Vivere da consumatore critico si può

Le pratiche dell’«altra» economia

Le botteghe del commercio equo e solidale, i gruppi dei bilanci di giustizia, quelli di acquisto solidale, le Mag, la Banca Etica, il turismo responsabile. Sono molte le risposte che si possono dare per combattere in prima persona contro un sistema ingiusto, che perpetua le diseguaglianze e distrugge l’ambiente.

L’attuale sistema economico presenta degli enormi problemi per quanto riguarda la giustizia (intesa come ripartizione tra gli uomini di quanto serve per vivere) e l’ambiente, ovvero la capacità di questo modello di produzione e consumo di durare nel tempo senza minare le basi naturali che lo sostengono.
Come se non bastasse, questo stesso sistema fa sentire i suoi effetti negativi (si chiamano inquinamento, malattia, stress, precarietà) anche sulle popolazioni del Nord, da esso avvantaggiate. Questo ci porta a chiederci quale sia l’efficacia del sistema rispetto al nostro desiderio di condurre una vita sana, serena e densa di relazioni.
Queste problematiche di giustizia, natura, benessere e senso, poste dal sistema economico attuale, da tempo hanno prodotto una ricerca di pratiche che possono fornire delle risposte, anche se parziali.

LE DOMANDE
DEI CONSUMATORI CRITICI

In Italia, le esperienze di costruzione di un’altra economia iniziano negli anni ‘80 con il commercio equo e solidale e la finanza etica. Il primo trae origine dalle condizioni disperate dei contadini del Sud del mondo, costretti a vendere i loro prodotti ad un prezzo bassissimo senza potersi opporre allo sfruttamento generato da una lunga catena di intermediazione. Il commercio equo e solidale cerca allora di creare dei canali alternativi per l’importazione e la vendita dei prodotti del Sud del mondo, instaurando relazioni dirette e proponendo al consumatore un utilizzo critico del proprio potere d’acquisto, secondo una logica di relazione diretta e di presa di coscienza circa l’utilizzo del proprio denaro. La finanza etica applica alla gestione del risparmio queste stesse logiche, ovvero il rifiuto da parte del risparmiatore di essere un ingranaggio all’interno di un meccanismo di sfruttamento e la ricerca di un canale alternativo in cui i propri risparmi possano servire a sostenere progetti con uno scopo sociale, ambientale o culturale.
Dopo il commercio e la finanza, gli anni ‘90 vedono la nascita delle attività legate al consumo e agli stili di vita. Nascono «i gruppi dei bilanci di giustizia», «i gruppi di acquisto solidali» e si diffondono i concetti legati al potere del consumatore e al consumo critico, anche attraverso la pubblicazione della «Guida al consumo critico» nel 1996.
I consumatori critici sono persone che, quando vanno a fare la spesa, si pongono un sacco di domande sui prodotti che stanno per acquistare. Si chiedono in quali condizioni ambientali e di lavoro è stato realizzato un prodotto, chi e cosa sta dietro a quello che stanno per acquistare. L’idea è quella di poter influenzare il mercato inserendo nella domanda le richieste di giustizia, ambiente, benessere e senso. I gruppi dei bilanci di giustizia si chiedono come orientare il loro bilancio familiare per aumentare sia il livello di giustizia che quello di benessere.
I gruppi di acquisto solidale (Gas, in sigla) invece sono gruppi di consumatori che si ritrovano per acquistare insieme, cercando dei piccoli produttori locali e rispettosi dell’ambiente da cui rifoirsi direttamente. È lo stesso concetto del commercio equo e solidale applicato ai prodotti che vengono dal nostro paese, considerando che oramai anche i nostri piccoli contadini sono a rischio di estinzione a causa dei meccanismi della grande distribuzione.
Questi stessi principi si applicano anche al campo del turismo, e troviamo allora «il turismo responsabile»‚ che a partire dalla valutazione dei danni ambientali, economici e sociali generati dal turismo di massa verso i luoghi di destinazione propone un approccio diverso, costruendo nel contempo vere occasioni di incontro tra culture.
Oltre a questi settori, incontriamo esperienze di un’altra idea di economia in tutti i settori dell’attività economica, dai piccoli produttori biologici che coltivano senza l’utilizzo dei pesticidi, alle cornoperative di produzione e servizi che realizzano i beni di cui abbiamo bisogno nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro all’interno di strutture a conduzione democratica.
Tutte queste esperienze, nate perlopiù negli ultimi 30 anni a partire da piccoli gruppi, oggi sono in forte crescita e si stanno diffondendo nell’opinione pubblica. In Italia esistono circa 500 botteghe del commercio equo e solidale (Botteghe del Mondo), ed i prodotti del commercio equo e solidale si trovano anche all’interno della grande distribuzione. Le Mag, cornoperative nate per la gestione etica del risparmio, sono 6 (Torino, Milano, Reggio Emilia, Verona, Venezia, Roma) e dalla loro esperienza è nata «Banca Etica». I gruppi d’acquisto solidale censiti sono circa 400, oltre a molti altri informali. Gruppi di bilanci di giustizia si trovano in diverse città italiane e le organizzazioni che si occupano di turismo responsabile sono un centinaio.
Inoltre, le critiche alle regole del commercio mondiale e ai sistemi di produzione che non rispettano le condizioni di lavoro e l’ambiente hanno conquistato una parte dell’opinione pubblica; i consumatori odiei si dimostrano sempre più attenti agli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale, e le quote dei prodotti biologici, equo-solidali, tipici o ecologici continuano a crescere a ritmi elevati e stanno diventando interessanti per il mercato.
Tutte queste esperienze, insieme ad altre come le banche del tempo e le reti di scambio locale, rappresentano forme di economia che considerano l’attività economica come uno strumento per il soddisfacimento dei propri bisogni e come occasione di relazione tra le persone. Nel mondo le esperienze di questo tipo sono molto diverse; per fare qualche esempio significativo potremmo, ad esempio, citare in Argentina i «club del baratto» (trueques) che fino ad un paio di anni fa coinvolgevano milioni di persone, oppure le fabbriche «recuperate» in cui i lavoratori rilevano un’azienda dal proprietario intenzionato a chiuderla per continuare l’attività secondo forme autogestite.

LE CARATTERISTICHE
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Pur nella evidente diversità, tra queste esperienze sta nascendo la consapevolezza di trattarsi di forme economiche che vogliono applicare la collaborazione alle diverse attività umane: produzione, commercio, servizi, finanza, consumo, etc. Si sta quindi affermando il termine «economia solidale» per rappresentarle, anche se non si può trattare di una definizione precisa in quanto, come abbiamo visto, si riferisce ad esperienze molto varie.
Le caratteristiche dell’economia solidale sono state sintetizzate nella «Carta per la rete italiana di economia solidale»:
• nuove relazioni tra i soggetti economici basate sui principi di reciprocità e cooperazione;
•giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia dei diritti essenziali);
•rispetto dell’ambiente (sostenibilità ecologica);
•partecipazione democratica;
•disponibilità a entrare in rapporto con il territorio (partecipazione al «progetto locale»);
•disponibilità a entrare in relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un percorso comune;
•impiego degli utili per scopi di utilità sociale.

LE RETI
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Questi principi vengono applicati, con caratteristiche diverse, nei vari settori dell’economia. Si tratta quindi di esperienze che stanno mostrando nel concreto come un modo diverso di concepire l’economia sia non solo possibile ma già in atto.
Se consideriamo queste esperienze, possiamo vedere il loro insieme come un progetto di trasformazione dell’economia che interviene contemporaneamente su più livelli: il livello dei comportamenti personali, il livello delle organizzazioni di produzione o di consumo, il livello dei luoghi e quello delle reti economiche. Questi diversi livelli si sostengono e rafforzano l’uno con l’altro nell’indirizzare la trasformazione dell’economia verso il benessere di tutti.
In questa trasformazione, la strategia che si sta sperimentando per intrecciare i diversi livelli è la costruzione di reti, ovvero circuiti economici costruiti tra le diverse realtà di economia solidale, integrando il consumo, la distribuzione, la produzione ed i servizi. In Italia questi esperimenti prendono avvio con la costruzione dei distretti di economia solidale, ovvero di reti locali in cui, a partire dalle esperienze di economia solidale del territorio, si cerca di attivare e sostenere circuiti economici per rafforzare queste realtà e offrire ai consumatori critici una gamma più ampia di prodotti e servizi solidali.
La realizzazione di reti locali di questo tipo comporta numerosi vantaggi: da una parte porta ad attivare legami di fiducia sul territorio, dall’altra a chiudere localmente i cicli di produzione e consumo diminuendo l’impatto sull’ambiente. Inoltre, aumenta il livello di conoscenza tra le diverse realtà, ponendo le basi per poter esprimere una progettualità locale per la trasformazione del territorio.
In Italia, in diversi luoghi si sta ragionando sulla ipotesi dei distretti di economia solidale; in particolare, si stanno avviando delle sperimentazioni a Roma, in Brianza, a Como, nelle Marche, in Trentino e a Verona. Questi esperimenti, a partire dal locale, portano avanti dei progetti per far conoscere le realtà di economia solidale del territorio e procurare beni e servizi integrando gli attori locali lungo tutta la filiera di produzione, distribuzione e consumo. Mettendo insieme le diverse esperienze di economia solidale nei vari settori l’esperienza dei distretti prova a sperimentare nella pratica come potrebbe funzionare un altro sistema economico, in cui l’economia è uno strumento per il benessere di tutti.
L’economia sta cambiando, e per ognuno di noi c’è la possibilità di prendere parte a questa trasformazione. Dobbiamo solo decidere il campo in cui vogliamo operare: come consumatori, imprenditori, educatori, amministratori, produttori, commercianti, etc. Per ognuno di noi c’è la possibilità di portare un contributo. 

Di Andrea Saroldi

Andrea Saroldi




Sembrano percore, ma sono lupi

Il commento: economia o teologia?

Una nuova religione si è diffusa nel mondo globalizzato: è la religione del mercato. Ha i suoi officianti e i suoi fedeli. Ma soprattutto ha le sue vittime. Sempre di più, anche se non si può dire apertamente…

Lunedì di Pasqua, 24 marzo 2008. Dalla finestra del mio studio il panorama appare decisamente invernale, nonostante la primavera astronomica sia iniziata da tre giorni. Vedo precipitare dalle nubi raggrumate un misto di acqua e neve al punto da non distinguere se è l’acqua a nevicare o non sia la neve a piovere. Il che mi indigna. Ora la confusione ha infettato anche la meternorologia e il gioco del «qui-pro-quo» ha contaminato anche le identità delle stagioni. Dopo un inverno di secca, in cui le cime del Monte Bianco hanno registrato perfino gli otto gradi sopra lo zero, ora la primavera mi si presenta infreddolita e tutta bagnata di neve!

«NON PIOVE?
GOVERNO LADRO!»

Il detto popolare, espressione iniziale di una ignoranza diffusa, sedimentazione di quella pigrizia mentale propria di chi non vuol vedere, si presenta oggi come concentrato sapienziale di una coscienza altamente avvertita. Aggiornato alla nostra situazione si dovrebbe dire: «Non piove? Goveo ladro», là dove il «governo» non è l’amministrazione politica della cosa pubblica, bensì la gestione economica della umana comunità. Non contenti di aver desertificato la terra ora vogliono desertificare anche il cielo. Negli ultimi 30 anni sono scomparsi 600mila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, una superficie equivalente a due volte quella dell’Italia. L’acqua potabile sarà una delle risorse naturali che più scarseggeranno in questo inizio del nuovo millennio. Il petrolio e il carbone si esauriranno verso la metà di questo secolo. Alla base di questo processo di saccheggio si nasconde una visione limitata della terra. La si considera unicamente ed esclusivamente come una riserva morta di risorse da sfruttare e non come qualcosa di vivo, la Pacha Mama degli indigeni o la Grande Madre degli antichi.
L’antica religione poneva l’uomo come custode del giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse. La nuova religione impone l’uomo come padrone del mondo e la terra come oggetto di sfruttamento e merce di scambio.

IL DIO TOTALIZZANTE
DELL’ECONOMIA

Nell’editoriale di un piccolo ma grande libro edito nel 2000 dalla società cornoperativa editoriale L’Altrapagina: «Economia come Teologia?», si legge: «L’Economia contemporanea funziona come una teologia, ossia una visione del mondo complessiva che ha per chiave di volta la divinità. Mentre però nella teologia il divino impedisce al discorso di chiudersi, perché Dio è una dimensione insondabile, il dio del sistema economico imprigiona l’uomo in uno schema chiuso e totalizzante, poiché si tratta di un dio perverso».
Riccardo Petrella, autore assieme a Enrique Dussel e Enrico Chiavacci, si è addirittura divertito a utilizzare i simboli della teologia cristiana per dare una descrizione di questa nuova divinità: «Il capitale è il Padre che ama e giudica, l’impresa è il Figlio, cioè l’incarnazione del Padre, il mercato è lo Spirito che anima gli individui e li stimola alla competizione perché diano il meglio di se stessi e conquistino più ricchezza. Ma le analogie con l’universo teologico per Petrella non si fermano qui. Il vangelo della competitività, che ci viene indottrinato da tutti i pulpiti che contano, ha pure i suoi comandamenti, che si potrebbero riassumere nella triade: liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione».

AVERE O ESSERE?
SI «È», SE SI «HA»

L’indottrinamento, in questo ultimo ventennio, è stato così pervasivo e persuasivo che non esistono più terreni vergini. Il «pensiero unico» ovvero il monoteismo della merce, per dirla con l’espressione cara a Giancarlo Zizola, ha contaminato non solo il mondo della produzione e delle sue opere ma anche il mondo del pensiero e dei suoi sogni.
Da ogni pulpito, ormai, con l’euforia propria dei neofiti, i profeti del libero mercato ci ripetono in continuazione che il mercato è economicamente molto efficace. Il fondamentalismo liberista della globalizzazione ridefinisce ogni forma di  vita in termini di merce, la società in termini economici e il mercato come mezzo e fine dell’iniziativa umana. Per essi il mercato è l’unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessità vitali. Il mercato diventa l’unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanità al punto di rendere identitario ciò che alla fine degli anni Sessanta Erich Fromm poneva in termini alternativi: Essere o Avere. Oggi si è se si ha!
Questo è il nuovo dogma e la mercantilizzazione del tutto il suo corollario.

IL CAPITALE
SENZA LIMITI E VINCOLI

Gli effetti sono così devastanti da qualificare come terrorista per antonomasia il mercato stesso, così come Pasquale Gentili sul notiziario di Radié Resch n. 79: «Chi incute terrore, oggi, si chiama mercato… e questi si maschera dietro svariati personaggi, culture e anche religioni! È un potentissimo terrorista, senza volto, che si trova ovunque, come Dio, e che, come Dio, crede di essere eterno. La sua lunghissima fedina penale lo rende temibile. Non ha fatto altro che rubare cibo, ammazzare posti di lavoro, sequestrare interi paesi e fabbricare guerre. Per vendere le sue guerre semina paure! Compie attentati che non compaiono sui giornali: ogni minuto uccide di fame 12 bambini».
Insomma il disastro è totale, con l’aggravante di una impotenza assoluta di intervento da parte della politica e perfino del diritto.
Ci si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, dopo le grandi conquiste che hanno accompagnato la nascita dello «Stato sociale keynesiano» all’inizio dello scorso secolo.
A me sembra che la causa principale vada ricercata già in quella antica tradizione liberale che è propria dell’Occidente, secondo la quale l’unico potere che è stato tematizzato come oggetto di limiti e vincoli (si pensi allo «Stato di diritto») è il potere pubblico, mentre invece il potere privato è stato confuso, per una vecchia operazione ideologica, con la libertà. Il potere economico, il potere del capitale, il potere della libera iniziativa economica, i diritti civili stessi sono stati puramente e semplicemente identificati con la libertà.

NEOCOLONIZZAZIONE
E DELOCALIZZAZIONE

Su questo, che potremmo ritenere l’underground «culturale» si è venuto poi ad innestare il fenomeno della cosiddetta «globalizzazione» e che io più propriamente chiamerei «neocolonizzazione».
Con la globalizzazione, dunque, si è imposta come prassi normale la «delocalizzazione» in forza della quale le imprese scelgono l’ordinamento loro più conveniente. In tal modo dislocano le loro produzioni nei paesi peggiori dal punto di vista della tutela dei diritti, paesi in cui non esistono garanzie dal lavoro, in cui i salari sono bassissimi, in cui si può inquinare senza nessun limite, in cui si possono corrompere i governi, in cui praticamente si ha mano libera. Si veda il caso della Cina, là dove i salari sono addirittura 40 volte più bassi di quelli della Germania. Le ricadute sulle nostre società sono quanto mai devastanti: disoccupazione, precarizzazione del lavoro, abbassamento dei salari  e via decadendo…
Gli osservatori più acuti, una volta liberisti ad oltranza, di fronte a questo ritorno boomerang dagli effetti destabilizzanti, incominciano a parlare, timidamente, della necessità che gli stati, per i problemi nazionali, ed un ente sovranazionale, per i problemi inteazionali, riprendano il loro ruolo di «garanti» in un movimento globale non più gestibile.
La «mano provvidenziale» di cui parlava Smith è ormai scomparsa dall’economia. Cionono­stan­te tutto continua come se nulla fosse. Nell’immaginario col­lettivo, cui fa da supporto anche una certa politica sedicente di sinistra, c’è bisogno ancora di più mercato, più concorrenza, più crescita.
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci» (Mt. 7,15). «Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: è là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli…» (Mt. 24,23-24).
A qualcuno queste citazioni potrebbero sembrare strumentali, se non blasfeme. Non ci si scandalizzi. Se l’autore dell’Apo­calisse ha potuto individuare nell’Impero Romano la figura dell’anticristo, non spetta forse a noi, cristiani del terzo secolo, dare nome e cognome ai novelli falsi profeti?
E non spetta ancora a noi dare voce e carne e sangue a quel Sogno di Dio perché non resti più sogno? Sogno di una umanità fratea e compartecipe, includente e coinvolgente, pacifica e pacificatrice.

LA GRATUITÀ
DELLA PIOGGIA (PER ORA)

Fuori, al di là dei vetri appannati dall’umidità, il sole sembra forzare la primavera e la pioggia, non più equivoca, sembra ora più autentica. Lo scroscio ritmico si fa eco di danza e modula la sua musica sulle note profetiche di un monaco che, sembra, la Cia ha voluto zittire: «Lasciatemi dire una cosa, prima che la pioggia diventi una merce che “loro” potranno controllare e distribuire a pagamento.
«“Loro” sono quelli che non riescono a capire che la pioggia è una festa e non apprezzano la sua gratuità, pensando che ciò che non ha prezzo non ha valore, che ciò che non può essere venduto non ha consistenza, per cui l’unico modo per rendere reale una cosa è metterla sul mercato. Verrà il giorno in cui vi venderanno anche la vostra pioggia. Per il momento è ancora gratuita, e lascio che mi bagni. Celebro la sua gratuità e la sua illogicità».
Il monaco è Thomas Merton. Anno del Signore 1965. 

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Il banchiere dei poveri, versione Afro

Il caso: un’economia comunitaria è possibile

In un villaggio sperduto del Nord del Senegal si sperimenta un’esperienza interessante. Microcredito per finanziare l’agricoltura. Non solo. Un sistema cornoperativo, ma anche comunitario e solidale, fatto da agricoltori per gli agricoltori. E la cosa più sorprendente è che funziona.   

Ronkh. Un villaggio polveroso sulle rive del fiume Senegal, nel Nord dell’omonimo paese, giusto al confine con la Mauritania. File di basse case in mattoni di cemento, scarne e grigie. Tutte simili. Siamo nella valle del fiume, la zona dell’antico reame Walo. Qui i contadini, da secoli, coltivano miglio, sorgo, mais e patata dolce per il sostentamento delle loro famiglie. E sempre in questa zona, i sostenitori del capitalismo selvaggio hanno introdotto all’inizio degli anni ‘60 la risicoltura creando grandi perimetri irrigui.
Ancora oggi parte della popolazione lavora in questi perimetri producendo per terzi. I produttori hanno però mantenuto delle porzioni di terra nella quale coltivano riso, in parte utilizzato per nutrire la famiglia e in parte venduto per acquisire altri beni di prima necessità.

La favola dei Foyer

Proprio da Ronkh, negli anni Sessanta, è partito un movimento che ha visto i contadini organizzarsi in gruppi di base detti Foyer (famiglia in senso allargato), poi diffusi in tutta la valle, fino ad associarsi in strutture regionali. Nasce così, da nove Foyer, nel 1976, l’organizzazione contadina conosciuta come Asescaw (Amicale socio economica sportiva e culturale degli agricoltori del Walo), ancora oggi molto attiva. 
Questa organizzazione è all’origine, tra le altre cose, di un’esperienza molto particolare di «banca dei poveri».

Un cassa di credito
per tutte le tasche

A Ronkh è nata la Mec Delta (mutuelle d’épargne et de crédit, o cornoperativa di risparmio e credito) del delta del fiume. Nel grigiore generale sorprende il rosso di due trattori e il giallo di un’enorme mieti trebbia parcheggiati fuori da una costruzione. Non ci si aspetterebbe tanta tecnologia.
All’interno ci accoglie un giovane alto e magro, dalla parlata colta. Mohamedine Diop è originario di Ronkh ed è il principale ideatore e motore del sistema di credito sperimentato. Anche lui è cresciuto nell’Asescaw ed è ora il direttore generale della Mec Delta.
«La Mec Delta è il prolungamento dell’esperienza contadina nata in villaggio. L’Asescaw ha giocato un ruolo importante nella sua creazione e molti dirigenti di un’istituzione lo sono anche dell’altra. Questo fa sì che le due entità abbiano perfetta concordanza di vedute.
Noi vogliamo materializzare la visione di finanziamento agricolo dell’Asescaw. E questo lo facciamo nell’autonomia totale» racconta Mohamedine ostentando grande sicurezza. 
L’idea dell’organizzazione contadina parte da bisogni concreti dei propri aderenti. Concimi e sementi di qualità al momento giusto, servizi agricoli meccanizzati di buon livello e con tempistiche adeguate, credito per le attrezzature ma anche per la casa.
Accompagnamento e formazioni di vario tipo, oltre che su tecniche di produzione, sulla trasformazione, conservazione e commercializzazione del prodotto. Ma anche la possibilità di mettere al sicuro i risparmi.

Un finanziamento con
La famiglia al centro

«L’opzione strategica scelta è quella di centrare tutto sulla famiglia, giocando sulla complementarietà dei diversi servizi offerti.
Importante è mettere il produttore nelle condizioni ottimali, affinché possa lavorare bene e avere il miglior raccolto possibile».
Mohamedine ci spiega l’originalità del sistema di finanziamento.
«Abbiamo scelto di lavorare nell’agricoltura, perché la maggior parte delle altre casse rurali non vogliono finanziarla a causa dei forti rischi. La nostra base è costituita di produttori agricoli».
I due schemi di finanziamento erano in ballottaggio. La banca seguiva il suo: prestare i soldi e poi tentare di farseli rimborsare.
L’Asescaw ha denigrato quel sistema, perché crea molti problemi, e ha trovato un nuovo schema di credito che sposa la realtà socio-culturale.
«La nostra visione è che i produttori non hanno bisogno di soldi ma di servizi. Facciamo tutto in natura e in prestazioni».
L’altro anello fondamentale della catena è la Delta agricoltura solidarietà (Deltagrisol), una cosiddetta «centrale di acquisto e foitura di servizi agricoli». La Deltagrisol funziona come negozio di tutto ciò di cui il contadino ha bisogno per coltivare (concimi, sementi selezionate, materiali), e allo stesso tempo fornisce servizi agricoli meccanizzati (dissodare la terra, sistemazione dei canali di irrigazione, ecc.). La terza, importante funzione, è quella di fornire un servizio commerciale, ovvero aiutare il produttore a vendere parte del raccolto.

Tutto in natura

La famiglia che ha bisogno di un prestito si rivolge alla Mec Delta. Questa verifica se ci sono le condizioni per il finanziamento (lo stato delle parcelle coltivate dai richiedenti, l’accesso all’acqua, e altri parametri). Se l’indagine è positiva, inoltra una richiesta di materiali e prestazioni di servizio alla Deltagrisol e ne paga la fattura. I tecnici delle due strutture seguono il produttore nelle varie fasi (anche i concimi e i prodotti, così come le prestazioni, saranno foiti nei momenti opportuni).
Una volta realizzato il raccolto, il contadino rimborserà la Mec Delta in natura (ad esempio sacchi di riso valutati a un prezzo equo fissato tra le parti).
In questo schema la famiglia contadina non è sola, ma fa parte di un gruppo (Foyer) che a sua volta è membro di un’organizzazione più vasta. Quest’ultima, oltre a fornire formazione tecnica e gestionale ai suoi membri, è una sorta di garante per il buon funzionamento del meccanismo.
Si tratta di una forma di economia comunitaria, studiata dal professor Enrico Luzzati dell’Univer­sità di Torino (del quale pubblichiamo un contributo in questo dossier), che è tra gli ideatori di questo modello chiamato «Distretto cornoperativo comunitario».
«Le forme di scambio economico più utilizzate nella società agricola del Walo sono sempre state lo scambio, con il riso come prodotto di base o di conversione, per passare da una merce a un’altra – spiega Mohamedine – un contadino che ha un credito con la sua cornoperativa capisce molto meglio: “rimborserai 20 sacchi di riso” piuttosto che una somma di denaro».
Si evitano all’agricoltore due passaggi per lui complessi. Primo: il fatto che si ritrovi con una certa somma di denaro e debba procurarsi sementi di qualità, concimi, ecc. al momento giusto. Secondo: la «trasformazione» della produzione agricola in contanti, per poter rimborsare.

Chi garantisce il prestito?

«Pensiamo sia importante, in ambito rurale, che lo schema di finanziamento non chieda garanzie solide. Perché la gente non le ha, e noi non abbiamo sempre gli strumenti che occorrono per rifarci sulle garanzie.
Non è una buona via, perché eliminerebbe la maggior parte della popolazione. Ma è anche vero che bisogna rendere sicuro il sistema di credito.
Grazie ad alcuni studi abbiamo visto che uno schema adeguato prende in carico i veri bisogni della popolazione. Intanto occorre scegliere i buoni produttori: non tutti sono agricoltori, allevatori o pescatori. Poi occorre andare al di là dell’identificazione delle persone, verificando piuttosto i siti di coltivazione».
La «vicinanza» fisica e culturale ai contadini, ha permesso agli ideatori del meccanismo di capire bene l’attività in tutti i suoi passaggi. Quando qualcuno chiede un credito agricolo a una banca, invece, questa non si interessa a dove il contadino lavorerà, che possono essere luoghi con poca acqua o non idonei a una buona produzione. Tutto questo aumenta il rischio di cattiva produzione e, in ultima analisi, di mancato rimborso.
Piccoli problemi di questo tipo che occorre conoscere per sapere se l’investimento sarà sicuro.
Spiega Mohamedine: «C’è poi la questione dell’acquisizione di concimi e sementi. La banca non si interessa a questo, non dà condizioni o indicazioni. Non è un suo problema. Per noi, invece questa fase partecipa a rendere sicuro il credito. Occorre fare in modo che tutti gli impedimenti del sistema di credito siano eliminati: che il produttore scelga un buon sito, con suolo sfruttabile, accesso all’acqua e che abbia  strumenti di lavoro in buono stato. Poi gli si assicura una foitura in concimi regolare, al momento giusto e non dopo. Tutte queste cose fanno in modo che un agricoltore riesca o meno ad avere una buona produzione».

Non è tutto oro …

Questa è la teoria, che spesso la Mec Delta riesce a mettere in pratica. Ma non sempre: «Abbiamo ricevuto i nostri crediti in ritardo (rispetto alla stagione della semina, ndr) – racconta un agricoltore del villaggio Saninth – così il raccolto è andato male».
Mancanza di liquidità al momento giusto o «mancanza di cornordinazione nella presentazione delle domande da parte dei membri del Foyer», come sostiene Mohamedine. Talvolta le difficoltà si sommano a catastrofi naturali, come nel 2005 quando un’invasione mai vista di uccelli divorò il riso dei coltivatori della valle del Senegal.
Alla fine del processo c’è il problema della «trasformazione» del riso raccolto in denaro.
I produttori sono normalmente poveri e hanno varie difficoltà a livello delle loro famiglie. Sono quindi tentati di vendere la produzione per risolvere tutti questi problemi. È questo il periodo in cui i commercianti vengono verso i contadini e gli offrono di acquistare la produzione a prezzi piuttosto bassi (in quel momento il mercato è pieno di riso appena raccolto).
«Ecco perché pensiamo che subito dopo la produzione la Mec Delta debba prendere il rischio di farsi rimborsare in natura. Questo per togliere un problema ai produttori e assicurare una commercializzazione secondo uno schema più rimunerativo, che permetta di massimizzare il reddito di chi coltiva e ridurre i rischi di rimborso» spiega il direttore generale.
Sono questi elementi che concorrono insieme alla protezione del credito, anche senza garanzie.
La filosofia della Mec Delta è che devono esserci dei buoni rendimenti, e questo si ottiene facendo in modo che i produttori siano messi in condizione di lavorare bene. Quando c’è un buon raccolto è sicuro che rimborseranno.

Credito «inculturato»

«Abbiamo pensato che in ambito rurale occorre uno schema che si integri nel sistema sociale  e i costumi della gente».
Il meccanismo sembra non soffrire di problemi. Ci sono i rischi che sono legati all’agricoltura nel senso generale, ovvero casi di calamità.
La frangia di popolazione più recettiva è anche quella più vulnerabile. Si tratta soprattutto di donne e famiglie a bassissimo reddito, che hanno accesso limitato alla terra e a mezzi di produzione e che da sempre sono escluse dalle altre istituzioni finanziarie. Questa gente ha visto nella Mec Delta un’opportunità di cambiare la propria vita.
Oggi la Mec Delta ha oltre 3.000 membri e finanzia più di 1.000 ettari di produzione. Circa 600 sono i crediti in corso. Per ottenere un prestito occorre infatti associarsi, aprire un conto presso la cassa e depositare un contributo.
Intanto i progetti per il futuro sono di espansione. Sono state aperte tre agenzie decentrate per essere ancora più vicini alla popolazione e altre due sono nei piani per il 2008. Attualmente la zona di intervento è il dipartimento di Dagana, ma presto si spingeran­no più a est in quello di Podor.
«Il contesto ci ha aiutato a convincere gli strati più poveri che è necessario un sistema più comunitario, solidale e adatto a portare risposte concrete ai bisogni della popolazione», ricorda il direttore generale Mohamedine Diop, con lo sguardo di chi è consapevole dell’importanza del­la propria missione. 

Di Marco Bello

Marco Bello




Il mercato ha sempre ragione

Il professore

Delle diverse teorie economiche la Nuova economia istituzionale (Nie), cerca di  sorpassare l’approccio astratto del mercato. E spiega l’importanza delle istituzioni economiche come fatto culturale. Ma non riesce a liberarsi dell’ossessione del mercato. E lo vede come unico mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli.

La Nuova economia istituzionale (New Institutional Eco­nomics, Nie) ha tratto spunto dalle ricerche effettuate da Ro­nald Coase alla fine degli anni ‘30. Le intuizioni di Coase sono state riprese negli anni ‘70, soprattutto grazie al contributo di Oliver Williamson.
Da proposta di un gruppo ristretto di studiosi,  la Nie è venuta acquisendo un riconoscimento sempre più ampio, tant’è  che  quasi tutti gli economisti oggi riconoscono che la loro disciplina ha una natura istituzionale.
Il termine Nie è stato coniato per distinguerla dalla Vecchia economia istituzionale, che si affermò nel primo Novecento negli Stati Uniti, con autori come  Wesley Mitchell, John Commons e  Thorstein Veblen.
Per la verità, come vedremo, la Vecchia economia istituzionale non appare così vecchia, e per molti aspetti appare più interessante e utile della nuova.
Quest’ultima si è venuta affermando come una critica del modello neoclassico, che ha caratterizzato la disciplina economica a partire dalla fine dell’800. Oggi sempre più questo modello viene sottoposto a critiche serrate:  la Nie ha rappresentato un tentativo di salvare l’apparato analitico dell’economia neoclassica, cercando di renderla meno astratta e formalistica.

L’homo Œconomicus
e il vizio dell’egoismo

Gli economisti neoclassici infatti hanno elaborato un corpo dottrinale molto elegante e raffinato, che parte da alcune ipotesi astratte sul comportamento dell’uomo, e in particolare dall’ipotesi dell’homo œconomicus, cioè di un individuo isolato, unicamente interessato alla massimizzazione della sua utilità individuale. L’approccio è di tipo deduttivo e astorico, ma pretende ciononostante di fornire una spiegazione realistica del funzionamento dei mercati in una economia capitalistica.
In realtà molti ritengono che il vero obiettivo di questo approccio disciplinare sia di tipo normativo. Intenda cioè dimostrare che il meccanismo di mercato porta al benessere collettivo: la pratica dell’egoismo individuale, per il noto paradosso della   mano invisibile, produrrebbe la felicità collettiva. Non è grazie alla virtù (l’altruismo), ma grazie al vizio (l’egoismo) che si può ottenere il migliore dei mondi possibili. L’economia neoclassica, con il suo apparato analitico, ha una natura sostanzialmente giustificazionista del modello del mercato quale meccanismo organizzativo complessivo dell’intera società.

Ridurre il livello
di astrazione

La Nie cerca di rendere il modello neoclassico più realistico, di avvicinarlo maggiormente alle modalità concrete di funzionamento dei mercati: essa però non esce dal quadro concettuale dell’economia neoclassica e ne accetta l’impostazione metodologica. Il mercato continua ad essere considerato astoricamente, come un dato di fatto, quasi un fenomeno naturale, prima del quale non è successo nulla e dopo il quale non succederà nulla. L’economia in sostanza viene considerata non come una disciplina di natura storica, ma come se fosse una scienza naturale.
Lo sforzo della Nie è dunque in sostanza, come si è detto, quello di rendere meno astratte le ipotesi degli economisti neoclassici.
A ben guardare, le correzioni che vengono introdotte hanno una natura di semplice buon senso. Si fa notare che le possibilità conoscitive delle persone sono limitate, e che non si può immaginare che gli operatori economici razionali abbiano una conoscenza completa della situazione ambientale in cui si trovano ad operare e di tutte le opzioni alternative possibili. Si parla a questo proposito di informazione imperfetta.
Inoltre si osserva che quando due operatori si scambiano dei beni e dei servizi, uno dei due (più frequentemente il venditore) conosce le caratteristiche del bene che viene scambiato meglio del compratore. Si parla a questo proposito di informazione asimmetrica.
Si riconosce, infine, che nelle attività di scambio sono frequenti pratiche di opportunismo: si parla a questo proposito di moral hazard, per intendere che, una volta stipulato un contratto, uno dei contraenti potrebbe  approfittare a danno dell’altro della nuova situazione in cui si viene a trovare.

Difficoltà del mercato e
nascita delle imprese

Partendo da queste semplici considerazioni, gli economisti della Nie hanno elaborato il concetto di «costo di transazione». Si intende con ciò che lo scambio di beni e servizi tra due operatori non è così semplice e immediato come gli economisti neoclassici hanno ipotizzato. Il compratore deve individuare il venditore (e viceversa), disposto a stipulare il contratto. Uno dei due contraenti dispone di informazioni più dettagliate dell’altro; gli accordi contrattuali spesso non vengono osservati e così via.
In certe circostanze lo scambio di mercato appare particolarmente complesso e laborioso, ragion per cui i costi di transazione possono rivelarsi elevati.
Per questo allo scambio di mercato può essere preferibile sostituire un meccanismo diverso, quello della gerarchia. In sostanza gli operatori anziché scambiarsi i beni sul mercato danno vita a delle organizzazioni, le imprese, all’interno delle quali ad alcuni soggetti (i proprietari) si attribuisce il potere di definire i compiti di altri soggetti (i lavoratori). Al meccanismo paritario del mercato si sostituisce quello autoritario dell’impresa.
Le difficoltà di funzionamento dei mercati e le ragioni della formazione delle imprese sono i risultati principali della proposta teorica della Nie. Come si è detto, essi ricevono oggi un’accettazione pressoché unanime nell’ambito della disciplina economica.
Molti autori tuttavia ritengono che le correzioni apportate dalla Nie non siano sufficienti per contestare l’approccio astorico ed astratto degli economisti neoclassici.

Il mercato ha una storia

Alla base di queste critiche ritroviamo un’interpretazione più ampia del concetto di istituzione.
Per la Nie le istituzioni sono in primo luogo i  contratti e le regole di funzionamento delle imprese: sono essi  che consentono a un’economia di mercato di funzionare correttamente.
Tuttavia la Nie presuppone l’esistenza stessa del meccanismo del mercato, e non si domanda sulla base di quali regole esso sia stato creato.
La Nie studia le regole e le organizzazioni tramite le quali il mercato può operare; ma non si interroga su quali  regole ed  organizzazioni siano necessarie perché lo stesso mercato possa esistere.
Tra gli autori che hanno sollevato questa critica il più autorevole è Douglass North, premio Nobel per l’economia (premio  che, sia pure tardivamente, fu concesso anche a R. Coase).
Egli definisce anzitutto in modo più ampio il concetto di istituzione: essa è una regola o una norma che disciplina il comportamento degli uomini in società.
Tali norme possono essere formali (create dallo Stato) o informali (create spontaneamente dall’interazione degli attori sociali). Ma egli osserva che, senza un quadro normativo preesistente, nessuna economia, neppure quella di mercato, potrebbe funzionare.
North reintroduce  la prospettiva storica nell’analisi economica. Il mercato non si configura più come un fenomeno quasi naturale, ma come un fenomeno storico che si è venuto formando sulla base di regole che sono state introdotte dallo Stato o che si sono venute creando spontaneamente dall’interazione degli operatori.
Inoltre North aiuta a comprendere come le istituzioni economiche siano un fatto culturale, che nasce da scelte operate dalle precedenti generazioni, sulla base di opinioni, preferenze, credenze e visioni del mondo.
Una visione, la sua, molto più ampia e interdisciplinare del mondo dell’economia, che non viene più considerato come riducibile ad un meccanismo astorico e immutabile, di cui interessa conoscere unicamente la logica di funzionamento, in quanto eterno e immodificabile (si può a questo proposito ricordare la famosa espressione di Fukuyama: siamo giunti alla fine della storia, il mercato è la dimensione  in cui sempre vivremo). La visione di North è quindi molto più completa e convincente.

Gli economisti e
la loro ossessione

Ciononostante, paradossalmente, lo stesso North non pare riuscire a liberarsi completamente dall’ossessione del mercato: per quanto ne metta in evidenza le precondizioni storiche e culturali, e ne definisca le specificità istituzionali, anche per lui il mercato è un meccanismo dal quale non si può prescindere.
Quando ad esempio  si pone il problema del sottosviluppo e delle vie da percorrere per il suo superamento,  egli ne vede una sola, quella dell’introduzione di un corretto meccanismo di mercato: non considera la possibilità che un sistema di funzionamento dell’economia non fondato sul mercato possa essere compatibile con lo sviluppo.
Sotto questo profilo certi spunti che si possono ancora oggi trovare nella Vecchia economia istituzionale (nonché in una scuola economica a essa vicina e che si affermò in Europa a cavallo tra l’800 e il ‘900, la Scuola storica tedesca) appaiono oggi più utili e stimolanti dell’approccio della Nie (sia pure nella versione ampliata e rinnovata di  North), che resta invece ossessionata dall’ideologia del mercato e incapace di immaginae un superamento. 

Di Enrico Luzzati

Enrico Luzzati




Fiumi di cocaina

Introduzione

«Fiumi di parole, prima o poi ci portano via…». Basta cambiare una parola al leit motiv di questa canzone di qualche anno fa e otteniamo la descrizione di cosa sta capitando adesso nelle nostre città. Se sostituiamo «parole» con «cocaina», la frase rappresenterà perfettamente la situazione dei nostri fiumi.
Già, perché dalle analisi condotte nel 2005, dall’Istituto Mario Negri di Milano, sulle acque del fiume Po, raccolte a monte di Pavia, in un’area in cui confluiscono le acque di scarico di circa 5 milioni di abitanti, risulta che ogni giorno vengono rilasciati 4 chili di cocaina, corrispondenti più o meno a 40.000 dosi quotidiane (nella sola Milano, i depuratori trattengono quotidianamente 2 chili di cocaina). Chi fa uso di cocaina, infatti, la espelle attraverso le urine, il 5-6% in forma pura e per il 50% sotto forma di benzoilecgonina, un prodotto della sua metabolizzazione. E se la cocaina scorre così nei fiumi, chissà quanta ne scorre nelle nostre strade.

Considerando i dati dei denunciati, degli arrestati e dei segnalati per il possesso di stupefacenti, a Torino si supera la quota di 10.000 unità. Del resto, secondo un rapporto dell’Inteational Narcotics Control Strategy, Torino e Milano sono le mete d’arrivo di circa 60 tonnellate di cocaina e di 30 tonnellate di eroina, partite dal porto di Anversa e dall’aeroporto di Zaventem-Bruxelles. La polvere bianca o «neve» (così è chiamata in gergo la cocaina) invade l’Italia, soprattutto il Nord, ed il traffico è gestito dalla ‘ndrangheta calabrese e dal racket africano. La piazza migliore dell’eroina è invece Perugia, dove il traffico è gestito dalla camorra napoletana. Secondo i dati dei Sert, in Italia l’eroina è ancora il prodotto più diffuso, anche se in calo (attualmente è al 71%, contro il 90% di 15 anni fa, tuttavia nel 2007 è stato registrato un aumento dei morti per overdose), mentre è molto cresciuto il consumo di cocaina (dall’1,3% del 1991 al 14% di oggi) e la cannabis si mantiene intorno al 10% dei consumi.
Secondo l’ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Inteo, riferita al 2007, sui sequestri da parte delle forze dell’ordine, si ha un aumento nel mercato italiano del 500% del traffico di nuove droghe, dai nomi più strani, quali khat, ketamina, shaboo, crystal meth, ice, Ghb, Bzp, mCCP, cobret, che si affiancano all’ecstasy. In questi ultimi anni, i narcotrafficanti hanno fatto un’azione di ribasso dei prezzi, per aumentare il  numero dei clienti.
Confrontando i prezzi attuali, dei vari tipi di droga, con quelli del 1999, si può osservare che quello dell’eroina ha avuto una riduzione del 45%, quello dell’ecstasy del 48%, mentre inferiori sono le riduzioni dei prezzi della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, essendo rispettivamente del 22%, del 20% e del 17%. Peraltro le nuove droghe, ampiamente diffuse tra i giovanissimi, hanno la funzione, a livello di narcotraffico, di reclutare nuovi clienti, che poi scivoleranno, quasi senza rendersene conto, verso le droghe più tradizionali, cioè eroina e cocaina, che, guarda caso, sono vendute dagli stessi spacciatori.

Le droghe, o stupefacenti (cioè sostanze «psicoattive», quindi in grado di modificare l’attività mentale ed il comportamento delle persone), sono da sempre presenti nella storia dell’uomo. Possono essere sostanze naturali o artificiali e il loro comune denominatore è la capacità di alterare gli stati di coscienza e il sistema nervoso.
Nella storia sono numerose le testimonianze sull’uso di droghe, presso varie popolazioni. Alceo, ad esempio, elogia le qualità del vino, la sostanza psicoattiva più antica e diffusa tra le popolazioni medi­­terranee. Erodoto descrive l’hascisc (o hashish) nel quarto libro delle Storie, anche se questa sostanza non era in uso presso i greci, ma presso gli sciti, così come ne parla Marco Polo ne Il Milione. Nel quarantunesimo capitolo, i seguaci del Vecchio della montagna vengono soggiogati, grazie ad una bevanda drogata ed indotti a commettere i delitti, commissionati dal vecchio capo; il loro nome, in cui è conservata la radice della parola hascisc, è «assassini».
Nei testi storici possiamo notare un uso rituale o religioso delle piante (considerate sacre), da cui provengono molte sostanze psicoattive e, in questo caso, l’uso che ne viene fatto è per raggiungere uno stato di trascendenza, per comunicare con gli dei e/o per usi voluttuari, legati al piacere dei sensi. In ogni caso, l’uso di queste sostanze è limitato a momenti o ad eventi simbolici, incorporati entro relazioni sociali di sicurezza. I conquistatori europei descrissero l’uso del peyote in Messico e delle foglie di coca presso le popolazioni del Perù, della Colombia e dell’Equador; tali foglie venivano masticate sia dai sacerdoti che dai contadini e dai pastori (in questi casi per abbassare la soglia della fatica e potere tollerare il lavoro sulle Ande). I papiri egizi danno invece le prime notizie sull’oppio intorno al 1500 a.C., mentre gli arabi ed i turchi hanno mantenuto l’abitudine di fumarlo nel corso dei secoli.
In Cina l’oppio fece il suo ingresso intorno al 1000 d.C., provenendo dall’India, ed il suo uso fu consentito fino al ‘700, quando, a seguito della sua grande diffusione, venne promulgata una proibizione imperiale, alla quale seguirono le guerre tra Cina ed Inghilterra, per via dell’esportazione della sostanza dall’India britannica alla Cina ed in particolare per il suo contrabbando, controllato dalla Compagnia delle Indie. Una caratteristica della presenza delle droghe nel passato era la moderazione con cui, di solito, venivano usate. Non appena un interesse commerciale su larga scala ha stravolto le abitudini di uso delle droghe, trasformando il loro consumo da moderato ad epidemico, le varie sostanze sono diventate una preoccupazione sociale ed un problema per l’ordine pubblico.
Non c’è più continuità tra le società tradizionali e quelle capitalistiche, sotto il profilo del consumo delle droghe, così come sono mutati i circuiti di scambio, dal momento che il traffico costituisce la novità modea, che svincola le sostanze stupefacenti dalle loro radici socioculturali e le trasforma in un puro oggetto di consumo.

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Fumare, sniffare, bucarsi Perché?

Lo sviluppo della tossicodipendenza

Il nostro titolo è volutamente esplicito. La risposta è invece complessa. Come abbiamo visto, storicamente le droghe sono sempre state utilizzate. Oggi, l’offerta si è allargata (più prodotti) e con essa si sono diversificati i consumatori (giovani di diversa estrazione sociale, ma anche professionisti e sportivi).

Chi sono i tossicodipendenti? Quanti sono in Italia? Come è cambiata, nel corso degli anni, la figura del tossicodipendente? È necessario premettere che il censimento dei tossicodipendenti, in ogni nazione, risulta essere un’impresa piuttosto ardua, che sicuramente non porta a dei risultati certi, ma solo a delle approssimazioni per difetto del loro reale numero.
Questo perché i soli dati disponibili sono quelli dei servizi pubblici o privati, a cui alcuni dei tossicodipendenti si rivolgono, che vanno sommati ai dati relativi agli arresti ed a quelli dei soccorsi per casi di overdose. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che alcuni dei soggetti censiti potrebbero essere non dei veri e propri tossicodipendenti, ma solo consumatori occasionali (ad esempio, week enders).
Il vero tossicodipendente è infatti il soggetto in cui si possono riconoscere chiaramente tre sindromi: la crisi d’astinenza, che si presenta dopo la sospensione della sostanza d’abuso; la sindrome da craving, cioè l’irresistibile desiderio della sostanza ed il suo uso compulsivo; la sindrome metabolico-cerebrale, che si traduce in un’alterazione della vita psichica e relazionale del soggetto, che risulta essere sempre più irritabile ed ansioso. In pratica, l’incontro con le sostanze di abuso può portare ad una vera e propria malattia, alla cui base ci sono dei danni, talora irreversibili, nel funzionamento del sistema nervoso centrale. Le aree cerebrali colpite sono quelle preposte al controllo delle pulsioni e dei comportamenti; in particolare tutte le droghe determinano un aumento della dopamina, un neurotrasmettitore, che regola la sensazione del piacere, a livello del sistema limbico, una parte del nostro cervello molto antica, dal punto di vista evolutivo, che presiede al controllo delle emozioni.
Sulla base dei dati nazionali attualmente a disposizione, l’Osservatorio del Dipartimento dipendenze patologiche dell’Asl di Milano è giunto alla conclusione che nel 2010 i consumatori di cocaina potrebbero aumentare del 40% rispetto al 2007 e raggiungere un numero oscillante tra gli 800.000 ed 1 milione e 100.000, cioè il 3% degli italiani.
Molti di costoro inoltre sono dei politossicodipendenti, dal momento che spesso l’eroina viene assunta dopo la cocaina, allo scopo di sedare l’effetto eccitante della prima (ovviamente i pusher si sono adeguati a questa necessità ed ora smerciano i due tipi di droga contemporaneamente), oppure molti consumano contemporaneamente droghe ed alcolici, o mescolanze di droghe diverse di ultima generazione (ecstasy, shabu, ecc.).

LE COLPE
DELLE CASE FARMACEUTICHE

Storicamente la diffusione sociale delle sostanze psicoattive risale agli inizi degli anni ’60 in ambienti controculturali da un lato e in quelli dei giovani degli strati emarginati per caratteristiche di classe o etniche, dall’altro, con predilezione per il consumo di allucinogeni e di hascisc. All’inizio degli anni ’70, le droghe si diffusero tra i giovani qualunque, cioè i proletari delle periferie, i ragazzi sbandati, ma anche tra onesti lavoratori e in Italia fecero il loro ingresso con notevole abbondanza gli oppiacei, eroina in testa. Va detto che il passaggio da un periodo, gli anni ’50, in cui pochissimi facevano uso di stupefacenti, ai periodi successivi, caratterizzati da un consumo via via crescente di queste sostanze, è sicuramente correlato all’avvento di un benessere economico, che ha trasformato le droghe in beni di consumo. La rete mafiosa, che presiede al narcotraffico, si è inserita solo in un secondo momento nella diffusione di queste sostanze.
In Italia, come in molti altri stati, l’esordio delle sostanze psicoattive è stato favorito dalla diffusione di prescrizioni mediche di tranquillanti, di amfetamine (proibite da noi solo nel 1972, mentre in Svezia lo erano dal 1944), di sonniferi e di analgesici. Purtroppo questi farmaci hanno incontrato un notevole successo presso il pubblico e questo ha indotto le case farmaceutiche a non arretrare davanti ai primi casi d’intossicazione da tali prodotti e ad evitare i controlli sulla fabbricazione e sulla distribuzione. In tale modo è stata creata una popolazione di persone assuefatte e dipendenti da farmaci. Inoltre molte amfetamine venivano iniettate per via endovenosa e ciò ha sicuramente contribuito a formare delle persone dipendenti, che, una volta proibite queste sostanze, si sono ritrovate a sostituirle con l’eroina.

CENTRI DI RECUPERO:
NATI PER L’EROINA

I servizi pubblici per le tossicodipendenze ed i centri di recupero privati sono sorti con il preciso scopo di trattare i casi di dipendenza dall’eroina ed, in tal senso, permettono un censimento degli eroinomani seguiti, mentre è molto più problematico contare coloro, che fanno uso di altre sostanze, perché fanno parte di un mondo sommerso e raramente si rivolgono a queste strutture, che del resto non sempre sono attrezzate per trattare i casi di dipendenza da droghe non oppiacee (cocaina, amfetamine ed altri stimolanti). Del resto è più facile trattare un caso da eroina (che ha un’azione sedante) con il suo sostituto, il metadone, piuttosto che un caso di dipendenza da una sostanza eccitante (non si può sostituire un eccitante con un altro, anche se meno tossico, mantenendo la persona in uno stato di eccitazione, che di per sé è un problema).
Se si esaminano i dati foiti dal ministero della Sanità e da quello dell’Inteo, gli eroinomani censiti erano circa 155.000 nel 1999, di cui il 14-15% donne, con un rapporto uomini/donne di circa 5,6:1. Tale rapporto tende a scendere nelle regioni del Nord (soprattutto Lombardia ed Emilia-Romagna) a 4:1 e nelle città del Nord (Milano e Torino) a 3:1. In pratica, lo scarto tra uomini e donne, in fatto di consumo di droga, tende a ridursi in quelle zone, che sono più benestanti e paritarie e dove la libertà di movimento, di comportamento e di consumi delle donne è maggiore. Bisogna comunque tenere presente che le donne spesso mostrano una notevole diffidenza verso le strutture terapeutiche, se hanno figli, perché esiste la possibilità che questi vengano sottratti alla madre tossicodipendente, da un’assistente sociale, ed affidati ad altri. Il numero delle tossicodipen-
denti potrebbe quindi essere decisamente superiore.
Attualmente, l’età media di coloro, che si rivolgono alle strutture terapeutiche è compresa in un range, che va dai 30 ai 40 anni ed oltre e si tratta di consumatori di eroina, mentre i giovani e i giovanissimi, che abitualmente consumano altre droghe, difficilmente accedono ai Sert od a strutture analoghe. Peraltro, tra costoro il divario maschi/femmine, nei consumi, tende a ridursi.
Le informazioni relative ai nuovi tipi di droga, nonché alla cocaina, derivano soprattutto dai sequestri delle partite di droga, che dimostrano che l’entità del consumo di queste sostanze è in netta ascesa dall’inizio degli anni ’90. Non ci sono dati sufficienti sui consumatori delle nuove droghe, tuttavia una stima fatta nella Conferenza nazionale sulla droga a Genova, nel 2000, parla di circa 400.000 persone dedite all’uso di queste sostanze in Italia.
Viene da domandarsi perché ad un certo punto, nel corso degli anni ’90, l’eroina è stata in parte soppiantata dalla cocaina e dalle nuove droghe di sintesi. Una prima risposta è quella della paura del contagio da HIV, il virus responsabile dell’AIDS, che si può contrarre facilmente con la pratica dell’iniezione per via endovenosa dell’eroina; la cocaina, invece, si sniffa o si fuma e le pasticche di ecstasy si ingeriscono.

PIÙ RESISTENZA,
PIÙ AUTOSTIMA

A differenza dell’eroina, che ha un effetto sedante e di estraniazione dal mondo, la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy sono notevolmente eccitanti, per cui aumentano la resistenza alla fatica fisica (consentono, ad esempio di ballare per ore in discoteca, anche tutta la notte) ed inoltre aumentano l’autostima in quei soggetti, che normalmente non sarebbero in grado di affrontare determinate situazioni, poiché si sentono inadeguati.
C’è ancora un altro aspetto: cocaina ed amfetamine inibiscono notevolmente il senso della fame, per cui sono utilizzate da quelle persone, soprattutto donne, che vogliono dimagrire rapidamente, senza affrontare lo stress di una dieta o la fatica dell’attività fisica. Una droga, che invece non ha mai conosciuto alti e bassi, ma semmai un’impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto tra i giovanissimi, è la cannabis.
Secondo un’indagine dell’Health Behaviour in School-aged Children, un gruppo di ricerca cornordinato dal prof. Franco Cavallo, dell’Università di Torino, il 31% dei ragazzi di 15 anni, attualmente, fa uso di cannabis, associandola a fumo e ad alcol, mentre il 20% dei giovani in questa fascia d’età è dedito anche all’uso di altre droghe. Va detto che tra quest’ultime, l’ecstasy e consimili, le cosiddette dance drugs, vanno forte solo tra i giovanissimi, che le consumano soprattutto in discoteca, per potere tirare al tardi, mentre la cocaina è consumata in una fascia d’età, che va dai 16 ai 60 anni e oltre. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

La narcoeconomia: qualche dato

OFFERTA IN CRESCITA, PREZZI IN DISCESA

I 3 maggiori business nell’era della globalizzazione
Nell’era della globalizzazione i business della criminalità organizzata (anch’essa globalizzata e con una grande influenza sull’economia cosiddetta legale attraverso il riciclaggio del denaro sporco) sono – stando ai dati dell’Onu – tre, in ordine d’importanza:
✔  il narcotraffico
✔  il traffico di esseri umani
✔  il traffico di armi.
Dei 3 quello che attualmente presenta i tassi di crescita maggiori è il traffico di esseri umani, ma anche gli altri due non conoscono recessione.
Il narcotraffico ha due grandi aree di produzione: l’Estremo Oriente per l’eroina (Afghanistan in primis, e dietro – nettamente distanziato – il cosiddetto «Triangolo d’Oro», cioè Myanmar, Thailandia, Laos) e l’America Latina per la cocaina (Colombia, Perù, Bolivia). La produzione della cannabis è invece più distribuita: Marocco, Tunisia, Albania, Libano, Pakistan, India, Nepal sono alcuni tra i principali produttori.
Da queste aree la droga passa ai paesi consumatori, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa, ma anche Australia e Giappone (vedi mappa di pagina 29). In loco, nei paesi di produzione, rimangono soprattutto dei sottoprodotti, meno costosi ma altamente pericolosi. Attualmente i prezzi delle droghe tradizionali sono calanti, vuoi per la notevole produzione (soprattutto dell’Afghanistan), vuoi per la concorrenza delle cosiddette droghe sintetiche, di laboratorio. Il trend di crescita maggiore è quello della cocaina.

I dati (ufficiali) della narcoeconomia
Secondo il Word Drug Report 2007 delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2006 sono state prodotte 984 tonnellate di cocaina.
Tre paesi andini sono ai primi 3 posti: la Colombia con 78.000 ettari coltivati e 610 tonnellate di cocaina; il Perù con 51.400 ettari e 280 tonnellate, la Bolivia con 27.500 ettari e 94 tonnellate. In questi anni, gli ettari coltivati sono diminuiti, ma la produzione complessiva è rimasta costante.
Confrontiamo questi dati con la produzione di eroina, che come abbiamo visto è prodotta in Estremo Oriente e in Afghanistan in particolare. Qui secondo l’«Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine» (Unodc), la coltura del papavero da oppio ha raggiunto la cifra record di 165.000 ettari. Da cui si sono prodotte 610 tonnellate di eroina, il 90 per cento del mercato globale. Al secondo posto nella classifica, c’è un paese di cui si è parlato molto alla fine del 2007: il Myanmar (Birmania).
Secondo gli ultimi dati dell’Unodc, per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%). Si calcola che, nel 2007, il prezzo medio dell’oppio afghano sia crollato a 100 dollari al chilogrammo (erano 500 nel 2006).

Più cocaina, meno eroina
Secondo i dati del governo colombiano (www.plancolombia.gov.co), al 12 ottobre 2007 sono stati 44.944 gli ettari di coca sradicati manualmente. Nonostante ciò, la Colombia rimane saldamente in testa nella produzione di cocaina, il cui trend commerciale è, da alcuni anni, in rapida crescita al contrario dell’eroina (che è stabile o in leggera diminuzione).
L’aumento della domanda è avvenuto soprattutto in Europa e in Italia, perché negli Stati Uniti il consumo – di gran lunga, il più elevato al mondo – si è stabilizzato.
Attualmente, all’ingrosso, il prezzo della cocaina è calante: si aggira attorno ai 41.000 euro al chilogrammo, mentre al dettaglio un grammo di cocaina costa tra i 60 e i 100 euro (vedi tabellina). Il successo della cocaina si deve ai suoi effetti euforizzanti ed attivatori (quindi diametralmente opposti all’ottundimento provocato dall’eroina), che in una società schiacciasassi (cioè che ti pretende sempre reattivo, efficiente, produttivo) come l’attuale sono ben accetti.

E in Italia
Secondo la relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’interno (Dcsa), nel 2007 i morti per overdose sono stati 589. Il più giovane aveva 16 anni, il più vecchio 71. La maggior parte delle vittime – 234 su 589 – sono state causate dall’eroina, seguite a distanze dalle vittime per cocaina (36).
Questi numeri sono importanti, ma non da brividi. Ad esempio, le vittime sono quasi la metà dei morti sul lavoro (più di 1.000 nel 2007 in Italia). Tuttavia, i costi per la società nel suo insieme sono elevatissimi. Alla domanda se l’attuale regime proibizionista sia la risposta più adeguata al problema non diamo una risposta. Ci limitiamo a fornire una tabella comparativa (vedere a pagina 31) per tentare di capire meglio i due diversi approcci.

Di Paolo Moiola

Confronti «eretici»

Lotta alle droghe: legalizzazione o proibizionismo?

Legalizzazione

✔ fine del mercato nero delle droghe
✔ drastica riduzione del business del narcotraffico attualmente in mano a multinazionali mafiose, che gestiscono profitti enormi e non rintracciabili da parte degli stati
✔ drastica riduzione delle violenze private – scippi, rapine, furti, omicidi – conseguenza del fatto di doversi procurare la droga
✔ ingente riduzione della spesa pubblica che gli stati sono costretti a sostenere per combattere il mercato nero delle droghe: con il vigente regime proibizionista le forze dell’ordine impegnano tempo e risorse pubbliche per contrastare il mercato nero delle droghe, con risultati spesso non adeguati agli sforzi; con il vigente regime proibizionista il sistema giudiziario è impegnato a smaltire e l’apparato carcerario è perennemente in crisi a causa di prigioni piene di detenuti legati al mercato nero delle droghe (piccoli spacciatori-consumatori)
✔ possibile aumento delle entrate fiscali, se le sostanze fossero tassate come si fa per l’alcol
✔ riduzione generalizzata della corruzione: un mercato illegale come quello attuale ha bisogno di un vasto apparato di corruzione a livello politico e di forze dell’ordine
✔ controlli sui prodotti e conseguente diminuzione delle sostanze adulterate o tagliate male
✔ riduzione della necessità da parte dei produttori di immettere continuamente sul mercato sostanze diverse, meglio trasportabili e meno rintracciabili ai controlli
✔ si risolverebbe il problema dei piccoli contadini – come i campesinos che coltivano la coca in Bolivia, Perù e Colombia o gli afghani che coltivano il papavero da oppio -, che pagano con la miseria propria e dei familiari le politiche di eradicazione forzosa.

Proibizionismo

✔ senza leggi proibizioniste, calerebbero i prezzi delle sostanze e, di conseguenza, aumenterebbero i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, cadrebbero le remore di carattere sociale (non ci sarebbe più il timore della stigmatizzazione, del rifiuto da parte della collettività) e, di conseguenza, potrebbero aumentare i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, ci sarebbero problemi di ordine etico-morale: è giusto che gli stati non tutelino a priori la salute psicofisica dei propri cittadini?


Roberto Topino e Rosanna Novara




Per un po’ di dopamina

La società e le droghe

«Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no», sosteneva Paracelso. Oggi sul problema delle droghe si discute molto, tanto che non esiste una posizione univoca neppure sul trattamento dei tossicodipendenti.

Droghe lecite e illecite, droghe leggere e pesanti, droghe high e down, che effetti possono avere sulla salute umana? Quali conseguenze sulla società? Il loro uso può essere considerato solo un fatto privato o no? È più corretto un atteggiamento proibizionista o antiproibizionista? E ancora, nel trattamento delle tossicodipendenze, è meglio il metodo della riduzione del danno, cioè un approccio di tipo medico, o l’approccio psicologico? Per tentare di rispondere a queste domande, può essere senz’altro utile avere un’idea di come agiscono le varie sostanze, una volta che hanno fatto il loro ingresso nel nostro organismo.

I DANNI 
DI ALCOL E TABACCO

La distinzione che si fa tra droghe lecite ed illecite, essendo le prime l’alcol ed il tabacco, può essere abbastanza fuorviante: si può essere portati a pensare che quelle lecite siano meno nocive alla salute umana, rispetto alle altre e che, in generale siano meno dannose per la società. Nulla di più errato. Prendiamo per esempio l’alcol. Tutte le bevande alcoliche, dalla più leggera birra ai superalcolici, contengono quantità diverse di alcol etilico, che per il nostro organismo risulta essere tossico, andando ad agire direttamente sul sistema nervoso centrale, con conseguenze che vanno dall’euforia iniziale alla depressione malinconica, passando attraverso le difficoltà di articolazione della parola e di deambulazione. Per non parlare del superlavoro che il fegato si trova a compiere, nel tentativo di depurare l’organismo da questa sostanza, che può causare un’epatite tossica, con evoluzione in cirrosi epatica, letale. Che dire poi delle stragi del sabato sera, in cui giovani ubriachi alla guida spesso uccidono se stessi e qualcun altro in tragici incidenti stradali? Oppure prendiamo in considerazione il tabacco: nel fumo di sigaretta, in particolare delle bionde, c’è un’elevata concentrazione di ammine aromatiche e di idrocarburi aromatici policiclici, sostanze sicuramente cancerogene, che sono la causa del carcinoma del polmone, ma anche di quello della vescica. Quindi la salute di chi fuma è seriamente a rischio, ma anche quella di chi non fuma, però si trova vicino a dei fumatori. Infatti il fumo passivo può essere dannoso come quello attivo, al punto che negli Stati Uniti è stata vinta la prima causa per fumo passivo, intentata dai parenti di una non fumatrice, deceduta per carcinoma polmonare.

DIPENDENZA FISICA,
DIPENDENZA PSICOLOGICA

Per quanto riguarda invece la distinzione tra droghe leggere e pesanti, va subito detto che ci troviamo di fronte ad un non senso tossicologico e cioè che esistano droghe leggere. In tossicologia non esiste alcunché di leggero. Già agli inizi del ‘500, Paracelso sosteneva: «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit ut venenum non sit», cioè «Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no». Questo ci fa capire che la distinzione tra droghe leggere e pesanti è artificiosa e che si può fare un uso pesante di droghe leggere. Fino a qualche tempo fa, sono state considerate pesanti le droghe capaci di dare dipendenza fisica (ad esempio l’eroina), per cui, se il soggetto dipendente smette di assumere la sostanza d’abuso, ha una crisi di astinenza, perché non è possibile interrompere bruscamente l’assunzione della droga, quando l’organismo è abituato ad essa. Droghe leggere sono invece quelle, che non danno dipendenza fisica e, fino ad una decina di anni fa, la cocaina e la cannabis erano considerate di questo tipo. Oggi ci si è resi conto che queste droghe danno un altro tipo di dipendenza, cioè quella psicologica, particolarmente importante nel caso della cocaina, che porta rapidamente al craving o consumo compulsivo. In pratica tutte le sostanze d’abuso danno il cosiddetto rinforzo negativo (lo stato di malessere durante l’astinenza), ma anche il rinforzo positivo (il ricordo del benessere legato all’assunzione della sostanza), cioè ciò, che tiene l’individuo legato alla sostanza stessa.

DOPAMINA,
LA MOLECOLA DEL PIACERE

La sensazione di benessere è data dalla liberazione della dopamina da parte dei neuroni stimolati dalle droghe. La dopamina, una molecola che permette ai neuroni di comunicare tra loro, viene rilasciata soprattutto in un’area cerebrale, detta nucleus accumbens, facente parte del sistema limbico del cervello ed in particolare dell’amigdala, che controlla le emozioni, positive e negative. I vari tipi di droga agiscono in modo leggermente diverso, perché i narcotici analgesici, tra cui l’eroina, agiscono su dei recettori specifici, cioè i recettori per gli oppiacei, aumentando la quantità di dopamina liberata. La cocaina, invece, aumenta la quantità di dopamina in circolazione, perché ne impedisce il riassorbimento a livello delle sinapsi. Dobbiamo comunque tenere presente che un neurotrasmettitore, in questo caso la dopamina, si comporta come un interruttore, che non solo agisce sui neuroni limitrofi, ma dà origine ad una serie di modificazioni, che si ripercuotono su tutto il sistema nervoso ed anche su altri organi. Ad esempio, i recettori che possono essere stimolati dal tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, oltre che nel cervello si trovano anche negli occhi e nell’intestino, mentre quelli per la nicotina del tabacco si trovano in molti tessuti, compresa la pelle.

PER DEPRIMERE
O PER ECCITARE

Una distinzione può essere fatta tra le droghe down e quelle high, essendo le prime quelle che deprimono il sistema nervoso centrale, come l’alcol, i barbiturici, gli ipnosedativi, gli oppiacei, tra cui l’eroina; le droghe high sono quelle eccitanti il sistema nervoso e tra queste la caffeina, la nicotina, la cocaina e le amfetamine, tra cui l’ecstasy. È importante tenere presente che l’effetto di una droga su un individuo non dipende solo dalle caratteristiche chimiche della sostanza, ma da quelle della persona, dalla dose, dalla frequenza di assunzione e dall’ambiente sociale, in cui avviene il consumo (può capitare che la prima assunzione risulti sgradevole o faccia stare male; se il soggetto è circondato da amici più esperti, questi spesso sono capaci di consigliare come superare il disagio iniziale).
L’aspetto sociale del consumo delle droghe è particolarmente importante, perché si tratta di stabilire se questo consumo possa o meno rientrare nel concetto di libertà individuale. Secondo questo concetto, ciascuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole della propria salute, quindi di drogarsi, anche se questo gli fa male. Che dire, però, se le conseguenze dell’abuso di determinate sostanze si ripercuotono gravemente sugli altri, vedi stragi del sabato sera, familiari percossi o addirittura uccisi oppure furti, rapine per procurarsi i soldi per la dose? Certamente, se esaminiamo i risultati ottenuti, in passato, con l’alcol dall’atteggiamento proibizionista, possiamo dire che sono stati assai deludenti. L’antiproibizionismo dovrebbe avere il vantaggio di stroncare il narcotraffico, ma senza una capillare attività educativa a livello soprattutto giovanile, potrebbe portare a risultati anche in questo caso negativi. È indispensabile, infatti, che vengano diffuse il più possibile le conoscenze scientifiche, nel campo delle droghe, al fine di difendere sia i singoli individui dal danno, che inconsapevolmente possono farsi, assumendo determinate sostanze, sia la società in cui essi vivono.

RIDUZIONE DEL DANNO
O RECUPERO PSICOLOGICO?

Per quanto riguarda il trattamento delle tossicodipendenze esistono fondamentalmente due tipi di approccio, cioè quello medico e quello psicologico. Il primo tiene conto del fatto che il tossicodipendente può provocarsi  una malattia organica, alla cui base ci sono danni, talora irreversibili, al sistema nervoso centrale. I Sert funzionano secondo questo tipo di approccio, sono diretti da medici e di solito la loro attività si basa sulla cosiddetta riduzione del danno, che prevede la somministrazione di metadone o di buprenorfina, al posto dell’eroina. Ciò riduce il rischio di diffusione di malattie come l’Aids o l’epatite virale, perché tali farmaci vengono assunti oralmente e non per via endovenosa. Inoltre, la somministrazione di queste sostanze in appositi centri ed in modo controllato, evita al tossicodipendente la ricerca della dose quotidiana e dei soldi per ottenerla. Certamente, però, queste sostanze agiscono sul sistema nervoso, in modo analogo all’eroina, e quindi per il tossicodipendente cambia poco, anzi il soggetto viene in pratica considerato irrecuperabile. Viceversa, l’approccio psicologico si occupa solo di questo aspetto, il tossicodipendente è accolto in comunità, che hanno di solito lo scopo di tenerlo lontano dal mondo della droga e di recuperarlo, inserendolo in attività di lavoro, in un contesto socio-educativo. Peraltro alcune strutture prevedono l’integrazione dell’area medica e di quella socio-educativa. Vanno poi ricordate le unità mobili, camper attrezzati con strumenti di pronto soccorso e con personale specializzato a bordo, che si recano di solito nei quartieri degradati, per avvicinare quei tossicodipendenti, che non si rivolgerebbero spontaneamente ad una struttura pubblica o privata di recupero. Gli interventi di queste unità si prefiggono lo scopo di convincere i tossicodipendenti a ridurre il margine di rischio nei loro comportamenti; ad esempio i soggetti avvicinati vengono foiti di siringhe sterili, per evitare la dif­fu­sione di Aids ed epatite. Inoltre i tossicodipendenti, che vengono agganciati in questo modo, a seguito di uno o più colloqui, vengono indirizzati alla struttura di recupero stabile, operante nel territorio. 

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




(Danni) per tuttti i gusti

Tipologia, effetti e problemi delle varie sostanze

Dosi, tempi d’intervallo, situazioni contingenti cambiano gli effetti delle varie droghe sull’individuo. Ma i danni ci sono sempre e comunque. E sulla marijuana, la droga «leggera» da consumare in compagnia degli amici, occorre sapere che...   

Quali sono i principali tipi di droga, i loro effetti sull’organismo, la loro eventuale tossicità ed i problemi di tipo sociale, che l’assunzione di queste sostanze comporta.

LE AMFETAMINE (DISCO, DOPING SPORTIVO)

Appartengono a questa categoria l’amfetamina, la destro-amfetamina, la metamfetamina, il metilfenidato, la fenmetrazina, il dietilpropione, la piperazina, ecc. Per la loro capacità eccitante, alcune di queste sostanze vennero usate dai piloti di guerra, nelle loro missioni. Molti derivati delle amfetamine sono sostanze allucinogene o empatogene. Attualmente le amfetamine non sono più usate in medicina, salvo in rare eccezioni come nel trattamento della narcolessia. La metamfetamina è molto diffusa nel mercato illegale: anni fa si consumava prevalentemente per bocca, mentre ora si presenta in forma solubile da sniffare o iniettare (crystal), o da fumare (ice, shabu, yabaa). Poiché si sviluppa rapidamente la tolleranza verso queste sostanze, i consumatori cronici tendono ad aumentare progressivamente le dosi ed i tempi d’intervallo tra le assunzioni si riducono drasticamente.
Appartengono a questa categoria le dance drugs, che si usano nei rave parties e nelle discoteche; tra queste abbiamo l’ecstasy o Mdma (3,4-metilenediossi-N-metilamfetamina); la ketamina, un anestetico usato in medicina veterinaria, ma utilizzato come droga con nomignoli, quali kit kat o Special k; il Ghb o gammaidrossibutirrato, detto ecstasy liquida, essendo un liquido incolore, inodore ed insapore, ricavato da solventi industriali e mescolabile a cibi e bevande ed utilizzato come droga da stupro, perché dopo circa 20 minuti, la vittima diventa incapace di opporre resistenza, perde i freni inibitori, la sua coscienza viene alterata e la sua memoria si blocca per 2-4 ore, riprendendosi completamente solo dopo 8-12 ore, ma senza il ricordo della violenza subita.

Gli effetti
Queste sostanze sono potenti stimolanti del sistema nervoso centrale e si comportano come la cocaina, con effetto molto più prolungato. A basse dosi agiscono solo come stimolanti, mentre ad alte dosi incidono notevolmente sul ritmo cardiaco e sulla pressione arteriosa, per cui possono essere pericolose per chi presenta dei problemi cardiovascolari. Inoltre, le amfetamine sopprimono l’appetito e sono state usate in passato nelle cure dimagranti. Sono state usate poi come antidepressivi, per resistere al sonno e come doping sportivo.

I problemi
L’uso continuato per 3-4 giorni (uso in binges) è di solito seguito da un crollo psicofisico. Nell’uso cronico di alte dosi, si possono avere disturbi nelle relazioni personali e sociali, problemi psichiatrici e comportamenti aggressivi. I soggetti, che si iniettano alte dosi di queste sostanze, spesso presentano un decadimento fisico, dovuto in parte a denutrizione.

La tossicità
Si possono avere problemi psichiatrici, neurologici e/o cardiovascolari. L’abuso di queste sostanze, per vincere l’affaticamento, può portare al colpo di calore, cioè ad un forte ed incontrollabile aumento della temperatura corporea, legato all’eccessivo sforzo fisico, che può essere mortale. Ad alte dosi, le amfetamine sono tossiche per il sistema nervoso centrale, poiché provocano una deplezione acuta di dopamina e di serotonina in alcune zone del cervello; pare inoltre che distruggano le sinapsi o addirittura gli stessi neuroni. In quest’ultimo caso, il fenomeno è irreversibile e questo spiega il danno neurologico permanente.

LA CANNABIS (MARIJUANA E HASCISC)

La cannabis sativa, varietà indica, cioè la canapa indiana è una delle più antiche piante coltivate e sono note da millenni le sue proprietà farmacologiche. Questa pianta contiene, in ogni sua parte, circa 400 principi psicoattivi, di cui il principale è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che si trova soprattutto nelle infiorescenze delle piante femmina.
Le preparazioni usate come droga sono le foglie ed i fiori secchi (marijuana) e la resina concentrata (hascisc). Di solito, la marijuana contiene il 3-5% di THC, mentre l’hascisc il 7-14%. Queste sostanze si possono fumare pure o mescolate a tabacco (spinello o canna), oppure assumere per bocca, sotto forma di tisane o dolci. Da qualche tempo si stanno facendo, soprattutto nelle serre del Maghreb, degli incroci botanici, che hanno portato alla formazione della cosiddetta canapa rossa, che contiene concentrazioni di THC anche 10 volte superiori alla varietà classica e che serve a preparare un super-hascisc, chiamato srunk.
Gli effetti
I derivati della cannabis sono molto lipofili, quindi il THC arriva subito al cervello, che è costituito per buona parte da grassi, dove si accumula poiché non viene eliminato facilmente. Questo principio attivo si accumula nell’organismo e si ritrova anche dopo mesi, dall’ultima assunzione; esso può perciò essere la causa dell’instabilità di molte persone, soprattutto giovani.
Con il fumo, il THC si assorbe subito ed il suo effetto si manifesta in pochi minuti, mentre l’assorbimento per bocca è più lento e variabile. La durata dell’effetto varia dalle 3 alle 5 ore circa, ma può essere più lungo, nel caso dell’assunzione orale.
La cannabis, come le altre droghe, ha i suoi recettori specifici a livello di sistema nervoso centrale e periferico, per cui è in grado di modificare molte funzioni dell’organismo. Si spiegano perciò tutti gli effetti che la cannabis ha sul sistema nervoso centrale (molto potenziati dal contemporaneo consumo di alcol), sull’apparato cardiovascolare, sul sistema endocrino, respiratorio, immunitario e riproduttivo. A basse dosi, i derivati della canapa hanno effetti sedativi, rilassanti ed euforizzanti, per cui danno ebbrezza, buon umore e golosità. Ad alte dosi, provocano notevoli alterazioni sensoriali e percettive, nonché distorsioni spazio-temporali.
L’effetto ha un tipico andamento a ondate, con alternanza di fasi di alterazione e di fasi di lucidità. I principi attivi della cannabis hanno interessanti proprietà farmacologiche, ad esempio combattono la nausea ed il vomito nelle chemioterapie antitumorali, stimolano l’appetito e per questo possono risultare particolarmente utili per i malati di AIDS, per i quali la perdita di peso è uno dei disturbi più precoci e responsabile, per buona parte, dell’evoluzione della malattia. Inoltre tali principi riducono la spasticità muscolare, abbassano la pressione intraoculare ed hanno azione analgesica.

I problemi
La tossicità acuta della cannabis è trascurabile e finora non si sono mai registrati casi di morte per una dose eccessiva. Sotto il suo effetto si riducono la capacità di concentrazione, l’attenzione e la memoria. Si possono, inoltre verificare reazioni ansiose, di panico, psicosi tossiche e la sindrome amotivazionale, che rende apatici, con riduzione della capacità di giudizio, nonché perdita d’interesse verso la propria persona e l’ambiente circostante. Attualmente è in discussione, se la canapa possa portare alla luce delle forme latenti di schizofrenia. Sotto l’effetto della cannabis, si assiste ad un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, ad una marcata irrorazione congiuntivale (occhi rossi) e ad un aumento del consumo di ossigeno, da parte del miocardio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, il fumo dello spinello sembra essere molto più cancerogeno di quello da tabacco.

COCAINA

Questa droga deriva dalle foglie di due specie di coca: l’Erythroxylum coca, coltivata nelle valli amazzoniche umide del Perù e della Bolivia e l’Ery­throxylum novogranatense, coltivata sulle montagne aride del Perù settentrionale e della Co­lombia. Attualmente ci sono coltivazioni illegali di queste piante, al di fuori delle aree tradizionali, particolarmente in Colombia. La cocaina è il principale alcaloide della coca (0,5-1% delle foglie secche). Essa ha tre fondamentali azioni farmacologiche: è un anestetico locale, un vasocostrittore ed un potente stimolante del sistema nervoso centrale. Il cloridrato di cocaina, che si presenta come una polvere bianca solubile in acqua, si sniffa, cioè si inala, e si inietta. La cocaina-base, non solubile in acqua, nella forma di pasta di coca o in quella di freebase o crack si fuma. Il fumo ha la stessa intensità e rapidità di azione di un’iniezione endovenosa. Gli effetti di una dose di cocaina durano circa 40-60 minuti per chi sniffa e molto meno (10-20 minuti) per chi si buca o fuma. Si ha successivamente un rapido ritorno alla normalità, molto più rapido nel secondo caso; tale ritorno può essere vissuto come sgradevole e deprimente, per cui si tende a ripetere quanto prima l’assunzione di un’altra dose. Si instaura così il fenomeno del craving, cioè del consumo compulsivo della sostanza.

La tossicità
La cocaina agisce sulla dopamina e sulla noradrenalina, entrambe neurotrasmettitori. In particolare la dopamina, la molecola del piacere, attiva il «Sistema di facilitazione comportamentale», che facilita i comportamenti finalizzati a conseguire delle gratificazioni, quindi determina disinibizione nelle relazioni sociali e nella ricerca del partner. Un’analoga azione è svolta dalle amfetamine e dall’alcol e spesso quest’ultimo è consumato contemporaneamente alla cocaina; in questo caso si forma, per azione del fegato, un metabolita  detto cocarnetilene, che è una sostanza fortemente tossica e che incrementa l’effetto della cocaina. Quando, però, il livello di dopamina presente nelle sinapsi è eccessivo, si può verificare uno stato psicotico, caratterizzato da idee deliranti, prive di fondamento e di tipo persecutorio. Il cocainomane si convince così di essere vittima di qualche complotto, per cui può avere reazioni anche molto violente.
La noradrenalina attiva, invece, l’«emotività negativa», per cui aumenta lo stato di allerta ed il soggetto diventa apprensivo. Aumentano le risposte di paura-allarme, quindi la cocaina può stimolare uno stato di reattività aggressiva. Peraltro questa, come le amfetamine, è una droga fortemente eccitante, che permette un’iperattività senza sentire la fatica; ciò è dovuto all’azione della cocaina sul glutammato, la molecola dell’iperattività; è la droga in giacca e cravatta, usata da managers, atleti, attori, ma anche da chi vuole tirare al tardi fino all’alba. Gli effetti della cocaina sono variabili da persona a persona, in base alle caratteristiche soggettive: alcune si sentono più energiche, altre più logorroiche, nervose ed irritabili.
Se si esamina l’immagine PET del cervello di un cocainomane, si può vedere che le aree colorate in rosso, rappresentanti le zone cerebrali, in cui c’è un corretto utilizzo del glucosio (la molecola energetica utilizzata dalle nostre cellule) si riducono progressivamente, man mano che aumenta il consumo della sostanza. Aumentano, nell’immagine, le zone gialle di scarso apporto e quelle blu, di apporto critico. In tal modo il cervello va progressivamente in crisi. Inoltre, in carenza di nutrimento, si hanno alterazioni vascolari, che hanno gravi ripercussioni anche sul sistema cardiovascolare.

I problemi
L’uso occasionale della cocaina non presenta grossi problemi (salvo le controindicazioni in caso di ipertensione o di altre malattie cardiovascolari). L’uso cronico, invece, può creare o aggravare dei problemi psichiatrici e, come già visto, il soggetto viene colto da mania di persecuzione. Sono frequenti allucinazioni visive e tattili (sensazione di insetti sotto la pelle). Il soggetto diventa sempre più aggressivo e violento.

La tossicità
Una dose tossica di cocaina può essere compresa nel range 70-150 mg per una persona di 70 Kg. La dose mortale è incerta e variabile da una persona all’altra. I danni, che la cocaina produce alla salute sono molteplici. Innanzitutto, a livello di apparato cardiovascolare, la cocaina aumenta la pressione arteriosa e favorisce l’occlusione delle coronarie, con conseguente rischio d’infarto. Inoltre produce aritmie (extrasistole, tachicardia, fibrillazione). Spesso si riscontrano alterazioni cardiache in soggetti giovani, facilitate dall’azione tossica combinata di alcol e di cocaina; a quest’ultima sono attribuibili gli infarti in giovane età, in assenza di altri fattori di rischio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, se la cocaina viene fumata, la sua forte azione vasocostrittrice sui tessuti produce danni sia a livello della mucosa nasale, che tende alla necrosi, sia a livello polmonare. Si parla di crack lung, cioè polmone da crack, per descrivere una patologia caratterizzata da dolore al torace, difficoltà respiratorie e tosse con emissione di sangue. Bisogna tenere presente che, se si verifica un deficit della capacità respiratoria, ciò significa che c’è un minore apporto di ossigeno agli organi, per cui esso è più necessario, cioè il cervello ed il cuore. La cocaina ha la capacità di abbassare la soglia epilettica di un individuo e quindi di scatenare le convulsioni, che possono ripetersi a intervalli sempre più brevi, fino a risultare fatali. In alcuni casi, il disturbo epilettico da cocaina si manifesta con delle assenze temporanee, in cui la coscienza è alterata, confusa e non più vigile. Inoltre, sempre in tema di danni al cervello, i cocainomani presentano un rischio di ischemia cerebrale quattordici volte superiore alla norma. In questo caso, la causa può essere attribuita allo spasmo delle arterie craniche, con ridotto apporto di sangue al cervello (quella più frequentemente colpita è l’arteria cerebrale media), oppure ai microinfarti cerebrali, che sono associabili all’uso della cocaina. Quest’ultima può essere causa di TIA, cioè di attacchi ischemici transitori. In cocainomani di lunga data, alcune aree del cervello, soprattutto nei lobi frontali, ad un esame TAC o PET risultano atrofizzate o di dimensioni ridotte e ciò si traduce in un comportamento privo di regole morali e di senso comune, caratterizzato da forte impulsività e mancanza di riflessione, cioè, in pratica, una sorta di demenza. A ciò si aggiungono, nel tempo, i disturbi dell’attenzione, le crescenti difficoltà di attenzione ed un deficit di memoria. Attualmente non ci sono dati sufficienti, per stabilire l’entità dei danni a distanza, per coloro, che hanno usato la cocaina per anni, ma poi si sono disintossicati, né siamo in grado di prevedere cosa succederà nel tempo ai figli di madri cocainomani. A tal proposito, uno studio compiuto negli Usa ha evidenziato che il 31% dei neonati della popolazione urbana è positivo, per la presenza di cocaina nel corpo. Teniamo presente che la cocaina passa facilmente attraverso la placenta, quindi raggiunge il feto e si distribuisce nella sua circolazione. La cocaina esplica la sua azione vasocostrittrice sull’arteria ombelicale, riducendo l’apporto di ossigeno e di sostanze nutritive al feto; possono perciò verificarsi aborti spontanei, distacchi di placenta o parti prematuri. I bambini così esposti presentano basso peso alla nascita, riduzione delle dimensioni del cranio e del cervello e malformazioni all’apparato genito-urinario. Inoltre essi presentano riflessi meno validi, sono più irritabili ed interagiscono meno con l’ambiente. La cocaina è in grado di passare anche attraverso il latte materno, quindi, in caso di madre cocainomane, l’allattamento al seno va rigorosamente sostituito con quello artificiale. Infine la cocaina può produrre alterazioni ormonali, come l’ipertiroidismo, l’ingrossamento delle ghiandole mammarie e l’impotenza nei maschi, l’amenorrea e la perdita di fertilità nella donna, nonché la ricerca di situazioni di tipo sessuale, caratterizzate da una forte trasgressività, per cui è quasi costante nei maschi il ricorso a esperienze con i transessuali.

OPPIO, MORFINA, EROINA E ALTRI OPPIOIDI

L’oppio deriva dal lattice del papavero sonnifero (Papaver somniferum), originario dell’area mediterranea. Esso contiene alcaloidi molto usati in medicina, come antidolorifici e calmanti, quali la morfina e la codeina. Attualmente si usano anche oppioidi semisintetici, come l’eroina e la buprenorfina o completamente sintetici, come il metadone, la meperidina ed il fentanyl. L’oppioide più comune sul mercato illegale è l’eroina (diacetilmorfina), che può essere assunta per via endovenosa, per bocca o inalata.

Gli effetti
Gli oppioidi agiscono sul sistema nervoso centrale. In particolare essi agiscono su un tipo di recettori cellulari, facenti parte del sistema oppioide endogeno, e su mediatori biochimici, le endorfine, normalmente presenti nel nostro organismo. In medicina, gli oppioidi funzionano simultaneamente come analgesici e tranquillanti e vengono usati anche come antidiarroici e calmanti della tosse. Effetti collaterali frequenti sono la nausea ed il vomito, specialmente all’inizio, e la stipsi, che può diventare un serio problema. Gli oppioidi interferiscono solo in modo marginale con le funzioni intellettuali e con il cornordinamento muscolare. L’effetto dell’eroina dura 3-6 ore, dopodiché la persona dipendente deve ripetere la dose. La maggior parte delle persone, che fanno uso di oppioidi, come droga, non provano euforia, ma solo una sensazione di apatia, di sedazione e di ottundimento mentale, che può anche risultare sgradevole. Se si continua a consumare queste sostanze, in breve queste sensazioni negative tendono a scomparire.  Probabilmen
te solo poche persone traggono sensazioni gratificanti, già dalle prime assunzioni. In molti casi si raggiungono invece effetti, quali la stabilizzazione dell’umore e la riduzione della tensione intea e degli impulsi aggressivi.
I problemi
L’uso occasionale degli oppioidi, sotto controllo medico, non crea particolari problemi, che invece insorgono con il consumo cronico, perché si sviluppano tolleranza (necessità di aumentare la dose, per ottenere gli stessi effetti) e dipendenza fisica (adattamento dell’organismo alla presenza del farmaco), con la comparsa di un grave e prolungato malessere, accompagnato da tipici disturbi, in caso di sospensione improvvisa (crisi da astinenza). Nell’uso terapeutico, la dipendenza è un fenomeno rarissimo, ma può svilupparsi tolleranza.

La tossicità
Gli oppioidi puri, di solito, non sono tossici, se assunti in modo corretto e controllato. Al contrario, l’uso dell’eroina da strada può causare gravi problemi, poiché questa eroina è spesso tagliata con sostanze potenzialmente dannose, oppure è contaminata da agenti patogeni. Se questa droga viene assunta in condizioni igieniche carenti (mancanza di sterilità, siringhe usate) è facile contrarre infezioni di diverso tipo (tromboflebiti, epatiti, endocarditi, AIDS, ecc.). Inoltre, essendo sconosciuta la concentrazione del principio attivo, nelle droghe di strada, si rischia l’overdose, che può provocare la morte per una grave depressione dei centri nervosi, che controllano la respirazione. L’overdose è caratterizzata dalla presenza contemporanea di sonnolenza profonda, pupille contratte a punta di spillo e depressione respiratoria, con pochi e superficiali atti respiratori al minuto. Questa situazione richiede un intervento di emergenza, con respirazione artificiale e somministrazione di naloxone. Se un oppioide viene assunto con alcol e/o tranquillanti, si può avere sinergia con potenziamento.

LE SOSTANZE PSICHEDELICHE
(MESCALINA, FUNGHI, LSD)

Si tratta di sostanze allucinogene, che danno marcati effetti sulle percezioni, sensazioni, emozioni e processi mentali in genere. Tra i principali abbiamo la mescalina, contenuta in varie specie di cactus, tra cui il peyote (Lophophora williamsii), la psilocibina e la psilocina, contenute in molti funghi dei generi Psilocybe, Copelandia e Panaeolus, diffusi in tutto il mondo. Fra le sostanze di sintesi, c’è l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico). Anche la cannabis, ad alte dosi, si comporta come un allucinogeno. Si usano quasi sempre per via orale ed il loro effetto dura 6-10 ore.

Gli effetti
Si va dall’aumentata intensità soggettiva delle percezioni e delle sensazioni (forme, colori, suoni, sensazioni tattili), fino a vere e proprie distorsioni illusorie della forma e del colore degli oggetti, nonché dello spazio e del tempo. Nessun tipo di droga ha effetti tanto imprevedibili e tanto dipendenti dallo stato mentale, dalla personalità, dall’atteggiamento e dalle aspettative del soggetto ed infine dalle circostanze ambientali. Sono possibili delle sinestesie, cioè la sensazione di vedere i suoni e di sentire il profumo dei colori, la dissoluzione delle immagini in pure forme di luce e di colore, fino alla sensazione di dissociazione della mente dal corpo. Si possono inoltre avere profonde sensazioni di armonia interiore e di sintonia con l’universo, in pratica una sorta di estasi. In certi casi, al contrario, si possono avere effetti negativi altrettanto rilevanti, si possono fare i bad trips, cioè i viaggi cattivi, per cui è sempre necessaria la vicinanza di una persona in grado di rassicurare e di calmare il soggetto.

I problemi
In soggetti predisposti si possono avere crisi più o meno prolungate di depressione o vere e proprie crisi psicotiche. Sono inoltre possibili dei fenomeni di flashback, cioè l’improvvisa ricomparsa di sensazioni alterate a distanza di tempo dall’assunzione. Sotto l’effetto degli allucinogeni è impossibile svolgere attività, che richiedono attenzione, vigilanza, concentrazione, raziocinio, cornordinamento muscolare e prontezza di riflessi, come ad esempio la guida di un veicolo. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

MARIJUANA DA LIBERALIZZARE?

Quello dell’utilità in campo medico è l’argomento, di cui solitamente si servono coloro che sostengono la liberalizzazione della cannabis. Va detto, però, che in campo medico si usano anche gli oppiacei, per combattere il dolore, ma non per questo li troviamo liberamente in commercio.  In ogni caso, in questo tipo di discussione, bisogna tenere conto del fatto che è ormai provato, su base sperimentale, che anche la cannabis dà dipendenza, i cui primi sintomi sono la perdita di controllo dell’assunzione e l’incapacità di smettere, quando lo si desidera. Una piccola percentuale di soggetti mostra, inoltre, i sintomi fisici dell’astinenza, quali l’insonnia, l’irritabilità ed i tremori, anche se di minore entità, rispetto a quanto succede con le altre droghe.
È vero, peraltro, che non tutti coloro, che fanno uso di cannabis sviluppano la dipendenza, ma ciò può essere legato alle caratteristiche genetiche dei singoli soggetti, oppure alle caratteristiche ambientali.

(Sul tema  legalizzazione / proibizionismo si veda la tabella di pagina 31.)

Sniffare cocaina

Dal congresso degli operatori dei Sert di Sorrento arriva una notizia allarmante: ci sono persone, che fanno anche un anno di attesa, negli ospedali, per rifarsi il naso, distrutto dalla cocaina. Al momento è impossibile quantificarne, con esattezza il numero, ma pare che esso sia in continuo aumento.
Fino a qualche anno fa, gli interventi di rinoplastica, legati al consumo di cocaina, erano rarissimi: uno su cento cocainomani. Inoltre riguardavano per lo più persone del mondo dello spettacolo o managers. Ora, invece, le richieste d’interventi di questo tipo arrivano da persone di tutti i ceti sociali, anche nella popolazione femminile. Inoltre, dal momento che il prezzo della cocaina è diminuito, cresce il numero delle persone, che ne fanno uso e che successivamente si ritrovano con questo tipo di problema.
Le liste d’attesa per rinoplastica sono attualmente di cinque mesi in clinica privata, a 10.000 euro, e di un anno e mezzo in un ospedale pubblico. La cocaina ha una forte azione vasocostrittrice, che può portare alla necrosi di vaste aree della mucosa nasale, con conseguenti gravi difficoltà di respirazione e tumefazioni nasali. Sono costretti alla ricostruzione anche tanti giovanissimi, nei quali le mucose e la cartilagine sono più delicate e vanno facilmente incontro a perforazione, con l’abitudine di sniffare cocaina. L’intervento di rinoplastica dura 2-3 ore e, naturalmente, ha un senso solo se il soggetto smette di inalare cocaina. Bisogna inoltre considerare che questo tipo d’intervento è gravato da un’alta percentuale d’insuccessi, del 30-50%. I chirurghi maxillo-facciali riferiscono che, qualche anno fa, si aveva una richiesta di ricostruzione nasale una volta al mese, ora ce ne sono 3-4 alla settimana. Il primario di otorinolaringoiatria dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, Prof. Fabio Beatrice sostiene anche che, oltre ai danni al naso, l’assunzione di cocaina può causare anche un importante abbassamento dell’udito.


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Accedendo a questo sito, è possibile rispondere ad un test di autovalutazione, che consente a chiunque, in totale anonimato, di quantificare il proprio grado di dipendenza dalla cocaina. Oltre i consumatori, possono rivolgersi a questo sito, ottenendo un consulto, anche coloro (familiari o amici), che sospettano che un loro caro faccia uso di cocaina. Un’altra sezione del sito è dedicata agli operatori del settore, che possono così confrontare esperienze, teorie ed informazioni.

Dalla legge del 1923 alla «Fini-Giovanardi»

✔1923: viene emanata, in Italia, la prima legge in materia di droga. Essa prevede di reprimere il commercio di sostanze stupefacenti e rinvia ad un elenco, per l’identificazione delle sostanze incriminate.

✔1956: la legge n. 1041 è di tipo esclusivamente repressivo, in quanto, per lo Stato, il tossicodipendente e lo spacciatore si equivalgono. Qualsiasi detenzione di sostanze stupefacenti, anche per uso personale, viene punita.

✔1975: la legge n. 685 dice che chi consuma stupefacenti, senza dedicarsi allo spaccio è solo un malato da curare e da riabilitare. Il soggetto, in questo caso, non è punibile, sempre che la droga trovata in suo possesso non superi la modica quantità.
✔1990: la legge n. 162 (legge Vassalli-Russo-Jervolino) prevede che l’assunzione di stupefacenti sia punita con una sanzione amministrativa, che diventa penale, quando la detenzione di sostanze stupefacenti supera la dose media giornaliera, fissata con decreto ministeriale. Alcune norme di questa legge, in particolare quelle relative alle pene previste per la detenzione personale di droghe leggere, vengono abrogate con un referendum nel 1993.

✔2006: la legge n. 46 (legge Fini-Giovanardi) è caratterizzata dall’inasprimento delle sanzioni relative alla produzione, al traffico, alla detenzione illecita ed anche all’uso di sostanze stupefacenti, con l’abolizione di qualsiasi distinzione tra droghe pesanti e leggere.


Droghe, musica e cantanti

Una ricerca condotta recentemente, presso l’Università di Pittsburg ha analizzato i testi di 279 canzoni, tra quelle pubblicate nelle classifiche di Bilboard, un settimanale specializzato. Da questa ricerca sono emersi spesso dei riferimenti espliciti al consumo di stupefacenti, soprattutto nel rap, anche se possono pure trovarsi in altri generi musicali, come il country.
Secondo la rivista scientifica Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, i giovani di 15-18 anni sarebbero esposti quotidianamente a circa 2,4 ore di musica, mentre il 98% di loro possiede una radio, o un lettore cd o mp3. Questo significa che fare passare, attraverso il testo di una canzone, un messaggio legato al consumo di droga può avere un forte impatto negativo su una grande fetta di popolazione giovanile. Inoltre, spesso, questo tipo di messaggio viene associato a connotazioni positive, come il sesso, i soldi ed il successo. Dall’esame dei testi musicali, che fanno riferimento all’uso di stupefacenti, si è visto che il 77% sono di rap, il 36% di country, il 20% di rithm & blues/hip hop, il 14% di rock ed il 9% di pop. Facendo una media, le canzoni, che danno una connotazione positiva all’uso di droghe sono circa il 69%, mentre solo il 4% contiene un testo antidroga. Per quanto riguarda, invece, le sostanze citate in questi testi, si parla di tabacco nel 3% delle canzoni, di marijuana nel 14%, di alcol nel 24% e di altri tipi di droga nel 12%.
Tra i cantanti o gruppi stranieri, che inneggiano alla diffusione di hashish e di marijuana ci sono Snoop Dog ed i Cypress Hill, mentre in Italia abbiamo i Baustelle, che, in un loro testo, descrivono le gesta di un certo Charlie, che fa surf sotto l’azione di Mdma (ecstasy) e di paroxetina.

Dove sono le radici?

Il problema della tossicodipendenza è considerato un problema sociale; le proporzioni e le dimensioni del fenomeno, durante quest’epoca, hanno reso necessaria non solo la visione scientifica, ma anche l’elaborazione di vere e proprie risposte sociali.
Risposte, che appartengono a diversi livelli: reazione sociale nei gruppi più ristretti, come la famiglia ed il gruppo dei pari, ma anche rispetto alle istituzioni, cioè scuola, mondo del lavoro, ecc.
Le dimensioni e le caratteristiche dell’evoluzione di tale fenomeno mettono in rilievo che le spiegazioni e le interpretazioni basate sulle problematiche individuali dei consumatori non sono sufficienti a fornire una valutazione adeguata al fenomeno stesso, ma è necessario introdurre parametri di tipo culturale e sociale.
L’uso di droghe leggere è una forma di devianza, tipica nell’esprimere le gravi tensioni, alle quali i giovani della nostra epoca sono sottoposti in età sempre più precoce. Esistono problemi di adattamento sociale comuni a molti giovani, che si realizzano, in genere, in gruppo.
Considerare la droga un problema solo individuale, o solo psichiatrico non è sufficiente.
Innumerevoli i sostanziali mutamenti di valori e di stili di vita, che negli ultimi anni ci hanno accompagnato; filosofia del vivere alla giornata, in cui il mondo adulto appare esso stesso preoccupato per il futuro, tanto timoroso di sbagliare nei confronti degli adolescenti, ed allo stesso tempo contraddittorio nell’annunciare la validità di valori, che vengono negati nella pratica. L’uso di sostanze finalizzate ad incidere sulle condizioni psichiche ed a risolvere problemi, di carattere psicologico o esistenziale è entrato nelle abitudini di molte persone, e ciò è stato stimolato anche da enormi interessi delle industrie farmaceutiche.
Un elemento, che incide negativamente sull’esistenza del tossicodipendente è la sua realtà familiare: famiglie con relazioni alterate, rapporti affettivi di tipo ambivalente. Importante sì la figura matea, ma che sia una madre accogliente, che accudisce e non castra, capace di dettare regole e trasmettere valori, non ambivalente nei confronti dei figli, così come è importante un padre presente. Pare che la famiglia giochi un ruolo fondamentale sul comportamento del figlio adolescente e che la tossicomania di un figlio, nel senso più ampio del termine, possa essere considerata come un sintomo di un più generale disturbo familiare. Disturbo e scelta, che non vengono mai all’improvviso.
Responsabilizzare, capacità di superare le difficoltà quotidiane, avere buoni valori umani e culturali rimangono elementi concreti, grazie ai quali potere crescere; è l’immagine mentale dell’albero, con una bella chioma, il quale ha delle profonde e robuste radici inserite nel terreno e che, davanti alle bufere della vita, spesso riesce a superarle.

di Anita Di Santo



Roberto Topino e Rosanna Novara




Per neutralizzare o per rieducare?

La necessità di ripensare il carcere e la pena

Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona.

«Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leggono più volte nella storia autobiografica di Edward Bunker («Educazione di una canaglia», Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra alla società o se sia stata quest’ultima a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «canaglia».

PERCHÉ IL CARCERE?

Nei 250 anni da cui esiste la prigione modea molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il sociologo norvegese Thomas Mathiesen si poneva nel titolo di un suo lavoro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resistere alle obiezioni degli abolizionisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. Sull’utilità del carcere, peraltro, il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cybercrime ai maltrattamenti degli animali, dal doping nello sport alla violenza negli stadi, la risposta standard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter testimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa appendice di sanzione detentiva.
L’ultima vicenda dell’indulto del 2006 ha evidenziato come la funzione che la nostra società implicitamente richiede alla pena detentiva è quella della mera neutralizzazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, infatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruie di nuove, ignorando che gli organismi inteazionali (ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Palma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa soluzione perché in molti paesi le nuove carceri sono state in breve tempo riempite, riproponendo gli stessi problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inoltre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale (art. 27) dello scopo rieducativo della pena?
Il carcere dunque come principale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giungono dal sistema mediatico-politico non ci si può stupire se i numeri della carcerazione crescono nuovamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un livello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mila detenuti, dopo il provvedimento clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qualche mese, tuttavia, siamo ritornati a quote di sovraffollamento inquietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi abbiamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità.
Ma quanto è efficace lo strumento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confortanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli individui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore della pena o per avere acquisito in prigione l’abitudine a rispettare la legge. Le poche ricerche accreditate (la più recente svolta proprio dal ministero della giustizia) ci dicono che quasi il 70% dei condannati torna a commettere reati entro 5 anni dalla conclusione della detenzione.
Si parla, al proposito, del cosiddetto fenomeno «porta girevole», nel senso che molti detenuti continuano ad entrare ed uscire dal carcere come seguendo la rotazione delle porte di un albergo. È sufficiente analizzare la composizione sociale della popolazione reclusa per rendersi conto che si tratta di persone la cui marginalità sociale rende altamente probabile l’esito carcerario e la recidiva. Un quarto di tale popolazione ha problemi di tossicodipendenza e/o di alcoldipendenza, oltre il 35% di essa proviene da paesi stranieri ed è in attesa, una volta scontata la pena, di essere rimpatriata perché giunta in Italia clandestinamente.

MISURE ALTERNATIVE:
VALIDE, MA IMPOPOLARI

Il carcere, secondo il nostro ordinamento giuridico, dovrebbe costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Che fine hanno fatto le forme alternative alla carcerazione introdotte con la lontana riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975? Rispetto alle misure alternative, esse risultano in aumento nel corso degli ultimi anni se pensiamo che le persone sottoposte ai vari regimi di limitazione della libertà (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) sono arrivate ad essere pari a quelle detenute in carcere.
L’opinione pubblica, tuttavia, è frequentemente chiamata a scandalizzarsi di casi di cronaca in cui condannati a misure alternative commettono altri reati, dimenticando peraltro che la percentuale di questi casi è bassissima e che i progetti di reinserimento sociale dei reclusi necessitano di un periodo di verifica che non può che passare attraverso forme, anche limitate, di libertà del condannato. Le ricerche dimostrano che coloro i quali hanno scontato la pena in misura alternativa fanno registrare tassi di recidiva molto più bassi rispetto a quelli degli ex detenuti (la percentuale già citata del 70% cala a poco più del 20%). La stessa cultura giuridica degli operatori del diritto stenta a considerare le pene alternative come una sanzione penale vera e propria e tende quindi a concederle con sempre maggiore riluttanza: quest’estate ha destato scalpore la rapina commessa dall’ex brigatista Piancone, mentre stava scontando la misura alternativa, benché avesse scontato la pena detentiva per la durata di 25 anni! Del resto, non si intravede una politica di potenziamento delle strutture pubbliche chiamate a svolgere le attività di reinserimento sociale.
La percentuale di personale che all’interno delle carceri è addetta al trattamento è ancora oggi estremamente ridotta rispetto a quella che si occupa della sicurezza. Mentre esiste in media più di un agente di polizia penitenziaria per ogni detenuto, ancora oggi ci sono carceri che ospitano 200/300 reclusi che dispongono dell’intervento di uno o due educatori! Lo stesso provvedimento dell’indulto è stato approvato nel periodo estivo, quasi alla chetichella e prontamente disconosciuto dalle stesse forze politiche che l’avevano approvato, senza un serio piano di reinserimento sociale e di accoglienza delle persone scarcerate con i soggetti del privato sociale operanti sul territorio. In buona sostanza, una occasione perduta per dimostrare all’opinione pubblica come il carcere possa e debba mantenere una valenza risocializzativa.

TROPPI SUICIDI NEGLI 
«ALBERGHI A 5 STELLE»

Di quando in quando emerge nell’opinione pubblica che le carceri siano «alberghi a 5 stelle». Non è proprio così, se consideriamo che gran parte dei nostri istituti penitenziari sono fatiscenti o perché vetusti, o perché nati vecchi in quanto costruiti non per il bene pubblico, ma per soddisfare interessi privati di consorterie di potere (ricordate lo scandalo delle «carceri d’oro»?). Inoltre, la maggior parte delle persone detenute sono costrette ad un ozio forzato, in quanto la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere è garantita per non più di un quarto della popolazione reclusa a causa di croniche carenze di finanziamenti statali e della latitanza dell’imprenditoria privata che, nonostante la retorica sul capitalismo sociale, non sembra molto propensa ad investire nel recupero delle persone che hanno sbagliato (la Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che i detenuti non perdono i loro diritti di lavoratori…).
Un altro diritto che i detenuti non dovrebbero perdere entrando in un carcere è quello alla salute. Tuttavia, le condizioni della sanità penitenziaria non sono certo in grado di garantire tale diritto per tutte le persone recluse. La cosiddetta riforma Bindi, che ne prevedeva, dopo una fase di sperimentazione in alcune regioni, il passaggio al servizio sanitario nazionale è stata a lungo inapplicata e forse l’anno 2008 sarà quello decisivo per una sua positiva realizzazione. Nel frattempo la situazione sanitaria delle carceri si è fatta sempre più critica, appena migliorata dalla boccata di ossigeno dell’indulto, ma ben presto di nuovo sotto pressione con l’incremento dei detenuti degli ultimi mesi. Anche qui tagli ai finanziamenti pubblici, resistenze di potentati corporativi, disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria, riluttanza della società extra-muraria di farsi carico della questione hanno prodotto una realtà sanitaria che, soprattutto in alcune regioni, non può considerarsi a livello di un paese civile.
Ma c’è un dato del mondo carcerario che risulta ancor più inquietante: il tasso dei suicidi. Negli ultimi anni in Italia tale tasso tra i detenuti ha superato l’uno per mille abitanti, il che significa che in prigione ci si ammazza 15 volte di più che nella società dei liberi. Proprio nelle ultime settimane quattro episodi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria hanno riproposto l’attualità del tema anche nell’ambito del mondo degli operatori penitenziari. Possiamo considerarli un ennesimo esempio di morti bianche sul lavoro? Direi proprio di sì. Condizioni di sovraffollamento, stato di abbandono da parte della famiglia e degli operatori sociali, difficili rapporti con i compagni di detenzione o di lavoro, condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti penitenziari non idonee a costruire un ambiente di lavoro accogliente; tutte situazioni che incidono negativamente tanto sui detenuti quanto sul personale di custodia e che contribuiscono ad aumentare quella dimensione di sofferenza umana che emerge dagli istituti di pena italiani.
Jean-Pierre Faye a chi gli chiedeva una definizione di Europa rispondeva: «l’Europa è là dove non esiste la pena di morte». Affermazione ancor più significativa dopo la moratoria approvata dall’Onu proprio su istanza dei paesi europei.
Uno Stato che voglia definirsi europeo non può quindi accettare che sussistano nei propri istituti penitenziari delle condizioni che inducano suoi cittadini a privarsi di quel bene, la vita, per la protezione del quale è stato costituito lo stesso patto sociale. 

Di Claudio Sarzotti

Claudio Sarzotti




Cinquantamila reietti della società?

Introduzione

In Italia e nel mondo la situazione carceraria vive una perenne emergenza, lasciando trasparire un’immagine opaca della nostra società e suscitando reazioni sovente contraddittorie, dettate più dall’impulso emotivo che da un’analisi attenta e ponderata del problema. Nel nostro Paese vi sono circa 50.000 detenuti, ma erano 63.000 (per 43.000 posti regolamentari) prima dell’ultimo indulto del luglio 2006, soglia che sarà comunque nuovamente presto raggiunta e superata procedendo al ritmo di 1.000 nuovi detenuti al mese.
Parlare di carcere significa tuttavia riflettere anche sul significato del reato, della pena, della colpa, significa inevitabilmente parlare di società.

Le prigioni sono nate e cresciute parallelamente con la storia dell’umanità. Strutture carcerarie con un significato simile a quello odierno si menzionano già nella Bibbia, nonché nella Grecia e nella Roma antica. Il termine prigione deriva infatti dal latino «prehensio», mentre la parola carcere deriverebbe da «carcer», recinto, inteso come luogo ove si restringe, si rinchiude e si punisce. Viene così sottolineata la sua funzione primaria che consiste nell’allontanare dalla vita attiva e separare dalla comunità quei soggetti ritenuti un pericolo per la società stessa.   
I sistemi penitenziari hanno attraversato i secoli, variando da Stato a Stato in base alla concezione della pena vigente nelle diverse legislazioni. Tuttavia, nonostante  molteplici trasformazioni e continui adeguamenti, il mondo carcerario vive ancora oggi una condizione fatta di luci e di ombre, di problemi irrisolti e forse irrisolvibili.
Un miglioramento complessivo delle condizioni di vita, della tutela dei diritti e del rispetto della dignità umana, almeno in una parte dell’Occidente, è stato indubbiamente attuato, ma nella sostanza il nucleo della vita detentiva è rimasto immodificato.

Il sovraffollamento in strutture talvolta fatiscenti,  le condizioni sanitarie precarie, l’aumento dei minori (oltre 400 nel 2006), la presenza sempre più cospicua degli stranieri (circa il 30% dei detenuti), sono soltanto alcuni dei problemi che ciclicamente trovano spazio nelle cronache. L’alto numero di suicidi, oltre mille dal 2000 al 2007, è la testimonianza tangibile e forse più eclatante di un profondo ed inespresso disagio esistenziale. A ciò si aggiungono inevitabilmente i problemi del recupero e del reinserimento nella società civile.
Al fine di trattare una tematica così complessa, in questo dossier diamo voce a coloro  che vivono quotidianamente la realtà carceraria.

di Enrico Larghero

Enrico Larghero