La salute non è di casa

I carcerati e la salute

In carcere, anche i rapporti tra medico e paziente sono diversi. Il detenuto non può scegliere e d’altra parte egli vede «la malattia come una risorsa», perché potrebbe aiutarlo ad uscire di prigione. Eppure qualcosa si può fare…

Il medico penitenziario è un medico «impertinente», non da intendersi quale insolente, ma come da etimologia cioè «non appartenente». Non appartiene di fatto al ministero della salute, ma a quello della giustizia, da cui il ruolo primario che gli si chiede non è il mantenimento del benessere del recluso ma una attività correlata a ragioni di sicurezza: più sono assicurate cure puntuali ed adeguate intramurarie minore sarà la necessità di trasferimento nei nosocomi cittadini, evento sempre connesso a rischio di evasioni funamboliche durante il tragitto o ad atti di violenza.
Il penitenziario infatti, applicando la teoria di Edwing Goffman (filosofo ed insegnante di sociologia), è una  «istituzione totale» che serve a proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benessere delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell’istituzione che li segrega: i reclusi sono sottoposti ad un processo di «spoliazione del sé», separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Anche il rapporto medico paziente non è fiduciario, in quanto il paziente detenuto non può scegliere il clinico dell’équipe da cui farsi seguire ed anzi se trasferito da una sezione di un padiglione ad un’altra, pur nella stessa sede, dovrà ogni volta instaurare un nuovo rapporto spesso conflittuale. Anche la patologia più o meno grave e manifesta assurge in questo ambiente un significato sconosciuto all’esterno: la «malattia come risorsa». Da cui la simulazione di malattia, la scarsa aderenza ai consigli medici in modo da peggiorare il corteo di sintomi ed ottenere l’ambita «incompatibilità» con il regime detentivo ovvero benefici di legge ottenuti quando l’infermità non possa essere adeguatamente curata oltre le sbarre.

ETNO-MEDICINA
ED ETNO-PSICHIATRIA

Il medico impertinente di cui sopra ha sempre presente che gli strumenti diagnostici, prognostici e terapeutici di esclusiva derivazione biologica o psicologica sono solo funzionalmente adeguati se si ignora la natura culturale dei problemi dei soggetti, siano essi individui singoli o gruppi etnici in quanto la nostra crescita, malattia, salute, moralità, devianza sono sempre connotate culturalmente e fanno parte di un sistema sociale dentro il quale l’individuo deve essere considerato.
Questo si può descrivere con la differenza che corre tra il significato dei termini «disease» e «illness» nella letteratura anglosassone: il primo indica la malattia secondo la conoscenza medica, mentre con illness si intende l’insieme di sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti correlati, propri della percezione soggettiva dell’essere ammalato del paziente. Nella medicina tradizionale occidentale l’attenzione è tutta concentrata sulla disease, cosicché la illness del paziente viene generalmente trascurata; così non può essere nella medicina penitenziaria. Medico e paziente devono percorrere contemporaneamente due percorsi paralleli impegnandosi entrambi a negoziare la loro relazione con l’altro all’interno del nuovo spazio interculturale, attraverso una esplorazione del loro mondo comune, in un cammino di pari dignità alla ricerca della salute, collaborando tra di loro.
L’elevata presenza di detenuti stranieri costituisce poi il vasto e complesso campo della etno-medicina ed etno-psichiatria con valenze sue proprie.
Il paziente straniero, infatti, pone il medico penitenziario di fronte ai suoi limiti – anche linguistici – se si creano impedimenti culturali specifici, ma questi può superarle traendo indicazioni sia dalle competenze del paziente, sia dalle proprie «risorse terapeutiche». Gli operatori sono come in mezzo a un guado, disposti a riformulare la propria identità professionale, permettendo ai propri parametri di divenire duttili, così da non rimanere arroccati nel sapere acquisito, né di rinunciarvi, ma capaci di aprirsi a «nuove prospettive», rispecchiandosi in qualche modo nel recluso che li ha messi più in difficoltà.

PSICOTICO, TOSSICODIPENDENTE
O DEVIANTE?

Il pluralismo culturale ed ideologico della attuale popolazione reclusa impone strategie nuove: perché in carcere sempre più frequentemente finisce oggi una popolazione che si fa fatica a definire con vecchie categorie nosografiche, così com’è difficile applicare categorie rigide nei Servizi di diagnosi e cura, nelle strade. È sempre più difficoltoso trovare un paziente che possa essere classificato come psicotico in modo pulito; è molto difficile trovare un soggetto che possa essere definito tossicodipendente; è laborioso trovare un paziente portatore di un puro disturbo di personalità; è molto raro trovare un soggetto che possa essere classificato «deviante e criminale» senza che vi siano inferenze anche di queste altre due categorie dello spirito.
Ci troviamo di fronte a quello che, con una provocazione, visto che gli acronimi vanno di moda, potrebbe definirsi un PTE, uno psico-tossi-emarginato, cioè un soggetto che ha problemi psicopatologici, assume sostanze, e che produce azioni che inevitabilmente ad un certo punto finiscono col collidere col sistema di norme della società e quindi lo portano nella zona dell’anomia e, quindi, verso i tribunali e poi verso il carcere. Le nuove droghe stanno ampiamente contribuendo al nuovo scenario a causa dei devastanti effetti a livello cerebrale: non è raro ormai constatare quadri di demenza precoce da extasy o cocaina in trentenni.
Allora, di fronte a questa visione delle cose, il carcere, così com’è, rappresenta rispetto alla devianza in un certo senso l’esatto opposto di quello che servirebbe. Laddove occorrerebbe ricostruire legami e relazioni che diano sensazioni di confidenza, di affidabilità e di progettualità, il carcere fa, per ovvie ragioni, esattamente l’opposto.

IL TRAUMA 
DELLA PRIMA VOLTA

L’esperienza insegna che frequentemente provengono dalla libertà soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque di particolare fragilità, tutti soggetti ai quali la privazione della libertà, specie se sofferta per la prima volta, può arrecare sofferenze e traumi accentuati, tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide. Dunque, onde intervenire tempestivamente, è stato istituito un particolare servizio per i detenuti e gli inteati nuovi giunti dalla libertà, consistente in un presidio psicologico, che si affianca  alla prima visita medica generale ed al colloquio di primo ingresso.
Altro dramma correlato è il numero impressionante di detenuti affetti da malattie croniche che hanno trasformato gli Istituti di pena dotati di centro diagnostico terapeutico (ovvero piccoli ospedali intramurari) in un vero luogo di cura: notevolissimo il numero di soggetti affetti da malattie cardiovascolari e polmonari favorite dalla mancanza assoluta di igiene di vita. Esorbitante il numero di individui affetti da malattie infettive croniche soprattutto correlate alla tossicodipendenza ed alla vita «di strada»; soprattutto per i soggetti HIV – HCV positivi l’ordinamento penitenziario appare obsoleto: la vetusta possibilità di scarcerazione legata ad una grave immunodepressione stride con la realtà attuale.Le terapie che tanto hanno migliorato la sopravvivenza dei sieropositivi sono purtroppo epatotossiche e controindicano spesso la contemporanea assunzione di farmaci  per il virus dell’epatite C: la causa di morte non è dunque più per Aids conclamato, ma per cirrosi o tumore epatico. Cambia la statistica, ma non il tragico finale.

LA REALTÀ NON È
INELUTTABILE

Che dire poi dei malati di mente che, abbandonati a sé stessi, affollano le celle? La stessa legge Basaglia (più nota come «legge 180») ha dimenticato i cosiddetti «manicomi criminali», come se il matto delinquente non avesse ragion d’essere in quanto persona.
Molti sono, infine, i reclusi portatori di grave handicap motorio e poche le strutture che possano accoglierli: questi ultimi vagano allora in celle inadeguate con barriere architettoniche che rendono impossibile anche il solo lavarsi: da qui la figura del «piantone» in realtà un altro recluso di buona volontà che si presta a soddisfare le esigenze primarie quale il lavarsi il vestirsi e quant’altro. Il quadro sovra descritto meriterebbe un adeguato sforzo anche economico ma la sanità penitenziaria ad onta di una richiesta di salute sempre più accentuata si scontra con tagli di spesa ogni anno più marcati tanto che nelle piccole carceri è miracoloso raggiungere i livelli minimi di assistenza. Il medico penitenziario è allora il dottore degli ultimi , dei poveri di risorse personali ed ambientali: se la salute è definita come «completo benessere psico-fisico mentale e sociale e non soltanto assenza di malattia…» allora i nostri sforzi si scontrano con realtà ineluttabili. Ma non per questo bisogna scorarsi: presso il carcere di Torino sono presenti da anni importanti proposte che hanno importato una realtà «altra» basata sulla valorizzazione dei talenti pur in un ambiente degradato: sono i progetti Arcobaleno, Prometerno, Sestante e Sad.
È presente la comunità Arcobaleno (leggere a pagina 46) organizzata come una comunità terapeutica, pur dietro le sbarre, collegata a strutture estee dove proseguire un percorso riabilitativo lavorativo. Ai malati di Aids è dedicata la sezione «Prometerno» con un programma dedicato ed una attenta vigilanza infettivologica. La ASL 3 attraverso il progetto «Il Sestante» si occupa della osservazione e del trattamento dei pazienti psichiatrici. Importanti progetti coinvolgono poi la prevenzione delle patologie oncologiche ed infettive per le quali il carcere costituisce un fondamentale osservatore epidemiologico nazionale (il numero esponenziale di casi di TBC sta raggiungendo l’allarme sociale). Completa il quadro delle iniziative un progetto pilota sulla dipendenza patologica da sostanze denominato Sad Asl3 (dal nome della Asl competente), che ha già preso in carico centinaia di utenti (tra cui molti etilisti) soprattutto in giovane età.
Il rapporto tra sanità penitenziaria ed utenza allora travalica il rapporto «farmaco-guarigione» ma è dettato dall’incontro. E l’incontro può avvenire solo se si riconoscono queste dinamiche, ponendo l’attenzione su quanto accade qui e adesso nel dialogo, al di là delle differenze culturali, e portando alla consapevolezza quanto avviene in modo implicito nel percorso parallelo di cura, per superare gli inevitabili momenti di stallo.

«ERO IN CATENE, MA NON MI AVETE ACCOLTO»

Dal Discorso della montagna discendono i temi della salvezza citati nel vangelo di Luca. «Andate, maledetti, nella dannazione, perché ero affamato e non mi avete dato da mangiare, ero assetato e non mi avete dato da bere, ero ignudo e non mi avete rivestito, ero ammalato e non mi avete curato, ero carcerato e non mi avete visitato».
Ovvero: ero carcerato e non mi avete accolto, ero in catene e mi avete rifiutato. Ma altre domande sono senza risposta: accolto dove?, accolto come?. Questa dovrebbe essere la questione aperta, l’oggetto del nostro interrogarci, cioè quali sono le alternative concrete e possibili all’istituzione carceraria. 

Di Maria Letizia Primo

Maria Letizia Primo




Un «rifugio» per ricostruire il futuro

Casa di accoglienza a Benin City

I loro nomi spesso contengono un messaggio di speranza, un affidarsi a Dio: Blessed (Benedetta), Faith (Fede), ma anche Joy, Destiny… Eppure le loro storie parlano d’inferno. L’inferno della tratta di esseri umani, giovani donne, spesso poco più che bambine, comprate e vendute, sbattute sulle strade d’Italia, dove vengono usate e abusate per pochi euro. Sono loro, adesso, a riempire con le loro voci squillanti, i colori accesi dei loro abiti e un’immancabile e simpatica confusione, le stanze ancora tutte nuove dello shelter inaugurato l’11 luglio dello scorso anno a Benin City.
È qualcosa di più di una casa di accoglienza: è un rifugio e allo stesso tempo qualcosa di dirompente per il contesto di Benin City. Un luogo che dice che le ragazze possono tornare e devono essere accolte. Che quello della tratta non è un viaggio a senso unico. C’è, anche se raramente e spesso drammaticamente, un ritorno. È un luogo bello e difficile questo shelter, perché dice quello che le parole sin qui non hanno detto o hanno detto molto poco: la tratta esiste. Ecco queste ragazze, ecco le prove.
Il potere simbolico, si sa, in Africa è molto forte. E questa casa di accoglienza per donne vittime della tratta – rimpatriate volontariamente o espulse dall’Europa e specialmente dall’Italia – costruita proprio nel cuore della città che ne alimenta più di qualsiasi altra il traffico, ha il sapore intenso di una sfida: ai tabù, all’omertà, anche alla paura.
«Sono anni che lavoriamo a questo progetto e finalmente ne vediamo il compimento» dice suor Eugenia Bonetti, visitando lo shelter appena inaugurato. La religiosa ci ha davvero creduto molto e non si è fermata di fronte a nessun ostacolo. «Ci sono voluti quattro viaggi e una grande determinazione per realizzare questo progetto. Ma soprattutto c’è voluta la collaborazione di molte persone che hanno condiviso questo sogno».
Alcune di loro erano lì anche per l’inaugurazione. Lo scorso anno, infatti, una delegazione italiana si è recata sino a Benin City, per esprimere la propria vicinanza a questo progetto e rinsaldare i legami di cooperazione che già esistono tra Italia e Nigeria. Il gruppo era tutto al femminile (con un’unica eccezione): donne che con le ragazze trafficate hanno condiviso un pezzo di cammino, quello che dalla strada le ha condotte verso una vita nuova. Donne che lottano con coraggio, tenacia e amore per altre donne. Sono le suore delle molte case di accoglienza che in Italia ospitano e aiutano queste giovani nigeriane. Si sono recate sin lì per rendersi conto di persona del contesto da cui vengono le «loro» ragazze e per condividere la gioia dell’apertura di una casa che non è molto diversa da quelle in cui loro stesse operano, ma che è molto più vicina ai luoghi da cui provengono e a cui provano a ritornare.

I
nfatti, uno degli obiettivi fondamentali dello shelter è accogliere temporaneamente le ragazze che rientrano per preparare adeguatamente il loro ritorno in famiglia.
A questo scopo è fondamentale il lavoro che svolgono le suore nigeriane sul posto. «Loro stesse – spiega suor Eugenia – negli anni ‘90, hanno cominciato a rendersi conto del problema. Le abbiamo invitate in Italia, hanno visto con i loro occhi dove finivano le ragazze e si sono confrontate con le suore che lavorano qui da noi. Poi, hanno deciso di fare qualcosa».
«Sino ad ora – spiega sister Florence – accoglievamo le ragazze che tornavano in Nigeria nei nostri conventi. Ma non è facile, né per loro né per noi. Non sono più abituate a rispettare alcuna regola, sono disorientate, spesso disperate. Molte hanno disturbi mentali; alcune vengono rifiutate dalle famiglie. C’era bisogno di un luogo appropriato dove potessero stare per un po’ e che permettesse a noi di accompagnarle nel modo più adeguato».
Non sta ferma un momento sister Florence. È sempre impegnata su più fronti con inesauribile energia. Avvocato di formazione, ha fatto di questa lotta contro la tratta e per il recupero delle vittime la sua ragione di vita. Nel ’99, è stata tra le fondatrici del Cosodow (Comitato per il sostegno della dignità della donne), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Con lei lavorano altre suore, sia a Benin City che a Lagos (dove le ragazze vengono rimpatriate), oltre a due avvocati e molti volontari.
«Il nostro è un lavoro delicato e rischioso – ammette – perché, da un lato, si tratta di ricostruire la vita e la dignità di persone fortemente traumatizzate, sottoposte a una violenza disumanizzante; dall’altro, perché andiamo contro gli interessi di molte persone che su questa tratta vergognosa hanno costruito un enorme business».

La realizzazione di questo shelter è un passo incoraggiante, innanzitutto perché è il frutto della collaborazione di più enti e istituzioni della chiesa. Il terreno è stato acquistato da Caritas italiana, la costruzione è stata realizzata grazie a un finanziamento della Cei (dell’8 per mille), il cantiere è stato seguito da un salesiano, don Vincenzo Marrone. A ciò va aggiunto tutto il lavoro che è stato fatto sul posto dalle suore nigeriane, che non hanno mai smesso di accogliere le ragazze nei loro conventi, di collaborare con le famiglie e sensibilizzare la popolazione. Ora, questo lavoro di network ha un nuovo fondamentale punto di riferimento: la Casa di accoglienza di Benin City.
La struttura prevede l’ospitalità per un numero massimo di 18 ragazze. «Non di più – spiega sister Florence -, perché vorremmo creare il più possibile un clima di famiglia e perché le ragazze hanno bisogno di molte attenzioni specifiche e di tanto lavoro. Su di loro e sulle loro famiglie».
Molte si trovano davvero in una situazione di emergenza. Anche quelle che rientrano volontariamente (pochissime in verità), grazie ai programmi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), spesso hanno enormi problemi a reinserirsi. Peggio ancora quelle espulse, che si ritrovano a casa loro senza un soldo e con addosso la vergogna di un fallimento.
Non poche presentano problemi psicologici, alcune vere e proprie patologie. «Spesso – spiega la religiosa -, specialmente all’inizio, vengono rifiutate dalle famiglie, non sanno dove andare, rischiano di finire nuovamente nelle mani di trafficanti o di persone senza scrupoli. Per questo hanno bisogno di una particolare attenzione e protezione».
Tra i primi ospiti dello shelter c’è Jody che segue sister Florence come un’ombra. È da poco rientrata nel suo paese, ma è come se fosse stata catapultata su un altro pianeta. È disorientata, un po’ assente… La sua famiglia, dice, è in un villaggio lì vicino, ma lei non può tornare. Abbassa gli occhi Jody, fatica a raccontare. E allora sister Florence si allontana e spiega: «Non può tornare perché non la vogliono. Sono arrabbiati, delusi. Jody rappresentava la loro unica fonte di reddito. Non so fino a che punto erano coscienti di quello che faceva in Italia. Sta di fatto che per loro significava un guadagno sicuro, ora invece è diventata solo un peso di cui farsi carico».
Sister Florence tuttavia non è pessimista. Sa che ci vuole tempo per tessere di nuovo dei legami. Intanto, aiuta Jody a imparare un mestiere e a cavarsela da sola. Almeno ora ha una casa. In futuro si vedrà…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Si è mosso anche lo stato

A Lagos: un centro di accoglienza governativo

Un gruppo di ragazze si intreccia reciprocamente i capelli. Lo spazio è un po’ angusto, manca luce, ma l’atmosfera non è cupa. Sono tutte giovanissime, certamente hanno meno di 20 anni. Una di loro, solo un poco più grande, cerca di dare qualche consiglio e mantenere un po’ d’ordine. Sono tutte vittime della tratta queste ragazzine che imparano a fare le parrucchiere. Intercettate all’interno della Nigeria o nei paesi limitrofi. La polizia le ha condotte in questo stabile, che assomiglia un po’ a una casa di accoglienza, un po’ a una prigione.
Si trova alla periferia di Lagos ed è stato aperto nel dicembre 2004, grazie alla collaborazione dei governi italiano e statunitense. È gestito dalla National agency for the prohibition of traffic in persons and other related matters (www.naptip.com), l’agenzia del governo nigeriano che opera contro il traffico – interno ed esterno – non solo di donne, ma anche di minori per scopi diversi: prostituzione, lavoro domestico, lavoro agricolo… Ha sei dipartimenti a Lagos, Benin City, Enugu e Sokoto.
Lo scopo è quello di accogliere, reintegrare e riabilitare le vittime, dar loro assistenza legale e sensibilizzare la popolazione sul problema. La grande sfida è quella di perseguire i trafficanti.
«Sono stata rimpatriata dal Burkina Faso – spiega Jessica, la ragazza che insegna alle alunne-parrucchiere. Ero stata portata lì con la promessa di continuare il viaggio, ma intanto ero costretta a lavorare. Io non volevo restare, così sono andata dalla polizia. Poi l’ambasciata mi ha fatta tornare in Nigeria». Dopo il periodo di counceling e riabilitazione, Jessica ha deciso di rimanere nella struttura del Naptip per aiutare le altre ragazze che hanno vissuto un’esperienza simile alla sua. Attualmente ce ne sono una trentina (ma può ospitae sino a 120), la maggior parte sono ragazze, ma c’è anche qualche ragazzino. Sono quasi tutti minorenni. Altre 10 sono state rimpatriate dal Burkina Faso, uno dei paesi-cerniera, lungo le rotte che, spesso via terra, portano verso il Nordafrica.

Dai loro racconti emerge uno spaccato sul mondo della tratta e le sue innumerevoli varianti. Una dice di avere 13 anni e che la mamma sta in Francia e lei stava cercando di raggiungerla. Un’altra racconta di essere partita insieme a un gruppo di amici, senza sapere esattamente per dove. Non aveva niente con sé, solo i vestiti che portava addosso. Sono giovani, sprovvedute, sognatrici. Fuggono da situazioni di miseria verso un vago miraggio, che spesso si trasforma in incubo.
I responsabili del centro raccontano di un altro gruppo di ragazze molto giovani; tutte sono state trafficate all’interno del paese, e portate a Lagos, la maggior parte per essere avviate alla prostituzione.
Ci sono anche tre bambini trafficati in Nigeria dal vicino Benin per lavorare come domestici. Il Naptip sta collaborando con l’ambasciata beninese per ricongiungerli alle loro famiglie. Spesso i genitori sono poverissimi e senza istruzione, e vengono facilmente aggirati e ingannati con promesse di soldi e d’istruzione per i loro figli, che invece si ritrovano rinchiusi dentro le case dei padroni in condizioni di vera e propria schiavitù.
«Da quando siamo aperti, abbiamo accolto circa 700 ragazzi e ragazze – spiega Godwin E. Morka, capo dell’ufficio Naptip di Lagos -. A tutti viene offerta la possibilità di un periodo di riabilitazione e una breve formazione. Per le ragazze si tratta spesso di un corso per parrucchiera. Mediamente restano dalle due alle sei settimane. Chi rimane di più è perché in tribunale ha in corso un processo contro i trafficanti».
«E se hanno problemi di salute – continua – facciamo anche un controllo medico. Se sono malate vengono trasferite al vicino reparto dell’ospedale militare». Morka non ne parla esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. Molte, specialmente quelle che rientrano dall’estero, sono sieropositive o con Aids conclamato: una malattia-tabù, da queste parti, di cui si parla troppo poco e non si fa abbastanza per prevenirla e curarla.

Dalla struttura del Naptip le ragazze non possono uscire né ricevere visite, perché in passato si sono presentati trafficanti o madame, spacciandosi per i loro parenti. Una donna è stata scoperta e arrestata. Ma complessivamente l’attività di investigazione e avvio di procedimenti penali contro i trafficanti è alquanto carente. Alcune ragazze, poi, hanno il terrore di essere avvelenate. Sanno che i loro «protettori» temono di essere denunciati e che è gente senza scrupoli, capace di tutto.
Ma le ragazze non si fidano neppure del governo nigeriano né di qualsiasi altra istituzione ad esso legata. E, dunque, anche la vita e gestione di questo centro sono alquanto complesse e problematiche.
Per non parlare poi dei problemi che si pongono quando vengono rimpatriate dall’estero. «I governi europei – spiega Morka – quando espellono le ragazze sono in contatto con l’immigrazione nigeriana, ma non specificano chi sono le vittime e chi i trafficanti. Specie dall’Italia spesso tornano in gruppo, ammanettate come criminali, mischiate a trafficanti di droga, clandestini, delinquenti veri… Sono rimpatriati tutti insieme. Talvolta il volo diventa l’occasione per intrecciare contatti e organizzare nuove partenze».
Gli operatori del Naptip, inoltre, non hanno accesso all’aeroporto per accogliere le ragazze. A volte ci sono le famiglie ad aspettarle, ma è raro, soprattutto se non rientrano con un rimpatrio volontario e sono senza soldi e dunque si vergognano di farsi vedere a mani vuote. Sempre, però, ci sono i trafficanti, pronti a offrire «assistenza» alle ragazze, per poi farle rientrare nel giro.
All’immigrazione – ci dicono – non sempre operano persone preparate e adatte a fare questo lavoro e spesso c’è molta corruzione. Non è raro, poi, che le madame e i trafficanti corrompano i poliziotti per rimettere le mani sulle ragazze. «La situazione non favorisce la collaborazione e la possibilità di avvicinarle per offrire aiuto – continua il responsabile del Naptip -. Il lavoro di cooperazione è estremamente difficile. Anche quando vengono rimpatriate volontariamente dall’Oim, a volte vengono portate nel nostro centro, altre volte vanno direttamente nelle loro città o si disperdono qui a Lagos. Le ragazze non si fidano di nessuno quando tornano, ma spesso non vogliono andare a casa a mani vuote e cercano nuovamente di arrangiarsi come possono. Così diventano estremamente vulnerabili e rischiano di ricadere facilmente nelle reti di gente senza scrupoli».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Donne in frantumi

Nigeria-Italia: storie di ragazze abusate e rimpatriate

Sono partite con un sogno; sono tornate svuotate del loro essere donna, rifiutate, giudicate, condannate…
con ferite profondissime, difficili da rimarginare. 

Joy lo ripete senza tregua. Con veemenza e desolazione. Con violenza, ma anche con le lacrime che le si affacciano agli occhi. «Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!». Sempre la stessa frase, ossessionante, che esonda dalla palude di sofferenza, paura, rabbia e dolore, che si porta dentro. Una ragazza spezzata. Come le altre. Ma lei continua a urlarlo fuori.
È stata rimpatriata a Lagos dall’Oim. Lo ha scelto lei quando forse non aveva più altra scelta. Prima era passata da Brescia e da Roma; l’hanno ospitata le suore di Nostra Signora degli Apostoli a Roma e l’hanno seguita al centro di ascolto Caritas della capitale. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno a Brescia, ma non aveva futuro in Italia.
A suor Erma Marinelli, delle suore di Maria Riparatrice, non pare vero di rivederla lì, a Lagos. L’ha seguita per quasi sei mesi alla Caritas Roma. Una ragazza particolarmente problematica. Ha fatto impazzire tutti. «Quando veniva da noi, urlava, faceva scenate incredibili. L’abbiamo mandata da un medico e da uno psicologo. Ma lei ripeteva: “Non sono matta”. E già allora continuava a ripetere: “Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!”. Pensavamo che avesse subìto abusi e violenze in strada. Ma non sapevamo ancora tutto».
Joy racconta di aver fatto qualche lavoretto, la badante soprattutto. Ma non dice che resisteva a malapena un mese o poco più. Racconta di essere stata ospitata dalle suore e poi in un ostello Caritas. Ma non dice che anche lì aveva sempre problemi. Non dice soprattutto il dramma che ha rovinato la sua esistenza, ancor più della sua vita in strada, la vergogna che l’ha marchiata per sempre. «È probabile che le abbiano fatto girare un film poografico – racconta suor Erma -. Ogni tanto vi faceva allusione, urlando con rabbia frasi oscene, sbattendoci in faccia con violenza la peggiore delle violenze che aveva subìto. Un dramma da cui non si è più ripresa».
L’hanno convinta a rientrare in Nigeria, con un rimpatrio organizzato dall’Oim. Prima, però, ha chiesto alla famiglia se i soldi che le avrebbero dato (1.500 euro) erano sufficienti per essere di nuovo accettata a casa. «Hanno detto di sì – ricorda suor Erma -. E per lei è stata come una liberazione. Ha cambiato atteggiamento. Ha riacquisito un po’ di dignità. Non rientrava a mani vuote e sapeva che c’era qualcuno ad attenderla. Ma niente sarà mai abbastanza per risarcirla davvero di tutto il male che ha subìto».

Anche in Blessed si intuisce che c’è qualcosa di inesorabilmente infranto. Ha 37 anni ed è ancora una bella donna, alta e slanciata, avvolta in un elegante abito tradizionale. Ha un viso dolce, ma gli occhi sono spenti, persi.
È rientrata in Nigeria quattro anni fa, dopo avee passati undici in Italia. È tornata dai suoi figli, dice, che oggi hanno 23, 22 e 18 anni. Li aveva lasciati in Nigeria per andare in Italia a «lavorare». «Pensavo di andare a fare la cameriera o la parrucchiera – racconta – e invece…».
Della vita in strada non vuole ricordare nulla. Parla, con un italiano stentatissimo e lo sguardo un po’ assente, dei luoghi dove è stata e dei luoghi comuni: la gente che è simpatica, la pasta e la pizza che ora non mangia più. «Era un po’ dura in Italia – dice quasi scheendosi -, ma anche qui non è facile».
Da quando è tornata non ha più relazioni con i genitori. Le suore di Nostra Signora degli Apostoli hanno cercato di metterli in contatto, ma i suoi parenti non vogliono più sapee di lei. Neppure la figlia maggiore. Gli altri due le sono vicini e le suore l’hanno assunta per fare le pulizie in una biblioteca. Ma non è del tutto lucida e ha bisogno continuo di medicine.
«Quando vedo la disumanizzazione che comporta il fatto di vendere se stesse per sopravvivere dico che tutto questo non è giusto, e che dobbiamo lottare per mettere fine a questo traffico vergognoso». Eric Okoje, avvocato, è tra i fondatori del Cosodow, il Comitato per il sostegno della dignità della donna, creato dalle religiose nigeriane. E anche se da quasi dieci anni lavora in questo settore non smette di provare rabbia e indignazione.
«È un’ingiustizia intollerabile quella di ridurre una persona in schiavitù – denuncia -. Quando vedi che tante famiglie sono toccate direttamente o indirettamente da questo dramma, inevitabilmente ti interroghi. Sul loro futuro e sul futuro di questo paese. Perché dobbiamo permettere di rendere schiava una generazione di nostri giovani? È una generazione persa. Per questo dobbiamo lottare con tutti i mezzi per impedire che questo continui. Ma non è facile. Perché c’è un problema di povertà, di impunità e anche di perdita dei valori. Se non ci sono fondamenti non si può costruire nulla. Ma è difficile far passare un messaggio a una persona che ha fame. Non ascolta: ascolta il suo stomaco».

Faith viene da un villaggio poverissimo di Ondo State ed è tra quelle che ha ascoltato questo grido. Suo e della sua famiglia. E si è fidata, come molte, di un cugino, uno zio, un parente, che faceva promesse che non si potevano rifiutare.
Nel suo caso è stato lo zio che le ha detto che l’avrebbe portata in Europa. Erano un gruppo di 85 ragazze e 72 ragazzi; sono partiti via terra, attraversando il Niger e poi tutto il deserto del Sahara sino all’Algeria. Da qui in Marocco. «Non c’era niente da mangiare né da bere – ricorda Faith -. Siamo rimasti quattro mesi nel deserto e nove in Marocco. Tre di noi sono morte attraversando il Sahara, uno in Marocco. A quel punto sono voluta tornare indietro, ma so che altri tre sono morti nel Mediterraneo».
In Marocco, racconta, erano stati tutti rinchiusi in due stanze, una per i ragazzi e una per le ragazze.
«Non volevo fare la prostituta – dice -; ho detto che volevo tornare, ma non volevano lasciarmi andare. Sono riuscita a scappare e sono andata dalla polizia. Quelli mi hanno picchiata, ma poi mi hanno portata all’aeroporto e rispedita in Nigeria. Quando sono tornata ho trovato mio zio che stava preparando un altro viaggio. E voleva che partissi di nuovo. Ma questa volta ho detto di no».
Ora Faith è a Benin City dove sta cercando un lavoro. Ha conosciuto le suore che si occupano del problema della tratta e che la stanno aiutando a continuare gli studi. «Vorrei diplomarmi in business administration, trovare un buon lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia che è rimasta al villaggio».
R ose, invece, è tornata ad Akure, ed è ospite di un convento, ma porta ancora addosso uno dei segni della vita che si è lasciata alle spalle in Italia: due lenti a contatto blu, che spiccano come due fanali sul suo volto scuro e un po’ triste. Voltare pagina non è facile, dicono le suore che l’hanno in custodia. Ha 21 anni ed è una ragazza alquanto problematica. I segni di quello che ha subìto non sono così evidenti come quelle lenti a contatto, ma sono scolpiti indelebilmente nella sua anima.
Rose è giovane e può ancora farcela. Soprattutto se le sarà offerta una qualche chance di riscatto. Come è successo a Kathy.

Kathy, oggi, ha 26 anni. È stata tra le prime a tornare a Benin City, nel 2000. Lei però la strada l’ha solo «sfiorata». Alla famiglia avevano detto che l’avrebbero portata in Europa. In Italia ci è arrivata passando dalla Francia. Poi è finita a Roma, ma lei non sapeva neppure dove fosse.
«Mi tenevano rinchiusa nella casa di una maman – racconta -. Poi, un giorno, mi hanno affidata a un’altra ragazza perché mi portasse al lavoro. Non mi avevano detto di cosa si trattasse esattamente, ma lo avevo intuito. E così, mentre eravamo sull’autobus, sono scappata e sono salita su un altro bus. Non sapevo dove stessi andando. Quando ho sentito una campana, sono scesa e ho cercato la chiesa e un prete. Due donne mi hanno aiutata a trovarlo. È stato gentile e mi ha accompagnata in ambasciata, ma era già chiusa. Allora mi ha portata in una casa di accoglienza delle suore. Io non parlavo italiano. Loro non parlavano inglese. Hanno chiamato suor Eugenia Bonetti». Da lì è partita tutta una serie di contatti e collegamenti che hanno riportato Kathy in Nigeria e che le hanno permesso di tornare a Benin City dove sister Florence e le sue consorelle l’hanno accolta. Kathy è una ragazza intelligente e volonterosa. Ha ripreso gli studi e si è diplomata in business economy. Lo scorso anno, poi, è riuscita a prendere una laurea in psicologia. «Ora vorrei aiutare le altre ragazze che hanno vissuto l’esperienza della tratta e che sono state meno fortunate di me». Il suo, almeno, non è stato un viaggio a senso unico.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Periferia della periferia

Qui Milano: reportage dalla capitale del «mercato»

Nella capitale economica e finanziaria italiana anche le nigeriane non sfuggono alla legge del mercato, che le relega in un ghetto di vessazioni e umiliazioni. La complessa organizzazione mafiosa che le gestisce rende difficile alle forze dell’ordine di comprendere il fenomeno e alle organizzazioni impegnate nella lotta al racket di aiutarle a liberarsi.

La Binasca di notte è il girone infeale delle ragazze nigeriane. Specialmente nel tratto Carpiano-Siziano, periferia sud di Milano. In gruppo, mezze nude, o nude del tutto, accanto a focherelli per strappare un po’ di calore nelle gelide notti d’inverno. Stanno alla periferia della periferia, ai margini di un mondo spietato, che seleziona e marginalizza anche gli ultimi tra gli ultimi. Anche chi è già così disperato da essere costretto a vendere il proprio corpo.
VECCHIE NUOVE MAFIE
La gerarchia della strada è crudele e spietata. Nella capitale economica e finanziaria italiana, neppure le ragazze sfuggono alla ferrea legge della domanda e della offerta. Al centro le più «redditizie», brasiliane soprattutto, ma anche italiane, est-europee, addirittura giapponesi, gestite da mafie potentissime. Lavorano sempre più negli appartamenti e nei club e prendono appuntamenti tramite siti specializzati. Lo scorso anno sono stati calcolati almeno 15 mila annunci del genere.
Poi, uscendo dalla città, lungo le strade provinciali che a raggiera si allontanano dal centro, si incontrano via via quelle più a «buon mercato»: moltissime est-europee e, sempre più lontane, le nigeriane. Tutte oggetto di violenza e mercificazione del corpo. Spesso in condizioni di vera e propria schiavitù.
A Milano, la mafia storica era quella sudamericana, scalzata poi da quella albanese e dell’Est europeo. Anche perché gestire i giri di prostituzione in città costa: richiede «investimenti» (soprattutto in appartamenti) che i nigeriani non fanno. In strada, tutto costa meno: il joint (il posto) come pure la ragazza. Una nigeriana è costretta a svendere il proprio corpo al massimo per 20 euro, spesso anche meno. Il debito che devono rimborsare, però, raggiunge cifre spaventose: mediamente dai 50 ai 60 mila euro, a volte anche di più. E inoltre devono pagare alla maman l’affitto, il cibo, gli abiti «da lavoro», nonché offrirle regali costosi, in cambio di un trattamento più umano. Altrimenti, finiscono col subire anche in casa i soprusi e violenze che già sopportano in strada.
E anche se la mafia nigeriana è ritenuta meno violenta di quella albanese o est-europea, non sono rari i racconti di stupri a opera dei trafficanti, di torture e violenze fisiche e verbali. Spesso le ragazze vengono obbligate a lavorare anche quando sono malate o in gravidanza o ad avere rapporti sessuali non protetti; se rimangono incinte vengono costrette ad abortire (alcune parlano addirittura di una dozzina di aborti!) o vengono sottratti loro i figli e usati come strumenti di ricatto.
«PICCOLE NIGERIE» ITALIANE
C hiuse in questo mondo di vessazioni e umiliazioni, vivono in Italia, ma per certi versi potrebbero essere ovunque. Sanno a malapena qualche parola di italiano; fuori dalla strada, vivono in una sorta di ghetto, mangiano il loro cibo, usano i loro prodotti per l’igiene, si procurano le medicine tradizionali, vanno persino nelle loro chiese… In alcune trovano conforto, in altre incontrano pastori, o sedicenti tali, coinvolti nella tratta, che danno giustificazioni «mistiche» o «spirituali» all’incubo che stanno vivendo. «È Dio che lo vuole!» si convincono.
Rinchiuse nelle loro «piccole Nigerie» italiane, non si mischiano, fanno vita a parte. L’unico fine sono i soldi: money, money, money. Un chiodo fisso, the big issue!
«Agli inizi degli anni Novanta – spiega Palma Felina, responsabile del settore donne vittime di tratta di Caritas ambrosiana -, era possibile trovare le ragazze nigeriane sulla circonvallazione intea di Milano. Ora sono sempre più fuori città. Questo per un insieme di fattori: per gli interventi della polizia, ma soprattutto in seguito alle lotte tra le diverse mafie che gestiscono le ragazze. Così le nigeriane sono state sempre più allontanate dal centro. Ora è possibile trovarle nelle zone industriali periferiche o in provincia. Sono lì soprattutto di notte, ma nell’hinterland sono costrette a lavorare anche di giorno. Alcune sono in strada da più anni, nonostante il tu-over. Oggi le spostano con più frequenza, per evitare che possano legare tra di loro o cercare rapporti particolari con qualche cliente».
La gestione del territorio è cruciale per chi sfrutta questo traffico aberrante. Soprattutto da quando è in atto un processo di «diversificazione» negli appartamenti e nei night-club. Le nigeriane, però, sono rimaste sempre in strada, in alcuni posti «storici» fuori città e sempre più nelle periferie e in provincia.
Secondo le ultime statistiche disponibili dell’Osservatorio permanente sulla prostituzione, risalenti al 2006, nelle case di accoglienza lombarde, il 35,2% delle ragazze ospitate sono rumene, il 33,3% nigeriane. In percentuali molto minori moldave, albanesi, uzbeke, ukraine e russe. Oltre la metà non ha alcun titolo di studio formale o ha il diploma di scuola elementare. Nei loro paesi d’origine erano disoccupate o svolgevano lavori saltuari in condizioni di grande precarietà. Il 70% è nubile, mentre il 30% ha uno o più figli.
«Circa l’80% – aggiunge suor Claudia Biondi, cornordinatrice del settore Aree di bisogno di Caritas ambrosiana – dice di non aver saputo che una volta in Italia sarebbe stata costretta a prostituirsi. Quasi tutte sono state ingannate o aggirate, mentre un 10% è stata vittima di violenza o rapimento. Negli ultimi anni è aumentato il numero delle ragazze nigeriane sempre più giovani, sia perché soddisfano le esigenze dei clienti sia perché sono più facilmente controllabili e manipolabili dai loro sfruttatori».

SEMPRE PIù GIOVANI,
PER BATTERE LA CONCORRENZA
In Lombardia la presenza delle nigeriane è piuttosto significativa e numericamente stabile, mentre è cresciuto negli ultimi anni il numero delle ragazze provenienti dall’Europa dell’Est e in particolar modo dalla Romania. Recentemente, è aumentata, sia sulla strada che in appartamento, la presenza di ragazze latinoamericane (e in particolare brasiliane). E, negli ultimi mesi, si cominciano a vedere in strada ragazze orientali e in particolare cinesi.
«Le ragazze nigeriane dicono tutte di avere 18 anni, ma moltissime hanno l’aria di ragazzine» fa notare Valerio Pedroni, responsabile del settore donne in condizioni di fragilità sociale di Segnavia, una struttura legate ai padri Somaschi. Gestisce cinque unità di strada, un drop in, un progetto in-door, case di prima e seconda accoglienza. Il tutto finalizzato a togliere le ragazze dalla strada e offrire percorsi di recupero che diano loro una nuova chance di vita.
«Molte di loro vivono tra Milano e Torino – continua – e si riversano la sera sulle strade della periferia milanese. È difficile stabilire un contatto con loro. Spesso sono in gruppo e non si riesce ad avere un rapporto personale; sono diffidenti, ed è difficile andare al di là di un contatto superficiale che può essere facilitato dalla loro esuberanza, ma che spesso non va molto in profondità. Inoltre, alcune maman che le gestiscono e le controllano, a volte sono in strada pure loro; le minacciano e le scoraggiano dall’avere contatti con persone che non siano i clienti. E poi loro stesse, essendo numerose e dunque dovendo lottare con una vasta “concorrenza”, non sono molto disponibili a “perdere tempo” con degli sconosciuti».

VINCERE LA DIFFIDENZA
«In passato – aggiunge Palma Felina -, a fronte di una presenza in strada significativa, erano poche le nigeriane nelle case di accoglienza. Avevano paura a denunciare, specialmente se non avevano ancora finito di pagare il loro debito. Quelle che decidevano di scappare non andavano nelle strutture di accoglienza, si aiutavano tra di loro. Non si fidavano di altri. Negli ultimi anni, invece, arrivano più numerose. Molte sono seguite in progetti territoriali. Alcune scappano, perché non ce la fanno più, prima di aver finito di pagare il debito. Dopo la denuncia, vengono portate lontano dai luoghi in cui hanno vissuto e lavorato. Ma spesso non dormono e si ammalano. Mostrano segni visibili di malessere e di traumi non solo fisici, ma anche psicologici».
In alcuni casi si allontanano dalla strada grazie a un ex-cliente che si è affezionato loro e che le aiuta. Ma i matrimoni di comodo non rappresentano la principale via d’uscita delle nigeriane; è molto più diffuso tra ragazze di altre nazionalità. In Italia molte sono state regolarizzate attraverso le sanatorie (comprese alcune madame!). Sempre di più sono quelle che denunciano i loro sfruttatori e che in base all’articolo 18 ottengono il permesso di soggiorno umanitario (cfr. p. 40).

STRUMENTI INADEGUATI
Tuttavia, gli strumenti legali paiono ancora inadeguati per combattere il problema alla radice. Sia perché in Italia le forze dell’ordine e le procure non hanno abbastanza mezzi per far fronte alla complessità della tratta, sia perché a livello nigeriano c’è una totale impunità.
«La mafia nigeriana – spiega Gianluca Epicoco, sostituto commissario della squadra mobile di Cremona, che da 12 anni svolge indagini e ricerche in questo ambito – è complessa e stratificata. Al livello più basso si trovano le maman, che rappresentano l’ultimo nodo di una rete che si dipana tra l’Italia e la Nigeria. A un livello intermedio, il potere passa agli uomini che gestiscono la logistica del traffico da Benin City a Lagos e da lì all’Europa, soprattutto Parigi, ma anche Amsterdam e Madrid per poi arrivare a Torino. Poi, a un livello più alto, troviamo i veri e propri trafficanti, che stanno in Nigeria: una struttura ben organizzata, potente, ramificata, con molti contatti, capace di corrompere ad alti livelli, con legami con governi e ambasciate, e addentellati in tutta Europa. Una vera e propria associazione a delinquere, in grado di trafficare documenti e visti, oltre che ragazze, su scala trans-nazionale. Di fronte a una simile organizzazione, spesso noi non abbiamo né le risorse umane né i mezzi necessari per fronteggiarla e combatterla adeguatamente». 
Un nuovo escamotage escogitato da qualche anno è quello della richiesta di asilo politico all’arrivo in Italia, magari spacciandosi per sierralionesi, liberiane o avoriane. Le ragazze vengono allora portate in appositi centri di prima accoglienza, da dove alcune scappano subito. Altre presentano la domanda alle questure, dove ottengono un foglio per richiedente asilo e da quel momento, sino al termine della valutazione della loro richiesta, non possono essere espulse.
Sempre di più, tuttavia, queste ragazze arrivano con storie molto plausibili, ma tutte uguali, che imparano a memoria e recitano davanti alle forze dell’ordine, facilmente smascherabili da chi ha un po’ di esperienza e conoscenza del problema, nonché dei luoghi di origine.

In Lombardia sono 34 le associazioni, i gruppi, gli enti che si occupano di queste donne e di tutte quelle che subiscono umiliazioni e violenze, vendendo il loro corpo. Oggi lavorano sempre più in rete per provare a restituire loro la dignità e riconsegnare il destino nelle loro mani.

di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Nuovi «samaritani»… in rete

Religiose in campo contro il traffico di donne e minori

Impegnata nella lotta alla tratta dal 1993, Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, dal 2000 è responsabile nazionale del settore «Tratta donne e minori» dell’Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia), con il compito di  cornordinare il lavoro di altre religiose, organizzare incontri formativi, creare reti di collaborazione con forze pubbliche e private, per meglio conoscere il problema e delineare strategie per contrastarlo.

La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale, gravissima violazione dei diritti della persona umana, costituisce un problema di portata mondiale che coinvolge, sprona e stimola tutte le forze, laiche e religiose che operano in questo campo, a unirsi per individuare strategie adeguate a salvaguardia della dignità e della sacralità di ogni persona.
L’impegno, in questo campo, delle religiose italiane appartenenti alla Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia, che raccoglie 627 congregazioni femminili, in Italia e all’estero, e contano 83 mila membri) è cresciuto negli ultimi anni, di pari passo con l’impegno della società civile e delle istituzioni.
Nel 2000 è stato creato un apposito ufficio «Tratta di donne e minori», per cornordinare il servizio di moltissime religiose – attualmente circa 250 in Italia che lavorano in 110 strutture – che, cogliendo la sfida di una nuova forma di schiavitù, avevano dato risposte immediate in questo settore. Infatti, le congregazioni religiose, insieme alle Caritas diocesane e a gruppi di volontariato, furono tra le prime a leggere il fenomeno negli anni ‘90 e a offrire a queste donne, in buona parte albanesi e nigeriane, soluzioni alternative allo sfruttamento sessuale sulle strade.
Quasi subito, le congregazioni hanno messo a disposizione di queste giovani vittime, che si ribellavano contro gli sfruttatori, alcune delle loro strutture, per accoglierle e per offrire protezione e aiuto per un nuovo progetto di vita.
In questi ultimi anni il fenomeno ha cambiato volti, rotte, modalità, così come sono cambiati gli interventi di contrasto e di recupero delle vittime, ma rimane costante il rischio di sfruttamento della donna e la conseguente riduzione in schiavitù a causa della sua vulnerabilità. Per questo, il lavoro dell’Usmi in Italia è diventato alquanto ampio e articolato.
C omincia dalla strada, dove apposite unità, insieme a gruppi parrocchiali, prendono un primo contatto con le vittime. Sono stati inoltre creati centri di ascolto, predisposti ad accogliere i problemi delle donne in cerca di aiuto. Numerose sono le comunità di prima e seconda accoglienza per progetti di reintegrazione sociale; complessivamente, sono un centinaio le case-famiglia gestite da religiose per programmi di reintegrazione umana, sociale e legale.
Molte strutture accolgono anche madri con bimbi o donne incinte, per proteggerle e salvaguardare il dono della vita nascente. Generalmente il numero delle ospiti non è mai superiore a sette e la permanenza varia dai 12 ai 24 mesi, il tempo necessario per un reinserimento sociale adeguato e in piena autonomia. Vengono, inoltre, proposti corsi di lingua, di formazione professionale e avviamento lavorativo.
Spesso viene foita anche un’assistenza legale, per permettere a queste donne di reperire tutta la documentazione necessaria per uscire dalla clandestinità e ottenere il permesso di soggiorno. Questo lavoro è svolto in collaborazione con le ambasciate per ottenere i dovuti documenti di identificazione.
Dall’inizio della nostra collaborazione in questo settore, oltre 2 mila passaporti sono stati rilasciati alle nostre organizzazioni dalla sola ambasciata della Nigeria.
Infine, viene offerta assistenza umana, psicologica e spirituale alle donne che si trovano in attesa di espulsione nel Centro di permanenza temporanea di Roma (Ponte Galeria), dove si alternano, ogni sabato pomeriggio, 14 religiose di 8 nazionalità e 11 diverse congregazioni.

Da parecchi anni l’Usmi lavora in collaborazione con alcune Conferenze delle religiose dei paesi di origine delle ragazze trafficate, specie in Nigeria, Romania, Albania e Polonia, per rafforzare la rete già esistente in tutto il mondo grazie alla presenza capillare di tante comunità religiose, che cercano di informare del rischio, contrastare il fenomeno e gestire l’emergenza attuale.
Diversi corsi di formazione professionale per religiose sono stati organizzati in questi paesi, in collaborazione con l’Uisg (Unione internazionale superiore maggiori), l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e l’Icmc (Commissione internazionale delle migrazioni cattoliche).
Lo scorso ottobre è stato organizzato a Roma un importante convegno internazionale, a cui hanno partecipato 33 religiose provenienti da 26 paesi, con lo scopo di allargare la rete e la collaborazione tra quelle che vivono nei paesi di origine e quelle che sono nei paesi di destinazione delle ragazze trafficate.

Il ruolo delle religiose, in un ambito così delicato, è quello di offrire a tante giovani la possibilità di essere aiutate a ritrovare la voglia di vivere e di ricominciare anche un percorso spirituale e di fede più approfondito, che le aiuti a liberarsi dalle catene dei pregiudizi e della superstizione.
Nonostante la terribile esperienza vissuta, possono ancora recuperare un ruolo attivo nella famiglia e nella società, testimoniare della possibilità di rinascita in ogni situazione e collaborare alla creazione di un mondo più umano e rispettoso della dignità di ogni persona.

Di Eugenia Bonetti

Eugenia Bonetti




Protocolli. convenzioni, decreti …

Nazioni Unite – Unione Europea – Italia

Dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), le iniziative legislative per combattere
la tratta di persone si sono moltiplicate a livello mondiale e di singole nazioni. Ma le normative sono spesso disattese, lasciando ampi margini alle organizzazioni criminali.

Sono almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est.
Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.
Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra… E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.
Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo  per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale  (http://www.hrlawgroup.org/initiatives/trafficking persons/).
Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.
L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».
Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato la Global Iniziative to Fight Human Trafficking (Iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift – www.ungift.org), che cornordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.
Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.
Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.

Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».

Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 – strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati – e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede – sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio – il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.
Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di ri-socializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e cornordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.
Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».
L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno – di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) – ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge -, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African market”, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo…».
Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!… Ora lo sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Qui Benin City: reportage

Introduzione

In quasi tutto il mondo, l’8 marzo è la «festa della donna», una giornata per celebrare le conquiste sociali, politiche, economiche delle donne e, al tempo stesso, sensibilizzare la pubblica opinione sui problemi che pesano ancora oggi sulla condizione femminile. Milioni di donne, infatti, non hanno nulla da festeggiare, né possono rivendicare alcun diritto, soprattutto le vittime della prostituzione coatta, la peggiore schiavitù. Il dossier di questo mese, vuole richiamare l’attenzione su queste vittime, in particolare le nigeriane, trafficate e prostituite sulle strade italiane.
Missioni Consolata si è già occupata del problema con un numero speciale di ottobre-novembre 2005, «Prezzo di Mercato», poi pubblicato come libro dalla Emi nel 2006, e ritorna ad occuparsene in questo dossier, poiché il fenomeno della tratta delle nigeriane è in crescita; la situazione delle vittime sempre più tragica; l’indifferenza più scandalosa che mai.

Il dossier è frutto di una ricerca sul campo e viene pubblicato in contemporanea, tutto o in parte, dalle altre riviste Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana). Autrice e fotografa (che hanno accompagnato in Nigeria un gruppo di religiose e laiche impegnate nella lotta allo sfruttamento di donne e minori) raccontano quanto hanno visto: complessità del problema, storie di donne liberate da tale schiavitù, impegno di chiesa e stato per prevenire l’esodo delle vittime della tratta e soccorrerle in caso di rimpatrio.
La seconda parte descrive la situazione delle nigeriane in Italia, particolarmente nell’area milanese, e le iniziative in corso, soprattutto da parte delle congregazioni religiose femminili, per aiutarle a uscire dall’inferno dei marciapiedi e guarire le ferite inflitte alla loro dignità. Il lavoro già fatto contiene segni di speranza.
Per richiamare l’attenzione e la responsabilità di tutti, è in fase di allestimento una mostra fotografica, che visualizza la tragedia delle nigeriane in Italia e nel loro paese di origine. (BB)

Qui Benin City: reportage

Sono oltre 30 mila le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi sulle strade italiane. All’origine del dramma c’è un intreccio perverso fatto di affari e corruzione, inganni e ricatti, violenze e ignoranza, stregoneria e… tanta miseria. Una sfida immane, a cui qualcuno sta rispondendo con iniziative di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza
delle ragazze che tornano a casa.

«S iamo qui a Benin City per lottare contro il traffico vergognoso di migliaia di ragazze che vengono portate via con l’inganno e sono costrette a prostituirsi sulle strade italiane. Ragazze ridotte in schiavitù. Ragazze usate e abusate…». «Dai vostri uomini!».
Suor Eugenia Bonetti denuncia; l’Oba contrattacca. Lei è una missionaria della Consolata, cornordinatrice dell’Ufficio contro la tratta di esseri umani dell’Unione delle superiore maggiori italiane (Usmi). Lui è il re di Benin City, discendente di uno dei regni più potenti dell’Africa occidentale, che ancora oggi conserva un’autorità enorme su questa fetta di Nigeria, dove gli uomini della politica e dell’amministrazione nulla possono senza il suo accordo. Quello dell’Oba è un potere tradizionale e reale, si nutre di occulto e s’impone su questioni molto concrete. Compresa quella delle donne trafficate in Italia per essere sfruttate sessualmente.
VERGOGNA GLOBALE
Nello scambio di battute tra lui e suor Eugenia c’è la sintesi di questo vergognoso business fatto sulla pelle di ragazze spesso giovanissime. Un business che si regge su un meccanismo consolidato di domanda e offerta. E che si snoda tra la Nigeria e l’Italia lungo le vie della tratta, gestite da mafie inteazionali ben organizzate ed efficienti, spesso non adeguatamente perseguite.
Oggi il «commercio» di donne a fini di sfruttamento sessuale è, secondo l’Onu, la terza attività illegale più redditizia al mondo (dopo il traffico di armi e di droga), con un giro di affari stimato attorno ai 12 miliardi di dollari l’anno.
Merce di consumo di una società edonista e mercantile, la donna diventa, da un lato, «capitale» finanziario da sfruttare da parte di organizzazioni malavitose senza scrupoli, dall’altro, oggetto di soddisfazione di desideri e perversioni.
Le chiamano prostitute, quando va bene. Più spesso sono additate con i vocaboli più dispregiativi. In Liguria sono ancora le bagasce, come lo scarto della lavorazione della canna da zucchero. Peggio dei rifiuti, in un immaginario collettivo che ipocritamente getta loro addosso disprezzo e pregiudizio. Come se fosse una libera scelta quella di vendere il proprio corpo. Per molte di loro è una vera e propria schiavitù. Vittime della povertà e dell’ingiustizia, di una vita che non è degna di essere vissuta, innanzitutto nei loro luoghi d’origine, molte di queste ragazze si ritrovano ingannate da promesse fittizie, dal miraggio di un’esistenza migliore, di un altrove fatto di benessere e felicità: finiscono col ritrovarsi schiave sessuali, in una situazione di vulnerabilità e povertà ancora peggiore di quella da cui vengono, sradicate in un paese straniero, clandestine, senza identità né dignità.
Le chiamano prostitute, ma sarebbe meglio dire prostituite. Costrette a vendere se stesse, corpi-merce di un traffico che ha preso la forma intollerabile di una delle peggiori schiavitù contemporanee.
DONNE CORAGGIO
Suor Eugenia, 69 anni, originaria di Bubbiano, in provincia di Milano, si occupa del problema da molti anni. Eppure non finisce mai di indignarsi e scandalizzarsi. Il grido d’aiuto di una ragazza nigeriana, 15 anni fa a Torino, le ha aperto uno squarcio su un abisso di miseria, sfruttamento e violazione della dignità della donna. «Sister, help me! Suora, aiutami!». Quel grido ha continuato ad accompagnarla anche quando è diventata, nel 2000, responsabile dell’Ufficio tratta dell’Usmi e ha cominciato a lottare senza risparmiarsi per mettere in rete tutti coloro che si battono contro questo «commercio» di esseri umani al fine di promuovere un’azione più concordata ed efficace.
Oggi, suor Eugenia è un punto di riferimento importante di una rete di realtà inteazionali. E non è un caso se, nel corso della visita di stato nel giugno del 2007, Laura Bush, moglie del presidente Usa, ha voluto incontrare a Roma questa religiosa, che pochi mesi prima, in marzo, aveva ricevuto dal Dipartimento di stato americano il premio «Donna Coraggio».
«Ci sono ancora circa 30 mila ragazze nigeriane sulle strade italiane – denuncia suor Eugenia davanti all’Oba e ai notabili di Benin City – costrette a prostituirsi per pagare un debito assurdo: 50, 60, anche 80 mila euro. A volte, anche di più! Ci vogliono anni prima che riescano a riscattarlo. Alcune muoiono, altre vengono uccise. E in molte di loro si spezza qualcosa dentro. Per sempre. Dobbiamo dire basta a questo sfruttamento inumano. Ma dobbiamo farlo tutti insieme».
L’Oba annuisce. Lui sa e potrebbe fare molto, perché sta nel cuore del cuore del problema. È infatti la massima autorità tradizionale di Benin City, la città da cui proviene la stragrande maggioranza delle ragazze trafficate in Italia. È qui il centro di quell’intricato intreccio di business e traffici, di azioni legali e riti tradizionali, di finanza e stregoneria, che ne è all’origine: un giro di favori e minacce, ricatti e doni, troppo vasto e complesso perché anche chi sa possa o voglia fare davvero qualcosa.
Qualcuno però ci sta provando. Come sister Florence Nwaonuma delle suore del Sacro Cuore, una congregazione diocesana di Benin City, responsabile del Comitato per il sostegno della dignità della donna (Cosodow), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Fondato nel 1999, insieme a due avvocati e altri volontari, il Comitato svolge un importante e delicato lavoro di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza delle ragazze che ritornano. Non senza difficoltà.
La prima è parlarne. Lo ammette la stessa sister Florence, che peraltro ha sia la stazza che il carattere di chi non si lascia facilmente mettere a tacere. Pure lei è avvocato, ed è venuta a Benin City per occuparsi del problema proprio là dove ha origine.
«Facciamo moltissima sensibilizzazione, a tutti i livelli – dice suor Florence -: parrocchie, scuole, amministratori, affinché si sappia innanzitutto cosa sta succedendo.  Dopo tutti questi anni, dopo migliaia di ragazze trafficate, non si può più far finta di niente, come se questo fenomeno non esistesse. Eppure c’è ancora molta omertà, a volte per paura, a volte per interesse. Noi lavoriamo soprattutto per creare una coscienza del problema e per provare a cambiare i comportamenti».
SPECCHIO DI CONTRADDIZIONI
Una bella sfida, in un contesto che certamente non aiuta. La Nigeria in generale, e Benin City in particolare, sono oggi lo specchio di un’Africa che sta cambiando in maniera impressionante e caotica. Un’Africa dove restano forti alcuni riferimenti tradizionali – la famiglia, il villaggio, valori e norme di comportamento, ma anche superstizioni e stregoneria – e dove sempre più si impongono stili di vita e modelli culturali di tipo occidentale, spesso legati a logiche consumistiche e materialiste. Il connubio talvolta è un ibrido inquietante. Come a Benin City, città di più di un milione di abitanti a circa 350 chilometri a est di Lagos, dove la povertà diffusa ed evidente stride in maniera sconcertante con alcuni simboli di ricchezza e potere ben esibiti: Suv americani ultimo modello, campi da golf col prato all’inglese, ville sontuose protette come fortezze. E lì accanto, il degrado di una città decadente, sporca, le strade disseminate di buche grandi come voragini, le case troppo spesso simili a baracche fatiscenti…
La vita qui costa poco e non vale quasi niente. Bastano pochi spiccioli per mangiare il solito piatto di riso e pesce secco, ma per pochi spiccioli una famiglia può «vendere» il proprio bimbo come domestico nelle case di chi sta un po’ meglio. Di lavoro non ce n’è ed è difficile capire come la gente riesca a cavarsela. C’è sempre un gran via vai di persone in strada, nei mercati, ovunque. Una miriade di attività «informali», ma di lavoro vero e proprio poco o nulla.
Forse nell’amministrazione pubblica, che finisce tuttavia col diventare il ricettacolo di amici, parenti, persone a cui si deve un favore. Come al Museo nazionale, dove almeno cinque persone «lavorano» all’ingresso, tra la cassa e l’albo delle presenze, non facendo praticamente nulla. Del resto, siamo gli unici visitatori da chissà quanto tempo. Una rarità. Peccato che anche le rarità che sono nelle teche, oggetti preziosissimi e antichi, risalenti al prestigioso regno di Benin, siano praticamente invisibili perché la maggior parte delle luci non funziona.
Che funzionano, invece, a qualsiasi ora del giorno, sono i cybercafé, ovunque affollati di giovani. È il business che va per la maggiore e infatti se ne trovano ovunque e sono sempre pieni, nonostante la connessione lentissima e precaria. Taluni sono veramente angusti e i ragazzi stanno ammassati l’uno accanto all’altro. Alcuni cercano una scuola o un lavoro all’estero; le ragazze chattano con «fidanzati» che sperano di raggiungere in Europa, altri – i cosiddetti yahoo-boy – si sono specializzati in truffe telematiche e trafficano con migliaia di indirizzi… Tutti paiono proiettati verso l’estero, l’altrove, il paradiso immaginato, inseguito, voluto a ogni costo.
FUGA DALLA DISPERAZIONE
«Oibo! Oibo!». In strada è un continuo chiamare lo straniero che passa. «Ehi, bianco, perché non mi porti in Europa con te?». Un po’ per scherzo, un po’ sul serio, sono in molti a chiederlo.
Non sfuggono a questo meccanismo le ragazze che vengono trafficate in Europa. All’inizio venivano quasi tutte da Benin City. Ora le madame, le donne che gestiscono i traffici, e i loro corrieri rastrellano sempre di più i villaggi limitrofi, facendo balenare il sogno di un lavoro ben retribuito all’estero a famiglie estremamente povere e senza strumenti culturali per valutare il rischio a cui espongono le loro figlie. Quanto a loro, ragazze giovanissime e spesso analfabete, non aspettano altro: l’Europa, la bella vita, i soldi per loro e per le loro famiglie. Un sogno. Per il quale sarebbero disposte a tutto: a sottoporsi a un rito voudou – il ju ju (vedi riquadro) – ad affrontare viaggi spaventosi, talvolta via terra, ad accettare di pagare un debito spropositato.
«Fino a che punto queste ragazze siano coscienti di dove finiranno e a fare cosa è difficile dirlo», spiega don Vincenzo Marrone, salesiano, da 25 anni in Nigeria. È lui che ha costruito a Benin City la casa di accoglienza per quelle che rientrano volontariamente o che vengono rimpatriate.
«Questa città – spiega – vive in bilico tra l’orgoglio per un passato grandioso e un presente di decadenza e mancanza di speranza. La sua popolazione è fiera e volitiva, vuole a tutti i costi farsi un futuro, desidera una vita migliore. Sono convinto che molti sappiano dove finiscono le ragazze. Le ragazze stesse, almeno quelle della città, ne sono consapevoli; ma molte pensano che quello che è successo alle altre non potrà mai succedere a loro: e così finiscono in una trappola da cui faticano poi a liberarsi».
«Perché proprio Benin City?» si interroga padre Jude Oidaga, gesuita originario di questa città, ma che ha studiato in mezzo mondo. Il suo è uno sguardo, al tempo stesso, dall’interno e dall’esterno. «Bisognerebbe fare l’esperienza di alzarsi la mattina e non avere cibo, arrivare a sera e non avere cibo; e non avere un lavoro, né benzina, né sapone per lavarsi… Bisognerebbe fare l’esperienza di chi lotta per sopravvivere, per capire a fondo cosa spinge queste ragazze a partire a ogni costo. Ma la responsabilità della loro fuga va ricercata a un livello più alto: quello delle istituzioni e dei governi – locali, federali, inteazionali -, corrotti e inetti; quello delle politiche inteazionali ingiuste e discriminatorie, che non fanno altro che ampliare la frattura tra ricchi e poveri. E allora non andrebbero biasimate in prima istanza queste ragazze, ma innanzitutto coloro che sono responsabili della sperequazione e ingiustizia distributiva che condanna tanta gente a vivere una vita indegna».
Benin City, con il suo disordine e la sua decadenza, la sua miseria e le sue ville milionarie, è un po’ l’archetipo di molti angoli di un mondo che funziona a velocità diverse, che corre sulle autostrade di uno sviluppo accessibile a pochi e lascia indietro grosse fette della popolazione mondiale, abbandonate alle periferie di una globalizzazione che non è poi così globale. E le ragazze di Benin City – trafficate, sfruttate, abusate – sono un po’ il simbolo di questa vergogna. Che va gettata in faccia a chi le ha gettate in strada.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Qualcosa è cambiato

Introduzione

In passato, l’America centrale è stata al centro dell’attenzione dei media mondiali, che seguivano (invero non sempre con serena obiettività) la rivoluzione popolare sandinista in Nicaragua e quelle che erano in gestazione in Salvador e Guatemala. Il Costa Rica veniva chiamato «la Svizzera centroamericana», per la sua imparzialità e per aver «abolito» il suo esercito, mentre la stampa più attenta segnalava l’Honduras per essersi trasformato in una base militare controrivoluzionaria dei potenti vicini nordamericani.
Oggi l’America centrale si trova in una situazione differente. In Guatemala, ha appena (gennaio 2008) preso il potere Alvaro Colom, un presidente che si dice di centrosinistra. Per parte sua, il presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, lo scorso 19 luglio, si è presentato ai festeggiamenti per l’anniversario della rivoluzione sandinista sulla piazza della Rivoluzione, a Managua, e si è seduto tra Daniel Ortega ed Hugo Chávez. A Panamá guida il paese Martin Torrijos, figlio di un grande amico della rivoluzione sandinista.
Nel Salvador, il Farabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln), seguendo i passi del Fronte sandinista (Fsln), si sta attivando per costruire una piattaforma elettorale con buona possibilità di vincere le prossime elezioni presidenziali.

Il Nicaragua ha lasciato nel passato la dinastia dei Somoza; la nobiltà della sua rivoluzione e le distruzioni della guerra d’aggressione statunitense degli anni Ottanta; l’instabilità della sua transizione all’inizio degli anni Novanta e la tristezza della corruzione sotto i governi di Aoldo Alemán e Enrique Boloños. Oggi il Nicaragua cerca nel suo passato rivoluzionario, sperando di trovare una risposta che gli permetta di avere fede nella globalizzazione centroamericana, per la quale finora si è soltanto sacrificato…

In questo nostro dossier, abbiamo tentato con semplicità di formulare un’interpretazione della realtà nicaraguense, di quel che si sta facendo, di quel che si vede e di quel che crediamo stia dietro l’apparenza.

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Il sandinismo rivive (nonostante tutto)

Da Somoza al ritorno di Ortega

Un piccolo paese «strangolato» più volte nel corso della sua storia: prima dalla dittatura della famiglia Somoza, poi dalle decisioni del presidente Usa Ronal Reagan ed infine dalle devastanti politiche neoliberiste. Oggi il Nicaragua torna a guardare al proprio passato rivoluzionario. Anche se i tempi sono cambiati.

Il Nicaragua si fa conoscere nel mondo tra gli anni Settanta ed Ottanta per la rivoluzione sandinista, che trionfa sulla tirannia della dinastia dei Somoza, famiglia imposta e sostenuta dagli Stati Uniti, poco prima dell’assassinio di Sandino nel lontano 1934. Dopo quasi 45 anni di governo dittatoriale, la famiglia Somoza aveva spinto contadini, studenti e sindacati alla clandestinità e all’opposizione in forma di guerriglia.
Nel 1978 la guerriglia si amplia e diventa insurrezione popolare, in cui si coalizzano 3 tendenze: la tendenza proletaria, quella della guerra popolare prolungata e quella insurrezionale. Quest’ultima, che fa capo a Daniel Ortega, nel 1979 trionfa. Negli anni Ottanta, dopo 4 anni di rivoluzione, si propongono elezioni che vedono la schiacciante vittoria del «Frente sandinista de liberacion  nacional» (Fsln) di Ortega, a capo di una direzione nazionale formata da 9 comandanti.
Il Nicaragua sviluppa un processo rivoluzionario molto simile a quello cubano, ma con alcune fondamentali differenze: il pluralismo politico, il suffragio universale, un sistema economico misto (stato e privati) e la scelta del non-allineamento sul piano internazionale.
Si comincia ad installare giganteschi complessi agroindustriali statali (con l’aiuto di Cuba e dell’Unione Sovietica) per l’agroesportazione. Il governo statunitense, per frustrare l’industrializzazione e destabilizzare il paese, comincia allora una guerra di aggressione, obbligando il Nicaragua a destinare la maggior parte delle sue risorse alla difesa nazionale. In questo stesso decennio, Washington decreta l’embargo alle esportazioni e mina i porti nicaraguensi.
Nel contempo, i reduci della Guardia nazionale somozista, guidati dal colonnello Enrique Bermudez, vengono riuniti, assessorati e finanziati dalla Cia e dai militari argentini della dittatura militare. La Guardia, ribattezzata «la Contra», partendo dall’Honduras e dal Costa Rica, intraprende una guerra (non dichiarata) di guerriglia, che il presidente Usa Ronald Reagan chiama «guerra a bassa intensità» (sull’esperienza dei vietcong in Vietnam). Una guerra, fatta con l’obiettivo di impedire il successo della rivoluzione e bloccare la diffusione dell’entusiasmo rivoluzionario al Salvador e al Guatemala, che alla fine lascerà sul terreno ben 50.000 vittime.
Dopo un decennio di guerra, di scandali inteazionali (come quello dell’Iran-Contras: vendita illegale di armi al paese mediorientale per finanziare i mercenari antisandinisti all’insaputa del Congresso statunitense) e di insuccessi bellici dei Contras, il governo nordamericano democratico di Jimmy Carter decide di intavolare conversazioni di pace con il governo di Daniel Ortega. Al tempo stesso, anche i sandinisti, senza l’appoggio del blocco sovietico (ormai traballante) e per evitare una sconfitta militare, propongono la fine della guerra e le trattative di pace con presenza internazionale (Esquipulas II).
Nel 1990 Ortega indice elezioni generali per la seconda volta. L’opposizione (formata da liberisti-somozisti, liberisti indipendenti, conservatori, socialcristiani e sandinisti pentiti, in tutto 14 partiti) si unisce contro i sandinisti nella Uno («Union nacional opositora») e con Violeta Barrios de Chamorro vince le libere elezioni.

Il nuovo governo di Violeta Chamorro trova un paese prostrato da anni di guerra, l’economia altamente indebitata con gli organismi finanziari inteazionali del Nord del mondo e un legame strettissimo con Washington. La formula principale di stabilizzazione economica che il governo di Violeta Chamorro applica consiste nella «donazione» del governo statunitense di 3.550 milioni di dollari al Banco centrale del Nicaragua per garantire il «cordoba oro», la nuova moneta cambiata alla pari con il dollaro. La donazione viene pagata a caro prezzo: la rinuncia alla richiesta di pagamento di 17.000 milioni di dollari, secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte internazionale dell’Aja delle Nazioni Unite come indennizzo per l’intervento nella guerra di aggressione degli anni Ottanta.
Al momento della sconfitta elettorale del Fsln, Daniel Ortega fa un appello ai suoi militanti a «governare dal basso». Ma la sconfitta provoca nei sandinisti una grande tristezza e spesso rassegnazione. Una sorta di «si salvi chi può» e «si rompano le fila» colpisce gli intellettuali, nonché gli ex ministri e ambasciatori: Daniel Ortega rimane da solo.
Dall’inizio del governo Chamorro, i sandinisti sono all’opposizione. Come risposta all’apertura del libero mercato, alla privatizzazione delle imprese statali, al licenziamento di massa del personale statale e all’incremento dei prezzi degli alimenti base, insieme alle organizzazioni dei lavoratori, dei contadini e dei rappresentanti dei quartieri popolari, essi paralizzano il paese in varie occasioni con violente proteste di piazza, esigendo che si preservino le conquiste sociali della rivoluzione.
Questa situazione polarizzata porta ai cosiddetti «accordi di transizione», in cui il governo neoliberista promette di lasciare intatte  molte delle conquiste economiche e sociali della rivoluzione. Un accordo che sarà denominato la «piñata sandinista». Questi accordi rallentarono lo smantellamento dei benefici ottenuti nel periodo sandinista. Tuttavia, lo scontento per i risultati elettorali e per questi accordi producono la più importante scissione all’interno dei sandinisti: nasce il «Movimento di rinnovamento sandinista» (Mrs).

Nelle successive elezioni del 1996 vince il «Partito liberale costituzionalista» (Plc), un partito con una base elettorale di tipo tradizionalista-clientelare. Presidente è Aoldo Alemán, un avvocato difensore delle cause somoziste, di sinistra reputazione, leader antisandinista, immagine del karma politico di Anastacio Somoza. Il governo di Alemán approfondisce l’applicazione del neoliberismo, con nuovi licenziamenti di massa, smantellamento delle dirigenze sindacali, sgombero di massa delle terre occupate, privatizzazione dei servizi pubblici e una grottesca corruzione e saccheggio delle risorse dello stato, accompagnata da bancarotta fraudolenta delle banche e infine ripartizione delle terre dei popoli indigeni agli ex contras. Nonostante queste premesse, la minima differenza di rappresentazione nel parlamento, le elezioni avvolte dall’ombra dei brogli, lo scandalo che produsse l’accusa di abuso sessuale della figliastra di Daniel Ortega inducono il fronte sandinista a proporre un patto di convivenza con il Plc di Alemán. Questo patto riguardava la ripartizione proporzionale dei rappresentanti degli organismi statali e giudiziali, insieme alla riforma della costituzione.
Questo accordo politico ha profonde ripercussioni nell’autorità morale del leader sandinista, generando sfiducia e alimentando le proposte dell’Mrs, proposte che consistevano nel cambio di direzione del sandinismo verso una democratizzazione della sua struttura centralista, derivata dalla guerra, ma più che altro al rinnovamento della sua dirigenza, considerata logorata dai suoi errori.
Al governo di Alemán succede  quello del suo vicepresidente, il conservatore Enrique Bolaños, un latifondista, che per uno stretto margine vince le elezioni del 2001 su Ortega. Il nuovo presidente si proclama nemico della corruzione che aveva caratterizzato il predecessore. Era stato infatti scoperto un saccheggio milionario dei fondi dello stato, insieme a tutti gli aiuti inteazionali arrivati per la ricostruzione a seguito dell’«uragano Mich» del 1998, che aveva distrutto la struttura produttiva del Nicaragua. 
Alemán viene scaricato anche dal governo statunitense. La divisione della destra lascia Bolaños con una minima rappresentanza parlamentare, che lo obbliga ad allearsi con l’Fsnl. Alleanza con cui riesce a togliere l’immunità parlamentare ad Alemán e a portarlo davanti alla giutizia. Una giudice sandinista lo condanna a 20 anni di prigione. L’ex presidente entra ed esce dal carcere più volte, in relazione al momento politico contingente, fino al dicembre 2007, quando viene deciso il suo incarceramento.
Il governo Bolaños continua a sviluppare la politica neoliberista, privatizzando i servizi pubblici che ancora restano come l’educazione pubblica (sotto la finzione della «autonomia scolastica») e l’acqua (sotto il travestimento di «contratti privati di industrializzazione ed ampliamento del servizio»).
Il governo è però minato dall’instabilità. Il presidente tenta di utilizzare l’esercito per controllare le proteste popolari e lo scontento per il moltiplicarsi della povertà e gli intenti di privatizzazione. Bolaños spacca infine la destra, formando il «Partito dell’alleanza liberale nicaraguense» (Aln), che però viene sconfitto nelle ultime elezioni (novembre 2006). 

Aconti fatti, tutti e tre i governi neoliberisti – di Violeta Chamorro, Aoldo Alemán ed Enrique Bolaños – hanno perseguito la privatizzazione dello stato nazionale, includendo i servizi base tra cui l’energia, la salute, l’educazione, l’acqua, il trasporto, le infrastrutture e il sistema pensionistico.
Questi governi hanno proceduto sottraendo al bilancio dello stato fondi destinati ai servizi pubblici, rendendoli così sempre più deficitari. L’intento era di arrivare ad una privatizzazione senza resistenze popolari e offrendo, a prezzi di bancarotta, alle società transnazionali 200 anni di conquiste sociali.
Una politica siffatta ha facilitato lo smantellamento del sistema produttivo nazionale, affossato anche dalla privatizzazione della Banca nazionale e di conseguenza del credito (colpendo con ciò i piccoli produttori, sia contadini che microimprenditori, che sono la maggioranza in Nicaragua).
In un secondo momento, viene distrutto il commercio interno, trasformando il Nicaragua in un grande importatore di beni e servizi esteri, che costituiscono il grande business della globalizzazione. Globalizzazione che in realtà, nei paesi poveri, altro non è se non una neocolonizzazione.

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino