Il cittadino fa fatica a sapere cosa succede. Per spiegarlo, tento di descrivere la situazione nel paese in cui operiamo e le nostre attività. Spesso c’è molta sensibilità e la gente mi chiede cosa può fare, come singoli o associazioni».
Il sistema messo in piedi dal comune di Grugliasco prevede di coinvolgere le diverse realtà del proprio territorio, stimolarle a intraprendere un percorso di cooperazione con realtà similari in Africa e accompagnarle qualora queste iniziative si concretizzino. Roberto Montà ci descrive come: «Ai cittadini diciamo che con i soldi pubblici stiamo portando avanti progetti certi, ben definiti e controllati direttamente da noi. Il comune si assume la responsabilità in toto. Favoriamo la riflessione con tutti i soggetti del nostro territorio, in particolare con il settore scolastico e l’associazionismo. Ci serve per portare a tutta la città l’importanza di questi temi. Per costruire una domanda su base locale di sensibilizzazione e formazione, che punta a fornire gli strumenti per intraprendere in piccolo attività in società in via di sviluppo. Come i gemellaggi di 30 anni fa con i paesi francesi. In questo caso però c’è anche un gap finanziario, che rende necessarie più risorse. Non è un’attività singola ma un cornordinamento generale. Con il nostro progetto consortile in Burkina Faso abbiamo creato un tavolo di lavoro tra le associazioni e abbiamo attivato le nostre scuole per scambi con istituti africani. è una cooperazione organizzata con obiettivi, metodologia, criteri ben precisi. Se il comune riesce a cornordinare in modo generale i vari soggetti che portano avanti questo tipo di cooperazione su base locale è un buon risultato. Per accompagnarli occorre monitorare i loro progetti e aiutarli a reperire risorse. Il comune cornordina ma non è lesivo delle autonomie».

Quel filo tra Nord e Sud

Ma chi esegue  progetti di cooperazione decentrata, oltre a scontrarsi con le complessità tecniche e legate al contesto, comuni agli altri progetti di sviluppo, deve affrontare problematiche intrinseche dovute al gran numero e diversità di attori coinvolti. I comuni piemontesi si avvalgono in Burkina Faso dell’appoggio tecnico dell’Ong Cisv di Torino, che mette a disposizione la sua struttura nel paese. «Il problema maggiore riscontrato nella cornordinazione e nella gestione di questi progetti è indubbiamente quello di lavorare “in bilico” tra due realtà diametralmente opposte. è come camminare su un filo che collega direttamente Nord e Sud, primo e terzo mondo, modeità e tradizione, benessere e sottosviluppo. Chi lavora sul campo si trova su questo filo: è il facilitatore nelle relazioni tra gli attori» racconta Fabio Carbone, responsabile della cooperazione decentrata in Burkina Faso per la Cisv. «Chi cornordina questi progetti ha il compito, non facile, di smussare un po’ le divergenze, di far capire agli uni le esigenze e i bisogni degli altri, di metterli a confronto, sempre nel rispetto delle usanze e delle abitudini di chi sta dall’altra parte» continua Carbone.
Aicha torna a casa, dopo una giornata di scuola. Il suo passo leggero percorre uno dei centinaia di sentirneri nella savana burkinabè. Qui le automobili sono molto rare e i più fortunati si spostano in bicicletta. Il caldo inizia a farsi sentire in questa stagione, che in Europa si chiama primavera, ma nel Sahel è solo il periodo più caldo e secco dell’anno. Superiamo i 45 gradi all’ombra e l’acqua scarseggia. è così difficile per Aicha pensare a come sia la giornata tipo di un bambino italiano. Impossibile anche per un suo coetaneo di Moncalieri o Grugliasco, pur dotato di televisione e playstation, immaginare la vita di Aicha. Chissà se, un giorno, queste enormi distanze si ridurranno.

Di Marco Bello

Marco Bello




Nelle mani dell’Agenzia

La nuova legge per la cooperazione

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 12 gennaio scorso il Disegno di legge Delega al Goveo per la riforma della disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo. Un passo atteso da anni che avvia il processo di riforma della ormai obsoleta legge 49 del 1987.  Entro 24 mesi il governo dovrà produrre i decreti legislativi che riformeranno il sistema di cooperazione italiano.
Tra le grandi novità c’è l’istituzione di una Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale, ente di diritto pubblico con capacità di diritto privato, che avrà lo scopo di attuare gli indirizzi e le finalità stabiliti dal ministro degli Affari esteri o dal vice ministro delegato.
La nuova legge sarebbe incentrata su due istituzioni: il ministro decide le linee e l’Agenzia le attua, il tutto considerando la cooperazione internazionale parte integrante della politica estera italiana. Le priorità, disponibilità finanziarie per paese e area di intervento saranno quindi decise in questo contesto.

La legge delega esplicita che i decreti dovranno tenere conto e «riconoscere la funzione della cooperazione decentrata, prevedendo modalità di cornordinamento con la politica nazionale di cooperazione allo sviluppo»,  e anche «prevedere che nell’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo sia riconosciuto e valorizzato il ruolo dei soggetti pubblici e privati, nazionali e locali».
L’Agenzia concentra non solo l’attuazione delle politiche governative di cooperazione, ma potrà erogare servizi di assistenza e supporto delle amministrazioni. Potrà eseguire progetti finanziati dalla Commissione europea e altri organismi inteazionali. Dovrebbe assicurare la coerenza con le linee di indirizzo di tutte le iniziative di cooperazione allo sviluppo, incluse quelle proposte e finanziate dalle regioni e dagli enti locali.

L’Agenzia disporrà di un fondo unico dove confluiranno i finanziamenti del bilancio dello stato per l’aiuto pubblico allo sviluppo, proventi derivati dai servizi erogati e anche fondi apportati  «dalle regioni e dagli altri enti locali allorché questi ritengano di avvalersi dell’Agenzia».
Un ruolo preponderante quindi che occorrerà conciliare con la miriade di iniziative italiane di cooperazione decentrata e non. Attendiamo i decreti attuativi.

Ma.B.

Marco Bello




La prevalenza dell’«homo videns»

Introduzione

Secondo la rivista scientifica Biologist, in Gran Bretagna i bambini di 6 anni hanno già passato in media un anno a guardare la televisione. Questa teledipendenza produrrebbe deficit visivo, obesità, autismo, alterazione dei ritmi biologici di sonno-veglia (1). D’altra parte, per capire l’invadenza della televisione nella vita quotidiana, è sufficiente osservare l’evoluzione delle sue dimensioni fisiche. I televisori sono talmente grandi che le persone sembrano uscire dallo schermo. Oppure sono talmente piccoli (si pensi ai videofonini), che possono stare in una tasca. Sia in un caso che nell’altro, la televisione «entra» nella vita delle persone. Se si ascoltano le sirene della pubblicità, questo è un vantaggio che il progresso ci regala. Se invece si fanno prevalere l’intelligenza e la razionalità, le cose non stanno proprio così.

Il Grande Fratello e la globalizzazione del trash

La cosa che più impressiona è la globalizzazione del trash televisivo. Attraverso i format (2), in mezzo mondo si vedono gli stessi programmi (magari adattati all’audience nazionale) e soprattutto gli stessi reality show o reality game. Ecco qualche titolo.
Uno dei format più famosi è il Grande Fratello (in inglese Big Brother, in spagnolo Gran Hermano), proprietà della società olandese Endemol. Vari programmi di quiz – Il prezzo è giusto, La ruota della fortuna, ecc. – sono stati prodotti dall’australiana Grundy, oggi proprietà del colosso tedesco Bertelsmann. Alla Grundy-Bertelsmann si debbono anche il reality show West Wild West e l’impossibile Distraction, condotto da Enrico Papi, che già aveva avuto la conduzione de La pupa e il secchione, format sessista della società statunitense The WB Television.
Altri reality noti della televisione italiana sono L’isola dei famosi (Rai), La fattoria (Mediaset) e La talpa (Mediaset). Questi programmi hanno come protagonisti personaggi noti, tali da garantire un adeguato ritorno pubblicitario. Sono programmi che non faticano a trovare autogiustificazioni alla loro esistenza. Sono programmi infarciti di pubblicità (diretta o indiretta), di luoghi comuni, di divismo ridicolo. Con l’aggravante di essere girati in luoghi naturali affascinanti – gli ultimi sono stati l’Honduras, il Marocco, il Kenya -, che vengono «usati» con l’arroganza tipica dei ricchi e potenti verso i meno fortunati.   
Non mancano neppure i programmi sui «buoni sentimenti», l’«amore» e le «lacrime»: Uomini e donne (Mediaset), C’è posta per te (Mediaset), Stranamore (Mediaset), Amici di sera (Mediaset). Insomma, parafrasando uno slogan, in televisione c’è di tutto e di più.
Si dice che questi programmi vogliono regalare momenti di serenità, facendo evadere da una realtà spesso faticosa o insopportabile. Nessuno nega che la televisione possa perseguire anche una finalità di questo tipo. Ma quando questo obiettivo diventa prevalente, la finzione (attenzione a questo termine!) televisiva finisce con il sostituirsi alla realtà, che diventa secondaria.

La pubblicità snatura l’informazione (o la uccide)
Abbiamo già introdotto il tema della pubblicità. Ebbene, una delle regole fondamentali di chi fa informazione dovrebbe essere quella di tenere ben distinte informazione e pubblicità. Invece, da una parte la pubblicità sta soffocando l’informazione; dall’altra, dove la pubblicità viene a mancare (come nei media più deboli) l’informazione rischia di scomparire per carenza di risorse economiche.  Insomma, in un caso o nell’altro, l’informazione si dibatte in un circolo mortale.
La conseguenza ultima, in atto in tutto il mondo, è la concentrazione dei media nelle mani di poche multinazionali dell’informazione e della comunicazione. Si pensi all’impero mediatico di Rupert Murdoch, che spazia dall’Australia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Italia (dove possiede la televisione satellitare Sky).
Ora, la prima conseguenza della concentrazione è la riduzione del pluralismo (esempio: se tutti i principali telegiornali dicono che i cattivi sono quello stato o quel gruppo, è evidente che con più difficoltà il pubblico potrà elaborare un’idea diversa; è accaduto per tutte le ultime guerre dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia fino al possibile, prossimo attacco all’Iran). D’altra parte, la crescita di potere delle multinazionali produce altre gravi conseguenze: la sottomissione dell’informazione al potere economico (esempio: «se parlate male di quell’industria, di quella banca, di quel farmaco, di quella grande opera, di quel fondo d’investimento o di quella privatizzazione, i vostri posti di lavoro saranno a rischio»; «se scrivete che i Suv sono una mostruosità ambientale, il nostro ufficio marketing si rivolgerà ai vostri concorrenti») (3) da cui – nessun dubbio al riguardo – dipende il potere politico (esempio: «se tu politico ti schieri diversamente, io ordino ai miei giornali e alle mie televisioni di fare una campagna contro di te e il tuo partito»).  
Ancora più complesso è il caso italiano. In Italia, infatti, forse non sarà mai possibile una riforma del sistema della comunicazione e in particolare del sistema televisivo. E il motivo è presto detto: chi è da tempo sul mercato (la Rai, ma soprattutto Mediaset), non vuole perdere neppure una fettina della torta pubblicitaria di cui si è impossessato. Con una duplice conseguenza: i programmi (in primis, quelli di Mediaset) trasudano pubblicità e gli altri media (in particolare, la stampa) non raccolgono pubblicità sufficiente a far quadrare i bilanci, mettendo quindi a rischio la loro indipendenza o, per i più piccoli tra essi, la loro stessa sopravvivenza.

Leggere o vedere? Vedere, vedere, vedere
Toiamo alla tv e cerchiamo di capire perché ha surclassato gli altri media. La prima risposta è (apparentemente) facile facile: leggere costa più fatica che guardare.
Come ha splendidamente spiegato Giovanni Sartori: «La televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie» (4). Insomma, «l’homo sapiens viene soppiantato dall’homo videns».
In Italia, il Censis distingue 5 categorie di utenti dei media: i pionieri (con 8 o più diversi media), gli onnivori (con 6-7 media), i consumatori medi (con 4-5 media), i poveri di media (con 2-3 media) e i marginali (con un solo mezzo).  Tra i marginali, la categoria meno evoluta di utenti dei media, la televisione è il mezzo nettamente prevalente. Nel 2006, la popolazione italiana ha usato la televisione (94,4%), i quotidiani (59,1%), i libri (55,3%), internet (37,6%). La televisione, dunque, vince alla grande, ma – dicono le indagini – il grado di soddisfazione degli utenti è modesto (5).
Lo strapotere della televisione è chiarito dai numeri. Nel 2006 il quotidiano più letto d’Italia è stato La Repubblica, con una media giornaliera di 3.015.000  lettori (6). Confrontiamo questo dato con alcuni dati televisivi relativi al 21 e 22 febbraio: il Tg2 delle 20.30 ha avuto un’audience di 3.131.000 spettatori; il programma di intrattenimento Cultura modea slurp ha avuto 5.519.000 e il reality show Grande Fratello è arrivato a 5.693.000 spettatori (7).

L’obiettività? Non esiste
Altra risposta per spiegare la vittoria della televisione sugli altri media, potrebbe essere quella di una maggiore credibilità della tv.
Sfortunatamente, l’obiettività non esiste. Non può esistere. Tanto meno in televisione. Scrive Claudio Fracassi: «La distinzione, necessaria ma non ovvia, tra fatti e notizie, tra realtà e racconto, si confonde quando – attraverso la tv – siamo messi apparentemente in grado di vedere i fatti, e quindi di viverli direttamente. L’immagine – essa stessa frutto di una scelta (quella certa fetta di realtà, quella certa inquadratura) – ha assunto la forza propria della concretezza e della verità.  (…) Eppure dovrebbe essere evidente che l’immagine della cosa non è la cosa, né può sostituirsi ad essa» (8).
«La televisione – scrive la psicologa Anna Oliverio Ferraris – ha l’ambizione di mostrare la realtà. Ma mentre la mostra la filtra, la trasforma. E lo fa secondo le proprie regole. Secondo la propria ottica. (…) Purtroppo però la gente, molta gente, crede ciecamente a ciò che vede in tv, soprattutto nei Tg grazie al clima di autorevolezza che li circonda. (…) Prendiamo il caso dell’uomo politico che, nel corso di una manifestazione, si trovi al centro delle proteste di un gruppo di cittadini: il giornalista, insieme all’operatore, può decidere di mostrare, attraverso le immagini e il più fedelmente possibile, ciò che sta avvenendo indipendentemente dalle proprie simpatie politiche; oppure può accentuare la protesta inquadrando soltanto il gruppo dei contestatori e non il resto dei partecipanti; può anche, al contrario, ridurre le immagini della protesta confinandola a un impercettibile sottofondo mostrando soprattutto primi piani del politico mentre, sorridente, riceve gli applausi della folla» (9).

Se i fatti diventano irrilevanti
Dopo aver parlato tanto male della televisione (meglio: di questa televisione), uno si chiede se i media scritti siano migliori e più affidabili della tv. La risposta è «no». Per raccogliere acquirenti, i giornali imitano la tv e scelgono di stupire, a qualsiasi costo. Emblematico l’esempio di Libero, uno dei pochi quotidiani italiani che negli ultimi anni ha conquistato lettori (probabilmente proprio per la sua volgarità). Così, nel numero del 22 febbraio, il giorno seguente alla caduta del governo Prodi, il quotidiano di Vittorio Feltri, per esteare la propria gioia, ha fatto una prima pagina di bassissima pornografia (10).
Lo stato dell’informazione in Italia è analizzato, senza fare sconti, da Marco Travaglio nel suo ultimo libro (11). «C’è chi nasconde i fatti – scrive il giornalista – perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggioarsi. C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore, stufo di pagare gli avvocati per qualche rompi… in redazione. C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, prostitute e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno. C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale. C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione».

Anno 2040: la morte dei giornali
«La stampa scritta – ha riconosciuto con preoccupazione Ignacio Ramonet, direttore del prestigioso mensile Le Monde Diplomatique – sta attraversando la crisi peggiore della sua storia» (12).
Per non soccombere, i media tradizionali si sono dovuti reinventare (vendendo il giornale assieme a svariati gadget: libri di ogni fatta, cd, video, ma anche orologi, magliette ecc.) oppure adattarsi ad una mera logica mercantile (che guarda al profitto e non alla qualità dell’informazione). «Forse la logica mercantile e del profitto fine a se stesso ha preso il sopravvento sulle altre funzioni dei mass media», conclude amaramente Giuseppe Altamore. Comunque, la morte dei giornali e dei media scritti in generale è stata prevista per il 2040.

Persi tra telecomandi,  MP3 ed Sms
«Il mondo di oggi – scrive John Pilger – è pieno di illusioni. La prima di tutte consiste nel credere che viviamo nell’”era dell’informazione”. In realtà ci muoviamo nell’era dei media, un’epoca caratterizzata da un apparente eccesso di informazioni, che di fatto non è altro che la ripetizione di notizie rigorosamente controllate, quindi non pericolose» (13).
Lo scorso 15 febbraio è morto negli Stati Uniti Robert Adler, lo scienziato che nel 1956 inventò il telecomando, uno strumento che non è esagerato definire rivoluzionario. Uno strumento essenziale per fare zapping. Lo spettatore che cambia di continuo canale televisivo (zapper) è come l’utente che cambia di continuo il sito web o il brano sull’I-pod. Per questo, con il diffondersi delle nuove tecnologie e del bombardamento di notizie (information overload), si è iniziato a discutere di «economia dell’attenzione».
Per esempio, mentre legge queste righe uno studente può – contemporaneamente – spedire un Sms ed ascoltare una canzone sul lettore MP3. Ma alla fine cosa gli sarà rimasto in testa? Gli esperti dicono che il nostro cervello è flessibile (soprattutto quello delle donne) e capace di suddividere l’attenzione su molteplici attività, ma che nessuna di queste va a fissarsi sulla memoria a lungo termine.  
Questo dossier andrà in alcune scuole superiori, anche perché prende spunto da una serie di temi scolastici sulla televisione. E allora auguriamoci che sia letto e discusso da molti giovani. Magari mettendo da parte, almeno per qualche momento, il cellulare o il telecomando. Anzi, osiamo di più: speriamo che, dopo aver letto, qualcuno di loro riuscirà a ridere di un programma spazzatura, a guardare con sospetto ad una pubblicità, ad ascoltare criticamente un telegiornale o, magari, a spegnere la televisione.  

 Paolo Moiola


Note:
(1) Citato da Daniele Damele, Università di Udine.
(2) Si veda il glossario finale. Sito: www.tvformats.com.
(3) Si veda l’illuminante saggio di Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie, Bruno Mondadori Editore 2006. A pagina 41 di questo dossier un’intervista all’autore.
(4) Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Editori Laterza 1997.
(5) Pasquale Borgomeo, Le diete mediatiche degli italiani, in «La civiltà cattolica», 3 febbraio 2007. Si tratta di un commento ai dati del Censis.
(6) Dati Audipress, seconda indagine 2006. Va precisato che gli acquirenti sono sempre in numero inferiore ai lettori. Ad esempio, con 3 milioni di lettori La Repubblica vende circa 600.000 copie al giorno.
(7) Questi dati – riferiti al 21 e 22 febbraio 2007 – sono facilmente reperibili sul sito di Auditel: www.auditel.it.
(8) Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, I libri dell’Altritalia, 1994; un saggio vecchio di qualche anno, ma sempre attuale e certamente utile per un percorso didattico sui media e l’informazione.
(9) Anna Oliverio Ferraris, Grammatica televisiva. Pro e contro la Tv, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
(10) Ciò non ha impedito al suo direttore di continuare a pontificare da tutti i canali televisivi, di cui è un assiduo frequentatore.
(11) Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Editrice Il Saggiatore, Milano 2006.
(12) Ignacio Ramonet, Minacce all’informazione, Le Monde Diplomatique, gennaio 2007.
(13) John Pilger, Sydney Moing Herald, 28 dicembre 1995, ripreso dal settimanale Internazionale, marzo 1996.

Paolo Moiola




Al falò dell’intelligenza

I danni di una televisione senza qualità

Mai come oggi la televisione offre una scelta infinita di programmi eppure mai come oggi impera un’assoluta povertà di idee. La gente si inebetisce davanti a trasmissioni dove il nulla viene spacciato per il tutto. Sotto i riflettori televisivi  passano corpi perfetti e menti leggere. E, sullo sfondo, l’accettazione di modelli imposti dall’alto, senza ideali alti, senza sogni che non siano il denaro e la notorietà. La situazione è chiara a molti, eppure, almeno per ora, è questa Tv spazzatura che continua a vincere e ad imperversare. Come fosse una tossicodipendenza.

È la tv che condiziona i giovani, le loro scelte e abitudini, o sono loro a influenzare con «nuovi modelli» la creazione dei format televisivi?
Un dubbio amletico, a cui possiamo tentare di dare alcune risposte: basta fare zapping in tv; frequentare le scuole, soprattutto superiori; avere figli adolescenti e ascoltare i discorsi dei loro amici e compagni…
La tv ha un potere enorme, ben superiore a quello (già notevole) di giornali, riviste, web. E lo esercita.
Quella scatola sempre più tecnologizzata, accessoriata, esercita il fascino disarmante di un giocattolo attraente e pericoloso allo stesso tempo.
Adolescenti e adulti ne sono attratti, fagocitati, plasmati, modificati, per poi essere ributtati, da bravi soldatini ubbidienti (qualcuno un po’ più recalcitrante), nel ciclo riproduttivo del consumismo in modo da perpetuae il modello.
I canali televisivi sono tanti e se si aggiungono quelli satellitari, la scelta è enorme. Ma è solo un’apparenza: a parte qualche eccellente eccezione (documentari, film d’autore, programmi culturali), si passa senza notare sensibili differenze da un reality-show all’altro, da una trasmissione demenziale all’altra. Il menù è lo stesso dovunque: mariti-mogli, fidanzati che si mandano a quel paese davanti a milioni di telespettatori; politici, attori, assessori alla cultura-esperti d’arte (!) che insultano; veline-schedine-letterine-vallette che s’aggirano esibendo pochi centimetri di stoffa che cerca di coprire il bendiddio; attricette-portavoci che dissertano nei salotti tv di quel poco che sanno e di quel molto che ignorano; grandi fratelli e grandi sorelle che recitano di far finta di essere spontanei. E poi ancora, secchioni-bruttoni che gareggiano in stupidità con bellone-sciacquette; telepremi, lotterie, quiz per semi-ignoranti; e isole, e case, e una noia mortale…
Una tv che vorrebbe essere di continuo intrattenimento ma che si riduce a spazzatura, e che mette in luce i nostri «istinti più bassi»: la stupidità, la collera, l’animalità. Che indubbiamente riflette una parte di noi stessi, come singoli, e una parte come nazione.
E che, per questo, attira, affascina, seduce. E conforma.
È la tv commerciale, studiata per produrre lauti guadagni alle aziende pubblicitarie, alle industrie, alle multinazionali, e ai proprietari delle emittenti, ai loro azionisti, per i canali privati; per incentivare carriere, promozioni, poltrone, ecc.- per quelli pubblici. Ma anche per omologare i gusti e le idee, gli usi e i comportamenti del pubblico. Per renderlo duttile e pronto consumatore, insofferente alla politica e alle scelte nazionali e inteazionali, per indurlo ad accettare soprusi, violenze, ingiustizie e nuove guerre di rapina.
Siamo di fronte a un momento di svolta epocale, non solo per i cambiamenti climatici planetari, ma anche per la democrazia occidentale, per la nostra vita quotidiana.
Tutto ormai passa attraverso l’immagine. Attraverso il tubo catodico.  È la «democrazia del tubo catodico». O la «mediumcrazia». I nostri figli saranno la chiave di volta per comprendere il prossimo futuro dell’umanità. E i nostri figli, con qualche eccellente eccezione, guardano la tv, questa tv, per ore, ogni giorno.

UNA TV DISEDUCATIVA E MANIPOLATRICE

A questi ragazzi, adolescenti, abbiamo chiesto cosa pensano della televisione e quali programmi seguono. L’occasione ci è stata offerta durante un corso di giornalismo che abbiamo svolto presso alcuni istituti scolastici superiori.
Nel corso delle lezioni, abbiamo dato loro qualche elemento del mestiere, e delle tecniche di cui spesso i mezzi di informazione si avvalgono per «manipolare le notizie». Abbiamo parlato della «scomparsa dei fatti a favore dei commenti». Abbiamo creato simulazioni del lavoro in redazione.
E abbiamo discusso, elaborato. E loro hanno scritto, soprattutto di tv. Ne è emerso un quadro complesso. Uno spaccato generazionale interessante.
Nei paragrafi che seguono, proponiamo alcune riflessioni degli allievi di tre classi (III anno) dell’«Istituto tecnico Oscar Romero» di Rivoli, in provincia di Torino. Si tratta di adolescenti di 16-17 anni.

L’ADEGUAMENTO AL POSTO DELL’UTOPIA

Il dato che ci è balzato subito agli occhi è il realismo, la piena, o quasi, consapevolezza da parte di questi ragazzi dei meccanismi della televisione e di quel mondo che essa propaganda.
È disarmante ascoltare ragazzine di 16 anni raccontare che, sì, fare la velina che «sculetta davanti alle telecamere non è molto dignitoso, ma questo le permette di essere conosciuta e di fare carriera in fretta», e allora, «se le cose vanno così, e se per avere successo, e in fretta, bisogna mettere in mostra tette e sederi e andare a letto con persone importanti, perché io dovrei fare diversamente e impiegare vent’anni per arrivare laddove mi sono prefissa?».
Il pensiero maschile non è molto diverso: «Se partecipando a trasmissioni televisive come il Grande Fratello o Amici, ed esibendo muscoli ben palestrati, e cervello poco allenato, io ho successo, perché devo fare tanta fatica in altro modo? Perché seguire strade più faticose e lunghe?».
La coscienza di un sistema fasullo e malato non scatena una reazione eguale e contraria che implica una volontà o un desiderio di cambiamento – azzardiamo, di sovversione – ma, al contrario, in molti casi suscita un totale adeguamento.
Questa, forse, è la più percepibile differenza rispetto alle generazioni passate, dove tra sogni e utopie (poi tutte clamorosamente disilluse), s’intravedevano velleità di cambiamento. Anche qui i sogni ci sono, ma sono quelli che la tv coltiva, amplifica, proietta con forza al di là dello schermo. E sono spesso simili per tutti, come avviene con l’abbigliamento e gli atteggiamenti conformati di molti adolescenti. Manca l’utopia, che ha lasciato il posto al realismo spicciolo, pratico: «Se è necessario, se è richiesto, lo faccio».
Ma la colpa non è certo loro, dei ragazzi: questo è il modello offerto dagli adulti, che l’hanno creato (forse dopo aver visto frantumarsi le giovanili utopie…). E molti vi si adeguano, almeno a parole, senza contestare più di tanto.
Ovviamente, non tutti sono così: né tra gli adolescenti che abbiamo incontrato a Rivoli né in altre zone dell’Italia. Non sono pochi, infatti, quelli che lottano con tutte le forze per cambiare «il marcio che c’è in giro». Lo abbiamo visto con i giovani in Calabria, lo osserviamo con chi si impegna contro le mafie e l’illegalità, o si interessa di ambiente, natura, squilibri nord-sud del mondo, chi fa politica, chi ha una passione profonda (non per il calcio, s’intende!). Laddove ci sono modelli positivi, guide forti da seguire, in casa o nell’ambiente esterno, i giovani si lanciano in coraggiose sfide. Dove c’è il vuoto umano, culturale, sociale, ci sono altri miti: quello della velina e del palestrato o del calciatore, corpi perfetti e pensieri leggeri. Soldi a volontà e riflettori, in stile Francesco Totti-Hilary Blasi, la coppia vincente a livello nazionale.

LA TV SPAZZATURA: ATTRAZIONE IRRESISTIBILE?

La consapevolezza del basso livello e della ripetitività imposti dall’attuale tv – pubblica e commerciale – è piuttosto diffusa. Qualche adolescente arriva a palesare segni di «stanchezza», di tedio. Come Alessia: «(…) cercavo di trovare un programma televisivo “furbo”, che attirasse la mia attenzione… Soap opere, fìction, programmi che, come argomento principale hanno la vita artificiale dei vari vip, sfilate di moda con modelle che rasentano l’anoressia, talk show dove le persone si insultano gratuitamente, notizie artefatte solo per fare ascolti più alti. Spuntano come funghi nuovi reality show (…)». Nuovi nei titoli e nei luoghi, ma i contenuti sono tutti uguali: volgarità, bestemmie, sesso a volontà; sovente i protagonisti sono senza qualità, non sanno ballare, cantare e discutere e per emergere danno il peggio di loro stessi. «Cominciamo veramente a non potee più, considerato che programmi interessanti e ben fatti ne esistono, alcuni però vengono trasmessi in orari impossibili o sono poco pubblicizzati… (…)».
Alessia sembra riuscire a non farsi fagocitare dalla «scatola magica» e a mantenere lucidità, arrivando a consigliare che è «molto meglio spegnere il televisore e rilassarsi in compagnia di un buon libro».
Il senso di fastidio per la volgarità imperante in programma cult domenicali per famiglie medie italiane emerge anche negli scritti di Giulia e Valeria: «Nella trasmissione (del 7 gennaio 2007, ndr) Buona domenica si è parlato dell’impiccagione di Saddam. Alcune persone erano pro e altre contro. Questi ultimi hanno solamente urlato le loro opinioni pur sapendo di essere in onda».
Sulla relazione di interdipendenza tra società e tv, Valentina sembra nutrire pochi dubbi: «Un fattore che influenza molto la gente di oggi è la televisione, da una parte molto utile per informare tutti su quello che accade nel mondo oltre ai giornali, ma in alcuni programmi ci sono veramente scene e avvenimenti orribili!».          
In un’intervista simulata, invece, Simona spiega a Denise: «Non sono un’amante della televisione, preferisco ascoltare musica e leggere. La tv la guardo ogni tanto, quando si trasmette un bel film, a volte i telegiornali, e a volte i video musicali. Mi è però capitato di fare zapping in tv e trovare programmi poco soddisfacenti e dal mio punto di vista poveri di sostanza e di interesse. (…) non sopporto assolutamente le loro finzioni e le liti che si svolgono frequentemente».          
Roberta si chiede: «Le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore? La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati». E poi conclude: «Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva».
Valentina V. è molto netta: «La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni».

«PIÙ SEI VOLGARE, PIÙ SEI INVITATO»

Anche Denis A. lascia poco spazio alla «compassione» nei confronti dei palinsesti televisivi: «Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura. Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse. Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso nei nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale – da Wild West e l’Isola dei famosi su Raidue, a La pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era seguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana, ecc… Se tutto si limitasse a questo, saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo & Company con i concorrenti dei reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni. È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grossolanità nei programmi. Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi e di altre emittenti, dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti».
In alcuni scritti emergono giudizi di valore, di tipo etico-morale: «È incredibile come la gente riesca ad accettare alcune parti per diventare famoso – si sorprende Valentina -, ma allo stesso tempo anche a farsi passare per ignorante, come ad esempio le ragazze e i ragazzi che sprecano la loro intelligenza nello show La pupa e il secchione».
«La televisione spazzatura (o tv trash) – sottolinea Marco –  provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le “pupe” vengono dipinte come “stupide” e i “secchioni” devono essere per forza “brutti”; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo “sfìgato” di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera».
Per Eleonora «i giovani guardano sempre di più la televisione limitando lo studio e le uscite con gli amici e parenti. Alla lista dei programmi spazzatura si stanno aggiungendo programmi volgari e senza alcun senso logico, e mentre le trasmissioni trash aumentano, documentari e telegiornali diminuiscono a vista d’occhio. Lentamente ci stiamo dirigendo verso l’era della televisione che non ci lascerà più tempo per fare altro, saremo talmente persi in quella scatola parlante da non potee più fare a meno. (…) La televisione è lo spettacolo delle vite altrui e gli spettatori persi nella loro insoddisfazione cercano di colmare il vuoto che c’è in loro».
«Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico – tuona Carla rivolgendosi direttamente ai genitori – è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi. Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza».
Denis non usa mezzi termini: «La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza e la voglia di (cfr ANGELA) il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza».

CONSAPEVOLI E RASSEGNATI? O SOLTANTO REALISTI?

Chi in un modo chi nell’altro, molti degli studenti delle tre classi III con cui abbiamo lavorato hanno espresso giudizi negativi nei confronti dei programmi tv più di «tendenza» e più seguiti dal pubblico.
Ed è proprio su questo punto che la questione si complica: pur considerati «trash», spazzatura, questi spettacoli riscuotono successo. Fanno «audience», anche tra chi li critica. Quindi, anche tra i ragazzi.
«La domanda da porsi – sbotta Eleonora – è perché nonostante le critiche, che noi stessi facciamo alla televisione, continuiamo a guardarla? Una delle cose più indecenti, è che, chi produce questa tv “spazzatura” ci guadagna incantando milioni di spettatori con programmi che non valgono nulla perché non trasmettono niente».
Per Roberta «il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una tv demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli».
Denise e Simona sembrano stupite del fatto che i programmi-spazzatura come i reality «hanno portato a un incremento dei telespettatori, specialmente fra i giovani». E ancora Denise: «Nella mia classe queste trasmissioni vengono molto seguite, e spesso discusse. Mi è capitato di sentire parlare alcune mie compagne scambiandosi informazioni sull’accaduto delle puntate precedenti del programma».
Stefano sembra quasi divertito dall’interesse che certi programmi suscitano: «Uomini e donne (di Maria De Filippi, ndr): Un ragazzo va a cercare la donna della sua vita. Ma… scusate, per cercare la donna della sua vita deve per forza cercarla in uno studio? Ma sai quante donne ci sono nella vita? C’è posta per te, ma ditemi voi cos’è questo “C’e posta per te”. Io non capisco come questi reality riescono ad appassionare milioni di questi telespettatori che vedono, sentono e guardano attentamente cosa combinano gli altri. Sono tutti pazzi».
In un’intervista Linna chiede a Barbara se si ritiene una «spettatrice assidua» e la compagna le risponde: «Sì, assolutamente, credo che se non ci fosse la televisione sarei persa. È diventata realmente un elemento fondamentale della vita quotidiana». E conclude: «Per me è come una droga, ma non penso di essere l’unica a pensarla così».
Molto interessante è questo botta-risposta tra Giulia C. e Margherita:
G.: Cosa intendi per tv «trash»?
M.: Intendo quei programmi che non hanno nessun fine educativo, ed oggi ce ne sono veramente troppi.
G.: Ad esempio?
M.: Ce ne sarebbe una lunga lista: i reality show; Buona Domenica.
G.: Tu che genere di programmi proporresti?
M.: Sarebbe, o meglio, sono più interessanti ed educativi i cartoni animati, e i programmi culturali.
G.: Se posso permettermi… se hai queste opinioni riguardo i programmi televisivi perché ti ostini a guardare la tv?
M.: Non saprei darti una valida risposta ma probabilmente ormai è entrata a far parte della nostra routine e viene automatico guardarla.
G.: Quindi tu sprechi energia elettrica inutilmente?
M.: Effettivamente sì!

LA TV LIBERA LA MENTE? NO, LA COLONIZZA

Talvolta la scelta di incollarsi davanti a programmi-spazzatura è dettata dal semplice desiderio di riposarsi, di «liberare la mente», o di non trovae altri più validi, come racconta Giulia D.P. a Valeria: «A volte capita di vedee uno, ma solo perché in tv non c’è altro di decente, oppure sono trasmessi solo reality».
C’è chi, come Valentina V., si addentra in analisi di tipo antropologico-sociologico: «I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show, dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente da una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo, ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media».
Forse è proprio quel «danno il peggio di loro stessi», di cui parla Alessia nel suo scritto in riferimento ai protagonisti dei reality, a costituire la chiave di lettura del successo della tv trash: nei vizi pubblici, nella rozzezza elevata a sistema nei rapporti interpersonali, il telespettatore medio proietta se stesso e, specchiandosi, si perdona e, alla fine, si piace pure. Ne è convinta anche Debora: «Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto».
Vanessa sostiene che nel Grande Fratello «ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi “normali”, tratti dalla vita reale».
Tuttavia, non bisogna dimenticare l’«insegnamento» che veline-letterine-schedine e palestrati offrono ai ragazzi che li guardano in tv: «Se ti spogli, se ti esibisci davanti alle telecamere hai la carriera garantita e senza faticare tanto sui libri. Anche se sei una con poco cervello, ma sei bella e disponibile, le porte ti si apriranno». Alessia è molto critica: «Questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un “trampolino” di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. (…) Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Sono diventate in breve tempo l’idolo di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti (si riferisce a “La pupa e il secchione”, ndr) vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi. Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari».
Nel dialogo tra Linna e Barbara, la prima chiede: «Esiste secondo te qualcosa per combattere questo fenomeno?», e la seconda risponde quasi con cinismo: «Penso proprio di no. Come ho detto prima penso che sia questa la televisione che piace (reality show ecc….) se si mettessero a confronto programmi culturali o programmi detti “demenziali” non ci sarebbero dubbi sui vincitori».
Per Valentina non sembrano possibili cambiamenti positivi. Lo scenario che percepisce non dà speranza, e allora, tanto vale smetterla di prendersela, anche se non è scontato che per lei sarà così: «Non resta che rassegnarsi perché questi saranno i programmi che proprio non verranno mai tolti dalla televisione poiché attirano troppi ascolti, anzi si arriverà addirittura a diminuire lo spazio dedicato a programmi intelligenti (telegiornali, programmi culturali ecc..) per inventae di nuovi, magari anche più sciocchi!».
Come conclusione di questa carrellata di scritti, riflessioni e discussioni, proponiamo i «consigli» di Carla: «Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro». 

Di Angela Lano

Angela Lano




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La televisione via internet di Modena è nata prima della (più) famosa «You Tube» …
intervista a Rodrigo Vergara

Arcoiris è un esempio di televisione intelligente.  Arcoiris è una tv gratuita, accessibile via internet.
Lo spettatore può decidere cosa vedere in qualsiasi momento, senza più vincoli d’orari e palinsesto. I filmati sono girati dall’equipe della tv e da contribuiti estei.
L’accesso è semplice: basta entrare nel sito www.arcoiris.tv, scegliere un film all’interno delle categorie presenti attraverso la connessione adeguata al proprio modem (Adsl per le connessioni a larga banda, 56K per i modem analogici), e il film è immediatamente visibile.
Con Arcoiris Tv è lo spettatore a scegliere cosa vedere e quando e accedere a informazioni che la tv tradizionale non offre per questioni di censura o altro.
Il sito offre un servizio di newsletter per informare gli iscritti sull’inserimento di nuovi filmati o di comunicazioni utili. Chiunque può collaborare con Arcoiris Tv con filmati o idee, scrivendo a comunicazioni@arcoiris.tv.
Rodrigo Vergara, argentino da anni in Italia, è il responsabile di Arcoiris. Lo abbiamo intervistato:  dice di non sapere nulla di tv…

Quando è nata Arcoiris?
«A novembre del 2003. Avvertivamo la necessità di fare qualcosa di diverso in campo televisivo: una tv senza pubblicità e senza censura, gratuita e senza palinsesto. E grazie a internet tutto ciò è stato possibile. Abbiamo in archivio 8.365 video (al 25 febbraio 2007, ndr), ma il numero non è stabile: ogni giorno ne arrivano di nuovi, tanto che non riusciamo a stare dietro alla mole di filmati da inserire online. Non hanno valore commerciale, ma culturale. Ci stiamo specializzando in tutto ciò che non viene trasmesso dalla tv tradizionale, commerciale, appunto. Quando abbiamo iniziato eravamo i soli: la tv via internet era una novità. Ora ce ne sono altre, per esempio You Tube».

Ha parlato di «noi». Chi siete? Avete una redazione?
«Per “noi” intendo il gruppo di lavoro a Modena e i tanti che sono iscritti alla nostra newsletter – 54 mila – e chi ci invia video da tutto il mondo e in tante lingue. Quanto alla redazione, no, non esiste. Ci limitiamo a fare film e ricevere quelli che ci inviano e a mandarli in onda senza manipolazioni o censure. Noi, l’informazione, non la manipoliamo. Infatti, il nostro slogan è: “Non vogliamo dimostrare, ma mostrare”. L’unica selezione che operiamo è sui contenuti razzisti, volgari, sul terrorismo e sulla pornografia (di video poografici è già piena internet). Per il resto, diffondiamo tutto ciò che ci inviano».

Da chi siete finanziati?
«Dalla Fondazione Logos, che si occupa anche di inviare a una mailing-list di 198 mila persone in tutto il mondo una frase tratta da opere letterarie, politiche o culturali in genere, tradotta in diverse lingue. Siamo finanziati anche da chi è iscritto, chi ci manda video, insomma, dalla gente comune che apprezza il nostro progetto e che vi contribuisce con offerte. Dunque, la nostra è la “tv di tutti” anche per questo».

Siete molto democratici, allora…
«Beh, questo non lo so. Ma sappiamo per certo che tanta gente ci segue e ci scrive. Abbiamo capito che c’è il forte desiderio di partecipare, di discutere su ciò che si vede e noi offriamo questa possibilità. Inoltre, abbiamo anche un satellite. Attraverso un meccanismo di votazioni, i nostri visitatori scelgono i video che vogliono guardare nel nostro canale satellitare: il film che ha ottenuto maggiori richieste viene proiettato».  

Lo spettatore, dunque, è attivo, non passivo ricettore delle scelte altrui.
«Certo, noi non siamo una tv tradizionale. La tv tradizionale è commerciale, cioè è fatta per vendere prodotti, non per informare, diffondere cultura, sapere. Manipola lo spettatore, lo convince subliminalmente a consumare tutto ciò che, in realtà, non serve. I contenuti della tv commerciale sono gli spot, che vengono interrotti per trasmettere programmi o film. Ora, c’è pubblicità anche all’interno degli stessi programmi: se si potessero eliminare e trasmettere solo spot, le aziende e chi beneficia dei proventi della pubblicità sarebbero molto più contenti. Ecco perché le tv puntano tanto all’audience: più spettatori ha un programma – con la sequenza ininterrotta di spot – più il prezzo della pubblicità per i prodotti reclamizzati sale. Più gente sta davanti alla tv più pubblicità si riesce a vendere. Questa logica vale sia per le tv private sia per quelle pubbliche, in Italia e nel resto del mondo».

In quanti paesi vi vedono?
«In 176, insomma in tutto il pianeta. La tv via web è visibile dovunque. È veramente globale. È una televisione fatta dalla gente e per la gente. Possiamo chiamarla della “società civile”, dove lo spettatore è attivo e non passivo fruitore. Riteniamo importante che le persone diventino capaci di fare tv da sole, ormai con le telecamere digitali è possibile. Noi foiamo loro l’attrezzatura e il mezzo per diffondere il lavoro così realizzato. Con la televisione tradizionale, invece, il ruolo attivo è solo di pochi, in genere raccomandati. Inoltre, essa ha lo scopo di raggiungere il grande pubblico, quante più persone si può, questo, per le ragioni pubblicitarie e commerciali di cui abbiamo parlato prima. Per essere attraente verso una fascia sempre più ampia di spettatori, la tv deve proporre programmi e film di qualità sempre più bassa, scadente. Chi, infatti, vuole palinsesti di qualità, sceglie ormai la tv satellitare e i video, ma deve pagare decine e decine di euro al mese di abbonamento. Non tutti possono permetterselo. La stragrande maggioranza dei telespettatori deve accontentarsi di ciò che propone la tv commerciale, con le ore di pubblicità giornaliere e i programmi “spazzatura”. Per fortuna c’è internet. Speriamo che attraverso questo spazio libero nascano migliaia di tv, libere e gratuite. Purtroppo, adesso le televisioni tradizionali sono monopolio di pochi che si spartiscono una percentuale altissima di spettatori. Nel prossimo futuro sarà il pubblico a scegliere».

La televisione ha un grande potere, soprattutto sui giovani.
«Sì, non è come i giornali: uno li può sfogliare distrattamente e non capire nulla di quello che sta scritto. Con la tv non hai bisogno di essere attento, di avere il cervello sveglio e recettivo: lei ti influenza comunque. Con i suoi programmi spazzatura rovescia tonnellate di schifezza sulla gente, e più il pubblico è costituito da bambini, da persone deboli e più il suo potere persuasivo è forte. Ci si stupisce della violenza che imperversa nelle scuole – handicappati picchiati e videoregistrati – o negli stadi, ma da dove si apprende un comportamento tanto incivile? Dalla tv. E, bisognerebbe aggiungere, dai parlamentari che si insultano e si aggrediscono l’uno con l’altro davanti alle telecamere che li inquadrano e mandano in onda nei Tg… Uno spettacolo penoso che incoraggia i ragazzi a imitarli: “Se lo fanno deputati e senatori, perché non lo posso fare anche io?”, pensano. E giù botte, magari contro il più indifeso. O allo stadio.
Poi, ci sono le emulazioni dei “personaggi”: molti giovani vorrebbero seguire le orme dei loro “eroi” in tv. Fare le veline o i palestrati opinionisti. Grandi risultati con poco sforzo. Allora, perché studiare? Perché sudare al liceo e poi fare l’università, se basta spogliarsi in tv o esibire qualche muscolo? Questo è il messaggio devastante che passano certi – molti – programmi televisivi. E i risultati disastrosi si stanno vedendo. D’altronde, la tv commerciale ha come “valore” il consumismo. L’importante è “far girare” l’economia, di tutto il resto, chi se ne frega! Abbiamo importato il modello statunitense».

Angela Lano

Il potere economico della pubblicità

MADE IN COCA-COLA

L’obiettivo della televisione non è più informare, ma formare il consumatore

È vice-caporedattore di Famiglia Cristiana e saggista. Nel suo ultimo libro, «I padroni delle notizie (come la pubblicità occulta uccide le notizie)», Giuseppe Altamore (www.giuseppealtamore.it) ha l’ingrato compito di farci riflettere sullo stato dell’informazione in Italia. 

Chi sono i «padroni delle notizie»?
«Gli inserzionisti pubblicitari, le concessionarie di pubblicità e le imprese editoriali controllate da queste. La minaccia alla libertà di informazione arriva dal potere economico della pubblicità. Il vero obiettivo dei mezzi di comunicazione non è quello di informare il cittadino, ma quello di formare il consumatore. Il lettore e il telespettatore sono diventati i “consumatori”. Ecco che, partendo da questa logica, si è sviluppato un giornalismo da “intrattenimento”».

La tv italiana è accusata di proporre programmi sempre più scadenti, sembra che nulla riesca a fermare la sua caduta verso il basso.
«La tv, questa tv, è profondamente influenzata dagli introiti pubblicitari. I programmi sono creati per soddisfare le esigenze degli inserzionisti, che mirano a raggiungere un pubblico sempre più vasto. È chiaro che tutto è orientato al ribasso. I programmi trash costano poco e rendono molto e, nella logica del profitto, questo conta più di tutto. La tv attuale non svolge funzioni educative, come invece faceva la “vetero-televisione” (quella degli esordi), ma mira a catturare un grande numero di telespettatori da influenzare nelle scelte commerciali. È una televisione influenzata dagli introiti e dai marchi pubblicitari.
Un esempio di quanto possa manipolare la pubblicità è rappresentato da Babbo Natale, inventato dalla Coca-Cola nel 1931. Il rosso dei suoi abiti riprendeva il colore delle bottiglie della bibita. Una réclame è stata trasformata in simbolo per milioni di persone! Il potere del marchio, della pubblicità è così forte da influenzare tutto il resto. Il pubblico, noi tutti, siamo vittime di un sistema in cui si deve produrre sempre di più. Tutta la nostra vita ne è plagiata».

Secondo lei, sono i programmi tv che offrono modelli di comportamento alla società, o è la società che influenza i format televisivi?
«È un problema che ha a che fare con la comunicazione: c’è un ricevente e un emittente, e entrambi influenzano la comunicazione. Se uno ha gli strumenti culturali adeguati, quando vede che in tv trasmettono certi programmi spegne o cambia canale, se non li ha, subisce. I programmi interessanti costano e adesso che la televisione è finanziata quasi esclusivamente da inserzionisti pubblicitari, la qualità è scesa molto. È un problema economico e andrebbe affrontato con leggi, regole che limitino l’intromissione pubblicitaria. Il nostro è un caso unico in tutta l’Europa: all’estero, la distribuzione delle risorse pubblicitarie è più equa. Quando un gruppo come Mediaset controlla con il 45% la stragrande maggioranza del mercato pubblicitario, il problema è serio. Il bombardamento pubblicitario è passato dai 20 mila spot della Rai monopolista (prima degli anni ’80) agli 800 mila di Rai e tv commerciali negli anni ’90. È un crescendo inarrestabile di interruzioni pubblicitarie che fruttano capitali incredibili e che manipolano, influenzano, condizionano il pubblico».
I bambini e gli adolescenti sono le categorie di spettatori più a rischio. Come si possono tutelare?
«Prima di tutto, i bambini piccoli non dovrebbero stare molto davanti alla tv, invece ci passano ore, ogni giorno, e spesso da soli, assimilando di tutto. Durante le pause pubblicitarie vengono veicolati messaggi che li influenzano profondamente, per non parlare dei programmi in sé. In secondo luogo, bisogna fornire ai ragazzi più grandi strumenti critici che li rendano in grado di difendersi. Nelle scuole bisognerebbe parlare di comunicazione, di pubblicità, fare corsi di giornalismo, mentre questo accade di rado».

Come mai tutti criticano il Grande Fratello eppure è un programma di grande successo?

«Perché quei personaggi rappresentano delle maschere, sono vicini alla persona qualunque. Non incarnano l’eroe irraggiungibile… Sono uomini e donne in cui chiunque può identificarsi. Si badi bene a non limitarsi a definire questi programmi semplicisticamente “spazzatura”: dietro ognuno di essi c’è una strategia comunicativa efficace. Chi li progetta – gli autori – ha un’abilità notevole nel saper veicolare messaggi. All’interno del programma nulla è casuale: è costruito per attirare proponendo modelli facilmente imitabili».                                                        

Angela Lano

Angela Lano




I temi degli studenti

Macerie televisive

Una domanda che si faranno in molti: ma le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore?
La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità e attesa, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati.
Palinsesti sommersi da valanghe di reality show tutti uguali: un gruppo di persone chiuse in un posto diverso, controllate dalla popolazione attraverso telecamere, che fanno prove, distruggendosi a vicenda, insultandosi, e all’arrivo di una becera maratona, vincono addirittura dei premi.
Oppure talk show dove lo scopo è intromettersi nella vita dei VIP, convinti che a tutti possano interessare gli amori, i fatti o le abitudini di attori o, addirittura, di politici. Purtroppo i documentari, i programmi di approfondimento giornalistico, o di cultura vengono trasmessi solo in seconda serata o alla mattina, nel fine settimana, facendo in modo di non urtare il tasso di ascolto di una rete.
Il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una TV demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli. Ma cosa la rende così “irresistibile”? Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva.

Roberta Panero

Quanti soldi buttati!

Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura.
Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse.
Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso sui nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale da Wild West e l’Isola dei famosi a Raidue, a Realitycorsos, e la Pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era susseguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana ecc… Se tutto si limitasse e finisse qua saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo e company con i concorrenti dei veri reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni.
È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grezzità dei programmi.  Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi di altre emittenti dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti. Quello che mi fa pensare di più e che allo stesso tempo mi sciocca maggiormente è il fatto che tutte queste porcherie viene fatto dietro lauto compenso, soldi buttati per vedere la gente rivoltarsi…
La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza, la voglia, il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza.

Denis Agostini

Quel telegiornale di «Italia Uno»…

La tv di oggi sta cambiando, cerca di adattarsi alle attenzioni ed ai bisogni dei giovani in particolare. Nei canali televisivi, da diversi anni ormai, vengono trasmessi reality show; il primo trasmesso in Italia, che ha spianato la strada ad un grande successo ai reality show in televisione è stato il Grande fratello. Negli anni successivi sono stati trasmessi diversi altri reality show, quali: L’Isola dei famosi, La pupa e il secchione, La fattoria e molti altri ancora. A mio parere, questi programmi sono stupidi, finalizzati unicamente a raggiungere un alto livello di odiens lasciando poco spazio ai programmi culturali sicuramente più intelligenti e rivolti maggiormente ad un pubblico generalmente adulto, ma che però riscuotono un minore livello di odiens e per questo spesso sono costretti a slittare o in seconda serata o nelle ore mattutine. La televisione spazzatura (o tv trash) provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le «pupe» vengono dipinte come «stupide» e i «secchioni» devono essere per forza «brutti»; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo «sfìgato» di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera. Oltre ai reality show, possono essere considerati «televisione spazzatura» tutti i programmi prodotti al solo scopo di raggiungere un alto livello di odiens che tralasciano alcuni aspetti fondamentali di una buona trasmissione, anche i telegiornali possono rientrare in questa categoria, per esempio quando i giornalisti sono «di parte» e lo fanno vedere o quando si assume un giornalista più in base all’ importanza del nome che alla bravura del soggetto: ne è un chiaro esempio Cristina Parodi, passata dal condurre varie trasmissioni come “Verissimo” al condurre il telegiornale di Canale Cinque oppure telegiornali che si preoccupano più di parlare di gossip e del mondo dello spettacolo che trattare i vari problemi che affliggono l’Italia e il mondo nella vita quotidiana, come ad esempio il telegiornale di Italia Uno.

 Marco Querro

La febbre del Grande Fratello

È ormai appurato e consolidato: la febbre Grande Fratello travolge tutti, favorevoli o meno, nel suo impeto distruttivo continuamente interrotto dagli spot pubblicitari: è inutile cercare di sfuggire all’attrazione irresistibile che questo programma della tv spazzatura esercita sul pubblico televisivo.
Marina, Roberta, Francesca, Pietro, Rocco, Salvo, Maria Antonietta, Sergio, Cristina, Lorenzo, aleggiano sopra di noi come i postumi di una sbornia, una sbornia architettata brillantemente da chi conosce bene l’indole umana, o più precisamente quella italiana: l’italiano guardone, pettegolo, moralista nei confronti della donna (vedi Marina, la «gattamorta») ed al contempo emulatore del grande Pietro Taricone, lo «sciupafemmine» che ha irretito la povera e indifesa Cristina, la quale pende dalle sue labbra, un italiano che s’illude di aver scoperto qualcosa di nuovo, un «Truman Show» in cui può interagire limitandosi ad alzare la cornetta del telefono (al modico costo di 1 Euro al minuto più scatto alla risposta), mentre non si accorge di una cosa che invece dovrebbe sembrare ovvia: quello che la tv ci propina sono le frustrazioni, le paranoie, la staticità della nostra vita, su cui purtroppo non possiamo agire così semplicemente.
Chi non si riconosce, o si vorrebbe riconoscere, in Pietro, il superpalestrato ma che è don Giovanni, o in Rocco, l’ambiguo e troppo sensibile, dalle argomentazioni deboli per le quali viene sempre preso in giro? Chi non vede se stessa in Cristina, così forte in apparenza ma in realtà vulnerabile e facile al pianto da una parola in su, oppure in Maria Antonietta, la docile Heidi della situazione, ma pronta a sfoderare una sensualità casalinga e poco credibile?
Laddove non ci riconosciamo, poi, siamo pronti alla critica: giudichiamo il comportamento di Roberta, spregiudicata e sempre sincera, dalla lingua tagliente, o quello di Marina, accusata di raggirare gli uomini né più né meno di quanto  lo faccia con le donne il «big Jim» Taricone, o la franchezza di Salvo che, ammette di aver bisogno dei 250 milioni delle vecchie Lire per sua moglie e sua figlia.
Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto.

Debora Manzo

Una tv per spettatori pigri e manipolati

La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura, si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni.
I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente di una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media e di contenitore di informazione. Gli stessi politici e anche la moglie dell’ex presidente della repubblica Ciampi hanno definito la televisione del nostro secolo una televisione che non offre spunti intellettivi alla gioventù causando così un immagazzinamento di notizie di tutti i generi senza permettere loro di effettuare una revisione, una selezione e una pulizia di esse.

Valentina Venturuzzo

Veline, letterine o schedine?

Nella tv spazzatura che abbiamo oggi, dove veline, letterine o schedine… tanto non fa differenza… si spogliano, fanno calendari…
Abbiamo programmi che ci fanno vincere soldi, reality che mettono in evidenza la profonda ignoranza di alcune persone e allora come poteva mancare un programma che ci permette di fidanzarci? Visto che fuori non ne abbiamo la possibilità, e quindi bisogna andare in un programma!
La domanda che ci si pone è perché delle ragazze e dei ragazzi di bell’aspetto devono andare in tv per fidanzarsi?
Le risposte sono tante: questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un «trampolino» di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. Oppure forse pensano che verranno invitati in altri programmi…
Toando sul discorso dei reality, ad esempio, la pupa e il secchione, che senso ha mettere dei ragazzi che nemmeno si conoscono, a dormire nella stessa stanza e addirittura nello stesso letto?
Ma oltre questo, che senso ha mettere in evidenza le profonde lacune di queste ragazze… che oltretutto sono anche laureate (cosa che mette in evidenza il livello della scuola italiana).
Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Anche se sei stupida puoi fare televisione». E sì perché queste «pupe» sono diventate in breve tempo le idole di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi.
Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari.

Alessia

Voglia di identificazione

La televisione, oggigiorno, è diventata un mezzo di comunicazione molto importante per tutti: attraverso la tv si può essere al corrente delle ultime notizie attraverso i telegiornali; si possono imparare «cose» nuove seguendo i documentari; se ci si sta annoiando, si può passare del tempo guardando cartoni, per i bambini, e programmi trash per ragazzi e adulti.
Ci si può quindi chiedere: a chi sono rivolte queste tre tipologìe di programmi? I telegiornali vengono seguiti da buona parte delle persone e sono idealizzati per mettere a conoscenza dell’uomo ciò che avviene quotidianamente all’interno e/o all’esterno della propria Nazione. È anche vero, però, che i fatti di cronaca mettono alla luce avvenimenti terribili come attentati, omicidi, suicidi, guerre… possono quindi essere da ispirazione ai bambini, che ne traggono modelli da imitare. I documentari sono invece indirizzati a persone di qualsiasi età perché servono per l’istruzione e la cultura generale di ognuno di noi. Sono purtroppo seguiti da pochi perché considerati noiosi e meno graditi, ad esempio, di film o telefilm. I programmi trash,come soap opere e reality sono seguiti da molte e molte persone: bambini, ragazzi, aduIti. proprio perché intrigano. Un esempio di programma trash è il reality «Grande Fratello», conosciuto in tutte le parti del mondo. Il tema di un Grande Fratello che ci sorveglia e ci condiziona in ogni nostro pensiero e in qualsiasi scelta personale è tornato alla ribalta: ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi «normali», tratti dalla vita reale. Come spiegare il gradimento? La risposta forse è che ciascuno di noi è sollecitato dal penetrare nelle vicende segrete delle persone e che certa televisione abbia elevato lo spettacolo stesso della vita della gente «della porta accanto». Un altro motivo per cui questi tipi di programmi vengono seguiti da molti, oltre che per il contenuto, è perché vengono trasmessi in una fascia oraria in cui sono tutti a casa: vengono appunto mandati in onda in prima serata, cioè alle 21.00, quando le famiglie hanno già finito di mangiare e sono sedute davanti alla televisione. È quindi giusto e istruttivo guardare questo genere di programmi? Non è possibile cambiare le abitudini delle persone facendo in modo che i programmi trash vengano seguiti di meno e i documentari di più? Tutto ciò spetta solo a noi decidere, sperando in un cambiamento del pensiero
«umano»…

Vanessa Mortari

«Stupidi» a chi?

I Vostri figli vanno male a scuola?
Hanno attegiamenti violenti? Vi sorprende che la maggior parte delle persone giovani non hanno un livello culturale elevato?
È solo colpa della «tv spazzatura», o quasi.
I ragazzi compresi dai 6 ai 18 anni adorano guardare  reality show, ma la maggior parte di questi programmi vengono ritenuti dalla società «tv spazzatura».
Almeno un ragazzo su due guarda questi reality, affermando che è consapevole della sua stupidità ma è fortemente attratto dall’odiens che produce!
Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi.
Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza. Ma non è questo il problema. Quello vero è che questi programmi vengono mandati in onda troppo presto in modo che anche i bambini che non riescono a distinguere completamente ciò che si deve fare da quello che non si deve, in quanto vengono seguiti poco dai genitori ma dai nonni e dalle bambinaie che si sa, li viziano o li lasciano fare ciò che vogliono.
Ma allora come fare per evitare questi problemi?
C’è chi dice. «Sono stupidi, bisogna eliminarli e sostituirli con programmi più culturali», e altri che dicono. «No, non eliminiamoli, spostiamo semplicemente gli orari!».
Beh, sicuramente in questi tempi è difficile dire a qualcuno di non fare o produrre qualcosa, in quanto abbiamo la libertà di pensiero, di stampa, di parola, ma è ancora più difficile mettersi contro i produttori in quanto sono già stati autorizzati dai vari programmi a mandarli in onda.
Ma secondo voi è davvero colpa dei produttori? Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro.

 Carla

Studenti




Davanti alla Tv, felicemente inebetiti

Qualche conclusione

2 marzo 2007, ore 15.00, in tv c’è Maria – I Simpson, il cartone quotidiano sulla famiglia «modello» statunitense, sono appena terminati portandosi dietro la loro dissacrante ironia sui vizi e le virtù di un intero popolo. Il tasto del telecomando scivola per sbaglio su un altro programma Mediaset molto quotato: Uomini e donne, condotto da Maria De Filippi. Un universo si schiude davanti a noi!
La scena ci appare così: due file di poltrone ospitano un pubblico composto da donne di mezz’età, tutte con i capelli biondi tinti e i vestiti «trendy». È il «coro greco»‚ de Roma. Al centro del palcoscenico se ne stanno, uno a fianco all’altro, tre maschietti palestrati, truccati e abbronzati in stile solarium. Sono gli «eroi». Dalla parte opposta, uno stuolo di belle figlie del popolo, le «villane» disperatamente innamorate e alla ricerca del fidanzato ideale.
Gli elementi della tragedia… italica ci sono tutti: il tono, nient’affatto solenne, scende nello slang buzzicone. La «lotta tra bene e male» è trasformata in battaglia per conquistare er coatto di tuo. La «catarsi» degenera in cagnara accusatoria: il coro di biondone attempate urla insulti ai ragazzotti muscolosi e narcisisticamente truccati, le vergini in trepida attesa si trasformano anch’esse in borgatare sbercianti. Una vera scenetta appassionante e liberatoria (nel senso che, dopo cinque minuti, una persona normale dovrebbe cambiare canale, tirando un sospiro di sollievo).
Ma veniamo alla piéce teatrale così come ci appare. I tre giovani uomini (bellocci) se ne stanno seduti ostentando i loro muscoli. Le fanciulle (belline) li guardano adoranti (ammiccando alle telecamere): «Sei bello, ti voglio conoscere», dice una a quello seduto in mezzo agli altri due; «Quanto sei figo, voglio frequentarti», gli dice un’altra; «Quanto mi piaci, sono venuta su dalla Calabria per vederti». Il prescelto, da buon galletto, non sa chi scegliere, fa il prezioso, il capriccioso. Gli altri due ragazzi si arrabbiano, perché «le ragazze sono tutte per lui». Il coro di madame inizia a inveire, a insultarlo. La De Filippi cerca di mediare; le giovani si inviperiscono perché lui le osserva «solo dal punto di vista fisico e non lascia trasparire la personalità di ciascuna». Insomma, un mercato all’ora di punta. Uno spettacolino costruito sul niente. Anzi, sul vuoto totale. L’amore, i sentimenti, la ricerca del fidanzato/a qui non c’entrano nulla, e neanche i rapporti tra «uomini e donne». C’entra la messa all’asta televisiva di carne umana, di facce, tette, muscoli e sederi. C’entra la pornografia, la perdita di ogni senso della misura e del pudore. C’entra la spazzatura.
La sintesi: 30 anni di «femminismo» buttati via grazie a un gruppetto di aspiranti veline pronte a prostituirsi pur di mettersi in mostra. Chi scrive e organizza questo zoo trash mira in basso, pensa a non far accendere il cervello.

Le ragazze «cin cin» – «Cin cin – cin cin assaggia e poi mi dici – cin cin, cin cin diventeremo amici…». Era la sigletta cantata dalle «ragazze cin cin» di Colpo Grosso, una delle prime trasmissioni a sfondo erotico, mandata in onda alla fine degli anni ’80 su Italia 7 e condotta da Umberto Smaila. Fece gran concorrenza ai programmi della Rai e di Mediaset.
Lo studio di Colpo Grosso era una sorta di sala scommesse: chi vinceva faceva svestire le «mascherine«, maschi e femmine. Poi, nel programma vennero inserite le ragazze «portafortuna» o «ragazze cin cin» usate per alcuni giochi e per eseguire gli «stacchetti» con tanto di strip tease.
Il format, vincente, venne acquistato da Svezia, Germania, Spagna e Brasile. Insomma, divenne un programma di successo nazionale e internazionale.
Colpo Grosso fece da apripista a tutte la spazzatura a sfondo commerciale-sessuale-antifemminile mandata in onda da allora in poi. Una vera vittoria per la tv italiana…
Se a quei tempi fece un po’ di scandalo e rivoluzionò il «varietà« nostrano con tette e sederi come madre natura li aveva fatti, ora tutte le sere e su tutti i canali Rai e Mediaset possiamo trovare «stacchetti» di veline, di corpi mercificati e esposti alle telecamere, programmi pseudo-culturali o di informazione che fanno scempio di ogni valore e intelligenza umana, fiction insulse con attori che non hanno mai imparato a recitare, telefilm comprati a chili dagli scarti americani, cartoni giapponesi intrisi di cattiverie e violenza, e così via.

«Ma perché te la prendi?» – Abbiamo scritto, nelle pagine di questo dossier, che i nostri figli (io ne ho 2) stanno crescendo di fronte a questa tv, usata come baby-sitter per tutte le stagioni, nutrendosi delle schifezze vomitate dal tubo catodico. Schifezze che livellano verso il basso ogni velleità intellettuale, ogni possibilità di far buon uso della ragione, del cervello; che insegnano a diventare indolenti, che anestetizzano di fronte ai problemi nazionali e inteazionali. Che tengono incollati davanti allo schermo a guardare, felicemente inebetiti, Sanremo sapendo che, per strapagare Baudo e la Hunziker e i loro ospiti, il governo ha emendato una legge che poneva un tetto ai cachet televisivi. Quello stesso governo che ha introdotto nuovi ticket, mentre le scuole hanno i banchi rotti e i laboratori di chimica e di informatica e di inglese e di biologia non funzionano perché non ci sono soldi… Quello stesso governo che per rifinanziare la missione di guerra in Afghanistan (approvata da destra-centro-sinistra insieme), potrebbe levarci altri servizi pubblici o per pagare l’inutile, dannosa e costosissima Alta Velocità, potrebbe ipotecare i Tfr dei lavoratori… Da bravi spettatori addormentati non ci accorgiamo che stanno facendo a pezzi il nostro presente, il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti e pronipoti…
«Massì, dài, perché te la prendi? In tv danno il Grande Fratello!».

Angela Lano

Angela Lano




I coccodrilli della palude avoriana

I camion e gli autobus che percorrono la strada che da Bouaké va a Yamoussoukro rallentano all’improvviso. Sul ponte di Minabo la strada si restringe fino a ridursi a un’unica corsia. Dietro a qualche sacco di sabbia e a un cingolato bianco, un paio di soldati delle Nazioni Unite osservano il passaggio dei veicoli nella zona di confiance, l’area controllata dai caschi blu.
Poco dopo sono i militari avoriani a intimare l’alt. È la dogana che separa la zona controllata dai ribelli da quella in mano alle forze del governo.
A qualche metro di distanza, una donna litiga con un soldato. Gesticola, si agita e pesta i piedi. Il nodo del pagne, il fazzoletto rettangolare che le fa da copricapo, è sfatto, la sua t-shirt sgualcita, ma lei non cede. Per nessun motivo permetterà al militare di perquisire la grossa borsa di tela che stringe tra le mani. Sono i suoi effetti personali, qualche rotolo di franchi Cfa, tutto il denaro che ha a disposizione per il viaggio, e ha paura che le venga sequestrato.
Dietro di lei i gbaka, i camioncini a diciotto posti che attraversano il paese, sono pieni di gente esasperata per i continui controlli della polizia e le estenuanti attese.
Dopo alcune ore un ufficiale con il berretto rosso e lo stemma dei paracadutisti sblocca la situazione: dice qualcosa all’autista di un gbaka e velocemente una mazzetta di banconote cambia padrone. Un ordine secco e il traffico riprende a muoversi.
Non è così per il resto del paese, bloccato ormai da cinque anni da una guerra civile che non sembra avere soluzioni. «È una situazione di ni paix ni guerre – dice padre Martino Bonazzetti della Società dei missionari d’Africa – non c’è pace, ma non si può parlare di guerra».
Gli scontri armati sono limitati alla regione occidentale, ma l’odio negli animi degli avoriani è rimasto immutato e ha traslocato dal campo di battaglia alle piazze di Abidjan, dove ogni settimana si verificano incidenti tra i manifestanti e la polizia.

Nessuno dei protagonisti della crisi sembra interessato a uscire dalla situazione di stallo. Nel nord i ribelli hanno organizzato commerci illegali di cotone e armi con il Mali e il Burkina Faso e non cessano di vessare la popolazione con continue esazioni di denaro; a sud gli alti papaveri del governo avoriano controllano gran parte dell’esportazione del cacao e i profitti delle aziende a partecipazione statale.
«Di fatto – scrive il giornalista di Liberation, Thomas Hofnung, nel suo La Crise en Cote d’Ivoire – la Costa d’Avorio è prigioniera degli interessi di tutti quelli che traggono vantaggi diretti e indiretti dall’agonia del “Paese degli elefanti”. A soffrire rimangono solo i cittadini ordinari».
A fine dicembre il presidente Laurent Gbagbo è apparso alla televisione di stato avoriana proponendo una road map alternativa a quella voluta dalle Nazioni Unite e dalle forze ribelli per uscire rapidamente dalla crisi. «Un programma in cinque punti che non sarà mai accettato dalle opposizioni – ipotizza in via confidenziale il responsabile di una grande Ong internazionale – e che permetterà a tutti di continuare il gioco delle reciproche accuse, mantenendo lo stallo».
Quello che è certo è che la retorica di Gbagbo ha convinto i militari e la polizia. «La nostra fiducia nel presidente non è cieca e incondizionata – sbotta il doganiere avoriano al posto di blocco tra Sassandra e San Pedro, sulla costa oceanica -, ma se non lo lasciano lavorare non saremo mai in grado di giudicarlo. Non abbiamo bisogno di una tutela internazionale, non abbiamo bisogno dei militari francesi, delle Nazioni Unite e dei caschi blu. Se Gbagbo non fa il suo dovere saremmo noi avoriani a scegliere qualcun altro alle prossime elezioni».

Senza saperlo, il doganiere tocca il punto dolente dell’impianto della crisi: anche se i sondaggi condotti dall’Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) hanno confermato che l’attuale presidente è molto più amato di quanto lo siano i suoi avversari Alassane Ouattara, Henri Konan Bédié e Guillaume Soro; la sua rielezione rimane un’incognita.
Nel 2000, infatti, Gbagbo vinse grazie all’esclusione dal voto delle migliaia di immigrati burkinabé, maliani e guineani che negli anni erano stati naturalizzati avoriani e che per i calcoli dei predecessori di Gbagbo erano stati esclusi dalle liste elettorali.
Nel 1995, alla vigilia delle prime elezioni presidenziali multipartitiche, l’attuale candidato dell’opposizione ed ex presidente, Henry Konan Bédié, introdusse una legge che dava il diritto a candidarsi alla presidenza solo a chi avesse risieduto in Costa d’Avorio per almeno i precedenti cinque anni e avesse entrambi i genitori avoriani.
«La legge non mirava a togliere il voto agli stranieri che erano in Costa d’Avorio da più di 50 anni – sottolinea Hofnung -, ma aveva l’obiettivo di eliminare gli avversari di Bédié, in quanto l’allora candidato presidente Alassane Ouattara era detentore di un passaporto burkinabé».
Le conseguenze sull’elettorato, però, sono state immediate e sono una delle cause mai affrontate della crisi avoriana. Gli esclusi dal voto del 2000, almeno nei timori di Gbagbo, si aggiungerebbero oggi agli elettori favorevoli all’opposizione, non dimentichi che le milizie del presidente si sono a più riprese rese responsabili di atti di violenza contro gli stranieri.
Per questo, la presidenza ha ostacolato con ogni mezzo il regolare svolgimento delle cosiddette audiences foraines, durante le quali piccoli tribunali itineranti dovrebbero raccogliere i dati anagrafici degli abitanti dei villaggi per stabilire chi è avoriano e chi straniero.
Ma anche in questo caso, la diffidenza tra governo e ribelli ha congelato le operazioni. L’inizio delle audiences foraines si è scontrato con enormi problemi logistici e con le contestazioni spesso violente dei sostenitori di Gbagbo. Secondo questi, le condizioni in cui si dovrebbero svolgere le operazioni di riconoscimento dei quasi 3 milioni e mezzo di sans papiers non garantiscono l’assenza di frodi massicce. «Un gruppo di giudici, che va a raccogliere i dati dei contadini nei villaggi più sperduti con i mitra delle Forces nouvelles puntati alla tempia, non può essere obiettivo – dice uno dei tanti poliziotti ai posti di blocco nel sud del paese -. È necessario che i ribelli consegnino le armi prima di fare il censimento».
In realtà, secondo le informazioni dell’Inteational Crisis Group, le forze ribelli non hanno per nulla ostacolato o viziato le operazioni di riconoscimento. Quello che hanno fatto è stato invece rifiutare di disarmarsi fino al completamento delle audiences foraines.

Si è creata così una impasse: la contrapposizione tra la presidenza e i ribelli ha minato la già debole autorità del primo ministro della transizione Charles Konan Banny, che è diventato la principale vittima dei giochi di potere e ha deluso le aspettative degli avoriani che avevano intravisto una via d’uscita dalla crisi.
Nemmeno lo scandalo del traffico di rifiuti tossici che, nell’autunno del 2006, aveva costretto alcuni alti funzionari e ministri alle dimissioni è servito a dare una spallata decisiva al potere di Gbagbo, complice la poca incisività dei suoi oppositori. L’impressione è che Ouattara e Bédié preferiscano aspettare che il potere sia loro servito su un piatto d’argento dalla comunità internazionale, piuttosto che lanciarsi nell’agone politico contro i coniugi Gbagbo.

Lontano dai palazzi del potere, le razzie nei villaggi sono all’ordine del giorno tra Man e Guiglo, che si sono guadagnati l’appellativo mediatico di selvaggio west.
Ancora più preoccupante la voce che i mercenari liberiani del Model (Movimento per la democrazia in Liberia) sarebbero pronti a restituire il favore a Gbagbo, che li aveva ospitati sul territorio avoriano mentre organizzavano la loro resistenza contro il presidente del genocidio liberiano, Charles Taylor. «Questi miliziani – afferma Ehouman Kassy di Africa Magazine – si troverebbero in una piantagione vicina alla frontiera e aspetterebbero solo un cenno del presidente avoriano per attaccare i ribelli».
La paralisi ha fatto degenerare il tessuto sociale avoriano: i frequenti posti di blocco e le esazioni da una parte e dall’altra della zone de confiance hanno indotto un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il pane ha subito nell’ultimo anno un aumento del 30%, per metà  imputabile ai continui taglieggiamenti da parte delle forze dell’ordine.
Tutto è diventato a pagamento, comprese le ricette mediche e, se i funzionari pubblici almeno continuano a ricevere gli stipendi, la corruzione ha invaso tutti i livelli dell’amministrazione.
«Diventare commissario di polizia costa 3 milioni di franchi Cfa in mazzette – spiega Jean Claude, giovane studente di giurisprudenza, oggi arruolato nelle file dell’esercito avoriano -. Molte famiglie si indebitano per fare entrare i figli all’accademia di polizia sapendo che una volta riusciti nel concorso si faranno a loro volta rimborsare con nuove tangenti».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Galleria degli «errori»

Chi è chi nel conflitto avoriano

Da una parte la coppia presidenziale degli onnipresenti Laurent e Simone Gbagbo, con la loro retorica aggressiva ma anche brillante, almeno nel caso del presidente, e le milizie armate. Dall’altra un’opposizione fatta di personaggi con antichi conti in sospeso, da cui si stacca il giovane leader dei ribelli Guillaume Soro, la cui reale volontà di uscire dalla crisi è però tutta da verificare. Galleria dei protagonisti del conflitto che da cinque anni impedisce alla Costa d’Avorio di risollevarsi dal baratro di miserie politiche ed economiche in cui è precipitata alla morte del padre della patria, Félix Houphouët-Boigny.

Laurent Koudou Gbagbo
presidente della Costa d’Avorio
dal 2000

Nulla descrive Laurent Gbagbo meglio delle sue stesse parole: «I miei avversari dicono che ho una propensione a ingannare tutti? Se io li inganno, è perché loro sono ingannabili». E ancora: «Per arrivare dove sono oggi, sono passato attraverso gli anni difficili dell’opposizione, della clandestinità, della prigione. I miei avversari, invece, non sanno aspettare il loro tuo nella storia: vogliono il potere anche quando non spetta a loro».
Pirotecnico nell’eloquio, ironico, insolente, ma anche appassionato, determinato, razionale, Laurent Gbagbo è l’animale politico per eccellenza nella Costa d’Avorio del dopo Houphouët-Boigny. Abilissimo a giocare al gatto col topo con la diplomazia francese, specialista nel negare oggi quello che ha giurato ieri; la lotta politica è il suo pane fin dai tempi in cui, insieme all’energica moglie Simone, tramava contro il regime a partito unico di Houphouët, il «Vecchio» che per quasi mezzo secolo ha regnato sulla Costa d’Avorio in un rapporto quasi simbiotico con la Francia.
Figlio di un poliziotto che aveva combattuto nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale, Laurent Gbagbo nasce 62 anni fa vicino a Gagnoa, nella Costa d’Avorio occidentale, in piena cintura del cacao e area bété, una delle etnie non certo favorite dal vecchio presidente.
Storico di formazione, è già attivo negli anni dell’università come sindacalista, ispirato da «idee marxiste di tendenza maoista». Imprigionato alla fine degli anni ‘60, fonda nel 1982 il Front Populaire Ivorien (Fpi) e si autoesilia a Parigi per 6 anni, da dove continua il suo lavoro di opposizione a Houphouët e l’elaborazione del suo programma politico. Rientra ad Abidjan nel 1988 e nel 1990 è l’unico sfidante del Vecchio alle elezioni, dove ottiene il 18% dei voti.

Nel 1992 è al governo Alassane Ouattara, scelto da Houphouët per mettere ordine, nei conti e non solo. Le leggi anti-sommossa promulgate dal premier porteranno Gbagbo in carcere per altri 6 mesi.
Nel 2000, dopo la morte del Vecchio e dopo il colpo di stato del generale Robert Gueï, si ricandida alle elezioni presidenziali: i requisiti per candidarsi, tutti incentrati sul concetto di ivoirité, sono talmente restrittivi che Gbagbo è l’unico avversario di Gueï. A sorpresa vince le elezioni, ma rifiuta di rimettere in palio il titolo includendo anche i candidati che la clausola di ivoirité aveva escluso.
Il conflitto avoriano, secondo Gbagbo, si riassume in poche parole: si tratta di una guerra di successione, iniziata dagli eredi di Houphouët, Alassane Ouattara e Henri Konan Bédié, una guerra nella quale i francesi non hanno saputo stare al loro posto. Cioè fuori.

Acclamato dai suoi come il patriota che può portare a termine la seconda decolonizzazione e la completa liberazione dalla tutela della Francia, i suoi detrattori lo dipingono come il despota che controlla veri e propri squadroni della morte e che si è abbandonato al fanatismo religioso, dopo che la moglie lo ha convinto ad avvicinarsi alla sètta evangelica americana Inteational Church of the Foursquare Gospel.
Quel che è certo è che Gbagbo non ha nessuna intenzione di abbandonare il potere: attaccandosi strenuamente alle prerogative presidenziali garantite dalla Costituzione, ha più volte ostacolato il lavoro del primo ministro Charles Konan Banny, scelto dai mediatori africani e dalle Nazioni Unite per portare la Costa d’Avorio fuori dalla crisi. D’altronde Gbagbo ha tutto l’interesse a coltivare questa situazione di stallo: finché resta alla presidenza, la comunità internazionale non può attivare contro di lui le procedure che lo porterebbero davanti al Tribunale penale internazionale, dove dovrebbe rispondere delle sue ambiguità nel gestire la violenza organizzata, appannaggio dei Jeunes Patriotes, che lascia a briglia sciolta – o addirittura fomenta – contro le opposizioni e gli stranieri.

Simone Ehivet Gbagbo
moglie di Gbagbo
e first lady della Costa d’Avorio

Niente asili, orfanotrofi e tagli di nastri: la first lady avoriana Simone Ehivet Gbagbo non ha tempo per queste cose da moglie del presidente. Di etnia akan, discendente di una famiglia reale, non si veste all’occidentale, preferendo i tessuti e tagli avoriani, e non si interessa di diplomazia. Anzi, la detesta, se è vero che ha liquidato gli avversari di suo marito con espressioni decisamente non tenere: «Henri Konan Bédié? Un idiota. Guillaume Soro? Un giovane manipolato e sotto pressione. Alassane Ouattara? Uno straniero».
E nemmeno a suo marito risparmia critiche, frecciate e aut-aut: durante le negoziazioni degli accordi di Marcoussis, la first lady dichiarò: «Se i nostri uomini vanno a Parigi per prendere decisioni che non ci soddisfano, al loro rientro non ci troveranno nel loro letto».

Classe 1949, figlia di un gendarme, perde la madre alla nascita e si trova rimbalzata da un angolo all’altro della Costa d’Avorio, insieme ai suoi 18 fratelli e sorelle. Appassionata di politica fin dal collège, è durante gli studi in Letteratura all’università di Abidjan che inizia la sua militanza: aderisce alla sezione femminile del movimento studentesco cattolico, rimane affascinata dalle tesi marxiste e dalla loro riedizione in chiave africana nei pensieri di Patrice Lumumba e Kwame Nkrumah.
Nel 1972, sotto lo pseudonimo di «Adèle», aderisce al movimento clandestino che si trasformerà nel Front Populaire Ivorien  (Fpi). Qui incontra «Petit Frère», nome di battaglia di un giovane professore di storia, Laurent Gbagbo, che diventa suo marito. Con lui condivide le lotte politiche contro il regime di Houphouët-Boigny, la prigione e, dal 2000, anche il potere.
Eletta deputata del Fpi nella circoscrizione di Abobo, quartiere povero di Abidjan, la sua propaganda è intrisa di elementi religiosi: da quando è diventata seguace della sètta evangelica Shekinah Glory Memories (Church of the Foursquare Gospel), guidata in Costa d’Avorio da Moïse Koré, pare che la first lady passi molto tempo a leggere la bibbia e digiuni spesso.
Ma i richiami a Dio e i discorsi dai toni quasi messianici non l’hanno tenuta lontana dalle pesanti accuse mosse tra gli altri da Onu e Radio France Inteational. La moglie del presidente sarebbe implicata nello scandalo dei rifiuti tossici scaricati qualche mese fa ad Abidjan e il suo entourage controllerebbe da presso gli squadroni della morte e i Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé. Sembrerebbe quasi che alla lady di ferro avoriana spetti la parte di lavoro sporco che Gbagbo non può permettersi di fare in prima persona.

Henri Konan Bédié
il delfino di Houphouët

Definito «personaggio scialbo» da Le Monde Diplomatique, Henri Konan Bédié è l’erede designato del padre della nazione Houphouët-Boigny. Muove i primi passi della carriera politica all’ombra del Vecchio, che gli spiana la strada e lo mette al riparo dagli scandali e accuse di corruzione. Dopo gli studi di economia è nominato ambasciatore negli Stati Uniti dal 1961 al 1966, ministro delle Finanze di Abidjan dal 1966 al 1977 e presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 al 1993.
Settantatreenne, originario del centro paese, di etnia baoulé come Houphouët, Bédié diventa presidente della Costa d’Avorio ad interim alla morte del suo predecessore, sopraggiunta nel dicembre del 1993.

Appena un anno dopo il suo insediamento fa indispettire Parigi, decidendo di concedere ai giganti americani Cargill e Adm alcuni contratti di esportazione del cacao, senza consultare le multinazionali francesi. Ma il suo nome è legato soprattutto all’introduzione della clausola dell’ivoirité nella competizione elettorale.
Dopo aver dichiarato, nel maggio 1994, «non ritireremo mai il diritto di voto a persone che votano in questo paese fin dal 1945», cede subito alla tentazione di eliminare con un solo colpo di spugna il suo più temibile avversario politico, Alassane Ouattara, l’ex primo ministro avoriano accusato di essere in realtà un burkinabé. Incarica dunque una commissione di intellettuali di definire il concetto di «ivoirité» attraverso il quale stabilire chi è avoriano e chi no, di conseguenza, chi ha diritto a far parte dell’elettorato attivo e passivo.

Messo così fuori gioco Ouattara, Bédié viene eletto con il 96% dei voti in uno scrutinio elettorale boicottato da tutta l’opposizione. Il suo mandato si caratterizza per la corruzione dilagante, nepotismo e incapacità di uscire dalla crisi economica, cominciata già alla fine degli anni ‘80 sull’onda del crollo del prezzo del cacao.
Nel dicembre del 1999, il colpo di stato del generale Robert Gueï mette fine alla presidenza di Bédié e apre le porte a Laurent Gbagbo.
In esilio in Francia fino al 2001, Bédié rientra per prendere parte al Forum di riconciliazione nazionale. È attualmente il presidente del partito fondato da Houphouët, il Pdci.

Alassane Ouattara
il grande escluso

«Uomo distinto e cortese, dai modi lenti, ma dall’intelligenza viva» per il giornalista di Libération T. Hofnung, «creatura satanica» per l’entourage di Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara ha tutti i tratti del tecnocrate razionale e posato.
Ado, come lo chiamano i suoi sostenitori, non infiamma le folle, non ingaggia duelli politici o gare retoriche. Fa conti. Nel gennaio 2006, in occasione del suo rientro in Costa d’Avorio dopo tre anni di esilio in Francia, sbriga in due parole la parte toccante del suo discorso e va dritto al punto: «Vorrei dire ai giovani che i momenti difficili sono davanti a noi. Dal momento che la situazione economica è difficile, come economista direi addirittura catastrofica, vorrei dire loro che è questa la nostra priorità e che la pace ci aiuterà a uscire rapidamente dalla crisi economica».
Nato 65 anni fa a Kong, nel nord della Costa d’Avorio, musulmano, Ado studia economia negli Stati Uniti e inizia una brillante carriera che lo porta al Fondo monetario internazionale come economista e alla Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) come governatore.
Nel 1990 Félix Boigny lo richiama in Costa d’Avorio per mettere ordine nei conti avoriani, estremamente provati da un corso sfavorevole del cacao e da anni di corruzione imperante. Divenuto primo ministro, si trova fuori dal gioco politico poco dopo la morte del Vecchio, quando il suo principale avversario Konan Bédié fa approvare la clausola di ivoirité: Ado, che nel frattempo ha accettato l’incarico di vicedirettore generale al Fondo monetario internazionale, è nato in Costa d’Avorio, ma è titolare di un passaporto burkinabé. Per questo non può candidarsi alle elezioni.
La sua temporanea alleanza con quel Gbagbo, che tre anni prima aveva fatto arrestare, non sposta minimamente le sorti del voto, e Konan Bédiè è eletto presidente.

La sua nazionalità avoriana è riconosciuta solo nel 2001 dal Forum di riconciliazione nazionale, voluto dal presidente Gbagbo, che però rifiuta di metter in pratica le decisioni prese durante lo stesso Forum.
Oggi però, Ado, alla testa del Rassemblement des Rèpublicains, può esibire la sua carta d’identità avoriana e affermare: «Sono un figlio di Kong e ne sono orgoglioso. Le carte d’identità dei miei genitori sono disponibili e non sono state fatte ieri. Tutti le conoscono perché sono state pubblicate». Ma per Ado la strada è ancora tutta in salita.

Guillaume Soro
il capo dei ribelli

Il suo nome in lingua senoufo significa «invincibile», come spiega con un sorriso malizioso al corrispondente della Bbc. Guillaume Kigbafori Soro, 32 anni, orfano di entrambi i genitori, originario del nord della Costa d’Avorio, non ha bisogno di trovarsi un nome di battaglia come fanno i suoi uomini, i ribelli delle Forces Nouvelles. Sul campo di battaglia non c’è probabilmente mai stato, ma delle lotte politiche, nonostante la sua giovane età, è già un veterano.
Comincia con la militanza come capo della Federazione degli studenti avoriani (Fesci), che gli procura numerosi soggiorni in carcere durante la presidenza Bédié, ogni volta che una manifestazione degenera in disordini e scontri con la polizia.
Dopo aver lasciato il paese per continuare gli studi in Francia e in Inghilterra, riappare in Costa d’Avorio all’indomani del colpo di stato di Robert Gueï e tra il 1999 e il 2000 per cercare un’intesa con la giunta militare e lanciare un’operazione «mani pulite».

Ma il «Che» avoriano, come lo chiamano i suoi compagni del movimento studentesco, divorzia presto da Gueï e si rivolge al Rdr di Alassane Ouattara, con cui ha in comune tra l’altro la provenienza geografica. Nei giorni dell’ivoirité e dell’estromissione di Ouattara dalla competizione elettorale, condanna pubblicamente la campagna xenofoba, messa in atto contro le etnie del nord e gli stranieri, e sparisce di nuovo dalla scena avoriana.
Riappare nell’ottobre del 2002, un mese dopo lo scoppio della ribellione e la divisione del paese. Noto ora come «il generale» o «dottor Koumba», Soro si presenta come capo del Mouvement patriotique de Côte d’Ivoire (Mpci), che rappresenta le Forces Nouvelles e altri gruppi ribelli armati (ad esempio il Mpigo, movimento nato a ovest da combattenti liberiani).
La sua opposizione a Gbagbo non potrebbe essere più netta. È passato molto tempo da quando il giovane Soro, affascinato dal socialista Gbagbo, vedeva in lui il leader in grado di permettere agli avoriani di «non nascere e morire sotto il governo di Houphouët».
Nemmeno la comunità internazionale è al riparo dalle sue critiche. «Non ci si mette tra due litiganti – dice il giovane leader – se non si ha abbastanza forza per separarli».
Guillaume Soro, come Simone Gbagbo e Charles Blé Goudé, figura sulla lista nera delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani in Costa d’Avorio: il segretario generale delle Forces Nouvelles sarebbe colpevole di aver avallato le esecuzioni sommarie compiute dai ribelli. Ma, osservano molti commentatori, la sua è l’unica faccia nuova in un panorama politico popolato da dinosauri: se si andasse a elezioni questo potrebbe rivelarsi un vantaggio non da poco.
Dopo essersi visto attribuire il ministero degli Intei e della Difesa, un rimpasto di governo lo ha nominato ministro delle Comunicazioni nell’esecutivo di transizione guidato da Charles Konan Banny.

Charles Blé Goudé
il capo dei Jeunes Patriotes

«L’esercito francese? Saccheggia, stupra, uccide. Occupa il nostro Paese come la Germania faceva con la Francia». Questa dichiarazione è una delle più pacate tra quelle rilasciate da Charles Blé Goudé, il leader del movimento nazionalista dei Jeunes Patriotes. Succeduto al coetaneo Guillaume Soro alla testa della Federazione degli studenti (Fesci), Blé Goudé studia inglese all’università di Cocody, nella capitale avoriana, e frequenta un master in prevenzione e gestione del conflitto a Manchester.
Blé Goudé è il braccio propagandistico e armato di Gbagbo nelle strade di Abidjan: il suo appoggio attivo alla repressione delle manifestazioni in favore degli accordi di Marcoussis, nel marzo 2004, contribuirà al bilancio finale di centoventi morti e venti dispersi.
All’indomani dello scontro tra esercito avoriano e militari della Licoe, nel novembre dello stesso anno, sarà lui a incitare la folla inferocita a occupare l’aeroporto al grido di «a ciascuno il suo francese». Grande ammiratore del presidente rwandese Paul Kagame per i suoi continui attacchi frontali al ruolo della Francia in Africa, Blé Goudé è noto per le dichiarate posizioni razziste, riprese anche nel suo libro La mia parte di verità, di recente pubblicazione.

Charles Konan Banny
il premier di Mbeki e Obasanjo

Sessantaquattro anni di vita consacrata alle istituzioni economiche e finanziarie e l’appartenenza all’etnia baoulé di Houphouët-Boigny sono i tratti salienti della carta d’identità di Charles Konan Banny, l’attuale primo ministro avoriano.
Scelto nel dicembre 2005 dal duo di mediatori incaricati dall’Onu – il presidente sudafricano Thabo Mbeki e quello nigeriano Olusegun Obasanjo – l’ex governatore della Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) non è per ora riuscito a raggiungere l’obiettivo primario del suo incarico: quello di organizzare le elezioni presidenziali in Costa d’Avorio.
Lo scrutinio elettorale previsto per l’ottobre 2006 è stato rimandato di un altro anno, mentre Konan Banny si è visto colpito da velate accuse di connivenza con Gbagbo. Altre questioni spinose che si trova per le mani sono il mancato disarmo dei ribelli e le difficoltà nel regolare il funzionamento delle audiences foraines, i tribunali itineranti che hanno il compito di verificare l’effettivo numero di avoriani, e quindi di elettori, presenti sul suolo nazionale.

Di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti