A testa alta e denti stretti

Da Kartum a Gidel: per conoscere le popolazioni nuba

Un viaggio nel cuore dei Monti Nuba, per raccontare il dramma del popolo nuba, isolato e martoriato da decenni di guerra, ma sempre colmo di fierezza e tanta voglia di vivere. La guerra è finita da poco; le organizzazioni umanitarie hanno rotto l’isolamento; cominciano a sbocciare fiori di speranza. Ma il futuro è ancora incerto: la pace non è ancora garantita.

Tra le città africane Khartoum è la più africana. Il colpo d’occhio che si ha dall’alto è quello di un grande villaggio fatto di case costruite in terra, il colore dominante è quello della sabbia, insieme al giallo ocra. È passato poco più di un anno dall’ultima volta che sono atterrato in questo angolo di mondo, ma tutto, mi sembra diverso, a parte la polizia dell’aeroporto.
Nel precedente viaggio avevo percorso le piste del deserto nell’antica Nubia dei faraoni neri, con le sue piramidi e storia millenaria. Oggi il viaggio da affrontare è ben diverso: non c’è nulla di archeologico da scoprire, nessuna storia lontana da capire; l’obiettivo è molto più vivo e attuale: conoscere il popolo nuba e la sua quotidianità.
La zona abitata dai nuba copre un’area montagnosa molto vasta, posizionata quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il paese più grande dell’Africa. Raggiungere questa terra non è facile; lo si può fare in due modi: con un volo dal Kenya messo a disposizione dalle Nazioni Unite, una volta alla settimana; oppure, via terra, dalla capitale sudanese con un viaggio molto più interessante, ma anche più impegnativo.
Ho scelto la seconda via, perché m’interessava conoscere in modo profondo il dramma di questo popolo uscito da una guerra durata più di 20 anni. Facendomi catapultare direttamente sui Monti Nuba avrei perso il filo cucito dalla storia recente, non avrei visto e capito il cammino che ha generato l’odio verso questi gruppi etnici.

PERMESSI E CONTROLLI
Seguire l’itinerario via terra, da Khartoum, non è stato facile. Ci sono voluti tre mesi per ottenere dei permessi dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla, Sudan People’s Liberation Army), un mese per il visto del governo sudanese, qualche giorno per il permesso giornalistico di scattare fotografie e qualche ora per il travel permit (permesso di viaggio). Solo quando è stato tutto regolamentato, secondo la legge, sono potuto partire.
Ho affittato una vecchia ma affidabile Toyota 60. L’autista si chiama Jamal: sarà lui, per quasi un mese, il mio unico compagno di viaggio. Jamal è un tipo sveglio, ha già provveduto alle scorte alimentari; nella dispensa ancorata nel baule del fuoristrada c’è di tutto: scatolette di carne, pasta, frutta sciroppata, verdure, acqua… Non manca nulla. Un rifoimento veloce alla prima pompa di gasolio e siamo in marcia, direzione: tutto sud.
Dopo aver superato i controlli di polizia in uscita dalla capitale, si percorre la strada asfaltata in direzione di Kosti, che dista solo 350 chilometri. Non perdiamo tempo, solo qualche sosta per il pranzo e per il rifoimento. La voglia di arrivare nel cuore del viaggio è ossessionante e non posso permettermi di fare il turista.
I primi intoppi arrivano a El Obeid, la capitale del Kordofan. La polizia, che da queste parti si fa chiamare Security, ci blocca mentre percorriamo le vie centrali del souk. Jamal non desta nessun sospetto; io, invece, uomo occidentale armato di macchina fotografica, vengo preso in consegna da due giovani in borghese e portato in una casermetta alla periferia della città. Controllano bagagli, passaporto, permessi, mi chiedono perché sono venuto da queste parti e se tifo per il Milan o per la Juve. Insomma, come in ogni parte del continente nero, la polizia non sa come far passare le giornate e l’occasione di far valere la propria autorità, di sentirsi importanti e curiosare in altri mondi sconosciuti non può essere lasciata scappare.
Lasciare El Obeid e dirigersi verso sud significa abbandonare il mondo arabo ed entrare nell’Africa Nera. È un processo naturale: la sabbia del deserto lascia spazio agli arbusti spinosi della savana e la gente assume tratti somatici più decisi. La porta verso il mondo Nuba è vicina.
Bastano poche ore di fuoristrada e Kadugli è ormai a portata di mano, anche se l’asfalto finisce per lasciare il posto alla pista, a tratti sconnessa, a tratti ancora ben percorribile in quanto levigata dal passaggio degli automezzi.

DI FRONTE ALLE 99 MONTAGNE
Kadugli è una città tipicamente africana: solo la via principale è asfaltata, il resto delle strade è un bazar polveroso a cielo aperto, dove la vita pullula dall’alba al tramonto, senza tregua. Situata nel Sud Kordofan, questa città è anche la porta per accedere alle Montagne Nuba: qui si sbrigano le pratiche burocratiche e si ottengono i permessi necessari per poter superare i mille controlli che la blindano come in una cassaforte.
I numerosi posti di blocco della Security rallentano il viaggio, ma ormai ci siamo: le 99 montagne narrate dalla leggenda locale sono davanti a me.
Le chiamano montagne, ma anche se hanno delle pareti molto scoscese non possono essere definite tali: sono solo un mosaico di colline che raggiungono al massimo i 1.500 metri s.l.m.
Quando si lascia Kadugli le strade non esistono più, anche se sono segnate sulle carte: sono state inghiottite dai bombardamenti e, quelle rimaste, cancellate dall’ultima stagione delle piogge. Facciamo fatica a trovare la direzione giusta per Luere; la individuiamo quando è quasi buio e dopo qualche ora di pista siamo costretti a cercare un posto dove montare la tenda e passare la notte.
Arrivare a Kauda significa superare decine di posti di controllo presidiati dai militari dell’Splm (Sudan People’s Liberation Movement). I giovani in uniforme controllano attentamente i permessi, a volte ne richiedono altri, a volte, semplicemente, mi invitano nelle loro capanne per bere un tè. Sono sempre gentili e sorridenti, sanno che la comunità internazionale sta lavorando per loro, sanno che lo straniero che si muove da queste parti non lo fa solo per turismo. A Luere mi fanno perdere un pomeriggio per i controlli, ma questa, si sa, è la roccaforte dell’Splm e i militari non scherzano, devono fare il loro lavoro fino in fondo.
Arrivo a Gidel al tramonto. La missione dei padri Comboniani appare come un miraggio nascosto dagli alberi che la circondano. Il cancello si apre: mi sento quasi a casa.

UN POPOLO MITE E FIERO
Nonostante la ricchezza naturale di queste terre, la gente Nuba è stata costretta ad abbandonare quest’area per l’impoverimento dovuto al conflitto; la popolazione, stimata in circa 2 milioni, per metà, è sfollata a Khartoum e quella restante si è divisa sotto il controllo dell’Splm e il governo centrale. Le autorità governative sono riuscite per anni a isolare la regione da un punto di vista umanitario, economico, mediatico, educativo.
Durante il conflitto solo poche e coraggiose organizzazioni umanitarie riuscivano a lavorare sui Monti Nuba; ma da qualche anno le azioni di solidarietà si sono moltiplicate. Nonostante le difficoltà di comunicazione non siano affatto finite, si è aperto uno spiraglio e si sta cercando di far fronte a questo isolamento attraverso rischiosi e costosi voli illegali in partenza dal Kenya. In questa terra, dove mancava anche l’essenziale, ora arrivano medicinali, sale, sapone e soprattutto attrezzi agricoli, che permettono alla gente del posto di non dipendere dagli aiuti estei. 
Le terre dei Nuba sono tra le più fertili del Sudan, anche un occhio poco attento non può non notare le falde delle montagne, a tratti accuratamente terrazzate; da queste parti, anche nella stagione secca, crescono cipolle, tabacco, pomodori, arachidi e sesamo.
Fra i Nuba si distinguono oltre 50 gruppi etnici, ognuno con un nome specifico, lingua, cultura e tradizioni diverse. Anche le abitazioni presentano architetture differenti: alcune ricordano l’Africa australe, altre le regioni del Sahel. Nonostante la varietà di etnie questa gente ama definirsi con un nome solo, unico e orgoglioso: Nuba.  
Fino a poco tempo fa i Nuba erano bersaglio del governo di Khartoum. Gli arabi erano decisi a eliminare la loro identità culturale per fae docili lavoratori al servizio dei ricchi sudanesi. Ma questo popolo di «roccia e miele» non si è mai arreso; ha lottato in una guerra senza fine e ha stretto i denti per non rischiare di scomparire. Ora che la guerra è finita, sui Monti Nuba, è tutto da ricostruire, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dall’inizio, dalle cose primarie, dal quotidiano.

«PENNELLATE» DI SPERANZA
Sui Monti Nuba non è facile accorgersi quando si arriva effettivamente in un luogo: non esistono indicazioni. Spesso le capanne sono state disseminate sulle colline per evitare che, durante la guerra, i bombardamenti colpissero interi nuclei abitativi, magari formati dalla stessa famiglia.
Ma a Gidel non ci si può sbagliare: arrivando dall’aeroporto di Kauda, prima di attraversare il wadi, c’è un enorme edificio in costruzione, una «pennellata» di speranza nella savana, è il nuovo ospedale che «Sorriso per il Sudan onlus», in collaborazione con altre associazioni, sta costruendo. Il lavoro da fare è ancora molto, ma quando la struttura sarà ultimata e diventerà operativa, per l’intera comunità dei monti sarà un punto di riferimento importante, un luogo dove potersi sottoporre a cure mediche senza andare fino a Kadugli o, peggio ancora, fino a El Obeid.
«Sorriso per il Sudan» non è l’unica associazione che opera sui Monti Nuba; ce ne sono molte, ognuna con il proprio compito: c’è chi si occupa dello sminamento delle piste, chi segue le donne disagiate, chi si prende cura dei bambini. Un esercito di persone tutte con lo stesso obiettivo: portare il popolo Nuba alla normalità. 
A Gidel vengo ospitato nella missione gestita dalla diocesi di El Obeid. Nella parte riservata alle suore stanno costruendo un edificio, mi dicono, che è la nuova casa che dovrà ospitare l’eventuale arrivo di personale missionario.
Le «sisters», come le chiamano i ragazzini, hanno un ruolo importante nella comunità di Gidel: alcune insegnano alla scuola matea, altre si occupano del cornordinamento educativo dei bambini delle scuole elementari, altre ancora seguono gli adulti nell’integrazione sociale. La missione è un punto di riferimento per tutta la gente della zona: per qualunque problema basta bussare alla porticina in ferro, qualcuno apre sempre.
Oltre il muro di cinta, dove abitano le suore, c’è la missione operativa di mons. Macram Max Gassis. La struttura è costituita da un grande cortile con edifici in muratura, nella parte centrale ci sono alcune capanne in stile africano: sono gli alloggi dei fratelli che vivono qui e svolgono il loro lavoro ecclesiastico.

CURIOSANDO NELLE ABITAZIONI
A Gidel si respira un’atmosfera particolare. È bello svegliarsi la mattina e fare due passi per vedere i bambini con i libri sottobraccio che vanno a scuola: alcuni arrivano dalle abitazioni vicine, altri invece, si fanno anche un’ora di cammino per raggiungere le aule dove i maestri li aspettano per la lezione.
A pochi passi dal fiume in secca ci sono i campi dove le donne lavorano nella raccolta delle arachidi. Ore e ore piegate su se stesse, stringendo tra le mani un piccolo aese in ferro dalla forma di una falce. È raro vedere una donna nuba sola, di solito sono in compagnia di altre donne. Insieme lavorano, passano il tempo libero e vivono i loro momenti di complicità.
Gli occhi delle donne più anziane sono profondi e pieni di mistero. A volte si muovono silenziosamente, facendo strisciare le infradito; a volte le vedi accelerare l’andatura, vestite dei loro abiti colorati mossi dal vento. Anche da queste parti, come in tutta l’Africa, alla donna spetta il lavoro più oneroso della famiglia: accudire i figli, lavorare nei campi, attingere l’acqua dai pozzi e portarla fino alla propria casa.
Seguendo una di queste donne, quelle che camminano verso la collina col carico di acqua sulla testa, sono riuscito a entrare in contatto con alcune famiglie e a curiosare nelle loro abitazioni.
Da quando è finita la guerra, i nuba stanno cercando di riunirsi in piccoli villaggi. Nei dintorni di Gidel non si trovano più capanne completamente isolate; si sono formati piccoli nuclei familiari composti da due o tre abitazioni. Ognuna di queste case ha il proprio cortiletto, dove vivono gli animali e vengono costruiti piccoli silos per la conservazione dei raccolti. L’interno delle case è ridotto all’essenziale. Di solito vi è un atrio abbastanza ampio nella parte centrale, dove la famiglia si raduna per discutere o più semplicemente per la cena.
Ai lati di questa stanza, la principale dell’abitazione, ci sono le «camere da letto». La «stanza della notte», come è chiamata dalla gente del posto, non ha finestre; i muri sono più spessi rispetto al resto della casa, per creare l’isolamento necessario a mantenere una temperatura gradevole durante i periodi più caldi dell’anno.

ATTENZIONE AI… «TARTUFI»!
A pochi minuti d’auto da Gidel operano i volontari di Save the Children. Nel piccolo villaggio di Kumo hanno costruito un dispensario dove la gente si può curare e ricevere medicinali. I posti letto sono sempre occupati e molti ammalati, purtroppo, non possono essere curati. Patrick, un giovane volontario che arriva dal Kenya, mi dice che tutto sarà diverso, quando «il grande» centro clinico di Gidel sarà operativo.
Vorrei fermarmi per sempre in questo luogo di pace, ma mi rendo conto che il viaggio deve continuare, non prima però di aver curiosato nella scuola di Kauda, dove studiano i bambini vittime del bombardamento del 2001.
Mi faccio accompagnare dalla suora della diocesi. Nella mia moleskine ho i nomi dei bambini che mi sono annotato durante l’ultima riunione con i volontari di «Sorriso per il Sudan». Li mostro agli insegnanti, i quali si consultano tra di loro e poi, con un sorriso di consenso, mi dicono che ci sono tutti.
In pochi minuti li ho davanti a me. Sono cinque, forse sei, non ricordo, ma quelli che più mi colpiscono sono Amani e Adil, i più segnati. Il ragazzo ha l’avambraccio mozzato; la ragazzina, Amani, ha dovuto subire l’amputazione dell’intero arto. Non credo ci sia da dire altro a riguardo, le parole sarebbero solo retoriche e superflue.
Osservando la carta topografica che mi ha fotocopiato un amico milanese, posso notare una pista tracciata che collega Luere a Talodi. Mi metto subito alla ricerca dell’imbocco, ma perdo più di due ore. Chiedo informazioni a chiunque: nessuno ne sa nulla. Deduco che la mappa è sbagliata e me la prendo con chi l’ha disegnata.
Non mi rassegno; riprovo a chiedere informazioni in un campo delle Nazioni Unite e, finalmente, un soldato malese dall’aria gentile mi dice che la pista è stata cancellata anni fa dalle piogge e quel poco che è rimasto è stato inghiottito dalla vegetazione o è minato.
Muoversi sui monti può essere davvero pericoloso, ci sono molte zone disseminate di «tartufi» e, nonostante il lavoro del centro di sminamento della Dca (Dan Church Aid), gli ordigni inesplosi sono ancora tantissimi.
Non ci sono alternative, bisogna ripercorrere la pista fino a Kadugli e poi imboccare l’altra strada, anche questa minata, per Talodi in direzione est. È già tardo pomeriggio quando si decide di lasciare Kauda; tra non molto bisognerà cercare un posto dove fare campo e passare la notte. È bello montare la tenda in questo nulla africano, potersi rilassare davanti a un fuoco, fare due chiacchiere con Jamal e poi, quando la natura si placa, rilassarsi guardando le stelle negli occhi.
In Africa la proporzione della natura è predominante; è la natura stessa che vince su tutte le tentazioni di sostituirla a qualcosa d’altro, rimane lei l’unica intermediaria possibile di un contatto, che qui rimane esclusivo, tra gli elementi naturali e l’uomo.
Purtroppo i viaggi africani non sono fatti solo di immensi cieli stellati e grandi distese incontaminate; a volte bisogna fare i conti con i guasti meccanici del mezzo di trasporto. Prima la rottura della pompa del gasolio, poi le forature, poi ancora la balestra che cede ai contraccolpi rimandati dalle pietre. Alla fine ci vogliono quasi due giorni per poter ritornare a Kadugli.
Si arriva in città col buio, non ci sono alberghi e l’unica soluzione per la notte sarebbe quella di bussare a qualche organizzazione umanitaria. Provo a Save the Children, ma non hanno posto, sono al completo; alla polizia è meglio lasciar perdere; faccio un tentativo all’Unicef, mi dicono di aspettare; dopo quasi mezz’ora di attesa, mi propongono una stanza nella loro sede staccata, ubicata nella periferia della città: anche questa volta è andata bene.

TRA I NUBA MASAKIN
Percorrendo il tragitto da Kadugli a Talodi si dovrebbero incontrare alcuni villaggi masakin, ma non ne sono sicurissimo. A scanso di equivoci chiedo conferma a un «ragazzone» svizzero di nome Peter, che lavora per l’Unicef. Dopo una breve consultazione della mappa, Peter traccia dei punti e spiega: «Questi sono i villaggi che cerchi, ma attenzione: su questo percorso, due giorni fa, un autobus che trasportava dei locali è saltato su una mina». Per un percorso più sicuro, mi consiglia di chiedere agli addetti delle Nazioni Unite i punti gps (sistema di rilevamento satellitare della posizione, ndr). Agli uffici Onu mi sconsigliano vivamente la pista che passa dai villaggi masakin perché, oltre alle mine, ci sono problemi di banditismo.
Il morale cade a pezzi, non so cosa fare. L’alternativa sarebbe quella di rifare il giro da El Obeid, ma il tempo stringe, non ce la farò mai. Guardo Jamal negli occhi, non c’è neppure bisogno di parlarci, saliamo in macchina, si parte. Se il destino è quello di saltare su una mina o essere preda di banditi, allora è giunto il momento.
Nei primi chilometri di pista ci sono numerosi controlli di polizia, la strada è sbarrata da bidoni e filo spinato, che vengono spostati solo dopo la verifica accurata del passaporto e di tutti i permessi rilasciati dalle autorità militari del luogo. Man mano che ci si allontana dai centri abitati i controlli si fanno sempre più rari, fino a scomparire del tutto dopo l’ultima collina, che all’epoca della lunga guerra era controllata dalle milizie arabe.
Il paesaggio è armonioso; di tanto in tanto si incontrano gruppi di giovani con i loro dromedari. In questa zona i nuba convivono con molte altre etnie di ceppo arabo, ma la loro quotidianità è pacifica, non c’è odio.
Si viaggia per l’intera giornata, cercando di non lasciare mai la traccia dei punti che ci hanno consigliato di seguire. Prima di arrivare a Talodi faccio una sosta per fotografare i villaggi dei nuba masakin. Ormai ne sono rimasti pochi, la maggior parte, mi dicono, è migrata verso sud.
Quando è già buio arriviamo a Tosi, villaggio famoso per l’imponente jebel (monte) dove si possono ammirare graffiti rupestri. Chiediamo ospitalità alla polizia, ma questa volta la risposta è negativa: ci dicono che per regolamento non possono far montare le tende nel cortile della caserma. Mentre discutiamo con i militari, si forma il solito gruppo di persone e una di esse ci offre la possibilità di usufruire del piazzale della scuola come campeggio. A tarda sera scopro che questi gentili giovanotti sono gli insegnanti della scuola stessa.
Il posto è grazioso e recintato, non fa molto caldo; poi c’è anche la luna che mi fa da faro, mentre infilo i picchetti della tenda nel terreno. Un solo neo, l’intero spiazzo è invaso da formicai, me ne accorgo solo dopo aver montato il telo impermeabile dell’igloo, troppo tardi per rimediare.

EX GUERRIERI E LOTTATORI
Dopo una notte quasi insonne, a causa delle formiche che hanno invaso tenda e sacco a pelo, si riparte verso Kau, Fungor e Nyaro, tre villaggi resi famosi dalla fotografa tedesca Leni Riefenstahl con la pubblicazione del libro fotografico «I Nuba di Kau» (1976). Guerrieri e lottatori nuba non sono più quelli delle foto di quel tempo. Il progresso, si fa per dire, è arrivato anche qui. Non mi ero fatto nessuna illusione prima di partire dall’Italia: sapevo di non trovare più le scene di vita quotidiana rappresentate nel libro, ma mi aspettavo un insieme di villaggi e una comunità abbastanza autonomi.
Purtroppo la realtà è un’altra: i villaggi di Kau, Nyaro e Fungor sono ubicati in una zona difficilmente raggiungibile dalle arterie principali, se non dopo almeno due giorni di fuoristrada, e il primo impatto è la visione di un agglomerato di capanne dimenticate dal mondo. 
Avevo portato con me dall’Italia alcune fotocopie a colori del libro di Leni. Ho provato a cercare le persone ritratte: alcune sono andate a vivere altrove, altre sono decedute, altre ancora, con sorpresa, le trovo nelle loro abitazioni.
Un anziano signore si riconosce nella foto e mi fa capire che è passato un po’ di tempo da quello scatto, non sa dirmi quanto, ma lo so io: quasi 30 anni. Dopo qualche attimo di attesa per controllare e vincere il comprensibile imbarazzo, l’uomo allunga il braccio e prende in mano la fotografia, la guarda attentamente, poi chiama alcuni amici e si mette a discutere e ridere con loro.
Li lascio soli per un po’, mentre cerco di distrarmi fotografando l’impagliatura dei tetti delle capanne. Dopo qualche minuto ritorno verso il gruppetto di uomini, ancora intenti nella discussione. Con delicatezza li interrompo e chiedo, cercando di farmi capire, se posso ritrarre l’ex «guerriero» con la vecchia foto tra le mani. Si guardano tra di loro, poi il più giovane si rivolge a me, mi guarda e fa un cenno di assenso con la testa.
Il signore della foto ha un nome mai sentito da queste parti: dice di chiamarsi Sathir. Lo metto in posa, mentre cerco di pronunciare ripetutamente il suo nome per rompere la sottile, ma robusta parete, che di solito si crea tra il soggetto e l’operatore. Ricerco e studio la luce in un fazzoletto di ombra creata dai rami degli alberi, per provare a registrare un’immagine morbida, dolce, senza contrasti. Ma il soggetto che ho davanti all’obiettivo è troppo imponente e autoritario. Nemmeno l’uniformità di una luce piatta riuscirà a portargli via lo sguardo pieno di fierezza. Bastano solo tre scatti, quello giusto dovrebbe esserci. Ci salutiamo con la promessa di lasciare a Jamal la nuova fotografia, lui magari da queste parti ci ripasserà.
Consumo la mia giornata gironzolando per i tre villaggi, che distano solo pochi minuti di fuoristrada l’uno dall’altro. Pensavo di trovare qualcosa che mi portasse in qualche modo al passato, invece nulla: del passato sono rimasti solo i sassi levigati dal vento, a fare da guardia alla montagna.

È ARRIVATA LA PACE?
Mentre sto per lasciare Nyaro, in un campo non lontano dalle capanne, atterra un elicottero delle Nazioni Unite. I motori si spengono quasi subito e, lasciato passare il tempo per permettere alle pale di fermarsi, dalla scaletta scendono alcuni ufficiali in uniforme.
La gente si raduna subito sotto il grande albero, viene improvvisata un’assemblea collettiva a cui partecipa l’intero villaggio. L’inizio del dialogo è abbastanza chiassoso e confuso: tutti vogliono parlare, c’è chi si alza in piedi e sbraita con tono autoritario, chi agita le mani per farsi notare, chi invece se ne frega e va a vedere il «grande uccello» bianco con la scritta UN arrivato dal cielo.
Dopo il prevedibile caos iniziale, cala il silenzio; un ufficiale dello Sri Lanka prende la parola: con tono deciso, in un inglese quasi perfetto, chiede alla gente di cosa ha bisogno. La risposta è quasi immediata e risuona come un eco provieniente dalle montagne vicine: water. Nel terzo millennio può sembrare strano, ma è proprio così: a Kau, Nyaro e Fungor non c’è acqua.
Ma cosa ne sarà del futuro di questo popolo, ora, a pochi mesi dalla morte di John Garang, il carismatico leader dello Spla? Da quasi un anno sui Monti Nuba si è riversato «il mondo». Le Nazioni Unite pare abbiano il controllo della situazione e le organizzazioni umanitarie riescono, finalmente, a lavorare senza grossi intoppi.
Sarà finalmente arrivata la pace?

A volte la fine di un viaggio è come l’improvviso risveglio da un sogno: provi a richiudere gli occhi per riprendere sonno, ritornare nella favola, continuare a vivere lontano dalla realtà.
I ricordi scorrono veloci come i fotogrammi di un vecchio film. Come potrò dimenticare tutte quelle strette di mano prima di ogni «scatto»? Duemila o forse più. Di solito la stringevo anche a coloro che non fotografavo o magari a un intero gruppo di persone prima di metterli in posa. Poi ci sono tutti i bambini incontrati ai bordi della strada, le loro manine sempre alzate in segno di saluto, i loro sorrisi, gli occhi neri e misteriosi, le sagome scure che si confondono con quelle della natura negli ultimi attimi di luce, prima del tramonto.
In questo viaggio, come sempre, ho voluto contemplare e cercare situazioni, mai crearle. Poi le ho fissate nella memoria, mia e in quella di un supporto di gelatina. Sì, perché il viaggio è uno stato d’animo che guarda il mondo, un modo di essere, di vivere. E noi viaggiatori siamo come il vento, condannati a correre per non morire.
Di Giovanni Mereghetti

Giovanni Mereghetti




Un modello di convivenza religiosa

Introduzione

La prima volta sui nuba è un’esperienza che lascia il segno. Ancora oggi la difficoltà per arrivarci e la mancanza di infrastrutture e dei più normali servizi cui un uomo moderno è abituato, procura uno shock temporale ed emozionale. Riporta a tempi molto lontani, lascia affiorare sensazioni remote.
Il paesaggio dai contorni arrotondati, che sono quelli delle formazioni rocciose, delle capanne e dei volti della gente, rispecchia l’animo mite del popolo nuba, fatto di agricoltori e di pastori.
La regione dei Monti Nuba è oggi parte dello stato del Kordofan Meridionale, situato proprio al centro geografico del Sudan, terra di passaggio tra nord e sud, tra est ed ovest. Un’area grande tre volte e mezzo la Lombardia, con una popolazione di appena 1 milione e duecentomila unità, dalla natura generosa.
«Nuba» è un termine che evoca da solo molte suggestioni: richiami antropologici di un popolo che ha assorbito elementi diversi nel corso dei secoli, fondendoli in una identità unica che pure si esprime in 15 diversi idiomi e raccoglie 50 gruppi etnici; richiami fotografici impressi nella memoria grazie a George Rodger, Leni Riefenstahl e quei pochi altri che negli ultimi decenni hanno avuto il privilegio di recarsi su quelle alture; richiami umanitari per la vicenda drammatica che li ha sconvolti tra gli anni ‘80 e ‘90, quando l’isolamento totale dal resto del mondo ne ha messo a rischio la stessa sopravvivenza.

I nuba sono un esempio di convivenza religiosa tra musulmani, cristiani e seguaci delle religioni tradizionali; un piccolo laboratorio dove si sperimenta un modello che si vorrebbe vedere applicato al resto del paese. Un popolo fiero e orgoglioso e allo stesso tempo mite, come dimostra la tradizionale lotta che praticano, al termine della quale vincitore e vinto si abbracciano e si congratulano a vicenda.
La guerra ha lasciato un segno profondo nella coscienza e nel fisico di queste persone che adesso, con l’agognata pace, cercano dignitosamente di ricostruirsi un tessuto istituzionale ed economico che gli permetta un’esistenza  pacifica.

L’Italia si è molto impegnata a favore di questa area e di questa popolazione. Lo ha fatto con diverse iniziative governative e della società civile italiana, finanziando i primi aiuti inteazionali giunti dopo l’isolamento, allestendo campagne per i diritti umani, intervenendo con Ong, diocesi e amministrazioni locali italiane. Lo ha fatto e continua a farlo con la cooperazione italiana e i contributi alle agenzie delle Nazioni Unite attive nell’area, con le relazioni di amicizia e l’impegno dei missionari.
I nuba, come il resto del Sudan, hanno bisogno del supporto della comunità internazionale affinché la chance di rendere questa pace una realtà duratura non sia vanificata dal pessimismo, dalle paure e da pregiudizi legati all’esperienza troppe volte negativa di tanti stati africani. Riuscire a vedere la bellezza e la speranza che c’è in questo paese, in tutte le sue sfaccettature, può aiutarlo più di tanti proclami di buone intenzioni. Riconoscere l’unicità del popolo nuba, rispettarlo per la sua cultura e dignità è il primo passo per garantie la sopravvivenza in un futuro pacifico e rigoglioso.

Lorenzo Angeloni, ambasciatore d’Italia in Sudan

Lorenzo Angeloni




Genocidio scongiurato?

Storia dei popoli nuba: tra aperture e resistenze

Origini oscure e babele di lingue e dialetti da fare impazzire gli antropologi, i nuba hanno lottato per secoli per la loro sopravvivenza fisica e culturale, prima contro gli schiavisti, poi contro l’islamizzazione forzata e, negli ultimi decenni, contro un «genocidio» strisciante. L’accordo di pace del 2005 tra governo e ribelli del Sud Sudan prevede una sistemazione autonoma per le popolazioni nuba: se son fiori, fioriranno.

Sono stati grandi fotografi, quali George Rodger e Leni Riefenstahl, a fare conoscere i Monti Nuba a tutto il mondo occidentale. Da essi, i popoli nuba sono stati utilizzati come l’icona della «africanità».
Fra queste montagne, questi osservatori privilegiati hanno cercato e costruito, attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, l’immagine della «vera Africa»; la cui «purezza» è stata immortalata con il fine dichiarato di preservarla, in vista dell’inevitabile arrivo della modeità e la conseguente «perdita di innocenza».

provenienza dibattuta

I nuba sono una popolazione che abita una regione montuosa-collinare che da loro traggono il nome (Monti Nuba) e che si trova nella parte meridionale della provincia sudanese del Kordofan. Si tratta di terre relativamente fertili, adatte all’agricoltura stanziale.
Il milione circa di nuba, ancora presenti oggi, sono suddivisi in almeno 10 gruppi linguistici (koalib-moro, talodi-mesakin, lafofa-amira, tegali-tagoi, kadugli-korongo, temein, katla, nyimang, «hill nubian», daju), che a loro volta presentano divisioni in sottogruppi (che rende il numero delle lingue ancora maggiore).
Per quanto riguarda le origini, quelle dei nuba sono state inizialmente legate dai primi antropologi occidentali (e non solo) a quelle dei «nubiani», un popolo molto diverso e lontano geograficamente dai Monti Nuba e dal Kordofan. I nubiani, infatti, abitano le zone di confine tra Egitto e Sudan. In antropologia esistono diversi punti di vista sulle origini e sul legame reale o presunto tra nuba e nubiani.
Come per molti antichi stati africani, anche nel caso dei nuba, la carenza di fonti scritte pone un problema per la ricostruzione della vicenda storica di questo popolo. Molti restano i vuoti da riempire, almeno per quanto riguarda il periodo pre-islamico.
Infatti, le prime fonti che descrivono in maniera sistematica la statualità, usi e costumi dei nuba si devono agli arabi. La trasmissione orale, che pure è stata utile a «scrivere» la storia di grandi stati e popoli dell’Africa subsahariana, si è mostrata uno strumento poco utile nel caso dei nuba. Una storia orale è stata stabilita solo per il regno nuba di Tegali.
Certe attinenze di lingue nuba con quelle nubiane hanno condotto molti antropologi e storici a ritenere valida l’esistenza di un’affinità «razziale» tra i due popoli. Altri studiosi hanno scartato questa ipotesi, sulla base delle difformità dei due gruppi dal punto di vista culturale, dimostrando come l’influenza nubiana sia stata soltanto il risultato dell’immigrazione verso i Monti Nuba dei dongolawi in tempi troppo recenti per un’assimilazione vera e propria.
Tra coloro che ritengono esista una relazione diretta tra nuba e nubiani esistono due ulteriori scuole di pensiero. Da un lato, coloro che ritengono che i nubiani sono discendenti dei nuba; dall’altro quelli che sono convinti del contrario.
La tesi più accreditata oggi considera i nuba come un popolo autoctono (dei Monti), senza legami specifici con i nubiani, a parte quello dei «nobatae» (i nuba dei testi classici antichi), i quali portarono le lingue nuba a nord, fuori dal Kordofan verso la valle del Nilo, da cui deriverebbe il legame linguistico di cui sopra. In seguito questi nuba sarebbero stati «assorbiti» dai nubiani fino a scomparire.
Viceversa, i barabra (popoli nubiani inviati dagli arabi a conquistare Dongola e sottomettere gli abitanti dei Monti Nuba), non riuscirono a penetrare le popolazioni nuba: queste, se da un lato assimilarono certi aspetti della loro lingua, non furono influenzate in nessun altro modo nei costumi e cultura. Per cui, anche in questo caso l’ipotesi di un legame, sia «razziale» che culturale, è stata esclusa.
In conclusione, i nuba sarebbero il popolo originario del Kordofan meridionale. La stessa parola «Kordofan» sembrerebbe descrivere inoltre la storia antica di questa regione. «Kordu» significa uomo, «fan» paese: le due parole potrebbero essere state assemblate per significare «terra dell’uomo», cioè «paese abitato» e quindi «coltivato», il che presume una statualità antica, contemporanea a quella dell’Etiopia o di Meroe.
Tuttavia, bisogna tenere presente che i nuba non sono una popolazione omogenea e una statualità nuba non è mai esistita. I nuba si sono uniti solo militarmente e di recente (a partire dagli anni ’20 dell’Ottocento), per resistere alle ingerenze estee durante il dominio turco-egiziano, mahdista, anglo-egiziano e del governo del Sudan indipendente.
I Monti Nuba, potrebbero essere anche chiamati «Mondi Nuba» o, come ha fatto notare qualcuno, «Arcipelago Nuba», per via dell’indipendenza tra le storie delle diverse realtà nuba. Ogni montagna ha espresso delle statualità a sé stanti, che non comunicavano su basi sistematiche con le altre. Questa diversità «intra-nuba» spiega ulteriormente le difficoltà di trovare dei legami tra nuba e nubiani.

La religione nativa

Il «kujurismo» è la religione autoctona dei nuba. I nuba venerano i propri antenati e questa usanza è così persistente nella società, che la venerazione dello spirito dell’antenato è diventata una religione in sé stessa.
Secondo certi osservatori, il kujurismo spiegherebbe anche certi tratti del «patriottismo» dei nuba, la loro riluttanza a lasciare la terra dei padri (la patria, appunto), il loro rispetto per gli anziani e il culto dei morti da parte dei giovani. Il kujur è l’intercessore presso gli antenati e quindi lo Spirito o Dio. Il kujur può assumere nomi diversi, secondo il gruppo nuba a cui si fa riferimento.
I kujur si distinguono dalle figure sacerdotali di altre realtà africane per il fatto che, come intermediari, non cercano di controllare gli eventi, bensì di propiziarli a favore dei credenti; essi usano il proprio potere per indurre lo spirito antenato a benedire o punire, a seconda dei casi. La punizione o il premio dipende invece da Dio. I kujur sono dei «servi di Dio» o degli dei, secondo l’usanza di ciascuna delle comunità nuba.
In certi casi, attraverso il kujur si può anche intercedere presso gli spiriti «famigliari» (considerati spiriti minori rispetto a quello dell’antenato). Questo ha portato nel tempo a forti legami nella comunità i cui membri sono attenti a non contrariare i singoli spiriti famigliari (degli altri).
Gli spiriti delle diverse famiglie che formano una comunità possono essere richiamati dal gruppo per propiziare ciascuno un diverso evento: pioggia o guerra, caccia o raccolta, alberi o fertilità, ecc. A questi spiriti minori corrispondono kujur minori, che sottostanno tutti al grande kujur, il quale li cornordina, anche attraverso la consultazione.
Il grande kujur può anche presiedere il consiglio degli anziani di una comunità, diventando egli stesso una figura patriarcale (e politica). Il potere laico quindi si può fondere con quello religioso e questo si riscontra di più tra quei gruppi di nuba che hanno sviluppato forme di statualità di tipo «comunitaristico» (senza re o mukuk). Invece, la fusione di funzioni (religiosa e laica) è meno incombente tra quelle comunità che si sono costituite in regni (come i dilling, afitti, nyimang, kadero, kalero, ecc.), con un sovrano, casta regnante, gerarchie nobili, ecc. In questi casi il potere del grande kujur (spirituale) resta distinto da quello del re e dell’amministrazione (temporale).
I kujur sono figure sacre e conducono una vita appartata e solitaria; il loro ruolo non è ereditario e non è a vita (il ruolo può decadere e chiunque, spesso senza prerequisiti fissi, può assumere questo ruolo nella società). In alcuni casi anche alle donne è concesso di potere ricoprire tale carica, ma per loro, in genere, esiste il requisito della mateità e della successione (maritale o familiare). Dei segni distintivi, che cambiano da gruppo a gruppo, caratterizzano la dimora del grande kujur; essa deve essere contrassegnata da segni simbolici riconoscibili in quanto rappresenta anche la dimora dello spirito dell’antenato e un punto di riferimento per la comunità.
I nuba riconoscono e rispettano la proprietà privata, la parità tra i diritti di ciascuno, la santità del matrimonio, la vita umana, ecc. Se uno o più individui mettono a repentaglio le libertà altrui, tutta la comunità si sente automaticamente investita della violazione e da questa offesa deriva la sanzione. In casi di offesa grave, per esempio attraverso la messa a repentaglio delle regole stesse della comunità, è prevista anche la pena di morte. L’organizzazione politico-religiosa dei nuba è sopravvissuta dall’antichità fino ai giorni nostri, soprattutto tra quei gruppi che hanno saputo resistere maggiormente alla venuta dell’islam nel Sudan.

L’avvento dell’Islam

I nuba sono stati sottoposti a influenza islamica fino dal xvi secolo. Prima di allora, i nuba abitavano più o meno l’intero territorio dell’odierno Kordofan. Dopo il collasso dei regni cristiani, l’islam ha trionfato lungo tutta la vallata del Nilo e gruppi di musulmani, di probabile discendenza araba (almeno linguistica), hanno iniziato una migrazione verso sud che li ha portati a stabilirsi nel Kordofan, dove si sono stabiliti e amalgamati con le popolazioni autoctone entrando in contatto anche con i nuba.
Il risultato è stato l’islamizzazione e l’arabizzazione di una parte dei nuba, i quali in certi casi assumevano l’arabo come lingua oppure prendevano alcuni usi e costumi della civiltà araba. Tuttavia, in molti casi, la cultura araba è stata indigenizzata e gli arabi stessi sono stati assorbiti tra gli autoctoni nuba.
La tratta degli schiavi è stato uno dei fattori scatenanti la rapida islamizzazione dei nuba a partire dal xvi secolo. Le opzioni per sfuggire alla tratta erano due: ritirarsi nell’area collinare-montuosa, da cui ci si poteva difendere meglio dagli assalti a cavallo; oppure convertirsi all’islam, visto che un musulmano non può rendere in schiavitù un suo fratello.
Naturalmente i gruppi geograficamente ai margini della regione dei Monti e quindi più prossimi all’avanzata dell’islam e della tratta furono i primi a convertirsi. Quelli che si rifugiarono sulle cime delle montagne e più a sud furono in grado di preservare meglio la propria identità culturale e indipendenza politica.
Alcuni re nuba convertiti all’islam sono stati tra i protagonisti delle razzie fra gli stessi nuba. È stato il caso dei mukuk (sovrani) di Tegali, uno dei regni più importanti e potenti della storia dei nuba.
L’islam penetrò Tegali nel 1530, attraverso l’azione di Mohammed al-Ja’ali. Grazie alla tratta con gli arabi del nord, per due secoli, il regno divenne uno dei più potenti di tutta la regione dei nuba. Tegali è stato anche uno dei bastioni dell’islam tra i nuba, ma l’islam non ha mai penetrato tutta la società, perché qui (come altrove nella regione) vigeva una sostanziale libertà di culto.
Come in molti altri casi di società di «frontiera» del Sahel, i nuba musulmani hanno elaborato forme culturali e religiose proprie, ostili a imposizioni dall’esterno che potessero mettere in discussione la loro originalità. Per esempio, la resistenza armata nei confronti della sharia (legge islamica) è spiegabile in parte (perché vi era pure una questione legata alla terra) con questa refrattarietà a cambiare radicalmente certi tratti culturali autoctoni, come la tolleranza religiosa.
Il grado di islamizzazione e arabizzazione dei nuba varia da gruppo a gruppo o da monte a monte, con i capi di ciascuna comunità che hanno giocato un ruolo fondamentale nella conversione o resistenza all’islam di tutto il gruppo. Alcuni capi si sono convertiti per ragioni di opportunità politica o ambizioni personali (visto che l’islam coincideva con il potere in molte regioni dell’odierno Sudan), altri per convinzione e perché in essa intravedevano la maniera di modeizzare la propria collettività, facendola uscire dal relativo isolamento.
Nelle comunità dove esistevano figure reali, come i mukuk, o capi designati dal gruppo, l’islam è diventato piuttosto un simbolo dell’aristocrazia e un modo per rafforzare il potere. In queste comunità, i leaders politici hanno usato la propria autorità per imporre l’islam e, viceversa, l’islam per imporre la propria autorità.
La religione musulmana, tuttavia, ha apportato soltanto cambiamenti relativamente superficiali nell’organizzazione sociale, usi e costumi. Al contrario nelle comunità più sparsamente distribuite e dove vigevano forme di organizzazione di tipo comunitaristico, in cui non dominava né un re né un’aristocrazia o, in altre parole, dove non poteva esistere un capo che imponesse la sua volontà sugli altri membri della comunità, l’islam è penetrato di meno, sia qualitativamente che quantitativamente.
Durante la grande rivoluzione islamica sudanese di Muhammad Ahmad, detto il «Mahdi» («il guidato» della tradizione islamica), alla fine del xix secolo, partita proprio dal Kordofan, i nuba musulmani rimasero sempre cauti nei confronti della guerra santa del Mahdi.
Dal canto loro, i mahdisti vedevano nei nuba dei musulmani «incompleti». Da questi contrasti sono nate le conflittualità nei confronti del centro, rappresentato da Khartoum, che si sono protratte fino ai giorni nostri.
In conclusione, mentre all’interno della regione dei Monti Nuba, culture diverse sono convissute in maniera rispettosa le une delle altre, verso l’esterno, i nuba hanno sempre mantenuto delle posizioni ostili.

I nuba nel Sudan moderno

Dall’inizio dell’Ottocento, i Monti Nuba sono stati sottoposti a una doppia pressione che ha modificato in profondità gli equilibri regionali: da una parte quella dei nomadi baqqara, in cerca di pascoli per le loro mandrie; dall’altra quella dei turco-egiziani, alla ricerca di schiavi e pronti per questo a organizzare devastanti spedizioni stagionali.
Le zone più esposte dei Monti Nuba, come il regno di Tegali, dovettero scendere a patti con i nuovi invasori, pagando tributi in generi e schiavi, mentre quelle più remote riuscirono a mantenere la loro autonomia e resistere all’intrusione, spostandosi nelle zone più inaccessibili del territorio. Sebbene la tratta fosse stata praticata da secoli, fu solo con l’arrivo dei turco-egiziani che assunse dimensioni rilevanti.
Un’altra conseguenza dei maggiori contatti tra i Monti Nuba e il Sudan turco-egiziano è stata l’ulteriore espansione dell’islam che, agli inizi del xix secolo, interessava buona parte dell’area centrale e settentrionale.
A partire dagli anni ’70 del xix secolo, fecero la loro comparsa anche i missionari cattolici che aprirono a Dilling una piccola missione, introducendo nell’area una nuova variabile religiosa e sociale.
Le valli dei nuba hanno anche dato rifugio all’esercito del Mahdi, che da qui ha organizzato il famoso assedio di El Obeid, caduta nel 1883. Dal 1885 fino al 1891 i mahdisti hanno compiuto periodiche incursioni, poi la loro pressione è diventata meno costante.
Come nel periodo turco-egiziano, anche durante la mahdiyya, i Monti Nuba hanno continuato a fornire schiavi, che spesso erano inquadrati nell’esercito in unità speciali chiamate «jihadiyya». L’esercito è diventato così uno dei veicoli privilegiati del contatto fra nuba e resto del paese.
Durante il Condominio anglo-egiziano (1898-1956) le comunità nuba hanno continuato a dimostrare forti tendenze autonomiste, ma l’estrema eterogeneità della popolazione ha impedito il cornordinamento di queste aspirazioni e la loro organizzazione politica in senso nazionalistico.
Sfruttando questa fragilità, il governo coloniale anglo-egiziano ha limitato la propria azione a pochi interventi, volti a risolvere le situazioni più urgenti, tra i quali non era presente una «questione nuba». Malgrado ciò, un lento processo d’accorpamento territoriale è stato promosso al fine di riorganizzare l’amministrazione. Altri interventi hanno mirato a regolare i rapporti fra le comunità agricole e quelle nomadi per la gestione delle risorse naturali.
Seguendo una pratica consolidata, le autorità britanniche hanno limitato al minimo lo sviluppo del sistema educativo, delegandolo in buona parte alle società missionarie. Bisognerà aspettare il 1921 per assistere all’apertura delle prime scuole elementari governative, un ritardo che influenzerà negativamente la formazione di un’élite locale.
L’arabo non ebbe difficoltà a imporsi come lingua d’insegnamento e, gradualmente, le autorità coloniali diminuirono la profonda diffidenza nei confronti del processo di arabizzazione e islamizzazione. La regione rimase però un «closed district» fino al 1956.

I nuba e la guerra civile

Alle soglie dell’indipendenza del Sudan, malgrado la presenza di tensioni tra i nuba e le genti del nord, la regione non si mostrò particolarmente sensibile alle rivendicazioni che andavano prendendo forma nelle regioni meridionali. Quando nel Sud del paese scoppiò la guerra civile, nel 1955, i Monti Nuba si astennero dall’appoggiare i «ribelli».
Le politiche promosse dal governo del Sudan indipendente, più che riconoscere la specificità culturale delle diverse regioni del paese, hanno rafforzato il centralismo a tutto vantaggio della componente sociale arabo-musulmana, partita avvantaggiata nella competizione politica del post-indipendenza grazie al rapporto privilegiato con il colonizzatore britannico.
Malgrado ciò, accanto al sentimento di una distinta identità culturale, tra i nuba è sempre stata forte anche la percezione di un vincolo storico con la parte settentrionale del paese. Questo rapporto di incontro-scontro ha impedito un dialogo costruttivo fra nuba e i partiti settentrionali, a loro volta dominati dall’elemento arabo.
Per fare fronte allo strapotere dei partiti del Nord, nel 1964 è nato il General Union of Nuba Mountains (Gunm), la prima importante formazione politica, che si proponeva di rappresentare gli interessi dei nuba all’interno del sistema parlamentare del paese; partito durato fino al 1969, l’anno del colpo di Stato del colonnello Jafaar Nimeiri.
A livello economico, la decisione governativa di favorire nel Kordofan meridionale un’agricoltura di tipo estensivo (quando quella dominante tra i nuba era di sussistenza), ha prodotto dei forti cambiamenti nei rapporti sociali dell’area. In molte zone la proprietà della terra è stata riorganizzata, destinando alle grandi imprese agricole i terreni più fertili.
Naturalmente, a fare le spese del cambiamento sono stati principalmente i piccoli proprietari espropriati. Per larghe fasce della popolazione nuba, quindi, lo sviluppo economico si è tradotto in un sostanziale impoverimento, solo in parte compensato dall’aumento della domanda di lavoro salariato. La mancanza di investimenti governativi ha contribuito ad aumentare ulteriormente il disagio tra la popolazione.
I difficili equilibri, tra modeizzazione dell’agricoltura e resistenze degli agricoltori, sono stati ulteriormente esacerbati, a metà degli anni ’80, dalle carestie che hanno colpito il Sudan centrale. A fronte di una diminuzione dell’offerta di beni alimentari, l’agricoltura estensiva promossa dal governo è diventata l’oggetto centrale delle critiche.
La decisione di Khartoum di armare le milizie baqqara per contrastare il Sudan People’s Liberation Army (Spla), il movimento armato sudista anti-governativo, ha coinvolto negativamente anche i nuba, che si sono trovati a dover fronteggiare uno dei loro antagonisti tradizionali, i nomadi baqqara, in una posizione di palese svantaggio.
Sfruttando tale malessere lo Spla è riuscito a raccogliere i primi timidi consensi anche tra i nuba. La comparsa dello Spla, per quanto mai molto diffusa, ha provocato una violenta reazione da parte governativa che ha finito per alienare larghi settori della società da Khartoum.
Nel 1989 la creazione della New Kush Division (Nkd) dello Spla, destinata a operare permanentemente nella regione, ha aperto una nuova fase del conflitto. La guida della nuova unità è stata affidata a Yusif Kuwa Mekki che, già in precedenza, si era distinto nella difesa dei diritti del proprio popolo. Per annientare questa presenza il governo esercitò una costante pressione, culminata nella dichiarazione del jihad nel 1992.
La guerra che ne è seguita, è stata caratterizzata da un’estrema violenza. Il ricorso alla concentrazione della popolazione civile in grandi campi di raccolta è stato sistematico. Presentato come un provvedimento mirato alla protezione dei civili, la mossa voleva essenzialmente privare lo Spla del supporto popolare.
La manovra ha facilitato anche al governo islamico di Khartoum (presieduto dal generale Omar al-Bashir) la continuazione della politica d’esproprio delle terre coltivabili. I beneficiari dell’operazione sono stati naturalmente i sostenitori del governo e le grandi imprese agricole, desiderose di estendere il proprio controllo su territori relativamente fertili e con accesso a risorse idriche. Si calcola che, agli inizi del 2002, il 28% circa del territorio dei Monti Nuba sia stato destinato a questo tipo d’utilizzo (naturalmente la percentuale sul totale delle terre fertili è molto più alta).
L’acuirsi della repressione del governo centrale nei confronti dei nuba, nel 1992, ha messo a dura prova il Nkd. Nel 1996, grazie al sostegno dello Spla, le forze nuba anti-governative sono state in grado di passare alla controffensiva, riconquistando buona parte dei territori persi.
Ma un nuovo colpo all’unità e all’efficacia della resistenza nuba è venuto nel 2002, con la prematura scomparsa di Yusif Kuwa Mekki. Il movimento rimase orfano di un leader brillante, che, grazie al suo stile di governo collegiale, era riuscito ad acquistare una discreta credibilità a livello internazionale.
La questione dei Monti Nuba era ormai divenuta centrale nel processo di pace che si stava avviando. John Garang, il capo dello Spla, fautore di un Sudan unito ma riformato, si è rifiutato di separare le rivendicazioni del Sud da quelle di tutte le altre aree marginalizzate del paese, inclusi i Monti Nuba.

L a pace firmata a Nairobi, il 9 gennaio 2005, tra il governo centrale di Khartoum e lo Spla, dopo un lungo processo negoziale svoltosi nella località di Naivasha (Kenya) e promosso dall’Onu, dagli Usa e dall’Unione Europea, ha posto fine alla guerra. Infatti, il documento finale contiene una serie di articoli e clausole che riguardano la sistemazione dei Monti Nuba nel Sudan rappacificato.
Sostanzialmente, il destino dei Monti è separato da quello del resto del Sud e gli accordi di pace assicurano un governo regionale autonomo ai nuba, garantito dalla presenza di truppe dello Spla a fianco di quelle governative.

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci




A prova di bombe

Penetrazione del cristianesimo tra i nuba

Su un milione circa di abitanti della regione dei Monti Nuba, il 33% segue l’islam, il 35% il cristianesimo (di cui 65% cattolici), il 32,22% la religione tradizionale.
L’attività di evangelizzazione è stata condizionata dalle vicende storiche del paese, con lunghi periodi di interruzione: una storia esemplare di fedeltà e martirio. Solo ora si è riaperta la possibilità di una evangelizzazione più efficace.

Il 1871 potrebbe essere la data dell’inizio della penetrazione del cristianesimo tra i nuba, con l’apertura di una stazione di missione a El Obeid per opera di Daniele Comboni. La località doveva diventare la base di lancio per portare il vangelo nel cuore dell’Africa e continuare la sua lotta contro lo schiavismo. La strada attraverso la regione dei nuba era preferibile a quella del Nilo, per raggiungere le popolazioni più meridionali del Sudan, denka e shilluk.
Nel 1874, infatti, a Delen (oggi Dilling, sei giornate di cammino a sud di El Obeid), fu aperta una stazione di missione, la prima tra i Monti Nuba. Il lavoro missionario ebbe un rapido sviluppo, anche se la missione dovette chiudere i battenti per due anni, dal 1875 al 1877, per l’ostilità dei mercanti arabi. Nel maggio 1881, mons. Comboni visitò per l’ultima volta la missione di Dilling, dove ebbe la gioia di battezzare i primi 40 nuba. Il quel viaggio visitò altre zone dei Monti Nuba e progettò l’apertura di una seconda stazione missionaria, per intensificare l’opera di evangelizzazione e la lotta contro gli schiavisti.
Di ritorno dal viaggio, così scriveva a Roma: «F ra un anno, o anche meno, l’abolizione totale della schiavitù presso i nuba sarà un fatto compiuto. Non si possono descrivere la gioia e l’entusiasmo delle popolazioni che, dopo la mia visita, non si sono visti strappare né un figlio, né una figlia, né una mucca, né una capra; riconoscono unanimemente che li ha liberati la chiesa cattolica».
Quello stesso anno, però, il Comboni moriva (ottobre 1881, a soli 50 anni) e in Sudan scoppiava la rivolta di Mohammed Ahmed Mahdi. E fu la catastrofe. Nel 1882 la missione di Dilling venne distrutta, i missionari (2 padri, 2 fratelli, 3 suore) furono fatti prigionieri. Avrebbero voluto portare con sé i loro cristiani «un centinaio tra donne e ragazzi», ma non vi riuscirono: la piccola comunità cristiana fu risucchiata nel vortice mahdista, come il resto della popolazione. La stessa sorte toccò ai missionari e missionarie presenti a El Obeid. 

Quando le truppe anglo-egiziane, nel 1898, riconquistarono il Sudan, ponendo fine al regime mahdista, i missionari poterono ritornare e riprendere il lavoro missionario interrotto da 18 anni. I primi comboniani arrivarono a Ondurman nel 1899, ma mutarono strategia: invece di riprendere la strada dei Monti Nuba, per avanzare verso la regione dei Grandi Laghi, scelsero la via del Nilo. Anche perché il governo non permetteva attività missionaria nelle regioni abitate dalle popolazioni africane, classificate come «distretti chiusi», in cui era compresa anche la regione dei Monti Nuba.
Nel 1913 alcuni missionari del vicariato di Khartoum riaprirono la missione di Dilling, ma l’anno seguente i missionari furono inteati in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale.
Dieci anni dopo, si presentò una nuova opportunità, quando il governatore inglese del Kordofan domandò al nuovo vicario apostolico di Khartoum, mons. Paolo Tranquillo Silvestri, se intendeva riprendere possesso dei terreni della missione di Dilling e El Obeid, ma monsignore rinunciò spontaneamente, per intensificare l’evangelizzazione al sud, presso gli shilluk, nuer e denka. I nuba furono dimenticati per altri 20 anni.

Nel frattempo, però, in seguito al rifiuto di mons. Silvestri, il governo di Khartoum si rivolse ai protestanti perché lavorassero tra le popolazioni dei Monti Nuba. Alcuni membri australiani della Sudan Interior Mission accettarono subito l’invito e, nel 1930, aprirono il loro primo centro missionario a Heiban, per poi estendere la loro presenza nella parte orientale della regione.
La parte occidentale, invece, fu occupata dagli anglicani della  Church Missionary Society, che nel 1933 aprirono il loro primo centro a Sellara, vicino a Dilling, e 10 anni dopo a Katcha.
Aiutati dal governo, i centri protestanti aprirono scuole elementari e varie «bush schools» (scuolette nella foresta) affidate ai catechisti. Se si eccettua le due scuole medie aperte a Katcha e Sellara, i protestanti fecero ben poco per offrire ai nuba una formazione superiore.
Parallelamente all’attività scolastica cercarono di portare avanti anche un certo lavoro di evangelizzazione, senza però offrire una profonda formazione cristiana: l’istruzione si riduceva spesso alla presentazione di qualche brano della bibbia. Nonostante il sostegno governativo e la lunga permanenza nella regione, i risultati furono deludenti, specialmente tra gli evangelici della Sudan Interior Mission: il loro rigorismo calvinista, che proibiva ogni bevanda inebriante e perfino le danze tradizionali, non attirava i nuba alla fede cristiana. Per cui, pochi furono i battezzati, rari i cristiani formati con una educazione secondaria o universitaria, capaci di impegnarsi nel campo politico e sociale.

Nel 1954, due anni prima dell’indipendenza del Sudan (1956), il vescovo di Khartoum riuscì ad ottenere dal governo il permesso di aprire due centri: Dilling e Kadugli. Bisognò cominciare tutto da capo. Poi, con lo scoppio della guerra tra il governo di Khartoum e le popolazioni del Sud Sudan, tutti i missionari stranieri furono espulsi dal paese.
Nel frattempo, El Obeid era diventata sede vescovile (1960), con la creazione dell’omonimo vicariato apostolico, distaccato da quello di Khartoum, successivamente fu elevato a diocesi (1974).
A partire dal 1969, la concessione di qualche autonomia amministrativa a territori meridionali, il clima politico divenne più sereno e fu possibile imprimere nuovo slancio all’attività missionaria: fu possibile aumentare il numero del personale (missionari e suore) e operare liberamente su vasto raggio e senza paura.
Mentre tra i Monti Nuba l’attività missionaria procedeva a singhiozzo e tra innumerevoli ostacoli, essa riscuoteva maggiore successo tra i nuba emigrati nelle grandi città del Nord Sudan, come El Obeid, Kosti, Khartoum. Relegati nelle periferie, impiegati nei lavori più umili, essi furono da sempre al centro dell’interesse e del lavoro di evangelizzazione.
A Khartoum, soprattutto fu molto attivo padre Muratori, fino alla sua morte, avvenuta nel 1959. Egli scrisse catechismi nelle più diffuse lingue nubane, istruì e battezzò centinaia di nuba e si dedicò alla preparazione di maestri e catechisti dei più importanti gruppi nubani. Tale lavoro, imitato da altri missionari, specie nella diocesi di El Obeid, è stato provvidenziale per la chiesa sui Monti Nuba: maestri e catechisti ne sono diventati la «spina dorsale», come afferma mons. Macram Max Gassis, vescovo della stessa diocesi.

Con la ripresa della guerra civile tra Nord e Sud Sudan, nel 1983, buona parte dei Monti Nuba si venne a trovare sotto il controllo dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) e gli abitanti (cristiani e musulmani compresi) si unirono ai ribelli. Per quasi 10 anni le comunità cristiane rimasero praticamente senza preti e senza vescovo, costretto all’esilio, per le sue prese di posizione contro l’arabizzazione e islamizzazione forzata imposta dal governo di Khartoum.
Per tutta la durata del conflitto, i nuba furono oggetto di una repressione così feroce da sfociare nella «pulizia etnica». Bombardamenti sistematici hanno distrutto scuole, ospedali e tutti i luoghi di culto cristiani nei Monti Nuba e varie moschee, poiché i musulmani nuba erano considerati eretici perché si opponevano all’imposizione della sharia (legge islamica). Le incursioni militari si sono accanite soprattutto contro i cristiani, facendo parecchi martiri.
I documenti raccolti da Human Rights provano che, dal 1993 al 1995, sono «scomparsi» circa 200 mila nuba, vittime di «genocidio». Bombardamenti, incursioni e rappresaglie governative sono continuate anche negli anni seguenti. 
Nonostante l’isolamento, il terrore e la persecuzione, tre diaconi, un gruppo di catechisti e altri leader laici, hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Hanno amministrato e registrato centinaia e centinaia di battesimi di adulti e fondato nuove comunità in villaggi lontani, dove l’annuncio del vangelo non era mai arrivato. In alcuni luoghi i diaconi hanno inventato un «surrogato» dell’eucaristia (vedi riquadro).
Con la firma del cessate il fuoco nel 2001 e dell’accordo di pace nel 2005, missionari, preti locali e suore sono tornati a Gidel, Kauda, Lumon e altre missioni distrutte durante la guerra civile. È cominciata la ricostruzione di chiese, scuole, ospedali, insieme all’attività di evangelizzazione.

Oggi, su un milione circa di abitanti presenti tra i Monti Nuba, 330 mila sono musulmani (33%), 320 mila seguono la religione tradizionale (32,22) e 350 mila sono cristiani (35%), cui 65% cattolici.
Il fatto più straordinario dal punto di vista umano e cristiano è che  musulmani, cristiani protestanti e cattolici, seguaci delle religioni tradizionali convivono in pace e nel mutuo rispetto per tutte le religioni. Non di rado si incontrano famigli formate da genitori musulmani, due figli cristiani, due figli di religione tradizionale, altri due o tre figli che seguono l’islam. E tutto ciò senza che costituisse un problema per nessuno.
Una grande lezione di civiltà, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire.
La chiesa cattolica ha sempre goduto di stima e prestigio tra la popolazione nuba, grazie alle sue attività in favore della pace e della promozione umana. Ora che è tornata la libertà di azione e di movimento, si moltiplicano le iniziative di promozione umana e sociale, tanto che il governatore della regione di Gidel, Abdel Aziz, musulmano e uno dei leader dello Spla, ha detto al vescovo di El Obeid: «La chiesa è la nostra speranza».

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Senza lavoro e senza casa

Introduzione

Kibera è una delle più estese e popolate bidonville africane. Alle 6 del mattino chi si piazza alle entrate della baraccopoli può assistere alla versione keniana dell’esodo biblico. Un oceano di formiche umane si scrolla di dosso la notte africana e inizia la lunga marcia verso le strade caotiche della capitale. Alle 7 di sera è nuovamente in fila per compiere il percorso inverso, carico delle frustrazioni accumulate in 12 ore di «scuola di sopravvivenza» nella grande città. Succede così, giorno dopo giorno, fintanto che il sole continua a sorgere e filtrare fra i tetti di lamiera delle baracche fatiscenti in cui vivono, compresse come sardine, quasi 800 mila persone. Migliaia di storie diverse, tutte apparentemente insignificanti, ma tutte indice di un dato tanto inquietante quanto incontrovertibile: la popolazione urbana sta crescendo a dismisura e presto, molto presto, supererà per numero quella rurale.

La migrazione dalle campagne alle città è un fenomeno che ha accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli: carestie, guerre, epidemie hanno sempre provocato movimenti di persone dalle zone rurali a quelle urbane, ma mai, come in questo ultimo secolo, il fenomeno ha assunto proporzioni così consistenti. Viene da chiedersi seriamente se il flusso così imponente di persone verso le città sarà sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale o se questa realtà sarà destinata a implodere con conseguenze che vanno al di là delle possibili previsioni. Ciò che già sembra certo è che il convergere così velocemente e in forma tanto massiccia negli spazi urbani sta cambiando radicalmente il volto delle città. Insediamenti urbani di medie dimensioni stanno diventando autentiche metropoli, mentre le metropoli di un tempo si stanno trasformando in megalopoli con valori demografici superiori a quelli di tanti stati del pianeta.

Slum, baraccopoli, bidonville, insediamento informale sono alcuni dei nomi, ormai tutti entrati nell’uso corrente, per definire un’unica realtà: il posto infame dove, in città, vanno a vivere o dove cercano di sopravvivere i più poveri della terra. Oggi, un sesto degli abitanti della terra vive in uno slum; ciò significa che circa un miliardo di persone vive in ambienti sovrappopolati e malsani, con un abitato che i documenti definiscono eufemisticamente «informale», ma che dovrebbe essere etichettato invece come «indegno di qualsiasi essere umano».

Nel suo recente saggio «Città Ombra: viaggio nelle periferie del mondo», Robert Neuwirth scrive: «Ho cominciato a interrogarmi sulla moralità di un mondo che nega alle persone un posto di lavoro nella zona dove abitano, e poi gli nega un’abitazione nella zona dove sono arrivati per ottenere un lavoro. E ho cominciato a riflettere sulla mia responsabilità». La «mia» responsabilità. Questo appello alla moralità e alla responsabilità dovrebbe toccare un po’ tutti, ma soprattutto coloro che, per scelta o vocazione, dedicano la loro vita ai poveri, primi fra tutti i missionari. È importante continuare ad essere inseriti nelle comunità che abitano le baraccopoli per condividere il desiderio che le persone hanno di uscire dal fango e dare alla loro vita una dignità perduta e un futuro diverso. È importante insistere nell’appoggiare progetti di sostegno, solidarietà e promozione umana. È però anche importante «dar voce» a chi non ce l’ha, facendo rete e protestando contro quelle politiche economiche inique dei paesi sviluppati che continuano a considerare i paesi in via di sviluppo come terre da conquistare, colonizzare e spolpare, incuranti dei danni umani e sociali che tali politiche provocano. Una responsabilità verso le periferie del mondo che soprattutto chi vive al centro e vive bene può e deve in coscienza assumere.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il pianeta bidonville

Le isole infelici delle grandi metropoli

Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni,  rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.

Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi  complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island),  segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.

Di Fabrizio Floris

Fabrizio Floris




Tra baracche e grattacieli

Nairobi e la sua gente

Nairobi è una città di gente in fila.  Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file, anche davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l’autobus. Una città in balia dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi.  Come i gatti li trovi puntuali all’ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio.  Altoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, urlano per dire che c’è un solo Dio, ma quale? Una città dove puoi restare a terra ferito per ore fino alla morte se non hai denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. È un luogo di potere: non si contano i casi di corruzione, furto, doppie contabilità all’interno degli ospedali, così come delle scuole.
L’altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questo apartheid sociale. Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri, schiacciati come sono dai problemi personali.  Sarà un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O, forse, è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che lo caratterizza è l’eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens, così gli statunitensi chiamano i sudamericani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango dove, per poterci restare, pagano l’affitto.
Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori inteazionali e nelle vene dei malati di Aids, così come nella cultura. Nairobi è specchio di un mondo che spinge tutto verso gli eccessi, dove tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, dove spariscono le forme di mediazione, nulla mitiga o mòdera la situazione: non esistono compromessi, gradualità, stadi intermedi. È una continua battaglia per la morte o per la vita.
A Nairobi è come se si fosse sempre di fronte a un limite che impone delle scelte. O di qua o di là, senza vie intermedie. Ogni scelta, a  Nairobi, diventa lo specchio delle scelte di ogni abitante del pianeta, è lo status confessionis: o con l’uomo o contro.
Il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po’ come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica, così hanno trasformato le case basse in grattacieli ma non si può ingannare la crescita di un bambino, così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i keniani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. E poi problemi su problemi che si concentrano su uomini e donne che sono il volto della Sindone che cammina.
In questa situazione di insicurezza generalizzata tutti sono poveri, tutti sono a rischio, tutti non possono aiutare perché tutti hanno bisogno di essere aiutati. Ognuno è mendicante. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina. Cammina. Quando non c’è l’elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario al lavoro. E sa anche essere felice, donare un sorriso e una stretta di mano, ridere e scherzare.
In questa città mancano luoghi pubblici e spazi di confronto autentico. Ogni voce è sola lungo queste strade e dentro questi autobus. I ricchi vanno dall’ufficio a casa, dal negozio alla banca sempre di giorno e in auto, senza aprire i finestrini e con le porte bloccate perché può essere pericoloso. Le loro case sono più chiuse e controllate di un carcere: guardia giurata al cancello, allarme sul comodino, rete elettrica di recinzione o muro con filo spinato, allarme elettronico in casa, finestre con inferriate. E mentre i grattacieli salgono sempre più in alto, su fino al cielo, cresce l’ansia nel domani.
Gli spazi più vitali sotto questo aspetto sembrano essere gli slum, dove per necessità o altro, la gente sta iniziando a mettersi insieme per uscire dal vicolo cieco dell’individualismo e a costruire percorsi di cittadinanza, di diritto e solidarietà.
Il grande mistero è di che cosa viva tutta questa massa di persone. Di che cosa e «come».  Infatti, uomini e donne non si trovano qui perché la città ha bisogno di loro, ma solo perché la miseria li ha scacciati dalle campagne. Sono fuggiaschi, in cerca di salvezza e di sopravvivenza.
Mangiano tutto senza lasciare una briciola, nessuno ha provviste da parte, né saprebbe dove conservarle o rinchiuderle. Si vive alla giornata. Non è realistico pensare al futuro.
Nelle bidonville non vi sono inquilini fissi. È tutto un avvicendarsi di nomadi cittadini in continuo movimento.
A prima vista una baraccopoli si presenta come un’enorme stazione ferroviaria dove però non ci sono né treni né manager e impiegati, esiste solo il corollario: gente seduta, volti anonimi, traffici vari, sporcizia, via vai frenetico, come se ognuno avesse qualcuno da cui fuggire o da inseguire. È un luogo senza alberi alla cui ombra fermarsi a discutere o ascoltare gli anziani che raccontano una storia. È un luogo fatto di persone che stanno perdendo la memoria, che sanno sempre meno da dove vengono e non sanno dove andare. È anche un luogo di creatività, dove una vecchia lamina d’alluminio diventa una valigia, un barattolo si trasforma in una lampada, tanti piccoli pezzi di lamiera diventano una parete.
Ai lati delle strade, di là dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne cucinano chapati, friggono pesci, vendono frutta e verdura, biscotti, vestiti usati, lavano e asciugano la biancheria. Tutto in vista, quasi vigesse l’obbligo di uscire di casa alle sette del mattino e di riversarsi sulle strade. La ragione vera è un’altra: le abitazioni sono piccole, misere, anguste. Si soffoca, il tetto di lamiera moltiplica il calore del sole, blocca la circolazione dell’aria, manca il respiro. È nella strada che ferve la vita sociale. Si passa la giornata all’aperto in movimento tra la gente.                   

Di Fabrizio Floris

LE ORIGINI DEGLI SLUM

In tutta l’Africa sub-sahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le varie popolazioni indigene, il possesso della terra poggiava sul concetto di proprietà comune. La terra apparteneva alla comunità e veniva amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto aveva diritto di usare la terra e questo diritto variava a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità aveva il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili.
L’impatto del colonialismo su queste forme di distribuzione della terra è stato considerevole. I  modelli dell’organizzazione coloniale hanno modificato sia i rapporti esistenti tra le tribù, sia le relazioni all’interno delle tribù, con effetti progressivamente negativi. La conflittualità è così aumentata, favorendo anche l’insorgere di guerre, magari non sempre fisiologiche ma talvolta orchestrate ad hoc secondo il ben noto principio divide et impera. Ma l’impatto più radicale si è notato nelle città dove è stato instaurato il concetto europeo di proprietà terriera. Nasce il mercato della terra, le transazioni derivano dalla capacità economica dei contraenti, si sviluppa il gioco anonimo della domanda e dell’offerta che determina un incremento dei prezzi e una crescita della speculazione.

Nel periodo coloniale, agli africani fu negato il diritto di essere proprietari di terreni, così come era loro vietato costruire case. Di conseguenza, chi fra loro aveva il permesso di lavorare in città adattò il proprio concetto di utilizzo della terra all’interno della nuova realtà urbana. Del resto, gli africani alloggiati nelle città non potevano essere proprietari dell’abitazione, e questa misura serviva da garanzia del loro ritorno al villaggio una volta terminato il periodo.
Durante la loro residenza in città, questi lavoratori erano muniti di un permesso di occupazione a durata predefinita, di un permesso di abitazione revocabile in ogni momento e non trasferibile o ereditabile, di una concessione fondiaria che diventava definitiva solo quando si fossero completate varie formalità e a patto di avere rispettato tutti i regolamenti. Il governo della colonia limitava in ogni caso le possibilità degli africani di risiedere in modo permanente nelle aree urbane esclusivamente a chi possedeva un regolare contratto di lavoro e, comunque, non si poteva portare la famiglia, per la quale non erano previste strutture adeguate.
Nacquero così, e furono mantenuti, speciali «insediamenti indigeni» per gli africani, i quali, a causa dell’eccessiva espansione della città, furono successivamente trasferiti verso la periferia.

C on la fine del colonialismo, tuttavia, gli stati africani indipendenti hanno ereditato lo strabico  sistema di possesso della terra: da un lato è stato applicato il modello europeo di proprietà terriera, di cui usufruivano ovviamente gli europei, mentre dall’altro lato gli africani hanno dovuto inventare forme di adattamento loro proprie. In pratica, l’accesso alla terra risultava bloccato per gli africani. Ne è derivata, per contrappeso, la costruzione di case abusive, senza alcun tipo di servizio e in aree prive di infrastrutture.
Col tempo, il problema ha assunto dimensioni imponenti tanto che si è cercato di darvi soluzione attraverso le demolizioni. Si pensava che, in questo modo, le persone sarebbero ritornate ai villaggi di origine, ma il risultato, di certo non atteso, è stato un semplice spostamento di questi gruppi verso periferie contigue e più estee.
Successivamente, gli insediamenti si sono consolidati e per certi versi organizzati: è iniziata la commercializzazione delle abitazioni abusive, si sono diffusi i contratti di affitto, sono nate e cresciute sia le attività commerciali e sia quelle artigianali, mentre sorgevano le strutture di servizi. In pratica, i dormitori temporanei sono diventati luoghi permanenti, sono diventati «città».        

Fa. Flo.

Fabrizio Floris




GIù LE MANI DALL’AFRICA

CATTIVI RIMEDI PER UN CONTINENTE «MALATO»

Le risorse del continente africano continuano a far gola alle potenze di tutto il mondo. Wto, zone franche ed Epas sono le «armi» con cui il nuovo colonialismo economico di stampo liberista vuole impadronirsi di una ricchezza non sua. Ma anche una delle cause principali di fenomeni sociali come immigrazione e ghettizzazione nelle baraccopoli.
Una sfida per la missione di oggi.

Immigrati e bidonville sono una vetrina di povertà e miseria, frutto delle ricorrenti e aspre politiche commerciali, scritte e imposte dai potenti attori della scena internazionale.
Le città sono sempre state, per consuetudine secolare, il luogo nel quale i poveri hanno cercato rifugio perché minacciati, spesso dalla fame. E i periodi di depressione economica o post-bellici hanno avuto come effetto collaterale la fuoriuscita di milioni di persone dall’Europa alla ricerca di lavoro e speranza altrove.
L’Africa, nella sua recente storia, ha subito l’esodo dalle campagne come contraccolpo della politica dei prezzi agricoli, della deregulation, del dumping e dal protezionismo praticate negli anni ‘80 dalle discipline finanziarie imposte dagli organismi inteazionali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale.
In Africa, il 70% dei lavoratori è impiegato nel settore agricolo e il 95% delle terre coltivate è gestito da imprese familiari. Coltivano prodotti destinati al commercio di prossimità, cioè a mercati e piccoli negozi dove si rifornisce la maggior parte dei consumatori africani. La struttura produttiva venne definita nel periodo coloniale: grandi monoculture di materie prime agricole destinate all’esportazione (cacao, zucchero, caffè…), a svantaggio delle coltivazioni per il consumo interno.
Quando negli anni ‘60 sempre più paesi dell’Africa cominciarono a ottenere l’indipendenza, l’esigenza di mantenere l’architettura delle monoculture, tanto funzionale al Nord del mondo, spinse le ex potenze coloniali a stipulare degli accordi con i nuovi stati africani. Si arrivò così alla Convenzione di Yaoundè (1964) e, in seguito, alle quattro Convenzioni di Lomè (dal 1975 al 2000) che stanziavano somme ingenti per gli aiuti allo sviluppo e stabilivano delle corsie preferenziali per le merci provenienti dalle ex colonie senza chiedere in cambio una reciproca apertura di mercato.
La svolta avvenne quando si passò dal riconoscimento del diritto che i paesi in via di sviluppo avevano di proteggere le proprie giovani economie a un approccio di classico stampo liberista il cui credo postulava che l’apertura dei mercati avrebbe prodotto di per sé quello sviluppo a cui anelavano i paesi più poveri.
Fu l’epoca dei grandi Piani di aggiustamento strutturale (Pas) voluti da Fmi e Banca mondiale, che imposero l’abbandono dei meccanismi di sostegno e di protezione sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre più ampi dell’economia nazionale che, quasi ovunque, era ancora prevalentemente statale. Furono anche i tempi della cosiddetta «rivoluzione verde» che coltivava l’idea di un’agricoltura sempre più industrializzata e tecnologica per sfamare il mondo.
In cambio dei soldi ricevuti per la loro «modeizzazione» i paesi del Sud furono costretti a privatizzare o svendere risorse e servizi pubblici. A seguito della crisi del debito generato da quei prestiti, l’Africa fu costretta a rinunciare alla propria sovranità alimentare, cedendo terre su terre agli investimenti stranieri, in cambio di grandi coltivazioni di prodotti il cui prezzo è sceso di anno in anno.
Una situazione che si è protratta fino ai nostri giorni e della quale hanno approfittato le grandi imprese dell’agrobusiness presenti in Africa. Attraverso la concessione di terreni e agevolazioni e creando delle zone franche per l’esportazione, nel corso di pochi anni queste imprese hanno incentivato la produzione per l’esportazione e abbassato notevolmente il prezzo dei prodotti agricoli, costringendo numerosi piccoli produttori a vendere la loro merce a un prezzo inferiore al costo di produzione.

LE CONSEGUENZE SOCIALI
Il risultato delle liberalizzazioni previste dai Piani di aggiustamento strutturale è stato spesso rovinoso per il settore agricolo, e catastrofico sul piano sociale. Per riprendere una dichiarazione del Commissario allo sviluppo della Commissione europea, Louis Michel: «Nella prima fase delle liberalizzazioni – come si è visto nei paesi dell’Est europeo – ci sono spesso catastrofi sociali».
Gli esempi sono molteplici: in Costa d’Avorio, dopo la riduzione del 40% delle tariffe decise nel 1986, i settori tessile, chimico, dell’abbigliamento e dell’assemblaggio automobilistico collassarono, producendo un’emorragia di posti di lavoro.
In Senegal, fra il 1985 e il 1990, dopo l’applicazione di un programma di liberalizzazioni che aveva ridotto le tariffe doganali dal 165 al 90%, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti.
Nel Ghana, 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il 1993, dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo.
In Kenya, i settori del tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento del vetro e del pollame dovettero lottare duramente per reggere la competizione delle importazioni da quando, nel 1993, venne lanciato un radicale piano di liberalizzazioni degli scambi in linea con un programma di aggiustamento strutturale targato Fmi/Banca mondiale.
Fra il 1993 e il 1997 la crescita industriale nel paese è scesa del 2,6%, tra il 1991 ed il 2000 il paese ha raddoppiato le sue esportazioni agricole e quadruplicato le sue importazioni alimentari.

POLITICHE ECONOMICHE
Alla fine degli anni ‘90, le riforme del commercio internazionale hanno ricevuto un impulso straordinario grazie alla nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in sostituzione dell’Accordo sul commercio e sulle tariffe (Gatt). Lo scopo di questa organizzazione è quello di redigere e far rispettare delle regole uniformi per il mercato mondiale.
Come condizione per entrare nel Wto viene richiesto ai singoli paesi di eliminare ogni ostacolo al «libero scambio delle merci», principalmente gli strumenti tradizionali con i quali gli stati sostengono le proprie economie: le tariffe doganali, la scelta di sostenere alcuni settori produttivi fino al controllo dei prezzi dei generi di prima necessità.
Ogni trattamento preferenziale non è più possibile in quanto considerato «concorrenza sleale» nei confronti dei prodotti di altre nazioni. Questo livellamento del terreno di gioco, auspicabile idealmente, in pratica ha finito per favorire soltanto gli attori più forti a livello economico e le grandi industrie multinazionali che possono vendere i loro prodotti all’interno di un paese in via di sviluppo a un prezzo nettamente inferiore a quello del mercato interno. Il risultato di questa politica di dumping è che l’economia ristagna e la gente, non trovando opportunità di lavoro e profitto in casa propria, si dirige verso le grandi città ingrossando la massa delle baraccopoli oppure fugge all’estero. Mentre le multinazionali comperano a prezzi stracciati le terre abbandonate.
Tra le condizioni previste dai programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale per accedere a nuova liquidità presso i creditori inteazionali e alla dilazione del pagamento dei servizi del debito estero, c’era l’apertura dei paesi africani agli «Investimenti diretti esteri» (Ide). Anche in questo caso, i costi ambientali e sociali sostenuti sono stati enormi. Non potendo offrire condizioni economiche ottimali (mercati, infrastrutture, stabilità), alcune nazioni africane – per attirare tali investimenti, in sintonia con la logica dei Pas – hanno fatto leva sulla deregolamentazione del settore, promuovendo la nascita di zone franche per l’esportazione, garantendo alle imprese straniere esenzioni fiscali, completa libertà di rimpatrio dei profitti ed assenza di vincoli di natura sindacale e ambientale.
Nascono così le Export Processing Zones (zone franche per l’esportazione). Le zone franche si sono rivelate delle isole di profitto per le multinazionali, di sfruttamento dei lavoratori e, soprattutto, lontane dai bisogni reali della gente. Il Kenya, un paese che non è autosufficiente a livello alimentare, ha 43 zone franche, di cui 28 operative, tra le quali quelle dedite alla coltivazione ed esportazione di fiori in Europa.
In queste zone i livelli salariali sono molto bassi, i tui di lavoro in media di dodici ore e gli standard di sicurezza insufficienti. Inoltre, non sempre hanno creato nuovi posti di lavoro. Le imprese minerarie straniere in Ghana tendono ad impiegare personale specializzato straniero piuttosto che locale. Gli investitori stranieri in Sudafrica fanno largo ricorso a contratti di lavoro flessibili con l’obiettivo di abbattere i costi di produzione.
In ogni caso, dove vengono creati nuovi impieghi, come nel tessile e nel settore dei prodotti vegetali, i lavoratori sono sfruttati, sotto pagati ed i loro diritti non rispettati.
Attoo alle zone franche i piccoli produttori vengono messi fuori dal mercato locale perché non in grado di competere con le imprese straniere. Inoltre, appena si presentano nuove opportunità per aumentare i profitti, le grandi industrie hanno la tendenza a muoversi rapidamente fuori e dentro il paese, lasciando molte persone improvvisamente senza impiego e senza dare loro il corrispettivo spettante per gli ultimi mesi di lavoro.
È in atto un nuovo tipo di colonizzazione economica neoliberista che non mira alla conquista dei paesi, bensì dei mercati, delle materie prime e delle risorse.
L’Africa sub-sahariana è la regione del mondo con il più basso tasso di sviluppo umano, indice che comprende – oltre alla ricchezza pro-capite – indicatori come l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, l’accesso alle risorse essenziali quali cibo e acqua potabile.
Dei 40 paesi considerati oggi poverissimi ben 34 si trovano nell’Africa sub-sahariana; negli ultimi 20 anni secondo la Banca mondiale, il loro reddito medio è diminuito da 400 a 300 dollari l’anno; secondo la Fao dei 50 paesi che ancora oggi soffrono la fame, 30 si trovano in Africa.
La descrizione di un continente che lentamente va alla deriva sospinto dalla pandemia dell’Aids e dei conflitti e guerre «a bassa intensità», commistione di poteri locali corrotti e forti interessi inteazionali.
Si sta ridisegnando l’Africa secondo una strategia della spartizione, un apartheid tra isole ricche da proteggere con le armi e oceani di poveri da abbandonare ai massacri, agli aiuti umanitari, oppure reclusi nelle fatiscenti città ombra ai margini delle grandi città e del mondo intero.
Per tutti noi l’Africa è malata! Ha bisogno di aiuto. Ma il suo dottore, l’Occidente «benefattore» sa ben sfruttare i suoi malanni.

LA RICETTA EUROPEA
Epas è l’acronimo inglese di «Economic Partnership Agree­ments» (accordi di partenariato economico) che, dal 27 settembre 2002, l’Unione europea sta negoziando con 77 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (i cosiddetti paesi Acp). L’obiettivo è quello di creare, a partire dal 1 gennaio 2008  un’area di libero scambio.
Ufficialmente, gli Epas si propongono come fine principale la riduzione e infine l’eliminazione della povertà, in linea con gli obiettivi di uno sviluppo durevole e della progressiva integrazione dei paesi Acp nell’economia mondiale.
In realtà il modello di liberalizzazione proposto dall’Europa rientra nella strategia di creare maggiori opportunità di esportazione per le proprie imprese. Per i paesi Acp i benefici rimangono incerti mentre sono certi gli effetti negativi.
L’Unione Europea ha spinto affinché questi accordi fossero fondati su una rigida interpretazione delle regole del Wto, prevedendo l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra Europa e paesi Acp ed annullando di fatto, come richiesto dal Wto al massimo entro il 2008, le condizioni preferenziali e non-reciproche concesse dall’Unione Europea in favore dei paesi più poveri e vigenti da diversi decenni.
Dietro la maschera di una «cooperazione per lo sviluppo» l’Unione Europea sta di fatto riproponendo attraverso gli Epas la propria agenda liberista sostenuta in ambito Wto.
I paesi Acp che aderiranno agli Epa dovranno aprire i loro mercati domestici a quasi tutti i prodotti europei nel giro di un periodo che andrà dal 2008 al 2020.
Inoltre, il processo prevede la liberalizzazione del settore dei servizi, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la standardizzazione delle certificazioni e delle misure sanitarie e fitosanitarie, la definizione di regole di concorrenza e di promozione e difesa degli investimenti delle imprese estere.
Questo processo rischia di cancellare entrate fiscali fondamentali per i bilanci statali e di mettere in ginocchio le industrie di paesi fra i più poveri del pianeta.
Insomma l’Europa, dopo aver sfruttato le sue colonie, aver sottratto all’Africa materie prime e esseri umani attraverso la tratta degli schiavi, continua la via dello sfruttamento, promuovendo una partnership basata sulle proprie regole e sui propri interessi, proponendosi ipocritamente come sensibile e attenta ai loro interessi.
Gli Epas non sono strumenti di sviluppo, ma la loro filosofia è di carattere commerciale; per questa ragione la giurisdizione sui negoziati è stata affidata al Commissario europeo al Commercio e non a quello allo Sviluppo.
Tutte le analisi indicano che il peso dei cambiamenti introdotti dagli Epas sarà scaricato esclusivamente sulle spalle dei paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Con l’aggravante che gli Epas mettono in pericolo il fragile processo di integrazione regionale, fondamentali nelle strategie di sviluppo dei paesi Acp, esponendo i produttori di quei paesi ad un’impari concorrenza con l’Europa nei mercati interni e regionali.
In particolare, l’Unione Europea ha deciso di avviare sei negoziati: quattro con diverse regioni africane, e uno ciascuno per i paesi di Caraibi e Pacifico. Questa suddivisione dell’Africa in quattro regioni non tiene in nessuna considerazione la realtà politica e storica del continente africano e gli embrioni di alleanze economiche regionali che lì si stanno faticosamente costituendo.
Si ripete così la spartizione dell’Africa, già un tragico errore del periodo colonialista, senza nessuna considerazione per le realtà locali, questa volta però inserita in una strategia geopolitica globale: attraverso gli Epas l’Europa intende rispondere agli analoghi negoziati di libero commercio che stanno portando avanti il Giappone, tramite il Ticfad (Tokyo Inteational Con­fe­rence For African Development) e gli Usa con l’Agoa (Africa Growth Opportunity Act) e all’intromissione di un outsider: la Cina, con i suoi recenti cospicui investimenti in Africa.
La posta in gioco è sempre la stessa: l’accesso a basso costo alle enormi materie prime del continente africano, a partire dalle risorse minerarie e dai prodotti agricoli. Come sostiene Eveline Herfkens, cornordinatrice Onu per gli Obiettivi di sviluppo del millennio: «Gli Epas sono davvero un problema per i paesi poveri. Questi non hanno né il tempo né le capacità per negoziare degli accordi forti con l’Unione Europea».
Anche la saggezza di un proverbio africano esprime bene la concorrenza impari fra i Paesi Acp e l’Europa: «È come una gara fra una giraffa e un antilope per la frutta sui rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai concorrenza leale».
Gli Epas non sono la cura giusta, ma uno scandalo truccato dalla retorica della cooperazione e un’ipoteca definitiva sulle possibilità di sviluppo dell’Africa. Che così continuerà ad essere un serbatornio di tragedie, a produrre gli slum e gli immigrati perché i contadini continueranno ad abbandonare le terre e migliaia di uomini e donne disperati lasceranno il continente per essere schiavizzati sulle strade delle metropoli di tutto il mondo.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Soweto vede la luce

Un progetto pilota per la riabilitazione delle baraccopoli di Nairobi

Storia di una comunità che vuole trasformare lo slum in cui vive e del progetto che si incaricherà
di coronare questo sogno. Con l’aiuto della parrocchia, del Comune di Nairobi, delle Nazioni Unite e del Goveo italiano.

Mama Esther ha un’età indefinibile; la diresti giovane per l’entusiasmo che anima i suoi occhi, ma il suo volto porta inequivocabili segni di stanchezza dovuti ai 25 anni passati a Soweto, vivendo e tirando su figli in questo ammasso di stradine che chiudono il quartiere di Kahawa, a Nord di Nairobi.
Soweto-Kahawa West è uno slum, uno dei circa 200 insediamenti abusivi urbani che costellano la grande metropoli kenyana, vera e propria galassia di formicai umani. Un chilometro quadrato di terra polverosa, adagiato lungo la linea ferroviaria Nairobi-Naniuki, in cui circa 6 mila persone vivono ammassate, in una situazione di degrado ambientale e sociale ai limiti della sopravvivenza: baracche fatiscenti, costruite «a casaccio», senza un’adeguata progettazione; strade strette, quasi dei sentirneri schiacciati fra le pareti di legno e fango delle case; assenza totale di impianti igienico-sanitari e di spazi aperti, per permettere una minima socializzazione fra le persone dell’insediamento.
Niente di tutto ciò. Questa è Soweto fin dai giorni delle sue origini, immediatamente successivi all’indipendenza del Kenya (1963), la Soweto che Mama Esther ricorda, in cui ha sempre vissuto fino a oggi, anzi… fino a «ieri».
Sì perché, in effetti, oggi a Soweto sta accadendo qualcosa di diverso, di unico, di speciale, quel «qualcosa» che riempie di luce e di orgoglio gli occhi di Mama Esther e degli altri abitanti dello slum: l’area sta cambiando, rinascendo, vivendo una fase della sua storia che fino a pochi anni fa sarebbe stata assolutamente inconcepibile.
Soweto-Kahawa West si propone, oggi, come modello per il Kenya Slum Upgrading Program (Kensup), un programma per la riabilitazione e lo sviluppo degli slum della nazione che il governo del Kenya ha lanciato nell’aprile del 2006, stanziando la cifra di 880 miliardi di scellini per i prossimi 14 anni (10 miliardi di Euro).
L’opera di miglioramento ha potuto prendere il via grazie a un progetto elaborato dalle Nazioni Unite-Habitat, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo italiano con la cifra di 240 mila dollari.
L’intervento dell’Italia è anche frutto della campagna «WNairobiW», iniziativa promossa da un gruppo di associazioni e Ong italiane e keniane contro la demolizione degli slum e il diritto alla terra. La campagna ha inoltre insistito sulla proposta di riconversione del debito del Kenya verso l’Italia, di circa 44 milioni di Euro.
L’accordo, siglato il 27 ottobre scorso, impegna il governo del paese africano a investire, per un periodo di dieci anni, 4,4 milioni di euro in progetti di sviluppo a favore delle zone degradate, urbane e rurali, del paese.
Inoltre, Soweto rappresenta un frutto significativo dell’attività dell’organizzazione Kutoka-Exodus Network, che riunisce 15 parrocchie cattoliche presenti negli slum e che dai suoi inizi si è battuta per migliorare la qualità di vita e la difesa dei diritti fondamentali degli abitanti delle baraccopoli.
La scelta di iniziare questo programma di upgrading proprio da Soweto è stata fatta grazie all’impegno della comunità, organizzatasi per difendere il diritto di abitare nell’insediamento e di migliorare gradualmente il livello di vita al suo interno.
Già nel 1998, per proteggersi dalle pretese di alcuni speculatori che millantavano la proprietà dei terreni, gli abitanti si erano riuniti in comitato, presentando un reclamo alle autorità locali e dichiarandosi nel medesimo tempo idonei alla proprietà del territorio che, come in altri casi di insediamenti abusivi, appartiene allo stato.

Il cammino della comunità è stato accompagnato in tutti i suoi passi dalla parrocchia di Kahawa-West, amministrata dai missionari della Consolata e partner fondamentale in quest’opera di riabilitazione dello slum. Soprattutto negli ultimi due anni, la collaborazione fra parrocchia e comunità si è fatta più stretta e ha condotto  ai risultati che oggi si possono toccare con mano.
L’impegno della gente è stato fondamentale. Lo riconosce padre Franco Cellana, oggi superiore provinciale dei missionari della Consolata in Kenya. È lui la mente del progetto di riabilitazione sin dal giorno in cui è entrato alla guida della parrocchia di Kahawa West.
«Dal gennaio 2004 ad oggi si sono fatti grandi passi in avanti e tutto ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento degli abitanti di Soweto che, attraverso i loro rappresentanti, hanno saputo coinvolgere le persone, facendo comprendere loro l’importanza di queste proposte. È da due anni  – continua padre Franco – che lavoriamo con la gente, raduniamo la popolazione, in un processo graduale, lento e faticoso, per superare le diffidenze, le rivalità e la speculazione selvaggia da parte dei proprietari delle baracche, che vivono fuori dallo slum e chiedono affitti esorbitanti anche su pezzi di lamiera vacillanti sorretti da mura di argilla».
Sammy Chomba e Peter Kamau rappresentano la voce della comunità e due diverse generazioni di abitanti di Soweto.
Il primo è, dal 2004, il presidente del Comitato per la riabilitazione dello slum. Eletto dagli stessi abitanti, è anche il responsabile per tutti gli affari interni della comunità. Quando sorge un problema o c’è una disputa fra residenti è a lui che tocca intervenire.
È un uomo silenzioso e quando inizia a raccontare la storia del progetto sembra persino intimidito. Fino a quando chiede il permesso di esprimersi in Kiswahili, lasciando a Peter il compito di tradurre in inglese. Le parole escono lentamente, ma fluide, facendo intuire a chi lo ascolta l’autorità che Sammy riveste all’interno dello slum. La memoria scava e va alla radice del problema, legato al possesso della terra.
«La grande difficoltà – dice – sta nel fatto che non esiste nessun documento legale che garantisca la proprietà del terreno su cui sorge lo slum. Il terreno appartiene al governo, mentre ci sono molti proprietari di baracche che vivono al di fuori dello slum e alle quali la gente deve pagare un affitto, talvolta molto alto. Il cammino intrapreso è stato quello di fondare una sorta di cornoperativa che rappresenti tutti gli abitanti di Soweto e a cui venga ceduta collettivamente la proprietà della terra».
Peter Kamau, è il segretario della comunità. Spetta a lui fornire i dati tecnici del lavoro che si sta portando avanti. «Attualmente siamo alla prima fase del processo di miglioramento dello standard di vita di Soweto.
Il primo grosso impulso è stato dato dall’installazione di un grande palo della luce in grado di illuminare a giorno le buie notti nello slum. Il lampione, alto 40 metri, ha di fatto cambiato la vita della comunità, rendendo le strade sicure e la comunità molto più tranquilla.
Sebbene Soweto non abbia mai avuto i problemi di criminalità che si presentano in altri slum della città, il cambio è stato radicale. Se di giorno si poteva camminare anche prima relativamente sicuri per le strade, di notte si verificavano episodi di criminalità, anche con una certa frequenza. Oggi si può vivere e dormire tranquilli, senza più paura di aggressioni, furti o accoltellamenti».

La prima fase di miglioramento dello slum prevede innanzitutto l’ampliamento di quattro strade per poter permettere di raggiungere con un veicolo il centro dell’abitato. Questo è un passo avanti fondamentale.
SL’attuale rete viaria del quartiere non consente la circolazione su quattro ruote, rendendo impossibile l’intervento di un’ambulanza o dei pompieri in caso di emergenza.
Inoltre, in questi mesi sono stati costruiti cinque complessi sanitari e tre depositi per l’immondizia, un tempo ammassata ai lati delle abitazioni e causa di malattie e infezioni fra gli abitanti. «Questi depositi devono servire anche al recupero di materiali che possono essere riciclati, dando così un’opportunità di lavoro ad alcuni abitanti dello slum. Inoltre – continua Peter – è stato costruito il Resource Centre, sede del Comitato per la ristrutturazione di Soweto e salone comunitario multifunzionale. Infine, si è anche iniziata la ristrutturazione di alcuni degli attuali spazi abitativi. La prima fase prevede la sistemazione di 130 strutture delle 304 (su 676 totali) che si prevede di mettere in ordine».
Sl lavoro di ampliamento delle strade, di messa a punto di alcune abitazioni e di costruzione delle unità sanitarie e dei depositi di immondizia non è stata un’impresa facile. Molte famiglie hanno dovuto esser ubicate altrove e alcuni proprietari delle strutture si sono inizialmente opposti all’iniziativa vedendo toccati i loro interessi.
A questo riguardo è stata fondamentale l’opera attuata dal Comitato della comunità. Alcuni incaricati si sono fatti carico di responsabilizzare gli abitanti, cercando di far loro intendere i benefici derivanti da uno sforzo collettivo per il bene comune.
«Del resto – ha aggiunto il segretario – la gente ha iniziato a vedere un cambiamento in atto. La gente si è convinta e ora è contenta perché tocca con mano il miglioramento che si vuole dare al posto dove viviamo. La speranza diventa più forte quando si vedono dei risultati e quando si incontrano delle persone che desiderano aiutarci. Vogliamo che Soweto diventi un posto differente, che non venga più equiparato ad altri slum. Anzi, cerchiamo di usare la parola «slum» il meno possibile. Quelli di fuori definiscono Soweto in questo modo, ma noi preferiamo chiamarla «villaggio» e fare di tutto per cambiare la percezione che anche gli altri hanno di noi».

Oggi, Mama Esther è la store-keeper della comunità, ovvero la persona che si incarica di ricevere il materiale che serve per i lavori di costruzione e ristrutturazione; lo immagazzina, ne tiene un registro e si incarica di farlo trasportare lì dove c’è bisogno.
Anche lei pensa che Soweto possa diventare un posto diverso, dove far crescere i bambini che adesso frequentano un affollatissimo asilo pieno di allegria e di colori e sognare per loro un altro mondo possibile. È stato il lavoro di tanti a dare a questo posto un aspetto diverso. Lo stesso padre Franco si dice stupito della sua gente.
Due anni fa aveva incontrato una comunità che iniziava a darsi un’organizzazione e, soprattutto, era desiderosa di crescere. Oggi, ha davanti una realtà in cammino.
Il lavoro da fare rimane molto; il progetto Soweto prevede una seconda fase nella quale si ultimerà la costruzione di altri cinque unità di servizi igienici, altrettanti raccoglitori di immondizia e, soprattutto, si darà il via alla costruzione di 80 nuove case in muratura, piccole abitazioni a due piani che daranno al luogo un aspetto finalmente dignitoso.
Mama Esther ci crede e lavora per questo. Vede, attraverso i suoi profondi occhi neri, le nuove possibilità che il processo di riabilitazione potrà offrire in futuro. Il suo pensiero corre soprattutto alle donne, le persone più legate al «villaggio» a causa della loro condizione di madri.
Mary, la segretaria della parrocchia che dall’inizio accompagna il processo di riabilitazione chiarisce bene il concetto: «Gli uomini, vanno e vengono, sono più liberi. La maggior parte delle donne, invece, sono sole, con più figli a carico e quindi rimangono bloccate il questo posto. Alcune di loro riescono a coltivare qualcosa da andare a vendere al mercato di Kahawa, altre raccolgono un po’ di stracci o vestiti usati, ma a volte le bocche da sfamare sono tante e le entrate molto poche. Pensare – dice con rammarico – che alcune di noi sarebbero anche preparate professionalmente, avrebbero la capacità di iniziare una propria attività se non avessero problemi di finanziamento. Invece, alcune devono vivere con il piccolo aiuto che altre donne della comunità riescono a fornire; si mette insieme qualche scellino, un po’ di farina e un mese si aiutano tre madri, il mese successivo altre tre. Sarebbe tutt’altra cosa se si potessero creare delle piccole imprese all’interno di Soweto».
Non lo dice con il tono di chi sta sognando ad occhi aperti, ma di chi vede il futuro partendo da un progetto concreto, una prospettiva completamente diversa, che apre lo spazio alla speranza. Domani, a Soweto, sarà davvero un altro giorno.

Di Ugo Pozzoli

Soweto: l’inaugurazione

UN LAVORO DI SQUADRA

I l 23 gennaio 2007, nel pieno svolgersi del World Social Forum, Soweto ha vissuto un giorno memorabile. Alla presenza della vice Ministro degli Esteri del Goveo italiano, Patrizia Sentinelli, del rappresentante dell’organismo della Nazioni Unite per l’ambiente, dottor Daniel Biau, dell’ambasciatore italiano Enrico De Maio e del sindaco di Nairobi, sig. Dick Wathika, sono state inaugurate alcune costruzioni per la riabilitazione della vita degli abitanti dello slum previste da un progetto elaborato dalle Nazioni Unite, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo Italiano con la cifra di 240 mila dollari.
Abbiamo chiesto alla onorevole Sentinelli e al sindaco Wathika che condividessero con noi il loro pensiero a proposito di questo avvenimento.
MC: Onorevole, che cosa significa un progetto come questo per il Goveo italiano e per il Kenya?
On. Sentinelli: È un progetto importante e significativo per la realtà di questo slum, ma penso possa essere considerato un progetto pilota anche per altre situazioni come, per esempio, il grande slum di Korogocho. Abbiamo siglato un accordo con il governo del Kenya di riconversione del debito. Nel regolamento operativo di questo accordo vorremmo chiedere alla controparte che i fondi che abbiamo messo a disposizione vengano effettivamente destinati al recupero di particolari aree degradate, sia urbane che rurali. Vogliamo essere ambiziosi, ma sapere anche che le cose si costruiscono passo dopo passo; basta farlo con coerenza, semplicità e rigore.
MC: Quindi questo potrebbe essere davvero l’inizio di un cammino di utilizzo dei soldi della riconversione per la riabilitazione degli slum di Nairobi?
On. Sentinelli: Penso che i soldi della riconversione siano un primo passo, non sufficiente. Come Goveo, potremmo essere tra coloro che attraggono finanziamento di cooperazione anche dalle regioni, per costituire un sistema virtuoso, un «sistema-paese». Mettere insieme gli sforzi di tutti, quelli del Goveo, come quelli delle Ong e della cooperazione decentrata può servire meglio allo scopo.
MC: Signor sindaco, è una grande giornata per Soweto. Che cosa ne pensa di questo processo? Può essere l’inizio di un processo continuativo che miri al miglioramento anche di altri slum di Nairobi?
Wathika: Come sindaco sono molto grato per tutto quanto il Goveo italiano ha fatto per noi e per il lavoro svolto dall’ambasciata italiana. Speriamo che la collaborazione continui, la presenza del vice ministro degli esteri italiano lo conferma. Vorrei anche invocare l’intervento di altri governi che possano appoggiare l’opera di riabilitazione di altre baraccopoli.
MC: Quali sono le difficoltà più grandi da superare per poter arrivare a ultimare l’upgrading di queste aree?
Wathika: Senz’altro quelle riguardanti la proprietà dei terreni. Molte persone che vivono in uno slum stanno occupando abusivamente delle terre non loro. La parte più difficile sta nel regolare le questioni che sorgono fra i proprietari delle abitazioni, il proprietario dei terreni, cioè lo stato, e chi ci vive. La maggior parte dei proprietari delle abitazioni non vogliono il risanamento dello slum, in quanto preferiscono percepire gli affitti di chi abita le baracche. Fortunatamente, nel caso di Soweto non si presenterà questo problema. La terra diventerà di proprietà collettiva della comunità.
MC: In questi mesi si è formata una bella équipe. Pensa che questo «lavoro di squadra» possa funzionare anche per gli altri slum di Nairobi?
Wathika: L’approccio deve essere lo stesso. La gente dello slum e l’autorità locale devono avvalersi dell’esperienza tecnica delle Nazioni Unite e anche della chiesa. L’appoggio della chiesa è molto importante perché la gente ascolta ciò che la chiesa dice e di lei si fida.

Ugo Pozzoli




Quando le città (italiane) vanno in Africa

I perché della «cooperazione decentrata»

Negli ultimi dieci anni chi si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo ha visto crescere un fenomeno nuovo. Le città italiane, così come province e regioni hanno iniziato a interessarsi sempre più ai comuni e alle entità loro simili in Africa e America Latina. Sono nati cornordinamenti per la pace tra comuni italiani e altri enti territoriali.
Piccole quote dei bilanci comunali sono state allocate a progetti di cooperazione nel Sud del mondo, mentre alcune regioni e province si sono connotate come promotrici e finanziatrici di cooperazione.
Il fenomeno non coinvolge solo l’istituzione, ma questa funziona da «attivatore» delle realtà sul proprio territorio. Così associazioni di base e di categoria, istituti scolastici di vario grado, università, parchi, hanno creato le loro iniziative per mettere il proprio «mattone» di sviluppo in qualche sperduto paese africano o latino americano. Non senza commettere errori o prestare il fianco alle critiche.

Spesso tanti micro interventi su un territorio non creano sviluppo, ma arricchiscono qualche personaggio locale, oppure creano ancora più disuguaglianze. Fondamentale è l’approccio territoriale. Questo significa avere uno sguardo che coinvolge le diverse competenze di un comune italiano. Ma anche affrontare il tema dello sviluppo locale in un territorio lontano in modo integrato e con conoscenze in materia. Per questo, per interessare i territori, l’ente locale diventa l’istituzione più adatta a interagire con un ente analogo in un paese povero. Chi meglio conosce, o dovrebbe conoscere, il proprio territorio, da entrambe le parti.

C’è poi la questione della politica della cooperazione, che su base locale è, necessariamente, di competenza degli enti locali (che non dovrebbero essere in conflitto con le linee guida della cooperazione governativa). Per quanto riguarda le conoscenze tecniche e di contesti così diversi dal nostro è obbligatorio farsi accompagnare da chi queste tematiche le affronta da sempre come propria missione: le Ong di sviluppo e talvolta gli istituti missionari. Sono loro i veri «traduttori culturali» oltre che i tecnici dello sviluppo.

Nasce così un modo di fare cooperazione «dal basso» che coinvolge decine di attori diversi (ed è questa la grossa difficoltà dell’approccio), ognuno dei quali deve mantenere il proprio ruolo. Una cooperazione che ha tutte le caratteristiche per essere quella più vicina alla gente, del Sud come del Nord. Infatti un effetto positivo della cooperazione decentrata è che le ricadute sono anche nei nostri comuni, dove si crea maggiore conoscenza, sensibilità e forse si formano le coscenze per nuovi stili di vita. Perché per creare sviluppo, è obbligatorio passare attraverso a  una nuova redistribuzione di risorse e di consumi, a livello planetario.

                                                                                   Marco Bello

Marco Bello