Libera il presente

Uno sguardo alla psicologia del perdono

Saper dire: «Ti perdono» è il traguardo finale di un percorso fatto di piccoli successi e sofferenza. La «purificazione» del passato, con la conseguente liberazione dalla rabbia e dal risentimento è il premio finale che spetta a chi, nell’oggi, sceglie questa via per gestire i suoi conflitti, verso una vera e matura riconciliazione.

«Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura».
(Voltaire)
«Il perdono è l’oamento dei forti».
(Mahatma Gandhi)
«Perdonare e dimenticare vuol dire gettare dalla finestra una preziosa esperienza già fatta».
(Schopenhauer)
«Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono».
(Giovanni Paolo II)

Sono molti i pensatori e i filosofi che nel corso dei secoli hanno fatto affermazioni sul perdono. Di fronte a comportamenti aggressivi di cui le cronache ci foiscono sempre più numerosi esempi sembrerebbe che questo termine sia obsoleto e ormai fuori moda.
Eppure l’esperienza della «rottura» è propria di ciascuno di noi: se le grandi atrocità ci pongono spesso in atteggiamento da spettatori, le sottili rivincite, le piccole vendette e le disattenzioni non casuali sono all’ordine del giorno nel nostro interagire quotidiano.
Possiamo imbatterci in un percorso di progressive incomprensioni che ingenera in noi un malessere diffuso, oppure essere oggetto di un attacco diretto da parte di qualcuno: il risultato è sempre una rottura che si genera al nostro interno, una ferita che provoca sofferenza. Il rapporto con l’altro è disturbato, interrotto, bloccato; la pace è perduta.
Da alcuni anni ho iniziato ad indagare se la parola «perdono» fosse da leggersi esclusivamente in chiave religiosa, oppure se appartenesse anche all’ambito della psicologia. La ricerca che ne è scaturita mi ha portato a scoperte interessanti sull’argomento.
Il perdono può essere definito come quel percorso che permette a chi è stato vittima di una violenza di non mantenere aperta la ferita ricevuta, ma di recuperare la fiducia nel valore della relazione con l’altro che l’offesa aveva distrutto.
Si parla di percorso in quanto è un processo di cambiamento che richiede un processo di riconversione che può durare a lungo nel tempo. Solo il tempo infatti può modulare il suo passaggio da un puro atto di volontà al coinvolgimento della emotività e di un modo nuovo di comportarci con noi stessi e con gli altri. Non va dimenticato che in una visione globale dell’uomo le sue componenti fisica, cognitiva, emotiva, comportamentale e trascendente influiscono tutte sul suo equilibrio di vita: se c’è da operare una ristrutturazione, essa sarà duratura solo se investe e coinvolge tutti questi aspetti.
Quando si usa il termine «vittima» ci vengono alla mente i grandi crimini perpetrati ai danni dell’umanità. Ciò è assolutamente corretto, ma a questa immagine va affiancata qualsiasi situazione in cui una carenza di attenzione e di amore, volontaria o accidentale, produce una sofferenza. Questo passaggio fa sì che noi stessi impersoniamo in momenti diversi tanto il ruolo di vittime che di aggressori: solo l’empatia e il tentativo di capire chi ci ha feriti ci rendono capaci di perdonare.
Molte volte l’altro non ha veramente l’intenzione di farci del male, ma siamo noi ad attribuirgli questa intenzionalità trasformandolo in un nemico da cui difenderci. Proiettiamo cioè qualche nostra paura o ansia sull’altro e creiamo senza accorgercene una situazione di tensione.
Quando si subisce un torto, soprattutto se l’entità del danno subito è grande, succede che si rompe il rapporto di fiducia con l’altro o più in generale verso la vita. Ma allora, come essere fiduciosi di fronte a situazioni che ci feriscono e ci portano a difenderci?
Il più delle volte la situazione di sofferenza in cui ci veniamo a trovare sfocia in un processo di generalizzazione, cioè pensiamo che tutte le persone che hanno le caratteristiche di chi ci ha offeso ci potrebbero a loro volta ferire («tutti gli stranieri…», «tutti gli uomini fanno così…», «tutti i giovani non…»). La delusione e la sofferenza vissute all’interno di una relazione per noi significativa hanno provocato l’innalzamento delle nostre difese e il crollo della nostra capacità di fidarci degli altri, di chiunque si tratti.

Fuori e dentro di sé

L’irrigidimento interno e il ricorso a dei meccanismi per difenderci chiudono la nostra attitudine a condividere con gli altri emozioni e stati d’animo, e senza essercene accorti, ci troviamo a coabitare con un nemico interno: l’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte che ha il potere di legarci indissolubilmente a una persona, facendo sì che l’aggressore rimanga presente nei ricordi, nei pensieri, nei progetti di chi è stato offeso.
Il percorso del perdono implica proprio la liberazione da questo nemico interno (l’odio declinato nelle sue varie accezioni: rabbia, rancore, delusione, tristezza, vendetta,…) per portarci a una situazione di rinnovata libertà.
Dal punto di vista etimologico perdonare significa «dare in dono». Il perdono è di fatto un dono perfetto che agisce come una doppia liberazione sia dell’offensore, che non è più identificato con la sua offesa, sia dell’offeso, liberato dal suo rancore.
La psicologia modea sta iniziando ad interessarsi al perdono in quanto esso ha la capacità di attenuare il risentimento e il rancore provocando su chi perdona un effetto catartico. Questa liberazione interiore permette di reinvestire le energie prima bloccate dalla rabbia in attività e stati emotivi costruttivi. La rabbia infatti catalizza molte delle nostre energie psichiche e ci rende poveri di energie da investire in nuovi rap­porti e relazioni soddisfacenti.
In un recente convegno, Carlos Sluzki (2007, Torino), indicava il perdono come un percorso costruttore di senso per la gestione dei conflitti.
Alla luce di una propensione delle persone a condurre fuori o dentro di sé le cause dei fatti che capitano loro, Sluzki attribuiva ai due gruppi una diversa tendenza a provare sentimenti di vergogna o di umiliazione di fronte alle offese ricevute.
Ci sono persone che propendono a «intealizzare», cioè a guardare i propri pensieri e i sentimenti provocati da qualche offesa cercando dentro di sé la motivazione di quanto accaduto. Questo stile conduce a individuare in se stessi elementi scatenanti la situazione.
L’altro gruppo di persone invece propende a «estealizzare», cioè a condurre fuori di sé le cause di ciò che di spiacevole è accaduto, attribuendolo a chi gli sta attorno.
Questo meccanismo, chiamato di «attribuzione causale», lega lo stile individuale di una persona a una specifica modalità di rielaborare la rabbia: nel caso di coloro che tendono a guardarsi dentro si produce il sentimento della vergogna, mentre nel caso di coloro che cercano le cause fuori da sé, quello di umiliazione. Vergognarsi è vedere se stessi attraverso gli occhi dell’altro che ci ha offesi, è guardarsi con occhi sostanzialmente negativi: ci si chiude in se stessi coabitando col proprio senso di colpa. L’umiliazione invece è il senso di essere stati trattati ingiustamente che porta a rivolgere verso l’esterno il risentimento che si cova dentro con spirito vendicativo, che trova il suo motivo d’essere nell’umiliazione subita.
È evidente che entrambi i percorsi non contribuiscono a ristabilire un equilibrio armonico della persona che, da un lato nasconde dentro di sé i sentimenti di colpa suscitati dall’aggressore, dall’altro individua le modalità con cui rivalersi sull’altro facendogliela pagare.
Il perdono è la terza via, strada per riappacificarsi con il proprio passato e rendersi nuovamente disponibile all’esperienza attuale. 
Solo nel qui e ora siamo in grado di gustare appieno l’esistenza della vita, con le giornie e le sofferenze che di essa fanno parte. Per vivere in pienezza il presente però, è fondamentale riuscire ad attribuire al passato il giusto significato. Occorre talvolta una revisione critica di fatti e avvenimenti della nostra storia, tenendo aperta la possibilità di perdonare e di perdonarci.
Non va dimenticato infatti che il «dono» del perdono può essere rivolto a chiunque: possiamo perdonare persone conosciute, ma anche ignote oppure non più in vita. Chiunque sia il destinatario di questo nostro dono, scopriremo però  che i primi beneficiari del nostro atto siamo noi stessi, ricevendone in cambio preziosi frutti di pace e di serenità. C’è dunque una doppia azione tanto su chi perdona che su chi è perdonato.
La motivazione che spinge verso questo cammino può essere di tipo altruistico, spinti da un atto di bontà o dalla ricerca  del risanamento per l’altro. Ma la scelta del perdono vale anche a partire da un atto di volontà, con una spinta di tipo razionale per migliorare la qualità della nostra vita attraverso la rielaborazione della rabbia.
In questo senso il perdono si configura come un processo terapeutico che libera il singolo dalla dipendenza dall’odio, restituendogli la capacità e la possibilità di sperimentarsi in modo costruttivo e libero in nuove esperienze.
Va sottolineato come il perdono, pur strettamente legato alla capacità di riallacciare rapporti, non implica tuttavia la necessità di riconciliarsi con chi è stato per noi offensore. La riconciliazione con l’altro ci porta a riavvicinarci a chi ci ha feriti, ma questo si può fare solo quando il rancore dentro di noi si sia acquietato. È un passaggio successivo, per il quale dobbiamo aspettare e cogliere il momento opportuno, sapendo rispettare i nostri tempi interni, che sono legati a molteplici fattori, non ultimo la profondità della ferita che ci è stata inferta.

Chi perdonare?

Se guardiamo attorno a noi, gli ambienti che necessitano la scelta della via del perdono come modalità relazionale sono molti: dal campo internazionale, fino a quello della famiglia e della relazione nella coppia. De Beni (2002, Brescia) in un convegno su «Dono e Perdono» parla dell’amore (definito «straordinaria esperienza di accoglienza») come del dono che, fin da bambini, dovremmo ricevere per forgiarci a diventare adulti «capaci di riconoscerlo, reinventarlo e metterlo a disposizione dell’altro». Afferma anche che «il dramma di tanti conflitti, anche nella scuola di oggi, è la mancanza di amore per i giovani: guidati da una professionalità neutrale e distaccata, si dimentica non la cultura, ma la cultura dell’essere accolti. E se ci dimentichiamo di questo i giovani non impareranno né geografia né storia… ma cercheranno di accaparrarsi quello spazio che gli è stato negato, e lo esprimeranno magari nel modo sbagliato».
Le brusche interruzioni con cui le piccole e grandi violenze spezzano il circuito dell’amore (e con esso l’equilibrio e il benessere psichico delle persone) possono essere ricucite solo con il perdono. Esso ci permette di:
– superare il passato senza rimanee schiavi o prigionieri
– liberarsi dalle emozioni negative, quali rabbia e rancori
– ristabilire la fiducia nella vita e nel genere umano
– ripristinare l’equilibrio psicologico destabilizzato dalla violenza.
Vorrei concludere citando il mondo dell’infanzia e i meccanismi evolutivi dei bambini. Ne «Il mondo incantato» di Bettelheim (1975), parlando del valore delle fiabe tradizionali nella crescita dei più piccini, l’autore constata che la magnanimità e il perdono difficilmente appartengono alle trame delle fiabe per l’infanzia, sottolineando come ciò sia assolutamente positivo per una sana crescita del bambino. Egli ha bisogno di sapere con chiarezza cosa sia buono e cosa sia cattivo, in modo da formarsi una capacità di giudizio morale che ancora non possiede. Per questo motivo i personaggi delle fiabe sono unidimensionali (o malvagi o eroici), ma non si situano mai in una via di mezzo. Essi sono dei simboli che aiutano il bambino a riconoscere le sue stesse emozioni (che lo investono sia sotto forma di gioia che di rabbia) senza considerarle distruttive per se stesso.
Nel mondo adulto spesso rischiamo di comportarci come i bambini (senza però esserlo!): l’adulto infatti ha già compreso e sperimentato la coesistenza degli opposti, come una stessa persona possa avere aspetti sia buoni che criticabili, così come sa che nella sua vita si alteeranno situazioni in cui sarà vittima e altre in cui creerà vittime.
A noi in quanto adulti, viene richiesta una visione dell’uomo dove non ci siano «streghe cattive e fate buone», bensì uomini e donne con sentimenti ed emozioni contrastanti, talvolta anche distruttivi. La strategia del perdono, che parte dalla «decisione» di intraprendere un cammino di liberazione interiore, ci insegna a guardare all’uomo nella sua unitarietà e ci spiana la strada verso la libertà.

di Maria Nosengo

Maria Nosengo




L’Africa «Feizhou» e l’impero di mezzo

Introduzione

Il più grande paese in via di sviluppo del mondo. Così la Cina – meglio i suoi dirigenti – definisce se stessa. La sesta economia del pianeta, scrivono gli economisti.  E ben presto sarà la quinta, grazie a un tasso di crescita che si avvicina al 10% annuo.  Ma è anche vero che il debito estero è intorno ai 228,6  miliardi di dollari e il paese occupa solo l’81simo posto della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano, classificato questo come «medio».

Quello che è certo è che il paese ha un grande bisogno di energia: dal 2005 è il secondo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti. Dal 10% della domanda a livello mondiale, passerà al 20% nel 2010.  Ma non basta. Se oggi in Cina ci sono 16 automobili per 1.000 abitanti, contro 588 dell’Italia e 812 degli Usa, si stima che grazie allo «sviluppo» il parco automobili esploderà, moltiplicandosi per 18 entro il 2030. Il gigante asiatico, pur avendo delle riserve, tra dieci annisarà costretto a importare il 60% del petrolio, contro il 30% di oggi.

Così, anche la Cina, come gli Usa è in corsa per accaparrarsi le riserve energetiche del pianeta. Non solo greggio, ma anche uranio, cromo, rame e legno … C’è un continente che ha tutto questo e lo vende (o lo svende) al miglior offerente: l’Africa.  O meglio Feizhou, come dicono loro e come sarebbe bene imparare. Dalla metà degli anni ‘90 i dirigenti cinesi varano una nuova politica per l’Africa, tuttora in piena applicazione. Cooperazione bilaterale (prestiti a basso interesse e senza condizioni), cancellazione del debito, doni, foiture militari. In cambio concessioni per lo sfruttamento di giacimenti o per l’esplorazione di nuovi. Così l’Angola diventa nel 2005 il primo fornitore di petrolio della Cina, il Congo foirà nei prossimi anni rame, ferro, oro, diamanti. In cambio alcuni miliardi di dollari che ricostruiranno i paesi distrutti da decenni di guerre (strade, porti, aeroporti, ferrovie, stadi, raffinerie, ecc.). O meglio multinazionali cinesi ricostruiranno l’Africa con soldi cinesi. E qualità cinese.

Piace l’approccio asiatico, soprattutto a molti capi di stato africani. Il principio base è «non ingerenza» nella politica intea degli stati. Questo può risultare utile al Sudan di Omar El Beshir e allo Zimbabwe di Mugabe, con i quali Pechino fa ottimi affari. Un’unica condizione: riconoscere l’unicità della Cina, ovvero non avere rapporti diplomatici con Taiwan.

Feizhou è anche un grande mercato di 850 milioni di persone per i prodotti cinesi. Beni a basso costo e infima qualità, ideali per le masse africane a basso reddito e tanta voglia di consumismo.
E gli altri? Francia, Gran Bretagna, Usa? I primi due si stanno ritirando lasciando ampi spazi di manovra. I secondi lanciano un nuovo assalto al continente. Di tipo militare, perché è l’unica cosa che sanno ancora fare. Così con la scusa della lotta al terrorismo nasce «Africom» il comando Usa in Africa: basi, aiuti militari, addestramento… presenza di marines.

Se Lucy, le cui spoglie riposano al museo di Addis Abeba, ci ricorda che tutti veniamo dall’Africa, lo slogan «made in China» ci mostra, ogni giorno, verso cosa stiamo andando.

Di Marco Bello

Marco Bello




L’invasione

Perché gli africani parleranno cinese

Grandi summit inteazionali senza economia di mezzi. Documenti di principio per una cooperazione «tra eguali». Ma alla Cina interessano le riserve petrolifere e minerali. Da dare in pasto a un’economia in forte crescita. E gli africani svendono e ricostruiscono. Così, presto anche le leggi saranno tradotte in mandarino.

Nel giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini, mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China». A un terzo del costo.
Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa: più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui esperta manualità, condita con la proverbiale arte del riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto spuntano nelle vie centrali delle città «Africa – China import», «L’Orient», «Hong Kong bazar», negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare  dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa» produzione cinese.
In alcuni paesi, Niger e Angola per citae due, anche il panorama umano sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon rapporto con le popolazioni locali.
Questi sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista» dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo nell’ultimo decennio.

Primi passi

Senza andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644), si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di Mao che cerca aperture inteazionali e pensa a una campagna africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori – colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran Bretagna.
Il gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia, Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry. L’intervento è più sul piano politico – diplomatico, interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e dell’Occidente sul continente africano.

Politica ed economia

Ma la svolta nelle relazioni Cina – Africa si ha intorno alla metà del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza il «Forum di cooperazione Cina – Africa», il cui primo incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I Forum producono i documenti di principio su cui si basa la cooperazione Cina – Africa. Dalla prima «Dichiarazione di Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009» nell’ultimo incontro.
Sul piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti, accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di joint-ventures.

Documenti strategici

Nel gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi «il più grande paese in via di sviluppo del mondo» molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cornoperare nella solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno e agire in stretta collaborazione negli ambiti inteazionali come le Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul piano economico si definisce che nello scambio tutti devono guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli scambi.

Una sola Cina

L’unica condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan. In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina – Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico – diplomatico, cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica (verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni, acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel settore dell’educazione, tecnico – scientifica e medica.
 Cooperazione tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione), giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il petrolio.

Un nuovo tipo di partenariato

Il presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici  paesi africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per il continente continua ad aumentare.
Con la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina – Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48 invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia sul piano politico, cooperazione vincente – vincente sul piano economico, scambi benefici sul piano culturale».
La dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da «eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud», richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni inteazionali, con l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato esortano le organizzazioni inteazionali a fornire maggiore assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare gli Obiettivi del millennio.
«Cina e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e prosperità comune».

A caccia di risorse

La Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il 10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione, primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000 il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa, grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza negli affari interni degli stati». Approccio altamente apprezzato dai regimi africani.
Anche questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per portare il greggio al mare.
La Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo) le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la vendita di svariate foiture di armamenti, sia ai tempi della guerra civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da 48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato, cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come manufatti.

I contratti globali

In cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle materie prime.
Con l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio. Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10 ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla foitura di centinaia di camion e trattori).
Intanto i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi». Racconta un cornoperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10 anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto caldo», perché dormirebbero in tre, a tuo, nello stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per una foitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno, l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.

Le miniere del pianeta

Il più recente contratto globale è quello firmato con la Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso 17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la ristrutturazione e rimodeamento di alcune compagnie congolesi di estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello mondiale, da questo punto di vista.
Il braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche) cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo termine.
«Alla televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno rifacendo la strada Mechara – Golelchia. «Pochi sono i rapporti con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo uomini» continua. «A livello popolare non sono molto accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.

Africa, enorme mercato

Il continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per l’import – export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e 800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente (tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa australe). 
Oltre ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.) in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai «contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il ciclomotore.
Questo fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella dei motorini in Burkina.
D’altro lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti scioperi.
Gli scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il 2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione». Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».

Di Marco Bello

Gli Usa (non) stanno a guardare

Anche gli Usa capiscono l’importanza strategica  del continente e si apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom, Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta. Finora il continente africano era «coperto» da tre di questi.
Costruzione di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il «petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe africane, cornordinamento attività anti-terrorismo.  Ma anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del vice segretario alla difesa,  Teresa Whelan. Ovviamente, «Africom» avrà una forte componente civile e umanitaria.

La scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli Usa.  Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è prevista salire al 35%.

«Africom», che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro – americano William Ward (58 anni), che si è occupato di addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe supportare una serie di altre basi sul continente.  Trattative sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana, Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente a un «comando su territorio africano», ed è seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche l’Algeria.  Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è detta favorevole a ospitare «Africom».  A livello internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la propria penetrazione del continente.
Il mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa allettanti e accessibili.

Ma.B.

Marco Bello




Avanti tutta

Il miracolo economico cinese

Un modo di governare: «La politica della porta aperta». Un nome: Deng Xiaoping. Questi gli ingredienti fondamentali. Conditi da una disciplina tutta cinese. Tra pochi anni sarà la prima potenza economica del pianeta.

Viene spontaneo domandarsi quali siano state le carte vincenti che hanno permesso alla Cina di emergere dallo status di paese in via di sviluppo, diventando così una nazione «pericolosa» per gli altri stati del mondo. Per quale motivo Cina e Africa, un tempo entrambe considerate paesi del terzo mondo, adesso sembrano non condividere più gli stessi problemi che una volta le accomunavano?
Innanzitutto dobbiamo tenere sempre ben presente che la Cina, per quanto enorme sia, è comunque uno stato unitario, mentre l’Africa è un continente formato da stati spesso in contrasto tra di loro. Questo concetto è un elemento fondamentale per comprendere il successo cinese sul piano economico.

L’uomo del miracolo

Ma un’altra carta vincente a favore del gigante asiatico è stata la politica di apertura economica introdotta da Deng Xiaoping a partire dal 1978. Deng è stato il vero miracolo della Cina post-maoista.
Reduce da trent’anni sotto il dominio di Mao, il paese versava in tragiche condizioni economiche ed era completamente isolato dal resto del mondo.
Nel 1949, anno in cui la leadership comunista prese il potere, la Cina aveva il supporto della Russia comunista e, in materia di politica intea, il presidente Mao era convinto di poter sanare la situazione economica puntando sullo sviluppo dell’agricoltura.
Ma con il passare degli anni le mire di crescita del presidente diventarono sempre più ingenti e ben presto lo stesso partito comunista non fu più in grado di gestire la situazione di fanatismo ideologico in cui la Cina era sprofondata.
Terminata la Rivoluzione Culturale (1966-1976) e morto Mao Zedong (1976), nel 1977 Deng Xiaoping salì al potere con un programma di modeizzazione, destinato a cambiare profondamente l’economia cinese.

Zone economiche speciali

In primis, Deng introdusse ampi spazi di libero mercato nelle zone rurali, procedendo così alla decollettivizzazione agricola e al ritorno al nucleo familiare.
Contem­poraneamente creò alcune «Zone economiche speciali» (Zes), aperte agli investimenti stranieri e al commercio con l’estero.
La «politica della porta aperta» è l’elemento fondamentale che ha permesso alla Cina di intraprendere la sua scalata economica. Mentre Mao Zedong aveva portato avanti una politica di isolamento, essendo convinto che la Cina «dovesse farcela con le sue forze». Al contrario Deng aveva capito che l’economia  socialista doveva gradualmente aprirsi al mercato, pur mantenendo il controllo statale tipico del sistema socialista. I primi risultati economici furono spettacolari: dal 1978 al 1985 il reddito annuo pro-capite dei contadini era triplicato.
L’apertura del Celeste impero ai diavoli d’oltreoceano (espressione utilizzata dal presidente Mao Zedong per indicare negativamente gli stati occidentali che tentavano di creare relazioni commerciali con la Cina) è avvenuta attraverso l’istituzione nel sud della Cina di quattro zone economiche speciali: Shenzhen, Zhuhai, Shantou e nel Fujian. Create queste per attirare gli investimenti esteri. E, visto l’esito positivo dell’esperimento, nel 1984 le autorità centrali hanno permesso l’apertura al commercio e agli investimenti esteri di altre 14 città.

Investimenti

La «politica della porta aperta» ha portato in Cina un enorme afflusso di investimenti diretti esteri: dal 1978 al 1999 sono confluiti nel paese circa un terzo di quelli di tutto il mondo, con un tasso medio annuale di 40 miliardi di dollari.
Negli ultimi vent’anni la Repubblica popolare cinese ha avuto un tasso medio annuale di crescita del 9% e, secondo la Banca mondiale, entro il 2010 l’economia cinese potrà scavalcare quella americana, diventando la più vasta al mondo.
Con una superficie coltivata pari soltanto al 10% del suo territorio, la Cina è comunque uno dei maggiori produttori agricoli mondiali. Le principali coltivazioni sono cereali, cotone, canna da zucchero e tè.
Anche qui si è assistito a un progressivo abbandono del lavoro agricolo e a un fenomeno migratorio dalle campagne alle città.
L’industria è stata sottoposta a profonde trasformazioni a partire dal 1984, anno in cui inizia ufficialmente la riforma industriale.
Da un sistema in cui dominavano la proprietà statale e la pianificazione, si è giunti gradualmente a una situazione in cui lo stato possiede meno della metà delle industrie: nel 1978 le aziende governative generavano il 77,6% del prodotto industriale lordo, invece attualmente producono solo un quarto dell’output totale.

Al cospetto del mondo

Questa apertura economica ha provocato un cambiamento della posizione della Cina sullo scenario internazionale. L’isolamento si è allentato soltanto all’inizio degli anni ’70 con il viaggio di Nixon in Cina, che segnò la riapertura del dialogo con gli Stati Uniti. Questo portò al riconoscimento del governo di Pechino e all’ingresso della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite, dove ottenne un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Ciò favorì anche la normalizzazione dei rapporti con i paesi europei: a partire dagli anni ’80 la Cina ha iniziato a guardare all’Unione Europea come partner com­mer­ciale alternativo agli Stati Uniti.
L’ammissione nell’Organizza­zione Mon­diale del Commercio (11 novembre 2001) ha segnato un importante passo verso una maggiore integrazione del paese asiatico nel sistema commerciale multilaterale.
La Cina si affaccia al terzo millennio con una situazione di forte crescita economica. A questo hanno contribuito la domanda intea e l’investimento pubblico e privato, alimentati da misure monetarie e fiscali di tipo espansivo.
I conti con l’estero presentano un andamento positivo: la bilancia dei pagamenti continua a registrare un avanzo. Lo scorso febbraio le sue riserve monetarie  hanno raggiunto 853,7 miliardi di dollari e la Cina è diventata così la nazione con le più ampie riserve in valuta estera (oggi sarebbero a 1.300 miliardi, secondo alcuni osservatori, tra i quali Adama Gaye2).
Le esportazioni hanno registrato un’accelerazione della crescita, ma ancora più significativo è stato l’incremento delle importazioni. Insomma, quella della Cina sembra proprio essere la sfida del terzo millennio.

La via è segnata

L’opera di Deng Xiaoping è stata portata avanti da Jiang Zemin e successivamente da Hu Jintao. Entrambi hanno contribuito a realizzare una società del benessere, a creare un socialismo dai colori cinesi. Adesso l’altra grande sfida a cui punta il miracolo cinese è lo «sviluppo economico sostenibile», che vuole portare avanti lo sviluppo economico mostrandosi però più sensibile al rispetto dell’ambiente e della società.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Oro giallo per oro nero

L’analisi economica

Crescono i rapporti tra Cina e Africa e cambiano gli equilibri mondiali. Punti di forza e di debolezza, opportunià e minacce alla base di questo connubio.

Il gigante asiatico non solo si sta sempre più affermando ed acquistando potere sui mercati occidentali, ma negli ultimi anni sta anche rivelando la crescente ampiezza e profondità degli interessi in Africa.

L’analisi Swot è una tecnica sviluppata negli anni ’60 – ’70 come supporto alla definizione di strategie aziendali in contesti caratterizzati da incertezza e forte competitività. Oggi l’uso di questa tecnica è stato esteso a molti altri settori. Attraverso tale tipo di analisi è possibile evidenziare i punti di forza (strenghts) e di debolezza (weaknesses), al fine di fare emergere le opportunità (opportunities) e le minacce (threats) legate a quella determinata analisi.  Tentiamo di seguito un’analisi dei rapporti Cina – Africa.

I punti di forza

È giusto partire dall’idea che questi due colossi abbiano forti interessi per creare un sistema di collaborazione. La Cina ha un’economia in costante crescita, è dotata di notevoli supporti tecnologici, ma ha una grave lacuna: la scarsità di risorse. L’Africa è, invece, un continente molto povero, con pesantissime condizioni di indebitamento, ma ricco di risorse minerarie e petrolifere. Ne deriva pertanto che l’economia cinese e quella africana sono particolarmente complementari, in quanto la Cina possiede la tecnologia, le capacità manageriali e i capitali di cui hanno bisogno i paesi africani, mentre l’Africa è dotata di risorse naturali, che interessano la Cina. I commerci tra la Cina e l’Africa sono notevolmente aumentati, anche grazie al fatto che Pechino ha stabilito sul continente africano undici centri di investimento e commercio. Il crescente impegno della Cina in Africa fa parte di una più ampia strategia commerciale che assegna un ruolo molto importante ai paesi in via di sviluppo: circa il 50% delle esportazioni cinesi giungono in Asia, America Latina e Africa e oltre il 60% delle sue importazioni provengono dalle stesse aree.
L’interazione commerciale tra Cina e Africa è inoltre rafforzata dalle loro relazioni politiche fondate, in alcuni casi, sulla comune opposizione all’influenza globale degli Stati Uniti. L’intervento di Washington in Iraq e l’inopportunità di altri aspetti intrusivi sono stati spesso oggetto di aspre critiche cino – africane.

I punti di debolezza

Una differenza fondamentale tra la Cina e l’Africa è che la prima è uno stato unitario e, nonostante le sue dimensioni eccezionali, tutte le sue province dipendono comunque dalle decisioni del governo centrale di Pechino. La seconda, invece, è un continente costituito da stati, spesso in conflitto tra di loro, ciascuno dotato di un proprio governo. Questo aspetto rappresenta un punto di debolezza da non sottovalutare a svantaggio dell’Africa. Il rischio è quindi legato alla possibilità che i paesi africani, con i quali la Cina ha stretto relazioni commerciali di maggiore rilievo, finiscano per favorire l’emergere di una relazione dominante – dominato.
Questo rischio di «colonialismo economico» non necessariamente andrà a colpire tutti gli stati africani che si trovano coinvolti nella relazione Cina – Africa, ma interesserà soprattutto quei paesi più poveri e maggiormente bisognosi di aiuti economici.
Il presidente sudafricano, Thabo Mbeki, ha ammonito che l’Africa deve evitare una «relazione coloniale» con Pechino.

Le opportunità

Mentre i paesi occidentali considerano molto rischioso investire in Africa per la debolezza e la corruzione dei governi e le frequenti guerre, la Cina vede in essa una grande opportunità.
La Cina è avida di materie prime, cerca mercati per le sue merci ed esporta anche forza lavoro.
Attualmente più di 700 compagnie cinesi operano in 48 stati africani. In cambio molti paesi del continente stanno ottenendo la cancellazione del debito estero nei confronti della Cina, e si vedono offrire supporti tecnologici e finanziamenti «senza condizioni». Lo stesso presidente della Banca europea di investimento, Philippe Maystadt, ha confermato che i paesi africani preferiscono le proposte di finanziamento cinesi, perché «loro non pongono fastidiose condizioni circa i diritti umani e sociali».
Nel corso degli ultimi dieci anni, Pechino ha stipulato oltre 30 accordi strutturali per la concessione di prestiti con più di venti paesi africani. Alcuni progetti finanziati da questi prestiti hanno avuto uno straordinario successo, come l’esplorazione di giacimenti petroliferi in Sudan, il rinnovamento della rete ferroviaria in Botswana, lo sviluppo dell’agricoltura in Guinea, la fabbrica di cemento in Zimbabwe.

Le minacce

Alla Cina non interessa la stabilità finanziaria di questi paesi. Ma questo rischia di alimentare una pessima gestione finanziaria dello stato e di riprodurre i meccanismi di corruzione e di indebitamento da cui molti governi africani stanno emergendo.
Adama Gaye, giornalista senegalese esperto di questioni asiatiche, ha recentemente dichiarato in un’intervista a Radio France Inteational: «L’intervento della Cina in Africa sta distruggendo i passi in avanti della democrazia. Questo perché stabilisce nuove norme che degradano il sistema, ripristina la centralità dello stato e porta a una progressiva marginalizzazione delle forze democratiche che stavano sorgendo».
Pertanto questo connubio tra Cina e Africa non solo fornisce delle opportunità, ma crea molte minacce per l’Africa e innesca tensioni a livello mondiale. Le opinioni al riguardo sono diverse: da una parte i paesi africani non rinunciano alla collaborazione con Pechino, dall’altra devono ancora capire se questa sia una benedizione o una minaccia per loro.
Intanto Amnesty Inteational non ferma le accuse rivolte alla Cina che vende armi al Sudan per massacrare la popolazione, uniformi per l’esercito del Mozambico e fornisce elicotteri a Mali e Angola. Un ministro del Gabon (paese ricco di petrolio, minerali e foreste) dice che occorrono leggi per proteggere l’ambiente dallo sfruttamento delle risorse e critica le ditte estere (includendo la Cina) che portano dai loro paesi persino i materiali da costruzione, invece di favorie la produzione locale.
E ancora, la Namibia, per favorire gli investimenti cinesi, ha spesso esentato le compagnie cinesi dal rispetto dei minimi salariali e delle leggi a tutela dei lavoratori. La namibiana società nazionale per i diritti umani ha denunciato che i lavoratori sono sfruttati in condizioni di quasi schiavitù e che le importazioni dei prodotti cinesi a basso costo danneggiano l’economia locale. Se è vero che l’Africa ha assolutamente bisogno di alleati commerciali e sostenitori, è altrettanto vero che tali aiuti non possono non avvenire nel rispetto dei diritti umani.

Questi sono solo alcuni esempi per far capire come in realtà queste relazioni tra Cina e Africa sono fonte di numerose perplessità. Dietro all’invitante facciata di un solidale aiuto tra paesi in via di sviluppo, in realtà si cela una frenetica corsa all’oro da parte della Cina.
È giusto però concludere che, visto le numerose e aspre critiche a livello internazionale, la Cina ultimamente sembra prendere più sul serio queste accuse. Ha approvato l’invio di una più numerosa forza di pace Onu in Darfur, offrendo pure 10 milioni di aiuti umanitari e annunciando l’invio di 275 ingegneri militari nella zona.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Yang scopre l’africa

Storia di un emigrato in Burkina Faso

Sono stimati a 150.000 i cinesi che hanno scelto di vivere in Africa e circa 450.000 quelli ormai naturalizzati. Vengono al seguito delle multinazionali del loro pase, ma anche come piccoli e medi imprenditori. E mantengono forte il legame con la madre patria. Abbiamo incontrato uno di loro.

Yang Gaihao ha circa 35 anni. È originario della città Wenzhou, nella regione Zhejiang, sulla costa Sud – Est della vasta Repubblica popolare di Cina. Lo troviamo nel suo negozio centralissimo, di fronte al Cinema «Burkina», a Ouagadougou.
Arrivato nel 2004 per «turismo», ci dice, invitato da alcuni amici cinesi che in Burkina Faso già vivono. «Mi sono reso conto che si potevano fare degli affari e così ho deciso di trasferirmi». Arriva con la moglie nel 2005 e apre un magazzino di merce tutta importata direttamente dalla Cina.
Vanno molto i poster di Ronaldinho in questo periodo, ma anche orologi da muro raffiguranti il Cristo o improbabili bellezze. Piacciono anche le tende con immagini serafiche della Cina, di cui Yang ha diversi cataloghi. Poi ci sono fiori di plastica, giochi, pentole, stereo, borse …
Tutta merce piuttosto scadente. «I prezzi sono bassi, così la gente compra. Il beneficio per noi è piccolo ma sulla quantità ci guadagnamo». Intanto una signora ouagalese sta dicendo a sua moglie: «Siete troppo cari!» e sventola due poltrone gonfiabili per bambini, in vendita all’equivalente di 4,5 euro. «Ci guadagnamo, ma senza esagerare», continua.
È lui che segue direttamente i suoi fornitori, così si reca nella madre patria 2 – 3 volte all’anno.

Il francese lo parla piuttosto male, ha iniziato a studiarlo nel 2004. Almeno si fa capire, al contrario del suo giovane aiutante (suo cugino fatto arrivare in seguito). Dice che non ha avuto problemi per impararlo.

Se gli chiedo come va con gli africani, scuote un po’ la testa e fa una smorfia: «Sì, abbastanza bene, ma non ci frequentiamo molto. Ho amici cinesi, e anche occidentali e solo qualche burkinabè». Si frequentano in prevalenza tra cinesi e ce ne sono circa 200 in Burkina Faso.
Questo paese è uno dei cinque che in Africa ancora riconoscono Taiwan e che quindi la Cina popolare non accoglie tra i suoi partner commerciali. Taiwan inietta ogni anno fondi per la cooperazione sino – burkinabè (il cui uso non è controllato), per mantenere questo appoggio geo – politico sul continente. Pechino non sembra molto interessata, visto la scarsità di materie prime del paese saheliano.

Yang anche a casa sua faceva il commerciante, ma di «cose diverse» spiega. Ma perché ha scelto proprio l’Africa per tentare la fortuna? «Anche l’Europa e l’Italia, che è piena di cinesi – ricorda – sono interessanti, ma è diventato molto difficile ottenere il visto». Qui è molto più facile. Anche se fa caldo, non importa e non si sta così male.
Gli piace viaggiare ed è stato in molti paesi della regione: Costa d’Avorio, Ghana, Benin, Mali. Sia per turismo, sia per visitare amici e per sondare la possibilità di business. Dice di non avere problemi di soldi per spostarsi, anche verso l’Europa, ma non riesce ad avere i documenti.
Nel suo magazzino su due piani la merce è buttata un po’ a caso, su scaffali o in scatoloni ammassati a terra. Ci sono molti addetti africani che girano per servire i clienti. Il posto è abbastanza frequentato.

Yang, gentilissimo fino a quel momento, mi riprende dicendo che sto facendo troppe foto, nonostante gli abbia chiesto il permesso. Le vuole vedere. «Non voglio avere problemi» dice più volte. Anche sua moglie è piuttosto innervosita dalla mia presenza. Ricordo allora le parole di un amico burkinabè: «Cinesi? Sì, ci sono anche in Burkina, ma sono molto chiusi nella loro comunità».

Di Marco Bello


 Costa d’Avorio: Cina batte Francia

L’impero di mezzo va avanti e prende fette di Africa ai potenti del pianeta. La Francia sarà costretta a ritirarsi o difenderà il suo bastione?

La Cina non fa parte dei 10 primi partner commerciali della Costa d’Avorio. Le relazioni commerciali tra i due paesi son cresciute negli ultimi cinque anni e infatti al ministero dell’Economia si stanno ancora elaborando le statistiche sul fenomeno.  Ma è soprattutto con l’arrivo alla presidenza di Laurent Gbagbo (2000) che la Cina ha cominciato a sviluppare gli scambi con la Costa d’Avorio. 
Più evidenti i grossi cantieri edili. Il palazzo della cultura, nel quartiere storico di Treichville, sul bordo della laguna Ebrié. La costruzione della «casa dei deputati», un enorme palazzo (con uffici e residenze per tutti i deputati) nella capitale politica Yamoussoukro, a 260 km da Abidjan, ha dato una scossa alle relazioni tra la Costa d’Avorio e la Francia. Molti osservatori politici vi vedono un segno di rottura con le consuetudini che legavano il paese europeo con l’ex colonia.

«Io credo che il regime attuale sia venuto al potere con un’idea precisa: ridurre le relazioni con la Francia. Questo si è verificato sul piano diplomatico quando certi baroni del potere hanno stimato che i rapporti con gli ex colonizzatori erano solo a vantaggio di questi. Sul piano militare abbiamo visto lo stesso concetto: al culmine della crisi i “giovani patrioti” (bande organizzate pro Gbagbo, ndr) bruciavano la bandiera francese e chiedevano la partenza dei militari transalpini. A livello economico i mercati pubblici più importanti sono ormai assegnati a imprese cinesi. Questa è una politica ben congegnata. L’attuale presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr), Mamadou Koulibaly, aveva pure chiesto che il franco cfa non fosse più agganciato a quello francese». Sostiene Awa Traoré, funzionario.

Recentemente è stato firmato un partenariato tra Cina e Costa d’Avorio in campo universitario. L’Istituto Politecnico Houphouet Boigny della capitale riceverà un appoggio cinese sul piano della formazione ad alto livello.
Un enorme supermercato, chiamato «La Foire de Chine» (la fiera della Cina, ndr) è stato aperto a Treichville. Qui tutti i prodotti cinesi sono in vendita. Mentre a livello medico il paese rigurgita, da una decina di anni, di prodotti cinesi venduti lungo le strade.
«A prima vista, l’invasione del mercato avoriano da beni made in China può sembrare una manna, perché questi sono proposti a prezzi molto concorrenziali. Ma occorre soprattutto guardare la qualità.  E su questo ci sono molte cose da obiettare. In Camerun, ad esempio la popolazione ha manifestato contro certi beni di basso valore. Diversificazione sì, ma anche qualità!», dice Sébastien Tié, agente di banca.
 «Non vedo inconvenienti sul fatto che la Costa d’Avorio diversifichi i propri partner economici. Questo contribuisce alla dinamica degli scambi commerciali», afferma Albert Zio, quadro commerciale.
 

Adama Koné, da Abidjan

                           Cina in Burundi

Il gigante asiatico batte l’Africa a tappeto, così anche un paese piccolo e privo di risorse come il Burundi diventa interessante sullo scacchiere geopolitico.

Il Burundi ha delle ottime relazioni con la Cina dal 1970. Un accordo di cooperazione economica, tecnica e commerciale è stato firmato nel luglio del 1972. Da allora la cooperazione è aumentata, sotto forma di crediti e  di doni in settori prioritari, come lavori pubblici, educazione, salute.
Nell’educazione la Cina fornisce almeno 10 borse di studio all’anno per burundesi. Secondo Venant Nyobewe, capo di gabinetto del ministero dell’Educazione, «attualmente 19 connazionali fanno studi di dottorato, mentre altri 18 sono stati ammessi a corsi post universitari». Altre borse sono messe a disposizione per il ministero della Difesa, così 33 ex combattenti hanno fatto stage in Cina.

Nel settore sanitario la Cina è presente in tre province: Muramvya, Bujumbura e Gitega. Ogni due anni vengono inviate delle équipe mediche complete per lavorare negli ospedali.
Un insegnante di Gitega ci ha rivelato che il problema che si ha con i cinesi, in particolare quelli che lavorano all’ospedale, è che non parlano né francese né inglese. Lavorano con un interprete, ma spesso non riescono a capire i problemi dei malati.
In generale, in Burundi, la gente pensa che i cinesi mangiano i cani e questo è contrario al costume del paese.

Secondo l’ambasciatore cinese a Bujumbura Zeneng Xian, oltre 250 cinesi vivono attualmente nel paese, di cui 23 medici. La Cina ha ristrutturato i più importanti ospedali del Burundi. Dati del ministero burundese degli Affari esteri e della cooperazione riportano che quattro ospedali hanno ricevuto 900 mila dollari nel 2007.
Nel campo delle infrastrutture, la Cina sta costruendo la Scuola normale superiore, che sarà terminata nel primo trimestre 2008. Il costo è stato di 20 milioni di Yuans. In prospettiva sarà costruito un nuovo palazzo presidenziale nella capitale, un centro contro la malaria e un ospedale da 150 letti nella provincia di Bubanza, tra le più povere del paese.

L’ambasciatore cinese ha spiegato che il suo paese è sempre stato a fianco del Burundi anche durante la crisi scoppiata nel 1993. Ha aggiunto che il Burundi è un buon amico della Cina, in quanto ha sempre avuto il suo stesso punto di vista a livello internazionale.
L’ultima sessione della commissione mista sino – burundese si è tenuta a Pechino nel maggio 2002. In quell’occasione la Cina ha destinato al Burundi un dono di 4,44 milioni di dollari per finanziare questi progetti.

Gabriel Nikundana, da Bujumbura


Marco Bello




Mosaico incompiuto

Anatomia di un paese dalle molte anime

Pur segnato da conflitti e instabilità, il Libano rimane l’unica terra di libertà e pluralismo all’interno del Medio Oriente. Viaggio in un paese frammentato e inquieto.

Strano destino quello del Libano. Aperto al mare, aggrappato alle sue montagne, è stato sin dalla più remota antichità una terra di mezzo. Terra di molti e terra di nessuno. I fenici, navigatori abilissimi, si insediarono qui tre millenni avanti Cristo; svilupparono l’alfabeto lineare e lo diffusero in tutto il Mediterraneo, fondando colonie da Cipro alla Sicilia, dalla Sardegna al Nord Africa, sino alla Spagna. Come non riconoscere ancora oggi un residuo di quello spirito fenicio in questo popolo di migranti sparso in tutto il mondo?
Dopo i fenici passarono di qui anche i persiani di Dario, artefici di un significativo processo di assimilazione culturale, prima di essere sconfitti dai macedoni di Alessandro Magno. Quindi arrivarono i romani, che annessero il Libano alla provincia di Siria e vi introdussero il cristianesimo in seguito alla conversione dell’imperatore Costantino (313).

IL LIBANO NASCE CRISTIANO
Ma i libanesi seppero trasformare anche questa vicissitudine religiosa in una storia propria, del tutto singolare. Una storia che risale al v secolo e alla vicenda dell’anacoreta Marone, sulla cui tomba, ad Apamea (oggi in Siria), lungo il fiume Oronte, venne costruito un monastero, meta dei fedeli di quelle terre.
Da qui ebbe origine la comunità dei maroniti, che nel vii secolo si insediarono nell’attuale Libano, dove mantennero – e mantengono ancora oggi, pur essendo cattolici – una sostanziale autonomia e un proprio rito. E dove continuano a rappresentare la comunità cristiana più numerosa e influente del paese, non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico, sociale ed economico.
Ma la storia del Libano è stata ed è fortemente segnata anche dalla presenza dell’islam. Gli eserciti musulmani vi penetrarono diretti a Gerusalemme, che cadde nel 638. In Libano, tuttavia, dovettero fare i conti con la particolare conformazione montuosa del paese e con la resistenza dei cristiani, e in particolare dei maroniti.
Tutto l’ultimo millennio di storia libanese – dalle crociate ai giorni nostri – è segnato dallo scontro e dalla dialettica tra le varie componenti religiose che fanno del paese un mosaico ricchissimo e incompiuto, le cui tessere continuano a cambiare di mano e di posizione.
Così anche negli anni più recenti. Dopo la caduta dell’impero ottomano e i primi scontri tra i maroniti e le popolazioni druse che abitano le montagne dello Chouf – e che, pur essendo islamiche, conservano gelosamente le loro tradizioni -, la Francia comincia a far sentire con maggior forza il proprio peso nella regione. Vicino alla causa maronita, il governo di Parigi promuove l’indipendenza del Libano.

GIOCO DI EQUILIBRIO
Dopo la prima guerra mondiale, durante il mandato francese, è promulgata una Costituzione che tiene conto degli equilibri religiosi del paese. Nel 1932 viene realizzato il primo e, fin qui l’unico, censimento della popolazione libanese. Ne emerge un quadro religioso sostanzialmente equilibrato: il 51% della popolazione cristiana (di cui il 29% maronita), il 49% musulmana e l’1% di altri gruppi, tra cui anche una piccola comunità ebraica.
Sulla base di tale censimento viene stipulato, nel 1943, il cosiddetto «Patto nazionale», in base al quale tutte le cariche politiche e istituzionali devono essere distribuite in percentuali ben precise alle diverse confessioni religiose. I seggi parlamentari, poi, dovevano essere assegnati con una proporzione di 6 a 5 a favore dei cristiani. Il presidente sarebbe sempre stato un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita.
Questo ordinamento è tuttora in vigore, anche se sono state modificate le percentuali dei deputati, che oggi sono metà musulmani e metà cristiani. Una suddivisione che probabilmente non rispecchia più la composizione sociale, visto che i musulmani sono certamente più numerosi dei cristiani, sia per il più elevato tasso di natalità, sia per la tendenza di molti cristiani a emigrare all’estero. Sta di fatto, però, che per il momento nessuno osa invocare un nuovo censimento, che sconvolgerebbe il già precario equilibrio, su cui cerca faticosamente di reggersi il Libano.
Non che questa particolarissima ed esplosiva commistione tra politica e religione abbia mai veramente funzionato: nei mesi scorsi ha letteralmente bloccato tutte le istituzioni del paese. Ma in passato è stata spesso causa di sanguinosi conflitti. Eppure nessuno pare intravedere o vuole promuovere una ragionevole alternativa.

VICINI SCOMODI E INVADENTI
L’esperienza del passato non è edificante. Ottenuta l’indipendenza – formalmente nel 1943, di fatto nel 1946, quando si ritirarono le truppe francesi – il Libano piomba in una serie di situazioni di crisi da cui non è ancora completamente uscito. Da un lato, paga le mai domate divergenze e spaccature intee; dall’altro, subisce le mire egemoniche di vicini invadenti (in tutti i sensi!) come Israele, Siria e Iran (ma anche Arabia Saudita ed Egitto). Per non parlare del fatto che – spesso suo malgrado – si ritrova al centro dei giochi di interesse e di potere delle grandi potenze inteazionali, a cominciare dalla Francia e, soprattutto, dagli Stati Uniti, oltre a subire le pesanti ripercussioni delle due guerre del Golfo e di svariati interventi e risoluzioni – spesso vani – delle Nazioni Unite.
Insomma, nella sua storia travagliata questo minuscolo paese che è il Libano non ha mai conosciuto realmente cosa significano nella loro pienezza parole come pace, indipendenza, sovranità nazionale…
Già all’indomani dell’indipendenza, in seguito alla guerra arabo-israeliana, scoppiata dopo il ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, il Libano ha dovuto sopportare l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, molti dei quali sono rimasti nel paese. Attualmente sono circa 350 mila, arrivati anche in momenti successivi e ammassati, in condizioni spesso miserabili, in enormi campi, dove un tempo trovava rifugio l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, mentre oggi vengono facilmente infiltrati da organizzazioni filo-siriane o vicine ad Al Qa’ida.
È quanto è successo lo scorso maggio a Nahr al-Bared, nei pressi di Tripoli, uno dei 12 campi ancora presenti in Libano, dove il gruppo Fatah al-islam si è organizzato con uomini provenienti anche dall’estero e con armi pesanti ha attaccato l’esercito libanese. Un centinaio i morti tra gli integralisti islamici, militari libanesi e profughi palestinesi.
Il rischio è che la rivolta si estenda ad altri campi e ad altre città libanesi. Ma ancora una volta, per una battaglia che si svolge sul territorio del Libano, i responsabili vanno cercati fuori dal paese. Anche se alcuni ritengono il gruppo di Fatah al-islam vicino a Bin Laden, molti sospettano, rischiando facilmente di azzeccarci, lo zampino della Siria. Che mal sopporta un Libano fuori dal suo controllo.
La Siria, appunto, è uno dei grandi vicini scomodi del Libano, che da sempre ne condiziona pesantemente le sorti e mai ha rinunciato davvero ad annetterselo, perseguendo l’antico e inconfessabile sogno della «Grande Siria».
Sin dal ’76, con il pretesto di porre fine alla guerra civile scoppiata l’anno prima, i militari siriani, in seguito integrati alla Forza araba di dissuasione, sono stati massicciamente presenti nel paese sino all’aprile del 2005. Di fatto un’occupazione durata 30 anni, e accompagnata da forti condizionamenti politici, che in parte continuano.

GUERRA CIVILE DEVASTANTE
Intanto, però, un’altra grossa partita si è giocata sul fronte israeliano. Già la «Guerra dei sei giorni» del 1967, con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, aveva provocato un nuovo massiccio afflusso di profughi palestinesi in Libano. I campi di raccolta si sono trasformati ben presto in centri di guerriglia anti-israeliana, oltre a rappresentare un serio problema interno al paese. Al punto da diventare il pretesto per lo scoppio della guerra civile, che dal ’75 al ’90 ha devastato il paese, opponendo in fasi diverse i maroniti della Falange libanese legata alla famiglia Gemayel (responsabili tra l’altro della famigerata strage nei campi di Sabra e Shatila), i drusi del Movimento nazionale di Kamal Jumblat (autori di massacri di cristiani sui monti Chouf), le milizie sciite di Amal e poi quelle di Hezbollah (protagonisti di numerosi attentati suicidi).
Gli israeliani, dal canto loro, sono intervenuti direttamente almeno otto volte, occupando fasce più o meno estese del territorio libanese. Le più devastanti sono quelle del marzo ‘78, quando hanno invaso il Libano meridionale, e del giugno ’82, quando invece si sono spinti sino a Beirut, dopo aver devastato le città del sud. La capitale, dove trovavano rifugio i dirigenti dell’Olp, è stata colpita per due mesi da pesanti bombardamenti che hanno provocato quasi 20 mila morti e 30 mila feriti.
Dopo il ritiro dell’esercito dal sud del Libano, oggi Israele controlla solo la zona delle fattorie di Shebaa, contese anche dalla Siria. E proprio questa occupazione è diventata il pretesto che la guerriglia di Hezbollah, il «Partito di Dio», usa per continuare la sua lotta armata. Movimento sciita, nato agli inizi degli anni Ottanta, Hezbollah aveva in parte avviato negli ultimi tempi un processo di riconversione in partito politico, che si è bruscamente interrotto la scorsa estate, quando, dopo ripetuti attacchi e il rapimento di due militari israeliani, l’esercito di Tel Aviv è nuovamente intervenuto in Libano, bombardando le città del sud, i quartieri sciiti di Beirut e molte infrastrutture del paese. La guerra, durata 33 giorni, è stata l’ennesima pesante batosta per il Libano: più di mille i morti, in gran parte civili, 4 mila feriti, 700 mila sfollati. Per non parlare di ponti, strade, infrastrutture abbattute e 130 mila abitazioni distrutte o danneggiate. Un danno pari a quasi 4 miliardi di dollari. Senza contare i circa 4 mila posti di lavoro persi, le 700 imprese chiuse o fallite e vaste zone agricole impraticabili a causa delle mine o degli ordigni inesplosi.
O ggi il Libano è un paese in bilico, profondamente diviso al suo interno, e pesantemente condizionato dagli interessi e dalle politiche regionali e inteazionali. «Unità e pace» sono le parole d’ordine che continua a ripetere il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, la principale autorità religiosa cristiana del paese. Ma per raggiungerle c’è ancora molta strada da fare…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Imperativo convivenza

Un «paese-messaggio» di libertà e tolleranza. Molto fragili.

È un auspicio, ma anche una necessità in un paese dove convivono 18 confessioni religiose differenti. Ma dove i cristiani si sentono sempre più minacciati ed emigrano.

Nicole è una giovane donna greco-ortodossa, mentre suo marito e suo figlio sono cattolici-maroniti. Zainab è musulmana sciita, ma è molto vicina al movimento del Focolare. Nada, invece, è armeno-cattolica ed è l’assistente del sacerdote maronita che dirige le Pontificie opere missionarie libanesi.
Al santuario mariano di Harissa, in mezzo a una folla festante di giovani cristiani, alcune donne musulmane accendono un cero alla Vergine…
Sono solo alcune immagini, molto quotidiane e comuni, di un Paese dove la convivenza tra differenze è più che un dato di fatto. È una necessità. Imposta dai numeri e dalla storia.
In questa terra minuscola, 10 mila chilometri quadrati (quanto la Basilicata), abitata da poco meno di 4 milioni di persone, convivono 18 confessioni religiose: 12 cristiane e 6 musulmane. Più, un tempo, la comunità ebraica.

DIALOGARE
Oggi il Libano è un paese che vanta di essere un «messaggio», come lo aveva definito Giovanni Paolo ii durante la sua visita nel 1997. Molti lo ripetono ancora oggi con orgoglio, quasi fosse uno slogan. Un messaggio per il Medio Oriente e per il mondo intero. Perché il Libano è – e potrebbe esserlo molto di più – terra di libertà, apertura, tolleranza. Un paese del dialogo e della convivenza tra comunità e religioni, in un contesto regionale e mondiale dove prevalgono le incomprensioni, le chiusure e gli scontri.
Ma, allo stesso tempo, le molteplici divisioni e rivalità intestine, tra cristiani e musulmani, tra le diverse confessioni cristiane e all’interno delle stesse comunità, rischiano di far implodere il paese. La commistione tra religione e politica certo non aiuta.
«Il Libano sta vivendo un momento molto critico», ha dichiarato con grande apprensione il cardinale Nasrallah Sfeir, patriarca della chiesa maronita. Massima autorità religiosa cristiana del paese, uomo autorevole e grandemente rispettato, continua con energica determinazione, nonostante i suoi 87 anni, a lottare per un Libano unito, libero e in pace. «Ci sono molte domande aperte che riguardano il futuro politico di questo paese e quello delle comunità cristiane. Occorre ritrovare la capacità di dialogare per ridare un soffio di speranza al Libano».
È un tema ricorrente negli interventi molto assidui del cardinale: ritrovare l’unità, superare le divisioni, rigettare il «fanatismo, il fondamentalismo e la violenza». E poi, «aiutare i cittadini a rimanere nel loro paese, malgrado le difficoltà economiche e politiche. La presenza cristiana è minacciata, a causa della divisione che regna dentro la comunità.

CONTENERE L’EMORRAGIA
«Ma il Libano senza cristiani non sarà più il Libano». È questo un altro dei ritoelli che ricorre ovunque nel paese. Tra i religiosi come tra i giovani, alla Caritas come tra gli intellettuali cristiani. L’instabilità politica, la difficoltà di trovare un lavoro, la paura di una nuova guerra spingono molti – soprattutto giovani e soprattutto cristiani – a lasciare il paese.
Anche il patriarca armeno-cattolico, Nerses Bedros iv, non può non fare a meno di dolersi di questa emorragia inarrestabile. La sua è una chiesa antichissima, nata nel 301 d.C. («prima che a Roma!», tiene a sottolineare), una chiesa dispersa nel mondo, soprattutto dopo il genocidio armeno del 1915, numericamente molto ridotta in Libano, ma che «sta alle radici della cristianità in Oriente».
Ci sono diversi giovani seminaristi, soprattutto libanesi e siriani, nel monastero di Notre Dame de Bzommar, dove dal 1742 ha sede il patriarcato, segno di una chiesa ancora feconda. «L’instabilità di questa regione spinge purtroppo molti cristiani ad andarsene. Si sta perdendo una grande ricchezza anche in termini di cultura e tradizioni».
Non è da oggi che i libanesi emigrano. Forse fa parte anche del Dna di un popolo affacciato sul mare e proteso da sempre verso l’altrove, al punto che oggi sono molto più numerosi i libanesi residenti all’estero di quelli che vivono in patria: almeno 10 milioni.

BALUARDO DI UNITÀ NAZIONALE
Ciononostante, in Libano vive la più numerosa comunità cristiana presente in un paese arabo. Attualmente sarebbero meno del 40%; sino a pochi decenni fa erano il 51%. In mancanza di un censimento ufficiale (l’ultimo risale al 1932), le statistiche si basano sugli elenchi elettorali, secondo i quali il 41,23% dei cittadini con più di 21 anni è cristiano (22,4% maronita, 7,92% greco-ortodosso, 5,22% greco-cattolico, 3,07% armeno-gregoriano, e in percentuali minori tutti gli altri).
I musulmani sarebbero invece il 58,57% (26,15% sunniti, 25,96% sciiti, 5,64% drusi, e in percentuali minori alauiti e ismaeliti).
Nonostante il loro numero si stia assottigliando, i cristiani non rinunciano a essere baluardo dell’unità nazionale e punto di riferimento per le comunità ben più esigue che sono presenti negli altri paesi arabi.
Anche l’arcivescovo di Jbeil, Bechara Rai, altra voce autorevole della chiesa maronita, ribadisce l’importanza di essere «messaggio»: «I musulmani del Libano – sostiene – hanno rinunciato alla teocrazia e i cristiani hanno rinunciato al laicismo occidentale. Entrambi vogliamo convivere in un sistema civile che rispetti la dimensione religiosa dei cittadini. Perciò il Libano offre questo modello: si tratta non solo di un paese, ma di un “messaggio”, offerto sia all’Occidente sia all’Oriente. All’Occidente, immerso in un laicismo che non solo ha separato religione e stato, ma che ha diviso anche stato e Dio. È però un messaggio anche per l’Oriente, il quale dice che culture e le religioni possono convivere e formare insieme uno stato civile».
E tuttavia, anche mons. Rai è preoccupato del futuro dei cristiani nel suo paese. A suo avviso, l’incursione israeliana dello scorso anno non ha fatto che peggiorare le cose, provocando una «vera e propria crisi», che tocca indirettamente tutta la regione. Per questo, ricordando le parole di Giovanni Paolo ii, avverte: «La presenza cristiana in Libano è una condizione necessaria per salvare l’esistenza dei cristiani in Medio Oriente».

TRA PESSIMISMO E OTTIMISMO
Tuttavia, oggi, molti sono alquanto pessimisti: temono che ben presto in Libano di cristiani ne resteranno ben pochi e conteranno sempre meno. «I giovani cristiani emigrano, i musulmani fanno più figli – analizza il direttore di Caritas Libano, Georges Massoud Khoury -. Talvolta ci sentiamo abbandonati dai nostri fratelli d’Occidente, che non capiscono che se i cristiani del Libano soffrono, sono tutti i cristiani del Medio Oriente a soffrire. La nostra terra sta perdendo il valore di questa presenza, di questo patrimonio. Per questo chiediamo che gli altri cristiani e le altre chiese ci aiutino. Non tanto in termini di cibo o medicine. Abbiamo bisogno che ci sostengano nel creare un’atmosfera sicura, affinché noi stessi, con il nostro lavoro e il nostro impegno, possiamo far fronte ai nostri problemi e possiamo far tornare in patria i nostri figli, che rappresentano potenzialmente le forze vive di questo paese».
La sua vicenda familiare è emblematica di molte altre. Dei suoi figli e nipoti, 21 in tutto, figli di suoi fratelli e sorelle, solo 3 si trovano oggi in Libano, perché sono ancora minorenni. Gli altri, tutti altamente qualificati – ingegneri, psicologi, architetti… – sono all’estero e, vista l’instabilità, per il momento non intendono tornare.
«Le divisioni intee sono la nostra debolezza – dice affranto -, ma anche a livello internazionale l’atteggiamento nei nostri confronti è molto deludente. Stanno prosciugando tutto il nostro bagaglio culturale, spirituale e morale…».
È più ottimista, invece, Rosette Héchaimé, responsabile del net-work di Caritas per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mona) con sede a Beirut. Laica, focolarina, la scorsa estate si è data molto da fare in prima persona per soccorrere e ospitare le famiglie musulmane fuggite dai quartieri sciiti di Beirut sud, bombardati dall’esercito israeliano. «Abbiamo potuto ospitare e curare moltissime persone – racconta – soprattutto grazie a tanti amici musulmani: sono stati loro ad aiutarci ad accogliere la gente che aveva perso le proprie case e spesso i propri cari. Quello che abbiamo fatto è stato possibile solo perché lo abbiamo fatto insieme, cristiani e musulmani».
Zainab annuisce e sorride. Lei è sciita, in testa porta il jihab e veste un lungo soprabito beige. È la segretaria di un importante leader sciita, Ibrahim Shamseddine (cfr p. 42), vive e lavora in un contesto musulmano molto tradizionale. Ma l’estate scorsa anche lei era lì, alla Mariapoli, a portare il suo sostegno e la sua solidarietà. Lo racconta con grande naturalezza, come se fosse la cosa più normale, semplicemente quella che andava fatta. «Con tanti amici, cristiani e musulmani, abbiamo aiutato quelli che avevano bisogno, che avevano perso tutto, senza pensare a chi e cosa era. Musulmani o cristiani… c’era la guerra e stavamo insieme. È stata un’esperienza dura, ma anche molto bella e significativa».

VALE LA PENA SPERARE
Anche Rosette sorride e prova a rileggere la storia del Libano all’interno delle lotte che hanno coinvolto tutto il Medio Oriente. «Siamo una specie di cassa di risonanza di quello che avviene nel mondo arabo. È una grande sfida per noi». Contrariamente a molti altri, lei continua a credere che valga ancora la pena di sperare: «La società libanese è molto dinamica e generosa. Ci sono tante associazioni, gruppi, ong, sia a livello cristiano che musulmano. E tante iniziative di solidarietà in diversi ambiti. Dobbiamo mantenere viva la speranza».
La guerra della scorsa estate, è vero, ha provocato morte e distruzione, e tuttavia ha creato anche occasioni di solidarietà e vicinanza. La Caritas, da sola, ha assistito 91 mila persone, quasi tutte musulmane. Ma anche interi villaggi cristiani si sono mobilitati per accogliere gli sfollati musulmani, in fuga dalle bombe. «I cristiani – conferma Georges Massoud Khoury – hanno aperto le porte delle loro scuole, dei loro centri, anche delle loro chiese, per dare rifugio ai musulmani. Sono gesti che la gente non dimentica. E che aiutano a superare i pregiudizi e la diffidenza. È il dialogo della vita e della solidarietà».
Per i giovani sembra tutto più facile. È vero, la religione continua a rappresentare anche per i ragazzi un elemento identitario forte, poi però intervengono elementi culturali comuni, influssi occidentali, la scuola o l’università frequentata insieme, modelli e stili di vita condivisi, internet, il cinema, la musica, la voglia di divertirsi… E allora anche tra musulmani e cristiani diventa più facile condividere spazi e momenti di vita comune.
«La religione non è tutto», conferma Fadi Noun, giornalista di Orient-le-Jour, l’unico quotidiano francofono del paese. Pur essendo un maronita molto militante, ammette che nella personalità del libanese entrano molti elementi: «Uno spirito fenicio, commerciante, pagano, montanaro, tribale… E poi elementi culturali che si sovrappongono, arabi e mediterranei, orientali e occidentali. Tradizione e modeità che si incontrano e si scontrano. Tutto questo può essere segno di pluralismo o pretesto di divisione».
«Certo – ammette lo stesso Fadi Noun – la situazione è complessa. E quando tutto questo si mischia con la politica intea e internazionale, con gli interessi e i giochi di potere, la situazione diventa potenzialmente esplosiva. Noi libanesi portiamo la grande responsabilità di non essere uniti. Ma abbiamo comunque il diritto di esistere. Come paese e come popolo».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Cristiani e musulmani: la sfida del dialogo

Faccia a faccia con due leader islamici

Uno è sunnita, l’altro sciita: entrambi sono particolarmente rappresentativi delle loro comunità. E sorprendentemente molto vicini su alcuni temi cruciali dell’incontro islamo-cristiano.

All’ingresso del suo ufficio, appesa al muro, è incoiciata la sura del Corano dell’Al-mâ’ida (La tavola imbandita, 82): «Troverai che i più affini a coloro che credono sono quelli che dicono: “In verità siamo cristiani”, perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia». Ci tiene a mostrarlo subito quel quadro, il professor Mohammed Sammak, così come la foto che lo ritrae con Giovanni Paolo ii in Vaticano. Poco distante, invece, c’è quella con l’ex primo ministro Rafic Hariri, assassinato il 14 febbraio 2006.
Il professor Sammak era suo consigliere, così come lo è attualmente del figlio Saad. Ma è anche consigliere politico del gran mufti del Libano. Sino a poco tempo fa, ha insegnato presso l’università dei gesuiti Saint Joseph di Beirut, oltre che negli Stati Uniti. Musulmano sunnita, autenticamente libanese e al tempo stesso cosmopolita, Mohammed Sammak è oggi, anzitutto, un uomo del dialogo. A molti livelli. Anche sul piano interreligioso.
È, infatti, segretario generale del Comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano e segretario del Gruppo arabo per il dialogo arabo-cristiano. Ha preso parte più volte agli incontri «Uomini e religioni», organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio e, nel 1995, ha partecipato, in rappresentanza della comunità sunnita, al Sinodo speciale per il Libano, convocato in Vaticano da Giovanni Paolo ii.
Sammak ha una grande ammirazione per papa Woityla e lo cita volentieri. A cominciare, lui pure, dalla celebre metafora del «paese-messaggio».

INVENTARE LA SPERANZA
«Questa terra – spiega – è in sé un esempio di tolleranza e coesistenza tra cristiani e musulmani. Non potrebbe essere altrimenti. La libertà, intesa anche come libertà religiosa, e il pluralismo sono una condizione necessaria, perché altrimenti il Libano non potrebbe esistere. I problemi nascono quando si mischiano religione e politica e si fa un uso strumentale della religione per altri fini. Ma il messaggio resta. Ed è un messaggio positivo, incoraggiante, sia a livello di principio che nella prassi. Un messaggio che vale non solo per il nostro paese, ma per tutta la regione».
La storia del Libano, tiene a precisare il professore, è una storia di conflitti che hanno interessato tutto il Medio Oriente. Ma è anche la storia di un paese dove, diversamente da tutti gli altri della regione, sono garantite la libertà di espressione e di religione, il livello di scolarizzazione è molto alto e i diritti umani, in generale, e quelli delle donne, in particolare, sono sostanzialmente salvaguardati.
La guerra civile e le aggressioni estee hanno più volte messo in difficoltà questo sistema complesso e fragile, senza peraltro riuscire a scardinarlo completamente. «Nelle crisi libanesi – avverte Sammak – non c’entrano cristianesimo e islam. Personalmente sono convinto che la religione vada usata per risolvere i problemi, non per crearli. È quello che cerchiamo di far capire alla gente. Dobbiamo imparare a prenderci cura l’uno dell’altro e a far sì che si rispettino le differenze. Soprattutto dobbiamo imparare, sempre di nuovo, a inventare la speranza».

PARTIRE DA CIÒ CHE UNISCE
Il professore evoca la responsabilità di ciascuno nel giocare la propria parte fino in fondo. Sia in campo musulmano che cristiano. Ma, in prima istanza, è necessario promuovere la conoscenza reciproca e individuare i livelli su cui è possibile instaurare un dialogo.
«Se partiamo dalla teologia – avverte – forse non andremo molto lontano. Dobbiamo partire da ciò che ci unisce e creare le condizioni affinché, in un contesto di rispetto reciproco e pluralismo, cristiani e musulmani possano innanzitutto vivere insieme, avere buone relazioni di vicinanza e di solidarietà. Questo è fondamentale anche per il futuro del Libano come nazione. E può essere d’esempio per una migliore conoscenza e comprensione tra musulmani e cristiani a livello internazionale».
La visione del professor Sammak potrebbe apparire alquanto ambiziosa, al limite dell’utopia. In fondo – si potrebbe pensare – il Libano non è che un piccolo paese, 4 milioni di abitanti, divisi al loro interno e spesso istigati alla divisione e «calpestati» dai vicini. Ma forse, proprio nella sua fragilità, il popolo libanese trova un punto di forza. Dialogare è la prima condizione per esistere.
«Il dialogo è un sogno e una sfida. Bisogna crederci perché si realizzi. E bisogna praticarlo a cominciare dalla vita quotidiana, dove le diversità non devono necessariamente tradursi in ostilità. Lo sforzo da fare è quello di mettersi dalla parte dell’altro, cercare di capire il suo punto di vista. E non ridurre tutto alla religione. Il dialogo mette in gioco molti aspetti: implica un confronto tra culture, opinioni, mentalità, visioni politiche, retaggi storici… Senza voler imporre una verità. Per questo, il dialogo può assumere diverse forme. È, innanzitutto, dialogo della vita, in cui ci si riconosce e ci si prende cura reciprocamente. È dialogo dell’azione e della solidarietà, soprattutto in ambito sociale ed educativo. È anche dialogo teologico, che deve però tenere come punto fermo il rispetto di chi, pur appartenendo a un’altra religione, può adorare Dio, lo stesso Dio, in modo diverso.

DIVERSITÀ: RICCHEZZA DEL LIBANO
«Questa è l’epoca del dialogo della vita. Tra persone, tra esseri umani che abitano nello stesso mondo e affrontano le stesse sfide». È quasi sorprendente ritrovare parole analoghe in ambito sciita. Eppure, Ibrahim Shamseddine non si discosta di molto dal punto di vista del professor Sammak.
Anche se proviene da tutt’altro orizzonte: figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, leader spirituale dei musulmani sciiti del Libano, deceduto nel gennaio 2001, Ibrahim sta seguendo le orme del padre, almeno per quanto riguarda la promozione di una pacifica convivenza fra cristiani e musulmani.
Presidente del Centro culturale e sociale islamico di Beirut, ci accoglie nel suo studio, che dà sul cortile di una grande moschea. L’abbigliamento è occidentale, ma i modi sono propri di un leader sciita. E ci tiene a sottolinearlo. Come a dire, l’apparenza è una cosa, la sostanza è un’altra. Così come tiene a mettere subito in chiaro che «gli sciiti del Libano non sono Hezbollah, né tanto meno il contrario. A volte si è accecati e non si vedono le differenze. Gli sciiti non sono mai stati e non potranno mai essere – proprio in quanto sciiti – un partito politico. Non si può ridurre la comunità sciita a Hezbollah. Ho la responsabilità e la legittimità, in quanto figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, di dirlo. La mia opinione è rispettata, ma non necessariamente accettata».
Insomma, politica e religione non sono esattamente la stessa cosa, anzi. Eppure, deve ammetterlo, nel contesto libanese le due cose spesso si mischiano pericolosamente. E allora, il dialogo diventa talvolta arduo. Non solo tra cristiani e musulmani, ma all’interno della stessa comunità religiosa.
«Il nostro sistema politico – sostiene Shamseddine – tiene conto del pluralismo culturale e religioso del paese. Il Libano, tuttavia, non dovrebbe essere uno stato spartito tra le religioni, ma uno stato che si prende cura delle diverse comunità. Purtroppo, però, le comunità religiose hanno spesso cercato di conquistare il potere. E quando lo stato diventa debole, tutti perdono. Potenzialmente la più grande ricchezza del Libano è la sua diversità. Ma abbiamo bisogno di vivere in pace e di essere lasciati in pace per sviluppare le nostre reali potenzialità». Il riferimento, ancora una volta, è soprattutto a Hezbollah, il «Partito di Dio», inconcepibile nell’islam, secondo Shamseddine, oltre che già di per sé escludente. Ma è anche ai paesi vicini, che «usano» Hezbollah – e non solo – per i loro giochi di potere.
«La religione può essere uno strumento molto efficace per affascinare le persone e per controllarle – ammonisce -. È quello che fanno i politici e i potenti. Ma le persone sagge dovrebbero piuttosto dedicarsi a informare e formare la gente correttamente. Io dico: “Dio ti ha creato libero: perché mi ritorni schiavo?”».
È una chiara denuncia dell’oppressione attraverso la religione, quella di Shamseddine. Che tuttavia mette in guardia anche sul confondere e mischiare le cose. Soprattutto quando si tratta di dialogo interreligioso.
«Il dialogo non è convertire, ma accettare le differenze. Io, come musulmano, non potrò mai credere in alcune verità del cristianesimo. Viceversa, non ho bisogno che i cristiani credano nelle verità dell’islam. Ma ho bisogno di vivere e cornoperare con loro. Le nostre diversità non significano che non possiamo lavorare insieme, essere amici e buoni vicini, condividere gesti di solidarietà. Quello che dovremmo fare è affrontare insieme alcuni fenomeni di quest’epoca e provare a trovare delle soluzioni ai problemi reali della gente».

SFIDE DA AFFRONTARE INSIEME
La cooperazione tra islam e cristianesimo può diventare così non solo uno spazio di mutua conoscenza e comprensione, ma anche un’occasione per affrontare alcune sfide globali di questi tempi. Shamseddine ne cita due come cruciali: la difesa della famiglia e la bioetica.
«Viviamo sui due argini dello stesso fiume – è la metafora che usa -. Non si può immaginare un fiume senza entrambe le rive. Per questo dobbiamo sforzarci di costruire un ponte che le unisca. Per me, come musulmano, sarebbe triste perdere il mio fratello cristiano che sta dall’altra parte. Per questo il dialogo è una via di vita e per la vita. Ed è per questo che la religione non può e non deve diventare fonte di guerre».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Scuole cattoliche: laboratori di cittadinanza

L’impegno educativo a servizio del paese

Non meri centri di tolleranza, ma di convivialità. Il ruolo delle scuole cattoliche nella creazione di un autentico senso di cittadinanza, capace di integrare culture e religioni diverse.

Le linee guida sono tutte un programma. Non solo pedagogico: «Educhiamo il cittadino per costruire il Libano». In tutte le scuole cattoliche del paese è stato questo slogan che ha fatto da filo conduttore per tutto l’anno scolastico 2006-2007.
I bambini della scuola Mar Behnam, delle suore domenicane della Presentazione, si sono ispirati per fae cartelloni e disegni, appesi alle pareti delle aule. Mentre i più piccoli, quelli della matea, cantano una canzoncina vagamente patriottica. Anche al Mont La Salle, una delle più grandi e prestigiose scuole cattoliche del Libano (2.200 studenti e molte attività educative e ricreative collaterali), il motto campeggia un po’ ovunque.
Visto da fuori, sembrerebbe scontato che, essendo in Libano, uno si debba sentire cittadino libanese. Ma nella complessità di questa terra, dove l’identità si costruisce su molti fattori (culturali, religiosi, politici, status sociale…), essere libanese può voler dire molte cose: rinchiudersi nella propria appartenenza comunitaria o assecondare l’indole indomita dell’emigrante.
«Le scuole cattoliche – spiega il responsabile del segretariato della chiesa maronita, padre Marwan Tabet – stanno dando un importante contributo alla creazione di un autentico senso di cittadinanza e allo sviluppo del paese. Quella che proponiamo è una pedagogia che vuole creare una cittadinanza capace di integrare culture e religioni diverse. Non puntiamo solo sulla formazione del cristiano, ma su quella del cittadino. La componente cristiana, semmai, conferisce il profilo pedagogico e culturale di riferimento».

È un impegno, questo, apparso prioritario, addirittura fondamentale, dopo la fine della guerra civile, che ha lasciato strascichi di odi e divisioni. Ma continua ad avere senso anche oggi, nel contesto politico e sociale attuale, fortemente condizionato dalla volontà di molti – dentro e fuori il paese – di dividere il popolo per meglio controllarlo e manipolarlo, anziché creare un vero spirito nazionale.
E allora l’insegnamento cattolico, che vanta una lunga tradizione e una diffusione capillare in tutto il paese, si è assunto questo compito. Che è anche una sfida cruciale per il futuro del Libano. Oggi le scuole cattoliche sono 365, per un totale di circa 200 mila studenti e 12.800 insegnanti. Complessivamente rappresentano il 25 per cento dell’insegnamento nazionale.
«L’istruzione – spiega padre Tabet – è un settore molto importante per la chiesa. Perciò si sta facendo uno sforzo molto grande perché sia mantenuto. A questo scopo cerchiamo di dialogare e cornoperare sia con il governo che con altre istituzioni scolastiche private. Anche se non è sempre facile».
Le sovvenzioni governative, solo per fare un esempio, sono in ritardo di circa tre anni e tocca al patriarcato maronita coprire il periodo scoperto. A livello di ministero dell’Istruzione, poi, da dieci anni il ministro è un musulmano sunnita e la Commissione episcopale per l’istruzione ha dovuto fare pressioni per molto tempo affinché nominassero un direttore maronita, in carica solo dallo scorso marzo.
«Non chiediamo privilegi – aggiunge padre Tabet -, ma semplicemente il riconoscimento di un lavoro prezioso che svolgiamo in tutto il paese con studenti di tutte le confessioni religiose».
Specialmente nel sud, infatti, e nella valle della Bekaa, al confine con la Siria, la percentuale degli studenti musulmani tocca punte del 90%. «In una scuola gestita dalle suore Antoniane – porta ad esempio padre Tabet – il 95% delle studentesse sono figlie di militanti di Hezbollah!».
«Proprio questa è una delle missioni della chiesa del Libano – precisa -: mantenere questa apertura e questo spirito di convivialità. Le nostre scuole non sono meri centri di tolleranza, ma appunto di convivialità. Di testimonianza dell’amore di Cristo nel rispetto delle differenze».
D urante la guerra civile, molti ricordano che alcune scuole cattoliche sono state difese da musulmani, perché ne riconoscevano il valore dell’insegnamento. «Chi ci conosce ci apprezza – continua il direttore -. Ma a volte il problema di fondo è proprio la mancanza di conoscenza. Per questo abbiamo promosso alcune iniziative volte a superare i pregiudizi e a promuovere l’incontro e la collaborazione».
Una di queste è stata la realizzazione di un libro che riporta tutte le feste cristiane e musulmane, distribuito a circa 500 mila studenti. Un lavoro durato due anni. Oggi, durante le feste degli uni e degli altri, tutti gli alunni ne leggono insieme il significato.
«Abbiamo inoltre creato una “Amical” degli ex allievi delle scuole cattoliche, in cui sono presenti sia cristiani sia musulmani che hanno studiato insieme. Infine – conclude padre Tabet – due anni fa abbiamo dato vita all’Unione delle istituzioni educative private, che comprende cattolici, protestanti, ortodossi, sunniti, sciiti e drusi. E che rappresenta l’85% dell’insegnamento in Libano». Anche questo è stato un passo molto importante per aprire un tavolo di discussione, confronto e condivisione di un impegno educativo che, in fondo, è una priorità per tutti.

«In questo momento – commenta monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei, presente in Libano per studiare modalità di cooperazione tra la chiesa italiana e quella libanese in campo educativo – è una sfida mantenere un’offerta formativa in tutto il paese e specialmente nel sud, dove anche i musulmani sono presenti nelle classi. Significa concepire una scuola autenticamente al servizio del paese, che si impegna a costruire una cittadinanza condivisa. L’insegnamento cattolico libanese ci pare un elemento fondamentale per la costruzione del Libano di oggi e del futuro. Per questo vorremmo impegnarci come chiesa italiana per promuovere occasioni di scambio e solidarietà, specialmente in questo ambito».
Mons. Stenco rimarca anche l’attenzione delle scuole cattoliche locali per le famiglie meno abbienti, gli orfani e i disabili. Per tutti coloro, insomma, che non possono permettersi di pagare le rette scolastiche, ma ai quali viene comunque garantito il diritto all’istruzione.
«Questo – riflette – è un ambito in cui potremmo promuovere azioni di solidarietà. Complessivamente, però, vorremmo innanzitutto creare occasioni di conoscenza, confronto e collaborazione reciproca. Anche la scuola cattolica italiana ha da imparare da quella libanese. Soprattutto in termini di accoglienza, rispetto delle differenze, apertura a tutti, anche ai non cattolici. La scuola cattolica italiana potrebbe trarre elementi di stimolo per elaborare proposte non solo per se stessa, ma per il sistema scolastico nel suo complesso».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi