Le isole infelici delle grandi metropoli
Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni, rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.
Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island), segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.
Di Fabrizio Floris
Fabrizio Floris