Un paese per 12 (agli altri neppure tortillas)

La situazione odiea   

Ha subito la privatizzazione dell’economia, la concentrazione della ricchezza, la generalizzazione della povertà: oggi il Nicaragua è un paese allo stremo. Per il nuovo governo la sfida è ad altissimo rischio. Stretto tra promesse, nuovi compromessi e vecchi nemici, Daniel Ortega riuscirà a trovare la strada giusta?

Dopo cinque decenni di dittatura, un decennio di rivoluzione socialista ed uno e mezzo di globalizzazione neoliberista, il Nicaragua si sente logorato. Ha transitato per la sua storia contemporanea con brusche metamorfosi, che hanno messo allo scoperto il meglio ed il peggio di questo paese centroamericano.

La complessa geografia del potere politico

Daniel Ortega, dopo 16 anni di opposizione, ritorna al potere in un Nicaragua trasformato, con un panorama politico costituito da quattro partiti politici: due neoliberisti di destra e due che fanno riferimento al sandinismo. Da una parte, il partito Alleanza liberale nicaraguense (Aln), legato all’ultimo presidente Enrique Bolaños, dall’altra il Partito liberale costituzionalista (Plc), eredità di Aoldo Alemán. La divisione tra questi due partiti ha dato la vittoria all’Fsln di Ortega. Come dice Dionicio Marenco, attuale sindaco di Managua per il Fronte sandinista, in recenti dichiarazioni al Nuevo Diario, quotidiano nazionale: «Nelle passate elezioni, il Fronte sandinista ha avuto meno voti che nelle elezioni precedenti, la vittoria dell’Fsln è dovuta alle divisioni della destra, anche se l’ambasciata statunitense ha fatto l’impossibile per unificarla».
Dall’altro versante, si trova il Movimento di rinnovamento sandinista (Mrs) che si presenta come una forza di sinistra alternativa al Fronte sandinista, anche se due mesi prima delle elezioni del 2006, il senatore Usa Burton (quello della legge Helms-Burton, che inaspriva l’embargo contro Cuba) nel suo viaggio in Nicaragua aveva accettato di incontrare soltanto il Pln e l’Mrs.

Fuga dalle campagne e fuga dal paese

La geografia del potere economico e politico a Managua, e in Nicaragua, è cambiata radicalmente negli ultimi tre lustri. Oggi l’élite nicaraguense è formata da 12 famiglie, ciascuna delle quali controlla megacapitali di 100 milioni di dollari con posizione egemonica sul mercato nazionale. Negli ultimi 16 anni si è consolidato nel paese un modello di concentrazione del capitale nel commercio e nei servizi privati, senza investimenti nell’industria  (maquillas escluse) e nel settore agricolo e dell’allevamento.
Una nota a parte merita il sistema bancario e creditizio. Basta considerare che nel 1993 il credito si distribuiva in forma più equilibrata che oggi: il 34% andava al settore agricolo, il 39% al settore commerciale; con la privatizzazione della banca nazionale, dieci anni dopo, nel 2002, il settore agricolo riceveva soltanto il 4% del credito, mentre il settore commerciale arrivava all’87%.
La controriforma agraria conseguente, insieme alla privatizzazione delle imprese statali, hanno prodotto una metamorfosi dell’economia di questo paese, che ha alimentato sia l’esodo dalle campagne alle città che l’emigrazione verso l’estero. Le rimesse degli espatriati sono diventate la colonna portante dell’economia popolare e insieme alla cooperazione internazionale (1.000 milioni di dollari all’anno) costituiscono oggi il motore dell’economia del Nicaragua. L’abbandono statale della campagna moltiplica la povertà. Questa poi alimenta da un lato l’emigrazione, dall’altro l’arrivo della cooperazione internazionale: questi due fenomeni, con i flussi di valuta pregiata che comportano, finiscono con il diventare il salvagente degli attuali governi neoliberisti e in definitiva il grande affare della globalizzazione centroamericana.
Secondo un recente studio di Francisco Mayorga, ex presidente del Banco centrale del Nicaragua nel governo di Violeta Barrios de Chamorro: «Il Nicaragua è passato dall’avere una oligarchia, una classe media e un proletariato ad essere un paese con 5 classi sociali, 4 intee ed una all’estero. In primo luogo, una cupola di 12 famiglie con megacapitali, poi 1.500 milionari, sotto questi una classe media molto rachitica, dove si collocano i più ricchi tra i sandinisti, insieme ai commercianti, ai professionisti e ai dipendenti di rimesse. Uno scalino più in basso c’è poi l’80% dei nicaraguensi, che vive con meno di 2 dollari al giorno. Infine, la classe degli espatriati, più di mezzo milione di nicaraguensi che, facendo lavori di bassa manovalanza, sostengono con le loro rimesse l’economia nazionale».
Questo è il modello popolarmente chiamato in Nicaragua «Hood-Robin» (dai poveri ai ricchi): le rimesse entrano nel paese e vengono quasi interamente spese dai poveri in beni e servizi, venduti al dettaglio dai commercianti, questi commercianti a loro volta comprano la merce dai grandi distributori che si foiscono di capitali dalle 12 famiglie, passando attraverso i 1.500 milionari che fanno da intermediari finanziari. Tirando le somme, questa cupola di 12 famiglie concentra questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzarle investendole all’estero, dato che il Nicaragua non dà garanzie.

Gli equilibrismi di Daniel (e signora)

Nel Nicaragua lasciato dal governo Bolaños, il Fronte sandinista vince le elezioni. Molti fattori influiscono sul ritorno al potere di Daniel Ortega. Il fattore principale è una destra divisa. Divisa perché le ricette neoliberiste non hanno funzionato in questo paese povero. L’illusione di progresso, venduto nel «kit della globalizzazione», è entrata in crisi per incompatibilità con la generalizzazione della povertà, la privatizzazione dell’economia e la concentrazione della ricchezza.
I nicaraguensi hanno dato il loro voto all’Fsln sperando in un cambio, dopo aver dato per tre volte consecutive la fiducia a tre governi neoliberisti.
Questo primo anno di governo Ortega era iniziato sotto buoni auspici.Una disposizione presidenziale ha ridotto i salari dei ministri e dei direttori generali degli enti autonomi. Ortega ha cominciato tagliando il suo stipendio del 69%, passando con ciò da circa 10.000 dollari mensili a 3.200. Le somme risparmiate sono state destinate a progetti per i giovani per un totale di 600 mila dollari.
D’altra parte, il presidente è stato criticato per aver instaurato con l’impresa privata nicaraguense (Cosep, Consejo nacional de la empresa privada, la Confindustria locale) e l’Fmi «buoni rapporti». Inoltre, ha firmato con quest’ultimo un accordo con cui dà garanzie di stabilità ai ricchi del Nicaragua e agli investitori stranieri per i prossimi 3 anni. Il governo è inoltre stato accusato di nepotismo, tanto da essere soprannominato «governo Ortega-Murillo», dal cognome della moglie di Ortega, Rosario Murillo. Critiche che si sono inasprite alla fine di novembre 2007 con la creazione forzata (per decreto) dei Cpc, «Consejos de poder ciudadano», formati da circa un milione di nicaraguensi, riuniti in una sorta di «Consigli di democrazia diretta», forse un po’ troppo vicini alla massima istanza di consulta della società civile con il governo, los Compes, entrambi capeggiati da Rosario Murillo.

I nemici del governo: quelli dentro, quelli fuori

In questo momento, la strategia dell’Fsln consiste nell’usare meccanismi democratici per fare cambi rivoluzionari dentro il solco costituzio­nale. Ecco qui, dunque, l’importanza strategica per il Fronte dei Cpc. Questi consigli istituzionalizzeranno l’appoggio popolare principalmente nella capitale e faranno da contrappeso al potere che il Cosep ha nell’assemblea nazionale. In caso di bisogno, i Cpc appoggerebbero il progetto sandinista facendo pressione sociale, una carta da utilizzare in momenti in cui gli equilibri nell’assemblea non sono sufficienti per realizzare i programmi governativi o una riforma costituzionale. L’attuale costituzione di nascita rivoluzionaria è stata continuamente rattoppata dai tre ultimi governi con l’unico obiettivo di privatizzare il Nicaragua.
Nel Nicaragua rurale è il programma «hambre cero» a creare il consenso e allo stesso tempo a cercare di risolvere il problema dell’estrema povertà.
Dicevamo che Daniel Ortega è stato fortemente criticato per il clima di distensione tra il suo governo, l’Fmi e il Cosep. Questa distensione, però, è quella che mantiene divisa la destra in Nicaragua, anche dopo le elezioni. Se Daniel intaccasse i privilegi dell’impresa privata, i deputati di destra nell’assemblea, da neoliberisti, rappresentando l’impresa privata nazionale e straniera, si unirebbero al loro alleato statunitense che rimane in attesa nell’ombra dell’ambasciata. Washington sta aspettando il momento propizio per destabilizzare il Nicaragua e far traballare il governo sandinista, legittimamente scelto dalla maggioranza dei nicaraguensi. Con gli impoveriti (che – è meglio precisarlo – sono diversi dai poveri) che nuovamente pagherebbero il costo sociale della giocata. Quella del governo Ortega è, quindi, una convivenza forzata.

Le tortillas e le sfide di «fame zero»

L’altro prezzo delle tortillas è un altro dei capricci dell’ordine internazionale che mette a nudo l’interconnessione degli eccessi della globalizzazione.
L’insicurezza alimentare (la fame), una delle conseguenze più drammatiche del neoliberismo, continua ad essere il collettore degli effetti negativi della globalizzazione. Il Centro America oggi si trova tra l’incudine ed il martello. Da una parte, la povertà si moltiplica allo stesso ritmo degli sbalzi del prezzo internazionale del petrolio, dove – giorno dopo giorno – il contadino mangia di meno e lavora di più («el campesino come menos y tiene que trabajar mas»). Dall’altra, l’«effetto etanolo» fa esplodere i prezzi (soprattutto con il futuro incerto della produzione petrolifera) della produzione di cereali, che costituiscono la base della sicurezza alimentare.
Gli sbalzi del costo del petrolio si irradiano nel sistema dei costi dell’alimentazione (principalmente nei prodotti cerealicoli, più debolmente nel costo della carne e del pollame) e si depositano schiacciando l’insicurezza alimentare. Lo stesso che l’effetto etanolo, tenendo così in scacco il  paese e il suo futuro.
La gamma di risorse naturali di cui dispone il paese per lo sviluppo agricolo è la più abbondante tra i paesi centro americani, dove però la produzione si ottiene mediante tecnologie molto rudimentali e dove predominano i piccoli produttori rurali.
Il deputato Edwin Castro, capogruppo al parlamento per l’Fsln, assicura che il governo di unità e riconciliazione nazionale ha programmato come priorità la ricomposizione del settore agricolo: «Il nostro sviluppo deve essere vincolato all’agricoltura e all’allevamento, eliminando il flagello della povertà estrema. Per questo abbiamo creato un programma trasversale di politica di stato che è il programma fame zero. Con questo puntiamo alla sicurezza alimentare delle famiglie nelle campagne, che sono quelle che hanno il maggior grado di denutrizione e non possiamo avere uno sviluppo economico, sociale e culturale con il livello di povertà che sorpassa il 60 per cento. E un livello di disoccupazione reale oltre il 30 per cento. Il Nicaragua sta arrivando a livelli di fame nera. Questo programma era stato sperimentato a livello micro e adesso è stato applicato a livello nazionale. Non vogliamo che sia però un programma assistenzialista, ma un programma di reinserimento produttivo di queste famiglie. Dopo questi 16 anni di abbandono statale delle campagne, stiamo progettando di assistere in 5 anni quasi 50.000 famiglie, dando a ciascuna una mucca, una scrofa con i porcellini e 3 galline. nonché semi per la semina. Questo progetto, inoltre, sfrutterebbe il biogas prodotto con i rifiuti organici e con i resti si otterrebbe dell’ottimo concime. Questo progetto in generale obbliga a dinamizzare il settore produttivo, portando ad una crescita del settore agricolo e dell’allevamento, insieme all’autosufficienza alimentare».
Il programma fame zero costituisce il punto centrale del programma sandinista, ma allo stesso tempo è punta di lancia che si inserisce nel tallone di Achille del Nicaragua odierno, cioè l’estrema povertà e l’insicurezza alimentare. Negli ultimi 16 anni, i governi hanno privatizzato tutto il privatizzabile, fino ad inventare nomi per poterlo fare. Un decennio e mezzo di abbandono statale delle campagne con un esodo rurale di emigrazione per gli uomini e maquillas per le donne; di disoccupazione per i giovani e violenza nelle città.

La proprietà delle terre: l’eterna questione

Incontriamo Sinforiano Caceres della Fenacornop (la Federazione nazionale delle cornoperative) nel suo ufficio, a Managua. Ci dice: «Il governo ha dato segni di confusione, che lasciano nell’incertezza il settore agricolo. Il principale problema è che non ha spiegato ufficialmente la sua politica agraria, limitandosi ad una relazione di 6 pagine. Questa proposta non ha le risorse per essere attuata».
«Sappiamo del programma “hambre cero” e del rifoimento di concime che viene da un credito venezuelano, ma non abbiamo più informazioni dettagliate sul tema agricolo da parte del governo».
Il tema della proprietà delle terre è un punto debole nella programmazione in ambito agricolo e alimenta il «cortoplazismo» (cioè l’affrontare i problemi giorno dopo giorno, senza un progetto di lungo termine), in cui si vedono sommersi i programmi di sviluppo del settore agricolo in Nicaragua.
Questo paese si è impoverito per le forme di conduzione e la variabilità delle politiche strategiche attuate negli ultimi 30 anni, Sinforiano Caceres assicura che la proprietà della terra è uno dei temi centrali: «Nel decennio sandinista, si fece un processo di riforma agraria profondo, ma senza arrivare alla legalizzazione formale per assicurare il passaggio di proprietà dai latifondisti somozisti ai piccoli proprietari. Questa riforma incompiuta ha alimentato la corruzione e il traffico di favori. Il tema della proprietà è dunque un tema essenziale da risolvere, indispensabile per poter generare la stabilità non solo per i grandi investitori, ma anche per i piccoli e medi produttori».

L’incerto futuro dei contadini

Una visione differente del panorama agricolo ce la dà Edgardo García, presidente della Atc (Associazione dei lavoratori agricoli): «Con l’arrivo del governo di riconciliazione nazionale del presidente Ortega è arrivata la promessa di una riattivazione della produzione nicaraguense, senza recessione né aggiustamenti strutturali. Il programma del governo va a formalizzare i nostri progetti, come la promozione di casse di credito eque o come la produzione per il sistema del commercio equo e solidale in espansione nel Nord del mondo. In questo momento, noi siamo aiutati da diversi programmi del governo, come “hambre cero” o “usura cero”».
Questo programma rappresenta il futuro autosostenibile del Nicaragua parallelamente alla produzione per l’esportazione. Sinforiano Caceres ci spiega: «Attualmente i contadini poveri per produrre finiscono per impoverirsi ulteriormente. E spesso producono sfruttando ancora di più i membri della loro famiglia, bambini compresi. Questa situazione crea un circolo vizioso che produce come conseguenza un processo moltiplicativo della povertà perché le politiche che esistono attualmente non compensano gli sforzi dei piccoli agricoltori. Il programma “hambre cero” vuole cambiare questa situazione».
Pur favorevole al programma, Sinforiano sottolinea la centralità della definizione di una politica agricola trasparente: «Il governo deve risolvere con urgenze le incertezze che ha rispetto alla politica agricola, deve definire quale sarà l’approccio centrale per risolvere il problema della sicurezza alimentare: un approccio basato sulla produzione per l’autoconsumo, un approccio assistenzialista o con un insieme dei due. O ancora incrementando i programmi di cooperazione dall’Unione europea, dagli Stati Uniti o dall’Alba. Il punto principale è quale scommessa il governo farà sul tavolo della politica agraria del Nicaragua».

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




L’opposizione e il ministro

Incontri

Incontro con l’opposizione

«Il governo Ortega? Pura propaganda»

Nell’assemblea nazionale (unicamerale) a Managua abbiamo incontrato i capogruppo dei partiti dell’opposizione (52 deputati su un totale di 90).  Abbiamo chiesto loro di spiegarci come vedono questo primo anno di governo sandinista. Il deputato Victor Hugo Tinoco dell’Mrs ci spiega che a suo parere ci sono due tendenze che caratterizzano il nuovo governo sandinista: «Da una parte, un’enfasi su alcuni aspetti sociali, che sono soltanto palliativi per la miseria, come ad esempio l’accesso all’educazione e alla salute. Dall’altra, vedo un processo di centralizzazione del potere attorno al presidente Ortega a discapito del potere dei cittadini in generale e delle istituzioni dello stato e dello stesso parlamento. Le contraddizioni di questo governo sono sul piano politico, tra autoritarismo e democrazia. Il governo sta seguendo la stessa logica del governo anteriore. Io credo che avrebbe perfettamente la possibilità di fare una riforma importante al bilancio nazionale 2008-2009, ma non lo fanno perché significherebbe rompere con la logica di intesa con il Fondo monetario internazionale».
Il bilancio nazionale 2008-2009 è un altro dei punti «criticabili», secondo l’opposizione. In questo – dicono – si percepisce la stessa logica dei 5 anni di governo Bolanõs: per il servizio del debito sono stati assegnati 298 milioni di dollari e per il programma «hambre cero» soltanto 15 milioni. D’altra parte, per affrontare l’emergenza nella zona atlantica ereditata dall’uragano Felix (settembre 2007), sono stati stanziati soltanto 6 milioni di dollari. Secondo stime delle Nazioni Unite, per far fronte alla sequenza di disastri dell’uragano e delle piogge delle settimane seguenti, ci vorrebbero intorno ai 400 milioni di dollari.
Incontriamo poi il capogruppo del Plc, Maximino Rodriguez. Parlandoci del primo anno di governo, Rodriguez spiega: «Il governo sandinista non ingrana e ha soltanto riempito di manifesti il territorio nazionale, come fa un qualsiasi tiranno con la sua fotografia e con un messaggio che dice: “Arriba los pobres del mundo” (in alto i poveri del mondo), ma i poveri non vivono di questi manifesti. Bisogna fare opere concrete per combattere la povertà».
Proseguendo la visita all’assemblea nazionale, incontriamo la deputata Maria Eugenia Sequeira, capogruppo della Aln. Lei assicura che con l’attuale governo ci sono stati soltanto cambi negativi. «In questo primo anno – dice -, si è sentito l’indebolimento del processo democratico, che abbiamo portato avanti negli ultimi 16 anni. Pur riconoscendo che il governo dell’Fsln ha una tendenza sociale, d’altra parte questo governo sta isolando il paese, favorendo soltanto le relazioni con il Venezuela. L’intenzione è quella di applicare un sistema politico di tipo chavista e mantenere il Nicaragua con un’alta dipendenza economica, sociale e politica da Caracas».

Incontro con il ministro dell’Agricoltura, Ariel Bucardo

«La sicurezza alimentare è la nostra priorità»

Signor ministro, qual è la struttura agraria del Nicaragua?
«Il Nicaragua è un paese di piccoli produttori. Noi contiamo quasi 200.000 produttori, ma appena 1.300 di loro sono grandi, cioè hanno più di 500 manzanas (una manzana equivale a 0,70 ettari, ndr). L’immensa maggioranza sono produttori con proprietà terriere che hanno tra 20 e 50 manzanas. Questo ci garantisce che, a dispetto di una tendenza verso la concentrazione delle terre, per il momento la distribuzione di questa è equilibrata in Nicaragua. D’altra parte, però, abbiamo un problema strutturale: un produttore di 500 manzanas in Nicaragua è meno ricco di un produttore delle stesse dimensioni del Salvador o del Costa Rica, questo succede per un problema di sviluppo tecnologico. In Nicaragua, con le tecnologie disponibili, un produttore di 500 manzanas produce le stesse quantità di un produttore di 100 manzanas in Salvador».

Quali sono stati i cambiamenti con il nuovo governo di Daniel Ortega in materia di sicurezza alimentare?
«È ancora troppo presto per parlare di cambi nella sicurezza alimentare. Abbiamo ricevuto l’eredità di un decennio e mezzo di neoliberismo: per fare dei cambi nella struttura del sistema alimentare nazionale c’è bisogno di più tempo. Quel che possiamo assicurare è che esistono politiche del nuovo governo che ci portano ad aspettare per il futuro una migliore possibilità di alimentazione della gente, soprattutto della famiglia contadina nicaraguense che è quella più povera. Negli ultimi 16 anni, si sono spesi in materia di lotta alla povertà quantità di risorse economiche, da una parte dal bilancio statale, dall’altra dalla cooperazione internazionale. L’impatto di queste misure è stato però negativo: ogni giorno i poveri sono diventati più poveri e i ricchi più ricchi. Questo vuol dire che tutte le risorse spese per questo obiettivo in qualche maniera sono tornate alle élites che avevano gestito la loro distribuzione. Oggi invece stiamo lavorando nella produzione di alimenti da parte delle stesse persone che poi li consumeranno, soprattutto nel settore rurale. Stiamo lavorando sul progetto “hambre cero” (fame zero), con l’obiettivo che la gente smetta di chiedere cibo, perché ci sono stati molti programmi contro la povertà che regalavano cibo. Questo ha fatto diventare gran parte delle famiglie contadine dipendenti e di conseguenza sempre più povere. In quest’ambito, stiamo consegnando beni d’investimento perché producano. La priorità del governo è la produzione alimentare, in primo luogo per i nicaraguensi, e soltanto successivamente per le esportazioni. Abbiamo cambiato radicalmente la concezione che avevano i governi anteriori, concezione che consisteva nel concentrare tutti gli sforzi produttivi per l’esportazione. Noi abbiamo scelto la via che ci porta a garantire la sicurezza alimentare nazionale».

Parlando di politica estera, in che fase dell’applicazione si trova il Trattato di libero commercio Usa-Centro America (Dr-Cafta)?
«Questo trattato commerciale ha ormai un anno di vigenza. Noi crediamo che avrà un impatto negativo nel futuro del paese e in particolare nel suo settore agricolo. Perché è un trattato che nasce in totale svantaggio con gli Stati Uniti. Il Nicaragua è un paese con tecnologie molto arretrate in confronto al paese nordamericano. Noi non abbiamo irrigazione né macchinari né strade; in compenso, abbiamo cronici black-out di energia elettrica.   Inoltre, abbiamo una classe contadina quasi analfabeta. Dall’altro versante, gli Usa non solo posseggono tecnologie avanzate ma sussidiano i propri produttori. Ci piacerebbe un trattato commerciale in cui potessimo competere almeno in eguaglianza di condizioni. Ma non è questo il caso».

In questa situazione, che ruolo hanno gli accordi di associazione con l’Unione europea (Epas)?
«Questo tema è circondato da molte incognite. Noi aspiriamo ad avere buoni rapporti commerciali con l’Europa, ma non sono convinto che il mio paese sia in grado di avere i requisiti per entrare sul mercato europeo, perché l’Europa è uno dei maggiori protezionisti mondiali delle proprie produzioni agricole. Ci piacerebbe che questi trattati, se non ci accordano delle preferenze a livello commerciale, almeno ci consentano di partecipare in condizioni di eguaglianza, ovvero che si eliminino i sussidi ai prodotti europei, la protezione alle proprie produzioni e gli ostacoli non tariffari (ad esempio, il tipo di confezionamento, di imballaggio e altre esigenze a cui i piccoli produttori del Sud non sono in grado di adeguarsi, ndr). È un tema complesso. Ho avuto l’opportunità di incontrare funzionari dei governi europei e sembrerebbe che loro vogliano un’associazione tra Europa e Centroamerica che in futuro metta in condizione i paesi poveri di entrare nei mercati europei. E da qui deve partire la nostra grande sfida: i nostri produttori, cornoperative ed associazioni, smettano di essere soltanto fornitori di materie prime ai grandi consorzi inteazionali; essi debbono crescere ed attrezzarsi per trasformare la loro produzione in prodotti finiti, da poter commercializzare direttamente all’estero».

Abbiamo visto i rapporti con gli Stati Uniti e quelli con l’Unione europea. Ci rimane l’«Alteativa bolivariana per le Americhe» (Alba). Che ne pensa lei?
«È un’iniziativa nuova per noi. Speriamo che sia più di un accordo commerciale, che sia una politica orientata verso il commercio giusto, ma anche verso l’investimento giusto. Vogliamo sviluppare un’alleanza strategica in cui è la solidarietà a muovere gli interessi di queste nazioni povere e non la competizione, l’opportunismo economico, come succede con i trattati commerciali classici. L’intenzione è di creare alleanze in cui possiamo vederci come una sola nazione con un trattamento egualitario, è una dinamica che stiamo già vedendo concretizzarsi sulla tematica del petrolio venezuelano, che sta arrivando al Nicaragua e la metà del pagamento di questo rimane nel paese per 25 anni, perché si investa nell’agricoltura, nell’allevamento e nell’industria, che sono i nostri punti deboli. Io vedo l’Alba non unicamente dal punto di vista politico-ideologico, ma come un’opportunità di relazioni più eque dal punto di vista commerciale, finanziario e della produzione, che aiutino i nostri popoli a progredire con un po’ più di eguaglianza».

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Quel giorno, all’improvviso …

Introduzione

L’uomo si era appena congedato da suo figlio che  stava ora attraversando la strada alle sue spalle.  Di colpo venne distratto dallo stridere tipico di una frenata e guardò istintivamente cosa stava succedendo: una macchina stava per investire il ragazzo dopo che questi, sbadatamente, aveva iniziato ad attraversare. Un istante dopo, l’apprensione patea aveva già lasciato il posto a un sospiro di sollievo: non era successo nulla, neppure un finestrino abbassato per gridare di fare attenzione, il tutto condito, magari, da qualche insulto tipico della turbolenta relazione fra automobilisti e pedoni. Anzi, gli sembrò persino che il conducente con la mano aveva fatto segno a suo figlio di attraversare… Nulla, meno male: «C’è ancora gente che fa attenzione quando guida» pensò a voce alta, iniziando ad allontanarsi.
Anche il ragazzo realizzò che, grazie a Dio, tutto era andato nel migliore dei modi. Lo spavento per la vista dell’auto lanciata e per la brusca frenata era stato addolcito dall’attitudine del conducente: non disse nulla, lo guardò bonariamente e con la mano, invece di mandarlo a quel paese, gli fece cenno di passare. E lui riprese ad attraversare.
Fu un attimo. L’uomo non si spiegò subito il perché di quella seconda sgommata e di quell’auto che correva come se l’avesse inseguita il demonio. Non se lo spiegò neppure in seguito… continua a non spiegarselo ora.
Bogotá: uno dei tanti incidenti stradali, di quelli che fanno statistica o riempiono la cronaca cittadina. Il ragazzo, comunque, non riuscì neppure a pensare che avrebbe potuto finire sui giornali o sul verbale di qualche poliziotto. Aveva iniziato ad attraversare soltanto perché l’altro gli aveva fatto segno di passare. Perché poi aveva ingranato la prima e premuto violentemente sull’accelleratore… perché questa storia di ordinaria follia?

Purtroppo è una storia vera. L’episodio del padre che vede il figlio a terra, con il corpo straziato dalle ruote di un’auto che fugge dopo averlo investito, volontariamente e malignamente per punirlo dell’affronto di non aver rispettato una precedenza, è paradigmatico delle «situazioni limite» di cui ci parla Gianfranco Testa nel primo articolo che compone questo dossier. Ricordo che quando lui stesso mi raccontò questa storia anni addietro, rimasi come impietrito di fronte alla estrema banalità, e nel medesimo tempo profondità, del male.  Come accettare un episodio del genere? Come fare a non convivee costantemente con il ricordo? Come riuscire a costruirsi una vita che non sia condizionata perennemente dal rumore di una sgommata, dalla vista del sangue, da tutto il corollario di avvenimenti, volti, riti che segue la morte? Le stesse domande che si fece il padre del ragazzo frequentando una delle Scuole di Perdono e Riconciliazione (ESPERE), fondate da un missionario della Consolata colombiano, il padre Leonel Narvaez. Nate in Colombia come risposta di pace a un contesto ormai radicato di guerra,  violenza e odio, queste scuole si sono diffuse in molti altri paesi per portare la speranza del perdono e la possibilità della riconciliazione. Questo indipendentemente dal credo religioso della persona che vi attende.

Perdono e riconciliazione sono due stadi del medesimo processo.  Il primo, per il fatto di essere personale e avere un carattere terapeutico, precede e rende possibile il secondo, che ha invece una dimensione sociale. La riconciliazione, infatti, è il cammino intrapreso da vittima e offensore verso un reciproco incontro; un incontro a volte possibile, altre volte impedito o addirittura sconsigliato dalle circostanze.  Il perdono assume allora un ruolo centrale nella gestione dei conflitti. Aiuta la persona a costruire in se stessa un universo di senso, a riacquistare un equilibrio armonico, a lasciar scorrere quelle tensioni che non ci rendono liberi, a rappacificarsi con il proprio passato per essere nuovamente liberi di vivere in pienezza l’esperienza presente.  Quella libertà che il padre del ragazzo ucciso su una strada colombiana, vittima di un assassinio a quattro ruote, cercava con speranza, per non essere ferito due volte dalla stessa violenza e ristabilire così la fiducia nella vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




il prezzo del perdono

Un faticoso cammino di liberazione

In un mondo che sembra favorire modelli di conflitto e rivalsa la scelta di perdonare potrebbe apparire una scelta debole e perdente. Al contrario, il perdono si propone come un’opzione forte, un maturo percorso di liberazione che investe la totalità dell’essere umano.

Può succedere nella vita di trovarsi davanti a quelle che sono delle vere e proprie «situazioni limite». Può darsi che queste assumano i tratti della morte violenta di una persona che si ama o di una grave offesa alla propria dignità; di un inganno che tradisce la fiducia riposta, oppure di un gesto o un episodio di violenza: qualcosa, insomma, che sembra intrappolarci, precludendoci ogni via di uscita.
Tanto la storia personale, come quella sociale presentano spesso ostacoli capaci di intralciare o a volte impedire un vivere insieme armonico, positivo. I gravi fatti che nel passato hanno segnato le vite dei popoli, hanno creato divisioni molto profonde, aprendo ferite storiche dopo secoli e secoli, così come è successo nei Balcani,  in Rwanda o in Burundi. La presenza di eserciti inteazionali sotto le insegne delle Nazioni Unite, invece di essere un deterrente, ha molte volte contribuito a rendere più profonda la reciproca avversione fra le parti in conflitto, prolungando in questo modo l’agonia della pace.
La geografia, frutto di trattati tra vincitori o di decisioni di grandi potenze coloniali o neocoloniali, presenta condizioni che alterano i rapporti fra i popoli e disegna scenari e situazioni sovente esplosivi.
La povertà, infine, risultato della ingiusta distribuzione dei beni è fonte di un grave malessere che può sfociare in violenza e guerre quando gli unici nemici riconosciuti sono le politiche economiche globali che causano situazioni di potenziale o reale conflitto.
In queste circostanze è allora possibile perdonare? Chi? Come? È facile comprendere che in situazioni limite o in circostanze in cui il nemico è invisibile o indefinibile, il tema del perdono si faccia più sfumato e più complesso. D’altra parte, quante volte si è considerato il perdono come una soluzione facile e ad effetto, soprattutto quando questo viene offerto senza molta coscienza o in modo spettacolare?
Il perdono è sempre un processo, a volte lento e faticoso, che esige tempo e riflessione. Un perdono esigito solo e soltanto per compiere un dovere – anche se religioso – o «regalato» con superficialità, non ha radici e non può dare frutto.
Il perdono è la negazione di ciò che è semplice e a poco prezzo. Parafrasando Bonhoeffer possiamo tranquillamente dire che il perdono costa caro. A volte costa veri e propri atti di eroismo da parte della vittima. Solo a queste condizioni il perdono è in grado di  creare una catena di relazioni capaci di rinnovare una vita umana in modo profondo e totale.

Strumento di liberazione

Con molta solennità si insiste a celebrare fatti di guerra come fondamento di liberazione dei popoli. L’Africa e l’America Latina ricordano con molto orgoglio le gesta dei propri eroi che, quasi sempre, hanno conquistato la libertà per i loro popoli grazie a guerre e sollevazioni di massa, anche se non sempre l’indipendenza ha significato «libertà». Allo stesso modo, molti popoli europei, tra cui l’Italia, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale sono riusciti ad ottenere regimi democratici attraverso lotte civili crudeli e violente.
La Bibbia stessa pone come esempio dell’intervento di Dio a favore del suo popolo un fatto intriso di forti connotazioni religiose, ma che nello stesso tempo lascia intravedere azioni di sabotaggio, razzia e massacro (Esodo 12, 29.35).
Ancora una volta il cammino per arrivare a ottenere un cambio sociale e politico (e quindi la liberazione) è stato violento e sembra essere questo, in realtà, il paradigma necessario. Tuttavia, anche il popolo eletto e liberato ha dovuto percorrere un lungo cammino di purificazione e di formazione per riuscire a uniformare la sua vita secondo quello che era il progetto originale di Dio.
Nasce di conseguenza la domanda: è sufficiente ottenere la liberazione per essere liberi? È sufficiente avere coscienza di appartenere a un progetto di Dio, per riuscire a realizzarlo e a viverlo? Che cosa manca al cammino dei popoli che hanno raggiunto un alto grado di indipendenza e di benessere per sentirsi veramente e interiormente affrancati?
Viviamo una scissione fra realtà e memoria e a causa di questo incontro fallito si trascinano situazioni che non ci permettono di essere liberi. Molte volte il passato conserva al suo interno una grande carica di traumi e dolore che spesso cerchiamo di nascondere, invece di elaborarli e assimilarli.
Far sì che un passato negativo non ci condizioni troppo, al punto da non permetterci di vivere con speranza e libertà: questo è perdono.
Nel perdono, pertanto,  si incontra una forte carica di memoria rielaborata e, lì dove possibile,  trasformata in un elemento di forza.
Il perdono non è mai dimenticanza, perché non si può perdonare il nulla. Ci sono perdoni «facili», che in realtà non sono dei veri perdoni, in quanto, secondo quanto afferma il filosofo Jaques Derridá, si può solo perdonare l’imperdonabile.
Per il credente, il perdono è la realtà che ci introduce nella parte più profonda del mistero di Dio che è soprattutto compassione e misericordia. Per coloro che non fanno riferimento a un credo specifico, il perdono permette comunque di vivere l’esperienza della libertà e della gratuità.
Il perdono è gratuito, non ha altro prezzo che la capacità di mettere bene, lì dove c’è il male, la benda dove ci sono ferite. E tutto ciò non nasce da un mandato etico o morale: non si perdona perché si deve, ma soltanto perché lo si vuole. Quando qualcuno si sente obbligato e «deve» perdonare, crea sì la condizione di un nuovo incontro con l’altra persona, ma non entra nella dinamica del perdono che, essendo l’atto che esprime la massima forma di umanità, esige anche la massima libertà.
Chiaramente, uno può invitare o persino obbligare due bambini a perdonarsi, dandosi la mano: si tratta in questo caso di un’azione pedagogica; ma nel caso di un adulto questi potrà giungere a perdonare soltanto perché lo vuole e secondo le modalità che lui stesso desidera stabilire.
Per questo motivo, perdono e riconciliazione devono essere preparati attraverso una progressiva presa di coscienza, un cammino  che coinvolga la persona nella sua totalità, non solamente emozionale e neppure esclusivamente razionale. Il perdono è sempre un processo in cui emozioni, ragione, volontà e spiritualità reclamano il proprio spazio. Una complementarietà  fra questi elementi non è facile da ottenere, può succedere che uno di essi prenda il sopravvento sugli altri pregiudicando l’equilibrio del processo. Se questo avvenisse, il perdono potrebbe assumere la forma di un imperativo categorico, di una emozionalità senza criterio o di un’esperienza religiosa vissuta senza partecipazione. Il perdono, al contrario è qualche cosa di molto più complesso e completo.
Non si devono bruciare le tappe, ma occorre darsi del tempo. Bisogna misurare le forze per vivere un momento che è al contempo doloroso e gratificante, un regalo che sana le ferite lasciando cicatrici a volte profonde ma in grado di offrire una liberazione che non tronca la relazione con il passato.

Anche questo è perdono

La regione di Ayacucho, in Perù, è quella che più soffrì a causa della violenza di Sendero Luminoso, un movimento rivoluzionario maoista che seminò terrore e morte tra le comunità contadine delle Ande peruviane. Nel medesimo tempo, è la regione che più soffrì a causa della repressione militare, con soldati pronti a vedere in ogni abitante della zona, un «senderista» o un informatore della guerriglia.
Si calcola che il 60% delle vittime della violenza vissuta in Perù, tra il 1980 e il 2000 è originaria di Ayacucho.
Un giorno, in un momento di integrazione che stavamo avendo durante un ritiro con la gente di Ayacucho, ebbi modo di andare a fare una passeggiata con un gruppo di donne: tutte madri, spose e figlie di vittime della guerra. Un bambino mi prese per mano e una signora mi accompagnò. Parlando un po’ quechua (lingua franca andina, parlata da molte popolazioni indigene della Cordigliera, ndr) e un po’ spagnolo mi raccontò la storia sua e del bambino: «Questo bambino mi chiama nonna. Io gli ho detto che il papà e la mamma gli hanno voluto molto bene e ora, dal cielo, non cessano di essere con lui. In realtà, è figlio mio… e di un soldato».
Una delle forme di repressione più comune era ed è la violenza sessuale. A volte, pur di salvare la vita di figli o mariti, le donne sono obbligate a concedersi ai militari. Spesso davano vita a chi veniva poi riconosciuto come «figlio di militari» o «frutto della violenza».
«Io non posso perdonare – mi commentava la donna – perché mio figlio l’hanno ammazzato e a me, invece, è rimasto questo bambino».
Che significa perdonare in questo caso? Un caso che per altro non è assolutamente eccezionale nella regione di Ayacucho. Provai a intavolare un dialogo con questa madre-nonna.
Dal di fuori è assolutamente semplicistico cercare delle spiegazioni ben definite: bisogna trovarsi in una determinata situazione. Bisogna provare l’angustia e la vergogna che accompagnano ogni sguardo, ogni rapporto con il bimbo… ogni gesto. Tuttavia, è necessario rompere quella sorta di incantesimo malvagio che la situazione ha creato e che tiene prigionieri tutti i protagonisti di questa storia.
Davvero questa donna non ha perdonato, viene da chiedersi? Vuole bene al bambino, lo sta facendo crescere, gli racconta di un papà e di una mamma e vuole che provi affetto verso di loro: un papà violentatore ed una mamma che altro non è che lei stessa, colei che il bimbo pensa esser sua nonna.
Questo bambino cresce senza la presenza fisica di una famiglia, ma con un’affettività incanalata nella direzione corretta. Sarebbe una tortura esigire a questa donna semplice una forma di perdono che vada al di là di quella che lei, attraverso la sua saggezza e la sua forza interiore, ha già saputo dare.
Questa donna dice di non poter perdonare perché confonde il perdono con la accettazione quando, in questo come in altri casi, il perdono non significa accettare un male ricevuto, ma costruire la possibilità di vita per lei e per il bambino.
Fare del perdono un qualcosa di mitologico è molto pericoloso: deve essere semplicemente uno strumento di vita… un potentissimo strumento di vita.

Gianfranco Testa

Gianfranco Testa




Il mestiere di Dio

Perdono e misericordia: il volto nuovo della «civiltà cristiana»

Un perdono che non si coniughi con la misericordia e la giustizia non appartiene alle scelte del Dio di Gesù Cristo, che dall’amore «illogico» e viscerale per la sua creatura è capace di generare costantemente vita nuova.

Nella colletta della domenica 26a del tempo ordinario, del ciclo liturgico dell’anno A, la chiesa espone l’intenzione universale della celebrazione eucaristica con queste parole: «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua ad effondere su di noi la tua grazia…».
Il testo italiano non traduce esattamente quello latino che è più espressivo e dirompente: «Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas,  multiplica super nos misericordiam tuam». La traduzione letterale è: «O Dio, che manifesti la tua onnipotenza in sommo grado perdonando e avendo compassione, moltiplica su di noi la tua misericordia».
In questa preghiera, che esprime la dimensione della celebrazione eucaristica, l’assemblea dei fedeli non solo riconosce che il perdono e la compassione sono il segno dell’onnipotenza divina al sommo grado, ma chiede anche di moltiplicare la misericordia come se il sommo grado avesse bisogno di un supplemento di pietà. Questa straordinaria preghiera ci induce a modificare il nostro concetto di Dio e, di conseguenza, anche quello dell’uomo. In un tempo dove la violenza e la vendetta sono pane quotidiano, alimentate da un perverso sistema mediatico che aumenta esponenzialmente il degrado che descrive e di cui molto spesso si compiace, parlare di «misericordia e di perdono» può sembrare anacronistico. Noi lo ammettiamo: è anacronistico, perché la logica della fede non è sottomessa alla logica delle apparenze. Al contrario, essa va alla radice dell’essere e della persona perché solo le ragioni del cuore possono modificare anche i comportamenti estei.
Il mondo, avviluppato in una economia dove vige la legge del più forte che alimenta e fomenta ogni forma di perversione politica, sociale, militare, ha perso l’orientamento del proprio destino e si sta uccidendo con le sue stesse mani. Un mondo che non ha pietà nemmeno di se stesso perché è impegnato, in nome del guadagno immediato e senza fatica, a distruggere il futuro dei suoi stessi figli, è un mondo vittima della propria implacabile vendetta. È in questo mondo che dobbiamo annunciare la svolta della civiltà che deve sorgere alla base delle relazioni tra gli individui, i popoli, le nazioni, i governi e, ancora, tra l’umanità e l’ambiente, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest: la civiltà del perdono, il millennio della misericordia. I credenti dovrebbero sapere che il loro Dio esercita un solo mestiere, monotono, sistematico, senza variazione alcuna: perdonare, perdonare sempre perché nessuno vada perduto (Gv 6, 39).
Il Dio che si rivela nel volto di Gesù si era già manifestato nell’Antico Testamento. Il libro di Neemia, ce lo descrive come «un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso, lento all’ira e di grande benevolenza», incapace di abbandonare il suo popolo (Ne 9, 17). Nell’Antico Testamento, infatti, c’è una costante richiesta a Dio di perdonare i peccati e i torti ricevuti. Il perdono di Dio è la fonte della libertà e anche il fondamento dell’agire umano. Siracide, infatti, memore dell’identità di Dio che si manifesta nel perdono e nella misericordia, indica in Dio stesso il modello del comportamento umano: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i tuoi peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? Egli non ha misericordia per il suo simile e osa pregare per i suoi peccati?» (Sir 28, 2-9, qui 2-4). Nel Midrash (interpretazione rabbinica) «Sifré» a Deuteronomio 13,18, si legge: «Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te». In questi testi si stabilisce un nesso diretto tra il perdono concesso da Dio e il perdono condiviso dagli uomini: lo stesso nesso che si trova nella preghiera cristiana per eccellenza, il «Padre nostro» nella duplice versione di Matteo e Luca che descrive anche la differente visione teologica del perdono dei due evangelisti: due prospettive, un solo esito.
Nella versione di Matteo (che abbiamo appreso fin da piccoli e che ancora oggi preghiamo in ogni celebrazione Eucaristica) la sesta richiesta così si esprime: «Rimetti a noi i nostri debiti come (greco: hôs kài = come anche) noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12). Il perdono di Dio è commisurato al perdono degli uomini, in forza anche del dettato «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7, 2). In sostanza, si autorizza Dio a non esercitare il perdono se prima non è esercitato dagli uomini come misura del perdono di Dio. Nel contesto di Matteo, il perdono è un atto profetico che annuncia la misericordia di Dio, quindi non è solo mettere in pace la coscienza e ristabilire un ordine morale, ma è principalmente il «ministero» che proclama e svela il vero nome di Dio: «Dio di perdono».
Nella versione di Luca, invece, si usa la doppia congiunzione «kài gàr» (che alla lettera significa «e infatti»), ma qui ha valore causale e quindi può tradursi con «affinché»: «Perdonaci affinché [anche noi] possiamo perdonare». In Luca, il perdono di Dio diventa causa e forza per il perdono vicendevole tra gli uomini che non è possibile o quanto meno è difficile realizzare senza il perdono di Dio. Si chiede perdono a Dio «perché» si abbia la forza di perdonare i propri simili. In questo modo il perdono degli uomini diventa il «sacramento», il segno del perdono di Dio. Un atto di amore ricevuto non può che essere condiviso.
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova perché è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1, 1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo che l’ha stabilita e codificata nella quinta beatitudine: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt (5, 7).
Per capire la portata di questo discorso che è decisivo per la fede, è necessario lasciarsi conquistare dal significato delle parole della Scrittura, in modo particolare da due di esse: «misericordia» e «perdono». Ogni parola della Scrittura è come una persona: ha un’anima e un corpo. Il corpo sono le lettere e l’anima è il senso, il significato. Ogni parola è viva, danzante, piena di vita, per cui leggere una parola o una serie di parole non significa scorrere un insieme di lettere morte, ma incontrare una persona viva che interagisce con chi legge, trasmette emozioni, sentimenti, immaginazioni: ogni rapporto con le parole è un turbinio di sensi che non lascia mai indifferenti i protagonisti. Non è un caso che la tradizione giudaica insegna che Dio prima ancora di creare il mondo, creò dieci cose, tra cui le lettere dell’alfabeto che sarebbero servite per scrivere la Toràh, cioè per mettere in comunicazione Dio e l’uomo.

Un Dio «scandaloso»

Tutti ricordiamo le due parabole «scandalose» di Luca: il buon Samaritano che si fa carico del nemico Giudeo (Lc 10, 25-37) e la famosa parabola conosciuta comunemente come parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32). Tutte e due le parabole potrebbero essere catalogate come «vangelo del grembo», perché in esse e solo in esse Luca usa un termine specifico che in italiano è tradotto con «compassione» nella prima e con «commosso» nella seconda, non rendendo però giustizia al significato profondo del testo originario. Luca infatti usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthê» che traduce  l’ebraico rachàm (da cui rèchem e rachamìm),  termine da cui deriva la parola italiana misericordia. In ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita: «Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» (Lc 10, 33).
Lo stesso verbo «esplanchnìsthê» è usato da Luca  nella parabola del figliol prodigo che la traduzione italiana rende con «commosso»: «Quando era ancora lontano, il padre lo vide e, commosso, gli corse incontro» (Lc 15,20). Questa traduzione non fa giustizia al testo che, come abbiamo visto, si riferisce all’ebraico rachàm per significare che è un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore «a perdere» che solo una madre e un padre sanno sperimentare. Il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Questo è lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona «con grembo» perché vuole fare rinascere a vita nuova.
C’è un altro termine in italiano che riporta alla stessa radice ebraica ed è la parola «elemosina» che nel nostro linguaggio comune ormai è diventata espressione di un gesto benevolo verso qualche povero di strada: dare qualche centesimo. Fare elemosina ha anche il significato di dare e ricevere sporadicamente una miseria, come bene esprime l’espressione: «Non ho bisogno di elemosina!». Il termine invece è carico di senso, proveniente direttamente dal verbo greco «eleèō» che significa «ho misericordia». Anch’esso nella Bibbia si rapporta con l’ebraico rachàm, per cui, ancora una volta, ha attinenza con il «grembo/utero» materno che partorisce. «Fare elemosina», quindi, nel suo significato originario, etimologico significa «avere pietà/misericordia» nel senso proprio di accettare di essere generanti/partorienti: «fare elemosina» in conclusione significa «generare alla vita».
Nella liturgia eucaristica è rimasta una reminiscenza della celebrazione greca dei primi secoli ed è l’invocazione dell’inizio: Kýrie, elèison! Christe, elèison!», dove il verbo imperativo «elèison» è appunto una invocazione di perdono come misericordia che rigenera alla vita. L’esercizio della misericordia diventa quindi un atto di culto che ha valore sacrificale e rigenerativo perché condivide chi si è e ciò che si ha. Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e la testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanna, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, fredde e giudicanti, ma il grembo e la tenerezza di Dio, Madre/Padre che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.
Luca fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente la parte finale di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4, 18-21; cf Is 61, 1-2).
La citazione di Luca è molto importante specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (a cui fa riferimento il v. 19 del passo lucano) dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Luca omette la seconda  parte del versetto («un giorno di vendetta per il nostro Dio»), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio, in Gesù Cristo, viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia che è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11). Questa giustizia segna tutta la vita e il vangelo di Gesù: dall’accoglienza  dei peccatori (Lc 7, 36-50) fino ai suoi crocifissori che egli perdona in punto di morte (23, 34). Non c’è nulla della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, che viene a rivelare una giustizia estranea all’orizzonte umano:  Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio.

Senza condizioni

Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha «crocifisso» anche il peccato dell’umanità (Rm 5, 19), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 19). Questo consiste proprio nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza. Il perdono è per Dio  l’unico modo di essere giusto: il suo modo; egli non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente. Risulta chiara nell’episodio dell’adultera narrato nel vangelo di Giovanni: «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 10-11). Nel «perdono» di Gesù alla donna si evidenzia un atto di liberazione che è il punto di partenza per la vita nuova di una persona destinata alla morte per lapidazione da parte di coloro che l’avevano abusata. Etimologicamente «perdonare», in italiano e nelle lingue europee, è formato da un prefisso «per-» che esprime pienezza e abbondanza e dal verbo «donare»: il verbo composto significa pertanto «donare completamente/del tutto, donare in sommo grado/in abbondanza».  In altre parole «perdonare» è il verbo «donare» al superlativo. San Tommaso, rifacendosi ad alcuni testi del Nuovo Testamento (Ef 4, 32; 2Cor 2, 10) afferma che nel perdono Dio esercita un potere superiore a quello della creazione perché il dono per eccellenza è il perdono (S.Th., II-II,113,9, sc.).
Nella storia biblica vi sono due pietre miliari che riguardano il perdono e la misericordia. La prima è costituita dalla legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (Es 21, 24) che costituisce un passaggio di civiltà enorme. Prima di Mosè, infatti, la vendetta aveva un rapporto di uno a sette, degenerando fino a raggiungere l’impressionante cifra di uno a settanta volte sette, cioè un numero senza fine: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Làmech sarà vendicato settanta volte sette» (Gen 4, 24). Ciò significava che per un torto, una violenza, una morte, si riparava con sette torti, sette violenze, sette morti fino a Caino, ma fino a settanta volte sette da Làmech in poi. In questo contesto sociale, la legge del taglione introdotta da Mosè che, a noi sembra una barbarie, costituì un trapasso di civiltà portando la vendetta ad un rapporto paritario di uno a uno.
Bisognerà aspettare Gesù di Nazareth per piantare l’altra pietra miliare che cambia il volto e il cuore dell’uomo: la vendetta si ripara col perdono. All’ingiustizia e al male si risponde con l’amore e con la misericordia, fino a diventare il simbolo del vangelo del Dio incarnato: «Amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano» (Lc 6, 26). In un tempo in cui la vendetta è il pane quotidiano di molta parte dell’umanità e le folle sono assetate di sangue, in un tempo in cui popoli interi alimentano di vendetta il proprio futuro, uccidendo così solo la speranza dei propri figli, annunciare e testimoniare il perdono e la misericordia è la più grande rivoluzione che oggi si possa compiere perché essa non si occupa di modificare le strutture, ma si preoccupa di toccare il cuore e la parte profonda dell’animo umano: là dove avviene l’incontro tra Dio e la persona e dove ciascuno di noi può fare propria la preghiera di Davide: «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rachamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3) e sentire come una eco in sottofondo  la voce degli angeli che cantano: «Il Signore, il Signore Dio di pietà e di misericordia, lento all’ira e ricco di tenerezza e verità» (Es 34, 6). Di fronte a questo progetto di civiltà non ci resta che accogliere l’invito di Gesù al dottore della Legge nella parabola del buon Samaritano: «Va’ e anche tu fai così» (Lc 10, 37).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




A Scuola di perdono

Espere: laboratorio della pace

Dalla Colombia, un paese che da più di 60 anni si trascina in una situazione di guerra e violenza arriva un forte segnale di pace grazie all’intuizione e al lavoro di padre Leonel, missionario della Consolata, fondatore della «Fundación para la reconciliación». Ci racconta lui stesso come attraverso vere e proprie «scuole-laboratorio» di perdono e riconciliazione molte persone afflitte da un passato di dolore stiano imparando a guardare con occhi diversi se stessi, gli altri e il mondo.

Del mondo globalizzato abbiamo conosciuto il volto più tetro grazie alle macro e micro geografie della violenza. Abbiamo imparato la storia grazie al sillabario della morte, dei grandi massacri, delle vendette storiche. Il caleidoscopio gira, ed in esso appaiono le immagini di Treblinka, dei Ghetti di Varsavia, di Beirut, della Bosnia, di Mogadiscio, dei Balcani, l’11 Settembre, l’11 Marzo di Madrid, il massacro del liceo di Columbine, luoghi che diventano codici di riferimento per l’enciclopedia universale dell’esaltazione, dell’odio e della vendetta. Timor Est, Iran, Afghanistan, Cambogia, Tibet, Sud Africa, Argentina, Cile, Uruguay, Salvador, Etiopia, Martin Luther King, il Mahatma Gandhi, le Madri della Plaza de Mayo, Colombia, il Chiapas non indicano solo luoghi e persone, ma sono punti di riferimento fondamentali per l’archeologo della conflittualità.
Alle cause obbiettive del malessere globalizzato, si sommano le cause soggettive dell’analfabetismo emozionale e di quello morale, di individui e nazioni. Persone e paesi che soffrono fratture intee dovute agli strascichi delle violenze, che riproducono l’odio e la vendetta nel contesto immediato, nella famiglia, in gruppi e regioni. E i poveri, anche a causa della loro rabbia, diventano sempre più poveri.
Di fronte a tutto ciò, si rende sempre più necessario intessere una rete mondiale di pace. Per questa ragione ci siamo fermati un istante e interrogati sullo spazio che alla vita viene concesso  nel grande scenario mondiale incancrenito oggi da tanto odio e violenza.
Motivati da un profondo rispetto per la dignità umana, abbiamo creato a questo riguardo la Fundación para la reconciliación (Fondazione per la riconciliazione). L’obiettivo centrale di questa organizzazione è quello di introdurre nelle persone e nelle istituzioni, la cultura e la pedagogia del perdono e della riconciliazione con proposte incisive e utili al superamento dell’irreversibilità dei rancori e del desiderio di vendetta. Questo approccio differente alla vita dovrà generare dunque, narrative, storie e linguaggi nuovi che mettano in primo piano le vittime e le popolazioni più vulnerabili, garantendo che si foiscano verità, giustizia restaurativa, conservazione della memoria e le garanzie che i fatti violenti non verranno ripetuti.
Nel suo piccolo, la Fondazione  ha un grande sogno: proporre un sistema mondiale di riconciliazione che rappresenti un grande spazio di confronto per tutti i popoli della terra. Un forum globale incaricato di organizzare globalmente uno scambio di modelli pedagogici e schemi culturali orientati all’impegno a favore della vita e alla ricostruzione interiore di persone, gruppi e nazioni.
Sono migliaia gli sforzi compiuti oggi nel villaggio globale  contro il Golia dell’ingiustizia. Sforzi sovente deboli, vanificati da una mancanza di cornordinamento e lavoro di rete. A questi tentativi si devono obbligatoriamente unire quelli delle congregazioni religiose, maschili e femminili, chiamate dal proprio carisma specifico ad essere immagine del volto misericordioso di Dio e del cuore materno della chiesa.

Un programma di vita

Parlare di perdono e riconciliazione esige un cambio radicale di paradigma. Quali mezzi e strumenti dovremo ancora escogitare per promuovere l’irrazionalità del perdono contro l’irrazionalità della violenzia, l’irrazionalità della riconciliazione contro l’irrazionalità della guerra? Non è sufficiente «parlare» di perdono e basta. Si può pensare di rovesciare una realtà di odio in una di amore soltanto se chi si è sentito vittima di una qualsiasi forma di oppressione fa pratica di perdono nella sua propria vita. Il perdono non è soltanto un esercizio razionale, ma ha in sé dimensioni emozionali, comportamentali e spirituali che devono essere toccati in un processo di recupero dell’armonia interiore che il subire un fatto violento ha fatto perdere.
Bisogna anche distinguere bene sulle differenze che esistono fra il perdono e la riconciliazione. Il perdono è un esercizio che il soggetto opera su se stesso. L’obiettivo è quello di estrarre il veleno della rabbia e del rancore che il ricordo di una violenza subita tende a riprodursi nella persona vittimizzata, contaminando negativamente tutto il suo essere. La riconciliazione, al contrario, è il passo che la vittima fa verso colui che l’ha offesa. È, quindi, un esercizio sociale in cui vengono ripristinati i legami interrotti con la persona che è stata causa del male. La riconciliazione non è mai possibile se prima non si è perdonato mentre, al contrario, si può giungere a perdonare senza però avere la possibilità (o la volontà) di riconciliarsi. 
Le violenze sono causate, in grande misura, da un senso di giustizia basato sulla punizione e la vendetta. La forca e la fucilazione sono, nelle dovute proporzioni, amplificazioni di castighi impartiti dai genitori ai loro figli allo scopo di formare moralmente il loro carattere. È necessario fare un inventario delle modalità del castigo, approfondendo le conoscenze etnografiche e culturali, sistematizzando le credenze, i miti di riferimento e le cosmovisioni che presentano la vendetta come alternativa all’educazione morale.
Allo stesso tempo, è urgente individuare, nell’ambito del patrimonio culturale dei popoli, tipologie diverse da quelle che sostengono l’odio e la rivalsa. Occorre dar vita a un «disarmo della parola» che agevoli il dialogo interpersonale, lo scambio interculturale ed intra-culturale portandoli ad elevare il diritto alla vita e all’amore all’interno della globalizzazione imperante.
Il mondo ha bisogno di rielaborare la propria memoria universale, la propria narrativa degli avvenimenti sotto la luce di una cultura di perdono e riconciliazione.
In questo senso, la sapienza di condividere la «memoria ingrata» di avvenimenti nefasti aiuta a esorcizzare i fantasmi creati dall’odio e dalla vendetta, dalle ideologie della colonizzazione e dello sterminio, da differenze cosmologiche e anche da rapporti con divinità diverse.
Quando il ricordo non è grato, la vita si fa triste. Quando il dolore vissuto nel passato impedisce di camminare, il futuro diventa difficile. È fondamentale, nella creazione di una memoria universale che difende la vita, interpretare il passato con un proposito chiaro: imparare dalle lezioni della storia, superando i pericoli insiti in una memoria non «inventariata», lasciata a se stessa, in balia di sentimenti come negativi e inquinanti: rivalsa, vendetta… morte. La vita non può fiorire finché affonda le sue radici negli oscuri labirinti del dolore e della tragedia.
Senza voler misconoscere in alcun modo le rivendicazioni dei poveri e marginalizzati, riteniamo che nessuna contraddizione umana sia degna dello spargimento di sangue.

Le «Espere»

Nello sforzo di trovare e percorrere strade alternative all’odio e alla violenza, approfondendo cammini di  perdono e riconciliazione, la Fondazione ha dato vita al progetto «Espere», un acronimo che sta per Escuelas de perdón y reconciliación (Scuole di perdono e riconciliazione).
Le «Espere» sono gruppi di 10-15 persone che decidono di vivere una forte esperienza di insieme volta a curare le ferite (rabbia, rancore, odio, desiderio di vendetta) causate dalla violenza e dai conflitti quotidiani della vita. Sono persone che, a partire ciascuna dalla propria spiritualità, vogliono aprirsi al perdono ed alla riconciliazione, per ritrovare un’armonia perduta a livello personale e sociale, nonché per contribuire, attraverso la ricchezza della propria esperienza, ad instaurare nuovamente la pace nel quartiere, nella città e nel paese dove esse vivono. Questi gruppi si riuniscono con una periodicità settimanale, in sedi informali, ma stabilendo alcune regole precise, soprattutto per quanto riguarda l’assoluta confidenzialità che deve vigere tra i partecipanti.
La creazione di un «ambiente sicuro» è infatti fondamentale a creare empatia fra i partecipanti, condizione necessaria fra persone chiamate a esprimere e condividere il proprio dolore. Il gruppo diventa allora una sorta di «contenitore» il quale fa sì che il dolore non si disperda e aiuti le persone che vi partecipano a ricomporre il mosaico della propria vita ritrovando le tessere che erano andate perdute.
Nelle «Espere» si sviluppano e si mettono in pratica programmi metodologici volti a rafforzare iniziative cittadine per la pace in Colombia; consolidarli, diffonderli e valutarli collettivamente è un lavoro che abbiamo intrapreso e ci impegna molto. Cerchiamo di farlo riunendo forze ed esperienze con altre istituzioni, sempre attenti a quelle che sono le vittime della violenza sociale e politica.
La spina dorsale di queste scuole è rappresentata dagli «animatori». Sono loro, l’anima e il nerbo di quest’iniziativa. Grazie a loro intendiamo compiere un viaggio fin nel cuore pulsante del paese, luogo in cui sono custodite le emozioni, gli affetti, le cose più profonde ed i più teneri sentimenti, quelli che fanno emergere il meglio di noi stessi. Chiaramente, desideriamo arrivare anche a quel luogo fragile e lontano in cui nascondiamo il nostro odio, le nostre rabbie ed i nostri rancori.
Gli animatori sono «gente comune»: uomini, donne, giovani di una determinata zona, scelti e preparati specificatamente per aiutare i partecipanti delle escuelas a recuperare l’armonia perduta. A volte, in questi piccoli «laboratori del perdono» le persone giungono a scoprire di non essere soltanto vittime, ma di essere nel contempo vittime e oppressori. Guerriglieri, paramilitari, soldati o delinquenti comuni fanno la sorprendente scoperta che dietro la rabbia accumulata in tanti anni di violenza vi sono offese del passato che si sono ormai tramutate in odio represso, un’infezione che occorre affrontare e curare per tempo, prima che faccia danni irreparabili alle vite delle persone.
L’animatore ha un compito fondamentale: aiutare la vittima (che nel frattempo può essersi scoperta anche nella sua qualità di oppressore) a sanare le fratture che si sono verificate nei tre grandi «pilastri» dell’esistenza umana: il senso della vita, la sicurezza e la socializzazione. Aiutare la persona a intervenire positivamente in questi ambiti significa aiutarla a riscoprire un’armonia e un equilibrio che sono andati perduti a causa di uno o più episodi traumatici. L’animatore deve anche sottolineare con forza che l’armonia non si conquista soltanto con motivazioni di tipo razionale o cognitivo. Come si ricordava anteriormente, il processo è olistico e riguarda la dimensione del pensare (cognitiva), dell’agire (etico-comportamentale), del sentire (emozionale) e del trascendere (spirituale).
Abbiamo scelto la parola «scuola» per sottolineare la necessità di un programma, di un metodo e di contenuti. In modo analogo, la parola scuola si riferisce al processo di condivisione della saggezza collettiva che sgorga quando le persone si riuniscono volontariamente nella ricerca di obiettivi comuni.
La metodologia, come si è detto, sceglie terapie di gruppo. In questi spazi l’individuo può raccontare la propria storia: far memoria e narrare la ferita che porta dentro sperimentando il potere taumaturgico di queste dinamiche di insieme. Infine, in questi spazi e attraverso questo processo, le vittime iniziano un nuovo e graduale percorso di socializzazione. Recuperando la capacità di relazionarsi adeguatamente con gli altri potranno anche iniziare, quando le circostanze lo permettano, un cammino di riconciliazione che li avvicini nuovamente a chi nel passato ha fatto loro del male.
Si tratta di un processo a lungo termine, che mira alla creazione della cultura della riconciliazione per soppiantare l’esistente «cultura» della rivalsa. Si tenta di superare la dialettica dell’occhio per occhio, dente per dente, in modo da favorire l’atmosfera adeguata a processi di verità e giustizia, condizioni irrinunciabili per una liberazione definitiva e vera dall’odio e dalla violenza.

Nel dolore della violenza in Colombia

L’area pensata originariamente per questo progetto è il territorio colombiano. All’interno di esso il programma si è sviluppato in accordo con le circostanze e le esigenze di determinate zone o gruppi di persone, adattandosi alle modalità, ai luoghi o all’intensità dei conflitti che generano violenza politica e sociale nel paese.
Così, ad esempio, nelle comunità indigene del Nord del Cauca, presso il popolo Nasa, il lavoro della Fondazione, si traduce nell’accompagnamento dei giovani indigeni che fanno ritorno a casa dopo essere stati legati a gruppi armati. Il lavoro viene svolto insieme, da animatori, ragazzi e autorità indigene consentendo così un armonioso reinserimento di questi giovani nella comunità di appartenenza, in consonanza con la tradizione ed il diritto indigeno.
Un altro contesto particolare è quello svolto fra le comunità afrodiscendenti dove prevale il numero di persone sfollate a causa della guerra.
La Fondazione, grazie al modello dei Centri di riconciliazione, gestisce l’affiancamento individuale e collettivo a queste popolazioni, cercando di rafforzare i vincoli comunitari per generare una tesaurizzazione di ricchezza sociale, indispensabile per superare  il conflitto armato in Colombia.
A livello cittadino, l’impegno principale è a livello di collaborazione con le istituzioni educative e il Segretariato dell’Istruzione. La Fondazione cornopera attraverso le «Espere» in 28 scuole del distretto di Bogotá con gravi problemi di convivenza intea ed estea, con presenza di bande e tifoserie violente, le cosiddette barras bravas.
Il reinserimento in società di soggetti che hanno militato in gruppi armati, la loro integrazione presso le comunità riceventi, nonché la sostenibilità dei loro progetti di vita, sono altre grandi sfide per la Colombia di oggi. In questo campo, la «Fondazione per la riconciliazione» porta avanti, per mezzo delle «Espere», un programma di formazione di ex membri di gruppi armati già reinseriti. Saranno poi loro le persone in grado di aiutare coloro che abbandonano la lotta armata e iniziano un processo di re-inserimento nella società. Abbiamo chiamato questo programma: «Leader della pace».
Infine operiamo per «fare rete» con tutti gli operatori del settore in grado di collaborare a costruire processi sostenibili di pace. In  Colombia, la dinamica virtuale di intercambio e comunicazione di esperienze e modelli nell’ambito di pedagogie per la pace, è debole; rafforzarla è uno dei nostri obiettivi primari.

Che futuro hanno le «Espere»?

I crescenti indici di violenza nel mondo sono ragione sufficiente affinché si sostengano le metodologie del perdono e della riconciliazione. Vari motivi possono dimostrare più profondamente la validità di un progetto come quello portato avanti dalla «Fondazione per la riconciliazione».
Un primo motivo va direttamente al cuore della persona umana: rabbie, rancori  e desiderio di vendetta sono fattori soggettivi della violenza (sia di quella politico-sovversiva, sia di quella sociale). Trattarli adeguatamente costituisce la condizione senza la quale sarebbe impossibile qualsiasi processo di pace sostenibile.
Inoltre, l’assenza di modelli di assistenza psicosociale a vittime della violenza (reinseriti e popolazioni vulnerabili in aree di violenza) richiede presenze che moltiplichino sforzi per diffondere la cultura della riconciliazione.
Non bisogna neppure nascondere il fatto che la violenza che matura in famiglia e nella scuola genera soggetti potenzialmente violenti. Se organizzazioni come la nostra riescono a giungere a questi nuclei basilari della società si potrà prevenire, un domani, il reclutamento di nuovi soggetti armati da parte di gruppi impegnati nel conflitto o ai margini della legge.
La Fondazione cerca di lavorare anche sulla formazione del cittadino. Dare alle persone strumenti che le aiutino ad annullare le conseguenze della violenza, significa aumentare la loro capacità di mobilitazione, organizzazione e gestione politica nella rivendicazione dei loro diritti.
Parzialmente collegato a questo punto, occorre sottolineare il lavoro svolto in seno ai gruppi etnici che, storicamente, sono stati marginalizzati e oppressi come le comunità indigene e afrodiscendenti. Inoltre, la cosmovisione indigena e il diritto proprio che ad essa si ispira apportano nuove ed originali modalità di comprensione e soluzione dei conflitti ancora sconosciuti dalle comunità nazionali.
Oggi le «Espere» stanno creando, per la Colombia e per il mondo, un metodo innovativo di verificata efficacia per garantire processi sostenibili di pace sia a livello collettivo sia a livello intra-personale, famigliare e comunitario.
Grazie alla cultura ed alla pedagogia del perdono, inteso come risorsa intrinsicamente politica più che come virtù religiosa, vogliono favorire narrative nuove che aiutino vittime e carnefici a liberarsi dalle catene del passato alle quali restano irrimediabilmente legati. L’affrancarsi da queste catene potrà creare un domani diverso in cui possa esserci più spazio per verità, giustizia e la pace, condizioni fondamentali per il consolidamento della democrazia in Colombia e nel mondo.
Davvero, merita ripetere come un mantra la famosa frase del Premio Nobel per la pace sudafricano Desmond Tutu: «Senza perdono non c’è futuro!».

Di Leonel Narvaéz Gomez

UN LAVORO CHE PREMIA E…
VIENE PREMIATO

Fondate nel 2002, le «Espere» hanno compiuto in questi anni grandi passi avanti. Le ragioni di questo successo si devono all’instancabile lavoro compiuto «sul terreno», all’arricchimento offerto dallo scambio di esperienze inteazionali e dall’appoggio di esperti di varie università sia nazionali che inteazionali, fra cui le prestigiose Cambridge e Harvard.
Oggi, attraverso il programma «Espere», la Fondazione può vantare:
– 2.500  Animatori «Espere» formati in Colombia.
– 1.500  Animatori in Cile, Perù, Brasile, Messico, Repubblica Dominicana,  USA, Canada, Sud Africa, Botswana, Zambia, Lesotho.
– Una rete in espansione di organizzazioni statali e non governative e attivisti della pace, distribuita nelle Espere di 43 comuni, in 20 dipartimenti della Colombia.
– Elaborazione di materiali pedagogici, schede, dispense e strumenti didattici per la  pedagogia del perdono e della riconciliazione «Espere».
– Sviluppo di modelli di gestione collettiva della pace.
Oltre a questi «frutti» quantitativi del lavoro della Fondazione, si osservano altri risultati, non tangibili ma altrettanto importanti:
1. Psicologici: le persone che partecipano alle «Espere» rafforzano il senso di unità della propria personalità, agendo sui fattori di instabilità emozionale, malattia fisica, impoverimento progressivo, senso di sfiducia causati dalle violenze.
2. Sociali: a partire dal momento del primo incontro nell’ambiente della formazione, «l’ambiente sicuro» favorisce il riallacciarsi di legami, il superamento della memoria dolorosa (individuale e collettiva), la creazione di nuove narrative, la costruzione di propositi individuali e collettivi per la rivendicazione dei diritti, l’ideazione di agende volte a superare le fratture psicologiche e sociali e la sensazione di sentirsi affiancati per  intraprendere progetti di vita alimentati nell’interattività sociale, politica  e comunitaria.
3. Politici: far patrimonio comune dei temi come la verità, la giustizia, il patto, la memoria ed il non ripetersi delle cause e dei fatti violenti è un’urgente necessità della società civile in Colombia. Nelle «Espere», si pensa che se il paese intende progredire nella costruzione di agende collettive per la pace appoggiate dalle collettività, è imperativo qualificare la capacità di discernimento e comprensione sui grandi temi, riguardo ai quali i gruppi politici ed i loro rappresentanti promuovono la partecipazione politica e comunitaria dei cittadini colombiani.
Un numero sempre maggiore di persone e di istituzioni nazionali ed inteazionali vedono nella cultura e nella pedagogia del perdono e della riconciliazione una proposta irrinunciabile per il raggiungimento della pace in Colombia e nel mondo. Questo crescente riconoscimento ha fruttato alla Fondazione numerosi attestati di stima e premi.
Dopo il successo dell’esperienza delle «Espere», adottati da 60 Comitati di quartiere nella sola città di Bogotá, nel luglio del 2004 il Consiglio della città ha conferito alla «Fondazione per la riconciliazione» la croce d’oro dell’Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez, quale riconoscimento del lavoro a favore della convivenza e la pace nella città.
Nel mese di settembre 2006, la «Fondazione per la riconciliazione» ha ricevuto a Parigi la menzione d’onore Premio Unesco di educazione alla pace 2006 per contributi pratici, innovativi e d’impatto per la costruzione della pace in Colombia e nel mondo.
Il 30 novembre scorso, infine, il Congresso della Repubblica di Colombia ha conferito alla Fondazione il prestigioso Orden de la Democracia «Simón Bolivar», per l’impegno dimostrato nel promuovere il valore della pace all’interno del paese sudamericano.


Leonel Narvéz Gomez




Libera il presente

Uno sguardo alla psicologia del perdono

Saper dire: «Ti perdono» è il traguardo finale di un percorso fatto di piccoli successi e sofferenza. La «purificazione» del passato, con la conseguente liberazione dalla rabbia e dal risentimento è il premio finale che spetta a chi, nell’oggi, sceglie questa via per gestire i suoi conflitti, verso una vera e matura riconciliazione.

«Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura».
(Voltaire)
«Il perdono è l’oamento dei forti».
(Mahatma Gandhi)
«Perdonare e dimenticare vuol dire gettare dalla finestra una preziosa esperienza già fatta».
(Schopenhauer)
«Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono».
(Giovanni Paolo II)

Sono molti i pensatori e i filosofi che nel corso dei secoli hanno fatto affermazioni sul perdono. Di fronte a comportamenti aggressivi di cui le cronache ci foiscono sempre più numerosi esempi sembrerebbe che questo termine sia obsoleto e ormai fuori moda.
Eppure l’esperienza della «rottura» è propria di ciascuno di noi: se le grandi atrocità ci pongono spesso in atteggiamento da spettatori, le sottili rivincite, le piccole vendette e le disattenzioni non casuali sono all’ordine del giorno nel nostro interagire quotidiano.
Possiamo imbatterci in un percorso di progressive incomprensioni che ingenera in noi un malessere diffuso, oppure essere oggetto di un attacco diretto da parte di qualcuno: il risultato è sempre una rottura che si genera al nostro interno, una ferita che provoca sofferenza. Il rapporto con l’altro è disturbato, interrotto, bloccato; la pace è perduta.
Da alcuni anni ho iniziato ad indagare se la parola «perdono» fosse da leggersi esclusivamente in chiave religiosa, oppure se appartenesse anche all’ambito della psicologia. La ricerca che ne è scaturita mi ha portato a scoperte interessanti sull’argomento.
Il perdono può essere definito come quel percorso che permette a chi è stato vittima di una violenza di non mantenere aperta la ferita ricevuta, ma di recuperare la fiducia nel valore della relazione con l’altro che l’offesa aveva distrutto.
Si parla di percorso in quanto è un processo di cambiamento che richiede un processo di riconversione che può durare a lungo nel tempo. Solo il tempo infatti può modulare il suo passaggio da un puro atto di volontà al coinvolgimento della emotività e di un modo nuovo di comportarci con noi stessi e con gli altri. Non va dimenticato che in una visione globale dell’uomo le sue componenti fisica, cognitiva, emotiva, comportamentale e trascendente influiscono tutte sul suo equilibrio di vita: se c’è da operare una ristrutturazione, essa sarà duratura solo se investe e coinvolge tutti questi aspetti.
Quando si usa il termine «vittima» ci vengono alla mente i grandi crimini perpetrati ai danni dell’umanità. Ciò è assolutamente corretto, ma a questa immagine va affiancata qualsiasi situazione in cui una carenza di attenzione e di amore, volontaria o accidentale, produce una sofferenza. Questo passaggio fa sì che noi stessi impersoniamo in momenti diversi tanto il ruolo di vittime che di aggressori: solo l’empatia e il tentativo di capire chi ci ha feriti ci rendono capaci di perdonare.
Molte volte l’altro non ha veramente l’intenzione di farci del male, ma siamo noi ad attribuirgli questa intenzionalità trasformandolo in un nemico da cui difenderci. Proiettiamo cioè qualche nostra paura o ansia sull’altro e creiamo senza accorgercene una situazione di tensione.
Quando si subisce un torto, soprattutto se l’entità del danno subito è grande, succede che si rompe il rapporto di fiducia con l’altro o più in generale verso la vita. Ma allora, come essere fiduciosi di fronte a situazioni che ci feriscono e ci portano a difenderci?
Il più delle volte la situazione di sofferenza in cui ci veniamo a trovare sfocia in un processo di generalizzazione, cioè pensiamo che tutte le persone che hanno le caratteristiche di chi ci ha offeso ci potrebbero a loro volta ferire («tutti gli stranieri…», «tutti gli uomini fanno così…», «tutti i giovani non…»). La delusione e la sofferenza vissute all’interno di una relazione per noi significativa hanno provocato l’innalzamento delle nostre difese e il crollo della nostra capacità di fidarci degli altri, di chiunque si tratti.

Fuori e dentro di sé

L’irrigidimento interno e il ricorso a dei meccanismi per difenderci chiudono la nostra attitudine a condividere con gli altri emozioni e stati d’animo, e senza essercene accorti, ci troviamo a coabitare con un nemico interno: l’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte che ha il potere di legarci indissolubilmente a una persona, facendo sì che l’aggressore rimanga presente nei ricordi, nei pensieri, nei progetti di chi è stato offeso.
Il percorso del perdono implica proprio la liberazione da questo nemico interno (l’odio declinato nelle sue varie accezioni: rabbia, rancore, delusione, tristezza, vendetta,…) per portarci a una situazione di rinnovata libertà.
Dal punto di vista etimologico perdonare significa «dare in dono». Il perdono è di fatto un dono perfetto che agisce come una doppia liberazione sia dell’offensore, che non è più identificato con la sua offesa, sia dell’offeso, liberato dal suo rancore.
La psicologia modea sta iniziando ad interessarsi al perdono in quanto esso ha la capacità di attenuare il risentimento e il rancore provocando su chi perdona un effetto catartico. Questa liberazione interiore permette di reinvestire le energie prima bloccate dalla rabbia in attività e stati emotivi costruttivi. La rabbia infatti catalizza molte delle nostre energie psichiche e ci rende poveri di energie da investire in nuovi rap­porti e relazioni soddisfacenti.
In un recente convegno, Carlos Sluzki (2007, Torino), indicava il perdono come un percorso costruttore di senso per la gestione dei conflitti.
Alla luce di una propensione delle persone a condurre fuori o dentro di sé le cause dei fatti che capitano loro, Sluzki attribuiva ai due gruppi una diversa tendenza a provare sentimenti di vergogna o di umiliazione di fronte alle offese ricevute.
Ci sono persone che propendono a «intealizzare», cioè a guardare i propri pensieri e i sentimenti provocati da qualche offesa cercando dentro di sé la motivazione di quanto accaduto. Questo stile conduce a individuare in se stessi elementi scatenanti la situazione.
L’altro gruppo di persone invece propende a «estealizzare», cioè a condurre fuori di sé le cause di ciò che di spiacevole è accaduto, attribuendolo a chi gli sta attorno.
Questo meccanismo, chiamato di «attribuzione causale», lega lo stile individuale di una persona a una specifica modalità di rielaborare la rabbia: nel caso di coloro che tendono a guardarsi dentro si produce il sentimento della vergogna, mentre nel caso di coloro che cercano le cause fuori da sé, quello di umiliazione. Vergognarsi è vedere se stessi attraverso gli occhi dell’altro che ci ha offesi, è guardarsi con occhi sostanzialmente negativi: ci si chiude in se stessi coabitando col proprio senso di colpa. L’umiliazione invece è il senso di essere stati trattati ingiustamente che porta a rivolgere verso l’esterno il risentimento che si cova dentro con spirito vendicativo, che trova il suo motivo d’essere nell’umiliazione subita.
È evidente che entrambi i percorsi non contribuiscono a ristabilire un equilibrio armonico della persona che, da un lato nasconde dentro di sé i sentimenti di colpa suscitati dall’aggressore, dall’altro individua le modalità con cui rivalersi sull’altro facendogliela pagare.
Il perdono è la terza via, strada per riappacificarsi con il proprio passato e rendersi nuovamente disponibile all’esperienza attuale. 
Solo nel qui e ora siamo in grado di gustare appieno l’esistenza della vita, con le giornie e le sofferenze che di essa fanno parte. Per vivere in pienezza il presente però, è fondamentale riuscire ad attribuire al passato il giusto significato. Occorre talvolta una revisione critica di fatti e avvenimenti della nostra storia, tenendo aperta la possibilità di perdonare e di perdonarci.
Non va dimenticato infatti che il «dono» del perdono può essere rivolto a chiunque: possiamo perdonare persone conosciute, ma anche ignote oppure non più in vita. Chiunque sia il destinatario di questo nostro dono, scopriremo però  che i primi beneficiari del nostro atto siamo noi stessi, ricevendone in cambio preziosi frutti di pace e di serenità. C’è dunque una doppia azione tanto su chi perdona che su chi è perdonato.
La motivazione che spinge verso questo cammino può essere di tipo altruistico, spinti da un atto di bontà o dalla ricerca  del risanamento per l’altro. Ma la scelta del perdono vale anche a partire da un atto di volontà, con una spinta di tipo razionale per migliorare la qualità della nostra vita attraverso la rielaborazione della rabbia.
In questo senso il perdono si configura come un processo terapeutico che libera il singolo dalla dipendenza dall’odio, restituendogli la capacità e la possibilità di sperimentarsi in modo costruttivo e libero in nuove esperienze.
Va sottolineato come il perdono, pur strettamente legato alla capacità di riallacciare rapporti, non implica tuttavia la necessità di riconciliarsi con chi è stato per noi offensore. La riconciliazione con l’altro ci porta a riavvicinarci a chi ci ha feriti, ma questo si può fare solo quando il rancore dentro di noi si sia acquietato. È un passaggio successivo, per il quale dobbiamo aspettare e cogliere il momento opportuno, sapendo rispettare i nostri tempi interni, che sono legati a molteplici fattori, non ultimo la profondità della ferita che ci è stata inferta.

Chi perdonare?

Se guardiamo attorno a noi, gli ambienti che necessitano la scelta della via del perdono come modalità relazionale sono molti: dal campo internazionale, fino a quello della famiglia e della relazione nella coppia. De Beni (2002, Brescia) in un convegno su «Dono e Perdono» parla dell’amore (definito «straordinaria esperienza di accoglienza») come del dono che, fin da bambini, dovremmo ricevere per forgiarci a diventare adulti «capaci di riconoscerlo, reinventarlo e metterlo a disposizione dell’altro». Afferma anche che «il dramma di tanti conflitti, anche nella scuola di oggi, è la mancanza di amore per i giovani: guidati da una professionalità neutrale e distaccata, si dimentica non la cultura, ma la cultura dell’essere accolti. E se ci dimentichiamo di questo i giovani non impareranno né geografia né storia… ma cercheranno di accaparrarsi quello spazio che gli è stato negato, e lo esprimeranno magari nel modo sbagliato».
Le brusche interruzioni con cui le piccole e grandi violenze spezzano il circuito dell’amore (e con esso l’equilibrio e il benessere psichico delle persone) possono essere ricucite solo con il perdono. Esso ci permette di:
– superare il passato senza rimanee schiavi o prigionieri
– liberarsi dalle emozioni negative, quali rabbia e rancori
– ristabilire la fiducia nella vita e nel genere umano
– ripristinare l’equilibrio psicologico destabilizzato dalla violenza.
Vorrei concludere citando il mondo dell’infanzia e i meccanismi evolutivi dei bambini. Ne «Il mondo incantato» di Bettelheim (1975), parlando del valore delle fiabe tradizionali nella crescita dei più piccini, l’autore constata che la magnanimità e il perdono difficilmente appartengono alle trame delle fiabe per l’infanzia, sottolineando come ciò sia assolutamente positivo per una sana crescita del bambino. Egli ha bisogno di sapere con chiarezza cosa sia buono e cosa sia cattivo, in modo da formarsi una capacità di giudizio morale che ancora non possiede. Per questo motivo i personaggi delle fiabe sono unidimensionali (o malvagi o eroici), ma non si situano mai in una via di mezzo. Essi sono dei simboli che aiutano il bambino a riconoscere le sue stesse emozioni (che lo investono sia sotto forma di gioia che di rabbia) senza considerarle distruttive per se stesso.
Nel mondo adulto spesso rischiamo di comportarci come i bambini (senza però esserlo!): l’adulto infatti ha già compreso e sperimentato la coesistenza degli opposti, come una stessa persona possa avere aspetti sia buoni che criticabili, così come sa che nella sua vita si alteeranno situazioni in cui sarà vittima e altre in cui creerà vittime.
A noi in quanto adulti, viene richiesta una visione dell’uomo dove non ci siano «streghe cattive e fate buone», bensì uomini e donne con sentimenti ed emozioni contrastanti, talvolta anche distruttivi. La strategia del perdono, che parte dalla «decisione» di intraprendere un cammino di liberazione interiore, ci insegna a guardare all’uomo nella sua unitarietà e ci spiana la strada verso la libertà.

di Maria Nosengo

Maria Nosengo




L’Africa «Feizhou» e l’impero di mezzo

Introduzione

Il più grande paese in via di sviluppo del mondo. Così la Cina – meglio i suoi dirigenti – definisce se stessa. La sesta economia del pianeta, scrivono gli economisti.  E ben presto sarà la quinta, grazie a un tasso di crescita che si avvicina al 10% annuo.  Ma è anche vero che il debito estero è intorno ai 228,6  miliardi di dollari e il paese occupa solo l’81simo posto della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano, classificato questo come «medio».

Quello che è certo è che il paese ha un grande bisogno di energia: dal 2005 è il secondo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti. Dal 10% della domanda a livello mondiale, passerà al 20% nel 2010.  Ma non basta. Se oggi in Cina ci sono 16 automobili per 1.000 abitanti, contro 588 dell’Italia e 812 degli Usa, si stima che grazie allo «sviluppo» il parco automobili esploderà, moltiplicandosi per 18 entro il 2030. Il gigante asiatico, pur avendo delle riserve, tra dieci annisarà costretto a importare il 60% del petrolio, contro il 30% di oggi.

Così, anche la Cina, come gli Usa è in corsa per accaparrarsi le riserve energetiche del pianeta. Non solo greggio, ma anche uranio, cromo, rame e legno … C’è un continente che ha tutto questo e lo vende (o lo svende) al miglior offerente: l’Africa.  O meglio Feizhou, come dicono loro e come sarebbe bene imparare. Dalla metà degli anni ‘90 i dirigenti cinesi varano una nuova politica per l’Africa, tuttora in piena applicazione. Cooperazione bilaterale (prestiti a basso interesse e senza condizioni), cancellazione del debito, doni, foiture militari. In cambio concessioni per lo sfruttamento di giacimenti o per l’esplorazione di nuovi. Così l’Angola diventa nel 2005 il primo fornitore di petrolio della Cina, il Congo foirà nei prossimi anni rame, ferro, oro, diamanti. In cambio alcuni miliardi di dollari che ricostruiranno i paesi distrutti da decenni di guerre (strade, porti, aeroporti, ferrovie, stadi, raffinerie, ecc.). O meglio multinazionali cinesi ricostruiranno l’Africa con soldi cinesi. E qualità cinese.

Piace l’approccio asiatico, soprattutto a molti capi di stato africani. Il principio base è «non ingerenza» nella politica intea degli stati. Questo può risultare utile al Sudan di Omar El Beshir e allo Zimbabwe di Mugabe, con i quali Pechino fa ottimi affari. Un’unica condizione: riconoscere l’unicità della Cina, ovvero non avere rapporti diplomatici con Taiwan.

Feizhou è anche un grande mercato di 850 milioni di persone per i prodotti cinesi. Beni a basso costo e infima qualità, ideali per le masse africane a basso reddito e tanta voglia di consumismo.
E gli altri? Francia, Gran Bretagna, Usa? I primi due si stanno ritirando lasciando ampi spazi di manovra. I secondi lanciano un nuovo assalto al continente. Di tipo militare, perché è l’unica cosa che sanno ancora fare. Così con la scusa della lotta al terrorismo nasce «Africom» il comando Usa in Africa: basi, aiuti militari, addestramento… presenza di marines.

Se Lucy, le cui spoglie riposano al museo di Addis Abeba, ci ricorda che tutti veniamo dall’Africa, lo slogan «made in China» ci mostra, ogni giorno, verso cosa stiamo andando.

Di Marco Bello

Marco Bello




L’invasione

Perché gli africani parleranno cinese

Grandi summit inteazionali senza economia di mezzi. Documenti di principio per una cooperazione «tra eguali». Ma alla Cina interessano le riserve petrolifere e minerali. Da dare in pasto a un’economia in forte crescita. E gli africani svendono e ricostruiscono. Così, presto anche le leggi saranno tradotte in mandarino.

Nel giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini, mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China». A un terzo del costo.
Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa: più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui esperta manualità, condita con la proverbiale arte del riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto spuntano nelle vie centrali delle città «Africa – China import», «L’Orient», «Hong Kong bazar», negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare  dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa» produzione cinese.
In alcuni paesi, Niger e Angola per citae due, anche il panorama umano sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon rapporto con le popolazioni locali.
Questi sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista» dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo nell’ultimo decennio.

Primi passi

Senza andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644), si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di Mao che cerca aperture inteazionali e pensa a una campagna africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori – colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran Bretagna.
Il gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia, Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry. L’intervento è più sul piano politico – diplomatico, interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e dell’Occidente sul continente africano.

Politica ed economia

Ma la svolta nelle relazioni Cina – Africa si ha intorno alla metà del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza il «Forum di cooperazione Cina – Africa», il cui primo incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I Forum producono i documenti di principio su cui si basa la cooperazione Cina – Africa. Dalla prima «Dichiarazione di Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009» nell’ultimo incontro.
Sul piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti, accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di joint-ventures.

Documenti strategici

Nel gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi «il più grande paese in via di sviluppo del mondo» molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cornoperare nella solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno e agire in stretta collaborazione negli ambiti inteazionali come le Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul piano economico si definisce che nello scambio tutti devono guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli scambi.

Una sola Cina

L’unica condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan. In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina – Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico – diplomatico, cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica (verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni, acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel settore dell’educazione, tecnico – scientifica e medica.
 Cooperazione tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione), giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il petrolio.

Un nuovo tipo di partenariato

Il presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici  paesi africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per il continente continua ad aumentare.
Con la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina – Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48 invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia sul piano politico, cooperazione vincente – vincente sul piano economico, scambi benefici sul piano culturale».
La dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da «eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud», richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni inteazionali, con l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato esortano le organizzazioni inteazionali a fornire maggiore assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare gli Obiettivi del millennio.
«Cina e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e prosperità comune».

A caccia di risorse

La Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il 10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione, primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000 il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa, grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza negli affari interni degli stati». Approccio altamente apprezzato dai regimi africani.
Anche questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per portare il greggio al mare.
La Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo) le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la vendita di svariate foiture di armamenti, sia ai tempi della guerra civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da 48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato, cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come manufatti.

I contratti globali

In cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle materie prime.
Con l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio. Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10 ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla foitura di centinaia di camion e trattori).
Intanto i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi». Racconta un cornoperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10 anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto caldo», perché dormirebbero in tre, a tuo, nello stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per una foitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno, l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.

Le miniere del pianeta

Il più recente contratto globale è quello firmato con la Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso 17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la ristrutturazione e rimodeamento di alcune compagnie congolesi di estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello mondiale, da questo punto di vista.
Il braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche) cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo termine.
«Alla televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno rifacendo la strada Mechara – Golelchia. «Pochi sono i rapporti con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo uomini» continua. «A livello popolare non sono molto accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.

Africa, enorme mercato

Il continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per l’import – export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e 800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente (tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa australe). 
Oltre ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.) in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai «contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il ciclomotore.
Questo fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella dei motorini in Burkina.
D’altro lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti scioperi.
Gli scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il 2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione». Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».

Di Marco Bello

Gli Usa (non) stanno a guardare

Anche gli Usa capiscono l’importanza strategica  del continente e si apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom, Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta. Finora il continente africano era «coperto» da tre di questi.
Costruzione di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il «petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe africane, cornordinamento attività anti-terrorismo.  Ma anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del vice segretario alla difesa,  Teresa Whelan. Ovviamente, «Africom» avrà una forte componente civile e umanitaria.

La scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli Usa.  Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è prevista salire al 35%.

«Africom», che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro – americano William Ward (58 anni), che si è occupato di addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe supportare una serie di altre basi sul continente.  Trattative sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana, Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente a un «comando su territorio africano», ed è seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche l’Algeria.  Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è detta favorevole a ospitare «Africom».  A livello internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la propria penetrazione del continente.
Il mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa allettanti e accessibili.

Ma.B.

Marco Bello




Avanti tutta

Il miracolo economico cinese

Un modo di governare: «La politica della porta aperta». Un nome: Deng Xiaoping. Questi gli ingredienti fondamentali. Conditi da una disciplina tutta cinese. Tra pochi anni sarà la prima potenza economica del pianeta.

Viene spontaneo domandarsi quali siano state le carte vincenti che hanno permesso alla Cina di emergere dallo status di paese in via di sviluppo, diventando così una nazione «pericolosa» per gli altri stati del mondo. Per quale motivo Cina e Africa, un tempo entrambe considerate paesi del terzo mondo, adesso sembrano non condividere più gli stessi problemi che una volta le accomunavano?
Innanzitutto dobbiamo tenere sempre ben presente che la Cina, per quanto enorme sia, è comunque uno stato unitario, mentre l’Africa è un continente formato da stati spesso in contrasto tra di loro. Questo concetto è un elemento fondamentale per comprendere il successo cinese sul piano economico.

L’uomo del miracolo

Ma un’altra carta vincente a favore del gigante asiatico è stata la politica di apertura economica introdotta da Deng Xiaoping a partire dal 1978. Deng è stato il vero miracolo della Cina post-maoista.
Reduce da trent’anni sotto il dominio di Mao, il paese versava in tragiche condizioni economiche ed era completamente isolato dal resto del mondo.
Nel 1949, anno in cui la leadership comunista prese il potere, la Cina aveva il supporto della Russia comunista e, in materia di politica intea, il presidente Mao era convinto di poter sanare la situazione economica puntando sullo sviluppo dell’agricoltura.
Ma con il passare degli anni le mire di crescita del presidente diventarono sempre più ingenti e ben presto lo stesso partito comunista non fu più in grado di gestire la situazione di fanatismo ideologico in cui la Cina era sprofondata.
Terminata la Rivoluzione Culturale (1966-1976) e morto Mao Zedong (1976), nel 1977 Deng Xiaoping salì al potere con un programma di modeizzazione, destinato a cambiare profondamente l’economia cinese.

Zone economiche speciali

In primis, Deng introdusse ampi spazi di libero mercato nelle zone rurali, procedendo così alla decollettivizzazione agricola e al ritorno al nucleo familiare.
Contem­poraneamente creò alcune «Zone economiche speciali» (Zes), aperte agli investimenti stranieri e al commercio con l’estero.
La «politica della porta aperta» è l’elemento fondamentale che ha permesso alla Cina di intraprendere la sua scalata economica. Mentre Mao Zedong aveva portato avanti una politica di isolamento, essendo convinto che la Cina «dovesse farcela con le sue forze». Al contrario Deng aveva capito che l’economia  socialista doveva gradualmente aprirsi al mercato, pur mantenendo il controllo statale tipico del sistema socialista. I primi risultati economici furono spettacolari: dal 1978 al 1985 il reddito annuo pro-capite dei contadini era triplicato.
L’apertura del Celeste impero ai diavoli d’oltreoceano (espressione utilizzata dal presidente Mao Zedong per indicare negativamente gli stati occidentali che tentavano di creare relazioni commerciali con la Cina) è avvenuta attraverso l’istituzione nel sud della Cina di quattro zone economiche speciali: Shenzhen, Zhuhai, Shantou e nel Fujian. Create queste per attirare gli investimenti esteri. E, visto l’esito positivo dell’esperimento, nel 1984 le autorità centrali hanno permesso l’apertura al commercio e agli investimenti esteri di altre 14 città.

Investimenti

La «politica della porta aperta» ha portato in Cina un enorme afflusso di investimenti diretti esteri: dal 1978 al 1999 sono confluiti nel paese circa un terzo di quelli di tutto il mondo, con un tasso medio annuale di 40 miliardi di dollari.
Negli ultimi vent’anni la Repubblica popolare cinese ha avuto un tasso medio annuale di crescita del 9% e, secondo la Banca mondiale, entro il 2010 l’economia cinese potrà scavalcare quella americana, diventando la più vasta al mondo.
Con una superficie coltivata pari soltanto al 10% del suo territorio, la Cina è comunque uno dei maggiori produttori agricoli mondiali. Le principali coltivazioni sono cereali, cotone, canna da zucchero e tè.
Anche qui si è assistito a un progressivo abbandono del lavoro agricolo e a un fenomeno migratorio dalle campagne alle città.
L’industria è stata sottoposta a profonde trasformazioni a partire dal 1984, anno in cui inizia ufficialmente la riforma industriale.
Da un sistema in cui dominavano la proprietà statale e la pianificazione, si è giunti gradualmente a una situazione in cui lo stato possiede meno della metà delle industrie: nel 1978 le aziende governative generavano il 77,6% del prodotto industriale lordo, invece attualmente producono solo un quarto dell’output totale.

Al cospetto del mondo

Questa apertura economica ha provocato un cambiamento della posizione della Cina sullo scenario internazionale. L’isolamento si è allentato soltanto all’inizio degli anni ’70 con il viaggio di Nixon in Cina, che segnò la riapertura del dialogo con gli Stati Uniti. Questo portò al riconoscimento del governo di Pechino e all’ingresso della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite, dove ottenne un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Ciò favorì anche la normalizzazione dei rapporti con i paesi europei: a partire dagli anni ’80 la Cina ha iniziato a guardare all’Unione Europea come partner com­mer­ciale alternativo agli Stati Uniti.
L’ammissione nell’Organizza­zione Mon­diale del Commercio (11 novembre 2001) ha segnato un importante passo verso una maggiore integrazione del paese asiatico nel sistema commerciale multilaterale.
La Cina si affaccia al terzo millennio con una situazione di forte crescita economica. A questo hanno contribuito la domanda intea e l’investimento pubblico e privato, alimentati da misure monetarie e fiscali di tipo espansivo.
I conti con l’estero presentano un andamento positivo: la bilancia dei pagamenti continua a registrare un avanzo. Lo scorso febbraio le sue riserve monetarie  hanno raggiunto 853,7 miliardi di dollari e la Cina è diventata così la nazione con le più ampie riserve in valuta estera (oggi sarebbero a 1.300 miliardi, secondo alcuni osservatori, tra i quali Adama Gaye2).
Le esportazioni hanno registrato un’accelerazione della crescita, ma ancora più significativo è stato l’incremento delle importazioni. Insomma, quella della Cina sembra proprio essere la sfida del terzo millennio.

La via è segnata

L’opera di Deng Xiaoping è stata portata avanti da Jiang Zemin e successivamente da Hu Jintao. Entrambi hanno contribuito a realizzare una società del benessere, a creare un socialismo dai colori cinesi. Adesso l’altra grande sfida a cui punta il miracolo cinese è lo «sviluppo economico sostenibile», che vuole portare avanti lo sviluppo economico mostrandosi però più sensibile al rispetto dell’ambiente e della società.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni