Oro giallo per oro nero

L’analisi economica

Crescono i rapporti tra Cina e Africa e cambiano gli equilibri mondiali. Punti di forza e di debolezza, opportunià e minacce alla base di questo connubio.

Il gigante asiatico non solo si sta sempre più affermando ed acquistando potere sui mercati occidentali, ma negli ultimi anni sta anche rivelando la crescente ampiezza e profondità degli interessi in Africa.

L’analisi Swot è una tecnica sviluppata negli anni ’60 – ’70 come supporto alla definizione di strategie aziendali in contesti caratterizzati da incertezza e forte competitività. Oggi l’uso di questa tecnica è stato esteso a molti altri settori. Attraverso tale tipo di analisi è possibile evidenziare i punti di forza (strenghts) e di debolezza (weaknesses), al fine di fare emergere le opportunità (opportunities) e le minacce (threats) legate a quella determinata analisi.  Tentiamo di seguito un’analisi dei rapporti Cina – Africa.

I punti di forza

È giusto partire dall’idea che questi due colossi abbiano forti interessi per creare un sistema di collaborazione. La Cina ha un’economia in costante crescita, è dotata di notevoli supporti tecnologici, ma ha una grave lacuna: la scarsità di risorse. L’Africa è, invece, un continente molto povero, con pesantissime condizioni di indebitamento, ma ricco di risorse minerarie e petrolifere. Ne deriva pertanto che l’economia cinese e quella africana sono particolarmente complementari, in quanto la Cina possiede la tecnologia, le capacità manageriali e i capitali di cui hanno bisogno i paesi africani, mentre l’Africa è dotata di risorse naturali, che interessano la Cina. I commerci tra la Cina e l’Africa sono notevolmente aumentati, anche grazie al fatto che Pechino ha stabilito sul continente africano undici centri di investimento e commercio. Il crescente impegno della Cina in Africa fa parte di una più ampia strategia commerciale che assegna un ruolo molto importante ai paesi in via di sviluppo: circa il 50% delle esportazioni cinesi giungono in Asia, America Latina e Africa e oltre il 60% delle sue importazioni provengono dalle stesse aree.
L’interazione commerciale tra Cina e Africa è inoltre rafforzata dalle loro relazioni politiche fondate, in alcuni casi, sulla comune opposizione all’influenza globale degli Stati Uniti. L’intervento di Washington in Iraq e l’inopportunità di altri aspetti intrusivi sono stati spesso oggetto di aspre critiche cino – africane.

I punti di debolezza

Una differenza fondamentale tra la Cina e l’Africa è che la prima è uno stato unitario e, nonostante le sue dimensioni eccezionali, tutte le sue province dipendono comunque dalle decisioni del governo centrale di Pechino. La seconda, invece, è un continente costituito da stati, spesso in conflitto tra di loro, ciascuno dotato di un proprio governo. Questo aspetto rappresenta un punto di debolezza da non sottovalutare a svantaggio dell’Africa. Il rischio è quindi legato alla possibilità che i paesi africani, con i quali la Cina ha stretto relazioni commerciali di maggiore rilievo, finiscano per favorire l’emergere di una relazione dominante – dominato.
Questo rischio di «colonialismo economico» non necessariamente andrà a colpire tutti gli stati africani che si trovano coinvolti nella relazione Cina – Africa, ma interesserà soprattutto quei paesi più poveri e maggiormente bisognosi di aiuti economici.
Il presidente sudafricano, Thabo Mbeki, ha ammonito che l’Africa deve evitare una «relazione coloniale» con Pechino.

Le opportunità

Mentre i paesi occidentali considerano molto rischioso investire in Africa per la debolezza e la corruzione dei governi e le frequenti guerre, la Cina vede in essa una grande opportunità.
La Cina è avida di materie prime, cerca mercati per le sue merci ed esporta anche forza lavoro.
Attualmente più di 700 compagnie cinesi operano in 48 stati africani. In cambio molti paesi del continente stanno ottenendo la cancellazione del debito estero nei confronti della Cina, e si vedono offrire supporti tecnologici e finanziamenti «senza condizioni». Lo stesso presidente della Banca europea di investimento, Philippe Maystadt, ha confermato che i paesi africani preferiscono le proposte di finanziamento cinesi, perché «loro non pongono fastidiose condizioni circa i diritti umani e sociali».
Nel corso degli ultimi dieci anni, Pechino ha stipulato oltre 30 accordi strutturali per la concessione di prestiti con più di venti paesi africani. Alcuni progetti finanziati da questi prestiti hanno avuto uno straordinario successo, come l’esplorazione di giacimenti petroliferi in Sudan, il rinnovamento della rete ferroviaria in Botswana, lo sviluppo dell’agricoltura in Guinea, la fabbrica di cemento in Zimbabwe.

Le minacce

Alla Cina non interessa la stabilità finanziaria di questi paesi. Ma questo rischia di alimentare una pessima gestione finanziaria dello stato e di riprodurre i meccanismi di corruzione e di indebitamento da cui molti governi africani stanno emergendo.
Adama Gaye, giornalista senegalese esperto di questioni asiatiche, ha recentemente dichiarato in un’intervista a Radio France Inteational: «L’intervento della Cina in Africa sta distruggendo i passi in avanti della democrazia. Questo perché stabilisce nuove norme che degradano il sistema, ripristina la centralità dello stato e porta a una progressiva marginalizzazione delle forze democratiche che stavano sorgendo».
Pertanto questo connubio tra Cina e Africa non solo fornisce delle opportunità, ma crea molte minacce per l’Africa e innesca tensioni a livello mondiale. Le opinioni al riguardo sono diverse: da una parte i paesi africani non rinunciano alla collaborazione con Pechino, dall’altra devono ancora capire se questa sia una benedizione o una minaccia per loro.
Intanto Amnesty Inteational non ferma le accuse rivolte alla Cina che vende armi al Sudan per massacrare la popolazione, uniformi per l’esercito del Mozambico e fornisce elicotteri a Mali e Angola. Un ministro del Gabon (paese ricco di petrolio, minerali e foreste) dice che occorrono leggi per proteggere l’ambiente dallo sfruttamento delle risorse e critica le ditte estere (includendo la Cina) che portano dai loro paesi persino i materiali da costruzione, invece di favorie la produzione locale.
E ancora, la Namibia, per favorire gli investimenti cinesi, ha spesso esentato le compagnie cinesi dal rispetto dei minimi salariali e delle leggi a tutela dei lavoratori. La namibiana società nazionale per i diritti umani ha denunciato che i lavoratori sono sfruttati in condizioni di quasi schiavitù e che le importazioni dei prodotti cinesi a basso costo danneggiano l’economia locale. Se è vero che l’Africa ha assolutamente bisogno di alleati commerciali e sostenitori, è altrettanto vero che tali aiuti non possono non avvenire nel rispetto dei diritti umani.

Questi sono solo alcuni esempi per far capire come in realtà queste relazioni tra Cina e Africa sono fonte di numerose perplessità. Dietro all’invitante facciata di un solidale aiuto tra paesi in via di sviluppo, in realtà si cela una frenetica corsa all’oro da parte della Cina.
È giusto però concludere che, visto le numerose e aspre critiche a livello internazionale, la Cina ultimamente sembra prendere più sul serio queste accuse. Ha approvato l’invio di una più numerosa forza di pace Onu in Darfur, offrendo pure 10 milioni di aiuti umanitari e annunciando l’invio di 275 ingegneri militari nella zona.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Yang scopre l’africa

Storia di un emigrato in Burkina Faso

Sono stimati a 150.000 i cinesi che hanno scelto di vivere in Africa e circa 450.000 quelli ormai naturalizzati. Vengono al seguito delle multinazionali del loro pase, ma anche come piccoli e medi imprenditori. E mantengono forte il legame con la madre patria. Abbiamo incontrato uno di loro.

Yang Gaihao ha circa 35 anni. È originario della città Wenzhou, nella regione Zhejiang, sulla costa Sud – Est della vasta Repubblica popolare di Cina. Lo troviamo nel suo negozio centralissimo, di fronte al Cinema «Burkina», a Ouagadougou.
Arrivato nel 2004 per «turismo», ci dice, invitato da alcuni amici cinesi che in Burkina Faso già vivono. «Mi sono reso conto che si potevano fare degli affari e così ho deciso di trasferirmi». Arriva con la moglie nel 2005 e apre un magazzino di merce tutta importata direttamente dalla Cina.
Vanno molto i poster di Ronaldinho in questo periodo, ma anche orologi da muro raffiguranti il Cristo o improbabili bellezze. Piacciono anche le tende con immagini serafiche della Cina, di cui Yang ha diversi cataloghi. Poi ci sono fiori di plastica, giochi, pentole, stereo, borse …
Tutta merce piuttosto scadente. «I prezzi sono bassi, così la gente compra. Il beneficio per noi è piccolo ma sulla quantità ci guadagnamo». Intanto una signora ouagalese sta dicendo a sua moglie: «Siete troppo cari!» e sventola due poltrone gonfiabili per bambini, in vendita all’equivalente di 4,5 euro. «Ci guadagnamo, ma senza esagerare», continua.
È lui che segue direttamente i suoi fornitori, così si reca nella madre patria 2 – 3 volte all’anno.

Il francese lo parla piuttosto male, ha iniziato a studiarlo nel 2004. Almeno si fa capire, al contrario del suo giovane aiutante (suo cugino fatto arrivare in seguito). Dice che non ha avuto problemi per impararlo.

Se gli chiedo come va con gli africani, scuote un po’ la testa e fa una smorfia: «Sì, abbastanza bene, ma non ci frequentiamo molto. Ho amici cinesi, e anche occidentali e solo qualche burkinabè». Si frequentano in prevalenza tra cinesi e ce ne sono circa 200 in Burkina Faso.
Questo paese è uno dei cinque che in Africa ancora riconoscono Taiwan e che quindi la Cina popolare non accoglie tra i suoi partner commerciali. Taiwan inietta ogni anno fondi per la cooperazione sino – burkinabè (il cui uso non è controllato), per mantenere questo appoggio geo – politico sul continente. Pechino non sembra molto interessata, visto la scarsità di materie prime del paese saheliano.

Yang anche a casa sua faceva il commerciante, ma di «cose diverse» spiega. Ma perché ha scelto proprio l’Africa per tentare la fortuna? «Anche l’Europa e l’Italia, che è piena di cinesi – ricorda – sono interessanti, ma è diventato molto difficile ottenere il visto». Qui è molto più facile. Anche se fa caldo, non importa e non si sta così male.
Gli piace viaggiare ed è stato in molti paesi della regione: Costa d’Avorio, Ghana, Benin, Mali. Sia per turismo, sia per visitare amici e per sondare la possibilità di business. Dice di non avere problemi di soldi per spostarsi, anche verso l’Europa, ma non riesce ad avere i documenti.
Nel suo magazzino su due piani la merce è buttata un po’ a caso, su scaffali o in scatoloni ammassati a terra. Ci sono molti addetti africani che girano per servire i clienti. Il posto è abbastanza frequentato.

Yang, gentilissimo fino a quel momento, mi riprende dicendo che sto facendo troppe foto, nonostante gli abbia chiesto il permesso. Le vuole vedere. «Non voglio avere problemi» dice più volte. Anche sua moglie è piuttosto innervosita dalla mia presenza. Ricordo allora le parole di un amico burkinabè: «Cinesi? Sì, ci sono anche in Burkina, ma sono molto chiusi nella loro comunità».

Di Marco Bello


 Costa d’Avorio: Cina batte Francia

L’impero di mezzo va avanti e prende fette di Africa ai potenti del pianeta. La Francia sarà costretta a ritirarsi o difenderà il suo bastione?

La Cina non fa parte dei 10 primi partner commerciali della Costa d’Avorio. Le relazioni commerciali tra i due paesi son cresciute negli ultimi cinque anni e infatti al ministero dell’Economia si stanno ancora elaborando le statistiche sul fenomeno.  Ma è soprattutto con l’arrivo alla presidenza di Laurent Gbagbo (2000) che la Cina ha cominciato a sviluppare gli scambi con la Costa d’Avorio. 
Più evidenti i grossi cantieri edili. Il palazzo della cultura, nel quartiere storico di Treichville, sul bordo della laguna Ebrié. La costruzione della «casa dei deputati», un enorme palazzo (con uffici e residenze per tutti i deputati) nella capitale politica Yamoussoukro, a 260 km da Abidjan, ha dato una scossa alle relazioni tra la Costa d’Avorio e la Francia. Molti osservatori politici vi vedono un segno di rottura con le consuetudini che legavano il paese europeo con l’ex colonia.

«Io credo che il regime attuale sia venuto al potere con un’idea precisa: ridurre le relazioni con la Francia. Questo si è verificato sul piano diplomatico quando certi baroni del potere hanno stimato che i rapporti con gli ex colonizzatori erano solo a vantaggio di questi. Sul piano militare abbiamo visto lo stesso concetto: al culmine della crisi i “giovani patrioti” (bande organizzate pro Gbagbo, ndr) bruciavano la bandiera francese e chiedevano la partenza dei militari transalpini. A livello economico i mercati pubblici più importanti sono ormai assegnati a imprese cinesi. Questa è una politica ben congegnata. L’attuale presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr), Mamadou Koulibaly, aveva pure chiesto che il franco cfa non fosse più agganciato a quello francese». Sostiene Awa Traoré, funzionario.

Recentemente è stato firmato un partenariato tra Cina e Costa d’Avorio in campo universitario. L’Istituto Politecnico Houphouet Boigny della capitale riceverà un appoggio cinese sul piano della formazione ad alto livello.
Un enorme supermercato, chiamato «La Foire de Chine» (la fiera della Cina, ndr) è stato aperto a Treichville. Qui tutti i prodotti cinesi sono in vendita. Mentre a livello medico il paese rigurgita, da una decina di anni, di prodotti cinesi venduti lungo le strade.
«A prima vista, l’invasione del mercato avoriano da beni made in China può sembrare una manna, perché questi sono proposti a prezzi molto concorrenziali. Ma occorre soprattutto guardare la qualità.  E su questo ci sono molte cose da obiettare. In Camerun, ad esempio la popolazione ha manifestato contro certi beni di basso valore. Diversificazione sì, ma anche qualità!», dice Sébastien Tié, agente di banca.
 «Non vedo inconvenienti sul fatto che la Costa d’Avorio diversifichi i propri partner economici. Questo contribuisce alla dinamica degli scambi commerciali», afferma Albert Zio, quadro commerciale.
 

Adama Koné, da Abidjan

                           Cina in Burundi

Il gigante asiatico batte l’Africa a tappeto, così anche un paese piccolo e privo di risorse come il Burundi diventa interessante sullo scacchiere geopolitico.

Il Burundi ha delle ottime relazioni con la Cina dal 1970. Un accordo di cooperazione economica, tecnica e commerciale è stato firmato nel luglio del 1972. Da allora la cooperazione è aumentata, sotto forma di crediti e  di doni in settori prioritari, come lavori pubblici, educazione, salute.
Nell’educazione la Cina fornisce almeno 10 borse di studio all’anno per burundesi. Secondo Venant Nyobewe, capo di gabinetto del ministero dell’Educazione, «attualmente 19 connazionali fanno studi di dottorato, mentre altri 18 sono stati ammessi a corsi post universitari». Altre borse sono messe a disposizione per il ministero della Difesa, così 33 ex combattenti hanno fatto stage in Cina.

Nel settore sanitario la Cina è presente in tre province: Muramvya, Bujumbura e Gitega. Ogni due anni vengono inviate delle équipe mediche complete per lavorare negli ospedali.
Un insegnante di Gitega ci ha rivelato che il problema che si ha con i cinesi, in particolare quelli che lavorano all’ospedale, è che non parlano né francese né inglese. Lavorano con un interprete, ma spesso non riescono a capire i problemi dei malati.
In generale, in Burundi, la gente pensa che i cinesi mangiano i cani e questo è contrario al costume del paese.

Secondo l’ambasciatore cinese a Bujumbura Zeneng Xian, oltre 250 cinesi vivono attualmente nel paese, di cui 23 medici. La Cina ha ristrutturato i più importanti ospedali del Burundi. Dati del ministero burundese degli Affari esteri e della cooperazione riportano che quattro ospedali hanno ricevuto 900 mila dollari nel 2007.
Nel campo delle infrastrutture, la Cina sta costruendo la Scuola normale superiore, che sarà terminata nel primo trimestre 2008. Il costo è stato di 20 milioni di Yuans. In prospettiva sarà costruito un nuovo palazzo presidenziale nella capitale, un centro contro la malaria e un ospedale da 150 letti nella provincia di Bubanza, tra le più povere del paese.

L’ambasciatore cinese ha spiegato che il suo paese è sempre stato a fianco del Burundi anche durante la crisi scoppiata nel 1993. Ha aggiunto che il Burundi è un buon amico della Cina, in quanto ha sempre avuto il suo stesso punto di vista a livello internazionale.
L’ultima sessione della commissione mista sino – burundese si è tenuta a Pechino nel maggio 2002. In quell’occasione la Cina ha destinato al Burundi un dono di 4,44 milioni di dollari per finanziare questi progetti.

Gabriel Nikundana, da Bujumbura


Marco Bello




Scuole cattoliche: laboratori di cittadinanza

L’impegno educativo a servizio del paese

Non meri centri di tolleranza, ma di convivialità. Il ruolo delle scuole cattoliche nella creazione di un autentico senso di cittadinanza, capace di integrare culture e religioni diverse.

Le linee guida sono tutte un programma. Non solo pedagogico: «Educhiamo il cittadino per costruire il Libano». In tutte le scuole cattoliche del paese è stato questo slogan che ha fatto da filo conduttore per tutto l’anno scolastico 2006-2007.
I bambini della scuola Mar Behnam, delle suore domenicane della Presentazione, si sono ispirati per fae cartelloni e disegni, appesi alle pareti delle aule. Mentre i più piccoli, quelli della matea, cantano una canzoncina vagamente patriottica. Anche al Mont La Salle, una delle più grandi e prestigiose scuole cattoliche del Libano (2.200 studenti e molte attività educative e ricreative collaterali), il motto campeggia un po’ ovunque.
Visto da fuori, sembrerebbe scontato che, essendo in Libano, uno si debba sentire cittadino libanese. Ma nella complessità di questa terra, dove l’identità si costruisce su molti fattori (culturali, religiosi, politici, status sociale…), essere libanese può voler dire molte cose: rinchiudersi nella propria appartenenza comunitaria o assecondare l’indole indomita dell’emigrante.
«Le scuole cattoliche – spiega il responsabile del segretariato della chiesa maronita, padre Marwan Tabet – stanno dando un importante contributo alla creazione di un autentico senso di cittadinanza e allo sviluppo del paese. Quella che proponiamo è una pedagogia che vuole creare una cittadinanza capace di integrare culture e religioni diverse. Non puntiamo solo sulla formazione del cristiano, ma su quella del cittadino. La componente cristiana, semmai, conferisce il profilo pedagogico e culturale di riferimento».

È un impegno, questo, apparso prioritario, addirittura fondamentale, dopo la fine della guerra civile, che ha lasciato strascichi di odi e divisioni. Ma continua ad avere senso anche oggi, nel contesto politico e sociale attuale, fortemente condizionato dalla volontà di molti – dentro e fuori il paese – di dividere il popolo per meglio controllarlo e manipolarlo, anziché creare un vero spirito nazionale.
E allora l’insegnamento cattolico, che vanta una lunga tradizione e una diffusione capillare in tutto il paese, si è assunto questo compito. Che è anche una sfida cruciale per il futuro del Libano. Oggi le scuole cattoliche sono 365, per un totale di circa 200 mila studenti e 12.800 insegnanti. Complessivamente rappresentano il 25 per cento dell’insegnamento nazionale.
«L’istruzione – spiega padre Tabet – è un settore molto importante per la chiesa. Perciò si sta facendo uno sforzo molto grande perché sia mantenuto. A questo scopo cerchiamo di dialogare e cornoperare sia con il governo che con altre istituzioni scolastiche private. Anche se non è sempre facile».
Le sovvenzioni governative, solo per fare un esempio, sono in ritardo di circa tre anni e tocca al patriarcato maronita coprire il periodo scoperto. A livello di ministero dell’Istruzione, poi, da dieci anni il ministro è un musulmano sunnita e la Commissione episcopale per l’istruzione ha dovuto fare pressioni per molto tempo affinché nominassero un direttore maronita, in carica solo dallo scorso marzo.
«Non chiediamo privilegi – aggiunge padre Tabet -, ma semplicemente il riconoscimento di un lavoro prezioso che svolgiamo in tutto il paese con studenti di tutte le confessioni religiose».
Specialmente nel sud, infatti, e nella valle della Bekaa, al confine con la Siria, la percentuale degli studenti musulmani tocca punte del 90%. «In una scuola gestita dalle suore Antoniane – porta ad esempio padre Tabet – il 95% delle studentesse sono figlie di militanti di Hezbollah!».
«Proprio questa è una delle missioni della chiesa del Libano – precisa -: mantenere questa apertura e questo spirito di convivialità. Le nostre scuole non sono meri centri di tolleranza, ma appunto di convivialità. Di testimonianza dell’amore di Cristo nel rispetto delle differenze».
D urante la guerra civile, molti ricordano che alcune scuole cattoliche sono state difese da musulmani, perché ne riconoscevano il valore dell’insegnamento. «Chi ci conosce ci apprezza – continua il direttore -. Ma a volte il problema di fondo è proprio la mancanza di conoscenza. Per questo abbiamo promosso alcune iniziative volte a superare i pregiudizi e a promuovere l’incontro e la collaborazione».
Una di queste è stata la realizzazione di un libro che riporta tutte le feste cristiane e musulmane, distribuito a circa 500 mila studenti. Un lavoro durato due anni. Oggi, durante le feste degli uni e degli altri, tutti gli alunni ne leggono insieme il significato.
«Abbiamo inoltre creato una “Amical” degli ex allievi delle scuole cattoliche, in cui sono presenti sia cristiani sia musulmani che hanno studiato insieme. Infine – conclude padre Tabet – due anni fa abbiamo dato vita all’Unione delle istituzioni educative private, che comprende cattolici, protestanti, ortodossi, sunniti, sciiti e drusi. E che rappresenta l’85% dell’insegnamento in Libano». Anche questo è stato un passo molto importante per aprire un tavolo di discussione, confronto e condivisione di un impegno educativo che, in fondo, è una priorità per tutti.

«In questo momento – commenta monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei, presente in Libano per studiare modalità di cooperazione tra la chiesa italiana e quella libanese in campo educativo – è una sfida mantenere un’offerta formativa in tutto il paese e specialmente nel sud, dove anche i musulmani sono presenti nelle classi. Significa concepire una scuola autenticamente al servizio del paese, che si impegna a costruire una cittadinanza condivisa. L’insegnamento cattolico libanese ci pare un elemento fondamentale per la costruzione del Libano di oggi e del futuro. Per questo vorremmo impegnarci come chiesa italiana per promuovere occasioni di scambio e solidarietà, specialmente in questo ambito».
Mons. Stenco rimarca anche l’attenzione delle scuole cattoliche locali per le famiglie meno abbienti, gli orfani e i disabili. Per tutti coloro, insomma, che non possono permettersi di pagare le rette scolastiche, ma ai quali viene comunque garantito il diritto all’istruzione.
«Questo – riflette – è un ambito in cui potremmo promuovere azioni di solidarietà. Complessivamente, però, vorremmo innanzitutto creare occasioni di conoscenza, confronto e collaborazione reciproca. Anche la scuola cattolica italiana ha da imparare da quella libanese. Soprattutto in termini di accoglienza, rispetto delle differenze, apertura a tutti, anche ai non cattolici. La scuola cattolica italiana potrebbe trarre elementi di stimolo per elaborare proposte non solo per se stessa, ma per il sistema scolastico nel suo complesso».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Mosaico incompiuto

Anatomia di un paese dalle molte anime

Pur segnato da conflitti e instabilità, il Libano rimane l’unica terra di libertà e pluralismo all’interno del Medio Oriente. Viaggio in un paese frammentato e inquieto.

Strano destino quello del Libano. Aperto al mare, aggrappato alle sue montagne, è stato sin dalla più remota antichità una terra di mezzo. Terra di molti e terra di nessuno. I fenici, navigatori abilissimi, si insediarono qui tre millenni avanti Cristo; svilupparono l’alfabeto lineare e lo diffusero in tutto il Mediterraneo, fondando colonie da Cipro alla Sicilia, dalla Sardegna al Nord Africa, sino alla Spagna. Come non riconoscere ancora oggi un residuo di quello spirito fenicio in questo popolo di migranti sparso in tutto il mondo?
Dopo i fenici passarono di qui anche i persiani di Dario, artefici di un significativo processo di assimilazione culturale, prima di essere sconfitti dai macedoni di Alessandro Magno. Quindi arrivarono i romani, che annessero il Libano alla provincia di Siria e vi introdussero il cristianesimo in seguito alla conversione dell’imperatore Costantino (313).

IL LIBANO NASCE CRISTIANO
Ma i libanesi seppero trasformare anche questa vicissitudine religiosa in una storia propria, del tutto singolare. Una storia che risale al v secolo e alla vicenda dell’anacoreta Marone, sulla cui tomba, ad Apamea (oggi in Siria), lungo il fiume Oronte, venne costruito un monastero, meta dei fedeli di quelle terre.
Da qui ebbe origine la comunità dei maroniti, che nel vii secolo si insediarono nell’attuale Libano, dove mantennero – e mantengono ancora oggi, pur essendo cattolici – una sostanziale autonomia e un proprio rito. E dove continuano a rappresentare la comunità cristiana più numerosa e influente del paese, non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico, sociale ed economico.
Ma la storia del Libano è stata ed è fortemente segnata anche dalla presenza dell’islam. Gli eserciti musulmani vi penetrarono diretti a Gerusalemme, che cadde nel 638. In Libano, tuttavia, dovettero fare i conti con la particolare conformazione montuosa del paese e con la resistenza dei cristiani, e in particolare dei maroniti.
Tutto l’ultimo millennio di storia libanese – dalle crociate ai giorni nostri – è segnato dallo scontro e dalla dialettica tra le varie componenti religiose che fanno del paese un mosaico ricchissimo e incompiuto, le cui tessere continuano a cambiare di mano e di posizione.
Così anche negli anni più recenti. Dopo la caduta dell’impero ottomano e i primi scontri tra i maroniti e le popolazioni druse che abitano le montagne dello Chouf – e che, pur essendo islamiche, conservano gelosamente le loro tradizioni -, la Francia comincia a far sentire con maggior forza il proprio peso nella regione. Vicino alla causa maronita, il governo di Parigi promuove l’indipendenza del Libano.

GIOCO DI EQUILIBRIO
Dopo la prima guerra mondiale, durante il mandato francese, è promulgata una Costituzione che tiene conto degli equilibri religiosi del paese. Nel 1932 viene realizzato il primo e, fin qui l’unico, censimento della popolazione libanese. Ne emerge un quadro religioso sostanzialmente equilibrato: il 51% della popolazione cristiana (di cui il 29% maronita), il 49% musulmana e l’1% di altri gruppi, tra cui anche una piccola comunità ebraica.
Sulla base di tale censimento viene stipulato, nel 1943, il cosiddetto «Patto nazionale», in base al quale tutte le cariche politiche e istituzionali devono essere distribuite in percentuali ben precise alle diverse confessioni religiose. I seggi parlamentari, poi, dovevano essere assegnati con una proporzione di 6 a 5 a favore dei cristiani. Il presidente sarebbe sempre stato un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita.
Questo ordinamento è tuttora in vigore, anche se sono state modificate le percentuali dei deputati, che oggi sono metà musulmani e metà cristiani. Una suddivisione che probabilmente non rispecchia più la composizione sociale, visto che i musulmani sono certamente più numerosi dei cristiani, sia per il più elevato tasso di natalità, sia per la tendenza di molti cristiani a emigrare all’estero. Sta di fatto, però, che per il momento nessuno osa invocare un nuovo censimento, che sconvolgerebbe il già precario equilibrio, su cui cerca faticosamente di reggersi il Libano.
Non che questa particolarissima ed esplosiva commistione tra politica e religione abbia mai veramente funzionato: nei mesi scorsi ha letteralmente bloccato tutte le istituzioni del paese. Ma in passato è stata spesso causa di sanguinosi conflitti. Eppure nessuno pare intravedere o vuole promuovere una ragionevole alternativa.

VICINI SCOMODI E INVADENTI
L’esperienza del passato non è edificante. Ottenuta l’indipendenza – formalmente nel 1943, di fatto nel 1946, quando si ritirarono le truppe francesi – il Libano piomba in una serie di situazioni di crisi da cui non è ancora completamente uscito. Da un lato, paga le mai domate divergenze e spaccature intee; dall’altro, subisce le mire egemoniche di vicini invadenti (in tutti i sensi!) come Israele, Siria e Iran (ma anche Arabia Saudita ed Egitto). Per non parlare del fatto che – spesso suo malgrado – si ritrova al centro dei giochi di interesse e di potere delle grandi potenze inteazionali, a cominciare dalla Francia e, soprattutto, dagli Stati Uniti, oltre a subire le pesanti ripercussioni delle due guerre del Golfo e di svariati interventi e risoluzioni – spesso vani – delle Nazioni Unite.
Insomma, nella sua storia travagliata questo minuscolo paese che è il Libano non ha mai conosciuto realmente cosa significano nella loro pienezza parole come pace, indipendenza, sovranità nazionale…
Già all’indomani dell’indipendenza, in seguito alla guerra arabo-israeliana, scoppiata dopo il ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, il Libano ha dovuto sopportare l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, molti dei quali sono rimasti nel paese. Attualmente sono circa 350 mila, arrivati anche in momenti successivi e ammassati, in condizioni spesso miserabili, in enormi campi, dove un tempo trovava rifugio l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, mentre oggi vengono facilmente infiltrati da organizzazioni filo-siriane o vicine ad Al Qa’ida.
È quanto è successo lo scorso maggio a Nahr al-Bared, nei pressi di Tripoli, uno dei 12 campi ancora presenti in Libano, dove il gruppo Fatah al-islam si è organizzato con uomini provenienti anche dall’estero e con armi pesanti ha attaccato l’esercito libanese. Un centinaio i morti tra gli integralisti islamici, militari libanesi e profughi palestinesi.
Il rischio è che la rivolta si estenda ad altri campi e ad altre città libanesi. Ma ancora una volta, per una battaglia che si svolge sul territorio del Libano, i responsabili vanno cercati fuori dal paese. Anche se alcuni ritengono il gruppo di Fatah al-islam vicino a Bin Laden, molti sospettano, rischiando facilmente di azzeccarci, lo zampino della Siria. Che mal sopporta un Libano fuori dal suo controllo.
La Siria, appunto, è uno dei grandi vicini scomodi del Libano, che da sempre ne condiziona pesantemente le sorti e mai ha rinunciato davvero ad annetterselo, perseguendo l’antico e inconfessabile sogno della «Grande Siria».
Sin dal ’76, con il pretesto di porre fine alla guerra civile scoppiata l’anno prima, i militari siriani, in seguito integrati alla Forza araba di dissuasione, sono stati massicciamente presenti nel paese sino all’aprile del 2005. Di fatto un’occupazione durata 30 anni, e accompagnata da forti condizionamenti politici, che in parte continuano.

GUERRA CIVILE DEVASTANTE
Intanto, però, un’altra grossa partita si è giocata sul fronte israeliano. Già la «Guerra dei sei giorni» del 1967, con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, aveva provocato un nuovo massiccio afflusso di profughi palestinesi in Libano. I campi di raccolta si sono trasformati ben presto in centri di guerriglia anti-israeliana, oltre a rappresentare un serio problema interno al paese. Al punto da diventare il pretesto per lo scoppio della guerra civile, che dal ’75 al ’90 ha devastato il paese, opponendo in fasi diverse i maroniti della Falange libanese legata alla famiglia Gemayel (responsabili tra l’altro della famigerata strage nei campi di Sabra e Shatila), i drusi del Movimento nazionale di Kamal Jumblat (autori di massacri di cristiani sui monti Chouf), le milizie sciite di Amal e poi quelle di Hezbollah (protagonisti di numerosi attentati suicidi).
Gli israeliani, dal canto loro, sono intervenuti direttamente almeno otto volte, occupando fasce più o meno estese del territorio libanese. Le più devastanti sono quelle del marzo ‘78, quando hanno invaso il Libano meridionale, e del giugno ’82, quando invece si sono spinti sino a Beirut, dopo aver devastato le città del sud. La capitale, dove trovavano rifugio i dirigenti dell’Olp, è stata colpita per due mesi da pesanti bombardamenti che hanno provocato quasi 20 mila morti e 30 mila feriti.
Dopo il ritiro dell’esercito dal sud del Libano, oggi Israele controlla solo la zona delle fattorie di Shebaa, contese anche dalla Siria. E proprio questa occupazione è diventata il pretesto che la guerriglia di Hezbollah, il «Partito di Dio», usa per continuare la sua lotta armata. Movimento sciita, nato agli inizi degli anni Ottanta, Hezbollah aveva in parte avviato negli ultimi tempi un processo di riconversione in partito politico, che si è bruscamente interrotto la scorsa estate, quando, dopo ripetuti attacchi e il rapimento di due militari israeliani, l’esercito di Tel Aviv è nuovamente intervenuto in Libano, bombardando le città del sud, i quartieri sciiti di Beirut e molte infrastrutture del paese. La guerra, durata 33 giorni, è stata l’ennesima pesante batosta per il Libano: più di mille i morti, in gran parte civili, 4 mila feriti, 700 mila sfollati. Per non parlare di ponti, strade, infrastrutture abbattute e 130 mila abitazioni distrutte o danneggiate. Un danno pari a quasi 4 miliardi di dollari. Senza contare i circa 4 mila posti di lavoro persi, le 700 imprese chiuse o fallite e vaste zone agricole impraticabili a causa delle mine o degli ordigni inesplosi.
O ggi il Libano è un paese in bilico, profondamente diviso al suo interno, e pesantemente condizionato dagli interessi e dalle politiche regionali e inteazionali. «Unità e pace» sono le parole d’ordine che continua a ripetere il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, la principale autorità religiosa cristiana del paese. Ma per raggiungerle c’è ancora molta strada da fare…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Imperativo convivenza

Un «paese-messaggio» di libertà e tolleranza. Molto fragili.

È un auspicio, ma anche una necessità in un paese dove convivono 18 confessioni religiose differenti. Ma dove i cristiani si sentono sempre più minacciati ed emigrano.

Nicole è una giovane donna greco-ortodossa, mentre suo marito e suo figlio sono cattolici-maroniti. Zainab è musulmana sciita, ma è molto vicina al movimento del Focolare. Nada, invece, è armeno-cattolica ed è l’assistente del sacerdote maronita che dirige le Pontificie opere missionarie libanesi.
Al santuario mariano di Harissa, in mezzo a una folla festante di giovani cristiani, alcune donne musulmane accendono un cero alla Vergine…
Sono solo alcune immagini, molto quotidiane e comuni, di un Paese dove la convivenza tra differenze è più che un dato di fatto. È una necessità. Imposta dai numeri e dalla storia.
In questa terra minuscola, 10 mila chilometri quadrati (quanto la Basilicata), abitata da poco meno di 4 milioni di persone, convivono 18 confessioni religiose: 12 cristiane e 6 musulmane. Più, un tempo, la comunità ebraica.

DIALOGARE
Oggi il Libano è un paese che vanta di essere un «messaggio», come lo aveva definito Giovanni Paolo ii durante la sua visita nel 1997. Molti lo ripetono ancora oggi con orgoglio, quasi fosse uno slogan. Un messaggio per il Medio Oriente e per il mondo intero. Perché il Libano è – e potrebbe esserlo molto di più – terra di libertà, apertura, tolleranza. Un paese del dialogo e della convivenza tra comunità e religioni, in un contesto regionale e mondiale dove prevalgono le incomprensioni, le chiusure e gli scontri.
Ma, allo stesso tempo, le molteplici divisioni e rivalità intestine, tra cristiani e musulmani, tra le diverse confessioni cristiane e all’interno delle stesse comunità, rischiano di far implodere il paese. La commistione tra religione e politica certo non aiuta.
«Il Libano sta vivendo un momento molto critico», ha dichiarato con grande apprensione il cardinale Nasrallah Sfeir, patriarca della chiesa maronita. Massima autorità religiosa cristiana del paese, uomo autorevole e grandemente rispettato, continua con energica determinazione, nonostante i suoi 87 anni, a lottare per un Libano unito, libero e in pace. «Ci sono molte domande aperte che riguardano il futuro politico di questo paese e quello delle comunità cristiane. Occorre ritrovare la capacità di dialogare per ridare un soffio di speranza al Libano».
È un tema ricorrente negli interventi molto assidui del cardinale: ritrovare l’unità, superare le divisioni, rigettare il «fanatismo, il fondamentalismo e la violenza». E poi, «aiutare i cittadini a rimanere nel loro paese, malgrado le difficoltà economiche e politiche. La presenza cristiana è minacciata, a causa della divisione che regna dentro la comunità.

CONTENERE L’EMORRAGIA
«Ma il Libano senza cristiani non sarà più il Libano». È questo un altro dei ritoelli che ricorre ovunque nel paese. Tra i religiosi come tra i giovani, alla Caritas come tra gli intellettuali cristiani. L’instabilità politica, la difficoltà di trovare un lavoro, la paura di una nuova guerra spingono molti – soprattutto giovani e soprattutto cristiani – a lasciare il paese.
Anche il patriarca armeno-cattolico, Nerses Bedros iv, non può non fare a meno di dolersi di questa emorragia inarrestabile. La sua è una chiesa antichissima, nata nel 301 d.C. («prima che a Roma!», tiene a sottolineare), una chiesa dispersa nel mondo, soprattutto dopo il genocidio armeno del 1915, numericamente molto ridotta in Libano, ma che «sta alle radici della cristianità in Oriente».
Ci sono diversi giovani seminaristi, soprattutto libanesi e siriani, nel monastero di Notre Dame de Bzommar, dove dal 1742 ha sede il patriarcato, segno di una chiesa ancora feconda. «L’instabilità di questa regione spinge purtroppo molti cristiani ad andarsene. Si sta perdendo una grande ricchezza anche in termini di cultura e tradizioni».
Non è da oggi che i libanesi emigrano. Forse fa parte anche del Dna di un popolo affacciato sul mare e proteso da sempre verso l’altrove, al punto che oggi sono molto più numerosi i libanesi residenti all’estero di quelli che vivono in patria: almeno 10 milioni.

BALUARDO DI UNITÀ NAZIONALE
Ciononostante, in Libano vive la più numerosa comunità cristiana presente in un paese arabo. Attualmente sarebbero meno del 40%; sino a pochi decenni fa erano il 51%. In mancanza di un censimento ufficiale (l’ultimo risale al 1932), le statistiche si basano sugli elenchi elettorali, secondo i quali il 41,23% dei cittadini con più di 21 anni è cristiano (22,4% maronita, 7,92% greco-ortodosso, 5,22% greco-cattolico, 3,07% armeno-gregoriano, e in percentuali minori tutti gli altri).
I musulmani sarebbero invece il 58,57% (26,15% sunniti, 25,96% sciiti, 5,64% drusi, e in percentuali minori alauiti e ismaeliti).
Nonostante il loro numero si stia assottigliando, i cristiani non rinunciano a essere baluardo dell’unità nazionale e punto di riferimento per le comunità ben più esigue che sono presenti negli altri paesi arabi.
Anche l’arcivescovo di Jbeil, Bechara Rai, altra voce autorevole della chiesa maronita, ribadisce l’importanza di essere «messaggio»: «I musulmani del Libano – sostiene – hanno rinunciato alla teocrazia e i cristiani hanno rinunciato al laicismo occidentale. Entrambi vogliamo convivere in un sistema civile che rispetti la dimensione religiosa dei cittadini. Perciò il Libano offre questo modello: si tratta non solo di un paese, ma di un “messaggio”, offerto sia all’Occidente sia all’Oriente. All’Occidente, immerso in un laicismo che non solo ha separato religione e stato, ma che ha diviso anche stato e Dio. È però un messaggio anche per l’Oriente, il quale dice che culture e le religioni possono convivere e formare insieme uno stato civile».
E tuttavia, anche mons. Rai è preoccupato del futuro dei cristiani nel suo paese. A suo avviso, l’incursione israeliana dello scorso anno non ha fatto che peggiorare le cose, provocando una «vera e propria crisi», che tocca indirettamente tutta la regione. Per questo, ricordando le parole di Giovanni Paolo ii, avverte: «La presenza cristiana in Libano è una condizione necessaria per salvare l’esistenza dei cristiani in Medio Oriente».

TRA PESSIMISMO E OTTIMISMO
Tuttavia, oggi, molti sono alquanto pessimisti: temono che ben presto in Libano di cristiani ne resteranno ben pochi e conteranno sempre meno. «I giovani cristiani emigrano, i musulmani fanno più figli – analizza il direttore di Caritas Libano, Georges Massoud Khoury -. Talvolta ci sentiamo abbandonati dai nostri fratelli d’Occidente, che non capiscono che se i cristiani del Libano soffrono, sono tutti i cristiani del Medio Oriente a soffrire. La nostra terra sta perdendo il valore di questa presenza, di questo patrimonio. Per questo chiediamo che gli altri cristiani e le altre chiese ci aiutino. Non tanto in termini di cibo o medicine. Abbiamo bisogno che ci sostengano nel creare un’atmosfera sicura, affinché noi stessi, con il nostro lavoro e il nostro impegno, possiamo far fronte ai nostri problemi e possiamo far tornare in patria i nostri figli, che rappresentano potenzialmente le forze vive di questo paese».
La sua vicenda familiare è emblematica di molte altre. Dei suoi figli e nipoti, 21 in tutto, figli di suoi fratelli e sorelle, solo 3 si trovano oggi in Libano, perché sono ancora minorenni. Gli altri, tutti altamente qualificati – ingegneri, psicologi, architetti… – sono all’estero e, vista l’instabilità, per il momento non intendono tornare.
«Le divisioni intee sono la nostra debolezza – dice affranto -, ma anche a livello internazionale l’atteggiamento nei nostri confronti è molto deludente. Stanno prosciugando tutto il nostro bagaglio culturale, spirituale e morale…».
È più ottimista, invece, Rosette Héchaimé, responsabile del net-work di Caritas per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mona) con sede a Beirut. Laica, focolarina, la scorsa estate si è data molto da fare in prima persona per soccorrere e ospitare le famiglie musulmane fuggite dai quartieri sciiti di Beirut sud, bombardati dall’esercito israeliano. «Abbiamo potuto ospitare e curare moltissime persone – racconta – soprattutto grazie a tanti amici musulmani: sono stati loro ad aiutarci ad accogliere la gente che aveva perso le proprie case e spesso i propri cari. Quello che abbiamo fatto è stato possibile solo perché lo abbiamo fatto insieme, cristiani e musulmani».
Zainab annuisce e sorride. Lei è sciita, in testa porta il jihab e veste un lungo soprabito beige. È la segretaria di un importante leader sciita, Ibrahim Shamseddine (cfr p. 42), vive e lavora in un contesto musulmano molto tradizionale. Ma l’estate scorsa anche lei era lì, alla Mariapoli, a portare il suo sostegno e la sua solidarietà. Lo racconta con grande naturalezza, come se fosse la cosa più normale, semplicemente quella che andava fatta. «Con tanti amici, cristiani e musulmani, abbiamo aiutato quelli che avevano bisogno, che avevano perso tutto, senza pensare a chi e cosa era. Musulmani o cristiani… c’era la guerra e stavamo insieme. È stata un’esperienza dura, ma anche molto bella e significativa».

VALE LA PENA SPERARE
Anche Rosette sorride e prova a rileggere la storia del Libano all’interno delle lotte che hanno coinvolto tutto il Medio Oriente. «Siamo una specie di cassa di risonanza di quello che avviene nel mondo arabo. È una grande sfida per noi». Contrariamente a molti altri, lei continua a credere che valga ancora la pena di sperare: «La società libanese è molto dinamica e generosa. Ci sono tante associazioni, gruppi, ong, sia a livello cristiano che musulmano. E tante iniziative di solidarietà in diversi ambiti. Dobbiamo mantenere viva la speranza».
La guerra della scorsa estate, è vero, ha provocato morte e distruzione, e tuttavia ha creato anche occasioni di solidarietà e vicinanza. La Caritas, da sola, ha assistito 91 mila persone, quasi tutte musulmane. Ma anche interi villaggi cristiani si sono mobilitati per accogliere gli sfollati musulmani, in fuga dalle bombe. «I cristiani – conferma Georges Massoud Khoury – hanno aperto le porte delle loro scuole, dei loro centri, anche delle loro chiese, per dare rifugio ai musulmani. Sono gesti che la gente non dimentica. E che aiutano a superare i pregiudizi e la diffidenza. È il dialogo della vita e della solidarietà».
Per i giovani sembra tutto più facile. È vero, la religione continua a rappresentare anche per i ragazzi un elemento identitario forte, poi però intervengono elementi culturali comuni, influssi occidentali, la scuola o l’università frequentata insieme, modelli e stili di vita condivisi, internet, il cinema, la musica, la voglia di divertirsi… E allora anche tra musulmani e cristiani diventa più facile condividere spazi e momenti di vita comune.
«La religione non è tutto», conferma Fadi Noun, giornalista di Orient-le-Jour, l’unico quotidiano francofono del paese. Pur essendo un maronita molto militante, ammette che nella personalità del libanese entrano molti elementi: «Uno spirito fenicio, commerciante, pagano, montanaro, tribale… E poi elementi culturali che si sovrappongono, arabi e mediterranei, orientali e occidentali. Tradizione e modeità che si incontrano e si scontrano. Tutto questo può essere segno di pluralismo o pretesto di divisione».
«Certo – ammette lo stesso Fadi Noun – la situazione è complessa. E quando tutto questo si mischia con la politica intea e internazionale, con gli interessi e i giochi di potere, la situazione diventa potenzialmente esplosiva. Noi libanesi portiamo la grande responsabilità di non essere uniti. Ma abbiamo comunque il diritto di esistere. Come paese e come popolo».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Cristiani e musulmani: la sfida del dialogo

Faccia a faccia con due leader islamici

Uno è sunnita, l’altro sciita: entrambi sono particolarmente rappresentativi delle loro comunità. E sorprendentemente molto vicini su alcuni temi cruciali dell’incontro islamo-cristiano.

All’ingresso del suo ufficio, appesa al muro, è incoiciata la sura del Corano dell’Al-mâ’ida (La tavola imbandita, 82): «Troverai che i più affini a coloro che credono sono quelli che dicono: “In verità siamo cristiani”, perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia». Ci tiene a mostrarlo subito quel quadro, il professor Mohammed Sammak, così come la foto che lo ritrae con Giovanni Paolo ii in Vaticano. Poco distante, invece, c’è quella con l’ex primo ministro Rafic Hariri, assassinato il 14 febbraio 2006.
Il professor Sammak era suo consigliere, così come lo è attualmente del figlio Saad. Ma è anche consigliere politico del gran mufti del Libano. Sino a poco tempo fa, ha insegnato presso l’università dei gesuiti Saint Joseph di Beirut, oltre che negli Stati Uniti. Musulmano sunnita, autenticamente libanese e al tempo stesso cosmopolita, Mohammed Sammak è oggi, anzitutto, un uomo del dialogo. A molti livelli. Anche sul piano interreligioso.
È, infatti, segretario generale del Comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano e segretario del Gruppo arabo per il dialogo arabo-cristiano. Ha preso parte più volte agli incontri «Uomini e religioni», organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio e, nel 1995, ha partecipato, in rappresentanza della comunità sunnita, al Sinodo speciale per il Libano, convocato in Vaticano da Giovanni Paolo ii.
Sammak ha una grande ammirazione per papa Woityla e lo cita volentieri. A cominciare, lui pure, dalla celebre metafora del «paese-messaggio».

INVENTARE LA SPERANZA
«Questa terra – spiega – è in sé un esempio di tolleranza e coesistenza tra cristiani e musulmani. Non potrebbe essere altrimenti. La libertà, intesa anche come libertà religiosa, e il pluralismo sono una condizione necessaria, perché altrimenti il Libano non potrebbe esistere. I problemi nascono quando si mischiano religione e politica e si fa un uso strumentale della religione per altri fini. Ma il messaggio resta. Ed è un messaggio positivo, incoraggiante, sia a livello di principio che nella prassi. Un messaggio che vale non solo per il nostro paese, ma per tutta la regione».
La storia del Libano, tiene a precisare il professore, è una storia di conflitti che hanno interessato tutto il Medio Oriente. Ma è anche la storia di un paese dove, diversamente da tutti gli altri della regione, sono garantite la libertà di espressione e di religione, il livello di scolarizzazione è molto alto e i diritti umani, in generale, e quelli delle donne, in particolare, sono sostanzialmente salvaguardati.
La guerra civile e le aggressioni estee hanno più volte messo in difficoltà questo sistema complesso e fragile, senza peraltro riuscire a scardinarlo completamente. «Nelle crisi libanesi – avverte Sammak – non c’entrano cristianesimo e islam. Personalmente sono convinto che la religione vada usata per risolvere i problemi, non per crearli. È quello che cerchiamo di far capire alla gente. Dobbiamo imparare a prenderci cura l’uno dell’altro e a far sì che si rispettino le differenze. Soprattutto dobbiamo imparare, sempre di nuovo, a inventare la speranza».

PARTIRE DA CIÒ CHE UNISCE
Il professore evoca la responsabilità di ciascuno nel giocare la propria parte fino in fondo. Sia in campo musulmano che cristiano. Ma, in prima istanza, è necessario promuovere la conoscenza reciproca e individuare i livelli su cui è possibile instaurare un dialogo.
«Se partiamo dalla teologia – avverte – forse non andremo molto lontano. Dobbiamo partire da ciò che ci unisce e creare le condizioni affinché, in un contesto di rispetto reciproco e pluralismo, cristiani e musulmani possano innanzitutto vivere insieme, avere buone relazioni di vicinanza e di solidarietà. Questo è fondamentale anche per il futuro del Libano come nazione. E può essere d’esempio per una migliore conoscenza e comprensione tra musulmani e cristiani a livello internazionale».
La visione del professor Sammak potrebbe apparire alquanto ambiziosa, al limite dell’utopia. In fondo – si potrebbe pensare – il Libano non è che un piccolo paese, 4 milioni di abitanti, divisi al loro interno e spesso istigati alla divisione e «calpestati» dai vicini. Ma forse, proprio nella sua fragilità, il popolo libanese trova un punto di forza. Dialogare è la prima condizione per esistere.
«Il dialogo è un sogno e una sfida. Bisogna crederci perché si realizzi. E bisogna praticarlo a cominciare dalla vita quotidiana, dove le diversità non devono necessariamente tradursi in ostilità. Lo sforzo da fare è quello di mettersi dalla parte dell’altro, cercare di capire il suo punto di vista. E non ridurre tutto alla religione. Il dialogo mette in gioco molti aspetti: implica un confronto tra culture, opinioni, mentalità, visioni politiche, retaggi storici… Senza voler imporre una verità. Per questo, il dialogo può assumere diverse forme. È, innanzitutto, dialogo della vita, in cui ci si riconosce e ci si prende cura reciprocamente. È dialogo dell’azione e della solidarietà, soprattutto in ambito sociale ed educativo. È anche dialogo teologico, che deve però tenere come punto fermo il rispetto di chi, pur appartenendo a un’altra religione, può adorare Dio, lo stesso Dio, in modo diverso.

DIVERSITÀ: RICCHEZZA DEL LIBANO
«Questa è l’epoca del dialogo della vita. Tra persone, tra esseri umani che abitano nello stesso mondo e affrontano le stesse sfide». È quasi sorprendente ritrovare parole analoghe in ambito sciita. Eppure, Ibrahim Shamseddine non si discosta di molto dal punto di vista del professor Sammak.
Anche se proviene da tutt’altro orizzonte: figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, leader spirituale dei musulmani sciiti del Libano, deceduto nel gennaio 2001, Ibrahim sta seguendo le orme del padre, almeno per quanto riguarda la promozione di una pacifica convivenza fra cristiani e musulmani.
Presidente del Centro culturale e sociale islamico di Beirut, ci accoglie nel suo studio, che dà sul cortile di una grande moschea. L’abbigliamento è occidentale, ma i modi sono propri di un leader sciita. E ci tiene a sottolinearlo. Come a dire, l’apparenza è una cosa, la sostanza è un’altra. Così come tiene a mettere subito in chiaro che «gli sciiti del Libano non sono Hezbollah, né tanto meno il contrario. A volte si è accecati e non si vedono le differenze. Gli sciiti non sono mai stati e non potranno mai essere – proprio in quanto sciiti – un partito politico. Non si può ridurre la comunità sciita a Hezbollah. Ho la responsabilità e la legittimità, in quanto figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, di dirlo. La mia opinione è rispettata, ma non necessariamente accettata».
Insomma, politica e religione non sono esattamente la stessa cosa, anzi. Eppure, deve ammetterlo, nel contesto libanese le due cose spesso si mischiano pericolosamente. E allora, il dialogo diventa talvolta arduo. Non solo tra cristiani e musulmani, ma all’interno della stessa comunità religiosa.
«Il nostro sistema politico – sostiene Shamseddine – tiene conto del pluralismo culturale e religioso del paese. Il Libano, tuttavia, non dovrebbe essere uno stato spartito tra le religioni, ma uno stato che si prende cura delle diverse comunità. Purtroppo, però, le comunità religiose hanno spesso cercato di conquistare il potere. E quando lo stato diventa debole, tutti perdono. Potenzialmente la più grande ricchezza del Libano è la sua diversità. Ma abbiamo bisogno di vivere in pace e di essere lasciati in pace per sviluppare le nostre reali potenzialità». Il riferimento, ancora una volta, è soprattutto a Hezbollah, il «Partito di Dio», inconcepibile nell’islam, secondo Shamseddine, oltre che già di per sé escludente. Ma è anche ai paesi vicini, che «usano» Hezbollah – e non solo – per i loro giochi di potere.
«La religione può essere uno strumento molto efficace per affascinare le persone e per controllarle – ammonisce -. È quello che fanno i politici e i potenti. Ma le persone sagge dovrebbero piuttosto dedicarsi a informare e formare la gente correttamente. Io dico: “Dio ti ha creato libero: perché mi ritorni schiavo?”».
È una chiara denuncia dell’oppressione attraverso la religione, quella di Shamseddine. Che tuttavia mette in guardia anche sul confondere e mischiare le cose. Soprattutto quando si tratta di dialogo interreligioso.
«Il dialogo non è convertire, ma accettare le differenze. Io, come musulmano, non potrò mai credere in alcune verità del cristianesimo. Viceversa, non ho bisogno che i cristiani credano nelle verità dell’islam. Ma ho bisogno di vivere e cornoperare con loro. Le nostre diversità non significano che non possiamo lavorare insieme, essere amici e buoni vicini, condividere gesti di solidarietà. Quello che dovremmo fare è affrontare insieme alcuni fenomeni di quest’epoca e provare a trovare delle soluzioni ai problemi reali della gente».

SFIDE DA AFFRONTARE INSIEME
La cooperazione tra islam e cristianesimo può diventare così non solo uno spazio di mutua conoscenza e comprensione, ma anche un’occasione per affrontare alcune sfide globali di questi tempi. Shamseddine ne cita due come cruciali: la difesa della famiglia e la bioetica.
«Viviamo sui due argini dello stesso fiume – è la metafora che usa -. Non si può immaginare un fiume senza entrambe le rive. Per questo dobbiamo sforzarci di costruire un ponte che le unisca. Per me, come musulmano, sarebbe triste perdere il mio fratello cristiano che sta dall’altra parte. Per questo il dialogo è una via di vita e per la vita. Ed è per questo che la religione non può e non deve diventare fonte di guerre».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




A testa alta e denti stretti

Da Kartum a Gidel: per conoscere le popolazioni nuba

Un viaggio nel cuore dei Monti Nuba, per raccontare il dramma del popolo nuba, isolato e martoriato da decenni di guerra, ma sempre colmo di fierezza e tanta voglia di vivere. La guerra è finita da poco; le organizzazioni umanitarie hanno rotto l’isolamento; cominciano a sbocciare fiori di speranza. Ma il futuro è ancora incerto: la pace non è ancora garantita.

Tra le città africane Khartoum è la più africana. Il colpo d’occhio che si ha dall’alto è quello di un grande villaggio fatto di case costruite in terra, il colore dominante è quello della sabbia, insieme al giallo ocra. È passato poco più di un anno dall’ultima volta che sono atterrato in questo angolo di mondo, ma tutto, mi sembra diverso, a parte la polizia dell’aeroporto.
Nel precedente viaggio avevo percorso le piste del deserto nell’antica Nubia dei faraoni neri, con le sue piramidi e storia millenaria. Oggi il viaggio da affrontare è ben diverso: non c’è nulla di archeologico da scoprire, nessuna storia lontana da capire; l’obiettivo è molto più vivo e attuale: conoscere il popolo nuba e la sua quotidianità.
La zona abitata dai nuba copre un’area montagnosa molto vasta, posizionata quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il paese più grande dell’Africa. Raggiungere questa terra non è facile; lo si può fare in due modi: con un volo dal Kenya messo a disposizione dalle Nazioni Unite, una volta alla settimana; oppure, via terra, dalla capitale sudanese con un viaggio molto più interessante, ma anche più impegnativo.
Ho scelto la seconda via, perché m’interessava conoscere in modo profondo il dramma di questo popolo uscito da una guerra durata più di 20 anni. Facendomi catapultare direttamente sui Monti Nuba avrei perso il filo cucito dalla storia recente, non avrei visto e capito il cammino che ha generato l’odio verso questi gruppi etnici.

PERMESSI E CONTROLLI
Seguire l’itinerario via terra, da Khartoum, non è stato facile. Ci sono voluti tre mesi per ottenere dei permessi dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla, Sudan People’s Liberation Army), un mese per il visto del governo sudanese, qualche giorno per il permesso giornalistico di scattare fotografie e qualche ora per il travel permit (permesso di viaggio). Solo quando è stato tutto regolamentato, secondo la legge, sono potuto partire.
Ho affittato una vecchia ma affidabile Toyota 60. L’autista si chiama Jamal: sarà lui, per quasi un mese, il mio unico compagno di viaggio. Jamal è un tipo sveglio, ha già provveduto alle scorte alimentari; nella dispensa ancorata nel baule del fuoristrada c’è di tutto: scatolette di carne, pasta, frutta sciroppata, verdure, acqua… Non manca nulla. Un rifoimento veloce alla prima pompa di gasolio e siamo in marcia, direzione: tutto sud.
Dopo aver superato i controlli di polizia in uscita dalla capitale, si percorre la strada asfaltata in direzione di Kosti, che dista solo 350 chilometri. Non perdiamo tempo, solo qualche sosta per il pranzo e per il rifoimento. La voglia di arrivare nel cuore del viaggio è ossessionante e non posso permettermi di fare il turista.
I primi intoppi arrivano a El Obeid, la capitale del Kordofan. La polizia, che da queste parti si fa chiamare Security, ci blocca mentre percorriamo le vie centrali del souk. Jamal non desta nessun sospetto; io, invece, uomo occidentale armato di macchina fotografica, vengo preso in consegna da due giovani in borghese e portato in una casermetta alla periferia della città. Controllano bagagli, passaporto, permessi, mi chiedono perché sono venuto da queste parti e se tifo per il Milan o per la Juve. Insomma, come in ogni parte del continente nero, la polizia non sa come far passare le giornate e l’occasione di far valere la propria autorità, di sentirsi importanti e curiosare in altri mondi sconosciuti non può essere lasciata scappare.
Lasciare El Obeid e dirigersi verso sud significa abbandonare il mondo arabo ed entrare nell’Africa Nera. È un processo naturale: la sabbia del deserto lascia spazio agli arbusti spinosi della savana e la gente assume tratti somatici più decisi. La porta verso il mondo Nuba è vicina.
Bastano poche ore di fuoristrada e Kadugli è ormai a portata di mano, anche se l’asfalto finisce per lasciare il posto alla pista, a tratti sconnessa, a tratti ancora ben percorribile in quanto levigata dal passaggio degli automezzi.

DI FRONTE ALLE 99 MONTAGNE
Kadugli è una città tipicamente africana: solo la via principale è asfaltata, il resto delle strade è un bazar polveroso a cielo aperto, dove la vita pullula dall’alba al tramonto, senza tregua. Situata nel Sud Kordofan, questa città è anche la porta per accedere alle Montagne Nuba: qui si sbrigano le pratiche burocratiche e si ottengono i permessi necessari per poter superare i mille controlli che la blindano come in una cassaforte.
I numerosi posti di blocco della Security rallentano il viaggio, ma ormai ci siamo: le 99 montagne narrate dalla leggenda locale sono davanti a me.
Le chiamano montagne, ma anche se hanno delle pareti molto scoscese non possono essere definite tali: sono solo un mosaico di colline che raggiungono al massimo i 1.500 metri s.l.m.
Quando si lascia Kadugli le strade non esistono più, anche se sono segnate sulle carte: sono state inghiottite dai bombardamenti e, quelle rimaste, cancellate dall’ultima stagione delle piogge. Facciamo fatica a trovare la direzione giusta per Luere; la individuiamo quando è quasi buio e dopo qualche ora di pista siamo costretti a cercare un posto dove montare la tenda e passare la notte.
Arrivare a Kauda significa superare decine di posti di controllo presidiati dai militari dell’Splm (Sudan People’s Liberation Movement). I giovani in uniforme controllano attentamente i permessi, a volte ne richiedono altri, a volte, semplicemente, mi invitano nelle loro capanne per bere un tè. Sono sempre gentili e sorridenti, sanno che la comunità internazionale sta lavorando per loro, sanno che lo straniero che si muove da queste parti non lo fa solo per turismo. A Luere mi fanno perdere un pomeriggio per i controlli, ma questa, si sa, è la roccaforte dell’Splm e i militari non scherzano, devono fare il loro lavoro fino in fondo.
Arrivo a Gidel al tramonto. La missione dei padri Comboniani appare come un miraggio nascosto dagli alberi che la circondano. Il cancello si apre: mi sento quasi a casa.

UN POPOLO MITE E FIERO
Nonostante la ricchezza naturale di queste terre, la gente Nuba è stata costretta ad abbandonare quest’area per l’impoverimento dovuto al conflitto; la popolazione, stimata in circa 2 milioni, per metà, è sfollata a Khartoum e quella restante si è divisa sotto il controllo dell’Splm e il governo centrale. Le autorità governative sono riuscite per anni a isolare la regione da un punto di vista umanitario, economico, mediatico, educativo.
Durante il conflitto solo poche e coraggiose organizzazioni umanitarie riuscivano a lavorare sui Monti Nuba; ma da qualche anno le azioni di solidarietà si sono moltiplicate. Nonostante le difficoltà di comunicazione non siano affatto finite, si è aperto uno spiraglio e si sta cercando di far fronte a questo isolamento attraverso rischiosi e costosi voli illegali in partenza dal Kenya. In questa terra, dove mancava anche l’essenziale, ora arrivano medicinali, sale, sapone e soprattutto attrezzi agricoli, che permettono alla gente del posto di non dipendere dagli aiuti estei. 
Le terre dei Nuba sono tra le più fertili del Sudan, anche un occhio poco attento non può non notare le falde delle montagne, a tratti accuratamente terrazzate; da queste parti, anche nella stagione secca, crescono cipolle, tabacco, pomodori, arachidi e sesamo.
Fra i Nuba si distinguono oltre 50 gruppi etnici, ognuno con un nome specifico, lingua, cultura e tradizioni diverse. Anche le abitazioni presentano architetture differenti: alcune ricordano l’Africa australe, altre le regioni del Sahel. Nonostante la varietà di etnie questa gente ama definirsi con un nome solo, unico e orgoglioso: Nuba.  
Fino a poco tempo fa i Nuba erano bersaglio del governo di Khartoum. Gli arabi erano decisi a eliminare la loro identità culturale per fae docili lavoratori al servizio dei ricchi sudanesi. Ma questo popolo di «roccia e miele» non si è mai arreso; ha lottato in una guerra senza fine e ha stretto i denti per non rischiare di scomparire. Ora che la guerra è finita, sui Monti Nuba, è tutto da ricostruire, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dall’inizio, dalle cose primarie, dal quotidiano.

«PENNELLATE» DI SPERANZA
Sui Monti Nuba non è facile accorgersi quando si arriva effettivamente in un luogo: non esistono indicazioni. Spesso le capanne sono state disseminate sulle colline per evitare che, durante la guerra, i bombardamenti colpissero interi nuclei abitativi, magari formati dalla stessa famiglia.
Ma a Gidel non ci si può sbagliare: arrivando dall’aeroporto di Kauda, prima di attraversare il wadi, c’è un enorme edificio in costruzione, una «pennellata» di speranza nella savana, è il nuovo ospedale che «Sorriso per il Sudan onlus», in collaborazione con altre associazioni, sta costruendo. Il lavoro da fare è ancora molto, ma quando la struttura sarà ultimata e diventerà operativa, per l’intera comunità dei monti sarà un punto di riferimento importante, un luogo dove potersi sottoporre a cure mediche senza andare fino a Kadugli o, peggio ancora, fino a El Obeid.
«Sorriso per il Sudan» non è l’unica associazione che opera sui Monti Nuba; ce ne sono molte, ognuna con il proprio compito: c’è chi si occupa dello sminamento delle piste, chi segue le donne disagiate, chi si prende cura dei bambini. Un esercito di persone tutte con lo stesso obiettivo: portare il popolo Nuba alla normalità. 
A Gidel vengo ospitato nella missione gestita dalla diocesi di El Obeid. Nella parte riservata alle suore stanno costruendo un edificio, mi dicono, che è la nuova casa che dovrà ospitare l’eventuale arrivo di personale missionario.
Le «sisters», come le chiamano i ragazzini, hanno un ruolo importante nella comunità di Gidel: alcune insegnano alla scuola matea, altre si occupano del cornordinamento educativo dei bambini delle scuole elementari, altre ancora seguono gli adulti nell’integrazione sociale. La missione è un punto di riferimento per tutta la gente della zona: per qualunque problema basta bussare alla porticina in ferro, qualcuno apre sempre.
Oltre il muro di cinta, dove abitano le suore, c’è la missione operativa di mons. Macram Max Gassis. La struttura è costituita da un grande cortile con edifici in muratura, nella parte centrale ci sono alcune capanne in stile africano: sono gli alloggi dei fratelli che vivono qui e svolgono il loro lavoro ecclesiastico.

CURIOSANDO NELLE ABITAZIONI
A Gidel si respira un’atmosfera particolare. È bello svegliarsi la mattina e fare due passi per vedere i bambini con i libri sottobraccio che vanno a scuola: alcuni arrivano dalle abitazioni vicine, altri invece, si fanno anche un’ora di cammino per raggiungere le aule dove i maestri li aspettano per la lezione.
A pochi passi dal fiume in secca ci sono i campi dove le donne lavorano nella raccolta delle arachidi. Ore e ore piegate su se stesse, stringendo tra le mani un piccolo aese in ferro dalla forma di una falce. È raro vedere una donna nuba sola, di solito sono in compagnia di altre donne. Insieme lavorano, passano il tempo libero e vivono i loro momenti di complicità.
Gli occhi delle donne più anziane sono profondi e pieni di mistero. A volte si muovono silenziosamente, facendo strisciare le infradito; a volte le vedi accelerare l’andatura, vestite dei loro abiti colorati mossi dal vento. Anche da queste parti, come in tutta l’Africa, alla donna spetta il lavoro più oneroso della famiglia: accudire i figli, lavorare nei campi, attingere l’acqua dai pozzi e portarla fino alla propria casa.
Seguendo una di queste donne, quelle che camminano verso la collina col carico di acqua sulla testa, sono riuscito a entrare in contatto con alcune famiglie e a curiosare nelle loro abitazioni.
Da quando è finita la guerra, i nuba stanno cercando di riunirsi in piccoli villaggi. Nei dintorni di Gidel non si trovano più capanne completamente isolate; si sono formati piccoli nuclei familiari composti da due o tre abitazioni. Ognuna di queste case ha il proprio cortiletto, dove vivono gli animali e vengono costruiti piccoli silos per la conservazione dei raccolti. L’interno delle case è ridotto all’essenziale. Di solito vi è un atrio abbastanza ampio nella parte centrale, dove la famiglia si raduna per discutere o più semplicemente per la cena.
Ai lati di questa stanza, la principale dell’abitazione, ci sono le «camere da letto». La «stanza della notte», come è chiamata dalla gente del posto, non ha finestre; i muri sono più spessi rispetto al resto della casa, per creare l’isolamento necessario a mantenere una temperatura gradevole durante i periodi più caldi dell’anno.

ATTENZIONE AI… «TARTUFI»!
A pochi minuti d’auto da Gidel operano i volontari di Save the Children. Nel piccolo villaggio di Kumo hanno costruito un dispensario dove la gente si può curare e ricevere medicinali. I posti letto sono sempre occupati e molti ammalati, purtroppo, non possono essere curati. Patrick, un giovane volontario che arriva dal Kenya, mi dice che tutto sarà diverso, quando «il grande» centro clinico di Gidel sarà operativo.
Vorrei fermarmi per sempre in questo luogo di pace, ma mi rendo conto che il viaggio deve continuare, non prima però di aver curiosato nella scuola di Kauda, dove studiano i bambini vittime del bombardamento del 2001.
Mi faccio accompagnare dalla suora della diocesi. Nella mia moleskine ho i nomi dei bambini che mi sono annotato durante l’ultima riunione con i volontari di «Sorriso per il Sudan». Li mostro agli insegnanti, i quali si consultano tra di loro e poi, con un sorriso di consenso, mi dicono che ci sono tutti.
In pochi minuti li ho davanti a me. Sono cinque, forse sei, non ricordo, ma quelli che più mi colpiscono sono Amani e Adil, i più segnati. Il ragazzo ha l’avambraccio mozzato; la ragazzina, Amani, ha dovuto subire l’amputazione dell’intero arto. Non credo ci sia da dire altro a riguardo, le parole sarebbero solo retoriche e superflue.
Osservando la carta topografica che mi ha fotocopiato un amico milanese, posso notare una pista tracciata che collega Luere a Talodi. Mi metto subito alla ricerca dell’imbocco, ma perdo più di due ore. Chiedo informazioni a chiunque: nessuno ne sa nulla. Deduco che la mappa è sbagliata e me la prendo con chi l’ha disegnata.
Non mi rassegno; riprovo a chiedere informazioni in un campo delle Nazioni Unite e, finalmente, un soldato malese dall’aria gentile mi dice che la pista è stata cancellata anni fa dalle piogge e quel poco che è rimasto è stato inghiottito dalla vegetazione o è minato.
Muoversi sui monti può essere davvero pericoloso, ci sono molte zone disseminate di «tartufi» e, nonostante il lavoro del centro di sminamento della Dca (Dan Church Aid), gli ordigni inesplosi sono ancora tantissimi.
Non ci sono alternative, bisogna ripercorrere la pista fino a Kadugli e poi imboccare l’altra strada, anche questa minata, per Talodi in direzione est. È già tardo pomeriggio quando si decide di lasciare Kauda; tra non molto bisognerà cercare un posto dove fare campo e passare la notte. È bello montare la tenda in questo nulla africano, potersi rilassare davanti a un fuoco, fare due chiacchiere con Jamal e poi, quando la natura si placa, rilassarsi guardando le stelle negli occhi.
In Africa la proporzione della natura è predominante; è la natura stessa che vince su tutte le tentazioni di sostituirla a qualcosa d’altro, rimane lei l’unica intermediaria possibile di un contatto, che qui rimane esclusivo, tra gli elementi naturali e l’uomo.
Purtroppo i viaggi africani non sono fatti solo di immensi cieli stellati e grandi distese incontaminate; a volte bisogna fare i conti con i guasti meccanici del mezzo di trasporto. Prima la rottura della pompa del gasolio, poi le forature, poi ancora la balestra che cede ai contraccolpi rimandati dalle pietre. Alla fine ci vogliono quasi due giorni per poter ritornare a Kadugli.
Si arriva in città col buio, non ci sono alberghi e l’unica soluzione per la notte sarebbe quella di bussare a qualche organizzazione umanitaria. Provo a Save the Children, ma non hanno posto, sono al completo; alla polizia è meglio lasciar perdere; faccio un tentativo all’Unicef, mi dicono di aspettare; dopo quasi mezz’ora di attesa, mi propongono una stanza nella loro sede staccata, ubicata nella periferia della città: anche questa volta è andata bene.

TRA I NUBA MASAKIN
Percorrendo il tragitto da Kadugli a Talodi si dovrebbero incontrare alcuni villaggi masakin, ma non ne sono sicurissimo. A scanso di equivoci chiedo conferma a un «ragazzone» svizzero di nome Peter, che lavora per l’Unicef. Dopo una breve consultazione della mappa, Peter traccia dei punti e spiega: «Questi sono i villaggi che cerchi, ma attenzione: su questo percorso, due giorni fa, un autobus che trasportava dei locali è saltato su una mina». Per un percorso più sicuro, mi consiglia di chiedere agli addetti delle Nazioni Unite i punti gps (sistema di rilevamento satellitare della posizione, ndr). Agli uffici Onu mi sconsigliano vivamente la pista che passa dai villaggi masakin perché, oltre alle mine, ci sono problemi di banditismo.
Il morale cade a pezzi, non so cosa fare. L’alternativa sarebbe quella di rifare il giro da El Obeid, ma il tempo stringe, non ce la farò mai. Guardo Jamal negli occhi, non c’è neppure bisogno di parlarci, saliamo in macchina, si parte. Se il destino è quello di saltare su una mina o essere preda di banditi, allora è giunto il momento.
Nei primi chilometri di pista ci sono numerosi controlli di polizia, la strada è sbarrata da bidoni e filo spinato, che vengono spostati solo dopo la verifica accurata del passaporto e di tutti i permessi rilasciati dalle autorità militari del luogo. Man mano che ci si allontana dai centri abitati i controlli si fanno sempre più rari, fino a scomparire del tutto dopo l’ultima collina, che all’epoca della lunga guerra era controllata dalle milizie arabe.
Il paesaggio è armonioso; di tanto in tanto si incontrano gruppi di giovani con i loro dromedari. In questa zona i nuba convivono con molte altre etnie di ceppo arabo, ma la loro quotidianità è pacifica, non c’è odio.
Si viaggia per l’intera giornata, cercando di non lasciare mai la traccia dei punti che ci hanno consigliato di seguire. Prima di arrivare a Talodi faccio una sosta per fotografare i villaggi dei nuba masakin. Ormai ne sono rimasti pochi, la maggior parte, mi dicono, è migrata verso sud.
Quando è già buio arriviamo a Tosi, villaggio famoso per l’imponente jebel (monte) dove si possono ammirare graffiti rupestri. Chiediamo ospitalità alla polizia, ma questa volta la risposta è negativa: ci dicono che per regolamento non possono far montare le tende nel cortile della caserma. Mentre discutiamo con i militari, si forma il solito gruppo di persone e una di esse ci offre la possibilità di usufruire del piazzale della scuola come campeggio. A tarda sera scopro che questi gentili giovanotti sono gli insegnanti della scuola stessa.
Il posto è grazioso e recintato, non fa molto caldo; poi c’è anche la luna che mi fa da faro, mentre infilo i picchetti della tenda nel terreno. Un solo neo, l’intero spiazzo è invaso da formicai, me ne accorgo solo dopo aver montato il telo impermeabile dell’igloo, troppo tardi per rimediare.

EX GUERRIERI E LOTTATORI
Dopo una notte quasi insonne, a causa delle formiche che hanno invaso tenda e sacco a pelo, si riparte verso Kau, Fungor e Nyaro, tre villaggi resi famosi dalla fotografa tedesca Leni Riefenstahl con la pubblicazione del libro fotografico «I Nuba di Kau» (1976). Guerrieri e lottatori nuba non sono più quelli delle foto di quel tempo. Il progresso, si fa per dire, è arrivato anche qui. Non mi ero fatto nessuna illusione prima di partire dall’Italia: sapevo di non trovare più le scene di vita quotidiana rappresentate nel libro, ma mi aspettavo un insieme di villaggi e una comunità abbastanza autonomi.
Purtroppo la realtà è un’altra: i villaggi di Kau, Nyaro e Fungor sono ubicati in una zona difficilmente raggiungibile dalle arterie principali, se non dopo almeno due giorni di fuoristrada, e il primo impatto è la visione di un agglomerato di capanne dimenticate dal mondo. 
Avevo portato con me dall’Italia alcune fotocopie a colori del libro di Leni. Ho provato a cercare le persone ritratte: alcune sono andate a vivere altrove, altre sono decedute, altre ancora, con sorpresa, le trovo nelle loro abitazioni.
Un anziano signore si riconosce nella foto e mi fa capire che è passato un po’ di tempo da quello scatto, non sa dirmi quanto, ma lo so io: quasi 30 anni. Dopo qualche attimo di attesa per controllare e vincere il comprensibile imbarazzo, l’uomo allunga il braccio e prende in mano la fotografia, la guarda attentamente, poi chiama alcuni amici e si mette a discutere e ridere con loro.
Li lascio soli per un po’, mentre cerco di distrarmi fotografando l’impagliatura dei tetti delle capanne. Dopo qualche minuto ritorno verso il gruppetto di uomini, ancora intenti nella discussione. Con delicatezza li interrompo e chiedo, cercando di farmi capire, se posso ritrarre l’ex «guerriero» con la vecchia foto tra le mani. Si guardano tra di loro, poi il più giovane si rivolge a me, mi guarda e fa un cenno di assenso con la testa.
Il signore della foto ha un nome mai sentito da queste parti: dice di chiamarsi Sathir. Lo metto in posa, mentre cerco di pronunciare ripetutamente il suo nome per rompere la sottile, ma robusta parete, che di solito si crea tra il soggetto e l’operatore. Ricerco e studio la luce in un fazzoletto di ombra creata dai rami degli alberi, per provare a registrare un’immagine morbida, dolce, senza contrasti. Ma il soggetto che ho davanti all’obiettivo è troppo imponente e autoritario. Nemmeno l’uniformità di una luce piatta riuscirà a portargli via lo sguardo pieno di fierezza. Bastano solo tre scatti, quello giusto dovrebbe esserci. Ci salutiamo con la promessa di lasciare a Jamal la nuova fotografia, lui magari da queste parti ci ripasserà.
Consumo la mia giornata gironzolando per i tre villaggi, che distano solo pochi minuti di fuoristrada l’uno dall’altro. Pensavo di trovare qualcosa che mi portasse in qualche modo al passato, invece nulla: del passato sono rimasti solo i sassi levigati dal vento, a fare da guardia alla montagna.

È ARRIVATA LA PACE?
Mentre sto per lasciare Nyaro, in un campo non lontano dalle capanne, atterra un elicottero delle Nazioni Unite. I motori si spengono quasi subito e, lasciato passare il tempo per permettere alle pale di fermarsi, dalla scaletta scendono alcuni ufficiali in uniforme.
La gente si raduna subito sotto il grande albero, viene improvvisata un’assemblea collettiva a cui partecipa l’intero villaggio. L’inizio del dialogo è abbastanza chiassoso e confuso: tutti vogliono parlare, c’è chi si alza in piedi e sbraita con tono autoritario, chi agita le mani per farsi notare, chi invece se ne frega e va a vedere il «grande uccello» bianco con la scritta UN arrivato dal cielo.
Dopo il prevedibile caos iniziale, cala il silenzio; un ufficiale dello Sri Lanka prende la parola: con tono deciso, in un inglese quasi perfetto, chiede alla gente di cosa ha bisogno. La risposta è quasi immediata e risuona come un eco provieniente dalle montagne vicine: water. Nel terzo millennio può sembrare strano, ma è proprio così: a Kau, Nyaro e Fungor non c’è acqua.
Ma cosa ne sarà del futuro di questo popolo, ora, a pochi mesi dalla morte di John Garang, il carismatico leader dello Spla? Da quasi un anno sui Monti Nuba si è riversato «il mondo». Le Nazioni Unite pare abbiano il controllo della situazione e le organizzazioni umanitarie riescono, finalmente, a lavorare senza grossi intoppi.
Sarà finalmente arrivata la pace?

A volte la fine di un viaggio è come l’improvviso risveglio da un sogno: provi a richiudere gli occhi per riprendere sonno, ritornare nella favola, continuare a vivere lontano dalla realtà.
I ricordi scorrono veloci come i fotogrammi di un vecchio film. Come potrò dimenticare tutte quelle strette di mano prima di ogni «scatto»? Duemila o forse più. Di solito la stringevo anche a coloro che non fotografavo o magari a un intero gruppo di persone prima di metterli in posa. Poi ci sono tutti i bambini incontrati ai bordi della strada, le loro manine sempre alzate in segno di saluto, i loro sorrisi, gli occhi neri e misteriosi, le sagome scure che si confondono con quelle della natura negli ultimi attimi di luce, prima del tramonto.
In questo viaggio, come sempre, ho voluto contemplare e cercare situazioni, mai crearle. Poi le ho fissate nella memoria, mia e in quella di un supporto di gelatina. Sì, perché il viaggio è uno stato d’animo che guarda il mondo, un modo di essere, di vivere. E noi viaggiatori siamo come il vento, condannati a correre per non morire.
Di Giovanni Mereghetti

Giovanni Mereghetti




Un modello di convivenza religiosa

Introduzione

La prima volta sui nuba è un’esperienza che lascia il segno. Ancora oggi la difficoltà per arrivarci e la mancanza di infrastrutture e dei più normali servizi cui un uomo moderno è abituato, procura uno shock temporale ed emozionale. Riporta a tempi molto lontani, lascia affiorare sensazioni remote.
Il paesaggio dai contorni arrotondati, che sono quelli delle formazioni rocciose, delle capanne e dei volti della gente, rispecchia l’animo mite del popolo nuba, fatto di agricoltori e di pastori.
La regione dei Monti Nuba è oggi parte dello stato del Kordofan Meridionale, situato proprio al centro geografico del Sudan, terra di passaggio tra nord e sud, tra est ed ovest. Un’area grande tre volte e mezzo la Lombardia, con una popolazione di appena 1 milione e duecentomila unità, dalla natura generosa.
«Nuba» è un termine che evoca da solo molte suggestioni: richiami antropologici di un popolo che ha assorbito elementi diversi nel corso dei secoli, fondendoli in una identità unica che pure si esprime in 15 diversi idiomi e raccoglie 50 gruppi etnici; richiami fotografici impressi nella memoria grazie a George Rodger, Leni Riefenstahl e quei pochi altri che negli ultimi decenni hanno avuto il privilegio di recarsi su quelle alture; richiami umanitari per la vicenda drammatica che li ha sconvolti tra gli anni ‘80 e ‘90, quando l’isolamento totale dal resto del mondo ne ha messo a rischio la stessa sopravvivenza.

I nuba sono un esempio di convivenza religiosa tra musulmani, cristiani e seguaci delle religioni tradizionali; un piccolo laboratorio dove si sperimenta un modello che si vorrebbe vedere applicato al resto del paese. Un popolo fiero e orgoglioso e allo stesso tempo mite, come dimostra la tradizionale lotta che praticano, al termine della quale vincitore e vinto si abbracciano e si congratulano a vicenda.
La guerra ha lasciato un segno profondo nella coscienza e nel fisico di queste persone che adesso, con l’agognata pace, cercano dignitosamente di ricostruirsi un tessuto istituzionale ed economico che gli permetta un’esistenza  pacifica.

L’Italia si è molto impegnata a favore di questa area e di questa popolazione. Lo ha fatto con diverse iniziative governative e della società civile italiana, finanziando i primi aiuti inteazionali giunti dopo l’isolamento, allestendo campagne per i diritti umani, intervenendo con Ong, diocesi e amministrazioni locali italiane. Lo ha fatto e continua a farlo con la cooperazione italiana e i contributi alle agenzie delle Nazioni Unite attive nell’area, con le relazioni di amicizia e l’impegno dei missionari.
I nuba, come il resto del Sudan, hanno bisogno del supporto della comunità internazionale affinché la chance di rendere questa pace una realtà duratura non sia vanificata dal pessimismo, dalle paure e da pregiudizi legati all’esperienza troppe volte negativa di tanti stati africani. Riuscire a vedere la bellezza e la speranza che c’è in questo paese, in tutte le sue sfaccettature, può aiutarlo più di tanti proclami di buone intenzioni. Riconoscere l’unicità del popolo nuba, rispettarlo per la sua cultura e dignità è il primo passo per garantie la sopravvivenza in un futuro pacifico e rigoglioso.

Lorenzo Angeloni, ambasciatore d’Italia in Sudan

Lorenzo Angeloni




Genocidio scongiurato?

Storia dei popoli nuba: tra aperture e resistenze

Origini oscure e babele di lingue e dialetti da fare impazzire gli antropologi, i nuba hanno lottato per secoli per la loro sopravvivenza fisica e culturale, prima contro gli schiavisti, poi contro l’islamizzazione forzata e, negli ultimi decenni, contro un «genocidio» strisciante. L’accordo di pace del 2005 tra governo e ribelli del Sud Sudan prevede una sistemazione autonoma per le popolazioni nuba: se son fiori, fioriranno.

Sono stati grandi fotografi, quali George Rodger e Leni Riefenstahl, a fare conoscere i Monti Nuba a tutto il mondo occidentale. Da essi, i popoli nuba sono stati utilizzati come l’icona della «africanità».
Fra queste montagne, questi osservatori privilegiati hanno cercato e costruito, attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, l’immagine della «vera Africa»; la cui «purezza» è stata immortalata con il fine dichiarato di preservarla, in vista dell’inevitabile arrivo della modeità e la conseguente «perdita di innocenza».

provenienza dibattuta

I nuba sono una popolazione che abita una regione montuosa-collinare che da loro traggono il nome (Monti Nuba) e che si trova nella parte meridionale della provincia sudanese del Kordofan. Si tratta di terre relativamente fertili, adatte all’agricoltura stanziale.
Il milione circa di nuba, ancora presenti oggi, sono suddivisi in almeno 10 gruppi linguistici (koalib-moro, talodi-mesakin, lafofa-amira, tegali-tagoi, kadugli-korongo, temein, katla, nyimang, «hill nubian», daju), che a loro volta presentano divisioni in sottogruppi (che rende il numero delle lingue ancora maggiore).
Per quanto riguarda le origini, quelle dei nuba sono state inizialmente legate dai primi antropologi occidentali (e non solo) a quelle dei «nubiani», un popolo molto diverso e lontano geograficamente dai Monti Nuba e dal Kordofan. I nubiani, infatti, abitano le zone di confine tra Egitto e Sudan. In antropologia esistono diversi punti di vista sulle origini e sul legame reale o presunto tra nuba e nubiani.
Come per molti antichi stati africani, anche nel caso dei nuba, la carenza di fonti scritte pone un problema per la ricostruzione della vicenda storica di questo popolo. Molti restano i vuoti da riempire, almeno per quanto riguarda il periodo pre-islamico.
Infatti, le prime fonti che descrivono in maniera sistematica la statualità, usi e costumi dei nuba si devono agli arabi. La trasmissione orale, che pure è stata utile a «scrivere» la storia di grandi stati e popoli dell’Africa subsahariana, si è mostrata uno strumento poco utile nel caso dei nuba. Una storia orale è stata stabilita solo per il regno nuba di Tegali.
Certe attinenze di lingue nuba con quelle nubiane hanno condotto molti antropologi e storici a ritenere valida l’esistenza di un’affinità «razziale» tra i due popoli. Altri studiosi hanno scartato questa ipotesi, sulla base delle difformità dei due gruppi dal punto di vista culturale, dimostrando come l’influenza nubiana sia stata soltanto il risultato dell’immigrazione verso i Monti Nuba dei dongolawi in tempi troppo recenti per un’assimilazione vera e propria.
Tra coloro che ritengono esista una relazione diretta tra nuba e nubiani esistono due ulteriori scuole di pensiero. Da un lato, coloro che ritengono che i nubiani sono discendenti dei nuba; dall’altro quelli che sono convinti del contrario.
La tesi più accreditata oggi considera i nuba come un popolo autoctono (dei Monti), senza legami specifici con i nubiani, a parte quello dei «nobatae» (i nuba dei testi classici antichi), i quali portarono le lingue nuba a nord, fuori dal Kordofan verso la valle del Nilo, da cui deriverebbe il legame linguistico di cui sopra. In seguito questi nuba sarebbero stati «assorbiti» dai nubiani fino a scomparire.
Viceversa, i barabra (popoli nubiani inviati dagli arabi a conquistare Dongola e sottomettere gli abitanti dei Monti Nuba), non riuscirono a penetrare le popolazioni nuba: queste, se da un lato assimilarono certi aspetti della loro lingua, non furono influenzate in nessun altro modo nei costumi e cultura. Per cui, anche in questo caso l’ipotesi di un legame, sia «razziale» che culturale, è stata esclusa.
In conclusione, i nuba sarebbero il popolo originario del Kordofan meridionale. La stessa parola «Kordofan» sembrerebbe descrivere inoltre la storia antica di questa regione. «Kordu» significa uomo, «fan» paese: le due parole potrebbero essere state assemblate per significare «terra dell’uomo», cioè «paese abitato» e quindi «coltivato», il che presume una statualità antica, contemporanea a quella dell’Etiopia o di Meroe.
Tuttavia, bisogna tenere presente che i nuba non sono una popolazione omogenea e una statualità nuba non è mai esistita. I nuba si sono uniti solo militarmente e di recente (a partire dagli anni ’20 dell’Ottocento), per resistere alle ingerenze estee durante il dominio turco-egiziano, mahdista, anglo-egiziano e del governo del Sudan indipendente.
I Monti Nuba, potrebbero essere anche chiamati «Mondi Nuba» o, come ha fatto notare qualcuno, «Arcipelago Nuba», per via dell’indipendenza tra le storie delle diverse realtà nuba. Ogni montagna ha espresso delle statualità a sé stanti, che non comunicavano su basi sistematiche con le altre. Questa diversità «intra-nuba» spiega ulteriormente le difficoltà di trovare dei legami tra nuba e nubiani.

La religione nativa

Il «kujurismo» è la religione autoctona dei nuba. I nuba venerano i propri antenati e questa usanza è così persistente nella società, che la venerazione dello spirito dell’antenato è diventata una religione in sé stessa.
Secondo certi osservatori, il kujurismo spiegherebbe anche certi tratti del «patriottismo» dei nuba, la loro riluttanza a lasciare la terra dei padri (la patria, appunto), il loro rispetto per gli anziani e il culto dei morti da parte dei giovani. Il kujur è l’intercessore presso gli antenati e quindi lo Spirito o Dio. Il kujur può assumere nomi diversi, secondo il gruppo nuba a cui si fa riferimento.
I kujur si distinguono dalle figure sacerdotali di altre realtà africane per il fatto che, come intermediari, non cercano di controllare gli eventi, bensì di propiziarli a favore dei credenti; essi usano il proprio potere per indurre lo spirito antenato a benedire o punire, a seconda dei casi. La punizione o il premio dipende invece da Dio. I kujur sono dei «servi di Dio» o degli dei, secondo l’usanza di ciascuna delle comunità nuba.
In certi casi, attraverso il kujur si può anche intercedere presso gli spiriti «famigliari» (considerati spiriti minori rispetto a quello dell’antenato). Questo ha portato nel tempo a forti legami nella comunità i cui membri sono attenti a non contrariare i singoli spiriti famigliari (degli altri).
Gli spiriti delle diverse famiglie che formano una comunità possono essere richiamati dal gruppo per propiziare ciascuno un diverso evento: pioggia o guerra, caccia o raccolta, alberi o fertilità, ecc. A questi spiriti minori corrispondono kujur minori, che sottostanno tutti al grande kujur, il quale li cornordina, anche attraverso la consultazione.
Il grande kujur può anche presiedere il consiglio degli anziani di una comunità, diventando egli stesso una figura patriarcale (e politica). Il potere laico quindi si può fondere con quello religioso e questo si riscontra di più tra quei gruppi di nuba che hanno sviluppato forme di statualità di tipo «comunitaristico» (senza re o mukuk). Invece, la fusione di funzioni (religiosa e laica) è meno incombente tra quelle comunità che si sono costituite in regni (come i dilling, afitti, nyimang, kadero, kalero, ecc.), con un sovrano, casta regnante, gerarchie nobili, ecc. In questi casi il potere del grande kujur (spirituale) resta distinto da quello del re e dell’amministrazione (temporale).
I kujur sono figure sacre e conducono una vita appartata e solitaria; il loro ruolo non è ereditario e non è a vita (il ruolo può decadere e chiunque, spesso senza prerequisiti fissi, può assumere questo ruolo nella società). In alcuni casi anche alle donne è concesso di potere ricoprire tale carica, ma per loro, in genere, esiste il requisito della mateità e della successione (maritale o familiare). Dei segni distintivi, che cambiano da gruppo a gruppo, caratterizzano la dimora del grande kujur; essa deve essere contrassegnata da segni simbolici riconoscibili in quanto rappresenta anche la dimora dello spirito dell’antenato e un punto di riferimento per la comunità.
I nuba riconoscono e rispettano la proprietà privata, la parità tra i diritti di ciascuno, la santità del matrimonio, la vita umana, ecc. Se uno o più individui mettono a repentaglio le libertà altrui, tutta la comunità si sente automaticamente investita della violazione e da questa offesa deriva la sanzione. In casi di offesa grave, per esempio attraverso la messa a repentaglio delle regole stesse della comunità, è prevista anche la pena di morte. L’organizzazione politico-religiosa dei nuba è sopravvissuta dall’antichità fino ai giorni nostri, soprattutto tra quei gruppi che hanno saputo resistere maggiormente alla venuta dell’islam nel Sudan.

L’avvento dell’Islam

I nuba sono stati sottoposti a influenza islamica fino dal xvi secolo. Prima di allora, i nuba abitavano più o meno l’intero territorio dell’odierno Kordofan. Dopo il collasso dei regni cristiani, l’islam ha trionfato lungo tutta la vallata del Nilo e gruppi di musulmani, di probabile discendenza araba (almeno linguistica), hanno iniziato una migrazione verso sud che li ha portati a stabilirsi nel Kordofan, dove si sono stabiliti e amalgamati con le popolazioni autoctone entrando in contatto anche con i nuba.
Il risultato è stato l’islamizzazione e l’arabizzazione di una parte dei nuba, i quali in certi casi assumevano l’arabo come lingua oppure prendevano alcuni usi e costumi della civiltà araba. Tuttavia, in molti casi, la cultura araba è stata indigenizzata e gli arabi stessi sono stati assorbiti tra gli autoctoni nuba.
La tratta degli schiavi è stato uno dei fattori scatenanti la rapida islamizzazione dei nuba a partire dal xvi secolo. Le opzioni per sfuggire alla tratta erano due: ritirarsi nell’area collinare-montuosa, da cui ci si poteva difendere meglio dagli assalti a cavallo; oppure convertirsi all’islam, visto che un musulmano non può rendere in schiavitù un suo fratello.
Naturalmente i gruppi geograficamente ai margini della regione dei Monti e quindi più prossimi all’avanzata dell’islam e della tratta furono i primi a convertirsi. Quelli che si rifugiarono sulle cime delle montagne e più a sud furono in grado di preservare meglio la propria identità culturale e indipendenza politica.
Alcuni re nuba convertiti all’islam sono stati tra i protagonisti delle razzie fra gli stessi nuba. È stato il caso dei mukuk (sovrani) di Tegali, uno dei regni più importanti e potenti della storia dei nuba.
L’islam penetrò Tegali nel 1530, attraverso l’azione di Mohammed al-Ja’ali. Grazie alla tratta con gli arabi del nord, per due secoli, il regno divenne uno dei più potenti di tutta la regione dei nuba. Tegali è stato anche uno dei bastioni dell’islam tra i nuba, ma l’islam non ha mai penetrato tutta la società, perché qui (come altrove nella regione) vigeva una sostanziale libertà di culto.
Come in molti altri casi di società di «frontiera» del Sahel, i nuba musulmani hanno elaborato forme culturali e religiose proprie, ostili a imposizioni dall’esterno che potessero mettere in discussione la loro originalità. Per esempio, la resistenza armata nei confronti della sharia (legge islamica) è spiegabile in parte (perché vi era pure una questione legata alla terra) con questa refrattarietà a cambiare radicalmente certi tratti culturali autoctoni, come la tolleranza religiosa.
Il grado di islamizzazione e arabizzazione dei nuba varia da gruppo a gruppo o da monte a monte, con i capi di ciascuna comunità che hanno giocato un ruolo fondamentale nella conversione o resistenza all’islam di tutto il gruppo. Alcuni capi si sono convertiti per ragioni di opportunità politica o ambizioni personali (visto che l’islam coincideva con il potere in molte regioni dell’odierno Sudan), altri per convinzione e perché in essa intravedevano la maniera di modeizzare la propria collettività, facendola uscire dal relativo isolamento.
Nelle comunità dove esistevano figure reali, come i mukuk, o capi designati dal gruppo, l’islam è diventato piuttosto un simbolo dell’aristocrazia e un modo per rafforzare il potere. In queste comunità, i leaders politici hanno usato la propria autorità per imporre l’islam e, viceversa, l’islam per imporre la propria autorità.
La religione musulmana, tuttavia, ha apportato soltanto cambiamenti relativamente superficiali nell’organizzazione sociale, usi e costumi. Al contrario nelle comunità più sparsamente distribuite e dove vigevano forme di organizzazione di tipo comunitaristico, in cui non dominava né un re né un’aristocrazia o, in altre parole, dove non poteva esistere un capo che imponesse la sua volontà sugli altri membri della comunità, l’islam è penetrato di meno, sia qualitativamente che quantitativamente.
Durante la grande rivoluzione islamica sudanese di Muhammad Ahmad, detto il «Mahdi» («il guidato» della tradizione islamica), alla fine del xix secolo, partita proprio dal Kordofan, i nuba musulmani rimasero sempre cauti nei confronti della guerra santa del Mahdi.
Dal canto loro, i mahdisti vedevano nei nuba dei musulmani «incompleti». Da questi contrasti sono nate le conflittualità nei confronti del centro, rappresentato da Khartoum, che si sono protratte fino ai giorni nostri.
In conclusione, mentre all’interno della regione dei Monti Nuba, culture diverse sono convissute in maniera rispettosa le une delle altre, verso l’esterno, i nuba hanno sempre mantenuto delle posizioni ostili.

I nuba nel Sudan moderno

Dall’inizio dell’Ottocento, i Monti Nuba sono stati sottoposti a una doppia pressione che ha modificato in profondità gli equilibri regionali: da una parte quella dei nomadi baqqara, in cerca di pascoli per le loro mandrie; dall’altra quella dei turco-egiziani, alla ricerca di schiavi e pronti per questo a organizzare devastanti spedizioni stagionali.
Le zone più esposte dei Monti Nuba, come il regno di Tegali, dovettero scendere a patti con i nuovi invasori, pagando tributi in generi e schiavi, mentre quelle più remote riuscirono a mantenere la loro autonomia e resistere all’intrusione, spostandosi nelle zone più inaccessibili del territorio. Sebbene la tratta fosse stata praticata da secoli, fu solo con l’arrivo dei turco-egiziani che assunse dimensioni rilevanti.
Un’altra conseguenza dei maggiori contatti tra i Monti Nuba e il Sudan turco-egiziano è stata l’ulteriore espansione dell’islam che, agli inizi del xix secolo, interessava buona parte dell’area centrale e settentrionale.
A partire dagli anni ’70 del xix secolo, fecero la loro comparsa anche i missionari cattolici che aprirono a Dilling una piccola missione, introducendo nell’area una nuova variabile religiosa e sociale.
Le valli dei nuba hanno anche dato rifugio all’esercito del Mahdi, che da qui ha organizzato il famoso assedio di El Obeid, caduta nel 1883. Dal 1885 fino al 1891 i mahdisti hanno compiuto periodiche incursioni, poi la loro pressione è diventata meno costante.
Come nel periodo turco-egiziano, anche durante la mahdiyya, i Monti Nuba hanno continuato a fornire schiavi, che spesso erano inquadrati nell’esercito in unità speciali chiamate «jihadiyya». L’esercito è diventato così uno dei veicoli privilegiati del contatto fra nuba e resto del paese.
Durante il Condominio anglo-egiziano (1898-1956) le comunità nuba hanno continuato a dimostrare forti tendenze autonomiste, ma l’estrema eterogeneità della popolazione ha impedito il cornordinamento di queste aspirazioni e la loro organizzazione politica in senso nazionalistico.
Sfruttando questa fragilità, il governo coloniale anglo-egiziano ha limitato la propria azione a pochi interventi, volti a risolvere le situazioni più urgenti, tra i quali non era presente una «questione nuba». Malgrado ciò, un lento processo d’accorpamento territoriale è stato promosso al fine di riorganizzare l’amministrazione. Altri interventi hanno mirato a regolare i rapporti fra le comunità agricole e quelle nomadi per la gestione delle risorse naturali.
Seguendo una pratica consolidata, le autorità britanniche hanno limitato al minimo lo sviluppo del sistema educativo, delegandolo in buona parte alle società missionarie. Bisognerà aspettare il 1921 per assistere all’apertura delle prime scuole elementari governative, un ritardo che influenzerà negativamente la formazione di un’élite locale.
L’arabo non ebbe difficoltà a imporsi come lingua d’insegnamento e, gradualmente, le autorità coloniali diminuirono la profonda diffidenza nei confronti del processo di arabizzazione e islamizzazione. La regione rimase però un «closed district» fino al 1956.

I nuba e la guerra civile

Alle soglie dell’indipendenza del Sudan, malgrado la presenza di tensioni tra i nuba e le genti del nord, la regione non si mostrò particolarmente sensibile alle rivendicazioni che andavano prendendo forma nelle regioni meridionali. Quando nel Sud del paese scoppiò la guerra civile, nel 1955, i Monti Nuba si astennero dall’appoggiare i «ribelli».
Le politiche promosse dal governo del Sudan indipendente, più che riconoscere la specificità culturale delle diverse regioni del paese, hanno rafforzato il centralismo a tutto vantaggio della componente sociale arabo-musulmana, partita avvantaggiata nella competizione politica del post-indipendenza grazie al rapporto privilegiato con il colonizzatore britannico.
Malgrado ciò, accanto al sentimento di una distinta identità culturale, tra i nuba è sempre stata forte anche la percezione di un vincolo storico con la parte settentrionale del paese. Questo rapporto di incontro-scontro ha impedito un dialogo costruttivo fra nuba e i partiti settentrionali, a loro volta dominati dall’elemento arabo.
Per fare fronte allo strapotere dei partiti del Nord, nel 1964 è nato il General Union of Nuba Mountains (Gunm), la prima importante formazione politica, che si proponeva di rappresentare gli interessi dei nuba all’interno del sistema parlamentare del paese; partito durato fino al 1969, l’anno del colpo di Stato del colonnello Jafaar Nimeiri.
A livello economico, la decisione governativa di favorire nel Kordofan meridionale un’agricoltura di tipo estensivo (quando quella dominante tra i nuba era di sussistenza), ha prodotto dei forti cambiamenti nei rapporti sociali dell’area. In molte zone la proprietà della terra è stata riorganizzata, destinando alle grandi imprese agricole i terreni più fertili.
Naturalmente, a fare le spese del cambiamento sono stati principalmente i piccoli proprietari espropriati. Per larghe fasce della popolazione nuba, quindi, lo sviluppo economico si è tradotto in un sostanziale impoverimento, solo in parte compensato dall’aumento della domanda di lavoro salariato. La mancanza di investimenti governativi ha contribuito ad aumentare ulteriormente il disagio tra la popolazione.
I difficili equilibri, tra modeizzazione dell’agricoltura e resistenze degli agricoltori, sono stati ulteriormente esacerbati, a metà degli anni ’80, dalle carestie che hanno colpito il Sudan centrale. A fronte di una diminuzione dell’offerta di beni alimentari, l’agricoltura estensiva promossa dal governo è diventata l’oggetto centrale delle critiche.
La decisione di Khartoum di armare le milizie baqqara per contrastare il Sudan People’s Liberation Army (Spla), il movimento armato sudista anti-governativo, ha coinvolto negativamente anche i nuba, che si sono trovati a dover fronteggiare uno dei loro antagonisti tradizionali, i nomadi baqqara, in una posizione di palese svantaggio.
Sfruttando tale malessere lo Spla è riuscito a raccogliere i primi timidi consensi anche tra i nuba. La comparsa dello Spla, per quanto mai molto diffusa, ha provocato una violenta reazione da parte governativa che ha finito per alienare larghi settori della società da Khartoum.
Nel 1989 la creazione della New Kush Division (Nkd) dello Spla, destinata a operare permanentemente nella regione, ha aperto una nuova fase del conflitto. La guida della nuova unità è stata affidata a Yusif Kuwa Mekki che, già in precedenza, si era distinto nella difesa dei diritti del proprio popolo. Per annientare questa presenza il governo esercitò una costante pressione, culminata nella dichiarazione del jihad nel 1992.
La guerra che ne è seguita, è stata caratterizzata da un’estrema violenza. Il ricorso alla concentrazione della popolazione civile in grandi campi di raccolta è stato sistematico. Presentato come un provvedimento mirato alla protezione dei civili, la mossa voleva essenzialmente privare lo Spla del supporto popolare.
La manovra ha facilitato anche al governo islamico di Khartoum (presieduto dal generale Omar al-Bashir) la continuazione della politica d’esproprio delle terre coltivabili. I beneficiari dell’operazione sono stati naturalmente i sostenitori del governo e le grandi imprese agricole, desiderose di estendere il proprio controllo su territori relativamente fertili e con accesso a risorse idriche. Si calcola che, agli inizi del 2002, il 28% circa del territorio dei Monti Nuba sia stato destinato a questo tipo d’utilizzo (naturalmente la percentuale sul totale delle terre fertili è molto più alta).
L’acuirsi della repressione del governo centrale nei confronti dei nuba, nel 1992, ha messo a dura prova il Nkd. Nel 1996, grazie al sostegno dello Spla, le forze nuba anti-governative sono state in grado di passare alla controffensiva, riconquistando buona parte dei territori persi.
Ma un nuovo colpo all’unità e all’efficacia della resistenza nuba è venuto nel 2002, con la prematura scomparsa di Yusif Kuwa Mekki. Il movimento rimase orfano di un leader brillante, che, grazie al suo stile di governo collegiale, era riuscito ad acquistare una discreta credibilità a livello internazionale.
La questione dei Monti Nuba era ormai divenuta centrale nel processo di pace che si stava avviando. John Garang, il capo dello Spla, fautore di un Sudan unito ma riformato, si è rifiutato di separare le rivendicazioni del Sud da quelle di tutte le altre aree marginalizzate del paese, inclusi i Monti Nuba.

L a pace firmata a Nairobi, il 9 gennaio 2005, tra il governo centrale di Khartoum e lo Spla, dopo un lungo processo negoziale svoltosi nella località di Naivasha (Kenya) e promosso dall’Onu, dagli Usa e dall’Unione Europea, ha posto fine alla guerra. Infatti, il documento finale contiene una serie di articoli e clausole che riguardano la sistemazione dei Monti Nuba nel Sudan rappacificato.
Sostanzialmente, il destino dei Monti è separato da quello del resto del Sud e gli accordi di pace assicurano un governo regionale autonomo ai nuba, garantito dalla presenza di truppe dello Spla a fianco di quelle governative.

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci




A prova di bombe

Penetrazione del cristianesimo tra i nuba

Su un milione circa di abitanti della regione dei Monti Nuba, il 33% segue l’islam, il 35% il cristianesimo (di cui 65% cattolici), il 32,22% la religione tradizionale.
L’attività di evangelizzazione è stata condizionata dalle vicende storiche del paese, con lunghi periodi di interruzione: una storia esemplare di fedeltà e martirio. Solo ora si è riaperta la possibilità di una evangelizzazione più efficace.

Il 1871 potrebbe essere la data dell’inizio della penetrazione del cristianesimo tra i nuba, con l’apertura di una stazione di missione a El Obeid per opera di Daniele Comboni. La località doveva diventare la base di lancio per portare il vangelo nel cuore dell’Africa e continuare la sua lotta contro lo schiavismo. La strada attraverso la regione dei nuba era preferibile a quella del Nilo, per raggiungere le popolazioni più meridionali del Sudan, denka e shilluk.
Nel 1874, infatti, a Delen (oggi Dilling, sei giornate di cammino a sud di El Obeid), fu aperta una stazione di missione, la prima tra i Monti Nuba. Il lavoro missionario ebbe un rapido sviluppo, anche se la missione dovette chiudere i battenti per due anni, dal 1875 al 1877, per l’ostilità dei mercanti arabi. Nel maggio 1881, mons. Comboni visitò per l’ultima volta la missione di Dilling, dove ebbe la gioia di battezzare i primi 40 nuba. Il quel viaggio visitò altre zone dei Monti Nuba e progettò l’apertura di una seconda stazione missionaria, per intensificare l’opera di evangelizzazione e la lotta contro gli schiavisti.
Di ritorno dal viaggio, così scriveva a Roma: «F ra un anno, o anche meno, l’abolizione totale della schiavitù presso i nuba sarà un fatto compiuto. Non si possono descrivere la gioia e l’entusiasmo delle popolazioni che, dopo la mia visita, non si sono visti strappare né un figlio, né una figlia, né una mucca, né una capra; riconoscono unanimemente che li ha liberati la chiesa cattolica».
Quello stesso anno, però, il Comboni moriva (ottobre 1881, a soli 50 anni) e in Sudan scoppiava la rivolta di Mohammed Ahmed Mahdi. E fu la catastrofe. Nel 1882 la missione di Dilling venne distrutta, i missionari (2 padri, 2 fratelli, 3 suore) furono fatti prigionieri. Avrebbero voluto portare con sé i loro cristiani «un centinaio tra donne e ragazzi», ma non vi riuscirono: la piccola comunità cristiana fu risucchiata nel vortice mahdista, come il resto della popolazione. La stessa sorte toccò ai missionari e missionarie presenti a El Obeid. 

Quando le truppe anglo-egiziane, nel 1898, riconquistarono il Sudan, ponendo fine al regime mahdista, i missionari poterono ritornare e riprendere il lavoro missionario interrotto da 18 anni. I primi comboniani arrivarono a Ondurman nel 1899, ma mutarono strategia: invece di riprendere la strada dei Monti Nuba, per avanzare verso la regione dei Grandi Laghi, scelsero la via del Nilo. Anche perché il governo non permetteva attività missionaria nelle regioni abitate dalle popolazioni africane, classificate come «distretti chiusi», in cui era compresa anche la regione dei Monti Nuba.
Nel 1913 alcuni missionari del vicariato di Khartoum riaprirono la missione di Dilling, ma l’anno seguente i missionari furono inteati in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale.
Dieci anni dopo, si presentò una nuova opportunità, quando il governatore inglese del Kordofan domandò al nuovo vicario apostolico di Khartoum, mons. Paolo Tranquillo Silvestri, se intendeva riprendere possesso dei terreni della missione di Dilling e El Obeid, ma monsignore rinunciò spontaneamente, per intensificare l’evangelizzazione al sud, presso gli shilluk, nuer e denka. I nuba furono dimenticati per altri 20 anni.

Nel frattempo, però, in seguito al rifiuto di mons. Silvestri, il governo di Khartoum si rivolse ai protestanti perché lavorassero tra le popolazioni dei Monti Nuba. Alcuni membri australiani della Sudan Interior Mission accettarono subito l’invito e, nel 1930, aprirono il loro primo centro missionario a Heiban, per poi estendere la loro presenza nella parte orientale della regione.
La parte occidentale, invece, fu occupata dagli anglicani della  Church Missionary Society, che nel 1933 aprirono il loro primo centro a Sellara, vicino a Dilling, e 10 anni dopo a Katcha.
Aiutati dal governo, i centri protestanti aprirono scuole elementari e varie «bush schools» (scuolette nella foresta) affidate ai catechisti. Se si eccettua le due scuole medie aperte a Katcha e Sellara, i protestanti fecero ben poco per offrire ai nuba una formazione superiore.
Parallelamente all’attività scolastica cercarono di portare avanti anche un certo lavoro di evangelizzazione, senza però offrire una profonda formazione cristiana: l’istruzione si riduceva spesso alla presentazione di qualche brano della bibbia. Nonostante il sostegno governativo e la lunga permanenza nella regione, i risultati furono deludenti, specialmente tra gli evangelici della Sudan Interior Mission: il loro rigorismo calvinista, che proibiva ogni bevanda inebriante e perfino le danze tradizionali, non attirava i nuba alla fede cristiana. Per cui, pochi furono i battezzati, rari i cristiani formati con una educazione secondaria o universitaria, capaci di impegnarsi nel campo politico e sociale.

Nel 1954, due anni prima dell’indipendenza del Sudan (1956), il vescovo di Khartoum riuscì ad ottenere dal governo il permesso di aprire due centri: Dilling e Kadugli. Bisognò cominciare tutto da capo. Poi, con lo scoppio della guerra tra il governo di Khartoum e le popolazioni del Sud Sudan, tutti i missionari stranieri furono espulsi dal paese.
Nel frattempo, El Obeid era diventata sede vescovile (1960), con la creazione dell’omonimo vicariato apostolico, distaccato da quello di Khartoum, successivamente fu elevato a diocesi (1974).
A partire dal 1969, la concessione di qualche autonomia amministrativa a territori meridionali, il clima politico divenne più sereno e fu possibile imprimere nuovo slancio all’attività missionaria: fu possibile aumentare il numero del personale (missionari e suore) e operare liberamente su vasto raggio e senza paura.
Mentre tra i Monti Nuba l’attività missionaria procedeva a singhiozzo e tra innumerevoli ostacoli, essa riscuoteva maggiore successo tra i nuba emigrati nelle grandi città del Nord Sudan, come El Obeid, Kosti, Khartoum. Relegati nelle periferie, impiegati nei lavori più umili, essi furono da sempre al centro dell’interesse e del lavoro di evangelizzazione.
A Khartoum, soprattutto fu molto attivo padre Muratori, fino alla sua morte, avvenuta nel 1959. Egli scrisse catechismi nelle più diffuse lingue nubane, istruì e battezzò centinaia di nuba e si dedicò alla preparazione di maestri e catechisti dei più importanti gruppi nubani. Tale lavoro, imitato da altri missionari, specie nella diocesi di El Obeid, è stato provvidenziale per la chiesa sui Monti Nuba: maestri e catechisti ne sono diventati la «spina dorsale», come afferma mons. Macram Max Gassis, vescovo della stessa diocesi.

Con la ripresa della guerra civile tra Nord e Sud Sudan, nel 1983, buona parte dei Monti Nuba si venne a trovare sotto il controllo dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) e gli abitanti (cristiani e musulmani compresi) si unirono ai ribelli. Per quasi 10 anni le comunità cristiane rimasero praticamente senza preti e senza vescovo, costretto all’esilio, per le sue prese di posizione contro l’arabizzazione e islamizzazione forzata imposta dal governo di Khartoum.
Per tutta la durata del conflitto, i nuba furono oggetto di una repressione così feroce da sfociare nella «pulizia etnica». Bombardamenti sistematici hanno distrutto scuole, ospedali e tutti i luoghi di culto cristiani nei Monti Nuba e varie moschee, poiché i musulmani nuba erano considerati eretici perché si opponevano all’imposizione della sharia (legge islamica). Le incursioni militari si sono accanite soprattutto contro i cristiani, facendo parecchi martiri.
I documenti raccolti da Human Rights provano che, dal 1993 al 1995, sono «scomparsi» circa 200 mila nuba, vittime di «genocidio». Bombardamenti, incursioni e rappresaglie governative sono continuate anche negli anni seguenti. 
Nonostante l’isolamento, il terrore e la persecuzione, tre diaconi, un gruppo di catechisti e altri leader laici, hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Hanno amministrato e registrato centinaia e centinaia di battesimi di adulti e fondato nuove comunità in villaggi lontani, dove l’annuncio del vangelo non era mai arrivato. In alcuni luoghi i diaconi hanno inventato un «surrogato» dell’eucaristia (vedi riquadro).
Con la firma del cessate il fuoco nel 2001 e dell’accordo di pace nel 2005, missionari, preti locali e suore sono tornati a Gidel, Kauda, Lumon e altre missioni distrutte durante la guerra civile. È cominciata la ricostruzione di chiese, scuole, ospedali, insieme all’attività di evangelizzazione.

Oggi, su un milione circa di abitanti presenti tra i Monti Nuba, 330 mila sono musulmani (33%), 320 mila seguono la religione tradizionale (32,22) e 350 mila sono cristiani (35%), cui 65% cattolici.
Il fatto più straordinario dal punto di vista umano e cristiano è che  musulmani, cristiani protestanti e cattolici, seguaci delle religioni tradizionali convivono in pace e nel mutuo rispetto per tutte le religioni. Non di rado si incontrano famigli formate da genitori musulmani, due figli cristiani, due figli di religione tradizionale, altri due o tre figli che seguono l’islam. E tutto ciò senza che costituisse un problema per nessuno.
Una grande lezione di civiltà, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire.
La chiesa cattolica ha sempre goduto di stima e prestigio tra la popolazione nuba, grazie alle sue attività in favore della pace e della promozione umana. Ora che è tornata la libertà di azione e di movimento, si moltiplicano le iniziative di promozione umana e sociale, tanto che il governatore della regione di Gidel, Abdel Aziz, musulmano e uno dei leader dello Spla, ha detto al vescovo di El Obeid: «La chiesa è la nostra speranza».

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi