Il mercato ha sempre ragione

Il professore

Delle diverse teorie economiche la Nuova economia istituzionale (Nie), cerca di  sorpassare l’approccio astratto del mercato. E spiega l’importanza delle istituzioni economiche come fatto culturale. Ma non riesce a liberarsi dell’ossessione del mercato. E lo vede come unico mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli.

La Nuova economia istituzionale (New Institutional Eco­nomics, Nie) ha tratto spunto dalle ricerche effettuate da Ro­nald Coase alla fine degli anni ‘30. Le intuizioni di Coase sono state riprese negli anni ‘70, soprattutto grazie al contributo di Oliver Williamson.
Da proposta di un gruppo ristretto di studiosi,  la Nie è venuta acquisendo un riconoscimento sempre più ampio, tant’è  che  quasi tutti gli economisti oggi riconoscono che la loro disciplina ha una natura istituzionale.
Il termine Nie è stato coniato per distinguerla dalla Vecchia economia istituzionale, che si affermò nel primo Novecento negli Stati Uniti, con autori come  Wesley Mitchell, John Commons e  Thorstein Veblen.
Per la verità, come vedremo, la Vecchia economia istituzionale non appare così vecchia, e per molti aspetti appare più interessante e utile della nuova.
Quest’ultima si è venuta affermando come una critica del modello neoclassico, che ha caratterizzato la disciplina economica a partire dalla fine dell’800. Oggi sempre più questo modello viene sottoposto a critiche serrate:  la Nie ha rappresentato un tentativo di salvare l’apparato analitico dell’economia neoclassica, cercando di renderla meno astratta e formalistica.

L’homo Œconomicus
e il vizio dell’egoismo

Gli economisti neoclassici infatti hanno elaborato un corpo dottrinale molto elegante e raffinato, che parte da alcune ipotesi astratte sul comportamento dell’uomo, e in particolare dall’ipotesi dell’homo œconomicus, cioè di un individuo isolato, unicamente interessato alla massimizzazione della sua utilità individuale. L’approccio è di tipo deduttivo e astorico, ma pretende ciononostante di fornire una spiegazione realistica del funzionamento dei mercati in una economia capitalistica.
In realtà molti ritengono che il vero obiettivo di questo approccio disciplinare sia di tipo normativo. Intenda cioè dimostrare che il meccanismo di mercato porta al benessere collettivo: la pratica dell’egoismo individuale, per il noto paradosso della   mano invisibile, produrrebbe la felicità collettiva. Non è grazie alla virtù (l’altruismo), ma grazie al vizio (l’egoismo) che si può ottenere il migliore dei mondi possibili. L’economia neoclassica, con il suo apparato analitico, ha una natura sostanzialmente giustificazionista del modello del mercato quale meccanismo organizzativo complessivo dell’intera società.

Ridurre il livello
di astrazione

La Nie cerca di rendere il modello neoclassico più realistico, di avvicinarlo maggiormente alle modalità concrete di funzionamento dei mercati: essa però non esce dal quadro concettuale dell’economia neoclassica e ne accetta l’impostazione metodologica. Il mercato continua ad essere considerato astoricamente, come un dato di fatto, quasi un fenomeno naturale, prima del quale non è successo nulla e dopo il quale non succederà nulla. L’economia in sostanza viene considerata non come una disciplina di natura storica, ma come se fosse una scienza naturale.
Lo sforzo della Nie è dunque in sostanza, come si è detto, quello di rendere meno astratte le ipotesi degli economisti neoclassici.
A ben guardare, le correzioni che vengono introdotte hanno una natura di semplice buon senso. Si fa notare che le possibilità conoscitive delle persone sono limitate, e che non si può immaginare che gli operatori economici razionali abbiano una conoscenza completa della situazione ambientale in cui si trovano ad operare e di tutte le opzioni alternative possibili. Si parla a questo proposito di informazione imperfetta.
Inoltre si osserva che quando due operatori si scambiano dei beni e dei servizi, uno dei due (più frequentemente il venditore) conosce le caratteristiche del bene che viene scambiato meglio del compratore. Si parla a questo proposito di informazione asimmetrica.
Si riconosce, infine, che nelle attività di scambio sono frequenti pratiche di opportunismo: si parla a questo proposito di moral hazard, per intendere che, una volta stipulato un contratto, uno dei contraenti potrebbe  approfittare a danno dell’altro della nuova situazione in cui si viene a trovare.

Difficoltà del mercato e
nascita delle imprese

Partendo da queste semplici considerazioni, gli economisti della Nie hanno elaborato il concetto di «costo di transazione». Si intende con ciò che lo scambio di beni e servizi tra due operatori non è così semplice e immediato come gli economisti neoclassici hanno ipotizzato. Il compratore deve individuare il venditore (e viceversa), disposto a stipulare il contratto. Uno dei due contraenti dispone di informazioni più dettagliate dell’altro; gli accordi contrattuali spesso non vengono osservati e così via.
In certe circostanze lo scambio di mercato appare particolarmente complesso e laborioso, ragion per cui i costi di transazione possono rivelarsi elevati.
Per questo allo scambio di mercato può essere preferibile sostituire un meccanismo diverso, quello della gerarchia. In sostanza gli operatori anziché scambiarsi i beni sul mercato danno vita a delle organizzazioni, le imprese, all’interno delle quali ad alcuni soggetti (i proprietari) si attribuisce il potere di definire i compiti di altri soggetti (i lavoratori). Al meccanismo paritario del mercato si sostituisce quello autoritario dell’impresa.
Le difficoltà di funzionamento dei mercati e le ragioni della formazione delle imprese sono i risultati principali della proposta teorica della Nie. Come si è detto, essi ricevono oggi un’accettazione pressoché unanime nell’ambito della disciplina economica.
Molti autori tuttavia ritengono che le correzioni apportate dalla Nie non siano sufficienti per contestare l’approccio astorico ed astratto degli economisti neoclassici.

Il mercato ha una storia

Alla base di queste critiche ritroviamo un’interpretazione più ampia del concetto di istituzione.
Per la Nie le istituzioni sono in primo luogo i  contratti e le regole di funzionamento delle imprese: sono essi  che consentono a un’economia di mercato di funzionare correttamente.
Tuttavia la Nie presuppone l’esistenza stessa del meccanismo del mercato, e non si domanda sulla base di quali regole esso sia stato creato.
La Nie studia le regole e le organizzazioni tramite le quali il mercato può operare; ma non si interroga su quali  regole ed  organizzazioni siano necessarie perché lo stesso mercato possa esistere.
Tra gli autori che hanno sollevato questa critica il più autorevole è Douglass North, premio Nobel per l’economia (premio  che, sia pure tardivamente, fu concesso anche a R. Coase).
Egli definisce anzitutto in modo più ampio il concetto di istituzione: essa è una regola o una norma che disciplina il comportamento degli uomini in società.
Tali norme possono essere formali (create dallo Stato) o informali (create spontaneamente dall’interazione degli attori sociali). Ma egli osserva che, senza un quadro normativo preesistente, nessuna economia, neppure quella di mercato, potrebbe funzionare.
North reintroduce  la prospettiva storica nell’analisi economica. Il mercato non si configura più come un fenomeno quasi naturale, ma come un fenomeno storico che si è venuto formando sulla base di regole che sono state introdotte dallo Stato o che si sono venute creando spontaneamente dall’interazione degli operatori.
Inoltre North aiuta a comprendere come le istituzioni economiche siano un fatto culturale, che nasce da scelte operate dalle precedenti generazioni, sulla base di opinioni, preferenze, credenze e visioni del mondo.
Una visione, la sua, molto più ampia e interdisciplinare del mondo dell’economia, che non viene più considerato come riducibile ad un meccanismo astorico e immutabile, di cui interessa conoscere unicamente la logica di funzionamento, in quanto eterno e immodificabile (si può a questo proposito ricordare la famosa espressione di Fukuyama: siamo giunti alla fine della storia, il mercato è la dimensione  in cui sempre vivremo). La visione di North è quindi molto più completa e convincente.

Gli economisti e
la loro ossessione

Ciononostante, paradossalmente, lo stesso North non pare riuscire a liberarsi completamente dall’ossessione del mercato: per quanto ne metta in evidenza le precondizioni storiche e culturali, e ne definisca le specificità istituzionali, anche per lui il mercato è un meccanismo dal quale non si può prescindere.
Quando ad esempio  si pone il problema del sottosviluppo e delle vie da percorrere per il suo superamento,  egli ne vede una sola, quella dell’introduzione di un corretto meccanismo di mercato: non considera la possibilità che un sistema di funzionamento dell’economia non fondato sul mercato possa essere compatibile con lo sviluppo.
Sotto questo profilo certi spunti che si possono ancora oggi trovare nella Vecchia economia istituzionale (nonché in una scuola economica a essa vicina e che si affermò in Europa a cavallo tra l’800 e il ‘900, la Scuola storica tedesca) appaiono oggi più utili e stimolanti dell’approccio della Nie (sia pure nella versione ampliata e rinnovata di  North), che resta invece ossessionata dall’ideologia del mercato e incapace di immaginae un superamento. 

Di Enrico Luzzati

Enrico Luzzati




Fiumi di cocaina

Introduzione

«Fiumi di parole, prima o poi ci portano via…». Basta cambiare una parola al leit motiv di questa canzone di qualche anno fa e otteniamo la descrizione di cosa sta capitando adesso nelle nostre città. Se sostituiamo «parole» con «cocaina», la frase rappresenterà perfettamente la situazione dei nostri fiumi.
Già, perché dalle analisi condotte nel 2005, dall’Istituto Mario Negri di Milano, sulle acque del fiume Po, raccolte a monte di Pavia, in un’area in cui confluiscono le acque di scarico di circa 5 milioni di abitanti, risulta che ogni giorno vengono rilasciati 4 chili di cocaina, corrispondenti più o meno a 40.000 dosi quotidiane (nella sola Milano, i depuratori trattengono quotidianamente 2 chili di cocaina). Chi fa uso di cocaina, infatti, la espelle attraverso le urine, il 5-6% in forma pura e per il 50% sotto forma di benzoilecgonina, un prodotto della sua metabolizzazione. E se la cocaina scorre così nei fiumi, chissà quanta ne scorre nelle nostre strade.

Considerando i dati dei denunciati, degli arrestati e dei segnalati per il possesso di stupefacenti, a Torino si supera la quota di 10.000 unità. Del resto, secondo un rapporto dell’Inteational Narcotics Control Strategy, Torino e Milano sono le mete d’arrivo di circa 60 tonnellate di cocaina e di 30 tonnellate di eroina, partite dal porto di Anversa e dall’aeroporto di Zaventem-Bruxelles. La polvere bianca o «neve» (così è chiamata in gergo la cocaina) invade l’Italia, soprattutto il Nord, ed il traffico è gestito dalla ‘ndrangheta calabrese e dal racket africano. La piazza migliore dell’eroina è invece Perugia, dove il traffico è gestito dalla camorra napoletana. Secondo i dati dei Sert, in Italia l’eroina è ancora il prodotto più diffuso, anche se in calo (attualmente è al 71%, contro il 90% di 15 anni fa, tuttavia nel 2007 è stato registrato un aumento dei morti per overdose), mentre è molto cresciuto il consumo di cocaina (dall’1,3% del 1991 al 14% di oggi) e la cannabis si mantiene intorno al 10% dei consumi.
Secondo l’ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Inteo, riferita al 2007, sui sequestri da parte delle forze dell’ordine, si ha un aumento nel mercato italiano del 500% del traffico di nuove droghe, dai nomi più strani, quali khat, ketamina, shaboo, crystal meth, ice, Ghb, Bzp, mCCP, cobret, che si affiancano all’ecstasy. In questi ultimi anni, i narcotrafficanti hanno fatto un’azione di ribasso dei prezzi, per aumentare il  numero dei clienti.
Confrontando i prezzi attuali, dei vari tipi di droga, con quelli del 1999, si può osservare che quello dell’eroina ha avuto una riduzione del 45%, quello dell’ecstasy del 48%, mentre inferiori sono le riduzioni dei prezzi della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, essendo rispettivamente del 22%, del 20% e del 17%. Peraltro le nuove droghe, ampiamente diffuse tra i giovanissimi, hanno la funzione, a livello di narcotraffico, di reclutare nuovi clienti, che poi scivoleranno, quasi senza rendersene conto, verso le droghe più tradizionali, cioè eroina e cocaina, che, guarda caso, sono vendute dagli stessi spacciatori.

Le droghe, o stupefacenti (cioè sostanze «psicoattive», quindi in grado di modificare l’attività mentale ed il comportamento delle persone), sono da sempre presenti nella storia dell’uomo. Possono essere sostanze naturali o artificiali e il loro comune denominatore è la capacità di alterare gli stati di coscienza e il sistema nervoso.
Nella storia sono numerose le testimonianze sull’uso di droghe, presso varie popolazioni. Alceo, ad esempio, elogia le qualità del vino, la sostanza psicoattiva più antica e diffusa tra le popolazioni medi­­terranee. Erodoto descrive l’hascisc (o hashish) nel quarto libro delle Storie, anche se questa sostanza non era in uso presso i greci, ma presso gli sciti, così come ne parla Marco Polo ne Il Milione. Nel quarantunesimo capitolo, i seguaci del Vecchio della montagna vengono soggiogati, grazie ad una bevanda drogata ed indotti a commettere i delitti, commissionati dal vecchio capo; il loro nome, in cui è conservata la radice della parola hascisc, è «assassini».
Nei testi storici possiamo notare un uso rituale o religioso delle piante (considerate sacre), da cui provengono molte sostanze psicoattive e, in questo caso, l’uso che ne viene fatto è per raggiungere uno stato di trascendenza, per comunicare con gli dei e/o per usi voluttuari, legati al piacere dei sensi. In ogni caso, l’uso di queste sostanze è limitato a momenti o ad eventi simbolici, incorporati entro relazioni sociali di sicurezza. I conquistatori europei descrissero l’uso del peyote in Messico e delle foglie di coca presso le popolazioni del Perù, della Colombia e dell’Equador; tali foglie venivano masticate sia dai sacerdoti che dai contadini e dai pastori (in questi casi per abbassare la soglia della fatica e potere tollerare il lavoro sulle Ande). I papiri egizi danno invece le prime notizie sull’oppio intorno al 1500 a.C., mentre gli arabi ed i turchi hanno mantenuto l’abitudine di fumarlo nel corso dei secoli.
In Cina l’oppio fece il suo ingresso intorno al 1000 d.C., provenendo dall’India, ed il suo uso fu consentito fino al ‘700, quando, a seguito della sua grande diffusione, venne promulgata una proibizione imperiale, alla quale seguirono le guerre tra Cina ed Inghilterra, per via dell’esportazione della sostanza dall’India britannica alla Cina ed in particolare per il suo contrabbando, controllato dalla Compagnia delle Indie. Una caratteristica della presenza delle droghe nel passato era la moderazione con cui, di solito, venivano usate. Non appena un interesse commerciale su larga scala ha stravolto le abitudini di uso delle droghe, trasformando il loro consumo da moderato ad epidemico, le varie sostanze sono diventate una preoccupazione sociale ed un problema per l’ordine pubblico.
Non c’è più continuità tra le società tradizionali e quelle capitalistiche, sotto il profilo del consumo delle droghe, così come sono mutati i circuiti di scambio, dal momento che il traffico costituisce la novità modea, che svincola le sostanze stupefacenti dalle loro radici socioculturali e le trasforma in un puro oggetto di consumo.

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Fumare, sniffare, bucarsi Perché?

Lo sviluppo della tossicodipendenza

Il nostro titolo è volutamente esplicito. La risposta è invece complessa. Come abbiamo visto, storicamente le droghe sono sempre state utilizzate. Oggi, l’offerta si è allargata (più prodotti) e con essa si sono diversificati i consumatori (giovani di diversa estrazione sociale, ma anche professionisti e sportivi).

Chi sono i tossicodipendenti? Quanti sono in Italia? Come è cambiata, nel corso degli anni, la figura del tossicodipendente? È necessario premettere che il censimento dei tossicodipendenti, in ogni nazione, risulta essere un’impresa piuttosto ardua, che sicuramente non porta a dei risultati certi, ma solo a delle approssimazioni per difetto del loro reale numero.
Questo perché i soli dati disponibili sono quelli dei servizi pubblici o privati, a cui alcuni dei tossicodipendenti si rivolgono, che vanno sommati ai dati relativi agli arresti ed a quelli dei soccorsi per casi di overdose. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che alcuni dei soggetti censiti potrebbero essere non dei veri e propri tossicodipendenti, ma solo consumatori occasionali (ad esempio, week enders).
Il vero tossicodipendente è infatti il soggetto in cui si possono riconoscere chiaramente tre sindromi: la crisi d’astinenza, che si presenta dopo la sospensione della sostanza d’abuso; la sindrome da craving, cioè l’irresistibile desiderio della sostanza ed il suo uso compulsivo; la sindrome metabolico-cerebrale, che si traduce in un’alterazione della vita psichica e relazionale del soggetto, che risulta essere sempre più irritabile ed ansioso. In pratica, l’incontro con le sostanze di abuso può portare ad una vera e propria malattia, alla cui base ci sono dei danni, talora irreversibili, nel funzionamento del sistema nervoso centrale. Le aree cerebrali colpite sono quelle preposte al controllo delle pulsioni e dei comportamenti; in particolare tutte le droghe determinano un aumento della dopamina, un neurotrasmettitore, che regola la sensazione del piacere, a livello del sistema limbico, una parte del nostro cervello molto antica, dal punto di vista evolutivo, che presiede al controllo delle emozioni.
Sulla base dei dati nazionali attualmente a disposizione, l’Osservatorio del Dipartimento dipendenze patologiche dell’Asl di Milano è giunto alla conclusione che nel 2010 i consumatori di cocaina potrebbero aumentare del 40% rispetto al 2007 e raggiungere un numero oscillante tra gli 800.000 ed 1 milione e 100.000, cioè il 3% degli italiani.
Molti di costoro inoltre sono dei politossicodipendenti, dal momento che spesso l’eroina viene assunta dopo la cocaina, allo scopo di sedare l’effetto eccitante della prima (ovviamente i pusher si sono adeguati a questa necessità ed ora smerciano i due tipi di droga contemporaneamente), oppure molti consumano contemporaneamente droghe ed alcolici, o mescolanze di droghe diverse di ultima generazione (ecstasy, shabu, ecc.).

LE COLPE
DELLE CASE FARMACEUTICHE

Storicamente la diffusione sociale delle sostanze psicoattive risale agli inizi degli anni ’60 in ambienti controculturali da un lato e in quelli dei giovani degli strati emarginati per caratteristiche di classe o etniche, dall’altro, con predilezione per il consumo di allucinogeni e di hascisc. All’inizio degli anni ’70, le droghe si diffusero tra i giovani qualunque, cioè i proletari delle periferie, i ragazzi sbandati, ma anche tra onesti lavoratori e in Italia fecero il loro ingresso con notevole abbondanza gli oppiacei, eroina in testa. Va detto che il passaggio da un periodo, gli anni ’50, in cui pochissimi facevano uso di stupefacenti, ai periodi successivi, caratterizzati da un consumo via via crescente di queste sostanze, è sicuramente correlato all’avvento di un benessere economico, che ha trasformato le droghe in beni di consumo. La rete mafiosa, che presiede al narcotraffico, si è inserita solo in un secondo momento nella diffusione di queste sostanze.
In Italia, come in molti altri stati, l’esordio delle sostanze psicoattive è stato favorito dalla diffusione di prescrizioni mediche di tranquillanti, di amfetamine (proibite da noi solo nel 1972, mentre in Svezia lo erano dal 1944), di sonniferi e di analgesici. Purtroppo questi farmaci hanno incontrato un notevole successo presso il pubblico e questo ha indotto le case farmaceutiche a non arretrare davanti ai primi casi d’intossicazione da tali prodotti e ad evitare i controlli sulla fabbricazione e sulla distribuzione. In tale modo è stata creata una popolazione di persone assuefatte e dipendenti da farmaci. Inoltre molte amfetamine venivano iniettate per via endovenosa e ciò ha sicuramente contribuito a formare delle persone dipendenti, che, una volta proibite queste sostanze, si sono ritrovate a sostituirle con l’eroina.

CENTRI DI RECUPERO:
NATI PER L’EROINA

I servizi pubblici per le tossicodipendenze ed i centri di recupero privati sono sorti con il preciso scopo di trattare i casi di dipendenza dall’eroina ed, in tal senso, permettono un censimento degli eroinomani seguiti, mentre è molto più problematico contare coloro, che fanno uso di altre sostanze, perché fanno parte di un mondo sommerso e raramente si rivolgono a queste strutture, che del resto non sempre sono attrezzate per trattare i casi di dipendenza da droghe non oppiacee (cocaina, amfetamine ed altri stimolanti). Del resto è più facile trattare un caso da eroina (che ha un’azione sedante) con il suo sostituto, il metadone, piuttosto che un caso di dipendenza da una sostanza eccitante (non si può sostituire un eccitante con un altro, anche se meno tossico, mantenendo la persona in uno stato di eccitazione, che di per sé è un problema).
Se si esaminano i dati foiti dal ministero della Sanità e da quello dell’Inteo, gli eroinomani censiti erano circa 155.000 nel 1999, di cui il 14-15% donne, con un rapporto uomini/donne di circa 5,6:1. Tale rapporto tende a scendere nelle regioni del Nord (soprattutto Lombardia ed Emilia-Romagna) a 4:1 e nelle città del Nord (Milano e Torino) a 3:1. In pratica, lo scarto tra uomini e donne, in fatto di consumo di droga, tende a ridursi in quelle zone, che sono più benestanti e paritarie e dove la libertà di movimento, di comportamento e di consumi delle donne è maggiore. Bisogna comunque tenere presente che le donne spesso mostrano una notevole diffidenza verso le strutture terapeutiche, se hanno figli, perché esiste la possibilità che questi vengano sottratti alla madre tossicodipendente, da un’assistente sociale, ed affidati ad altri. Il numero delle tossicodipen-
denti potrebbe quindi essere decisamente superiore.
Attualmente, l’età media di coloro, che si rivolgono alle strutture terapeutiche è compresa in un range, che va dai 30 ai 40 anni ed oltre e si tratta di consumatori di eroina, mentre i giovani e i giovanissimi, che abitualmente consumano altre droghe, difficilmente accedono ai Sert od a strutture analoghe. Peraltro, tra costoro il divario maschi/femmine, nei consumi, tende a ridursi.
Le informazioni relative ai nuovi tipi di droga, nonché alla cocaina, derivano soprattutto dai sequestri delle partite di droga, che dimostrano che l’entità del consumo di queste sostanze è in netta ascesa dall’inizio degli anni ’90. Non ci sono dati sufficienti sui consumatori delle nuove droghe, tuttavia una stima fatta nella Conferenza nazionale sulla droga a Genova, nel 2000, parla di circa 400.000 persone dedite all’uso di queste sostanze in Italia.
Viene da domandarsi perché ad un certo punto, nel corso degli anni ’90, l’eroina è stata in parte soppiantata dalla cocaina e dalle nuove droghe di sintesi. Una prima risposta è quella della paura del contagio da HIV, il virus responsabile dell’AIDS, che si può contrarre facilmente con la pratica dell’iniezione per via endovenosa dell’eroina; la cocaina, invece, si sniffa o si fuma e le pasticche di ecstasy si ingeriscono.

PIÙ RESISTENZA,
PIÙ AUTOSTIMA

A differenza dell’eroina, che ha un effetto sedante e di estraniazione dal mondo, la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy sono notevolmente eccitanti, per cui aumentano la resistenza alla fatica fisica (consentono, ad esempio di ballare per ore in discoteca, anche tutta la notte) ed inoltre aumentano l’autostima in quei soggetti, che normalmente non sarebbero in grado di affrontare determinate situazioni, poiché si sentono inadeguati.
C’è ancora un altro aspetto: cocaina ed amfetamine inibiscono notevolmente il senso della fame, per cui sono utilizzate da quelle persone, soprattutto donne, che vogliono dimagrire rapidamente, senza affrontare lo stress di una dieta o la fatica dell’attività fisica. Una droga, che invece non ha mai conosciuto alti e bassi, ma semmai un’impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto tra i giovanissimi, è la cannabis.
Secondo un’indagine dell’Health Behaviour in School-aged Children, un gruppo di ricerca cornordinato dal prof. Franco Cavallo, dell’Università di Torino, il 31% dei ragazzi di 15 anni, attualmente, fa uso di cannabis, associandola a fumo e ad alcol, mentre il 20% dei giovani in questa fascia d’età è dedito anche all’uso di altre droghe. Va detto che tra quest’ultime, l’ecstasy e consimili, le cosiddette dance drugs, vanno forte solo tra i giovanissimi, che le consumano soprattutto in discoteca, per potere tirare al tardi, mentre la cocaina è consumata in una fascia d’età, che va dai 16 ai 60 anni e oltre. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

La narcoeconomia: qualche dato

OFFERTA IN CRESCITA, PREZZI IN DISCESA

I 3 maggiori business nell’era della globalizzazione
Nell’era della globalizzazione i business della criminalità organizzata (anch’essa globalizzata e con una grande influenza sull’economia cosiddetta legale attraverso il riciclaggio del denaro sporco) sono – stando ai dati dell’Onu – tre, in ordine d’importanza:
✔  il narcotraffico
✔  il traffico di esseri umani
✔  il traffico di armi.
Dei 3 quello che attualmente presenta i tassi di crescita maggiori è il traffico di esseri umani, ma anche gli altri due non conoscono recessione.
Il narcotraffico ha due grandi aree di produzione: l’Estremo Oriente per l’eroina (Afghanistan in primis, e dietro – nettamente distanziato – il cosiddetto «Triangolo d’Oro», cioè Myanmar, Thailandia, Laos) e l’America Latina per la cocaina (Colombia, Perù, Bolivia). La produzione della cannabis è invece più distribuita: Marocco, Tunisia, Albania, Libano, Pakistan, India, Nepal sono alcuni tra i principali produttori.
Da queste aree la droga passa ai paesi consumatori, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa, ma anche Australia e Giappone (vedi mappa di pagina 29). In loco, nei paesi di produzione, rimangono soprattutto dei sottoprodotti, meno costosi ma altamente pericolosi. Attualmente i prezzi delle droghe tradizionali sono calanti, vuoi per la notevole produzione (soprattutto dell’Afghanistan), vuoi per la concorrenza delle cosiddette droghe sintetiche, di laboratorio. Il trend di crescita maggiore è quello della cocaina.

I dati (ufficiali) della narcoeconomia
Secondo il Word Drug Report 2007 delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2006 sono state prodotte 984 tonnellate di cocaina.
Tre paesi andini sono ai primi 3 posti: la Colombia con 78.000 ettari coltivati e 610 tonnellate di cocaina; il Perù con 51.400 ettari e 280 tonnellate, la Bolivia con 27.500 ettari e 94 tonnellate. In questi anni, gli ettari coltivati sono diminuiti, ma la produzione complessiva è rimasta costante.
Confrontiamo questi dati con la produzione di eroina, che come abbiamo visto è prodotta in Estremo Oriente e in Afghanistan in particolare. Qui secondo l’«Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine» (Unodc), la coltura del papavero da oppio ha raggiunto la cifra record di 165.000 ettari. Da cui si sono prodotte 610 tonnellate di eroina, il 90 per cento del mercato globale. Al secondo posto nella classifica, c’è un paese di cui si è parlato molto alla fine del 2007: il Myanmar (Birmania).
Secondo gli ultimi dati dell’Unodc, per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%). Si calcola che, nel 2007, il prezzo medio dell’oppio afghano sia crollato a 100 dollari al chilogrammo (erano 500 nel 2006).

Più cocaina, meno eroina
Secondo i dati del governo colombiano (www.plancolombia.gov.co), al 12 ottobre 2007 sono stati 44.944 gli ettari di coca sradicati manualmente. Nonostante ciò, la Colombia rimane saldamente in testa nella produzione di cocaina, il cui trend commerciale è, da alcuni anni, in rapida crescita al contrario dell’eroina (che è stabile o in leggera diminuzione).
L’aumento della domanda è avvenuto soprattutto in Europa e in Italia, perché negli Stati Uniti il consumo – di gran lunga, il più elevato al mondo – si è stabilizzato.
Attualmente, all’ingrosso, il prezzo della cocaina è calante: si aggira attorno ai 41.000 euro al chilogrammo, mentre al dettaglio un grammo di cocaina costa tra i 60 e i 100 euro (vedi tabellina). Il successo della cocaina si deve ai suoi effetti euforizzanti ed attivatori (quindi diametralmente opposti all’ottundimento provocato dall’eroina), che in una società schiacciasassi (cioè che ti pretende sempre reattivo, efficiente, produttivo) come l’attuale sono ben accetti.

E in Italia
Secondo la relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’interno (Dcsa), nel 2007 i morti per overdose sono stati 589. Il più giovane aveva 16 anni, il più vecchio 71. La maggior parte delle vittime – 234 su 589 – sono state causate dall’eroina, seguite a distanze dalle vittime per cocaina (36).
Questi numeri sono importanti, ma non da brividi. Ad esempio, le vittime sono quasi la metà dei morti sul lavoro (più di 1.000 nel 2007 in Italia). Tuttavia, i costi per la società nel suo insieme sono elevatissimi. Alla domanda se l’attuale regime proibizionista sia la risposta più adeguata al problema non diamo una risposta. Ci limitiamo a fornire una tabella comparativa (vedere a pagina 31) per tentare di capire meglio i due diversi approcci.

Di Paolo Moiola

Confronti «eretici»

Lotta alle droghe: legalizzazione o proibizionismo?

Legalizzazione

✔ fine del mercato nero delle droghe
✔ drastica riduzione del business del narcotraffico attualmente in mano a multinazionali mafiose, che gestiscono profitti enormi e non rintracciabili da parte degli stati
✔ drastica riduzione delle violenze private – scippi, rapine, furti, omicidi – conseguenza del fatto di doversi procurare la droga
✔ ingente riduzione della spesa pubblica che gli stati sono costretti a sostenere per combattere il mercato nero delle droghe: con il vigente regime proibizionista le forze dell’ordine impegnano tempo e risorse pubbliche per contrastare il mercato nero delle droghe, con risultati spesso non adeguati agli sforzi; con il vigente regime proibizionista il sistema giudiziario è impegnato a smaltire e l’apparato carcerario è perennemente in crisi a causa di prigioni piene di detenuti legati al mercato nero delle droghe (piccoli spacciatori-consumatori)
✔ possibile aumento delle entrate fiscali, se le sostanze fossero tassate come si fa per l’alcol
✔ riduzione generalizzata della corruzione: un mercato illegale come quello attuale ha bisogno di un vasto apparato di corruzione a livello politico e di forze dell’ordine
✔ controlli sui prodotti e conseguente diminuzione delle sostanze adulterate o tagliate male
✔ riduzione della necessità da parte dei produttori di immettere continuamente sul mercato sostanze diverse, meglio trasportabili e meno rintracciabili ai controlli
✔ si risolverebbe il problema dei piccoli contadini – come i campesinos che coltivano la coca in Bolivia, Perù e Colombia o gli afghani che coltivano il papavero da oppio -, che pagano con la miseria propria e dei familiari le politiche di eradicazione forzosa.

Proibizionismo

✔ senza leggi proibizioniste, calerebbero i prezzi delle sostanze e, di conseguenza, aumenterebbero i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, cadrebbero le remore di carattere sociale (non ci sarebbe più il timore della stigmatizzazione, del rifiuto da parte della collettività) e, di conseguenza, potrebbero aumentare i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, ci sarebbero problemi di ordine etico-morale: è giusto che gli stati non tutelino a priori la salute psicofisica dei propri cittadini?


Roberto Topino e Rosanna Novara




Per un po’ di dopamina

La società e le droghe

«Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no», sosteneva Paracelso. Oggi sul problema delle droghe si discute molto, tanto che non esiste una posizione univoca neppure sul trattamento dei tossicodipendenti.

Droghe lecite e illecite, droghe leggere e pesanti, droghe high e down, che effetti possono avere sulla salute umana? Quali conseguenze sulla società? Il loro uso può essere considerato solo un fatto privato o no? È più corretto un atteggiamento proibizionista o antiproibizionista? E ancora, nel trattamento delle tossicodipendenze, è meglio il metodo della riduzione del danno, cioè un approccio di tipo medico, o l’approccio psicologico? Per tentare di rispondere a queste domande, può essere senz’altro utile avere un’idea di come agiscono le varie sostanze, una volta che hanno fatto il loro ingresso nel nostro organismo.

I DANNI 
DI ALCOL E TABACCO

La distinzione che si fa tra droghe lecite ed illecite, essendo le prime l’alcol ed il tabacco, può essere abbastanza fuorviante: si può essere portati a pensare che quelle lecite siano meno nocive alla salute umana, rispetto alle altre e che, in generale siano meno dannose per la società. Nulla di più errato. Prendiamo per esempio l’alcol. Tutte le bevande alcoliche, dalla più leggera birra ai superalcolici, contengono quantità diverse di alcol etilico, che per il nostro organismo risulta essere tossico, andando ad agire direttamente sul sistema nervoso centrale, con conseguenze che vanno dall’euforia iniziale alla depressione malinconica, passando attraverso le difficoltà di articolazione della parola e di deambulazione. Per non parlare del superlavoro che il fegato si trova a compiere, nel tentativo di depurare l’organismo da questa sostanza, che può causare un’epatite tossica, con evoluzione in cirrosi epatica, letale. Che dire poi delle stragi del sabato sera, in cui giovani ubriachi alla guida spesso uccidono se stessi e qualcun altro in tragici incidenti stradali? Oppure prendiamo in considerazione il tabacco: nel fumo di sigaretta, in particolare delle bionde, c’è un’elevata concentrazione di ammine aromatiche e di idrocarburi aromatici policiclici, sostanze sicuramente cancerogene, che sono la causa del carcinoma del polmone, ma anche di quello della vescica. Quindi la salute di chi fuma è seriamente a rischio, ma anche quella di chi non fuma, però si trova vicino a dei fumatori. Infatti il fumo passivo può essere dannoso come quello attivo, al punto che negli Stati Uniti è stata vinta la prima causa per fumo passivo, intentata dai parenti di una non fumatrice, deceduta per carcinoma polmonare.

DIPENDENZA FISICA,
DIPENDENZA PSICOLOGICA

Per quanto riguarda invece la distinzione tra droghe leggere e pesanti, va subito detto che ci troviamo di fronte ad un non senso tossicologico e cioè che esistano droghe leggere. In tossicologia non esiste alcunché di leggero. Già agli inizi del ‘500, Paracelso sosteneva: «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit ut venenum non sit», cioè «Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no». Questo ci fa capire che la distinzione tra droghe leggere e pesanti è artificiosa e che si può fare un uso pesante di droghe leggere. Fino a qualche tempo fa, sono state considerate pesanti le droghe capaci di dare dipendenza fisica (ad esempio l’eroina), per cui, se il soggetto dipendente smette di assumere la sostanza d’abuso, ha una crisi di astinenza, perché non è possibile interrompere bruscamente l’assunzione della droga, quando l’organismo è abituato ad essa. Droghe leggere sono invece quelle, che non danno dipendenza fisica e, fino ad una decina di anni fa, la cocaina e la cannabis erano considerate di questo tipo. Oggi ci si è resi conto che queste droghe danno un altro tipo di dipendenza, cioè quella psicologica, particolarmente importante nel caso della cocaina, che porta rapidamente al craving o consumo compulsivo. In pratica tutte le sostanze d’abuso danno il cosiddetto rinforzo negativo (lo stato di malessere durante l’astinenza), ma anche il rinforzo positivo (il ricordo del benessere legato all’assunzione della sostanza), cioè ciò, che tiene l’individuo legato alla sostanza stessa.

DOPAMINA,
LA MOLECOLA DEL PIACERE

La sensazione di benessere è data dalla liberazione della dopamina da parte dei neuroni stimolati dalle droghe. La dopamina, una molecola che permette ai neuroni di comunicare tra loro, viene rilasciata soprattutto in un’area cerebrale, detta nucleus accumbens, facente parte del sistema limbico del cervello ed in particolare dell’amigdala, che controlla le emozioni, positive e negative. I vari tipi di droga agiscono in modo leggermente diverso, perché i narcotici analgesici, tra cui l’eroina, agiscono su dei recettori specifici, cioè i recettori per gli oppiacei, aumentando la quantità di dopamina liberata. La cocaina, invece, aumenta la quantità di dopamina in circolazione, perché ne impedisce il riassorbimento a livello delle sinapsi. Dobbiamo comunque tenere presente che un neurotrasmettitore, in questo caso la dopamina, si comporta come un interruttore, che non solo agisce sui neuroni limitrofi, ma dà origine ad una serie di modificazioni, che si ripercuotono su tutto il sistema nervoso ed anche su altri organi. Ad esempio, i recettori che possono essere stimolati dal tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, oltre che nel cervello si trovano anche negli occhi e nell’intestino, mentre quelli per la nicotina del tabacco si trovano in molti tessuti, compresa la pelle.

PER DEPRIMERE
O PER ECCITARE

Una distinzione può essere fatta tra le droghe down e quelle high, essendo le prime quelle che deprimono il sistema nervoso centrale, come l’alcol, i barbiturici, gli ipnosedativi, gli oppiacei, tra cui l’eroina; le droghe high sono quelle eccitanti il sistema nervoso e tra queste la caffeina, la nicotina, la cocaina e le amfetamine, tra cui l’ecstasy. È importante tenere presente che l’effetto di una droga su un individuo non dipende solo dalle caratteristiche chimiche della sostanza, ma da quelle della persona, dalla dose, dalla frequenza di assunzione e dall’ambiente sociale, in cui avviene il consumo (può capitare che la prima assunzione risulti sgradevole o faccia stare male; se il soggetto è circondato da amici più esperti, questi spesso sono capaci di consigliare come superare il disagio iniziale).
L’aspetto sociale del consumo delle droghe è particolarmente importante, perché si tratta di stabilire se questo consumo possa o meno rientrare nel concetto di libertà individuale. Secondo questo concetto, ciascuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole della propria salute, quindi di drogarsi, anche se questo gli fa male. Che dire, però, se le conseguenze dell’abuso di determinate sostanze si ripercuotono gravemente sugli altri, vedi stragi del sabato sera, familiari percossi o addirittura uccisi oppure furti, rapine per procurarsi i soldi per la dose? Certamente, se esaminiamo i risultati ottenuti, in passato, con l’alcol dall’atteggiamento proibizionista, possiamo dire che sono stati assai deludenti. L’antiproibizionismo dovrebbe avere il vantaggio di stroncare il narcotraffico, ma senza una capillare attività educativa a livello soprattutto giovanile, potrebbe portare a risultati anche in questo caso negativi. È indispensabile, infatti, che vengano diffuse il più possibile le conoscenze scientifiche, nel campo delle droghe, al fine di difendere sia i singoli individui dal danno, che inconsapevolmente possono farsi, assumendo determinate sostanze, sia la società in cui essi vivono.

RIDUZIONE DEL DANNO
O RECUPERO PSICOLOGICO?

Per quanto riguarda il trattamento delle tossicodipendenze esistono fondamentalmente due tipi di approccio, cioè quello medico e quello psicologico. Il primo tiene conto del fatto che il tossicodipendente può provocarsi  una malattia organica, alla cui base ci sono danni, talora irreversibili, al sistema nervoso centrale. I Sert funzionano secondo questo tipo di approccio, sono diretti da medici e di solito la loro attività si basa sulla cosiddetta riduzione del danno, che prevede la somministrazione di metadone o di buprenorfina, al posto dell’eroina. Ciò riduce il rischio di diffusione di malattie come l’Aids o l’epatite virale, perché tali farmaci vengono assunti oralmente e non per via endovenosa. Inoltre, la somministrazione di queste sostanze in appositi centri ed in modo controllato, evita al tossicodipendente la ricerca della dose quotidiana e dei soldi per ottenerla. Certamente, però, queste sostanze agiscono sul sistema nervoso, in modo analogo all’eroina, e quindi per il tossicodipendente cambia poco, anzi il soggetto viene in pratica considerato irrecuperabile. Viceversa, l’approccio psicologico si occupa solo di questo aspetto, il tossicodipendente è accolto in comunità, che hanno di solito lo scopo di tenerlo lontano dal mondo della droga e di recuperarlo, inserendolo in attività di lavoro, in un contesto socio-educativo. Peraltro alcune strutture prevedono l’integrazione dell’area medica e di quella socio-educativa. Vanno poi ricordate le unità mobili, camper attrezzati con strumenti di pronto soccorso e con personale specializzato a bordo, che si recano di solito nei quartieri degradati, per avvicinare quei tossicodipendenti, che non si rivolgerebbero spontaneamente ad una struttura pubblica o privata di recupero. Gli interventi di queste unità si prefiggono lo scopo di convincere i tossicodipendenti a ridurre il margine di rischio nei loro comportamenti; ad esempio i soggetti avvicinati vengono foiti di siringhe sterili, per evitare la dif­fu­sione di Aids ed epatite. Inoltre i tossicodipendenti, che vengono agganciati in questo modo, a seguito di uno o più colloqui, vengono indirizzati alla struttura di recupero stabile, operante nel territorio. 

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




(Danni) per tuttti i gusti

Tipologia, effetti e problemi delle varie sostanze

Dosi, tempi d’intervallo, situazioni contingenti cambiano gli effetti delle varie droghe sull’individuo. Ma i danni ci sono sempre e comunque. E sulla marijuana, la droga «leggera» da consumare in compagnia degli amici, occorre sapere che...   

Quali sono i principali tipi di droga, i loro effetti sull’organismo, la loro eventuale tossicità ed i problemi di tipo sociale, che l’assunzione di queste sostanze comporta.

LE AMFETAMINE (DISCO, DOPING SPORTIVO)

Appartengono a questa categoria l’amfetamina, la destro-amfetamina, la metamfetamina, il metilfenidato, la fenmetrazina, il dietilpropione, la piperazina, ecc. Per la loro capacità eccitante, alcune di queste sostanze vennero usate dai piloti di guerra, nelle loro missioni. Molti derivati delle amfetamine sono sostanze allucinogene o empatogene. Attualmente le amfetamine non sono più usate in medicina, salvo in rare eccezioni come nel trattamento della narcolessia. La metamfetamina è molto diffusa nel mercato illegale: anni fa si consumava prevalentemente per bocca, mentre ora si presenta in forma solubile da sniffare o iniettare (crystal), o da fumare (ice, shabu, yabaa). Poiché si sviluppa rapidamente la tolleranza verso queste sostanze, i consumatori cronici tendono ad aumentare progressivamente le dosi ed i tempi d’intervallo tra le assunzioni si riducono drasticamente.
Appartengono a questa categoria le dance drugs, che si usano nei rave parties e nelle discoteche; tra queste abbiamo l’ecstasy o Mdma (3,4-metilenediossi-N-metilamfetamina); la ketamina, un anestetico usato in medicina veterinaria, ma utilizzato come droga con nomignoli, quali kit kat o Special k; il Ghb o gammaidrossibutirrato, detto ecstasy liquida, essendo un liquido incolore, inodore ed insapore, ricavato da solventi industriali e mescolabile a cibi e bevande ed utilizzato come droga da stupro, perché dopo circa 20 minuti, la vittima diventa incapace di opporre resistenza, perde i freni inibitori, la sua coscienza viene alterata e la sua memoria si blocca per 2-4 ore, riprendendosi completamente solo dopo 8-12 ore, ma senza il ricordo della violenza subita.

Gli effetti
Queste sostanze sono potenti stimolanti del sistema nervoso centrale e si comportano come la cocaina, con effetto molto più prolungato. A basse dosi agiscono solo come stimolanti, mentre ad alte dosi incidono notevolmente sul ritmo cardiaco e sulla pressione arteriosa, per cui possono essere pericolose per chi presenta dei problemi cardiovascolari. Inoltre, le amfetamine sopprimono l’appetito e sono state usate in passato nelle cure dimagranti. Sono state usate poi come antidepressivi, per resistere al sonno e come doping sportivo.

I problemi
L’uso continuato per 3-4 giorni (uso in binges) è di solito seguito da un crollo psicofisico. Nell’uso cronico di alte dosi, si possono avere disturbi nelle relazioni personali e sociali, problemi psichiatrici e comportamenti aggressivi. I soggetti, che si iniettano alte dosi di queste sostanze, spesso presentano un decadimento fisico, dovuto in parte a denutrizione.

La tossicità
Si possono avere problemi psichiatrici, neurologici e/o cardiovascolari. L’abuso di queste sostanze, per vincere l’affaticamento, può portare al colpo di calore, cioè ad un forte ed incontrollabile aumento della temperatura corporea, legato all’eccessivo sforzo fisico, che può essere mortale. Ad alte dosi, le amfetamine sono tossiche per il sistema nervoso centrale, poiché provocano una deplezione acuta di dopamina e di serotonina in alcune zone del cervello; pare inoltre che distruggano le sinapsi o addirittura gli stessi neuroni. In quest’ultimo caso, il fenomeno è irreversibile e questo spiega il danno neurologico permanente.

LA CANNABIS (MARIJUANA E HASCISC)

La cannabis sativa, varietà indica, cioè la canapa indiana è una delle più antiche piante coltivate e sono note da millenni le sue proprietà farmacologiche. Questa pianta contiene, in ogni sua parte, circa 400 principi psicoattivi, di cui il principale è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che si trova soprattutto nelle infiorescenze delle piante femmina.
Le preparazioni usate come droga sono le foglie ed i fiori secchi (marijuana) e la resina concentrata (hascisc). Di solito, la marijuana contiene il 3-5% di THC, mentre l’hascisc il 7-14%. Queste sostanze si possono fumare pure o mescolate a tabacco (spinello o canna), oppure assumere per bocca, sotto forma di tisane o dolci. Da qualche tempo si stanno facendo, soprattutto nelle serre del Maghreb, degli incroci botanici, che hanno portato alla formazione della cosiddetta canapa rossa, che contiene concentrazioni di THC anche 10 volte superiori alla varietà classica e che serve a preparare un super-hascisc, chiamato srunk.
Gli effetti
I derivati della cannabis sono molto lipofili, quindi il THC arriva subito al cervello, che è costituito per buona parte da grassi, dove si accumula poiché non viene eliminato facilmente. Questo principio attivo si accumula nell’organismo e si ritrova anche dopo mesi, dall’ultima assunzione; esso può perciò essere la causa dell’instabilità di molte persone, soprattutto giovani.
Con il fumo, il THC si assorbe subito ed il suo effetto si manifesta in pochi minuti, mentre l’assorbimento per bocca è più lento e variabile. La durata dell’effetto varia dalle 3 alle 5 ore circa, ma può essere più lungo, nel caso dell’assunzione orale.
La cannabis, come le altre droghe, ha i suoi recettori specifici a livello di sistema nervoso centrale e periferico, per cui è in grado di modificare molte funzioni dell’organismo. Si spiegano perciò tutti gli effetti che la cannabis ha sul sistema nervoso centrale (molto potenziati dal contemporaneo consumo di alcol), sull’apparato cardiovascolare, sul sistema endocrino, respiratorio, immunitario e riproduttivo. A basse dosi, i derivati della canapa hanno effetti sedativi, rilassanti ed euforizzanti, per cui danno ebbrezza, buon umore e golosità. Ad alte dosi, provocano notevoli alterazioni sensoriali e percettive, nonché distorsioni spazio-temporali.
L’effetto ha un tipico andamento a ondate, con alternanza di fasi di alterazione e di fasi di lucidità. I principi attivi della cannabis hanno interessanti proprietà farmacologiche, ad esempio combattono la nausea ed il vomito nelle chemioterapie antitumorali, stimolano l’appetito e per questo possono risultare particolarmente utili per i malati di AIDS, per i quali la perdita di peso è uno dei disturbi più precoci e responsabile, per buona parte, dell’evoluzione della malattia. Inoltre tali principi riducono la spasticità muscolare, abbassano la pressione intraoculare ed hanno azione analgesica.

I problemi
La tossicità acuta della cannabis è trascurabile e finora non si sono mai registrati casi di morte per una dose eccessiva. Sotto il suo effetto si riducono la capacità di concentrazione, l’attenzione e la memoria. Si possono, inoltre verificare reazioni ansiose, di panico, psicosi tossiche e la sindrome amotivazionale, che rende apatici, con riduzione della capacità di giudizio, nonché perdita d’interesse verso la propria persona e l’ambiente circostante. Attualmente è in discussione, se la canapa possa portare alla luce delle forme latenti di schizofrenia. Sotto l’effetto della cannabis, si assiste ad un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, ad una marcata irrorazione congiuntivale (occhi rossi) e ad un aumento del consumo di ossigeno, da parte del miocardio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, il fumo dello spinello sembra essere molto più cancerogeno di quello da tabacco.

COCAINA

Questa droga deriva dalle foglie di due specie di coca: l’Erythroxylum coca, coltivata nelle valli amazzoniche umide del Perù e della Bolivia e l’Ery­throxylum novogranatense, coltivata sulle montagne aride del Perù settentrionale e della Co­lombia. Attualmente ci sono coltivazioni illegali di queste piante, al di fuori delle aree tradizionali, particolarmente in Colombia. La cocaina è il principale alcaloide della coca (0,5-1% delle foglie secche). Essa ha tre fondamentali azioni farmacologiche: è un anestetico locale, un vasocostrittore ed un potente stimolante del sistema nervoso centrale. Il cloridrato di cocaina, che si presenta come una polvere bianca solubile in acqua, si sniffa, cioè si inala, e si inietta. La cocaina-base, non solubile in acqua, nella forma di pasta di coca o in quella di freebase o crack si fuma. Il fumo ha la stessa intensità e rapidità di azione di un’iniezione endovenosa. Gli effetti di una dose di cocaina durano circa 40-60 minuti per chi sniffa e molto meno (10-20 minuti) per chi si buca o fuma. Si ha successivamente un rapido ritorno alla normalità, molto più rapido nel secondo caso; tale ritorno può essere vissuto come sgradevole e deprimente, per cui si tende a ripetere quanto prima l’assunzione di un’altra dose. Si instaura così il fenomeno del craving, cioè del consumo compulsivo della sostanza.

La tossicità
La cocaina agisce sulla dopamina e sulla noradrenalina, entrambe neurotrasmettitori. In particolare la dopamina, la molecola del piacere, attiva il «Sistema di facilitazione comportamentale», che facilita i comportamenti finalizzati a conseguire delle gratificazioni, quindi determina disinibizione nelle relazioni sociali e nella ricerca del partner. Un’analoga azione è svolta dalle amfetamine e dall’alcol e spesso quest’ultimo è consumato contemporaneamente alla cocaina; in questo caso si forma, per azione del fegato, un metabolita  detto cocarnetilene, che è una sostanza fortemente tossica e che incrementa l’effetto della cocaina. Quando, però, il livello di dopamina presente nelle sinapsi è eccessivo, si può verificare uno stato psicotico, caratterizzato da idee deliranti, prive di fondamento e di tipo persecutorio. Il cocainomane si convince così di essere vittima di qualche complotto, per cui può avere reazioni anche molto violente.
La noradrenalina attiva, invece, l’«emotività negativa», per cui aumenta lo stato di allerta ed il soggetto diventa apprensivo. Aumentano le risposte di paura-allarme, quindi la cocaina può stimolare uno stato di reattività aggressiva. Peraltro questa, come le amfetamine, è una droga fortemente eccitante, che permette un’iperattività senza sentire la fatica; ciò è dovuto all’azione della cocaina sul glutammato, la molecola dell’iperattività; è la droga in giacca e cravatta, usata da managers, atleti, attori, ma anche da chi vuole tirare al tardi fino all’alba. Gli effetti della cocaina sono variabili da persona a persona, in base alle caratteristiche soggettive: alcune si sentono più energiche, altre più logorroiche, nervose ed irritabili.
Se si esamina l’immagine PET del cervello di un cocainomane, si può vedere che le aree colorate in rosso, rappresentanti le zone cerebrali, in cui c’è un corretto utilizzo del glucosio (la molecola energetica utilizzata dalle nostre cellule) si riducono progressivamente, man mano che aumenta il consumo della sostanza. Aumentano, nell’immagine, le zone gialle di scarso apporto e quelle blu, di apporto critico. In tal modo il cervello va progressivamente in crisi. Inoltre, in carenza di nutrimento, si hanno alterazioni vascolari, che hanno gravi ripercussioni anche sul sistema cardiovascolare.

I problemi
L’uso occasionale della cocaina non presenta grossi problemi (salvo le controindicazioni in caso di ipertensione o di altre malattie cardiovascolari). L’uso cronico, invece, può creare o aggravare dei problemi psichiatrici e, come già visto, il soggetto viene colto da mania di persecuzione. Sono frequenti allucinazioni visive e tattili (sensazione di insetti sotto la pelle). Il soggetto diventa sempre più aggressivo e violento.

La tossicità
Una dose tossica di cocaina può essere compresa nel range 70-150 mg per una persona di 70 Kg. La dose mortale è incerta e variabile da una persona all’altra. I danni, che la cocaina produce alla salute sono molteplici. Innanzitutto, a livello di apparato cardiovascolare, la cocaina aumenta la pressione arteriosa e favorisce l’occlusione delle coronarie, con conseguente rischio d’infarto. Inoltre produce aritmie (extrasistole, tachicardia, fibrillazione). Spesso si riscontrano alterazioni cardiache in soggetti giovani, facilitate dall’azione tossica combinata di alcol e di cocaina; a quest’ultima sono attribuibili gli infarti in giovane età, in assenza di altri fattori di rischio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, se la cocaina viene fumata, la sua forte azione vasocostrittrice sui tessuti produce danni sia a livello della mucosa nasale, che tende alla necrosi, sia a livello polmonare. Si parla di crack lung, cioè polmone da crack, per descrivere una patologia caratterizzata da dolore al torace, difficoltà respiratorie e tosse con emissione di sangue. Bisogna tenere presente che, se si verifica un deficit della capacità respiratoria, ciò significa che c’è un minore apporto di ossigeno agli organi, per cui esso è più necessario, cioè il cervello ed il cuore. La cocaina ha la capacità di abbassare la soglia epilettica di un individuo e quindi di scatenare le convulsioni, che possono ripetersi a intervalli sempre più brevi, fino a risultare fatali. In alcuni casi, il disturbo epilettico da cocaina si manifesta con delle assenze temporanee, in cui la coscienza è alterata, confusa e non più vigile. Inoltre, sempre in tema di danni al cervello, i cocainomani presentano un rischio di ischemia cerebrale quattordici volte superiore alla norma. In questo caso, la causa può essere attribuita allo spasmo delle arterie craniche, con ridotto apporto di sangue al cervello (quella più frequentemente colpita è l’arteria cerebrale media), oppure ai microinfarti cerebrali, che sono associabili all’uso della cocaina. Quest’ultima può essere causa di TIA, cioè di attacchi ischemici transitori. In cocainomani di lunga data, alcune aree del cervello, soprattutto nei lobi frontali, ad un esame TAC o PET risultano atrofizzate o di dimensioni ridotte e ciò si traduce in un comportamento privo di regole morali e di senso comune, caratterizzato da forte impulsività e mancanza di riflessione, cioè, in pratica, una sorta di demenza. A ciò si aggiungono, nel tempo, i disturbi dell’attenzione, le crescenti difficoltà di attenzione ed un deficit di memoria. Attualmente non ci sono dati sufficienti, per stabilire l’entità dei danni a distanza, per coloro, che hanno usato la cocaina per anni, ma poi si sono disintossicati, né siamo in grado di prevedere cosa succederà nel tempo ai figli di madri cocainomani. A tal proposito, uno studio compiuto negli Usa ha evidenziato che il 31% dei neonati della popolazione urbana è positivo, per la presenza di cocaina nel corpo. Teniamo presente che la cocaina passa facilmente attraverso la placenta, quindi raggiunge il feto e si distribuisce nella sua circolazione. La cocaina esplica la sua azione vasocostrittrice sull’arteria ombelicale, riducendo l’apporto di ossigeno e di sostanze nutritive al feto; possono perciò verificarsi aborti spontanei, distacchi di placenta o parti prematuri. I bambini così esposti presentano basso peso alla nascita, riduzione delle dimensioni del cranio e del cervello e malformazioni all’apparato genito-urinario. Inoltre essi presentano riflessi meno validi, sono più irritabili ed interagiscono meno con l’ambiente. La cocaina è in grado di passare anche attraverso il latte materno, quindi, in caso di madre cocainomane, l’allattamento al seno va rigorosamente sostituito con quello artificiale. Infine la cocaina può produrre alterazioni ormonali, come l’ipertiroidismo, l’ingrossamento delle ghiandole mammarie e l’impotenza nei maschi, l’amenorrea e la perdita di fertilità nella donna, nonché la ricerca di situazioni di tipo sessuale, caratterizzate da una forte trasgressività, per cui è quasi costante nei maschi il ricorso a esperienze con i transessuali.

OPPIO, MORFINA, EROINA E ALTRI OPPIOIDI

L’oppio deriva dal lattice del papavero sonnifero (Papaver somniferum), originario dell’area mediterranea. Esso contiene alcaloidi molto usati in medicina, come antidolorifici e calmanti, quali la morfina e la codeina. Attualmente si usano anche oppioidi semisintetici, come l’eroina e la buprenorfina o completamente sintetici, come il metadone, la meperidina ed il fentanyl. L’oppioide più comune sul mercato illegale è l’eroina (diacetilmorfina), che può essere assunta per via endovenosa, per bocca o inalata.

Gli effetti
Gli oppioidi agiscono sul sistema nervoso centrale. In particolare essi agiscono su un tipo di recettori cellulari, facenti parte del sistema oppioide endogeno, e su mediatori biochimici, le endorfine, normalmente presenti nel nostro organismo. In medicina, gli oppioidi funzionano simultaneamente come analgesici e tranquillanti e vengono usati anche come antidiarroici e calmanti della tosse. Effetti collaterali frequenti sono la nausea ed il vomito, specialmente all’inizio, e la stipsi, che può diventare un serio problema. Gli oppioidi interferiscono solo in modo marginale con le funzioni intellettuali e con il cornordinamento muscolare. L’effetto dell’eroina dura 3-6 ore, dopodiché la persona dipendente deve ripetere la dose. La maggior parte delle persone, che fanno uso di oppioidi, come droga, non provano euforia, ma solo una sensazione di apatia, di sedazione e di ottundimento mentale, che può anche risultare sgradevole. Se si continua a consumare queste sostanze, in breve queste sensazioni negative tendono a scomparire.  Probabilmen
te solo poche persone traggono sensazioni gratificanti, già dalle prime assunzioni. In molti casi si raggiungono invece effetti, quali la stabilizzazione dell’umore e la riduzione della tensione intea e degli impulsi aggressivi.
I problemi
L’uso occasionale degli oppioidi, sotto controllo medico, non crea particolari problemi, che invece insorgono con il consumo cronico, perché si sviluppano tolleranza (necessità di aumentare la dose, per ottenere gli stessi effetti) e dipendenza fisica (adattamento dell’organismo alla presenza del farmaco), con la comparsa di un grave e prolungato malessere, accompagnato da tipici disturbi, in caso di sospensione improvvisa (crisi da astinenza). Nell’uso terapeutico, la dipendenza è un fenomeno rarissimo, ma può svilupparsi tolleranza.

La tossicità
Gli oppioidi puri, di solito, non sono tossici, se assunti in modo corretto e controllato. Al contrario, l’uso dell’eroina da strada può causare gravi problemi, poiché questa eroina è spesso tagliata con sostanze potenzialmente dannose, oppure è contaminata da agenti patogeni. Se questa droga viene assunta in condizioni igieniche carenti (mancanza di sterilità, siringhe usate) è facile contrarre infezioni di diverso tipo (tromboflebiti, epatiti, endocarditi, AIDS, ecc.). Inoltre, essendo sconosciuta la concentrazione del principio attivo, nelle droghe di strada, si rischia l’overdose, che può provocare la morte per una grave depressione dei centri nervosi, che controllano la respirazione. L’overdose è caratterizzata dalla presenza contemporanea di sonnolenza profonda, pupille contratte a punta di spillo e depressione respiratoria, con pochi e superficiali atti respiratori al minuto. Questa situazione richiede un intervento di emergenza, con respirazione artificiale e somministrazione di naloxone. Se un oppioide viene assunto con alcol e/o tranquillanti, si può avere sinergia con potenziamento.

LE SOSTANZE PSICHEDELICHE
(MESCALINA, FUNGHI, LSD)

Si tratta di sostanze allucinogene, che danno marcati effetti sulle percezioni, sensazioni, emozioni e processi mentali in genere. Tra i principali abbiamo la mescalina, contenuta in varie specie di cactus, tra cui il peyote (Lophophora williamsii), la psilocibina e la psilocina, contenute in molti funghi dei generi Psilocybe, Copelandia e Panaeolus, diffusi in tutto il mondo. Fra le sostanze di sintesi, c’è l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico). Anche la cannabis, ad alte dosi, si comporta come un allucinogeno. Si usano quasi sempre per via orale ed il loro effetto dura 6-10 ore.

Gli effetti
Si va dall’aumentata intensità soggettiva delle percezioni e delle sensazioni (forme, colori, suoni, sensazioni tattili), fino a vere e proprie distorsioni illusorie della forma e del colore degli oggetti, nonché dello spazio e del tempo. Nessun tipo di droga ha effetti tanto imprevedibili e tanto dipendenti dallo stato mentale, dalla personalità, dall’atteggiamento e dalle aspettative del soggetto ed infine dalle circostanze ambientali. Sono possibili delle sinestesie, cioè la sensazione di vedere i suoni e di sentire il profumo dei colori, la dissoluzione delle immagini in pure forme di luce e di colore, fino alla sensazione di dissociazione della mente dal corpo. Si possono inoltre avere profonde sensazioni di armonia interiore e di sintonia con l’universo, in pratica una sorta di estasi. In certi casi, al contrario, si possono avere effetti negativi altrettanto rilevanti, si possono fare i bad trips, cioè i viaggi cattivi, per cui è sempre necessaria la vicinanza di una persona in grado di rassicurare e di calmare il soggetto.

I problemi
In soggetti predisposti si possono avere crisi più o meno prolungate di depressione o vere e proprie crisi psicotiche. Sono inoltre possibili dei fenomeni di flashback, cioè l’improvvisa ricomparsa di sensazioni alterate a distanza di tempo dall’assunzione. Sotto l’effetto degli allucinogeni è impossibile svolgere attività, che richiedono attenzione, vigilanza, concentrazione, raziocinio, cornordinamento muscolare e prontezza di riflessi, come ad esempio la guida di un veicolo. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

MARIJUANA DA LIBERALIZZARE?

Quello dell’utilità in campo medico è l’argomento, di cui solitamente si servono coloro che sostengono la liberalizzazione della cannabis. Va detto, però, che in campo medico si usano anche gli oppiacei, per combattere il dolore, ma non per questo li troviamo liberamente in commercio.  In ogni caso, in questo tipo di discussione, bisogna tenere conto del fatto che è ormai provato, su base sperimentale, che anche la cannabis dà dipendenza, i cui primi sintomi sono la perdita di controllo dell’assunzione e l’incapacità di smettere, quando lo si desidera. Una piccola percentuale di soggetti mostra, inoltre, i sintomi fisici dell’astinenza, quali l’insonnia, l’irritabilità ed i tremori, anche se di minore entità, rispetto a quanto succede con le altre droghe.
È vero, peraltro, che non tutti coloro, che fanno uso di cannabis sviluppano la dipendenza, ma ciò può essere legato alle caratteristiche genetiche dei singoli soggetti, oppure alle caratteristiche ambientali.

(Sul tema  legalizzazione / proibizionismo si veda la tabella di pagina 31.)

Sniffare cocaina

Dal congresso degli operatori dei Sert di Sorrento arriva una notizia allarmante: ci sono persone, che fanno anche un anno di attesa, negli ospedali, per rifarsi il naso, distrutto dalla cocaina. Al momento è impossibile quantificarne, con esattezza il numero, ma pare che esso sia in continuo aumento.
Fino a qualche anno fa, gli interventi di rinoplastica, legati al consumo di cocaina, erano rarissimi: uno su cento cocainomani. Inoltre riguardavano per lo più persone del mondo dello spettacolo o managers. Ora, invece, le richieste d’interventi di questo tipo arrivano da persone di tutti i ceti sociali, anche nella popolazione femminile. Inoltre, dal momento che il prezzo della cocaina è diminuito, cresce il numero delle persone, che ne fanno uso e che successivamente si ritrovano con questo tipo di problema.
Le liste d’attesa per rinoplastica sono attualmente di cinque mesi in clinica privata, a 10.000 euro, e di un anno e mezzo in un ospedale pubblico. La cocaina ha una forte azione vasocostrittrice, che può portare alla necrosi di vaste aree della mucosa nasale, con conseguenti gravi difficoltà di respirazione e tumefazioni nasali. Sono costretti alla ricostruzione anche tanti giovanissimi, nei quali le mucose e la cartilagine sono più delicate e vanno facilmente incontro a perforazione, con l’abitudine di sniffare cocaina. L’intervento di rinoplastica dura 2-3 ore e, naturalmente, ha un senso solo se il soggetto smette di inalare cocaina. Bisogna inoltre considerare che questo tipo d’intervento è gravato da un’alta percentuale d’insuccessi, del 30-50%. I chirurghi maxillo-facciali riferiscono che, qualche anno fa, si aveva una richiesta di ricostruzione nasale una volta al mese, ora ce ne sono 3-4 alla settimana. Il primario di otorinolaringoiatria dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, Prof. Fabio Beatrice sostiene anche che, oltre ai danni al naso, l’assunzione di cocaina può causare anche un importante abbassamento dell’udito.


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Accedendo a questo sito, è possibile rispondere ad un test di autovalutazione, che consente a chiunque, in totale anonimato, di quantificare il proprio grado di dipendenza dalla cocaina. Oltre i consumatori, possono rivolgersi a questo sito, ottenendo un consulto, anche coloro (familiari o amici), che sospettano che un loro caro faccia uso di cocaina. Un’altra sezione del sito è dedicata agli operatori del settore, che possono così confrontare esperienze, teorie ed informazioni.

Dalla legge del 1923 alla «Fini-Giovanardi»

✔1923: viene emanata, in Italia, la prima legge in materia di droga. Essa prevede di reprimere il commercio di sostanze stupefacenti e rinvia ad un elenco, per l’identificazione delle sostanze incriminate.

✔1956: la legge n. 1041 è di tipo esclusivamente repressivo, in quanto, per lo Stato, il tossicodipendente e lo spacciatore si equivalgono. Qualsiasi detenzione di sostanze stupefacenti, anche per uso personale, viene punita.

✔1975: la legge n. 685 dice che chi consuma stupefacenti, senza dedicarsi allo spaccio è solo un malato da curare e da riabilitare. Il soggetto, in questo caso, non è punibile, sempre che la droga trovata in suo possesso non superi la modica quantità.
✔1990: la legge n. 162 (legge Vassalli-Russo-Jervolino) prevede che l’assunzione di stupefacenti sia punita con una sanzione amministrativa, che diventa penale, quando la detenzione di sostanze stupefacenti supera la dose media giornaliera, fissata con decreto ministeriale. Alcune norme di questa legge, in particolare quelle relative alle pene previste per la detenzione personale di droghe leggere, vengono abrogate con un referendum nel 1993.

✔2006: la legge n. 46 (legge Fini-Giovanardi) è caratterizzata dall’inasprimento delle sanzioni relative alla produzione, al traffico, alla detenzione illecita ed anche all’uso di sostanze stupefacenti, con l’abolizione di qualsiasi distinzione tra droghe pesanti e leggere.


Droghe, musica e cantanti

Una ricerca condotta recentemente, presso l’Università di Pittsburg ha analizzato i testi di 279 canzoni, tra quelle pubblicate nelle classifiche di Bilboard, un settimanale specializzato. Da questa ricerca sono emersi spesso dei riferimenti espliciti al consumo di stupefacenti, soprattutto nel rap, anche se possono pure trovarsi in altri generi musicali, come il country.
Secondo la rivista scientifica Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, i giovani di 15-18 anni sarebbero esposti quotidianamente a circa 2,4 ore di musica, mentre il 98% di loro possiede una radio, o un lettore cd o mp3. Questo significa che fare passare, attraverso il testo di una canzone, un messaggio legato al consumo di droga può avere un forte impatto negativo su una grande fetta di popolazione giovanile. Inoltre, spesso, questo tipo di messaggio viene associato a connotazioni positive, come il sesso, i soldi ed il successo. Dall’esame dei testi musicali, che fanno riferimento all’uso di stupefacenti, si è visto che il 77% sono di rap, il 36% di country, il 20% di rithm & blues/hip hop, il 14% di rock ed il 9% di pop. Facendo una media, le canzoni, che danno una connotazione positiva all’uso di droghe sono circa il 69%, mentre solo il 4% contiene un testo antidroga. Per quanto riguarda, invece, le sostanze citate in questi testi, si parla di tabacco nel 3% delle canzoni, di marijuana nel 14%, di alcol nel 24% e di altri tipi di droga nel 12%.
Tra i cantanti o gruppi stranieri, che inneggiano alla diffusione di hashish e di marijuana ci sono Snoop Dog ed i Cypress Hill, mentre in Italia abbiamo i Baustelle, che, in un loro testo, descrivono le gesta di un certo Charlie, che fa surf sotto l’azione di Mdma (ecstasy) e di paroxetina.

Dove sono le radici?

Il problema della tossicodipendenza è considerato un problema sociale; le proporzioni e le dimensioni del fenomeno, durante quest’epoca, hanno reso necessaria non solo la visione scientifica, ma anche l’elaborazione di vere e proprie risposte sociali.
Risposte, che appartengono a diversi livelli: reazione sociale nei gruppi più ristretti, come la famiglia ed il gruppo dei pari, ma anche rispetto alle istituzioni, cioè scuola, mondo del lavoro, ecc.
Le dimensioni e le caratteristiche dell’evoluzione di tale fenomeno mettono in rilievo che le spiegazioni e le interpretazioni basate sulle problematiche individuali dei consumatori non sono sufficienti a fornire una valutazione adeguata al fenomeno stesso, ma è necessario introdurre parametri di tipo culturale e sociale.
L’uso di droghe leggere è una forma di devianza, tipica nell’esprimere le gravi tensioni, alle quali i giovani della nostra epoca sono sottoposti in età sempre più precoce. Esistono problemi di adattamento sociale comuni a molti giovani, che si realizzano, in genere, in gruppo.
Considerare la droga un problema solo individuale, o solo psichiatrico non è sufficiente.
Innumerevoli i sostanziali mutamenti di valori e di stili di vita, che negli ultimi anni ci hanno accompagnato; filosofia del vivere alla giornata, in cui il mondo adulto appare esso stesso preoccupato per il futuro, tanto timoroso di sbagliare nei confronti degli adolescenti, ed allo stesso tempo contraddittorio nell’annunciare la validità di valori, che vengono negati nella pratica. L’uso di sostanze finalizzate ad incidere sulle condizioni psichiche ed a risolvere problemi, di carattere psicologico o esistenziale è entrato nelle abitudini di molte persone, e ciò è stato stimolato anche da enormi interessi delle industrie farmaceutiche.
Un elemento, che incide negativamente sull’esistenza del tossicodipendente è la sua realtà familiare: famiglie con relazioni alterate, rapporti affettivi di tipo ambivalente. Importante sì la figura matea, ma che sia una madre accogliente, che accudisce e non castra, capace di dettare regole e trasmettere valori, non ambivalente nei confronti dei figli, così come è importante un padre presente. Pare che la famiglia giochi un ruolo fondamentale sul comportamento del figlio adolescente e che la tossicomania di un figlio, nel senso più ampio del termine, possa essere considerata come un sintomo di un più generale disturbo familiare. Disturbo e scelta, che non vengono mai all’improvviso.
Responsabilizzare, capacità di superare le difficoltà quotidiane, avere buoni valori umani e culturali rimangono elementi concreti, grazie ai quali potere crescere; è l’immagine mentale dell’albero, con una bella chioma, il quale ha delle profonde e robuste radici inserite nel terreno e che, davanti alle bufere della vita, spesso riesce a superarle.

di Anita Di Santo



Roberto Topino e Rosanna Novara




Per neutralizzare o per rieducare?

La necessità di ripensare il carcere e la pena

Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona.

«Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leggono più volte nella storia autobiografica di Edward Bunker («Educazione di una canaglia», Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra alla società o se sia stata quest’ultima a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «canaglia».

PERCHÉ IL CARCERE?

Nei 250 anni da cui esiste la prigione modea molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il sociologo norvegese Thomas Mathiesen si poneva nel titolo di un suo lavoro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resistere alle obiezioni degli abolizionisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. Sull’utilità del carcere, peraltro, il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cybercrime ai maltrattamenti degli animali, dal doping nello sport alla violenza negli stadi, la risposta standard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter testimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa appendice di sanzione detentiva.
L’ultima vicenda dell’indulto del 2006 ha evidenziato come la funzione che la nostra società implicitamente richiede alla pena detentiva è quella della mera neutralizzazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, infatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruie di nuove, ignorando che gli organismi inteazionali (ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Palma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa soluzione perché in molti paesi le nuove carceri sono state in breve tempo riempite, riproponendo gli stessi problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inoltre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale (art. 27) dello scopo rieducativo della pena?
Il carcere dunque come principale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giungono dal sistema mediatico-politico non ci si può stupire se i numeri della carcerazione crescono nuovamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un livello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mila detenuti, dopo il provvedimento clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qualche mese, tuttavia, siamo ritornati a quote di sovraffollamento inquietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi abbiamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità.
Ma quanto è efficace lo strumento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confortanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli individui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore della pena o per avere acquisito in prigione l’abitudine a rispettare la legge. Le poche ricerche accreditate (la più recente svolta proprio dal ministero della giustizia) ci dicono che quasi il 70% dei condannati torna a commettere reati entro 5 anni dalla conclusione della detenzione.
Si parla, al proposito, del cosiddetto fenomeno «porta girevole», nel senso che molti detenuti continuano ad entrare ed uscire dal carcere come seguendo la rotazione delle porte di un albergo. È sufficiente analizzare la composizione sociale della popolazione reclusa per rendersi conto che si tratta di persone la cui marginalità sociale rende altamente probabile l’esito carcerario e la recidiva. Un quarto di tale popolazione ha problemi di tossicodipendenza e/o di alcoldipendenza, oltre il 35% di essa proviene da paesi stranieri ed è in attesa, una volta scontata la pena, di essere rimpatriata perché giunta in Italia clandestinamente.

MISURE ALTERNATIVE:
VALIDE, MA IMPOPOLARI

Il carcere, secondo il nostro ordinamento giuridico, dovrebbe costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Che fine hanno fatto le forme alternative alla carcerazione introdotte con la lontana riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975? Rispetto alle misure alternative, esse risultano in aumento nel corso degli ultimi anni se pensiamo che le persone sottoposte ai vari regimi di limitazione della libertà (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) sono arrivate ad essere pari a quelle detenute in carcere.
L’opinione pubblica, tuttavia, è frequentemente chiamata a scandalizzarsi di casi di cronaca in cui condannati a misure alternative commettono altri reati, dimenticando peraltro che la percentuale di questi casi è bassissima e che i progetti di reinserimento sociale dei reclusi necessitano di un periodo di verifica che non può che passare attraverso forme, anche limitate, di libertà del condannato. Le ricerche dimostrano che coloro i quali hanno scontato la pena in misura alternativa fanno registrare tassi di recidiva molto più bassi rispetto a quelli degli ex detenuti (la percentuale già citata del 70% cala a poco più del 20%). La stessa cultura giuridica degli operatori del diritto stenta a considerare le pene alternative come una sanzione penale vera e propria e tende quindi a concederle con sempre maggiore riluttanza: quest’estate ha destato scalpore la rapina commessa dall’ex brigatista Piancone, mentre stava scontando la misura alternativa, benché avesse scontato la pena detentiva per la durata di 25 anni! Del resto, non si intravede una politica di potenziamento delle strutture pubbliche chiamate a svolgere le attività di reinserimento sociale.
La percentuale di personale che all’interno delle carceri è addetta al trattamento è ancora oggi estremamente ridotta rispetto a quella che si occupa della sicurezza. Mentre esiste in media più di un agente di polizia penitenziaria per ogni detenuto, ancora oggi ci sono carceri che ospitano 200/300 reclusi che dispongono dell’intervento di uno o due educatori! Lo stesso provvedimento dell’indulto è stato approvato nel periodo estivo, quasi alla chetichella e prontamente disconosciuto dalle stesse forze politiche che l’avevano approvato, senza un serio piano di reinserimento sociale e di accoglienza delle persone scarcerate con i soggetti del privato sociale operanti sul territorio. In buona sostanza, una occasione perduta per dimostrare all’opinione pubblica come il carcere possa e debba mantenere una valenza risocializzativa.

TROPPI SUICIDI NEGLI 
«ALBERGHI A 5 STELLE»

Di quando in quando emerge nell’opinione pubblica che le carceri siano «alberghi a 5 stelle». Non è proprio così, se consideriamo che gran parte dei nostri istituti penitenziari sono fatiscenti o perché vetusti, o perché nati vecchi in quanto costruiti non per il bene pubblico, ma per soddisfare interessi privati di consorterie di potere (ricordate lo scandalo delle «carceri d’oro»?). Inoltre, la maggior parte delle persone detenute sono costrette ad un ozio forzato, in quanto la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere è garantita per non più di un quarto della popolazione reclusa a causa di croniche carenze di finanziamenti statali e della latitanza dell’imprenditoria privata che, nonostante la retorica sul capitalismo sociale, non sembra molto propensa ad investire nel recupero delle persone che hanno sbagliato (la Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che i detenuti non perdono i loro diritti di lavoratori…).
Un altro diritto che i detenuti non dovrebbero perdere entrando in un carcere è quello alla salute. Tuttavia, le condizioni della sanità penitenziaria non sono certo in grado di garantire tale diritto per tutte le persone recluse. La cosiddetta riforma Bindi, che ne prevedeva, dopo una fase di sperimentazione in alcune regioni, il passaggio al servizio sanitario nazionale è stata a lungo inapplicata e forse l’anno 2008 sarà quello decisivo per una sua positiva realizzazione. Nel frattempo la situazione sanitaria delle carceri si è fatta sempre più critica, appena migliorata dalla boccata di ossigeno dell’indulto, ma ben presto di nuovo sotto pressione con l’incremento dei detenuti degli ultimi mesi. Anche qui tagli ai finanziamenti pubblici, resistenze di potentati corporativi, disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria, riluttanza della società extra-muraria di farsi carico della questione hanno prodotto una realtà sanitaria che, soprattutto in alcune regioni, non può considerarsi a livello di un paese civile.
Ma c’è un dato del mondo carcerario che risulta ancor più inquietante: il tasso dei suicidi. Negli ultimi anni in Italia tale tasso tra i detenuti ha superato l’uno per mille abitanti, il che significa che in prigione ci si ammazza 15 volte di più che nella società dei liberi. Proprio nelle ultime settimane quattro episodi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria hanno riproposto l’attualità del tema anche nell’ambito del mondo degli operatori penitenziari. Possiamo considerarli un ennesimo esempio di morti bianche sul lavoro? Direi proprio di sì. Condizioni di sovraffollamento, stato di abbandono da parte della famiglia e degli operatori sociali, difficili rapporti con i compagni di detenzione o di lavoro, condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti penitenziari non idonee a costruire un ambiente di lavoro accogliente; tutte situazioni che incidono negativamente tanto sui detenuti quanto sul personale di custodia e che contribuiscono ad aumentare quella dimensione di sofferenza umana che emerge dagli istituti di pena italiani.
Jean-Pierre Faye a chi gli chiedeva una definizione di Europa rispondeva: «l’Europa è là dove non esiste la pena di morte». Affermazione ancor più significativa dopo la moratoria approvata dall’Onu proprio su istanza dei paesi europei.
Uno Stato che voglia definirsi europeo non può quindi accettare che sussistano nei propri istituti penitenziari delle condizioni che inducano suoi cittadini a privarsi di quel bene, la vita, per la protezione del quale è stato costituito lo stesso patto sociale. 

Di Claudio Sarzotti

Claudio Sarzotti




Cinquantamila reietti della società?

Introduzione

In Italia e nel mondo la situazione carceraria vive una perenne emergenza, lasciando trasparire un’immagine opaca della nostra società e suscitando reazioni sovente contraddittorie, dettate più dall’impulso emotivo che da un’analisi attenta e ponderata del problema. Nel nostro Paese vi sono circa 50.000 detenuti, ma erano 63.000 (per 43.000 posti regolamentari) prima dell’ultimo indulto del luglio 2006, soglia che sarà comunque nuovamente presto raggiunta e superata procedendo al ritmo di 1.000 nuovi detenuti al mese.
Parlare di carcere significa tuttavia riflettere anche sul significato del reato, della pena, della colpa, significa inevitabilmente parlare di società.

Le prigioni sono nate e cresciute parallelamente con la storia dell’umanità. Strutture carcerarie con un significato simile a quello odierno si menzionano già nella Bibbia, nonché nella Grecia e nella Roma antica. Il termine prigione deriva infatti dal latino «prehensio», mentre la parola carcere deriverebbe da «carcer», recinto, inteso come luogo ove si restringe, si rinchiude e si punisce. Viene così sottolineata la sua funzione primaria che consiste nell’allontanare dalla vita attiva e separare dalla comunità quei soggetti ritenuti un pericolo per la società stessa.   
I sistemi penitenziari hanno attraversato i secoli, variando da Stato a Stato in base alla concezione della pena vigente nelle diverse legislazioni. Tuttavia, nonostante  molteplici trasformazioni e continui adeguamenti, il mondo carcerario vive ancora oggi una condizione fatta di luci e di ombre, di problemi irrisolti e forse irrisolvibili.
Un miglioramento complessivo delle condizioni di vita, della tutela dei diritti e del rispetto della dignità umana, almeno in una parte dell’Occidente, è stato indubbiamente attuato, ma nella sostanza il nucleo della vita detentiva è rimasto immodificato.

Il sovraffollamento in strutture talvolta fatiscenti,  le condizioni sanitarie precarie, l’aumento dei minori (oltre 400 nel 2006), la presenza sempre più cospicua degli stranieri (circa il 30% dei detenuti), sono soltanto alcuni dei problemi che ciclicamente trovano spazio nelle cronache. L’alto numero di suicidi, oltre mille dal 2000 al 2007, è la testimonianza tangibile e forse più eclatante di un profondo ed inespresso disagio esistenziale. A ciò si aggiungono inevitabilmente i problemi del recupero e del reinserimento nella società civile.
Al fine di trattare una tematica così complessa, in questo dossier diamo voce a coloro  che vivono quotidianamente la realtà carceraria.

di Enrico Larghero

Enrico Larghero




Dov’è finito «Il principio della legalità»?

Reati e disvalori: com’è cambiata la società

Voltaire valutava il grado di civiltà di una nazione dalle sue galere. Indubbiamente il sistema giustizia (nella teoria e nella pratica) è una buona cartina di tornasole di un paese e dei suoi abitanti. Tuttavia, non basta. Per esempio, nel tempo è cambiato il sentire dei cittadini italiani nei confronti di alcuni reati. Un cambiamento, ma non per il meglio…

Parlando di giustizia penale, mi ritorna in mente la frase rivolta da Voltaire a chi, accompagnandolo in visita in un Paese per lui straniero, gli rammostrava le bellezze artistiche: «Non dirmi degli archi, dimmi delle galere».
Credo di non esprimere un pensiero particolarmente originale se a mia volta dico che il tipo di sistema giustizia, in particolare penale, adottato nella teoria (i codici) ma soprattutto praticato (le aule di Tribunale, le celle del carcere) rappresenti una delle cartine di tornasole più significative della natura di una nazione e dello spirito di coloro che lo abitano (1). Ciò detto, entriamo in media re.
Ed al proposito confesso che è con grande imbarazzo che mi accingo a parlare dell’esperienza che vive colui/colei il quale/la quale viene indagato/a – imputato/a in un procedimento penale e financo finisce in carcere.
Imbarazzo che mi deriva dal fatto che si tratta di accadimento che non ho vissuto in prima persona.
Per cui potrei dunque solo riportare quella parte di impressioni, sensazioni, emozioni e sentimenti che ho tratto affiancando, nel mio mestiere di avvocato penalista, la persona che viveva e vive invece direttamente sulla propria pelle questa/e esperienza/e.
Anche in questo caso credo che alcune premesse si rendano peraltro necessarie.
La prima innanzitutto. Sarà forse banale ma ogni situazione ed ogni persona sono uniche ed irripetibili. Ne deriva, tra l’altro, che ogni generalizzazione rischia di essere sciocca.
Esistono una verità storica (ciò che è accaduto realmente) ed una verità processuale (quella che si forma nel corso del procedimento). Le due possono alla fine non coincidere.
L’avvocato difensore non sempre (nell’esperienza di chi scrive spesso e volentieri) viene portato a conoscenza dal suo assistito della verità storica.
Presumere che la persona sottoposta a procedimento penale sia innocente è la regola di normale civiltà (spesso tuttavia così non mi pare accada). Il processo è comunque pena,  diceva Calamandrei.
Anche in questo caso, come a proposito delle opere e degli autori, si potrebbero elencare ancora parecchi altri principi generali ed astratti (validi ovviamente dal punto di vista di chi scrive).
Non esageriamo tuttavia e vediamo invece se sia possibile, ferme le premesse di cui sopra, registrare alcune distinzioni di massima e trovare dei minimi comuni denominatori con riferimento alle vicende penali.
Una prima grande distinzione può così essere fatta, con i distinguo di cui sopra naturalmente ripeto, tra coloro i quali si trovano per la prima volta coinvolti in una vicenda penale e coloro che invece ne hanno già fatto esperienza in precedenza.

Una seconda distinzione, che mi pare di cogliere sempre più fortemente con il passare del tempo, è tra gli «onesti» (che possono anche aver sbagliato, ma che di per sé sono onesti) ed i «disonesti».
Cerco di spiegare meglio il concetto. Ho la sensazione che vi siano persone e generazioni (tra queste penso in particolare a quelle più avanti negli anni) più rispettose del principio di legalità. E che altre lo siano di meno.
Se i primi vivono di norma in senso drammatico il solo fatto di essere sottoposti ad indagine penale (quand’anche si trattasse di un fatto per niente grave e, nella peggiore delle ipotesi, risolvibile senza grandi conseguenze), i secondi assumono piuttosto un senso di fastidio nei confronti della giustizia, esprimono rivendicazioni del tipo «Sono tutte calunnie, denunciamo chi mi ha denunciato», tirano in ballo teorie complottistiche ai loro danni, negano financo l’innegabile (2).
Un’altra distinzione, di forte incidenza, è data dalla circostanza che la persona venga tratta in arresto ovvero viva il procedimento penale in libertà.
Non si dimentichi infatti, se mai ce ne fosse bisogno, che l’incarcerazione è uno dei maggiori fattori di stress (3).
 
Per concludere due considerazioni ancora. La prima: mi pare si vada tristemente diffondendo in Italia, giacché incontra terreno fertile in una mentalità sempre più diffusamente incurante del rispetto del principio di legalità, il fenomeno culturale secondo il quale vi sono reati (tra i quali alcuni considerati invece assai gravi nella maggior parte dei paesi cosiddetti civili) ritenuti pressoché privi di disvalore sociale da una parte significativa del Paese (si pensi all’evasione fiscale ma non solo) (4) (5). La seconda: il carcere si sta trasformando sempre più in luogo di discarica sociale.
Ivi trovano accoglienza persone prive di risorse economiche, culturali e famigliari; affette da malattie e da dipendenze, autrici di fatti anche di non particolare offensività ma non più sopportabili e supportabili da uno Stato sociale in grave crisi. In tale contesto, sempre più, il precetto costituzionale sulla pena, diventa lettera morta. 

Di Davide Mosso

Davide Mosso




Un paese senza giustizia

La crisi del sistema giuridico-penale

Non esiste la «certezza della pena»: il 93 per cento dei reati rimane impunito. Chi è in carcere appartiene a due sole categorie: quella dei tossicodipendenti e quella degli extracomunitari. Le strutture detentive (sovraffollate e inadeguate) non rieducano. E la società sembra più interessata all’emergenza (si pensi allo slogan della «tolleranza zero») che alla soluzione dei problemi.

Attualmente in Italia i temi inerenti la giustizia non solo sono caratterizzati da una complessità intricata, ma sono segnati da una crisi evidente profonda e di difficile soluzione.
Prima di tutto esiste una frattura sempre più divaricata tra morale, giustizia e prassi o, per specificarla in altri termini, una frattura tra valori, diritti, doveri, norme e usi.
Esiste, inoltre, nell’amministrazione della giustizia una discordanza notevole tra le concezioni teoriche, le norme comminate e ratificate, la loro applicazione e le pene effettivamente irrogate e vissute; in altri termini tra le pene teorizzate, comminate e esistenzialmente sofferte esiste un divario iperbolico e spropositato.
La percentuale di autori di reato condannati segnala lo sconcertante dato del 7%: se il 93% dei reati complessivamente resta impunito ogni riferimento alla certezza della pena e al suo potere di intimidazione assume una valutazione paradossale e piuttosto eccentrica.
La concezione retributiva della pena risulta compromessa non tanto per giustificate considerazioni psicologiche e soggettive, quanto per il disorientamento e la confusione ingenerati dalla pletora di norme che prevedono la pena detentiva (circa 35.000) e dalla adozione di sanzioni stabilite per tacitare risposte dettate dall’emergenza.
Le vittime, considerate finora come epifenomeno del reato (M. Bouchard), costituiscono pretesto occasionale da utilizzare a sostegno di mozioni per proporre la «tolleranza zero», campagne di «profilassi sociale», di aggravamento delle pene, di abbassamento dell’età cronologica e dell’inizio della responsabilità penale dei minorenni autori di reato. Durante il processo, e anche dopo, le vittime sono accreditate come «parte lesa e parte offesa» del reato senza essere riconosciute in sé indipendentemente e ontologicamente come persone.
Gli autori di reato condannati tipologicamente sono rappresentati dagli extracomunitari o neocomunitari (49% in Piemonte) e dai tossicodipendenti (34% in Piemonte). Più dell’80% delle persone detenute risentono dell’incidenza di fattori strutturali.

L’EVOLUZIONE DEL REATO
E L’INDULTO

Il reato con le sue implicazioni, come ogni altro fatto sociale, è attualmente in continuo e veloce divenire: di fronte ai cambiamenti così rapidi anche le modalità di analisi e interpretazione ancorate alle passate teorizzazioni risultano superate dalla realtà effettuale, come, ad esempio, la spiegazione dei reati contro il patrimonio (furti, rapine, scippi, appropriazioni indebite, …) connessi al disagio economico dell’autore del reato. Nella spiegazione delle cause la ricerca è condotta sul passato («la causa precede e produce l’effetto»): da qualche tempo assume importanza nell’interpretazione la mancanza di futuro e prospettive, introducendo nell’analisi la convinzione che il reato più che nel passato trova la sua motivazione nella problematicità del futuro.
Talvolta l’analisi è pregiudiziale e marcata da «indesiderabili differenze», riscontrabili come stigmi visibili nell’asociale e nell’antisociale. Il giudizio del passato diventa pregiudizio esistenziale che predetermina il futuro e consolida la contrapposizione in termini duali.
L’indulto (provvedimento di clemenza adottato recentemente dallo Stato e giustificato per ridurre il sovraffollamento nelle carceri ritenuto intollerabile rispetto alla capienza) ha determinato la scarcerazione di 26.731 detenuti (16.460 italiani e 10.271 stranieri) ma è stato giudicato in realtà non solo inefficace perché completamente estemporaneo ed estraneo ad una concertata programmazione e pianificazione di opportunità concrete, sufficienti, coerenti, fruibili ma anche controproducente, perché l’opinione pubblica l’ha recepito come rinuncia da parte dello Stato a garantire la certezza dell’esecuzione della pena, perché i beneficiari dell’indulto sono stati collocati nelle stesse condizioni nelle quali si trovavano quando avevano commesso il precedente reato, perché i beneficiari non hanno fatto nulla per rendersene meritevoli.

IL DETENUTO:
FUORI DALLA SOCIETÀ?

Che senso ha la pena detentiva nella nostra società?
Intanto la pena deve essere la risposta istituzionale al comportamento creato accertato; deve essere l’ultima ratio alla quale si fa ricorso, adoperando ogni mezzo per riuscire ad intercettare i segni precursori e indicatori dello stato di disagio e di devianza per interpretarli e per predisporre risposte attinenti, praticabili, immediate, concrete prima che il comportamento acquisisca la caratterizzazione di antisocialità e di violazione della legge.
Durante la pena da parte delle Istituzioni, della società non deve essere espresso un mandato di delega ampia o addirittura di rinuncia a continuare a prendersi carico della persona in carcere. Il detenuto, anche quando è affidato all’Istituzione penitenziaria perché sia «controllato, privato della libertà e rieducato», continua a far parte della società e la dialettica tra individuo e società non solo non deve interrompersi, ma deve diventare più continua e intensa perché il processo di formazione e di educazione possa essere attivato e realizzato.
La pena detentiva è di fatto una parentesi più o meno lunga della vita della persona: prima e dopo la carcerazione la persona è inserita nel proprio contesto familiare, lavorativo, sociale; tra il prima e il dopo più che una cesura, deve esserci un collegamento mettendo in moto un’azione per il recupero del passato che risulta ancora positivo e costruttivo per la realizzazione del progetto di vita futura.
La condanna e la pena (inclusa la detenzione) sono necessarie ma debbono essere giuste: necessarie per la società, per la vittima, per l’autore del reato; giuste perché la pena non può essere contro la persona in quanto ne rispetta la dignità ed è occasione per mettere in moto azioni contestuali (soggettive e socio-ambientali).
La pena costituisce un patrimonio conoscitivo ed esperienziale utilizzabile come fattore di prevenzione secondaria per se stessi in quanto autori di reato e come prevenzione primaria per gli altri perché le esperienze esistenzialmente sono individuali ma conoscitivamente sono universali, trasferibili, condivisibili.
La pena non deve essere un tempo vuoto e insignificante ma una esperienza per ricomprendere e rimodulare il passato e per elaborare un progetto di ricollocazione nel contesto esterno al carcere e di riproposizione di ruoli (familiare, genitoriale, sociale, lavorativo,…). Non è superfluo ribadire che per i detenuti, come per ognuno di noi, il presupposto per riuscire nella realizzazione di un progetto è costituito dalla combinazione simultanea e contestuale di condizioni soggettive o individuali e di condizioni oggettive o socio-ambientali.
Anche in merito a questo tema la bioetica e l’etica, secondo l’approccio del personalismo, offrono spunti di riflessione attinenti perché esse dichiarano e assicurano che dal concepimento alla morte l’essere umano ontologicamente ed essenzialmente è persona e mantiene la sua dignità, unità, identità e continuità di persona non solo se è genio, eroe, santo ma anche se è autore di reato.
L’ordinamento penitenziario, art.1, afferma che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona».
Tuttavia le affermazioni di principio possono restare solo mere enunciazioni quando tra la funzione (gestione, controllo, trattamento durante la pena) e la persona (dell’operatore, dell’utente, del detenuto) non esiste una correlazione stretta e dinamica.

CARCERE: NON-LUOGO, NON-SPAZIO, NON-RELAZIONE

Il carcere è un non-luogo, non-spazio, non-relazione dove si sperimenta «l’etnologia della solitudine» (M. Augè) e dell’individualismo: non conviene fidarsi di alcuno e si teme che l’operatore (educatore, assistente sociale, psicologo) tenti di accreditare un profilo che possa danneggiare il detenuto.
La pena è una dimensione di assenza di tempo non solo perché si sperimenta il vuoto, ma perché si vanifica facilmente la prospettiva del tempo-risorsa e del tempo-meta: la pena detentiva può diventare un contenitore di azioni e reazioni senza senso formativo.
Il lavoro, che pure costituisce l’elemento più concreto del trattamento penitenziario, è di fatto una chimera perché al massimo riesce a coinvolgere il 15-18% dei detenuti, impegnati peraltro generalmente in lavori scarsamente qualificati e nei lavori cosiddetti domestici negli Istituti.
La contrapposizione tra esclusi ed inclusi si consolida nel pregiudizio fino a stravolgere il principio costituzionale e ad esprimersi nella presunzione di colpevolezza.
La rinuncia a trovare e a rinforzare ponti di comunicazione e di relazione tra inclusi ed esclusi si riflette anche in carcere fino ad interiorizzarsi come disagio esistenziale che esplode con reazioni psicosomatiche, autolesionistiche, tentativi di suicidio.
Si constata scarsa attenzione e disponibilità da parte di enti pubblici a programmare iniziative e interventi rivolti alla prevenzione, all’educazione alla legalità, al contrasto di comportamenti devianti e criminali.
Dedicare tempo e risorse alla prevenzione è estremamente utile non solo per apprendere dalle esperienze degli altri (detenuto, tossicodipendente, clandestino, vittima di reati, …) ed evitare possibili ed analoghe conseguenze, ma anche perché nei processi di inclusione o integrazione devono esserci persone disponibili a relazionarsi, ad accogliere, a promuovere la cultura del dialogo e dell’interazione.
Il carcere certifica lo stato di svantaggio sociale e di persona svantaggiata quando ormai la persona è giunta al capolinea: un intervento promosso e pianificato prima sarebbe meno oneroso, più efficace e socialmente più utile.
Lo stato e gli enti pubblici locali concedono delega ampia riproponendo una concezione carcero-centrica secondo la quale è l’Istituzione penitenziaria che conosce e si occupa dei problemi del carcere e, pertanto, ha titolo di programmare e utilizzare gli interventi, i contenuti e la metodologia più funzionali per il trattamento dei detenuti. In realtà non esistono nei processi pedagogici e formativi posizioni di monopolio; e, inoltre, la formazione è un processo che dura tutta la vita, la quale è più lunga della parentesi esistenziale vissuta in carcere.
Per attivare percorsi di (re)inserimento lavorativo di detenuti si valutino contestualmente i requisiti giuridici e i requisiti professionali: se si tratta di inserimento lavorativo, non si può prescindere dal presupposto che la persona detenuta possegga la competenza professionale, le abilità sociali e le motivazioni individuali a svolgere le mansioni lavorative richieste.

SE IL CARCERE:
È UN CONTENITORE

Usare il carcere come un contenitore nel quale collocare tipologie di persone con bisogni e domande diverse significa creare i presupposti per la deriva della giustizia.
I reati, i processi, le condanne attirano l’attenzione dei media che da qualche anno dedicano risorse, tempo, mezzi ed impegnano operatori in modo sconveniente per istituire processi paralleli negli studi televisivi anticipando il dibattimento nelle aule dei tribunali.
In queste messinscene il risultato che si ottiene è davvero mortificante perché ingenera confusione, inquietudine, impossibilità di acquisire conoscenza e di avere consapevolezza per riflettere sulle questioni fondamentali che caratterizzano il comportamento-reato.
Da alcuni anni si continua a ridurre il budget per il funzionamento delle attività collegate al sistema della giustizia con l’intento dichiarato di contenere le spese. Questa tendenza, a conti fatti, diventa, però, più onerosa per i costi umani e sociali conseguenti ai reati commessi e perché limita le risposte alle pressioni dell’emergenza e non piuttosto ad una seria e ponderata progettualità che programmi e pianifichi interventi mirati. 

di Antonio de Salvia

Antonio de Salvia




L’università entra in carcere

Alla Casa circondariale di Torino

Viene spesso definito «scuola di crimine». L’esperienza in carcere dell’Università di Torino dimostra che è possibile uscire da questo vicolo cieco. Chi ha deviato potrà tornare nella società più consapevole e più preparato. E il tempo della pena non sarà stato tempo perso.

Il Polo universitario per studenti detenuti presso la Casa circondariale «Le Vallette» (dal 2003 «Lorusso-Cutugno») è nato da un Protocollo d’intesa del 27 luglio 1998 stipulato fra l’Università di Torino, il Tribunale di sorveglianza, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Torino e la direzione della Casa circondariale. Con il Polo universitario si offre la possibilità a un certo numero di studenti provenienti dalle carceri di tutta l’Italia (alle quali viene inviato il bando per l’ammissione al Polo universitario) e in possesso di diploma di istruzione secondaria, di iscriversi all’Università di Torino o di continuare gli studi se già iscritti in altre sedi.
Il Polo universitario trova le sue premesse nell’attività di volontariato compiuta in passato da alcuni docenti della Facoltà di scienze politiche, che si recavano nelle carceri del Piemonte per fare attività di tutorato e per far sostenere gli esami agli studenti carcerati, che negli anni ’80 e nei primi anni ’90 erano prevalentemente detenuti «politici». Questa attività didattica era stata accompagnata da una ricerca – teorica e sul campo – svolta da docenti e da detenuti, col supporto delle autorità carcerarie, e aveva portato alla pubblicazione di un volume di vari autori curato da Luigi Berzano, «La pena del non lavoro» (Franco Angeli, Milano 1994).
L’iniziativa di un intervento di sostegno alle attività di risocializzazione dei detenuti è stata quindi ripresa nel 1997 su iniziativa di alcuni docenti della Facoltà che già avevano partecipato alla precedente esperienza (1).
Il progetto del Polo è sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, la quale finanzia il pagamento della prima rata delle tasse universitarie degli studenti (mentre per la seconda rata sono esonerati dall’Università), l’acquisto dei testi e del materiale didattico, e il contratto di una persona per il cornordinamento della didattica. L’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, in collaborazione con il comune di Torino, mette a disposizione borse-lavoro per gli studenti che sono in regime di semilibertà per permettere loro di frequentare le lezioni all’Università, di studiare e di lavorare e di iniziare così un percorso di reinserimento sociale.
La sezione del Polo universitario (padiglione B) è composta da 22 celle singole, aperte dalle 7 alle 21 per permettere agli studenti di seguire le lezioni e di studiare insieme; di un’aula dove si tengono le lezioni, e di due aulette per i colloqui; un’aula con i computer e la biblioteca con i testi relativi alle materie d’esame.
Le due Facoltà organizzano ogni anno i corsi relativi ai piani di studio previsti: i docenti e i ricercatori (tutti volontari) svolgono le lezioni (in media 10, ognuna di circa 3 ore) direttamente nella sezione, dove si sostengono anche gli esami. Sono attualmente impegnati circa 40 docenti afferenti alle due Facoltà, affiancati da altrettanti assistenti e collaboratori e da un tutor che si occupa del cornordinamento organizzativo e didattico. I corsi di laurea attivati sono: corso di laurea triennale in scienze politiche; corso di laurea triennale in scienze giuridiche; un corso di laurea specialistica in scienze politiche; un corso di laurea magistrale in giurisprudenza (2).
Il numero ridottissimo delle detenute (e in genere la brevità della loro pena) non consentono l’istituzione del Polo femminile, ma per l’unica donna (la seconda) iscritta alla Facoltà di giurisprudenza del Polo, e che non può seguire le lezioni nella sezione maschile, i docenti svolgono attività di tutorato nella sezione femminile della Casa circondariale. Gli studenti sono attualmente 16, dei quali 13 italiani e 3 stranieri (dal 1998 gli iscritti sono stati circa 70). A questi si aggiungono altri 4 studenti iscritti al Polo, ma non presenti in sezione.
I laureati finora sono stati 11, di cui 9 in scienze politiche (uno con il vecchio ordinamento); 2 in giurisprudenza (entrambi vecchio ordinamento). Uno degli studenti, laureatosi in scienze politiche con 110 e lode ha vinto il Premio Optime istituito dall’Unione Industriale e ha ottenuto un permesso speciale per andarlo a ritirare.
Le motivazioni che hanno spinto l’Università ad interessarsi del carcere sono di carattere sociale e civile da un lato, in quanto si ritiene che il carcere sia un luogo di ricupero, riabilitazione e reinserimento sociale; scientifico e didattico dall’altro (Dora Marucco in Convegno Carcere e società, pp.49-51).
L’istituzione del Polo risponde all’esigenza di garantire a tutti  il diritto allo studio (sancito dalla Costituzione), anche ai livelli più elevati, in qualsiasi condizione della loro esistenza, purché sussistano le premesse per aspirarvi. L’Università, che svolge un compito di formazione e di cultura nei confronti dell’intera società, si impegna affinché i detenuti iscritti alle due Facoltà possano effettivamente studiare, completando il loro iter scolastico. L’attività didattica rivolta agli studenti detenuti parte dalla consapevolezza che tutte le istituzioni, nel momento stesso in cui ha inizio l’espiazione della pena, devono operare per far sì che chi affronta questa dolorosa esperienza non sia isolato e separato dalla società in cui dovrà rientrare.
Tutti i docenti che collaborano a questa iniziativa sono convinti, inoltre, che la cultura è libertà, impegno, fatica che richiede senso del dovere, momento di dialogo, e che la crescita culturale sia un patrimonio sociale da incrementare a beneficio di tutti; il possesso di maggiori capacità critiche favorisce certamente una collocazione più consapevole all’interno della società, con cognizione dei diritti e dei doveri e senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e delle istituzioni.
Se tutto ciò ha un peso nel processo di risocializzazione del detenuto, lo ha anche per l’interesse scientifico che l’Università esprime verso ogni forma di manifestazione umana e nei confronti degli ordinamenti e delle istituzioni che la società appronta per governare i comportamenti. Sul piano didattico per l’Università il Polo è una sfida continua a creare e a sperimentare metodi di insegnamento diversi (rivolti a studenti lontani dalle sedi universitarie), a realizzare una preparazione culturale in condizioni sottoposte a costanti mutamenti e tenendo conto del fatto che gli studenti sono eterogenei sia per età, cultura, lingua, diversità delle esperienze di vita, sia per la distanza temporale dalle esperienze di studio precedenti.
Claudio Sarzotti ha messo in evidenza (Carcere e società, pag.100) che l’esperienza del Polo è utile non solo per gli studenti detenuti ma anche in direzione opposta, poiché ha segnato una maggior sensibilità da parte dell’Università ai problemi del carcere e al ruolo che essa deve svolgere nei confronti dei cittadini che stanno pagando il loro debito con la società. Questa iniziativa è utile anche per molti docenti che, con il loro bagaglio di inevitabili pregiudizi, si sono recati in carcere e si sono forse sorpresi del mondo che vi hanno trovato. Si impara molto di più a riguardo della pena e della giustizia dall’impatto emotivo che si subisce entrando in un carcere che dalla lettura di tanti libri. Quanti luoghi comuni sul carcere vengono sfatati appena si faccia esperienza, anche sommaria della realtà materiale di un istituto penitenziario, dei vincoli, condizionamenti, impedimenti, regolamentazione dei tempi…, quelli che l’ex direttore della Casa circondariale Lorusso-Cutugno, Pietro Buffa, ha definito i «supplementi di pena», cioè i riti, le mortificazioni, le situazioni frustranti a cui sono sottoposti i detenuti (3).

UN’ESPERIENZA
CHE NASCE DALLA STORIA

Anche se esistono Poli universitari in altre carceri, quello di Torino è l’unico nel contesto italiano in cui i docenti tengono i corsi, esaminano gli studenti, organizzano le commissioni per la discussione delle tesi di laurea all’interno della struttura carceraria.
Forse si può spiegare come mai è sorta proprio a Torino l’esperienza del Polo universitario se si richiamano alla memoria due precedenti illustri, contemporanei della notevole  attività di assistenza e di conforto dei carcerati e dei condannati a morte svolta da San Giuseppe Cafasso.
Nel 1833 Carlo Alberto, che intendeva mutare la funzione del carcere da semplice luogo di reclusione e di pena in un’istituzione tesa alla rieducazione civile del detenuto, aveva affidato a Cesare Alfieri di Sostegno e a Cesare Balbo l’incarico di proporre uno schema di riforme e di miglioramento da introdursi nelle carceri. Insieme elaborarono, dopo aver condotto frequenti visite alle varie strutture carcerarie, un progetto per la costruzione di una prigione modello capace di contenere 400 detenuti, che avrebbe dovuto rispondere a requisiti di sicurezza, igiene e solidità. Il progetto fu poi abbandonato, ma ripreso da Vittorio Emanuele II con l’edificazione del carcere «Le Nuove» nel 1869.
Ben più efficace, concreta e modea era stata già nel 1821 l’attività di Giulia di Barolo in favore delle carcerate. Non potendo, durante le sue visite, parlare apertamente con le detenute, perché era obbligatoria la presenza del custode, Giulia di Barolo ottenne di farsi chiudere a chiave in cella come se fosse anch’essa prigioniera, per conoscere più a fondo le condizioni di vita delle carcerate e i loro problemi. Fra i molti risultati da lei ottenuti vale la pena poi ricordare che si adoperò personalmente perché venissero istituite carceri solamente femminili, organizzò corsi di alfabetizzazione e foì i mezzi perché le detenute avessero un’occupazione retribuita. Giulia scrisse, nelle sue Memorie sulle carceri, che la detenzione non deve essere soltanto punitiva ma anche rieducativa, che «mai l’orrore del crimine faccia trattare con disprezzo il criminale».
Non vorrei che il confronto sembrasse improprio o presuntuoso, ma non c’è dubbio che vi è una grande differenza, anche a livello culturale e formativo, tra il permettere ai detenuti di essere iscritti all’Università e di sostenere gli esami nelle sedi universitarie, come avviene in altre carceri italiane, o invece recarsi in carcere e seguire direttamente e in modo continuativo la formazione degli studenti, anche attraverso il dialogo e la conoscenza personale. È per questa ragione che tutti coloro che sono coinvolti in questa esperienza credono fermamente di poter realizzare quel percorso che gli studenti detenuti, in un documento presentato alcuni anni fa, avevano dichiarato di voler seguire: detenuto; detenuto-studente; studente-detenuto; libero-laureato.
Alcuni risultati, pur tra molte difficoltà, li abbiamo già ottenuti con 10 laureati e il reinserimento di alcuni nella società e nel mondo del lavoro.

«C’È QUALCUNO
CHE TI ASCOLTA»

«Il Polo universitario – hanno scritto alcuni studenti carcerati -, prima di essere una sezione all’interno di un carcere, è un gruppo di persone. Tra queste persone ci sono studenti, professori universitari, volontari, scrittori, artisti, giornalisti, educatori, direttori, pochi agenti penitenziari, mi piacerebbe pensare per assurdo che non ci sono detenuti. Perché il progetto Polo universitario permette alla cultura di entrare in carcere quotidianamente, di aprire le porte. Cultura significa libertà, comunicazione soprattutto, analisi critica. La comunicazione è la sacra scintilla che si trasmette da uomo a uomo, essa è l’essenza della libertà… Il Polo universitario permette al detenuto di spogliarsi dell’etichetta che gli hanno affibbiato, e al di là della maschera ritrovarsi, come persona, libera di parlare.
Cultura non significa stare sui libri dalla mattina alla sera. Essa ha bisogno di spazio, d’incontro, di confronto, di attività. E il Polo universitario svolge un ruolo attivo e allo stesso tempo difficile in questo senso. Al suo interno le persone s’incontrano al di là dei muri e delle finestre a sbarre e dei 14 cancelli che dividono le persone di dentro dalle persone di fuori. Si creano così le basi per imparare e mettere in pratica valori come l’amicizia e la solidarietà, valori importanti per rompere lo stato di costante isolamento a cui è sottoposto un individuo detenuto. Ma la cosa più bella della sezione Polo universitario è che lì qualcuno, qualsiasi cosa tu dica, ti sta ad ascoltare, indipendentemente dal reato, dal passato, dalla posizione sociale e da ogni altra sovrastruttura che maschera.
Come sezione all’interno del carcere, il Polo consente ai detenuti di migliorare non solo le proprie condizioni di vita ma altresì la propria considerazione di sé. La maggior parte delle persone ospitate sono state condannate a pene di reclusione della durata di alcuni anni, e la possibilità di usufruire di celle singole e di computer, l’opportunità di incontrare quasi ogni giorno professori universitari, dottorandi, i ragazzi del servizio civile, nonché l’eventualità di conseguire una laurea, sono senz’altro il migliore stimolo per non buttare via il tempo della pena. Oltre ai corsi di laurea in scienze politiche e in giurisprudenza, si svolgono incontri con musicisti, scrittori, giornalisti, attori di teatro, che sono occasione di confronto fra storie personali profondamente diverse e che consentono di sviluppare un senso di autocritica, necessario per la vita al di là delle sbarre».

RICORDANDO
CESARE BECCARIA

La Costituzione parla di rieducazione all’interno del carcere. Ma il carcere è una struttura totale, che allontana la persona dalla propria famiglia, dai propri amici, dalla sicurezza della vita quotidiana, da quelle piccole cose come l’essere chiamato per nome. Impedire all’individuo di prendere decisioni sull’organizzazione della propria vita, sorvegliarlo costantemente e costringerlo ad abituarsi a uno stile di vita coatto, non significa rieducare ma «prigionizzare». E la prigione, si sa, è una «scuola del crimine».
Foucault ha scritto che «la prigione è la vendetta della società contro la giustizia». Noi diciamo che il Polo universitario, così come ogni altro serio progetto in grado di aprire le porte del carcere e le menti dei detenuti, è la vendetta della cultura contro l’ingiustizia, o addirittura contro la prigione.
Per concludere vorrei nuovamente sottolineare, con le parole di Gian Mario Bravo, che il Polo universitario per studenti detenuti apre il carcere all’esterno, crea un contatto con la società, nella convinzione che chi ha deviato debba ritornare in essa più consapevole, più preparato ad affrontae i rischi, dotato di qualche strumento in più. Per questo motivo apporta un contributo, forse non elevato da un punto di vista numerico, ma sicuramente significativo per l’impatto con la società civile, per il recupero, la riabilitazione, la risocializzazione di persone che in qualche modo hanno «sbagliato» ma non per questo devono vedere sminuiti i loro diritti di uomini e cancellate le loro potenziali capacità intellettuali. Il Polo dunque porta un contributo affinché il mondo del carcere, in un settore di decisiva rilevanza quale è quello della formazione, dell’educazione e qualificazione permanenti, possa venir visto non solo in funzione della pena, ma anche e soprattutto per la riabilitazione, come già sostenne più di due secoli fa Cesare Beccaria. 

Di Maria Teresa Pichetto

Maria Teresa Pichetto