Senza lavoro e senza casa

Introduzione

Kibera è una delle più estese e popolate bidonville africane. Alle 6 del mattino chi si piazza alle entrate della baraccopoli può assistere alla versione keniana dell’esodo biblico. Un oceano di formiche umane si scrolla di dosso la notte africana e inizia la lunga marcia verso le strade caotiche della capitale. Alle 7 di sera è nuovamente in fila per compiere il percorso inverso, carico delle frustrazioni accumulate in 12 ore di «scuola di sopravvivenza» nella grande città. Succede così, giorno dopo giorno, fintanto che il sole continua a sorgere e filtrare fra i tetti di lamiera delle baracche fatiscenti in cui vivono, compresse come sardine, quasi 800 mila persone. Migliaia di storie diverse, tutte apparentemente insignificanti, ma tutte indice di un dato tanto inquietante quanto incontrovertibile: la popolazione urbana sta crescendo a dismisura e presto, molto presto, supererà per numero quella rurale.

La migrazione dalle campagne alle città è un fenomeno che ha accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli: carestie, guerre, epidemie hanno sempre provocato movimenti di persone dalle zone rurali a quelle urbane, ma mai, come in questo ultimo secolo, il fenomeno ha assunto proporzioni così consistenti. Viene da chiedersi seriamente se il flusso così imponente di persone verso le città sarà sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale o se questa realtà sarà destinata a implodere con conseguenze che vanno al di là delle possibili previsioni. Ciò che già sembra certo è che il convergere così velocemente e in forma tanto massiccia negli spazi urbani sta cambiando radicalmente il volto delle città. Insediamenti urbani di medie dimensioni stanno diventando autentiche metropoli, mentre le metropoli di un tempo si stanno trasformando in megalopoli con valori demografici superiori a quelli di tanti stati del pianeta.

Slum, baraccopoli, bidonville, insediamento informale sono alcuni dei nomi, ormai tutti entrati nell’uso corrente, per definire un’unica realtà: il posto infame dove, in città, vanno a vivere o dove cercano di sopravvivere i più poveri della terra. Oggi, un sesto degli abitanti della terra vive in uno slum; ciò significa che circa un miliardo di persone vive in ambienti sovrappopolati e malsani, con un abitato che i documenti definiscono eufemisticamente «informale», ma che dovrebbe essere etichettato invece come «indegno di qualsiasi essere umano».

Nel suo recente saggio «Città Ombra: viaggio nelle periferie del mondo», Robert Neuwirth scrive: «Ho cominciato a interrogarmi sulla moralità di un mondo che nega alle persone un posto di lavoro nella zona dove abitano, e poi gli nega un’abitazione nella zona dove sono arrivati per ottenere un lavoro. E ho cominciato a riflettere sulla mia responsabilità». La «mia» responsabilità. Questo appello alla moralità e alla responsabilità dovrebbe toccare un po’ tutti, ma soprattutto coloro che, per scelta o vocazione, dedicano la loro vita ai poveri, primi fra tutti i missionari. È importante continuare ad essere inseriti nelle comunità che abitano le baraccopoli per condividere il desiderio che le persone hanno di uscire dal fango e dare alla loro vita una dignità perduta e un futuro diverso. È importante insistere nell’appoggiare progetti di sostegno, solidarietà e promozione umana. È però anche importante «dar voce» a chi non ce l’ha, facendo rete e protestando contro quelle politiche economiche inique dei paesi sviluppati che continuano a considerare i paesi in via di sviluppo come terre da conquistare, colonizzare e spolpare, incuranti dei danni umani e sociali che tali politiche provocano. Una responsabilità verso le periferie del mondo che soprattutto chi vive al centro e vive bene può e deve in coscienza assumere.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il pianeta bidonville

Le isole infelici delle grandi metropoli

Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni,  rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.

Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi  complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island),  segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.

Di Fabrizio Floris

Fabrizio Floris




Tra baracche e grattacieli

Nairobi e la sua gente

Nairobi è una città di gente in fila.  Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file, anche davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l’autobus. Una città in balia dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi.  Come i gatti li trovi puntuali all’ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio.  Altoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, urlano per dire che c’è un solo Dio, ma quale? Una città dove puoi restare a terra ferito per ore fino alla morte se non hai denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. È un luogo di potere: non si contano i casi di corruzione, furto, doppie contabilità all’interno degli ospedali, così come delle scuole.
L’altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questo apartheid sociale. Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri, schiacciati come sono dai problemi personali.  Sarà un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O, forse, è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che lo caratterizza è l’eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens, così gli statunitensi chiamano i sudamericani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango dove, per poterci restare, pagano l’affitto.
Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori inteazionali e nelle vene dei malati di Aids, così come nella cultura. Nairobi è specchio di un mondo che spinge tutto verso gli eccessi, dove tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, dove spariscono le forme di mediazione, nulla mitiga o mòdera la situazione: non esistono compromessi, gradualità, stadi intermedi. È una continua battaglia per la morte o per la vita.
A Nairobi è come se si fosse sempre di fronte a un limite che impone delle scelte. O di qua o di là, senza vie intermedie. Ogni scelta, a  Nairobi, diventa lo specchio delle scelte di ogni abitante del pianeta, è lo status confessionis: o con l’uomo o contro.
Il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po’ come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica, così hanno trasformato le case basse in grattacieli ma non si può ingannare la crescita di un bambino, così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i keniani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. E poi problemi su problemi che si concentrano su uomini e donne che sono il volto della Sindone che cammina.
In questa situazione di insicurezza generalizzata tutti sono poveri, tutti sono a rischio, tutti non possono aiutare perché tutti hanno bisogno di essere aiutati. Ognuno è mendicante. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina. Cammina. Quando non c’è l’elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario al lavoro. E sa anche essere felice, donare un sorriso e una stretta di mano, ridere e scherzare.
In questa città mancano luoghi pubblici e spazi di confronto autentico. Ogni voce è sola lungo queste strade e dentro questi autobus. I ricchi vanno dall’ufficio a casa, dal negozio alla banca sempre di giorno e in auto, senza aprire i finestrini e con le porte bloccate perché può essere pericoloso. Le loro case sono più chiuse e controllate di un carcere: guardia giurata al cancello, allarme sul comodino, rete elettrica di recinzione o muro con filo spinato, allarme elettronico in casa, finestre con inferriate. E mentre i grattacieli salgono sempre più in alto, su fino al cielo, cresce l’ansia nel domani.
Gli spazi più vitali sotto questo aspetto sembrano essere gli slum, dove per necessità o altro, la gente sta iniziando a mettersi insieme per uscire dal vicolo cieco dell’individualismo e a costruire percorsi di cittadinanza, di diritto e solidarietà.
Il grande mistero è di che cosa viva tutta questa massa di persone. Di che cosa e «come».  Infatti, uomini e donne non si trovano qui perché la città ha bisogno di loro, ma solo perché la miseria li ha scacciati dalle campagne. Sono fuggiaschi, in cerca di salvezza e di sopravvivenza.
Mangiano tutto senza lasciare una briciola, nessuno ha provviste da parte, né saprebbe dove conservarle o rinchiuderle. Si vive alla giornata. Non è realistico pensare al futuro.
Nelle bidonville non vi sono inquilini fissi. È tutto un avvicendarsi di nomadi cittadini in continuo movimento.
A prima vista una baraccopoli si presenta come un’enorme stazione ferroviaria dove però non ci sono né treni né manager e impiegati, esiste solo il corollario: gente seduta, volti anonimi, traffici vari, sporcizia, via vai frenetico, come se ognuno avesse qualcuno da cui fuggire o da inseguire. È un luogo senza alberi alla cui ombra fermarsi a discutere o ascoltare gli anziani che raccontano una storia. È un luogo fatto di persone che stanno perdendo la memoria, che sanno sempre meno da dove vengono e non sanno dove andare. È anche un luogo di creatività, dove una vecchia lamina d’alluminio diventa una valigia, un barattolo si trasforma in una lampada, tanti piccoli pezzi di lamiera diventano una parete.
Ai lati delle strade, di là dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne cucinano chapati, friggono pesci, vendono frutta e verdura, biscotti, vestiti usati, lavano e asciugano la biancheria. Tutto in vista, quasi vigesse l’obbligo di uscire di casa alle sette del mattino e di riversarsi sulle strade. La ragione vera è un’altra: le abitazioni sono piccole, misere, anguste. Si soffoca, il tetto di lamiera moltiplica il calore del sole, blocca la circolazione dell’aria, manca il respiro. È nella strada che ferve la vita sociale. Si passa la giornata all’aperto in movimento tra la gente.                   

Di Fabrizio Floris

LE ORIGINI DEGLI SLUM

In tutta l’Africa sub-sahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le varie popolazioni indigene, il possesso della terra poggiava sul concetto di proprietà comune. La terra apparteneva alla comunità e veniva amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto aveva diritto di usare la terra e questo diritto variava a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità aveva il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili.
L’impatto del colonialismo su queste forme di distribuzione della terra è stato considerevole. I  modelli dell’organizzazione coloniale hanno modificato sia i rapporti esistenti tra le tribù, sia le relazioni all’interno delle tribù, con effetti progressivamente negativi. La conflittualità è così aumentata, favorendo anche l’insorgere di guerre, magari non sempre fisiologiche ma talvolta orchestrate ad hoc secondo il ben noto principio divide et impera. Ma l’impatto più radicale si è notato nelle città dove è stato instaurato il concetto europeo di proprietà terriera. Nasce il mercato della terra, le transazioni derivano dalla capacità economica dei contraenti, si sviluppa il gioco anonimo della domanda e dell’offerta che determina un incremento dei prezzi e una crescita della speculazione.

Nel periodo coloniale, agli africani fu negato il diritto di essere proprietari di terreni, così come era loro vietato costruire case. Di conseguenza, chi fra loro aveva il permesso di lavorare in città adattò il proprio concetto di utilizzo della terra all’interno della nuova realtà urbana. Del resto, gli africani alloggiati nelle città non potevano essere proprietari dell’abitazione, e questa misura serviva da garanzia del loro ritorno al villaggio una volta terminato il periodo.
Durante la loro residenza in città, questi lavoratori erano muniti di un permesso di occupazione a durata predefinita, di un permesso di abitazione revocabile in ogni momento e non trasferibile o ereditabile, di una concessione fondiaria che diventava definitiva solo quando si fossero completate varie formalità e a patto di avere rispettato tutti i regolamenti. Il governo della colonia limitava in ogni caso le possibilità degli africani di risiedere in modo permanente nelle aree urbane esclusivamente a chi possedeva un regolare contratto di lavoro e, comunque, non si poteva portare la famiglia, per la quale non erano previste strutture adeguate.
Nacquero così, e furono mantenuti, speciali «insediamenti indigeni» per gli africani, i quali, a causa dell’eccessiva espansione della città, furono successivamente trasferiti verso la periferia.

C on la fine del colonialismo, tuttavia, gli stati africani indipendenti hanno ereditato lo strabico  sistema di possesso della terra: da un lato è stato applicato il modello europeo di proprietà terriera, di cui usufruivano ovviamente gli europei, mentre dall’altro lato gli africani hanno dovuto inventare forme di adattamento loro proprie. In pratica, l’accesso alla terra risultava bloccato per gli africani. Ne è derivata, per contrappeso, la costruzione di case abusive, senza alcun tipo di servizio e in aree prive di infrastrutture.
Col tempo, il problema ha assunto dimensioni imponenti tanto che si è cercato di darvi soluzione attraverso le demolizioni. Si pensava che, in questo modo, le persone sarebbero ritornate ai villaggi di origine, ma il risultato, di certo non atteso, è stato un semplice spostamento di questi gruppi verso periferie contigue e più estee.
Successivamente, gli insediamenti si sono consolidati e per certi versi organizzati: è iniziata la commercializzazione delle abitazioni abusive, si sono diffusi i contratti di affitto, sono nate e cresciute sia le attività commerciali e sia quelle artigianali, mentre sorgevano le strutture di servizi. In pratica, i dormitori temporanei sono diventati luoghi permanenti, sono diventati «città».        

Fa. Flo.

Fabrizio Floris




GIù LE MANI DALL’AFRICA

CATTIVI RIMEDI PER UN CONTINENTE «MALATO»

Le risorse del continente africano continuano a far gola alle potenze di tutto il mondo. Wto, zone franche ed Epas sono le «armi» con cui il nuovo colonialismo economico di stampo liberista vuole impadronirsi di una ricchezza non sua. Ma anche una delle cause principali di fenomeni sociali come immigrazione e ghettizzazione nelle baraccopoli.
Una sfida per la missione di oggi.

Immigrati e bidonville sono una vetrina di povertà e miseria, frutto delle ricorrenti e aspre politiche commerciali, scritte e imposte dai potenti attori della scena internazionale.
Le città sono sempre state, per consuetudine secolare, il luogo nel quale i poveri hanno cercato rifugio perché minacciati, spesso dalla fame. E i periodi di depressione economica o post-bellici hanno avuto come effetto collaterale la fuoriuscita di milioni di persone dall’Europa alla ricerca di lavoro e speranza altrove.
L’Africa, nella sua recente storia, ha subito l’esodo dalle campagne come contraccolpo della politica dei prezzi agricoli, della deregulation, del dumping e dal protezionismo praticate negli anni ‘80 dalle discipline finanziarie imposte dagli organismi inteazionali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale.
In Africa, il 70% dei lavoratori è impiegato nel settore agricolo e il 95% delle terre coltivate è gestito da imprese familiari. Coltivano prodotti destinati al commercio di prossimità, cioè a mercati e piccoli negozi dove si rifornisce la maggior parte dei consumatori africani. La struttura produttiva venne definita nel periodo coloniale: grandi monoculture di materie prime agricole destinate all’esportazione (cacao, zucchero, caffè…), a svantaggio delle coltivazioni per il consumo interno.
Quando negli anni ‘60 sempre più paesi dell’Africa cominciarono a ottenere l’indipendenza, l’esigenza di mantenere l’architettura delle monoculture, tanto funzionale al Nord del mondo, spinse le ex potenze coloniali a stipulare degli accordi con i nuovi stati africani. Si arrivò così alla Convenzione di Yaoundè (1964) e, in seguito, alle quattro Convenzioni di Lomè (dal 1975 al 2000) che stanziavano somme ingenti per gli aiuti allo sviluppo e stabilivano delle corsie preferenziali per le merci provenienti dalle ex colonie senza chiedere in cambio una reciproca apertura di mercato.
La svolta avvenne quando si passò dal riconoscimento del diritto che i paesi in via di sviluppo avevano di proteggere le proprie giovani economie a un approccio di classico stampo liberista il cui credo postulava che l’apertura dei mercati avrebbe prodotto di per sé quello sviluppo a cui anelavano i paesi più poveri.
Fu l’epoca dei grandi Piani di aggiustamento strutturale (Pas) voluti da Fmi e Banca mondiale, che imposero l’abbandono dei meccanismi di sostegno e di protezione sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre più ampi dell’economia nazionale che, quasi ovunque, era ancora prevalentemente statale. Furono anche i tempi della cosiddetta «rivoluzione verde» che coltivava l’idea di un’agricoltura sempre più industrializzata e tecnologica per sfamare il mondo.
In cambio dei soldi ricevuti per la loro «modeizzazione» i paesi del Sud furono costretti a privatizzare o svendere risorse e servizi pubblici. A seguito della crisi del debito generato da quei prestiti, l’Africa fu costretta a rinunciare alla propria sovranità alimentare, cedendo terre su terre agli investimenti stranieri, in cambio di grandi coltivazioni di prodotti il cui prezzo è sceso di anno in anno.
Una situazione che si è protratta fino ai nostri giorni e della quale hanno approfittato le grandi imprese dell’agrobusiness presenti in Africa. Attraverso la concessione di terreni e agevolazioni e creando delle zone franche per l’esportazione, nel corso di pochi anni queste imprese hanno incentivato la produzione per l’esportazione e abbassato notevolmente il prezzo dei prodotti agricoli, costringendo numerosi piccoli produttori a vendere la loro merce a un prezzo inferiore al costo di produzione.

LE CONSEGUENZE SOCIALI
Il risultato delle liberalizzazioni previste dai Piani di aggiustamento strutturale è stato spesso rovinoso per il settore agricolo, e catastrofico sul piano sociale. Per riprendere una dichiarazione del Commissario allo sviluppo della Commissione europea, Louis Michel: «Nella prima fase delle liberalizzazioni – come si è visto nei paesi dell’Est europeo – ci sono spesso catastrofi sociali».
Gli esempi sono molteplici: in Costa d’Avorio, dopo la riduzione del 40% delle tariffe decise nel 1986, i settori tessile, chimico, dell’abbigliamento e dell’assemblaggio automobilistico collassarono, producendo un’emorragia di posti di lavoro.
In Senegal, fra il 1985 e il 1990, dopo l’applicazione di un programma di liberalizzazioni che aveva ridotto le tariffe doganali dal 165 al 90%, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti.
Nel Ghana, 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il 1993, dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo.
In Kenya, i settori del tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento del vetro e del pollame dovettero lottare duramente per reggere la competizione delle importazioni da quando, nel 1993, venne lanciato un radicale piano di liberalizzazioni degli scambi in linea con un programma di aggiustamento strutturale targato Fmi/Banca mondiale.
Fra il 1993 e il 1997 la crescita industriale nel paese è scesa del 2,6%, tra il 1991 ed il 2000 il paese ha raddoppiato le sue esportazioni agricole e quadruplicato le sue importazioni alimentari.

POLITICHE ECONOMICHE
Alla fine degli anni ‘90, le riforme del commercio internazionale hanno ricevuto un impulso straordinario grazie alla nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in sostituzione dell’Accordo sul commercio e sulle tariffe (Gatt). Lo scopo di questa organizzazione è quello di redigere e far rispettare delle regole uniformi per il mercato mondiale.
Come condizione per entrare nel Wto viene richiesto ai singoli paesi di eliminare ogni ostacolo al «libero scambio delle merci», principalmente gli strumenti tradizionali con i quali gli stati sostengono le proprie economie: le tariffe doganali, la scelta di sostenere alcuni settori produttivi fino al controllo dei prezzi dei generi di prima necessità.
Ogni trattamento preferenziale non è più possibile in quanto considerato «concorrenza sleale» nei confronti dei prodotti di altre nazioni. Questo livellamento del terreno di gioco, auspicabile idealmente, in pratica ha finito per favorire soltanto gli attori più forti a livello economico e le grandi industrie multinazionali che possono vendere i loro prodotti all’interno di un paese in via di sviluppo a un prezzo nettamente inferiore a quello del mercato interno. Il risultato di questa politica di dumping è che l’economia ristagna e la gente, non trovando opportunità di lavoro e profitto in casa propria, si dirige verso le grandi città ingrossando la massa delle baraccopoli oppure fugge all’estero. Mentre le multinazionali comperano a prezzi stracciati le terre abbandonate.
Tra le condizioni previste dai programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale per accedere a nuova liquidità presso i creditori inteazionali e alla dilazione del pagamento dei servizi del debito estero, c’era l’apertura dei paesi africani agli «Investimenti diretti esteri» (Ide). Anche in questo caso, i costi ambientali e sociali sostenuti sono stati enormi. Non potendo offrire condizioni economiche ottimali (mercati, infrastrutture, stabilità), alcune nazioni africane – per attirare tali investimenti, in sintonia con la logica dei Pas – hanno fatto leva sulla deregolamentazione del settore, promuovendo la nascita di zone franche per l’esportazione, garantendo alle imprese straniere esenzioni fiscali, completa libertà di rimpatrio dei profitti ed assenza di vincoli di natura sindacale e ambientale.
Nascono così le Export Processing Zones (zone franche per l’esportazione). Le zone franche si sono rivelate delle isole di profitto per le multinazionali, di sfruttamento dei lavoratori e, soprattutto, lontane dai bisogni reali della gente. Il Kenya, un paese che non è autosufficiente a livello alimentare, ha 43 zone franche, di cui 28 operative, tra le quali quelle dedite alla coltivazione ed esportazione di fiori in Europa.
In queste zone i livelli salariali sono molto bassi, i tui di lavoro in media di dodici ore e gli standard di sicurezza insufficienti. Inoltre, non sempre hanno creato nuovi posti di lavoro. Le imprese minerarie straniere in Ghana tendono ad impiegare personale specializzato straniero piuttosto che locale. Gli investitori stranieri in Sudafrica fanno largo ricorso a contratti di lavoro flessibili con l’obiettivo di abbattere i costi di produzione.
In ogni caso, dove vengono creati nuovi impieghi, come nel tessile e nel settore dei prodotti vegetali, i lavoratori sono sfruttati, sotto pagati ed i loro diritti non rispettati.
Attoo alle zone franche i piccoli produttori vengono messi fuori dal mercato locale perché non in grado di competere con le imprese straniere. Inoltre, appena si presentano nuove opportunità per aumentare i profitti, le grandi industrie hanno la tendenza a muoversi rapidamente fuori e dentro il paese, lasciando molte persone improvvisamente senza impiego e senza dare loro il corrispettivo spettante per gli ultimi mesi di lavoro.
È in atto un nuovo tipo di colonizzazione economica neoliberista che non mira alla conquista dei paesi, bensì dei mercati, delle materie prime e delle risorse.
L’Africa sub-sahariana è la regione del mondo con il più basso tasso di sviluppo umano, indice che comprende – oltre alla ricchezza pro-capite – indicatori come l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, l’accesso alle risorse essenziali quali cibo e acqua potabile.
Dei 40 paesi considerati oggi poverissimi ben 34 si trovano nell’Africa sub-sahariana; negli ultimi 20 anni secondo la Banca mondiale, il loro reddito medio è diminuito da 400 a 300 dollari l’anno; secondo la Fao dei 50 paesi che ancora oggi soffrono la fame, 30 si trovano in Africa.
La descrizione di un continente che lentamente va alla deriva sospinto dalla pandemia dell’Aids e dei conflitti e guerre «a bassa intensità», commistione di poteri locali corrotti e forti interessi inteazionali.
Si sta ridisegnando l’Africa secondo una strategia della spartizione, un apartheid tra isole ricche da proteggere con le armi e oceani di poveri da abbandonare ai massacri, agli aiuti umanitari, oppure reclusi nelle fatiscenti città ombra ai margini delle grandi città e del mondo intero.
Per tutti noi l’Africa è malata! Ha bisogno di aiuto. Ma il suo dottore, l’Occidente «benefattore» sa ben sfruttare i suoi malanni.

LA RICETTA EUROPEA
Epas è l’acronimo inglese di «Economic Partnership Agree­ments» (accordi di partenariato economico) che, dal 27 settembre 2002, l’Unione europea sta negoziando con 77 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (i cosiddetti paesi Acp). L’obiettivo è quello di creare, a partire dal 1 gennaio 2008  un’area di libero scambio.
Ufficialmente, gli Epas si propongono come fine principale la riduzione e infine l’eliminazione della povertà, in linea con gli obiettivi di uno sviluppo durevole e della progressiva integrazione dei paesi Acp nell’economia mondiale.
In realtà il modello di liberalizzazione proposto dall’Europa rientra nella strategia di creare maggiori opportunità di esportazione per le proprie imprese. Per i paesi Acp i benefici rimangono incerti mentre sono certi gli effetti negativi.
L’Unione Europea ha spinto affinché questi accordi fossero fondati su una rigida interpretazione delle regole del Wto, prevedendo l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra Europa e paesi Acp ed annullando di fatto, come richiesto dal Wto al massimo entro il 2008, le condizioni preferenziali e non-reciproche concesse dall’Unione Europea in favore dei paesi più poveri e vigenti da diversi decenni.
Dietro la maschera di una «cooperazione per lo sviluppo» l’Unione Europea sta di fatto riproponendo attraverso gli Epas la propria agenda liberista sostenuta in ambito Wto.
I paesi Acp che aderiranno agli Epa dovranno aprire i loro mercati domestici a quasi tutti i prodotti europei nel giro di un periodo che andrà dal 2008 al 2020.
Inoltre, il processo prevede la liberalizzazione del settore dei servizi, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la standardizzazione delle certificazioni e delle misure sanitarie e fitosanitarie, la definizione di regole di concorrenza e di promozione e difesa degli investimenti delle imprese estere.
Questo processo rischia di cancellare entrate fiscali fondamentali per i bilanci statali e di mettere in ginocchio le industrie di paesi fra i più poveri del pianeta.
Insomma l’Europa, dopo aver sfruttato le sue colonie, aver sottratto all’Africa materie prime e esseri umani attraverso la tratta degli schiavi, continua la via dello sfruttamento, promuovendo una partnership basata sulle proprie regole e sui propri interessi, proponendosi ipocritamente come sensibile e attenta ai loro interessi.
Gli Epas non sono strumenti di sviluppo, ma la loro filosofia è di carattere commerciale; per questa ragione la giurisdizione sui negoziati è stata affidata al Commissario europeo al Commercio e non a quello allo Sviluppo.
Tutte le analisi indicano che il peso dei cambiamenti introdotti dagli Epas sarà scaricato esclusivamente sulle spalle dei paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Con l’aggravante che gli Epas mettono in pericolo il fragile processo di integrazione regionale, fondamentali nelle strategie di sviluppo dei paesi Acp, esponendo i produttori di quei paesi ad un’impari concorrenza con l’Europa nei mercati interni e regionali.
In particolare, l’Unione Europea ha deciso di avviare sei negoziati: quattro con diverse regioni africane, e uno ciascuno per i paesi di Caraibi e Pacifico. Questa suddivisione dell’Africa in quattro regioni non tiene in nessuna considerazione la realtà politica e storica del continente africano e gli embrioni di alleanze economiche regionali che lì si stanno faticosamente costituendo.
Si ripete così la spartizione dell’Africa, già un tragico errore del periodo colonialista, senza nessuna considerazione per le realtà locali, questa volta però inserita in una strategia geopolitica globale: attraverso gli Epas l’Europa intende rispondere agli analoghi negoziati di libero commercio che stanno portando avanti il Giappone, tramite il Ticfad (Tokyo Inteational Con­fe­rence For African Development) e gli Usa con l’Agoa (Africa Growth Opportunity Act) e all’intromissione di un outsider: la Cina, con i suoi recenti cospicui investimenti in Africa.
La posta in gioco è sempre la stessa: l’accesso a basso costo alle enormi materie prime del continente africano, a partire dalle risorse minerarie e dai prodotti agricoli. Come sostiene Eveline Herfkens, cornordinatrice Onu per gli Obiettivi di sviluppo del millennio: «Gli Epas sono davvero un problema per i paesi poveri. Questi non hanno né il tempo né le capacità per negoziare degli accordi forti con l’Unione Europea».
Anche la saggezza di un proverbio africano esprime bene la concorrenza impari fra i Paesi Acp e l’Europa: «È come una gara fra una giraffa e un antilope per la frutta sui rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai concorrenza leale».
Gli Epas non sono la cura giusta, ma uno scandalo truccato dalla retorica della cooperazione e un’ipoteca definitiva sulle possibilità di sviluppo dell’Africa. Che così continuerà ad essere un serbatornio di tragedie, a produrre gli slum e gli immigrati perché i contadini continueranno ad abbandonare le terre e migliaia di uomini e donne disperati lasceranno il continente per essere schiavizzati sulle strade delle metropoli di tutto il mondo.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Soweto vede la luce

Un progetto pilota per la riabilitazione delle baraccopoli di Nairobi

Storia di una comunità che vuole trasformare lo slum in cui vive e del progetto che si incaricherà
di coronare questo sogno. Con l’aiuto della parrocchia, del Comune di Nairobi, delle Nazioni Unite e del Goveo italiano.

Mama Esther ha un’età indefinibile; la diresti giovane per l’entusiasmo che anima i suoi occhi, ma il suo volto porta inequivocabili segni di stanchezza dovuti ai 25 anni passati a Soweto, vivendo e tirando su figli in questo ammasso di stradine che chiudono il quartiere di Kahawa, a Nord di Nairobi.
Soweto-Kahawa West è uno slum, uno dei circa 200 insediamenti abusivi urbani che costellano la grande metropoli kenyana, vera e propria galassia di formicai umani. Un chilometro quadrato di terra polverosa, adagiato lungo la linea ferroviaria Nairobi-Naniuki, in cui circa 6 mila persone vivono ammassate, in una situazione di degrado ambientale e sociale ai limiti della sopravvivenza: baracche fatiscenti, costruite «a casaccio», senza un’adeguata progettazione; strade strette, quasi dei sentirneri schiacciati fra le pareti di legno e fango delle case; assenza totale di impianti igienico-sanitari e di spazi aperti, per permettere una minima socializzazione fra le persone dell’insediamento.
Niente di tutto ciò. Questa è Soweto fin dai giorni delle sue origini, immediatamente successivi all’indipendenza del Kenya (1963), la Soweto che Mama Esther ricorda, in cui ha sempre vissuto fino a oggi, anzi… fino a «ieri».
Sì perché, in effetti, oggi a Soweto sta accadendo qualcosa di diverso, di unico, di speciale, quel «qualcosa» che riempie di luce e di orgoglio gli occhi di Mama Esther e degli altri abitanti dello slum: l’area sta cambiando, rinascendo, vivendo una fase della sua storia che fino a pochi anni fa sarebbe stata assolutamente inconcepibile.
Soweto-Kahawa West si propone, oggi, come modello per il Kenya Slum Upgrading Program (Kensup), un programma per la riabilitazione e lo sviluppo degli slum della nazione che il governo del Kenya ha lanciato nell’aprile del 2006, stanziando la cifra di 880 miliardi di scellini per i prossimi 14 anni (10 miliardi di Euro).
L’opera di miglioramento ha potuto prendere il via grazie a un progetto elaborato dalle Nazioni Unite-Habitat, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo italiano con la cifra di 240 mila dollari.
L’intervento dell’Italia è anche frutto della campagna «WNairobiW», iniziativa promossa da un gruppo di associazioni e Ong italiane e keniane contro la demolizione degli slum e il diritto alla terra. La campagna ha inoltre insistito sulla proposta di riconversione del debito del Kenya verso l’Italia, di circa 44 milioni di Euro.
L’accordo, siglato il 27 ottobre scorso, impegna il governo del paese africano a investire, per un periodo di dieci anni, 4,4 milioni di euro in progetti di sviluppo a favore delle zone degradate, urbane e rurali, del paese.
Inoltre, Soweto rappresenta un frutto significativo dell’attività dell’organizzazione Kutoka-Exodus Network, che riunisce 15 parrocchie cattoliche presenti negli slum e che dai suoi inizi si è battuta per migliorare la qualità di vita e la difesa dei diritti fondamentali degli abitanti delle baraccopoli.
La scelta di iniziare questo programma di upgrading proprio da Soweto è stata fatta grazie all’impegno della comunità, organizzatasi per difendere il diritto di abitare nell’insediamento e di migliorare gradualmente il livello di vita al suo interno.
Già nel 1998, per proteggersi dalle pretese di alcuni speculatori che millantavano la proprietà dei terreni, gli abitanti si erano riuniti in comitato, presentando un reclamo alle autorità locali e dichiarandosi nel medesimo tempo idonei alla proprietà del territorio che, come in altri casi di insediamenti abusivi, appartiene allo stato.

Il cammino della comunità è stato accompagnato in tutti i suoi passi dalla parrocchia di Kahawa-West, amministrata dai missionari della Consolata e partner fondamentale in quest’opera di riabilitazione dello slum. Soprattutto negli ultimi due anni, la collaborazione fra parrocchia e comunità si è fatta più stretta e ha condotto  ai risultati che oggi si possono toccare con mano.
L’impegno della gente è stato fondamentale. Lo riconosce padre Franco Cellana, oggi superiore provinciale dei missionari della Consolata in Kenya. È lui la mente del progetto di riabilitazione sin dal giorno in cui è entrato alla guida della parrocchia di Kahawa West.
«Dal gennaio 2004 ad oggi si sono fatti grandi passi in avanti e tutto ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento degli abitanti di Soweto che, attraverso i loro rappresentanti, hanno saputo coinvolgere le persone, facendo comprendere loro l’importanza di queste proposte. È da due anni  – continua padre Franco – che lavoriamo con la gente, raduniamo la popolazione, in un processo graduale, lento e faticoso, per superare le diffidenze, le rivalità e la speculazione selvaggia da parte dei proprietari delle baracche, che vivono fuori dallo slum e chiedono affitti esorbitanti anche su pezzi di lamiera vacillanti sorretti da mura di argilla».
Sammy Chomba e Peter Kamau rappresentano la voce della comunità e due diverse generazioni di abitanti di Soweto.
Il primo è, dal 2004, il presidente del Comitato per la riabilitazione dello slum. Eletto dagli stessi abitanti, è anche il responsabile per tutti gli affari interni della comunità. Quando sorge un problema o c’è una disputa fra residenti è a lui che tocca intervenire.
È un uomo silenzioso e quando inizia a raccontare la storia del progetto sembra persino intimidito. Fino a quando chiede il permesso di esprimersi in Kiswahili, lasciando a Peter il compito di tradurre in inglese. Le parole escono lentamente, ma fluide, facendo intuire a chi lo ascolta l’autorità che Sammy riveste all’interno dello slum. La memoria scava e va alla radice del problema, legato al possesso della terra.
«La grande difficoltà – dice – sta nel fatto che non esiste nessun documento legale che garantisca la proprietà del terreno su cui sorge lo slum. Il terreno appartiene al governo, mentre ci sono molti proprietari di baracche che vivono al di fuori dello slum e alle quali la gente deve pagare un affitto, talvolta molto alto. Il cammino intrapreso è stato quello di fondare una sorta di cornoperativa che rappresenti tutti gli abitanti di Soweto e a cui venga ceduta collettivamente la proprietà della terra».
Peter Kamau, è il segretario della comunità. Spetta a lui fornire i dati tecnici del lavoro che si sta portando avanti. «Attualmente siamo alla prima fase del processo di miglioramento dello standard di vita di Soweto.
Il primo grosso impulso è stato dato dall’installazione di un grande palo della luce in grado di illuminare a giorno le buie notti nello slum. Il lampione, alto 40 metri, ha di fatto cambiato la vita della comunità, rendendo le strade sicure e la comunità molto più tranquilla.
Sebbene Soweto non abbia mai avuto i problemi di criminalità che si presentano in altri slum della città, il cambio è stato radicale. Se di giorno si poteva camminare anche prima relativamente sicuri per le strade, di notte si verificavano episodi di criminalità, anche con una certa frequenza. Oggi si può vivere e dormire tranquilli, senza più paura di aggressioni, furti o accoltellamenti».

La prima fase di miglioramento dello slum prevede innanzitutto l’ampliamento di quattro strade per poter permettere di raggiungere con un veicolo il centro dell’abitato. Questo è un passo avanti fondamentale.
SL’attuale rete viaria del quartiere non consente la circolazione su quattro ruote, rendendo impossibile l’intervento di un’ambulanza o dei pompieri in caso di emergenza.
Inoltre, in questi mesi sono stati costruiti cinque complessi sanitari e tre depositi per l’immondizia, un tempo ammassata ai lati delle abitazioni e causa di malattie e infezioni fra gli abitanti. «Questi depositi devono servire anche al recupero di materiali che possono essere riciclati, dando così un’opportunità di lavoro ad alcuni abitanti dello slum. Inoltre – continua Peter – è stato costruito il Resource Centre, sede del Comitato per la ristrutturazione di Soweto e salone comunitario multifunzionale. Infine, si è anche iniziata la ristrutturazione di alcuni degli attuali spazi abitativi. La prima fase prevede la sistemazione di 130 strutture delle 304 (su 676 totali) che si prevede di mettere in ordine».
Sl lavoro di ampliamento delle strade, di messa a punto di alcune abitazioni e di costruzione delle unità sanitarie e dei depositi di immondizia non è stata un’impresa facile. Molte famiglie hanno dovuto esser ubicate altrove e alcuni proprietari delle strutture si sono inizialmente opposti all’iniziativa vedendo toccati i loro interessi.
A questo riguardo è stata fondamentale l’opera attuata dal Comitato della comunità. Alcuni incaricati si sono fatti carico di responsabilizzare gli abitanti, cercando di far loro intendere i benefici derivanti da uno sforzo collettivo per il bene comune.
«Del resto – ha aggiunto il segretario – la gente ha iniziato a vedere un cambiamento in atto. La gente si è convinta e ora è contenta perché tocca con mano il miglioramento che si vuole dare al posto dove viviamo. La speranza diventa più forte quando si vedono dei risultati e quando si incontrano delle persone che desiderano aiutarci. Vogliamo che Soweto diventi un posto differente, che non venga più equiparato ad altri slum. Anzi, cerchiamo di usare la parola «slum» il meno possibile. Quelli di fuori definiscono Soweto in questo modo, ma noi preferiamo chiamarla «villaggio» e fare di tutto per cambiare la percezione che anche gli altri hanno di noi».

Oggi, Mama Esther è la store-keeper della comunità, ovvero la persona che si incarica di ricevere il materiale che serve per i lavori di costruzione e ristrutturazione; lo immagazzina, ne tiene un registro e si incarica di farlo trasportare lì dove c’è bisogno.
Anche lei pensa che Soweto possa diventare un posto diverso, dove far crescere i bambini che adesso frequentano un affollatissimo asilo pieno di allegria e di colori e sognare per loro un altro mondo possibile. È stato il lavoro di tanti a dare a questo posto un aspetto diverso. Lo stesso padre Franco si dice stupito della sua gente.
Due anni fa aveva incontrato una comunità che iniziava a darsi un’organizzazione e, soprattutto, era desiderosa di crescere. Oggi, ha davanti una realtà in cammino.
Il lavoro da fare rimane molto; il progetto Soweto prevede una seconda fase nella quale si ultimerà la costruzione di altri cinque unità di servizi igienici, altrettanti raccoglitori di immondizia e, soprattutto, si darà il via alla costruzione di 80 nuove case in muratura, piccole abitazioni a due piani che daranno al luogo un aspetto finalmente dignitoso.
Mama Esther ci crede e lavora per questo. Vede, attraverso i suoi profondi occhi neri, le nuove possibilità che il processo di riabilitazione potrà offrire in futuro. Il suo pensiero corre soprattutto alle donne, le persone più legate al «villaggio» a causa della loro condizione di madri.
Mary, la segretaria della parrocchia che dall’inizio accompagna il processo di riabilitazione chiarisce bene il concetto: «Gli uomini, vanno e vengono, sono più liberi. La maggior parte delle donne, invece, sono sole, con più figli a carico e quindi rimangono bloccate il questo posto. Alcune di loro riescono a coltivare qualcosa da andare a vendere al mercato di Kahawa, altre raccolgono un po’ di stracci o vestiti usati, ma a volte le bocche da sfamare sono tante e le entrate molto poche. Pensare – dice con rammarico – che alcune di noi sarebbero anche preparate professionalmente, avrebbero la capacità di iniziare una propria attività se non avessero problemi di finanziamento. Invece, alcune devono vivere con il piccolo aiuto che altre donne della comunità riescono a fornire; si mette insieme qualche scellino, un po’ di farina e un mese si aiutano tre madri, il mese successivo altre tre. Sarebbe tutt’altra cosa se si potessero creare delle piccole imprese all’interno di Soweto».
Non lo dice con il tono di chi sta sognando ad occhi aperti, ma di chi vede il futuro partendo da un progetto concreto, una prospettiva completamente diversa, che apre lo spazio alla speranza. Domani, a Soweto, sarà davvero un altro giorno.

Di Ugo Pozzoli

Soweto: l’inaugurazione

UN LAVORO DI SQUADRA

I l 23 gennaio 2007, nel pieno svolgersi del World Social Forum, Soweto ha vissuto un giorno memorabile. Alla presenza della vice Ministro degli Esteri del Goveo italiano, Patrizia Sentinelli, del rappresentante dell’organismo della Nazioni Unite per l’ambiente, dottor Daniel Biau, dell’ambasciatore italiano Enrico De Maio e del sindaco di Nairobi, sig. Dick Wathika, sono state inaugurate alcune costruzioni per la riabilitazione della vita degli abitanti dello slum previste da un progetto elaborato dalle Nazioni Unite, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo Italiano con la cifra di 240 mila dollari.
Abbiamo chiesto alla onorevole Sentinelli e al sindaco Wathika che condividessero con noi il loro pensiero a proposito di questo avvenimento.
MC: Onorevole, che cosa significa un progetto come questo per il Goveo italiano e per il Kenya?
On. Sentinelli: È un progetto importante e significativo per la realtà di questo slum, ma penso possa essere considerato un progetto pilota anche per altre situazioni come, per esempio, il grande slum di Korogocho. Abbiamo siglato un accordo con il governo del Kenya di riconversione del debito. Nel regolamento operativo di questo accordo vorremmo chiedere alla controparte che i fondi che abbiamo messo a disposizione vengano effettivamente destinati al recupero di particolari aree degradate, sia urbane che rurali. Vogliamo essere ambiziosi, ma sapere anche che le cose si costruiscono passo dopo passo; basta farlo con coerenza, semplicità e rigore.
MC: Quindi questo potrebbe essere davvero l’inizio di un cammino di utilizzo dei soldi della riconversione per la riabilitazione degli slum di Nairobi?
On. Sentinelli: Penso che i soldi della riconversione siano un primo passo, non sufficiente. Come Goveo, potremmo essere tra coloro che attraggono finanziamento di cooperazione anche dalle regioni, per costituire un sistema virtuoso, un «sistema-paese». Mettere insieme gli sforzi di tutti, quelli del Goveo, come quelli delle Ong e della cooperazione decentrata può servire meglio allo scopo.
MC: Signor sindaco, è una grande giornata per Soweto. Che cosa ne pensa di questo processo? Può essere l’inizio di un processo continuativo che miri al miglioramento anche di altri slum di Nairobi?
Wathika: Come sindaco sono molto grato per tutto quanto il Goveo italiano ha fatto per noi e per il lavoro svolto dall’ambasciata italiana. Speriamo che la collaborazione continui, la presenza del vice ministro degli esteri italiano lo conferma. Vorrei anche invocare l’intervento di altri governi che possano appoggiare l’opera di riabilitazione di altre baraccopoli.
MC: Quali sono le difficoltà più grandi da superare per poter arrivare a ultimare l’upgrading di queste aree?
Wathika: Senz’altro quelle riguardanti la proprietà dei terreni. Molte persone che vivono in uno slum stanno occupando abusivamente delle terre non loro. La parte più difficile sta nel regolare le questioni che sorgono fra i proprietari delle abitazioni, il proprietario dei terreni, cioè lo stato, e chi ci vive. La maggior parte dei proprietari delle abitazioni non vogliono il risanamento dello slum, in quanto preferiscono percepire gli affitti di chi abita le baracche. Fortunatamente, nel caso di Soweto non si presenterà questo problema. La terra diventerà di proprietà collettiva della comunità.
MC: In questi mesi si è formata una bella équipe. Pensa che questo «lavoro di squadra» possa funzionare anche per gli altri slum di Nairobi?
Wathika: L’approccio deve essere lo stesso. La gente dello slum e l’autorità locale devono avvalersi dell’esperienza tecnica delle Nazioni Unite e anche della chiesa. L’appoggio della chiesa è molto importante perché la gente ascolta ciò che la chiesa dice e di lei si fida.

Ugo Pozzoli




Creare «reti complesse»

La voce della Regione Piemonte, intervista a Giorgio Garelli

Il dottor Giorgio Garelli lavora al Settore Affari Inteazionali e Comunitari, Gabinetto della Presidenza della Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega, vedi box).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «intea» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre – quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800  enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione intea.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?
In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?
Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il cornordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni inteazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

a cura di Ma.B.

Marco Bello




Sitema Italia cercasi

Il valore aggiunto della cooperazione tra enti locali

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio

In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. è espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment (vedi glossario, ndr). Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto

Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1. L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni inteazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord – Sud.

Risorse in aumento

Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Intea­zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or­ga­nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio­ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’inteazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni inteazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»

Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e cornordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e cornordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

Di Andrea Stocchiero

Andrea Stocchiero




Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai: lo «storico» della decentrata

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.  

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato,  anche nell’ambito della cooperazione internazionale.  Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza  delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario.  La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere  sulla  politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli   obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni  pubblici e governativi.

 a cura di Ma.B.
Per scambi d’opinione : italia@lvia.it

Marco Bello




L’unione fa la forza

Cocopa: oltre la sigla

Fino a qualche anno fa le attività inteazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Ceobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di inteazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace

Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e cornordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento,  la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa

è un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni…), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

Di Edoardo Daneo

Edoardo Daneo




Quando le città (italiane) vanno in Africa

I perché della «cooperazione decentrata»

Negli ultimi dieci anni chi si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo ha visto crescere un fenomeno nuovo. Le città italiane, così come province e regioni hanno iniziato a interessarsi sempre più ai comuni e alle entità loro simili in Africa e America Latina. Sono nati cornordinamenti per la pace tra comuni italiani e altri enti territoriali.
Piccole quote dei bilanci comunali sono state allocate a progetti di cooperazione nel Sud del mondo, mentre alcune regioni e province si sono connotate come promotrici e finanziatrici di cooperazione.
Il fenomeno non coinvolge solo l’istituzione, ma questa funziona da «attivatore» delle realtà sul proprio territorio. Così associazioni di base e di categoria, istituti scolastici di vario grado, università, parchi, hanno creato le loro iniziative per mettere il proprio «mattone» di sviluppo in qualche sperduto paese africano o latino americano. Non senza commettere errori o prestare il fianco alle critiche.

Spesso tanti micro interventi su un territorio non creano sviluppo, ma arricchiscono qualche personaggio locale, oppure creano ancora più disuguaglianze. Fondamentale è l’approccio territoriale. Questo significa avere uno sguardo che coinvolge le diverse competenze di un comune italiano. Ma anche affrontare il tema dello sviluppo locale in un territorio lontano in modo integrato e con conoscenze in materia. Per questo, per interessare i territori, l’ente locale diventa l’istituzione più adatta a interagire con un ente analogo in un paese povero. Chi meglio conosce, o dovrebbe conoscere, il proprio territorio, da entrambe le parti.

C’è poi la questione della politica della cooperazione, che su base locale è, necessariamente, di competenza degli enti locali (che non dovrebbero essere in conflitto con le linee guida della cooperazione governativa). Per quanto riguarda le conoscenze tecniche e di contesti così diversi dal nostro è obbligatorio farsi accompagnare da chi queste tematiche le affronta da sempre come propria missione: le Ong di sviluppo e talvolta gli istituti missionari. Sono loro i veri «traduttori culturali» oltre che i tecnici dello sviluppo.

Nasce così un modo di fare cooperazione «dal basso» che coinvolge decine di attori diversi (ed è questa la grossa difficoltà dell’approccio), ognuno dei quali deve mantenere il proprio ruolo. Una cooperazione che ha tutte le caratteristiche per essere quella più vicina alla gente, del Sud come del Nord. Infatti un effetto positivo della cooperazione decentrata è che le ricadute sono anche nei nostri comuni, dove si crea maggiore conoscenza, sensibilità e forse si formano le coscenze per nuovi stili di vita. Perché per creare sviluppo, è obbligatorio passare attraverso a  una nuova redistribuzione di risorse e di consumi, a livello planetario.

                                                                                   Marco Bello

Marco Bello