Scuola con… battiscopa

Iringa: una giornata con i volontari dell’Allamano Centre

Fondato e diretto dalle suore missionarie della Consolata, l’Allamano Centre comprende asili, scuole, ambulatori e assistenza medica, soprattutto con attività di prevenzione dell’Aids e di attenzione a famiglie e singole persone sieropositive. Oltre a una ventina di persone impiegate a tempo pieno (medici, infermieri, consulenti, addetti ai laboratori, ecc.), il Centro si avvale della collaborazione di 70 volontari che gioalmente assistono i malati a domicilio.

Un odore di cipolla, misto a sudore e urina mi blocca le narici. Joseph è lì che aspetta solo di morire. La malattia è devastante. È devastato! Metastasi di pensieri mi bloccano il cervello. È troppo giovane. È un bravo ragazzo. Non si può morire così. Ma è sereno. Crede in Dio e mi dice che le missionarie della Consolata gli hanno fatto sentire l’amore di Dio e le volontarie dell’Allamano Centre lo aiutano.
La moglie non c’è. È andata a prostituirsi, per una manciata di scellini, contagiando altri o andando con altri contagiati che a sua volta trasmetteranno il virus. Non c’è famiglia che non sia stata colpita dall’Aids. Il pombe, un fermentato alcolico, ubriaca la testa e l’anima. E il virus si propaga. L’amore e il sesso qui sono la stessa cosa. L’amore è libero per natura. Non ci sono preconcetti, non c’è protezione, non c’è contraccettivo mentale. «Siamo tutti malati. Il condom non ha fermato la trasmissione, anzi – mi dice Joseph -, quindi è inutile rinunciare.

Due ore nel bush con Concetta e i volontari dell’Allamano Centre, struttura per la cura e il sostegno a malati sieropositivi, ideata, realizzata e gestita dalle missionarie della Consolata, con l’aiuto di medici, psicologi e personale tanzaniano.
Un caldo che ti scioglie il midollo. Non sento più le labbra arse dal caldo e il corpo. Saltiamo buchi, attraversiamo campi desolati, mangiamo polvere. Concetta, una straordinaria italiana che ha scelto di vivere qui aiutando le missionarie della Consolata e i tanzaniani, tira dritto. Guida decisa nel bush. Ormai lo conosce bene. È da più di un anno che accompagna i volontari dell’Allamano Centre nel giro ai malati terminali, quelli che non hanno più la forza di andare al centro per prendere le medicine.
Ogni giorno è un colpo al cuore. Bambini e giovani che vede morire, o trova già morti. Ma Concetta riesce a strappargli e strapparti un sorriso, sempre. E tutti le vogliono bene. Girare con lei è un divertimento. Con un accento tipicamente campano parla in kiswahili. Dopo ore di sabbia, spine e campi di girasole, imbalsamati dal sole, arriviamo a casa di un altro malato. Anastasia. Cinque figli. Tre morti. Il marito già morto l’ha contagiata, forse senza saperlo.
Una lamiera arrostita a 35°, girasoli a seccare. Un bimbo in lacrime ci viene incontro, spaventato e incuriosito. Vivono talmente distanti dalla città e così inteati nel bush che avrà visto raramente i wazungu. Si avvicina, vuole toccare la mia macchina fotografica, ma si ferma a dieci centimetri dal mio ginocchio e immobile mi fissa. Mi sfiora un ginocchio continuando a fissarmi. Due grandi pupille nere mi sfondano il cuore. Ha solo tre anni e probabilmente è malato.

Toiamo a casa e ci accoglie suor Luisella Benzoni. Una pazzesca suora missionaria che, oltre a prendersi cura di un asilo affollatissimo, insegna e si occupa di altre cento cose, come tradizione per le missionarie della Consolata.
Luisella mi prende subito il cuore. Visito la sua scuola, che gestisce in tipico stile lombardo. Mi fa sorridere la sua precisione, la sua organizzazione in una realtà dove non esiste ordine. Non esiste la parola organizzazione. E lei lo sa bene e ride con me di questo. Due occhi blu e un accento bresciano che mi hanno fatto ridere e divertire per settimane. La sua serietà e organizzazione è direttamente proporzionale alla sua ironia e simpatia.
Ma questa sua ironia, sono convinta, è una protezione contro la disperazione che vive e sente ogni giorno. La sua scuola è un asilo e scuola pre-elementare che ha bisogno di tanto, ma la sua cura e il suo amore lo fanno sembrare bellissimo. Personaggi della Walt Disney disegnati sui muri ci danno il karibu (benvenuto) e 130 bambini, bene ordinati, mi intonano l’inno del Tanzania, mi cantano la Vecchia fattoria, mimando gli animali e mi rendono partecipe in una loro lezione.
Suor Luisella ha fatto una delle cose più difficili ma necessarie: insegnare alle maestre e ai bambini che la scuola è fondamentale ma per essere accessibile a tutti deve essere curata, un senso civico che manca da troppo tempo anche a noi italiani. Ho conosciuto le sue maestre che ridipingevano un battiscopa, una cosa del tutto estranea alla cultura africana. Questo dimostra quello che ho sempre pensato e sostenuto: l’Africa non ha bisogno di una scuola da terzo mondo, dove bisogna accontentarsi, dove la creatività fatta anche da poco, l’ordine, la pulizia sono solo eufemismi.

di Romina Remigio

E non finisce qui

Sono ripartita da Dar Es Salaam il 21 maggio alle 21.20 con un volo della Swiss Air, dopo aver saltato per più di un’ora e mezza per le strade di Mbagala, nel taxi di Goldwin, accompagnata da due amiche speciali che hanno voluto addolcire quello che sarebbe stato il trauma della partenza.
Era già notte, quando ho lasciato Mbagala, il villaggio che mi ha ospitato per mesi; anche la luce elettrica come sempre se n’era andata. Abbiamo caricato la macchina, illuminati solo da un cielo stellato straordinario, che mi ha augurato safari jema (buon viaggio).
Ho salutato velocemente gli amici, le bibi (nonne) e zie con un inevitabile nodo alla gola. Su un sedile di velluto liso, cercavo di fissare nella mente, naso e orecchie immagini, odori e suoni di Mbagala.
Arriviamo in aeroporto che già la gente è in fila per il check-in. Un vento caldo e umido mi attraversa e mi sbatte in faccia. Penso che sto per partire, sto per lasciare il Tanzania. Ogni passo verso il check-in mi tuona dentro come una pugnalata. Devo salutare le mie amiche e penso alle altre missionarie che mi hanno rapito il cuore, ma non riesco a reggere l’affetto dei loro sguardi. Carica di zaini, borse e con una zucca, che sarà motivo di discussione da Dar Es Salaam in Svizzera, perché sembra troppo stravagante girare con una grande zucca, le abbraccio ed entro.

Salita sull’aereo avverto immediatamente la fredda consapevolezza di essere in Europa. Caos, musica e sorrisi africani sono stati prontamente sostituiti da distratti sguardi svizzeri.
Un’italiana, contenta e convinta di aver trovato un’altra italiana, mi vomita tutto il suo risentimento nei confronti dei tanzaniani e del caos del Tanzania; me la cavo con un «sorry, I don’t speach italian» (spiacente, non parlo italiano) e, incollata al finestrino, l’iPod impiantato nelle orecchie, cerco di confondere pensieri e ricordi che affollano la testa. Lascio la pista di Dar Es Salaam con Elton John che canta Your song. Chiudo gli occhi sperando solo di addormentarmi e svegliarmi a Zurigo.
Arrivo alle 6.45 in una Zurigo grigia, umida e fredda. Un aeroporto modeissimo, pulitissimo, fighissimo… tutto issimo. Ordinati e in un silenzio troppo fastidioso seguo i miei compagni di viaggio al controllo bagagli. Ci esaminano come fossimo terroristi. Gli apparecchi elettronici devono seguire un accurato controllo «svizzero».
E io in tipico stile profuga: infradito africane, jeans stra-scoloriti e strappati, felpa ancor più scolorita, abbondavo di apparecchiature elettroniche. Mi sento due occhi addosso. Alzo lo sguardo e mi ritrovo di fronte una «donnona» che esamina attentamente le macchine fotografiche, obbiettivi, computer, come se una fotoreporter fosse un mercante d’armi.
Accendo il telefonino che inizia a squillare all’impazzata per gli sms di amici che mi danno il benvenuto in Europa, tra sguardi urtati compostissimi vicini. Voglio il Tanzania! Voglio il caos, la musica, le grida dei bambini, i clacson delle macchine, la polvere e le buche!

O sservo due africani, cercando nei loro occhi la mia stessa disperazione. Sono una delle ultime a salire sull’aereo. Nemmeno il cioccolatino svizzero, in puro cioccolato al latte finissimo, riuscirà ad addolcire l’ultima ora e mezza di viaggio. Sorvoliamo Roma. La guardo dall’alto. Bella come sempre, ma sono davvero arrivata!
E ora sono qui, divisa tra due mondi, con la certezza che non posso tornare alla mia vita senza aiutare seriamente gli amici che hanno vissuto con me e le straordinarie missionarie capaci di prendere in mano il cuore dei più poveri e disperati tra i poveri, accarezzarlo e dargli la forza e il coraggio di andare avanti, vivendo con loro e cercando di aiutarli con progetti reali, ma fuori moda per le istituzioni inteazionali di cooperazione.
Credenti o meno, atei o non atei, la mia considerazione oggettiva finale, è che aiutando i missionari sicuramente possiamo aiutare questo popolo a liberarsi dal giogo che lo soffoca da decenni.

Romina Remigio




OLTRE LA GUERRA

Russia-Georgia: sullo stato delle cose

INTRODUZIONE

Già a proposito dei conflitti interni scoppiati in Georgia nel 1992/1993 si era parlato di «pulizia etnica», quando oltre 280 mila georgiani furono costretti a lasciare l’Abkhazia e l’Ossetia del Sud, per vivere in situazioni miserabili, profughi nel proprio paese.
Per 15 anni vari organismi inteazionali hanno discusso e proposto soluzioni per sopire le tensioni secessioniste delle due regioni e permettere agli sfollati di tornare nelle loro regioni di origine. Invece, i tragici eventi dell’agosto scorso, in cui si sono fronteggiati l’esercito russo, quello georgiano e le milizie separatiste dell’Ossetia, hanno provocato centinaia di vittime e un esodo di massa dall’Ossetia del Sud, raddoppiando il numero dei profughi.
Sono risuonate di nuovo le parole «genocidio» e «pulizia etnica» come accuse reciproche  tra Mosca e Tblisi: la Russia ha accusato la Georgia di aver condotto un’operazione di pulizia etnica contro il popolo osseto; la Georgia si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Aja accusando la Federazione russa di avere messo in moto una crociata basata su «atti di discriminazione razziale» e di avere condotto con il suo esercito una «metodica pulizia etnica» nei confronti dei georgiani delle due repubbliche separatiste.

Vicende storiche e interessi economici e politici immediati condizionano l’informazione su ciò che sta capitando nel piccolo ma strategico paese caucasico. Con questo breve dossier vogliamo aiutare, per quanto è possibile, a leggere la realtà, senza schierarsi con l’uno o l’altro contendente.
Anzi, in qualche modo vogliamo schierarci, ma dalla parte delle vittime della guerra e delle violenze dei mesi scorsi: sono circa mezzo milione le persone che hanno dovuto fuggire dalle violenze e rifugiarsi nei campi profughi. Alcune hanno iniziato a tornare nelle loro case e a ricostruire la propria vita; la maggioranza, invece, non ha alcuna speranza di ritorno e dipende totalmente dalla solidarietà internazionale.


OLTRE LA GUERRA

Sulla guerra dell’agosto 2008 tra Georgia e Russia si è scritto tanto, ma troppo spesso a sproposito.
La storia dei rapporti tra i due paesi è sempre stata complessa, ma non drammatica, sia durante l’impero russo che ai tempi dell’Unione Sovietica. Le cose sono cambiate in epoca recente (primi anni Novanta), con il nazionalismo georgiano e l’arrivo (non disinteressato) di Washington. Da ultimo va sottolineato che, contrariamente alla vulgata occidentale, il deficit di democrazia e libertà non è soltanto russo. Perché Tblisi e il presidente Saakashvili non sono attori immacolati.

Il recente conflitto tra Russia e Georgia ha imposto all’attenzione internazionale la regione caucasica, le cui dinamiche storiche e politiche sono nel complesso assai poco note (1). Tale conflitto è stato descritto e interpretato in maniera varia e contrastante, molto spesso pregiudizialmente a sostegno dell’una o dell’altra parte (2). Questo articolo mira invece ad affrontare, più che a rispondere, una questione tanto importante quanto complessa: la guerra di agosto è stata davvero l’esito di un secolare e inevitabile contrasto tra la Russia e la Georgia?

AI TEMPI DELL’IMPERO RUSSO

La Georgia ha una storia quanto mai remota, che risale al primo millennio a.C., entrando presto a contatto con la Grecia, l’Iran e Roma. La Georgia è anche uno dei primi paesi a convertirsi al cristianesimo – tradizionalmente nel 336, grazie all’opera di santa Nino – costituendo nei secoli una delle più antiche chiese ortodosse (3).
Dopo un periodo di particolare splendore, nei secoli XII-XIII, la Georgia si divise in piccoli regni e principati, indipendenti ma contesi a lungo tra gli imperi musulmani di Turchia e Persia, nonché minacciati dalle incursioni devastatrici dei bellicosi montanari del Caucaso settentrionale.  I viaggiatori e i missionari europei dei secoli XVII-XVIII (Della Valle, Castelli, Chardin) concordano nel descrivere un paese devastato dalle invasioni musulmane e dal disordine interno, le cui regioni meridionali tendevano a islamizzarsi. Alla luce di questa difficile situazione politica, i georgiani iniziarono già nella seconda metà del XVII secolo ad avvicinarsi alla Russia, potenza cristiana e ortodossa in rapida ascesa, ma senza ottenere alcun aiuto concreto ed esponendosi invece ai sospetti di ottomani e persiani.
Nel 1783 il re Erekle II, che pure era riuscito a riunire buona parte della Georgia orientale, riconobbe il protettorato russo. Il suo successore, Giorgi XII, inviò un’ambasciata a Pietroburgo per chiedere che la Russia esercitasse una piena autorità sul paese, a condizione che egli e i suoi successori potessero restare sul trono. Nel dicembre 1800, l’imperatore russo Paolo I non rispettò questa richiesta, peraltro contraddittoria, e proclamò invece l’annessione della Georgia orientale alla Russia (4). Nei decenni successivi l’impero russo conquistò anche tutti i territori della Georgia occidentale.
Nonostante l’affinità religiosa (il cristianesimo ortodosso) e sociale (anche in Georgia i contadini erano asserviti alla nobiltà), i georgiani accolsero in maniera alquanto negativa la perdita dell’antica e pur precaria indipendenza, anche a causa della politica, per molti aspetti ottusa, della Russia. In particolare, va segnalato il grave attacco portato all’identità religiosa della Georgia. Nel 1811 il patriarca Anton, appartenente alla famiglia reale, fu destituito e sostituito da un esarca russo incaricato di governare la chiesa georgiana, che perse così la sua antica autocefalia.
I primi decenni del dominio russo furono inoltre segnati da numerose rivolte anti-russe, sia contadine che nobiliari. Solo nei decenni successivi, soprattutto grazie all’accorta politica del viceré Michail Voroncov (1844-1855), la Georgia avrebbe trovato un inserimento più positivo all’interno dell’Impero russo. Nonostante le difficoltà politiche e religiose, per i georgiani, così come per i loro vicini armeni, l’inserimento nell’impero russo ebbe delle importantissime conseguenze storico-culturali. Da un lato pose fine alla secolare soggezione alle dominazioni musulmane, dall’altro consentì la recezione della cultura europea modea, sia pure attraverso la mediazione di quella russa. Non a caso la prima generazione degli intellettuali georgiani modei – i cosiddetti «padri» – è nota come Tergdaleulni, vale a dire «coloro che hanno superato il Tergi» per recarsi a studiare a Mosca e Pietroburgo (5).
Un altro fattore positivo dell’inserimento della Georgia nell’impero russo fu che, sia pure sotto una dominazione straniera, per la prima volta dopo molti secoli, il paese toò ad essere unito, superando almeno in parte il forte frazionamento regionale che ne costituisce una caratteristica fondamentale (6).
Anche i georgiani, peraltro, risentirono negativamente della svolta autoritaria e russificatrice che tutto l’impero russo conobbe dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. Una serie di misure restrittive li colpì soprattutto nella sfera dell’educazione, ma tale politica repressiva fu contrastata efficacemente da un forte movimento nazionale, guidato inizialmente da membri della nobiltà, che si levò a difesa della lingua, della letteratura e della cultura georgiane. Il progressivo rafforzamento di una identità nazionale modea e il difficile rapporto con la Russia spiegano come, nonostante lo sviluppo demografico, economico e culturale conosciuto in epoca zarista, dopo la rivoluzione d’Ottobre la Georgia si sia rapidamente resa indipendente. Un’indipendenza durata soltanto dal 1918 al 1921, sino all’invasione dell’Armata Rossa.
AI TEMPI DELL’URSS
Per sette decenni la Georgia fu inserita nell’Unione Sovietica e costretta a subie le politiche di collettivizzazione, lotta antireligiosa, repressione culturale e così via. Pur in questo contesto difficile e spesso tragico, il paese conobbe anche gli aspetti positivi dell’epoca sovietica: costituzione di strutture culturali modee (accademia, università), un forte aumento dell’istruzione media, una notevole industrializzazione e così via. Da segnalare anche il fatto che all’interno della Georgia, che costituiva una delle 15 repubbliche sovietiche, vennero costituite tre autonomie territoriali – Abkhazia, Ossetia meridionale e Agiaria – assegnate a minoranze etniche o culturali (7).
In definitiva, anche nell’epoca sovietica la Georgia conobbe tanto gli aspetti negativi quanto quelli positivi del sistema. Non c’è ragione per affermare che abbia sofferto più di altri paesi; anzi, il livello di vita e istruzione era tra i più alti dell’Urss. Sin dagli anni ‘70, inoltre, in Georgia iniziò a delinearsi un «nazionalismo eterodosso», capace, per esempio, di contrastare vivacemente i tentativi di Mosca di limitare l’uso della lingua nazionale (8).

I DISEGNI DI WASHINGTON (E QUELLI DI MOSCA)

Dopo la fine dell’Urss nel 1991, la Georgia, o almeno la sua classe dirigente, ha coltivato con ostinazione il progetto di un completo distacco dalla Russia e di avvicinamento all’Europa e all’Occidente in generale, che per molti aspetti appare in contrasto sia con la storia che con la  collocazione geografica di questo paese. Ma, come osserva ironicamente uno studioso russo, «… in Europa e negli Stati Uniti è possibile emigrare, ma divenire parte del mondo economico e culturale dell’Europa, ignorando la Russia, resta un desiderio irreale per tutte le regioni del Caucaso, nessuna esclusa» (9). 
Durante la presidenza fortemente nazionalista di Zviad Gansakhurdia (1991-1992) Tblisi si rifiutò di aderire alla Csi (10) e portò avanti una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle minoranze etniche presenti sul suo territorio (11). La Russia appoggiò allora le rivendicazioni indipendentiste di osseti e abkhazi, che sono riusciti a rendersi de facto indipendenti dopo violente guerre nel periodo 1991-93.
Tali conflitti, tra l’altro, hanno determinato l’emigrazione massiccia degli osseti dalla Georgia e dei georgiani dall’Abkhazia. Da allora truppe russe sono presenti nelle due entità secessioniste con funzione di peace-keeping e su mandato internazionale. La Georgia, peraltro, non ha mai accettato questa situazione, anche se durante la lunga presidenza di Shevaadze (1992-2003) non ha potuto in alcun modo ribaltarla.
La situazione è profondamente cambiata dopo la cosiddetta «rivoluzione delle rose», che tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 portò all’avvento di una dirigenza fortemente filo-occidentale guidata da Mikheil Saakashvili. Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore e l’aperto sostegno degli Stati Uniti (12).
Nell’ambito del più generale ridispiegamento strategico e militare verso sud-est, iniziato dopo l’11 settembre 2001, Washington ha infatti individuato nella Georgia il paese chiave della sua penetrazione nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian.
Al tempo stesso, tuttavia, dopo la disastrosa crisi post-sovietica degli anni ‘90, sotto la presidenza di Putin, la Russia è tornata a consolidare le sue posizioni, in particolare nel cosiddetto «estero vicino», vale a dire le ex repubbliche sovietiche, mettendo in dubbio quella «transizione egemonica» (13), che appariva inevitabile sino a pochi anni prima. Soprattutto nel Caucaso, i paesi e i popoli sono quindi in larga misura ostaggi non tanto di conflitti arcaici, come spesso si pretende, quanto piuttosto di questa rivalità geopolitica: mentre la Georgia e, in misura minore, l’Azerbaigian hanno assunto una posizione filo-americana, l’Armenia (incluso l’Alto Karabakh) e soprattutto l’Abkhazia e l’Ossetia meridionale continuano a essere schierate con Mosca.

L’UNIONE EUROPEA, LA NATO, IL KOSOVO 

In questa complicata situazione si è inserita da qualche tempo anche l’Unione europea. Dopo oltre un decennio di scarso interesse nei confronti della regione, nel giugno 2004 Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state incluse nella «Politica europea di vicinanza» (14).
Il nuovo atteggiamento di Bruxelles ha varie motivazioni. In primo luogo è collegato con la questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le frontiere europee direttamente sul Caucaso. Ma anche con la «rivoluzione delle rose» in Georgia, che ha profondamente modificato la situazione di questo paese, facendone il principale motore dell’avvicinamento all’Unione europea. Infine, la crescente preoccupazione europea per l’affidabilità delle foiture energetiche russe ha reso particolarmente rilevante la regione come via alternativa del transito di gas e petrolio (15).
Pur priva delle ambizioni egemoniche di Russia e Stati Uniti, l’accresciuta presenza europea nel Caucaso meridionale non ha però attenuato le tensioni regionali. La dirigenza georgiana, forte del dichiarato sostegno americano, è infatti decisa a riconquistare il controllo dei territori perduti.
Sin dal 2004 Tblisi è riuscita a riprendere pacificamente il controllo dell’Agiaria, una regione abitata da georgiani musulmani, che negli anni precedenti aveva conosciuto una sorta di blanda indipendenza, mentre ha condotto nei confronti di Abkhazia e Ossetia meridionale una politica fatta sia di proposte di vasta autonomia sia di pressione militare.
Già nell’estate 2004 vi furono scontri in Ossetia meridionale, mentre nel 2006 Tblisi rioccupò militarmente la valle di Kodori, in Abkhazia. L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni ravvivò allora la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhazia e Ossetia meridionale, tale annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia è stata a lungo respinta dalla Russia, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni intee (si pensi alla Cecenia) e inteazionali che avrebbe potuto avere.
Mosca ha invece largamente concesso la cittadinanza russa agli abitanti di Abkhazia e Ossetia meridionale, portando avanti una politica di sostanziale integrazione di queste regioni.
La situazione è tuttavia nettamente cambiata dopo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e di molti (ma non tutti) paesi europei dell’indipendenza del Kosovo, che ha comprensibilmente accresciuto le analoghe aspirazioni di Abkhazia ed Ossetia meridionale.
Un altro fattore che ha contribuito notevolmente ad aumentare la tensione nella regione è stata la richiesta georgiana di entrare nella Nato, tanto fortemente osteggiata da Mosca quanto caldeggiata dagli Stati Uniti. Il vertice Nato di Bucarest, nell’aprile di quest’anno, aveva però rimandato l’adesione georgiana, soprattutto per l’opposizione di alcuni paesi europei (Germania e Francia in particolare), preoccupati del sicuro peggioramento dei rapporti con Mosca che tale decisione avrebbe comportato.

AUTORITARISMO RUSSO E DEMOCRAZIA GEORGIANA?

Alla luce di questi precedenti, il conflitto russo-georgiano è stato in effetti improvviso, ma non certo imprevisto. Se il suo esito militare appare chiaro, più complesso risulta interpretae il senso e le conseguenze politiche.
Nonostante molti errori e incomprensioni, i rapporti storici tra Russia e Georgia non sono certo stati così negativi da doversi inevitabilmente concludere con una guerra. Né appare corretto, a differenza di quanto i media occidentali hanno largamente proposto, interpretare il conflitto di agosto come uno scontro tra l’autoritarismo neo-imperiale russo e la democrazia georgiana.
Infatti, se il deficit di democrazia e libertà di espressione della Russia odiea è ampiamente noto, ben poco si sa delle analoghe inclinazioni della dirigenza georgiana, che sarà anche filo-occidentale, ma ha brutalmente represso le manifestazioni dell’opposizione nello scorso novembre, gestito le elezioni presidenziali in maniera quanto mai contestata, nonché imposto su magistratura e informazione radiotelevisiva un controllo non molto differente da quello che viene rimproverato a Mosca (16).
In effetti, al di là delle gravi responsabilità di una dirigenza georgiana irresponsabile nel portare avanti una politica micro-imperiale, ammantata di slogan democratici, il conflitto di agosto può essere considerato essenzialmente uno scontro, breve ma cruento, tra l’egemonismo globale statunitense (che si serve del cliente georgiano) e quello locale russo (che utilizza invece abkhazi e osseti). Parlare a questo proposito di una nuova guerra fredda tra Russia e Occidente è del tutto fuorviante, ma sicuramente ci sarebbero buone ragioni per ripensare modalità e obbiettivi dell’espansione verso est della Nato e dell’Unione Europea. 

di Aldo Ferrari


Note:

(1) Per uno sguardo d’insieme sulla storia della regione caucasica e dei suoi conflitti si veda lo studio di A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Carocci, Roma 2007.
(2) Uno strumento utile per l’aspetto geopolitico è il volume «Quadei speciali di Limes», Russia contro America. Peggio di prima, settembre 2008, interamente dedicato al conflitto russo-georgiano e alle sue implicazioni globali.
(3) Sulla chiesa e la spiritualità georgiana si può fare riferimento soprattutto alle pubblicazioni di  G. Shurgaia (a cura di), Santa Nino e la Georgia: Storia e spiritualità cristiana nel paese del Vello d’oro, Edizioni Antonianum, Roma 2000; La spiritualità ortodossa. Martirio di Abo, santo e martire di Cristo, Edizioni Studium, Roma 2003; La Chiesa ortodossa di Georgia ieri e oggi, in A. Ferrari (a cura di), Popoli e Chiese dell’Oriente cristiano, Edizioni Lavoro, Roma 2008, pp. 249-303. Interessante anche lo studio di N. Gabashvili, La Georgia e Roma. Duemila anni di dialogo tra cristiani, Libreria editrice Vaticana, Roma 2003.
(4) Sulle controverse circostanze che portarono all’annessione della Georgia orientale alla Russia si veda lo studio di L. Magarotto, L’annessione della Georgia alla Russia (1783-1801), Campanotto Editore, Udine 2004.
(5) Il Tergi (in russo Terek), è il fiume che segna il confine, più simbolico che reale, peraltro, tra il Caucaso settentrionale e la Russia.
(6) Su questa fase della storia georgiana si veda soprattutto R. G. Suny, The Making of Georgian Nation, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1942, pp. 63-164.
(7) Occorre peraltro osservare che altre consistenti minoranze nazionali non ebbero alcun riconoscimento territoriale, in particolare gli armeni e gli azeri che costituiscono la maggioranza della popolazione in alcune regioni meridionali del paese. È molto probabile che proprio la mancata costituzione di queste autonomie abbia risparmiato alla Georgia post-sovietica altri conflitti etno-territoriali. 
(8) Cfr. H. Carrère D’Encausse, Esplosione di un impero? La rivolta delle nazionalità in U.R.S.S., tr. it. E/O, Roma 1988, pp. 235-239.
(9) A. Zubov, Il futuro politico del Caucaso, in P. Sinatti (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2001,  p. 68.
(10) La «Comunità degli stati indipendenti» (Csi) è una federazione di 11 dei 15 stati dell’ex Unione Sovietica. Gli esclusi sono i tre paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) e la Georgia.
(11) Cfr. O. Vasilieva, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. Santoro (a cura di), Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex Urss, SPAI, Milano, 1995, pp. 206-228.
(12) Cfr. P. Sinatti, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1, p. 292.
(13) Per «transizione egemonica» si intende il passaggio dal controllo – prevalente o assoluto – di uno stato ad un altro in una determinata regione. Nel caso del Caucaso meridionale, ovviamente da Russia a Stati Uniti.
(14) La «politica europea di vicinanza» (o vicinato o prossimità) è un insieme di misure politiche, giuridiche ed economiche che – senza costituire un passo ufficiale verso l’ingresso nell’Unione Europea – ne costituiscono però un importante presupposto. Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state coinvolte nella primavera del 2004.
(15) Cfr. A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, cit., pp. 131-132.
(16) Si veda al riguardo l’articolo, pubblicato in un sito non certo filo-russo, Reports slam Georgian Govement for use of force, authoritarian tendencies, in «Civil Society», http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav122107.shtml.
Anche Missioni Consolata ha parlato delle carenze democratiche della Georgia: nel numero di gennaio 2008 e sul numero monografico di ottobre-novembre 2008.


Aldo Ferrari




Il lungo inverno

Trai profughi georgiani

Terminate le ostilità tra Russia e Georgia, si sono spenti anche i riflettori dei mass media e nessuno parla più delle vittime di tali ostilità: circa 200 mila profughi e sfollati. Alcuni hanno cominciato a tornare alle proprie case, anche se danneggiate dai bombardamenti; per molti di essi, che hanno avuto la casa distrutta o che temono di rientrare nelle aree ormai per loro insicure, è invece iniziata una fase di vita da rifugiati, in strutture di accoglienza spesso carenti anche di servizi più essenziali o sicuramente inadatte a fronteggiare il duro inverno del Caucaso.

N uvole nere si ammassano nel cielo di Gori, la piccola città georgiana che diede i natali a Josif Stalin. Arrivano dal vicino Caucaso e sono da sempre un segno di sventura per contadini, soldati, poveri e sbandati.
Essere profugo in Georgia significa scrutare il cielo con crescente timore giorno dopo giorno, ma anche guardare con angoscia le foglie degli alberi che cadono. Già a ottobre scendono i primi venti gelidi dalle montagne e alla picchiata delle temperature che caratterizza gli invei da queste parti mancano solo poche settimane. Sarà dura passare un inverno chiusi dentro una tenda, assistiti da volontari che dispongono di tanta buona volontà e poco più.
È in corso uno scontro di interessi sulla pelle di circa ventimila persone, spostate come pacchi da una parte all’altra del paese. È terribile da constatare, ma il loro futuro appare legato sempre più all’interesse dei media inteazionali.
Chi ricorda il conflitto estivo del Caucaso che ha persino distolto l’attenzione dalle mirabolanti olimpiadi cinesi? Nessuno. Le vittime della guerra non fanno vendere se non nel momento iniziale del conflitto, dopo diventano mediaticamente improponibili.
La Georgia è un paese che vive in stato di non pace da circa tre mesi, di fatto occupato militarmente da una super potenza che ne controlla più di un terzo del territorio. È in corso una silenziosa guerra civile. In tutto il paese un sistema mafioso ben radicato alimenta traffici di ogni genere. Predoni sono liberi di girare per villaggi ormai abitati solo più da vecchi. La chiesa ortodossa georgiana, diffidente e aggressiva, non esita a dichiarare da che parte Dio in persona si piazza sul campo di battaglia.
Questa purtroppo è la Georgia di oggi. Una nazione con paesaggi spettacolari, tradizione e cultura, ma che ha avuto la malaugurata sorte di entrare in guerra con la Russia. Un paese che assomiglia tanto a un campo di battaglia, che ospita conflitti per interessi altrui.
In questo delirio nei prossimi mesi si dovranno assistere almeno ventimila profughi stanziali, che si aggiungono agli oltre duecentomila che dal 1991, anno del primo conflitto, vagano per il paese.
Molti tra questi tentano di spacciarsi come «nuovi» profughi nella speranza che la loro condizione possa migliorare.
Fortunatamente, l’aggettivo non è scelto a caso, la stragrande maggioranza dei 15 mila iniziali di quest’ultimo conflitto sono tornati a casa; a molti di loro la sorte non ha voltato del tutto le spalle: nessun lutto, nessun saccheggio e la casa ancora in piedi. I restanti ventimila invece sono persone sul cui telefonino appaiono messaggi come: «Ti abbiamo appena abbattuto la casa col bulldoozer, bastardo georgiano. Non tornare mai più». Sono gli sfollati dalle due regioni ribelli, Abkhazia e Sud Ossetia.

E siste l’orrore e abita da queste parti. Come fronteggiare questa situazione? Come lavorare nel caos totale? Chi comanda? Chi esegue? Chi ruba e chi no?
Soprattutto ora che i media inteazionali se ne sono andati, la Georgia è tornata a essere uno sconosciuto paese incastrato, perso chissà dove nel mondo.
Inizialmente il governo del colorito presidente georgiano Saakashvili, un ragazzone che ama affacciarsi dai balconi per arringare le folle, ha dato ordine di aprire scuole e asili per dare un tetto ai profughi. Sul chi dovesse dare assistenza materiale invece è tuttora un mistero. I municipi in linea teorica si occupano del cibo.
Se un profugo è «fortunato» e capita in una scuola dove copre il servizio la Caritas, mangia come al ristorante, con qualità e quantità sorprendenti. Se invece gli va storto e il rancio lo porta il camioncino del comune spesso si tratta di: pane (un chilo ogni dieci persone), pacchi tipo «razione k» dell’esercito americano (disgustosi), oppure cibo in scatola della mezzaluna rossa (ancora peggio). Questo provoca tensioni e frustrazioni; il senso di sfascio imminente cresce e genera una sfiducia contagiosa.

E ntrando in ogni scuola si notano subito mucchi enormi di vestiti: sono tutti regalati dalle persone che vivono nei paraggi. Roba lisa e vecchia, ma che con l’arrivo dell’inverno potrebbe divenire utile.
Per quanto riguarda l’igiene personale, la Caritas si occupa di distribuire del materiale arrivato soprattutto dalla Polonia. Ma containers possono arrivare anche da congregazioni religiose, fondazioni, privati. Mancano, soprattutto, pannolini per bambini, detersivo, prodotti per l’igiene.
Quando vengono distribuiti questi prodotti si assiste a delle scene molto amare: donne (sempre loro, sempre in prima fila, sempre a lavorare) che litigano furiosamente per un pacco di latte in polvere, un assorbente, uno shampoo.
Eroiche in questo caso sono le volontarie della Caritas, che con santissima pazienza discutono, convincono, responsabilizzano, compilano cento fogli per la burocrazia… In questo tipo di organizzazione, c’è spazio per tutti i soggetti che devono risolvere le emergenze senza sapere come, magari inventandosi idee e progetti in tempo reale.
Esempio: una volontaria che lavora per una Ong passa davanti a un asilo e scopre che mai nessuno ha portato prodotti per l’igiene (capita spessissimo). Inizia la ricerca che passa attraverso tutte le Caritas, i soliti missionari, ambasciate, Croce Rossa, ecc. Se riesce a mettere insieme ciò di cui abbisognano i rifugiati, carica tutto su un camioncino, anche questo da trovare, e lo distribuisce.
Passaggi istituzionali: zero. Organizzazione: zero. È il trionfo dell’arte di arrangiarsi, ma anche lo scempio del concetto di aiuto di stato.
Che l’anarchia regni sovrana è dato dal fatto che non si capisce se stiano arrivando containers con aiuti materiali oppure no. Il deposito Caritas di Tblisi, che dovrebbe fungere da centro di smistamento, è praticamente vuoto. I georgiani ironizzano che gli aiuti in arrivo per il loro paese si devono cercare a Mosca.
In questo marasma c’è spazio anche per le pagliacciate mediatiche: recentemente un cacciatorpediniere Usa ha attraccato nel porto di Poti e ha scaricato centinaia di pacchi di acqua minerale. Uno dei pochi prodotti che la Georgia esporta è l’acqua minerale.
Questo per quanto riguarda i territori non ribelli. Per il Sud Ossetia e Abkhazia nessuno sa nulla. Non si sa se ci siano profughi in Russia, né se chi non è scappato sia assistito da qualcuno. Le autorità di Tblisi non possono entrare dentro una zona occupata dai russi.
Secondo alcune testimonianze i militari sovietici starebbero portando centinaia di containers con ponti aerei. Ma di fatto si tratta di territori fuori controllo: le ultime notizie certe provenienti da Tskhinvali, capoluogo della Sud Ossetia risalgono a ottobre.

I l presidente georgiano Saakashvili ha chiesto al mondo due miliardi di dollari per la ricostruzione del paese. Se mai arriveranno, la gestione sarà un problema non da poco. La Georgia è un paese dove la corruzione dilaga, anche se è in diminuzione, almeno in certi settori come le forze dell’ordine; mentre la reputazione delle Ong locali è quanto di più debole possa esistere al mondo.
Le scuole che inizialmente ospitavano i rifugiati lentamente stanno tornando ad assolvere i loro compiti, così chi qui aveva trovato riparo si trova costretto a vivere in una tenda oppure a rifugiarsi dentro ex ospedali militari cadenti, basi dell’esercito, i vecchi blok sovietici.
Il governo georgiano con i soldi della comunità europea vorrebbe dare una casetta a ogni famiglia; ma voci critiche giungono dalle massime associazioni inteazionali: c’è il timore che tutto si possa trasformare in una immensa speculazione edilizia fatta ai danni di profughi, che verrebbero indotti, più o meno volontariamente, a lasciare le loro «nuove» abitazioni.
Ma non tutto è così nero come potrebbe sembrare, anche se le zone di luce sono quasi sempre legate alla presenza di istituzioni occidentali, curate e coccolate, certe volte anche troppo. Esistono infatti personaggi ambigui che girano per il paese a caccia di giornalisti occidentali cui vendere storie, emozioni, progetti con cui fare la famosa e sempitea «marchetta».
Sono personaggi senza scrupoli, spesso georgiani, che puntano a lucrare sulla massa di denaro in arrivo. Sono in caccia di pubblicità a basso costo e per questo non esitano a offrire pranzi, cene, e compensi vari.
Ma questa è un’altra storia. 

Di Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Un viaggio… rubacuori

Tanzania: diario di un’esperienza di interculturalità

INTRODUZIONE
P er due settimane, sotto la guida di padre Alex Moreschi, un gruppo di 14 studenti e altrettanti docenti, provenienti dagli istituti superiori di 5 città italiane (Milano, Torino, Catania, Brindisi, Napoli), sono stati in Tanzania per realizzare un viaggio-scuola di scambio culturale. Turisti «non per caso», quindi, ma preparati a cogliere con intelligenza e sensibilità tanti aspetti che sfuggono ai turisti superficiali.
Al loro ritorno hanno fissato in un diario alcuni ricordi di ciò che hanno visto e alcune delle esperienze ed emozioni vissute, a contatto con una natura ancora incontaminata, con una popolazione ospitale, ma alle prese con tanti problemi di povertà e sottosviluppo.
Hanno scoperto un’altra Africa, lontana dagli stereotipi con cui essa viene presentata dai nostri mass media. Un’Africa ricca di valori umani e culturali, orgogliosa della propria storia e cultura, impegnata a emergere in tutti i campi della vita intellettuale, economica e sociale per camminare con le proprie gambe, con lo sguardo rivolto a un futuro di speranza.

I giovani hanno familiarizzato con i loro coetanei; i docenti hanno scambiato le proprie esperienze con i colleghi delle scuole tanzaniane. Tutti hanno ammirato, con sensibilità e solidarietà, il lavoro dei missionari e missionarie a favore dei più bisognosi. 
È vero: il viaggio è stato troppo breve per comprendere molti altri aspetti positivi della gente del Tanzania, ma sufficiente per imparare tante cose. Il contatto interculturale ha insegnato a guardare alla realtà con più oggettività e umiltà, a sforzarsi di capire la diversità prima di giudicarla; a vedere le situazioni con gli occhi di chi le vive.
A contatto con la gente hanno capito che basta così poco per essere felice e nell’incontro con i missionari hanno constatato che anche con mezzi limitati si possono fare miracoli. Qualcuno in Tanzania ha lasciato il cuore; tutti sono tornati con la voglia di fare, incontrare, aiutare.                                     

Di Benedetto Bellesi

 
Roma 31.3.08
Ultimi Ripassi

S ul treno per Roma siamo in fermento: ci scambiamo conoscenze, idee, aspettative.
Abbiamo già imparato qualche parola in kiswahili: karibuni (benvenuto), jambo (ciao), habari (come stai), mzuri (sto bene), asante sana (grazie), tafadhali (per favore).
Confrontiamo le nostre informazioni sul Tanzania: sappiamo…
– che ha una superficie che è più del triplo di quella dell’Italia,
– che ha circa 35 milioni di abitanti contro i circa 58 milioni dell’Italia,
– che la metà della popolazione ha meno di 16 anni e che sono pochissime le persone che superano i 60 anni,
– che ha un altissimo indice di fertilità e che la popolazione sarà più che raddoppiata fra 20-30 anni,
– che c’è un’altissima mortalità infantile e che l’Aids colpisce circa il 7% della popolazione,
– che la vita media oscilla intorno ai 45 anni, mentre in Italia è di circa 75/80 anni.

S appiamo che saremo a sud dell’Equatore e che nel cielo vedremo le stelle dell’emisfero australe e la Croce del Sud. Ci raccontiamo della Rift Valley, dove è nata la vita, dei laghi incassati nella fascia occidentale della Rift Valley e dei 1.400 metri di profondità del Tanganika.  
Cerchiamo sulla cartina il Lago Vittoria, le sorgenti del Nilo, il Kilimangiaro, ai confini con il Kenya. Ci raccontiamo degli esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo, le storie di Livingstone, di Stanley…

A rriviamo a Fiumicino presto. In attesa di incontrare i nostri compagni di viaggio facciamo uno spuntino e un brindisi a base di succo di frutta e Malarone (facciamo una tabella per ricordarci la profilassi contro la malaria). Sono le 20 quando ci troviamo con gli altri, al check-in, «raccolti» dalla preside Giuliana di Ischia.
Verso le 23 partiamo con il volo della Qatar Airways, che fa scalo a Doha nel Qatar.

Dar es Salaam 1.4.08
Prime impressioni

A lle cinque del mattino siamo a Doha e verso le sette partiamo per Dar Es Salaam. Sorvoliamo l’Arabia: attraverso le nuvole vediamo il deserto attraversato da solchi di corsi d’acqua completamente asciutti.
Superato il Coo d’Africa, cerchiamo di intravvedere a ovest le cime del Kenya e del Kilimangiaro, che si perdono fra le nuvole.  Quando atterriamo a Dar Es Salaam vediamo per prima cosa una lunga fila di palme, una accanto all’altra contro il cielo azzurro e terso; l’aria è calda e secca: siamo in  Africa.
Sono le 14; siamo piuttosto provati dal viaggio. Ci siamo già conosciuti e mi sembra che possiamo fare un bel gruppo. Poco dopo arriva ad accoglierci padre Alex Moreschi, il missionario che ci farà da guida. Prendiamo posto su un pullmino e una jeep tipo anni ‘70, con sedili di plastica rovinata e «strapuntini»; con fatica i due autisti caricano i nostri infiniti bagagli sul tetto. Hakuna matata (non ci sono problemi).
Aggiungiamo altri termini al nostro vocabolario: pole pole (piano piano) quando il nostro autista va troppo veloce; kwenda (vai) e simama (fermati).

A ttraversiamo la città. Mi colpisce l’estrema povertà: lungo le strade, addossati a muri sbrecciati o seduti su vecchi copertoni, nel caldo afoso del pomeriggio, apparentemente senza aver nulla da fare, siedono uomini ed anche donne e bambini.
Si susseguono le catapecchie, i casermoni fatiscenti. Qua e là la miseria è interrotta da situazioni di un lusso incredibile: l’Hotel Kilimangiaro, con le sue torri di vetro, le macchine nuove, l’affaccendarsi di gente… la residenza del presidente, in un mega-parco… E poi ancora miseria.
Mi colpiscono i ragazzi che escono dalle scuole, in divisa, figure decorose.
Ci dirigiamo alla residenza del Tec (Tanzanian Episcopal Conference), che ci ospiterà nei giorni in cui stiamo a Dar Es Salaam. Chiusi da un cancello, alcuni edifici sobri ma decorosi si affacciano su un grande e rigoglioso cortile: ci sono  l’ostello che ci ospita, la chiesa, la mensa, un piccolo bar con una piacevole terrazza: tutto è semplice, ma pulito e piacevole.
Rifletto sul fatto che la semplicità e il decoro di questi edifici si collocano fra il lusso sfrenato degli hotel occidentali e la povertà delle capanne.

Kigamboni 2.4.08
Tra i banchi dell’asilo

D estinazione Kigamboni, una penisola di fronte a Dar Es Salaam, che raggiungiamo con un traghetto che avrà, se va bene, 50 anni. Non si sa bene se più azzurro o più ruggine; ospita, in una variopinta diversità, macchine vecchissime, pullmini e jeep, e, stipate in mezzo a questi, persone di ogni tipo ed età, tutte rigorosamente di colore, anche se di etnie evidentemente diverse. Siamo gli unici bianchi, guardati un po’ in tralice con aria di disprezzo…
Fotografiamo cautamente, fra carretti di verdura e gelato conservato in bidoni simili ai nostri della spazzatura.

L a penisola di Kigamboni ospita circa 120 mila persone, al 90% musulmani.
Incontriamo padre Dario Rampin, al Centro della Consolata. Padre Dario è stato in Tanzania la prima volta dal 1983 al 1986. Ci spiega che quelli erano gli anni dell’utopia socialista di Nyerere.
Nyerere, presidente della Tanzania dalla sua costituzione in Repubblica (1964) è stato una figura importante per il paese; ha governato per molto tempo, con integrità, cercando di favorire lo sviluppo attraverso la politica dell’ujamaa: valorizzazione della comunità-villaggio e messa in comune dei beni. I giudizi sulla sua politica sono discordi: c’è chi appoggia la linea della condivisione dei beni, chi invece osserva che questa politica più che alla condivisione della ricchezza ha portato alla condivisione della povertà e non ha favorito alcuno sviluppo.
Attualmente la politica dell’ujamaa si ritiene superata; la nazione, grazie anche al condono del debito estero nel 2000, ha avuto un discreto sviluppo.
L a scuola elementare è obbligatoria per tutti. La scuola superiore è riservata ai meritevoli, anche se negli ultimi anni c’è stato uno sforzo per moltiplicare le scuole, a scapito talvolta della qualità di queste, poiché non sono stati formati i docenti. Il dubbio di molti è: è ottimo avere molte scuole o è preferibile avere una ottima scuola?
I missionari sono ben inseriti sul territorio ed hanno un ottimo rapporto con il clero locale; le loro scuole sono frequentate anche da bambini e ragazzi di diversa religione.
Nella religiosità popolare, spesso la pratica della religione cattolica si mescola a elementi dell’antico paganesimo ed è molto presente la superstizione. Il missionario è benvoluto e rispettato, ma è comunque in parte considerato «estraneo».
La convivenza fra cattolici e musulmani è pacifica; sorgono talvolta dei problemi nei casi di matrimoni misti. La famiglia è in genere monogamica ed è molto unita.
Nel lavoro i tanzaniani sono più attenti all’aspetto della socialità che a quello dell’efficienza.

V isitiamo l’asilo costruito da padre Dario, che si chiama Asilo Serenella, ed è portato avanti da due maestre e una cuoca locali.
I bambini sono molto seri, ci stupiscono nelle loro divise con le camicie a quadretti viola e bianchi.  Nelle loro espressioni si coglie anche la fierezza… e la dolcezza.  Cantano per noi e noi, per fortuna, cantiamo per loro. I nostri ragazzi con un po’ di imbarazzo ma molto seriamente, improvvisano «Se sei felice…», «Ci son due coccodrilli…». 
Invasione con le macchine fotografiche e distribuzione di lecca lecca: qualche bambino non sa come togliere la carta al proprio…  Le maestre sono sbrigative, piuttosto brusche coi bambini.
Toiamo all’edificio della missione, dove padre Dario ci offre riso pilau e altre specialità locali.

A l pomeriggio bagno nelle acque dell’Oceano Indiano; poco sole, ma la linea di palme contro il cielo e la sabbia bianca sono bellissime. Il fondale vicino alla riva è sabbioso, sulla spiaggia si trovano grosse conchiglie e pezzi di corallo. Nuotiamo e passeggiamo.

P rima di tornare a casa ci fermiamo a visitare il mercato del pesce. Odori di pesce, di olio fritto, di spezie e di fogna si mescolano rendendo satura l’aria. Decine di rudimentali piastre arroventate dal carbone che brucia sfoano pesce dall’aspetto neanche male, ma che ci guardiamo bene dal comprare.
La fogna si getta in mare non molto lontano, e lì accanto un enorme polipo viene sbattuto sulla pietra per ammorbidie la carne. Dobbiamo guardare a vista le nostre ragazze, che suscitano l’attenzione dei maschi locali. Ci lasciamo prendere dalle bancarelle di conchiglie e giornielli locali.
Bancarelle anguste, sporco, buio, colore e odore e folla e vita brulicante… Poco più in là, si intravvedono le torri dell’Hotel Kilimangiaro.

Bagamoyo 3.4.08

Il porto degli schiavi

M i alzo alle sei del mattino per la messa in kiswahili. Concelebrazione di una dozzina di prelati, partecipazione di una quarantina di sacerdoti. Molte suore, che partecipano con il canto: bellissimo. C’è una linea melodica, decisa e dolce, accompagnata da una polifonia di voci che fanno bordone sui toni bassi.

D opo la colazione con i nostri automezzi ci rechiamo verso nord, diretti alla scuola superiore privata «Colleta Memorial School», dove ci accoglie il direttore della secondaria, Severino Kayanda, un giovane docente tanzaniano. 
Portiamo il nostro materiale da cancelleria e incontriamo i ragazzi delle superiori, con i quali, in inglese, ci scambiamo domande e informazioni sulle caratteristiche delle reciproche scuole. Dopo un po’ «rompiamo le file»: ci uniamo ai ragazzi e parliamo a piccoli gruppi, facendo amicizia, ragazzi con ragazzi e docenti con docenti.
Rafiki (amico): accanto all’inglese che usiamo per parlare è bello usare qualche espressione in kiswahili.
Nell’edificio di fianco ci accolgono i ragazzi delle medie, in divisa verde, che ci cantano il benvenuto in inglese. Con una capacità di cornordinamento eccezionale, cantano e danzano facendo cerchi, sfilando in linee che si intrecciano e si scompongono. L’atmosfera si scalda sempre di più, anche i nostri ragazzi cantano e infine tutti si uniscono in un’unica grande danza, animata dal rullare dei tamburi.

U n po’ a malincuore li salutiamo e ci dirigiamo a nord, verso Bagamoyo, il porto reso tristemente famoso dalla tratta degli schiavi. «Bagamoyo» significa: qui lascio il mio cuore. Nel secolo xvii e xix la tratta degli schiavi, ad opera soprattutto dei mercanti arabi, ma anche dei portoghesi, olandesi, francesi e inglesi, si sviluppa in tutta l’Africa, affiancandosi al commercio tradizionale. Gli schiavi, razziati nelle regioni intee, spesso intorno alla zona dei grandi laghi, venivano trascinati in catene per un cammino di giorni e giorni, spesso di mesi, in mezzo a savane desertiche dove molti morivano per gli stenti e per la fame.
Rinchiusi nelle prigioni sotterranee di Bagamoyo, fatti «ingrassare», venivano ammassati in fragili imbarcazioni per raggiungere le piantagioni di chiodi di garofano, di canna da zucchero… Pare che dei 17 milioni di schiavi catturati, 15 milioni siano morti di stenti prima di arrivare alla destinazione finale.
A Bagamoyo visitiamo il piccolo ma interessante museo, dove sono ancora conservate le catene, alcune riproduzioni dell’epoca, dove sono ricostruiti i luoghi di origine e di destinazione degli schiavi.
Accanto al museo sorge la chiesa costruita dagli irlandesi, prima missione europea in Tanzania. In questa chiesa è stato conservato il corpo del missionario ed esploratore Livingstone, che tanto contribuì alla scoperta della geografia dell’Africa centrale, prima di essere trasportata nella cattedrale di Westminster.

V orremmo fare il bis nella spiaggia, visto che ieri ne siamo stati affascinati, ma la pioggia torrenziale ce lo impedisce. Solo Patrizia, professoressa di Torino, incurante del diluvio, si avventura in una nuotata solitaria.
Ci consoliamo mangiando in un ristorantino tipico sulla spiaggia, riparati da un solido e ampio tetto di foglie di banano. Aragosta, fritto misto, ugali (polenta di mais bianco) con lo spezzatino… tutto buono ed economico; è simpatica la compagnia dei proprietari – europei – che ci magnificano il Parco Ruaha.
La pioggia ostacola anche la visita al porto di Bagamoyo, da cui gli schiavi partivano lasciando definitivamente la loro terra.

R itoo in città nel momento del traffico. Siamo immobili in una situazione che è un eufemismo definire caotica.
Intasati dagli scarichi di mezzi vecchissimi, che emettono fumo nero, assistiamo ai sorpassi e inversioni di marcia più spericolati che io abbia mai visto. Sembra che ad ogni momento qualcuno stia per essere investito o che si verifichi un incidente… Folle di persone sotto la pioggia si accalcano a inseguire fantomatici mezzi pubblici, così sovraffollati che le porte non si chiudono. Rumore, folla, puzza da gas di scarico, manovre spericolate… Ci mettiamo un’infinità di tempo per arrivare a casa. Mi sembra che il traffico di Dar Es Salaam sia molto più pericoloso della fauna dei parchi.

Ubungo 4.4.08

Scuole a confronto

V isitiamo il quartiere di Ubungo, popoloso rione in zona quasi collinare, dove, ai lati di una strada a scorrimento veloce, si dipanano strade sterrate e sconquassate, ai lati delle quali si affollano una sopra l’altra casupole e botteghe di pochi metri quadri, dove si espongono mercanzie di ogni genere, in prevalenza vecchi oggetti provenienti probabilmente dall’Europa.
Alla missione della Consolata, che si sviluppa attorno a una povera ed enorme chiesa dalle vetrate colorate, padre Pietro Cravero ci racconta la storia di questo quartiere. Ubungo è un quartiere che è cresciuto con l’inurbamento che ha caratterizzato questi ultimi decenni in Tanzania. Nel 1973, quando sono arrivati i missionari, nel quartiere c’erano poche case sparse; ora il sobborgo, formato da sette villaggi, è sovraffollato e i missionari faticano a stare dietro alle persone.
Il quartiere ha la fama di essere una zona di «benestanti», un termine che ci sembra poco appropriato a queste casette e baracche appiccicate l’una all’altra… Il quartiere rispecchia la realtà della città, che è passata dai 500 mila abitanti  di 15 anni fa ai 4 milioni attuali. Il quartiere e la città sono cresciuti vertiginosamente e selvaggiamente, senza infrastrutture adeguate. Basti pensare che la città non è dotata di una rete fognaria…  Il quartiere è tagliato a metà dalla trafficatissima strada a scorrimento veloce, dove si verificano investimenti con una regolarità impressionante.
V isitiamo l’asilo della missione, dove vediamo bambini in ordine e locali puliti e decorosi.   Padre Cravero ci accompagna a vedere la scuola elementare pubblica di Ubungo, dove egli è ben accolto, essendo stati all’asilo della missione molti dei ragazzini che studiano qui.
Su una collinetta di terra rossa, fradicia e scivolosa, sorgono alcune casupole lunghe e strette, buie e diroccate; all’interno di ciascuna di esse sono ospitate due/tre classi. Alle finestre, con le sbarre, si accalcano gli alunni che ci vedono passare. Le classi sono composte da sessanta/settanta bambini, alcuni dei quali sono seduti per terra perché i banchi non bastano. Gli scolari sono circa 2 mila. Le pareti sono sbrecciate, il pavimento di cemento ha diverse buche. Alcuni maestri correggono su un banco fuori dalle classi. Gli alunni vanno e vengono, alcuni sono nelle classi, molti altri fuori.
È molto difficile interagire. I nostri ragazzi sono bravi. Improvvisano con un gruppo di una cinquantina di bambini e fanno un grande girotondo, così, con chi c’è, senza troppi problemi. Ci vuole fantasia a creare una bella situazione in questo posto che stringe il cuore.
Dopo la scuola pubblica visitiamo la chiesa in costruzione. Padre Pietro ci presenta i muratori, due tanzaniani, che lavorano a piedi scalzi su una pavimentazione sconnessa, e ci spiega le difficoltà nell’acquisto del terreno, che è diventato molto caro in seguito all’inurbamento.

A  pranzo ci rechiamo alla casa procura della Consolata di Dar Es Salaam. Ci accoglie padre Angelo Parola, responsabile della Procura, in Tanzania da circa 30 anni.
La Procura è un bell’edificio, arioso e confortevole, non lontano dall’Ambasciata americana di Dar Es Salaam, luogo dell’attentato talebano nel 1998. Alla Procura fanno riferimento i missionari che arrivano dall’Europa e partono per l’interno e quelli che dall’interno tornano per lasciare la Tanzania.
Qui possono trovare riposo ed ospitalità prima di affrontare il viaggio. I due volontari torinesi che lavorano qui (una coppia di pensionati) ci hanno preparato un buon pranzo che consumiamo all’aperto in un gazebo dal tetto di foglie di banano.

Al pomeriggio visitiamo il mercato Kariakoo, il più grande dell’Africa Orientale. Chi sperava di trovare qui le stoffe da regalare e i giornielli di ebano si è sbagliato: è un mercato enorme e affollatissimo, frequentato solo dai locali; non vediamo un turista. Le decine di piccolissime e stipate bancarelle espongono spezie sfuse, oggetti europei, verdura e frutta, in una situazione buia e soffocante.  Venditori e acquirenti ci snobbano;  sorge una violenta protesta per una foto a una donna velata… la situazione non ci pare molto raccomandabile.
Alcuni di noi preferiscono visitare le bancarelle estee al mercato, che espongono per lo più brutti oggetti occidentali. Un po’ più lontano però troviamo una donna masai che espone i suoi giornielli e soprattutto il negozio Urafiki che vende alle donne locali a basso prezzo le splendide stoffe tanzaniane. Toiamo al mercato dove ci aspettano i nostri automezzi, saltando sui sassi in mezzo alla piazza per superare l’enorme pozza che si è creata in seguito alla pioggia.

Breve sosta per visitare i templi indù di Kisutu Street, dove un indiano affabile ci fa togliere le scarpe e ci spiega tutte le caratteristiche degli dei indù, le cui raffigurazioni sono collocate nei tempietti  a lato della grande spianata del tempio, dove giocano i bambini.

Morogoro 5.4.08

Ci si alza presto. Con un terzo pullmino si parte per Iringa, direzione ovest, circa 500 chilometri.
Facciamo sosta a Morogoro, ospiti per il pranzo al Seminario della Consolata. Frettolosi ed affamati, la prendiamo un po’ come «sosta pranzo», senza dedicarci troppo a conoscere i nostri ospiti… servirà più attenzione.

Proseguendo per Iringa attraversiamo il Mikumi Park. Non speriamo certo di vedere gli animali passando per la trafficata strada asfaltata; e invece, con nostra grande sorpresa, incontriamo le scimmie, poi una giraffa di fianco alla strada, poi gli elefanti, poi gli impala, e ancora giraffe ed elefanti… Continue soste concitate e fotografie ogni due chilometri.
Usciti dal parco, la strada continua a correre in un paesaggio di grande bellezza. Tramonto sobrio, ma incantevole per il gioco di luce tra le nuvole. Si attraversa la valle dei giganteschi baobab e infine ci si inerpica, attraverso la foresta, verso un passo dove la strada in salita fa fare parecchia fatica ai nostri  poveri automezzi, e a noi che siamo intasati dall’odore del gas.
Arriviamo ad Iringa che è già buio. Ai lati della strada decine di persone, donne, bambini anche soli, camminano e camminano; probabilmente lasciano la campagna dove hanno lavorato in giornata per dirigersi alla cittadina.

Iringa 6.4.08
Momento di riflessione

Siamo a Iringa, ospiti del Ruaha University College, l’ostello per studentidell’università cattolica voluta dalla conferenza episcopale del Tanzania. 
Alle sette siamo in chiesa per la messa. Chiesa grande e affollatissima; come dappertutto non c’è un bianco, se non padre Alex, che concelebra, e noi. Il canto è molto gradevole, nel coro una donna si esibisce con uno strano verso che assomiglia al richiamo di un uccello. L’organista non ha nulla da invidiare a quelli delle nostre chiese, anzi… Il coro si produce anche nel canto dell’Alleluja dal Messia di Haendel. Alla fine della messa veniamo chiamati sull’altare da padre Alex e presentati alla comunità, che applaude e canta di nuovo l’Alleluja. Siamo imbarazzati, ma anche contenti.
Prima di lasciare la chiesa ci salutano, tutti ci vogliono dare la mano… come al presidente o al papa. Di nuovo imbarazzo, ma anche piacere.  Ci raggiungono le donne nei loro sgargianti vestiti della festa, per tentare una conversazione con noi; una mamma vuole che tocchi il suo bambino…! 
Per la lunga strada centrale torniamo al nostro ostello. La condizione è decisamente migliore che a Dar Es Salaam; le case sono povere, ma non fatiscenti, le botteghe sono anguste, ma quasi dignitose, il traffico non è esasperante. 

Dopo la colazione ci dedichiamo a uno dei nostri importanti, anche se non frequenti, momenti di riflessione.
Sono molti i temi che affrontiamo, continuando le conversazioni dei giorni precedenti. Li accenno.
La scuola: la nostra scuola, la loro scuola. La voglia di imparare, la motivazione. La selezione e il merito. Scuola statale e scuola privata (censo e merito). Scuola di massa, formazione della classe dirigente. Il problema dell’autorità e la disciplina.
I missionari: la gioia che viene dalla risurrezione e l’incontro con la gente. L’aiuto: perché l’aiuto non a tutti?
La visione utopica di alcuni ragazzi, la necessità di fare i conti con la realtà.
Il nostro coinvolgimento: l’empatia e l’emozione, la necessità di riflettere e di capire una realtà complessa.

Pausa libera. Una stanza delle ragazze è allagata, tutti al lavoro a salvare le valigie e ad asciugare il pavimento. 
Dopo quasi un’ora siamo liberi di andare al mercato, dove troviamo tutto quello che cerchiamo e anche di più. Piccole ma gradevoli bancarelle ci offrono batik, oggetti di ebano, giornielli masai di ogni fattura, stoffe… Contrattiamo, vantandoci della nostra abilità nello spuntare il prezzo più basso.
Ngapi pesa? e how much? (quanto costa) sono i termini che usiamo di più.

Nel pomeriggio visitiamo il Centro giovanile della diocesi di Iringa, dove in una luminosa chiesa dalle vetrate gialle  la messa è seguita da un gran numero di bambini. Poco distante, saliamo al Gangilonga Rock, la collina formata da un grande masso roccioso su cui Mkwawa, il capo dell’etnia wahehe, si recava a prendere consiglio dagli dei.
Padre Alex ci spiega che l’etnia dei wahehe ha resistito strenuamente all’occupazione tedesca, mostrando grande dignità e coraggio. I tedeschi hanno occupato il Tanganika nella seconda metà dell’Ottocento, patteggiando con i sultani di Zanzibar. L’occupazione tedesca è durata poco ed è passata senza lasciare grande traccia: al termine della prima guerra mondiale il Tanganika è passata sotto l’amministrazione inglese.

Nello stesso pomeriggio visitiamo una casa famiglia dell’Opera Giovanni xxiii, fondata da don Oreste Benzi. Marina è una ragazza giovane, pare che non sia ancora trentenne; insieme al marito, è responsabile della casa famiglia; è in Tanzania da tre anni. È arrivata qui per il servizio civile come «casco bianco», qui ha incontrato l’uomo che è ora suo marito e insieme hanno deciso di restare, non sanno per quanto tempo. Collaborano con loro altri «caschi bianchi», qui per il servizio civile.
La casa famiglia accoglie bambini e ragazzi che per diversi motivi non possono stare in famiglia. Ci sono bambini, anche piccolissimi,  con disabilità, ma soprattutto bambini che sono rimasti senza genitori a causa dell’Aids. Marina ci spiega che in Tanzania la famiglia è allargata e molto cornoperativa; in questo momento storico, però, il flagello dell’Aids mette diverse famiglie nella condizione di non potersi occupare dei bambini propri e di quelli dei fratelli, dei parenti. Molta gente è malata e le famiglie sono decimate.
L’edificio che ospita la casa famiglia è molto modesto, situato in mezzo ad altri edifici; la casa però è ben curata, un piacevole cortile interno è abbellito da vasi di fiori, i lettini hanno le zanzariere…
L’attività della casa famiglia consiste principalmente nel dare una casa ai bambini e ai ragazzi in difficoltà, ma è anche il centro da cui partono altre iniziative: mense scolastiche, assistenza a bambini malnutriti, microcredito…
Spesso bisogna intervenire anche sul piano sanitario; è infatti difficile accedere ad adeguate cure per i bambini malati. L’attività si regge principalmente sull’aiuto di persone di buona volontà, che contribuiscono con le loro offerte a dar vita all’iniziativa.
I nostri ragazzi sono molto interessati all’attività dei «caschi bianchi» e si confrontano con questi, nella prospettiva e nel desiderio di diventarlo a loro volta.

Iringa 7.4.08
Lotta alla pandemia

O ggi in Tanzania è festa nazionale: «K arume day». Padre Angelo Dutto, che ci ospita al Ruaha University College, ci spiega che il paese celebra l’indipendenza dal sultanato di Oman. Karume è colui che ha conquistato l’indipendenza a Zanzibar.
In cerca dell’Allamano Centre di Iringa, facciamo una lunga passeggiata su una strada sterrata fra grandi eucalipti, campi coltivati a mais e girasole, casette piacevoli.  C’è il sole, si sta bene; siamo lontani dal traffico e dall’affollamento di Dar Es Salaam. Parliamo fra di noi, si discute di modelli di sviluppo, di capitalismo e di socialismo…
All’Allamano Centre ci accolgono suor Michela, missionaria della Consolata in Tanzania da 32 anni, e Nicola, il medico che lavora al Centro.
Suor Michela ci racconta che il Centro è sorto nel 2001. Da un vecchio garage abbandonato i missionari hanno ricavato il primo nucleo dell’attuale edificio, sorto per fronteggiare l’emergenza Aids. È stato necessario in questi anni «inventarsi» tutto, poiché ci si è trovati impreparati di fronte all’avanzare del male; inadeguati o inesistenti gli interventi governativi, le organizzazioni di volontariato ed i missionari hanno dovuto costruire a partire da zero.
Si è capito subito che era necessario dare una risposta al singolo malato, ma anche alla sua famiglia.  La risposta alla malattia non poteva che consistere in una serie concatenata di azioni di sensibilizzazione, prevenzione, sostegno al malato e alla sua famiglia. Con mezzi scarsi all’inizio, si è cominciata un’opera di assistenza sociale, che prevedeva la cura a domicilio ai malati terminali, l’informazione sulla trasmissione della malattia, il sostegno economico, perché il malato e la famiglia avessero di che nutrirsi, la rimotivazione del malato nei confronti della possibilità di una vita buona anche in presenza dell’Hiv.
Con il tempo l’intervento è diventato via via più mirato, con un’assistenza di tipo medico e infermieristico, che attualmente permette la diagnosi (nel Centro vi è un buon laboratorio e personale preparato), la terapia e la ricostruzione delle difese immunitarie.
I farmaci che qui vengono distribuiti sono offerti da case farmaceutiche americane. Accanto all’intervento di tipo medico continua l’intervento sociale sul malato e sulla sua famiglia.
Vediamo al lavoro Paola, una economista nipote di suor Michela che distribuisce alle persone sacchi di alimenti e tiene i contatti con gli organismi estei che foiscono aiuti.
Visitiamo la sala per la terapia di gruppo, nella quale i malati si confrontato sulle loro paure e sulle loro speranze, tentando di darsi una mano per ricominciare a sperare.
Parliamo dei modi in cui si contrae la malattia e si parla di prevenzione. Suor Michela ci spiega che il governo e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) conducono una azione capillare finalizzata al family planning (fin dalla scuola primaria) e all’uso dei sistemi anticoncezionali.
Suor Michela ritiene che un’opera efficace possa aver luogo solo se si affronta il problema in modo non riduttivo e si educano le persone a vivere la sessualità in modo responsabile. Se si riesce a intervenire positivamente, il malato ha una discreta speranza di vita e si reinserisce nel suo tessuto sociale. Si assiste a una graduale presa di coscienza della natura della malattia e si supera pian piano l’atteggiamento fatalista, che fa pensare che l’Aids sia conseguenza di malefici e sortilegi.
Anche gli uomini, tradizionalmente più restii, iniziano a farsi curare e seguire i programmi di recupero. Molto utili risultano i gruppi di auto aiuto e la responsabilizzazione delle persone che cominciano a rendersi autonome e a collaborare alle attività del centro. Suor Michela, come gli altri missionari, ritiene che sia fondamentale supportare e indirizzare l’autonomia e la responsabilità locale.
Sono iscritte al centro 1.600 persone, di cui sono in terapia 730, selezionate in base ai parametri per la definizione della malattia. Seguire tutti è impossibile… I bambini seguiti dal Centro, supportati nelle famiglie, sono circa 3 mila, figli di malati, di cui 450 sono sieropositivi.
Gli aiuti che arrivano dall’Unicef e da altri enti sono utili, ma non sempre le cose che vengono mandate rispondono alle necessità… È inutile che arrivino migliaia di siringhe nel momento in cui non servono.
Il dottor Nicola ci spiega che le organizzazioni inteazionali di aiuto ai paesi del terzo mondo hanno una struttura complessa, che assorbe, per il funzionamento interno, circa l’80% dei fondi reperiti; meno del 20% sono i fondi che realmente arrivano alla gente a cui sono destinati.

A circa 20 km da Iringa, sulla strada per Mbeya, si trova il sito archeologico di Isimila. In una piccola conca di sabbia bianca si trovano due capanne a proteggere i reperti risalenti a circa 60 mila anni addietro. I resti fossili di alcuni animali, qui ritrovati, sono ora al museo di Dar Es Salaam, ma qui si vedono ancora utensili e armi di pietra usati da homo habilis: raschiatorni, asce, rudimentali martelli…
Con la guida proseguiamo a piedi per il sentirnerino nella savana e dopo circa un quarto d’ora arriviamo a una valle, dove bizzarre colonne di pietra rossa, alte fino a dieci metri, si susseguono a muraglie rosse frastagliate e a camini svettanti contro il cielo azzurro terso. Ci spostiamo in questo paesaggio fantasmagorico, camminando dentro un fiumicciatolo dalle acque bianche che solcano le costruzioni rocciose.

L asciata Isimila ci rechiamo a Tosamaganga, la prima missione della Consolata in Tanzania. Tosamaganga non è molto distante da Iringa, ma raggiungerla è un’impresa; il pullmino varca voragini aperte nella sterrata e attraversa corsi d’acqua che hanno invaso la strada… il tutto fra una vegetazione lussureggiante e dolcissime colline verdi, che si stendono a perdita d’occhio.
A Tosamaganga siamo colpiti dagli edifici della missione: fra grandi alberi di stelle di natale fioriti e alberi dai bellissimi fiori arancione, su una grande spianata si stendono gli edifici della missione e la grande chiesa, costruita nel 1935 sulle forme della cattedrale di Mogadiscio. Tutti gli edifici sono di mattoni rossi, molto grandi e ben tenuti. 
I missionari sono quattro, e sono molto anziani. Padre Giovanni Giorda ha 81 anni e la pelle cotta dal sole. È qui dal 1952; è arrivato per nave da Venezia, passando per il canale di Suez. È rimasto 10 anni senza tornare in Italia. Ci parla della missione, del fatto che i missionari sono arrivati in Tanzania nella seconda metà del xix secolo; Tosamaganga è stata raggiunta dai benedettini della Baviera, ai tempi della dominazione tedesca, verso la fine del xix secolo. Nel 1919 gli inglesi favoriscono l’ingresso di missionari italiani che si stabiliscono a Tosamaganga. 
Padre Giorda ci porta al cimitero, dove, accanto ai benedettini, sono sepolti decine di giovani missionari italiani, morti prima dei 30 anni soprattutto a causa della malaria.  Con grande commozione troviamo la tomba di suor Adolfa Navoni, zia della prof. Gobbi dell’Agnesi di Milano. Anche questa missionaria è stata qui lunghissimi anni, e qui è morta. Flavia, allieva della prof. Gobbi, posa commossa sulla tomba alcuni fiori di campo, e tutti insieme recitiamo una preghiera.
Padre Giorda ci accompagna poi all’orfanotrofio di Tosamaganga, gestito da suore locali e da una volontaria italiana, Loredana, arrivata da una settimana e intenzionata a stare qui per un anno.
Ci sono bambini di diverse età.  Ci colpisce il nido, dove bambini anche piccolissimi recano sul viso la paura e la sofferenza di una vita pesantemente segnata fin dal suo nascere. Nello stanzone dove si trovano i lettini dei bimbi più grandicelli, fra i due e i tre anni, c’è buio e puzzo… I lettini con le sbarre di ferro sono tantissimi, attaccati l’uno all’altro. Ci si stringe il cuore. I bambini ci tendono le mani: noi pensiamo che vogliano essere presi in braccio e li coccoliamo un po’.  Fabia e Francesco non vorrebbero andarsene mai.
Padre Alex ci spiegherà poi che il tendere le mani è un saluto che indica rispetto, e non l’invito a prendere i bambini in braccio… Ma questo contatto è stato importante per noi e credo anche per questi piccolini, dai grandi occhi scuri imploranti e dal visino triste.
Giochiamo e cantiamo con i bimbi della matea. Ci dispiace non avere più a disposizione le caramelle o la cancelleria, che abbiamo lasciato a Dar, alla Procura, per non appesantire i bagagli.
Padre Alex ci spiega che questi orfani sono a tutti gli effetti figli adottivi delle suore e che ad esse lo stato chiede conto. Si possono aiutare con le adozioni a distanza.  Per una adozione, padre Alex chiede 120 euro all’anno. Mi piacerebbe che la nostra scuola fosse capace di adottare alcuni bambini… magari uno per classe, perché no?

Alla sera, a Iringa, dopo la nostra solita cena a base di riso, pollo, verdura e spezzatino (tutto pulito e sano, la varietà talvolta lascia un po’ a desiderare, ma non ci lamentiamo certo, anzi tutti ci riteniamo dei privilegiati), facciamo un momento di riflessione, mettendo a tema la nostra capacità di incontrare chi è diverso da noi e di prenderci cura di chi è in difficoltà.
Incontriamo padre Gabriel, del Kenya, conoscente di padre Alex;  padre Gabriel ha studiato in Inghilterra, è stato in Italia e parla bene la nostra lingua. Ha lavorato in Uganda e in Tanzania, a Sadani. A Iringa ha aperto una scuola secondaria. Ci spiega che la scuola secondaria dura quattro anni, dopo la quarta i ragazzi possono scegliere una specializzazione e perfezionarsi due anni prima di iscriversi all’Università.
Ci spiega che si studia anche filosofia, che è la filosofia occidentale. In Tanzania non c’è una tradizione filosofica, anche se c’è una saggezza popolare da recuperare. Il saggio, ci dice, «è colui che ha esperienza ed è capace di usare tale esperienza per cambiare la vita».
Parliamo anche dei modelli di sviluppo, di comunismo e capitalismo, della politica di Nyerere.
Padre Gabriel ci invita a visitare la sua scuola.

Parco Ruaha 8.4.08
Caccia grossa

Giornata safari (viaggio). Cielo terso e luminoso. Sistemati in 5 jeep percorriamo due ore di strada sterrata, da Iringa al Ruaha Park. Ci fermiamo all’ingresso del parco, sulle sponde del Grande Ruaha dalle acque limacciose; sulla sponda opposta vediamo spuntare dall’acqua un ippopotamo.
Ci addentriamo nel parco. Vediamo gli impala: colore e struttura simili a quelli di un nostro cerbiatto, si trovano isolati o riuniti in folti gruppi, di fianco alla sterrata, in mezzo alla strada. Fuggono veloci con una corsa elegante. Si mescolano alle zebre, di cui vediamo decine di esemplari, e alle grandi giraffe (twiga, in swahili), tranquille ai lati della strada, incuranti del nostro passaggio.
Il Ruaha attraversa il parco, formando grandi insenature e isolotti sabbiosi, dove si riposano ippopotami e giraffe. In alto volteggia un’aquila.
Lasciamo la pista che corre parallela al fiume, dal terreno paludoso e instabile, per spingerci all’interno del parco alla ricerca di elefanti (tembo), che nella stagione delle piogge si tengono lontani dal fiume. Ne vediamo qualcuno, meno di quelli che abbiamo incontrato al Mikumi.
Con una certa emozione ci troviamo sulle tracce del leone (simba); una carcassa di zebra giace abbandonata in una radura, dove l’erba calpestata racconta di uno scontro; nel folto dei cespugli, nascosti alla vista si scorgono appena i leoni; sono lì, a tre metri da noi.
Il parco è di una bellezza da paradiso terrestre; la pista corre fra distese di campanule bianche che si perdono nell’orizzonte del cielo blu solcato da ciuffi di nuvole bianche. Giganteschi baobab, con la corteccia rovinata dagli elefanti in cerca di acqua, offrono riparo agli animali nell’ora più calda. Acacie di ogni tipo, alberi del pane, e poi ancora fiori rossi, fiori viola, erba alta che si muove leggera al nostro passaggio… E sempre il grande fiume, ora vicino, ora lontano e palme e vegetazione lussureggiante.

V erso le tre del pomeriggio lasciamo il parco e raggiungiamo il lodge, il quale offre una terrazza che si affaccia sul parco, dalla quale vediamo un bellissimo arcobaleno. Il lodge è fresco e ospitale; ci viene servito un pranzo gradevole. 
Cominciamo, però, ad essere preoccupati per una delle nostre jeep, quella del prof. Vincenzo di Catania e dei suoi ragazzi. Sulla jeep c’è anche Giuseppe di Torino. Telefoniamo all’ingresso del parco: l’automezzo è uscito dal parco.  Tranquillizzati e un po’ dispiaciuti pensiamo che si siano diretti a Iringa senza fare sosta al lodge.
Verremo più tardi a sapere che il guidatore della jeep ha perso la strada del lodge e si è inoltrato nella foresta, dove la jeep ha sbandato e non ha tenuto la strada. Siamo assolutamente orgogliosi dei nostri eroi di Catania – e di Torino –  che hanno saputo prendere in mano la situazione; il professore – di filosofia! – si è messo alla guida della jeep acciaccata e ha riportato tutti sani e salvi al lodge.
Grande apprensione, visita di controllo per escludere qualsiasi problema. Tutto è a posto, niente paura. Hakuna matata, non ci sono problemi.

Iringa 9.4.08
Consolazione e speranza

V isitiamo la Faraja House (casa della consolazione) di padre Franco Sordella, che accoglie bimbi di strada. Il complesso sorge su una vasta area, un quadrato di circa 2 km di lato, che i missionari della Consolata hanno acquistato nel 1997 con l’intento di costruire una fattoria. Di fatto, la scarsità di acqua e la difficoltà nello scavo dei pozzi ha indotto i missionari a ripiegare su un progetto diverso… Ma che progetto!
Il centro è costituito da un’abitazione che accoglie al momento 68 bambini senza famiglia; altri 21, affidati al centro, frequentano le scuole superiori e dimorano presso le scuole nel corso della settimana. Le richieste di accoglienza sono moltissime, ma la capienza non permette di accontentare tutti. Qui sono accolti solo i casi più disperati.
Inizialmente la situazione era molto difficile: i ragazzi abbandonati erano aggressivi, talvolta dediti alla droga o all’autolesionismo;  ora le cose vanno molto meglio. I ragazzi, formati, sono capaci a loro volta di prestare aiuto ai nuovi arrivati. I ragazzi sono organizzati in squadre tendenzialmente autonome, dove i grandi accudiscono i piccoli.
Il centro è organizzato con grande efficienza e buoni mezzi, supportato da alcune comunità di volontari a Torino e a Savigliano. Oltre all’abitazione, modesta ma pulita, il centro ospita un asilo, una scuola elementare frequentata anche da bambini estei e soprattutto una scuola professionale; vi sono tre laboratori (uno di meccanica, uno di falegnameria e uno di calzoleria) dove i ragazzi che hanno terminato la scuola elementare e non si iscrivono alla secondaria possono, nel corso di tre anni, imparare un mestiere che li renderà autosufficienti.
Accanto ai laboratori, una cornoperativa organizza il lavoro dei ragazzi che hanno finito la scuola professionale e non sono ancora pronti per spendersi autonomamente sul mercato.
Laboratori e officine sono dotate di macchinari che i nostri colleghi esperti giudicano assolutamente idonei. I macchinari provengono dall’Italia e dall’Europa, donazione di associazioni di volontariato. Vi sono anche automezzi e macchine agricole.
Intoo alle abitazioni e alle officine, una vasta area coltivata e utilizzata per il pascolo (ci sono mucche, capre, pecore, maiali) permette alla comunità una quasi completa autosufficienza alimentare.
Esprimiamo a padre Sordella tutto il nostro apprezzamento per questa opera, che rivela grande capacità e spirito di organizzazione. Il padre ci esprime la sua preoccupazione: la sua salute e l’età non gli permetteranno di continuare per molti anni; anche con l’attenzione al passaggio delle consegne, c’è il rischio che si perda un po’ ciò che si è costruito…

A l pomeriggio abbiamo in programma la visita al Ruaha University College, guidati da padre Dutto. Mentre aspettiamo, come in ogni momento di pausa, ci precipitiamo al coloratissimo mercatino che sta a due passi dalla nostra abitazione, a far razzia di oggetti di ogni specie, di ebano, di stoffe, di giornielli… Ormai siamo conosciuti; i venditori, che sono soliti contrattare, hanno alzato i prezzi convinti che compreremo comunque.
All’università ci confrontiamo con una seconda classe della scuola di specializzazione per tecnici di laboratorio.
Le aule sono confortevoli, anche se non spaziose; i banchi di legno piccoli ma molto belli; gli studenti vestiti in modo sobrio ma elegante. Alcuni sono studenti giunti dalla scuola superiore, altri sono tecnici già in servizio, venuti qui per il perfezionamento: quando toeranno nei loro laboratori potranno chiedere uno stipendio molto più interessante.
Facciamo delle domande, e loro fanno domande a noi. Ci spiegano che nell’università (sussidiaria dell’università cattolica) ci sono corsi per tecnici di laboratorio, per legge, per comunicazioni e informatica. Questa è una università giovane, sorta da quattro anni. È una università privata, si pagano tasse molto alte, ma la qualità dell’insegnamento è molto buona. Alcuni studenti vengono sponsorizzati da enti, da laboratori presso cui già lavorano…
Gli insegnanti sono stimati e ben pagati. I migliori, al termine dei corsi universitari possono diventare a loro volta insegnanti. La paga media di un insegnante universitario è di circa 600 mila scellini tanzaniani, mentre la paga di un operaio è di circa 80 mila scellini tanzaniani.
Nel corso per tecnici di laboratorio si studiano chimica, fisiologia, ematologia, biologia molecolare, immunologia… Le lezioni si dovrebbero tenere in inglese, ma spesso si scivola verso il kiswahili.
C’è una certa selezione, arrivano al compimento degli studi circa i tre quarti degli studenti. Tutti gli esami sono statali.
Una volta finita l’università, la maggioranza degli studenti resta in Tanzania, dove è facile trovare in poco tempo un buon impiego. Solo una piccola minoranza ha intenzione di andare all’estero. Si stupiscono che per noi sia difficile trovare lavoro.

Terminata la visita alla classe, gli studenti nostri si recano in cortile con gli studenti dell’università, mentre i docenti sono ospitati da padre Dutto, che insegna biologia molecolare all’Università di Iringa, dopo essersi specializzato in tale materia negli Stati Uniti.
Ci confrontiamo sui programmi, parliamo dell’Hiv e dell’Aids. Padre Dutto ci fornisce una quantità di informazioni interessanti sui retrovirus, sul fatto che nel nostro organismo questi erano presenti già da prima che si differenziassero le razze. Dopo tutto, l’8% del nostro patrimonio genetico lo abbiamo acquistato inglobando retrovirus.
Parliamo anche di scuola laica e di scuola privata. Ci dice che nell’Università cattolica di Iringa non si chiede la religione per l’iscrizione: qui ci sono indifferentemente cristiani e musulmani… Non ci sono problemi di convivenza. 
Padre Dutto, uomo di grande cultura, ci ricorda che la cultura è capace di far convivere e collaborare le diversità: è una bella lezione.

Concludiamo la nostra giornata, affollatissima, come del resto tutte le altre, con la visita al centro della Consolata di Iringa, sede centrale della Consolata in Tanzania. Gradevole incontro e gradevole rinfresco. 
Rimaniamo affascinati dal bellissimo altare e dall’ambone nella cappella. L’altare, costituito da un enorme tronco di ebano, scolpito a bassorilievo con una rappresentazione, di eccezionale plasticità,  della natività fra le generazioni passate e future.
Sull’ambone sono scolpiti episodi dell’Antico Testamento: Giona nel ventre della balena, il sacrificio di Isacco…

Alla sera, riflessione. Siamo stati colpiti dall’efficienza del centro di padre Sordella. 
Ci interroghiamo sull’accoglienza da parte delle popolazioni locali verso i missionari. Padre Alex ci racconta i suoi sei anni tra i samburu nel nord del Kenya, i loro riti di matrimonio, il pascolo nomade, il consiglio dei saggi intorno al fuoco, le cerimonie per la promozione dei guerrieri e degli anziani.
Ci interroghiamo sul fatto che i missionari diventano anziani e cercano di «passare le consegne» ai locali, sul fatto che talvolta ci sono difficoltà dovute a culture e modi di essere differenti. Concordiamo sulla necessità di far crescere un popolo, aiutandolo, ma soprattutto dandogli gli strumenti per diventare autosufficiente.
Confrontiamo le realtà che abbiamo visto, così differenti: i bambini di strada che dormono nei tubi e quelli accolti nelle case famiglia e negli orfanotrofi… i malati di Aids e quelli che imparano a convivere con il virus Hiv e a sperare nella vita… gli sfaccendati seduti sui marciapiedi di Dar Es Salaam e i falegnami, meccanici, calzolai da padre Sordella…
Non si può dire: Africa e semplificare. Bisogna saper cogliere e raccontare le mille sfaccettature di una realtà complessa; bisogna avere spirito critico e capacità di cogliere i lati positivi. Ciò che abbiamo visto è povertà, ma anche desiderio di riscatto, stenti ma non bellicosità, malattia e speranza di guarigione, fatica e capacità di aiutare e condividere.

Mtuango 10.4.08
Una nuova famiglia

Oggi, ultimo giorno a Iringa, è in programma un viaggio di 2-3 ore (di andata e altrettante al ritorno) per raggiungere Makambako e Mtuango. Ci dirigiamo a sud-ovest, verso Mbeya;  siamo a poche centinaia di chilometri dai grandi laghi.
La zona di Makambako è poverissima. Su una lurida strada si affacciano stente bancarelle e, in mezzo alle mosche, ci inseguono bambini scalzi che ci guardano come fossimo marziani, con un’espressione di presa in giro e di stupore… Probabilmente non hanno mai visto tanti bianchi insieme, dobbiamo sembrare loro parecchio strani.
I nostri ragazzi non si scoraggiano e riescono a conquistarsi la simpatia di questi piccoli sporchi e malvestiti, che prendono in braccio e fanno giocare. A Makambako salutiamo i padri della Consolata, che nel 2004 hanno festeggiato il cinquantesimo del loro insediamento in questa zona.

Dopo pochi chilometri siamo a Mtuango. Incontriamo padre Tarcisio Moreschi e Fausta, una insegnante pensionata che si trova qui da 14 anni; entrambi provengono, come padre Alex, dalla Valcamonica.
Fausta è contenta della nostra visita e ci ha preparato un pranzo di lusso. Su alcuni tavoli, abbelliti con fiori gialli e bianchi, sono serviti piatti buonissimi e bellissimi: antipasti con verdure grigliate, insalate di riso con condimenti locali, fiori di zucchine fritti, carne arrostita, pane scuro, caffè… Ci abbuffiamo.
Fausta regala a ciascuno di noi un cestino locale con un sacchetto di tè e fa amicizia con tutti ma in particolare con la prof. Anna Maria di Brindisi.
Dopo il pranzo e la visita alla chiesa, ci rechiamo a visitare il centro di accoglienza per bambini di strada. È un altro esempio di efficienza e organizzazione. Su un piazzale accogliente, sorgono alcune casette basse, ciascuna con il proprio orto, molto ben curato e pulito. Le casette sono state costruite dai volontari venuti dalla Valcamonica. Ciascuna ospita una piccola comunità autonoma, una «famiglia» formata da due «mamme» locali e da una decina di bambini. In ogni casa c’è il posto per dormire, un cortiletto, la cucina… 
Lavorano qui due volontarie italiane, che supportano il lavoro delle «mamme». Fausta viene due o tre volte la settimana per controllare che tutto funzioni a dovere.
Vedo un bimbo che non avrà più di due mesi; piange in braccio a una bimba di dieci anni; si calma quando lo prendo in braccio: ha la pelle rovinata, un cappellino di lana e due occhi neri brillanti come stelle, enormi, che fanno quasi scomparire il resto del viso. Fausta ci spiega che la sua mamma è morta; lo si nutre con latte in polvere, ma presto passerà all’ugali… non c’è possibilità di fare altro. Lascio qui un pezzo del mio cuore. 
Francesco riesce a comunicare con il maggior numero possibile di bambini. Come sempre, lascia una parte dei suoi soldi. Toerà a Catania senza nulla… tanto, i soldi si rifanno, dice. Ce ne fossero tanti, così.

Morogoro 11.4.08
Sulla via del ritorno

O re 6.30: abbiamo preso un altro pullmino; abbiamo caricato le valigie; siamo in partenza. Salutiamo padre Dutto, il docente di microbiologia molecolare, che ci ha ospitati con grande disponibilità e attenzione e ci ha offerto interessanti riflessioni sulla Tanzania.
È già chiaro; nonostante la stanchezza e il sonno siamo presi dalla bellezza dell’altipiano, dalle coltivazioni, dalle persone che vanno – e camminano, e camminano – dice il preside Vitale, di Brindisi. Risaliamo il passo, ripercorriamo la valle dei baobab e il parco Mikumi:  ci fermiamo perché una famiglia di elefanti ci attraversa la strada.

V erso mezzogiorno siamo a Morogoro; finito il sole di Iringa, siamo di nuovo in mezzo alla grande pioggia. Con quattro jeep, messe a disposizione dal seminario, cerchiamo di raggiungere il villaggio masai; la sterrata che porta al villaggio si è trasformata nel letto di un fiume, scavato da profondi solchi, lunghi alcuni metri, che percorrono la strada e la rendono impraticabile. 
Con mille precauzioni cerchiamo un passaggio; un autista locale, con l’aria di chi la sa lunga, pigia sull’acceleratore e incassa due ruote della nostra jeep in un fosso profondo. Scendiamo, colmiamo il fosso con rami tagliati al momento. Tutti più o meno collaboriamo sotto la pioggia (è una pioggia calda, che non ci invoglia nemmeno a prendere l’ombrello) e padre Alex riesce a tirar fuori la jeep.
Proseguiamo a piedi e nel giro di mezz’ora arriviamo al villaggio masai. Intoo a uno spazio circolare sono costruite con rami e fango cinque o sei capanne, alcune per le persone, altre per le galline e le capre. Bagnato dalla pioggia, scorre ovunque il letame e si aggirano le mosche.
Al villaggio ci sono solo le donne e le bambine. Gli uomini sono al pascolo con le mucche. Le donne sono estroverse e socievoli; una giovane è particolarmente loquace ed espansiva. Sono alte e slanciate; cantano e danzano per noi una nenia e ci chiedono soldi per costruire una tenda. Una anziana non vuole essere fotografata. Le bimbe sono coperte dal telo viola, uno solo, perché non sono sposate. Appesi sotto la pioggia ci sono altri teli. Le donne sposate sono addobbate con collane e bracciali. Nel lobo delle orecchie hanno un grande foro.

Sotto la pioggia, guidati da Obi, un bellissimo masai di 24 anni, slanciato e alto circa un metro e novanta, che studia al seminario, ritorniamo alle jeep.  Camminiamo nell’erba fradicia, alta; mi sembra di non arrivare mai.
Al seminario parliamo con Obi e scopriamo che studia filosofia e che desidera specializzarsi in psicologia. Non avremmo mai pensato che un masai in Tanzania, oggi, potesse interessarsi alla filosofia e alla psicologia.
È una piacevole scoperta, discorriamo a lungo. Il prof. Sergio, di Torino, lo saluta come primo filosofo masai e lo esorta a valorizzare la cultura della sua gente.

Da Morogoro, dopo un interminabile viaggio, arriviamo a Dar Es Salaam e al traffico da incubo; siamo contenti di raggiungere il Tec, le nostre stanze decorose, la nostra mensa pulita. 
Alla sera le ragazze (e qualche ragazzo) hanno ancora l’energia per sfoggiare i loro vestiti tanzaniani. Festeggeranno, sorvegliati da padre Alex e da qualche insegnante di buona volontà, mentre gli altri docenti si ritirano, sfiniti, nelle proprie stanze.

Dar es Salaam 12.4.08

E non finisce qui…

R iflessione e momento di silenzio alla chiesa del Tec. Poi facciamo le valigie. Ci dirigiamo verso l’aeroporto.
Salutiamo Baraha, il nostro grande Baraha, l’autista del pullmino che ci ha guidato indenni per queste tremende strade di Tanzania e per il traffico assurdo di Dar. Salutiamo l’aiutante, autista della jeep, il figlio quattordicenne di Baraha.
Ci imbarchiamo e partiamo alle 15.10, ora tanzaniana (in Italia sono le 14.10). Ci separano da Doha 3.816 km. Dall’alto fotografiamo la terraferma e Zanzibar, la lunga striscia bianca della costa e il verde dei fondali accanto a riva.
Riconosciamo la geografia di Zanzibar e di Pemba, individuiamo sulla terraferma, forse in Kenya, un grande fiume e un lago, non capiamo quali. 
A sera, fotografiamo fra le nuvole un tramonto spettacolare.

Lunga sosta al modeissimo e impersonale aeroporto di Doha, fra negozi che assomigliano alla Rinascente, gente di ogni nazionalità e giovani arabi con il caffetano bianchissimo e la kefiah rossa e bianca in testa.
All’1.45 (ora locale) partiamo da Doha; arriviamo a Roma verso le 8.
Abbracci, saluti, qualche pianto, al ritiro bagagli.
Senza retorica, è stato faticoso ma bellissimo. Grazie a padre Alex e a tutti.
Che questo viaggio sia fecondo nel nostro futuro: che la conoscenza porti volontà di conoscere, di fare, di incontrare, di aiutare.

A cura di Aldina Beltrami

Aldina Beltrami




Tanti amici (ma a parole)

Reportage dal paese delle nevi

Invaso e colonizzato dalla Cina, da più di 50 anni il Tibet lotta per difendere la propria cultura e libertà, riscuotendo grande interesse e simpatia da parte dell’opinione pubblica mondiale, grazie soprattutto al carisma del suo leader, il Dalai Lama. La solidarietà, però, rimane al livello teorico: nessuno stato osa inimicarsi la potenza cinese. Ma anche tra i tibetani crescono le tensioni, mettendo in discussione il ruolo politico del loro leader.

La storia, insegnano i cinesi, è una spirale: pur essendo in continuo movimento, ciclicamente ritorna su se stessa, riproponendo eventi già accaduti nel passato. Le manifestazioni avvenute recentemente in Tibet sono la conferma di questa teoria.
Cina e Mongolia hanno sempre cercato di controllare gli altipiani tibetani, influenzando in modo determinante la cultura della regione. I mongoli, ad esempio, hanno condotto la setta dei Gelukpa a prevalere su quella degli Sakya, dando inizio alla discendenza dei Dalai, termine mongolo che significa «oceano», e di cui il lama Tenzin Gyatso è oggi il xiv rappresentante.
Ma nel dizionario tibetano esiste un altro concetto, indispensabile per capire i meccanismi che hanno segnato le fasi storiche della regione: cho-yon. Tradotto in modo approssimativo, cho-yon indica la relazione secolare che lega un maestro spirituale al suo protettore laico.
Presenza ingombrante e violenta
La storia del Tibet, sin dal xii secolo, quando i mongoli si affacciarono in queste lande, si è sempre basata su questa immagine della doppia relazione. L’abilità o meno dei vari governanti nell’amministrare questo rapporto, ha spostato l’equilibrio del potere verso Lhasa o verso Pechino.
Il fatto è che i vari regnanti tibetani non hanno mai mostrato grandi capacità nel manipolare l’arte del governo: le rivalità tra i vari monasteri, vere e proprie città stato appartenenti alle diverse sette buddiste e ognuno con propri eserciti di monaci guerrieri, hanno costretto i Dalai Lama o i loro reggenti a chiedere l’aiuto ora della Cina, ora della Mongolia, sino a rivolgersi addirittura alla Russia zarista, per mantenere unito il paese.
La presenza cinese in Tibet si è sempre mostrata ingombrante, e spesso violenta, in particolar modo durante gli ultimi anni dell’impero Manciù, quando il generale Zhao Erfeng era soprannominato il «macellaio dei lama». Da parte loro, i governanti tibetani non hanno mai fatto nulla per ricercare simpatie altrove. L’unico tentativo di allacciare relazioni diplomatiche con un paese occidentale, fu fatto con la Germania di Hitler, la cui ammirazione per le religioni orientali e per la teosofia di Madame Blavatsky portava i suoi interessi nelle regioni indoeuropee. Una pagina non proprio edificante che oggi i tibetani cercano di nascondere.
È in questo contesto che i cinesi di Mao Zedong sono arrivati in Tibet, all’inizio accolti con favore dai monasteri fedeli all’altra autorità spirituale del paese: il Panchen Lama, allora in disaccordo con il Dalai Lama. La politica maoista fu quella di mantenere lo status quo della regione, evitando cambiamenti repentini e iniziando un dialogo con il Dalai Lama sulla base del cho-yon.
Fu invece sopraffatto dagli eventi. Nel 1959 il segretario del Partito comunista dello Sichuan, Li Jingquan, contro il volere dello stesso presidente, diede inizio alla politica d’integrazione totale: le proprietà vennero requisite, i monasteri chiusi, la lingua tibetana vietata nelle scuole e negli uffici pubblici. In poche settimane la situazione precipitò e il Dalai Lama fuggì in India.
Solo dopo il 1980 i cinesi cominciarono a cambiare politica verso il Tibet, accogliendo una delegazione di tibetani in esilio guidata dal fratello del Dalai Lama, riaprendo i monasteri, inserendo la lingua tibetana nelle scuole e iniziando il dialogo con il governo in esilio in India. Ma, come accaduto per altre regioni, lo sviluppo economico voluto da Pechino è stato interpretato diversamente dai tibetani: l’arrivo di migliaia di Han, la costruzione della ferrovia del Qinghai che collega Lhasa a Pechino in 48 ore, lo sviluppo turistico della regione, sono ragioni sufficienti per accusare la Cina di voler annientare la cultura locale.

Paura per tutti

È all’interno di questo quadro storico che sono tornato in Tibet, dopo essere stato testimone delle manifestazioni della scorsa primavera, cercando di comprendere cosa stesse accadendo realmente al di là delle simpatie che tutti noi abbiamo verso un popolo pacifico, oppresso da un regime che sta ancora cercando di trovare un nuovo equilibrio dopo la morte del Grande Timoniere.
Appena messo piede a Lhasa si comprende immediatamente che molto è cambiato nella società: i vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani ancora innevati.
La normalità è tornata nella capitale tibetana, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista.
L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo; ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i giochi olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang, regione dove la repressione si esprime in forme più violente e subdole rispetto a quella tibetana.
«Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty Inteational a Hong Kong. Allison aggiunge anche che la Cina non ha ancora svelato il «mistero» che circonda la figura di Gedhun Chuekyi Nyima, il quale dal 1995, anno in cui il Dalai Lama lo ha riconosciuto come undicesima reincarnazione del Panchen Lama, è tenuto segregato in un luogo segreto dalle autorità di Pechino. «Aveva sei anni all’epoca ed è stato riconosciuto da Amnesty come il più giovane prigioniero politico del mondo». Dice Allison.

Dagli slogan all’oblio

Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese del sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani.
«Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco originario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglie tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti, ufficialmente dichiarati dalle autorità, o dei 99 proclamati dal governo in esilio.
A parole «siamo tutti tibetani», ma quando si tratta di mettere in pratica gli slogan espressi durante i cortei di piazza, ecco che si preferisce delegare chi sta più in alto. Si chiede il boicottaggio dei prodotti cinesi, ma quando si tratta di comprare abbigliamento, Hi-Fi, computer, accessori per la casa, entrambi gli occhi vengono chiusi di fronte ai prezzi concorrenziali del made in China. Ancora una volta il portafogli prevale sulla coscienza: meglio che il boicottaggio lo facciano gli altri, magari i governi e magari su prodotti che non vengono venduti nei supermercati.
E così, tra i tibetani, si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel vii secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza».
Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del vii Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento.
Solo con la Germania nazista, come già accennato, si stabilirono stretti contatti, sino a consentire a una spedizione antropologica alla ricerca della «razza pura» di girare in lungo e in largo la regione. «La spedizione nazista di Est Schafer, voluta da Himmler, ebbe l’appoggio del Kashag. Fu l’unica spedizione ufficialmente a scopo scientifico, a poter soggioare in Tibet per più di un anno» spiega Christofer Hale, autore del libro La crociata di Himmler – La spedizione nazista in Tibet nel 1938.
E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’«Accordo in diciassette punti» che sanciva «il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica popolare Cinese».

Dal karma al materialismo

Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. È la legge del karma, la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto l’universo» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse.
Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore degli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stato proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico.
Non è un caso che le rivolte di marzo, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. Lo stesso Dalai Lama, in base a questa classificazione cinese, sarebbe nato in Cina, visto che l’Amdo oggi non fa parte della Regione autonoma tibetana. Qui, al risentimento verso i cinesi, si aggiunge un senso di isolamento dalla «madrepatria», che si esprime attraverso forme di protesta che sfociano in veri atti di sfida. È proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’azione più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
Una sorta di Iwojima modea, prontamente occultata dalle autorità cinesi, che si sono affrettate a ripristinare lo status quo precedente. «La Cina afferma che il Tibet ha avuto uno sviluppo economico enorme grazie alla modeizzazione; è vero, ma per questo sviluppo abbiamo dovuto sacrificare, oltre alla cultura, il nostro ecosistema» ricorda uno studente incontrato in un ristorantino nei pressi dell’università.
Durante gli anni Sessanta, per compiere il «grande balzo in avanti» e divenire la prima potenza mondiale produttrice d’acciaio, tutte le regioni cinesi furono sottoposte a sistematici saccheggi naturali. Ma queste devastazioni ecologiche, accompagnate da installazioni nucleari e militari, non furono subite solo dal Tibet, bensì in tutta la Cina, come ha esaurientemente spiegato Jasper Becker, nel suo libro La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta.
Il già citato Xinkjiang, ad esempio, ha patito distruzioni ben peggiori che ancora oggi si ripercuotono sulla popolazione e sulla cultura locale. Purtroppo per gli uiguri, loro non hanno un Dalai Lama e una religione «esotica» ed «affascinante» come quella buddista in grado di affermarsi tra l’opinione pubblica occidentale.

Un esilio in tensione

Inoltre, è anche vero che nella regione di Dharamsala, i tibetani, grazie ai finanziamenti ricevuti dalle organizzazioni pro-Tibet dell’Occidente, hanno «colonizzato» tutte le attività commerciali, allontanando gli autoctoni e creando tensioni che, seppur non siano mai degenerate in scontri, cominciano a causare qualche perplessità nel governo indiano.
M.K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano a Mosca, Islamabad e Kabul, che mi accompagna a Dharamsala, spiega che «Dharamsala è su suolo indiano, ma oramai è come se fosse una città straniera per noi. Non abbiamo alcun controllo sulla comunità tibetana in India. Da ospiti sono diventati padroni». Poi, davanti ad una tazza di tè salato, continua: «Sono sicuro che le manifestazioni di Lhasa sono state organizzate, se non dall’entourage del Dalai Lama, dalle organizzazioni estremiste tibetane, che compongono il mosaico politico della comunità in esilio».
Le relazioni tra New Delhi e Dharamsala, ottime fino a qualche anno fa, si stanno deteriorando. Ora che l’India ha iniziato a interloquire con la Cina, la questione tibetana si sta facendo sempre più bollente e il governo di Manmohan Singh spinge affinché anche il Dalai Lama accetti di intavolare un dialogo fruttifero con Pechino. «Il problema non è tanto il Dalai Lama» spiega a New Delhi Subramanian Swamy, esperto in Cina e consigliere economico del governo Singh, «ma i suoi consiglieri, poco inclini al compromesso con Pechino. La comunità tibetana in India è formata da innumerevoli gruppi in contrasto tra loro e ognuno di questi gruppi ha, all’interno del governo tibetano in esilio, un suo rappresentante.
Uomini come Tsewang Rigzin, presidente del Tibetan Youth Congress, o Tenzin Choeving, dello Students for a Free Tibet, sono in aperto contrasto con il Dalai Lama e chiedono che il Tibet diventi una nazione completamente indipendente. Il Dalai Lama deve mediare tra tutte queste posizioni».
Il ruolo del leader tibetano, quindi non è così indiscusso come potrebbe sembrare. Il dover mediare tra opinioni in contrasto tra loro, ora che anche l’India preme affinché apra un dialogo con la Cina, lo pone di fronte a un bivio cruciale.
Se fino ad oggi, l’ambiguità del suo status politico-religioso garantito dall’esilio, gli ha assicurato la leadership, ora che è costretto a scegliere nei fatti quale politica perseguire, è inevitabile che all’interno della comunità si creino delle fratture forse insanabili. Se sceglie la linea dura si potrebbe alienare le simpatie dei governi sino ad ora a lui solidali come India e Nepal; viceversa, rigettando definitivamente l’idea dell’indipendenza (già rifiutata nei suoi discorsi sin dalla fine degli anni Ottanta), i gruppi più oltranzisti rischierebbero di rifiutare la sua figura di leader e continuare una lotta separata.
Il Dalai Lama, oramai figura ingombrante anche per l’India che lo ospita, sente la pressione del tempo che fugge e deve cercare di trovare una soluzione soddisfacente più per lui che per la Cina. Nella logica del cho-yon ora è lui ad aver bisogno di Pechino. 

Di Pergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sì al dialogo (purché sia serio)

Intervista al Dalai Lama

Lo abbiamo incontrato nella sua residenza in esilio a Dharamsala (India), durante la rivolta anticinese a Lhasa; nonostante la dura repressione, il Dalai Lama continua a credere nel dialogo con Pechino, per la creazione di un Tibet democratico e autonomo. Purché i negoziati siano seri.

T enzin Gyatso, conosciuto in tutto il mondo come il xiv Dalai Lama, incarnazione del Buddha della compassione Avalokitesvara, è, dal 1959, anno in cui fuggì in India, la figura chiave della lotta tibetana contro la Cina. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace.

Iniziamo con una domanda ovvia, ma che suscita sempre perplessità: perché nel 1959 ha lasciato il Tibet?
Perché se fossi rimasto, i cinesi mi avrebbero preso in ostaggio e questo avrebbe potuto causare una sollevazione popolare.

Cosa ha dato l’esilio a lei e ai tibetani che l’hanno seguita?
La consapevolezza che la via del Buddha è l’unico insegnamento adatto per noi tibetani. Seguendo gli insegnamenti buddisti abbiamo riscoperto un nuovo vigore della vita. Sì, posso dire che l’esilio mi ha migliorato. Per questo posso ringraziare i cinesi.

Democrazia per il Tibet. Questo è quanto lei chiede per la sua terra. Nel passato i suoi predecessori non sono però stati dei campioni di democrazia.
Sì, è vero. È per questo che, una volta assicurata al Tibet l’autonomia, mi ritirerò perché la mia figura potrebbe essere d’ingombro a un cammino democratico. Personalmente, poi, sono vecchio e non voglio ricoprire alcuna carica pubblica. Diciamo che andrò in pensione, farò il Dalai Lama a tempo pieno, dedicandomi alla disciplina buddista.
Che obiettivo si pone come guida spirituale e politica dei tibetani?
Fermare il genocidio culturale in atto. Ma per fermarlo bisogna creare i presupposti per un dialogo con Pechino. Ho già detto più volte che non voglio l’indipendenza del Tibet, ma l’autonomia all’interno della nazione cinese.

Osservando le manifestazioni in atto in Europa, in America, in India e Nepal, i sostenitori della causa tibetana portano striscioni inneggianti all’indipendenza tibetana, non all’autonomia. Siamo sicuri che all’interno del suo governo tutti lottino per la stessa causa? Non possiamo dar torto alla Cina quando chiede una prova tangibile dell’unità di intenti nel suo governo.
Free Tibet non significa necessariamente Tibet indipendente. Significa solamente che vogliamo che la Cina interrompa la politica di aggressiva colonizzazione, accettando che i tibetani ricoprano posizioni di vera responsabilità all’interno del Tibet.

Già ora le ricoprono: Qiangba Pungcog, presidente della Regione autonoma tibetana è tibetano.

Tibetano, ma anche filocinese.
Allora dovreste essere più chiari e dire che non è questione di mettere figure tibetane all’interno del governo, ma figure ben specifiche, indicate da voi. È questo il punto di attrito.
Forse.

Altro punto di attrito riguarda i diversi concetti di cosa intendere per Tibet. Il «vostro» Tibet è un Tibet etnico, comprendente anche le regioni del Gansu, Sichuan, Qinghai e parte dello Yunnan. In pratica si tratterebbe di raddoppiare la superficie sulla quale volete applicare le vostre richieste.
Noi non possiamo dimenticare i 4 milioni di nostri fratelli tibetani che vivono al di fuori dai confini amministrativi del Tibet.

È quindi un dialogo tra sordi. E parlando di sordi non mi riferisco solo ai cinesi.
Noi abbiamo già eliminato dal nostro vocabolario la parola indipendenza. Ci siamo già mossi verso la loro richiesta.

Lei di sicuro. Ma non i manifestanti pro-Tibet, non gli attivisti del Congresso giovanile, non i reduci della guerriglia Khamdo. Un compromesso con la Cina e un suo ritorno a Lhasa non risolverebbe i problemi all’interno del Tibet e, soprattutto, aprirebbe crepe nel vostro movimento.
Cerchiamo però di trovare qualche soluzione.

È ottimista?
Sì. Il regime cinese deve cambiare. È solo questione di tempo. I cinesi stessi non vogliono più vivere isolati dal mondo. Cercano la democrazia. È un processo lento iniziato nel 1989 con Tienanmen.

Quale Tibet sogna?
Un Tibet all’interno di una Cina in cui è possibile vivere in un unico paese con due sistemi. È un approccio già usato con Hong Kong e ha funzionato. Perché non utilizzarlo anche con il Tibet?
Ancora una volta ripeto che il Tibet deve rimanere con la Cina. È nell’interesse stesso dei tibetani.

Perché il Tibet non è Hong Kong: cultura, tradizioni, lingua, storia sono differenti. Pechino non si fida dei tibetani. È un ricorso storico.
Ma per trovare una soluzione ognuno deve cedere qualcosa e al tempo stesso dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Un Tibet simile, inoltre, è già esistito tra il 1950 e il 1959, quando il presidente Mao sovrintendeva il processo di integrazione. È a quel Tibet che guardo.

Lei ha più volte detto che il prossimo Dalai Lama verrà scoperto fuori dalla Cina. In questo modo ha sfidato apertamente le autorità di Pechino perdendo un’altra occasione di dialogo.
La prossima reincarnazione, nel tempo in cui i tibetani sono costretti all’esilio, sarà per forza di cose trovata fuori dalla Cina.

Ci saranno quindi due figure religiose, così come lo è stato per il Panchem Lama? Un Dalai Lama a Lhasa eletto con il beneplacito di Pechino ed uno «ufficiale» a Dharmasala?
È molto probabile che sia così. Starà ai tibetani decidere a quale dei due tributare gli onori e la loro fede.

Lei ha parlato anche di genocidio culturale. Cosa intendeva dire?
Oramai a Lhasa la lingua più parlata è il cinese e così nelle altre città del Tibet. Nelle scuole, negli uffici pubblici il cinese è la lingua ufficiale. Inoltre molti monasteri sono stati chiusi, altri sono stati saccheggiati se non distrutti completamente. Questo intendo quando parlo di genocidio culturale.

La violenza è sempre da evitare? Ci sono dei casi in cui lei approva l’uso della violenza?
Sì, ci sono dei casi estremi in cui la violenza può essere un’arma utilizzabile, ma sempre con l’intento di salvaguardare la dignità dell’uomo. Per esempio durante le guerre mondiali o durante la guerra di Corea, quando, per garantire la democrazia e la pace nel mondo futuro, si sono combattute delle guerre. O per salvaguardare i principi del buddismo. Ma è molto pericoloso l’uso della violenza, anche quando la si utilizza con intenti positivi. Spesso la violenza genera altra violenza.

Molti tibetani giudicano la non violenza un’arma non più proponibile per raggiungere gli scopi prefissati dal suo governo.
Specialmente le giovani generazioni. Lo so, sono al corrente che molti mi giudicano troppo morbido, addirittura troppo filocinese. Ma cosa otterremmo con la violenza? Siamo un piccolo popolo, non possiamo contare su alcun aiuto esterno in caso ingaggiassimo una guerriglia con la Cina. La Cina è potente militarmente ed economicamente e ha rapporti diplomatici con tutto il mondo. Realisticamente parlando: quale paese romperebbe rapporti con la Cina per aiutare il piccolo popolo tibetano?

Nel 2007 durante la sua visita in Italia, il papa non l’ha ricevuta. È rimasto deluso?
I rapporti tra Vaticano e Cina sono molto delicati, per certi versi simili a quelli che abbiamo noi tibetani con il governo di Pechino. Ultimamente sembra che tra Pechino e il Vaticano sia ripreso il dialogo. In questo nuovo corso, un incontro con il Santo Padre avrebbe potuto creare delle difficoltà, quindi ho accettato di non interferire. Del resto avevo già incontrato Benedetto xvi nel 2006.

Lei si è dichiarato contrario al boicottaggio dei giochi olimpici. E anche qui la sua opinione è totalmente opposta con i movimenti pro-Tibet in Occidente, che invece lottano affinché vengano boicottate.
Ho detto che appoggio i giochi olimpici e spero che si svolgano tranquillamente. Se poi alcuni capi di stato non saranno presenti all’inaugurazione, questo sarà una loro scelta.

Il governo cinese l’ha invitata più volte ad andare a Pechino e a visitare Lhasa. Perché ha sempre declinato l’invito?
Cosa accadrebbe se andassi a Pechino e tornassi senza aver concluso alcun accordo? I tibetani si rivolterebbero e rischieremmo di infiammare di nuovo il Tibet con altre rivolte e altri dolori. 

Di Piergiorgio Pescali

LACRIME DI SPERANZA
Associazione donne tibetane a Lhasa

Una leggenda tibetana narra che Jetsun Dolma, dea femminile consorte di Avalokitesvara, la divinità di cui il Dalai Lama è l’incarnazione umana, sarebbe nata da un fior di loto sbocciato dopo essere stato innaffiato da una lacrima del marito. Di lacrime, nel Tibet ne sono state versate tante nel corso della sua storia, e non sempre a causa degli stranieri, ma ultimamente il dolore del popolo si è fatto più lacerante. E con i mezzi di informazione imbavagliati, non è facile avere notizie da questo immenso altipiano. Eppure qualcosa riesce sempre a trapelare attraverso le fitte maglie della censura. Merito di quei tibetani che, a rischio della propria libertà, accettano di fare da tramite tra il loro mondo ingabbiato e il nostro.
Dolma, nome fittizio dietro a cui si cela la rappresentante a Lhasa del Movimento delle donne tibetane, è una di queste figure. Sfruttando abilmente la tradizione secondo cui le donne non si occupano di politica, di sera Dolma smette gli abiti dell’insegnante di scuola primaria e veste quelli di attivista in lotta per l’autonomia del suo paese. «Il governo controlla principalmente i tibetani di sesso maschile e questo ci permette di ottenere notizie senza destare troppi sospetti» spiega nella sua casa alla periferia della città.
È grazie a Dolma e a tibetane come lei che riusciamo a sapere quel che realmente sta accadendo in Tibet. Un incarico rischioso, certo, ma Dolma, assieme a poche altre sue compagne, continua a lavorare per la causa. «Mio marito è stato incarcerato ed è morto in un laogai (i campi di prigionia cinesi, nda). Da allora ho deciso di dedicare la mia vita per la liberazione del mio popolo».
Le lacrime del marito imprigionato, hanno fatto nascere in Dolma il fiore della speranza. Con questo fiore sfida pericolosamente il regime nel segno della non violenza che suo zio, monaco buddista al monastero di Sera, le ha impartito.

Intervista a miss Tibet 2007

Anche la bellezza serve alla causa

Il confronto che oppone Pechino al Dalai Lama non si limita allo scontro politico. La comunità tibetana in esilio in India, infatti, ogni anno elegge una Miss che, con disappunto della Cina, partecipa ufficialmente anche ai concorsi inteazionali. L’attuale Miss Tibet in carica è Tenzin Dolma, 22 anni, eletta lo scorso ottobre.

Che responsabilità ti ha dato portare la fascia di Miss Tibet 2007?
«Quella di rappresentare una terra che vuole rendersi libera e lotta per raggiungere tale fine. Voglio anche rappresentare tutte le donne tibetane, mostrare al mondo e alla nostra comunità che anche noi possiamo raggiungere traguardi inteazionali. Il mio titolo servirà a far sapere al mondo che il Tibet è un paese libero».

Sei nata in India e non hai mai conosciuto il Tibet. Ti senti più indiana o tibetana?
«È vero, sono nata in India, ma i miei nonni sono scappati dal Tibet e i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare la nostra cultura. Mi sento tibetana al 100%. Se non lo fossi, non avrei partecipato al concorso».

Si può partecipare a un concorso anche per notorietà, per girare il mondo e non necessariamente per ideologia.
«Non per noi tibetani. Se si partecipa a Miss Tibet sappiamo che molte strade ci verranno precluse. A differenza di altre Miss, la fascia di Miss Tibet non porta fama o denaro».

Ritoeresti in Tibet se la Cina accogliesse le richieste del Dalai Lama e lui rientrasse a Lhasa?
«Immediatamente».

Oltre a un Tibet libero, cosa sogna Miss Tibet 2007?
«Vorrei vedere il paese dei miei nonni, l’Amdo. E naturalmente sposarmi e avere bambini liberi di andare nel loro paese».
E per te stessa?
«Vorrei diventare modella e girare il mondo».

Cosa ha detto il Dalai Lama del concorso? L’ha approvato?
«Certo! Sua Santità ha anche parlato direttamente alle finaliste. Ha suggerito di essere sempre umili e riservate, ma soprattutto di sentirsi sempre tibetane».

All’interno della comunità tibetana in molti, specialmente i monaci più tradizionalisti, hanno criticato il concorso.
«Sì, ma bisogna adeguarsi ai tempi. Se aiutare la causa tibetana significa passare anche attraverso strade non tradizionali nel senso stretto della parola, penso si debba percorrere anche quella strada. Io, però, non mi preoccupo delle critiche: a me è bastata l’approvazione di Sua Santità il Dalai Lama».

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sedotti e abbandonati

Nel Mustang, sulle orme dei guerriglieri tibetani

Nella valle del Mustang, incastonata tra vette himalayane, c’è un Tibet etnico, risparmiato dall’occupazione cinese: indipendente o autonomo per secoli, nel 1950 il Nepal lo annesse al proprio regno, su richiesta dello stesso re del Mustang, prima che fosse l’Armata Rossa di Pechino a decretae la morte. Per due decenni la valle fu la base dei guerriglieri Khampa che, sostenuti e poi abbandonati dagli Usa, lottarono per l’indipendenza del Tibet, provocando più danni alla causa tibetana che all’esercito cinese.

Lo Monthang è una minuscola valle nepalese che si incunea per una sessantina di chilometri nell’altopiano tibetano. Come già successo per altre aree del loro impero coloniale, gli inglesi ne storpiarono la dizione in Mustang, nome con cui oggi viene comunemente identificata la regione.
Circondata da montagne alte più di 6 mila metri che ne garantivano la sicurezza, per almeno due decenni, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1974, la valle del Mustang è stata la base del Chusi Gangdruk, l’esercito dei guerriglieri Khampa in lotta per mantenere l’indipendenza del Tibet invaso dalla Cina. Una lotta impari, ma che venne sostenuta dalla Cia, la quale offrì addestramento e armi alla guerriglia.
Fu Gyalo Thondup, fratello del Dalai Lama, a organizzare il collegamento tra i leaders Khampa e la Cia, celandone l’esistenza allo stesso leader spirituale tibetano. E fu ancora Gyalo Thondup che, nel campo profughi di Kalimpong, scelse il primo gruppo di tibetani per essere addestrati. La prima missione fu organizzata nell’ottobre 1957, quando Athar Norbu e Lhotse, vennero paracadutati a 100 km da Lhasa per incontrare il leader della resistenza Khampa, Gompo Tashi Andrugtsang.
A Leadville, nel Colorado, fu anche allestito un campo di addestramento attraverso il quale passarono circa trecento tibetani.
La grande differenza di ideali e di obiettivi che divideva il movimento tibetano dalla Cia è ben mostrata dalle parole di due protagonisti: l’ex guerrigliero Tenzin Tsultrim e l’ex agente Cia Sam Halpe. «Quando andammo in America nutrivamo grandi speranze – afferma Tenzin Tsultrim -. Pensavamo addirittura che gli americani ci avrebbero dato anche una bomba atomica».
A queste speranze controbatte Sam Halpe: «Lo scopo di organizzare un movimento di guerriglia in Tibet era esclusivamente fatto per tenere occupate le truppe cinesi. Non c’era assolutamente l’idea di portare il Tibet all’indipendenza».

Il primo gruppo di guerriglieri venne insediato nel Mustang nel 1960, sotto la guida di Baba Yeshe, un ex monaco buddista. L’anno dopo la Cia iniziò il rifoimento di armi e munizioni. Nel periodo di maggior fervore, il Chusi Gangdruk arrivò ad annoverare 2.100 uomini armati, accompagnati da altri 4 mila tra famigliari e rifugiati; un totale di 6 mila persone che andarono a raddoppiare la popolazione di una valle che, già in condizioni normali, faticava a produrre cibo a sufficienza per tutti. Accolti con benevolenza e solidarietà dagli abitanti di Lo Monthang, anch’essi di etnia tibetana, i Khampa punteggiarono la valle di campi militari. A Samar sorgeva uno degli accampamenti più grandi del Chusi Gangdruk.
Assieme a Pema, una donna il cui padre era stato assoldato a forza come portatore dai Khampa, salgo sino al luogo dove era stato allestito l’avamposto. «Da qui partiva il sentirnero che conduceva in Tibet» dice indicandomi col dito un leggero solco tracciato tra il pietrisco. «E là – continua portandomi in una grotta – c’era il quartier generale della guerriglia. A volte vedevo anche degli occidentali; seppi dopo che erano americani».
Il Congresso Usa stanziò 500 mila dollari all’anno per finanziare la rivolta, ricevendo in cambio documenti sottratti ai militari cinesi durante le incursioni. Fu grazie a uno di questi attacchi che la Casa Bianca ebbe la conferma dell’avvio della Rivoluzione culturale, del disastro causato dal «Grande balzo in avanti» e, cosa più importante, della crescente disaffezione di Mao verso Mosca.
Quando poi, all’inizio degli anni Settanta, Pechino e Washington cominciarono a riallacciare i rapporti, la Cia interruppe ogni ulteriore appoggio ai ribelli tibetani.

Senza più finanziamenti e consulenti, il Chusi Gangdruk si trasformò in una banda di predoni: ogni villaggio viveva nel terrore delle incursioni dei guerriglieri affamati. Neppure i monasteri vennero risparmiati: «Numerosi thangka e opere d’arte sono state trafugate per finanziare la guerriglia» mi dice l’abate del Jampa Lhakhang, il principale monastero di Lo Monthang.
Jigme Palbar Bista, Lo Gyelbu (re) della valle, afferma che «la guerriglia ha privato Lo Monthang di preziosi manufatti religiosi, ma ora stiamo cercando di riparare al danno con l’aiuto di studiosi e amici occidentali». Persino la sua biblioteca è stata saccheggiata di libri di scritture buddiste risalenti al 1425.
«La simpatia con cui avevamo accolto i Khampa si tramutò in odio e paura» mi dice Nyima Tsering, il padrone della locanda di Samar in cui alloggio. Lo stesso Dalai Lama afferma che «la guerriglia fu strumentalizzata dalla Cia, che abbandonò i Khampa nel periodo di maggior bisogno. È una triste pagina di storia per tutto il popolo tibetano. La rivolta armata ha causato molto più danno ai tibetani che ai cinesi».
Fu quindi con estremo sollievo degli abitanti che nel luglio 1974 la voce registrata del Dalai Lama, risuonò in tutte le basi del Chusi Gangdruk, invitando i militanti a deporre le armi. «Fu una delusione per tutti – ricorda a Dharamsala Hlasang Tsering, ex guerrigliero, poi divenuto presidente del Congresso dei giovani tibetani -. Potevamo accettare di essere abbandonati dalla Cia e dal mondo intero, ma non dal Dalai Lama. Furono molti che preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi». Altri decisero di trasgredire gli ordini del Dalai Lama, ma furono sterminati dall’esercito nepalese. I superstiti si rifugiarono in India, dove vivono tuttora nella consapevolezza che la loro lotta, biasimata e dimenticata da tutti, è stata inutile. E dannosa per lo stesso Tibet. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Indipendenza piena

Intervista a un rappresentante del movimento tibetano indipendentista

Mentre il Dalai Lama chiede alla Cina l’autonomia del Tibet, il Movimento internazionale per l’indipendenza del Tibet (Itim) lotta per la piena indipendenza, non solo dell’attuale Regione autonoma del Tibet (Rat) ma anche per i tibetani presenti in altri stati della Cina, come Amdo e Khamdo.

S ongtsen è il re che per primo, nel vii secolo, riuscì a unire il Tibet in un’unica nazione. Ma è anche colui che, sposando una principessa cinese, gettò le basi affinché la Cina potesse rivendicare la sottomissione della regione alla dinastia Tang.
Oggi Songtsen è il soprannome che il rappresentante a Lhasa del governo tibetano in esilio si è dato. È giovane e idealista. Forse troppo, tanto da contestare lo stesso Dalai Lama e la sua «morbidezza» mostrata, rigettando l’indipendenza del Tibet a favore di una maggiore autonomia.
Songtsen è anche il rappresentante dell’Inteational Tibet Independence Movement (Itim).

I tibetani a Dharamsala si dividono tra autonomisti e indipendentisti. Che idea prevale qui nel Tibet?
Il Dalai Lama si è trasformato in politico e il suo governo è un governo fatto di monaci-politici. Noi rigettiamo l’idea dell’autonomia, che costringerebbe i tibetani a sottomettersi agli Han. Vogliamo inoltre un’indipendenza di tutte le popolazioni tibetane, non solo del Tibet politico, ma anche dell’Amdo e del Khamdo.

E come pensi di raggiungere questi obiettivi? Non c’è nazione che appoggerebbe politicamente la vostra richiesta. I movimenti pro Tibet in Europa e in America sono assolutamente tutti pro Dalai Lama.
Quando guardo le manifestazioni davanti alle ambasciate di Cina in Europa o in Usa, vedo che tutti i manifestanti portano cartelli con la scritta Free Tibet. Free Tibet, hai capito? Non Autonomy for Tibet. Penso che siano stati conquistati dalla figura del Dalai Lama, ma che lottino per qualcosa a cui il Dalai Lama non crede più.

Tibet indipendente vorrebbe dire tornare al Tibet anteguerra? Era un Tibet violento, dove Panchen Lama e Dalai Lama si fronteggiavano con propri eserciti, devastando le campagne… Un Tibet ben lontano dall’idea di nazione pacifica e mistica che abbiamo in Occidente.
No, non vogliamo tornare a quel Tibet. Non vogliamo il feudalesimo, il ritorno all’aristocrazia, alle lotte fra i vari monasteri. Ciò che vogliamo è salvare il meglio della nostra cultura. Un Tibet non chiuso in se stesso. Se il Tibet fosse stato più aperto e avesse allacciato rapporti diplomatici e di amicizia con altri stati, forse la Cina non avrebbe potuto invaderci così facilmente.

Il Dalai Lama vorrebbe per il Tibet il ritorno a uno status politico come quello assicurato da Mao Zedong tra il 1950 e il 1959. Molti tibetani sarebbero d’accordo.
Perderemmo però la nostra identità. Noi vogliamo essere gli artefici del nostro futuro. Ogni popolo ha il diritto di vivere nella sua terra come desidera. Possiamo avere rapporti di buon vicinato con la Cina, ma non vogliamo che sia Pechino a dirci quello che dobbiamo fare.

Eppure c’è stato un miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani grazie alla Cina.
Ma sempre sulla base delle esigenze di Pechino. Non ci servono infrastrutture, case modee, industrie inquinanti. Gli Han hanno comprato tutto. Non siamo padroni di nulla.

È esattamente quello che gli indiani di Dharamsala lamentano nei confronti dei tibetani: con i milioni di dollari che arrivano dalle varie associazioni, fondazioni, governi, i tibetani sono divenuti proprietari di gran parte di Dharamsala, relegando gli indiani a cittadini di serie B.
La soluzione sarebbe fare rientrare questi tibetani dal loro esilio. Ma solo con la totale indipendenza potremo convincerli.

Che ruolo avrebbe il Dalai Lama in un vostro ipotetico governo?
Ne sarebbe il capo, esattamente come lo sono stati i Dalai Lama precedenti. Non possiamo perdere una figura così rispettata. È il nostro passaporto per il mondo. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Elogio dell’eresia (e degli eretici)

Sullo stato delle cose economiche

Il mondo vive nel mito della crescita, della globalizzazione, di un modello di sviluppo unico e immodificabile. Nel frattempo, la catastrofe ambientale è sotto gli occhi di tutti, la crisi alimentare si aggrava, la speculazione finanziaria domina l’economia. In questo bailamme, a vincere sono sempre i soliti. Ma lo diciamo sottovoce, perché – come pretende il «pensiero unico» – certe cose sarebbe meglio tacerle. A meno di non essere degli eretici…

La chiamano «scienza triste», ma in realtà questo è quasi un complimento. L’economia (almeno come la vediamo oggi) è l’applicazione della selezione darwiniana sulla società, in base alla quale vincono sempre i più forti e i più scaltri. È nell’economia finanziario-speculativa, che si mostra in tutta la sua portata l’amoralità del sistema.
Per capire il grande imbroglio della finanza speculativa, è sufficiente un esempio tra i molti disponibili. In tanti avranno sentito parlare delle «agenzie di rating», società private che analizzano la solidità finanziaria di imprese, banche, assicurazioni ma anche degli stati (Italia compresa). Le agenzie che dominano il mercato sono soltanto tre, tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.
I danni che producono le «pagelle» delle tre sorelle sono giganteschi. I loro «report» (con cui vengono motivati i voti: Aaa, C, D, e via simboleggiando) sono inappellabili e – addirittura – difficilmente criticabili (perché «il mercato non capirebbe»). Eppure, sono spessissimo inattendibili, anche perché viziati da svariati conflitti d’interesse (1).
Limitandoci alla stretta attualità, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch sono le stesse agenzie che non hanno avvertito della bomba a tempo dei mutui subprime su cui tante banche hanno giocato (2), salvo poi scottarsi (e far pagare il danno ai clienti, ai risparmiatori o ai cittadini attraverso lo stato).
E che dire dell’altra crisi di questi mesi, quella alimentare? (3) La crisi del cibo non è determinata da una carestia, ma dal costo dei prodotti (in primis, riso, mais, grano, soia), diventato inaccessibile per centinaia di milioni di persone. Il problema è stato generato dall’applicazione all’agricoltura dei principi neoliberisti, specialmente nei paesi poveri. Qui si è persa la sovranità alimentare facendo chiudere i piccoli produttori locali e favorendo invece un’agricoltura estensiva votata all’esportazione. Se a ciò si aggiungono le politiche delle multinazionali delle granaglie (come la Cargill, General Mills, Adm, ecc.) e le onnipresenti speculazioni di borsa (attraverso i contratti denominati futures), il quadro spiega gli aumenti dei prezzi e le conseguenti «rivolte del pane» scoppiate in decine di paesi.
Questi sono soltanto alcuni esempi di un’economia che guarda al profitto di pochi, senza curarsi dei danni che produce. Il sistema si basa su alcuni elementi portanti – il mito della crescita e del libero mercato, le privatizzazioni, il pensiero unico neoliberista – attorno a cui ha costruito la propria filosofia esistenziale. È da questi stessi elementi che occorre partire per spiegare perché il sistema rischia l’implosione.

L’INDICIBILE IMBROGLIO DEL PIL

I disastri conseguenti ad una crescita inadeguata del «Prodotto interno lordo» (Pil) sono spiegati, con cadenza quotidiana, dai mezzi di comunicazione. Eppure, l’inadeguatezza del Pil come strumento per valutare un’economia e le condizioni di un paese è conosciuta da tempo.
Già nel 1968, un politico di primo piano diceva: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (Pil). Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
A parlare così non era un rivoluzionario o un poeta (o tutti e due assieme), ma un politico di nome Robert (Bob) Kennedy (4).  Egli fece questo discorso all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, due mesi prima di essere assassinato.
Per rimanere più vicini nel tempo e nello spazio (geografico), leggiamo quanto scrive Luca De Biase (5): «La retorica della crescita economica non cessa di farsi sentire a tutti i livelli della narrazione pubblica: la crescita del Pil  va bene e il rallentamento della crescita va male. Il messaggio resta inalterato in ogni fase storica dal 1950 ad oggi. Quando finisce la spinta dell’industrializzazione, i media subentrano a spingere i consumi e a sostenere che l’aumento del Pil o la crescita della borsa sono le sole variabili che davvero contano. Peccato che il Pil misuri solo ciò che ha un prezzo. Gli economisti sono i primi a diffidae. La loro classica battuta secondo la quale “se sposi la tua donna di servizio fai scendere il Pil” resta indicativa. Si può vedere un collegamento diretto, senza troppo paradosso, tra le relazioni umane di qualità – che non sono regolate da uno scambio di moneta e la contabilità nazionale. Meno si nutre fiducia negli altri, più ci si affida agli avvocati per qualunque trattativa e più si fa crescere il Pil: ma non per questo si sta meglio. Più tempo si dedica a lavorare, più si guadagna e più si aumenta il Pil, anche a costo di avere meno tempo per gli amici: il bilancio della felicità non è necessariamente in attivo, anche se quello della moneta è in nero. La crescita del Pil, una volta superata la prima fase che porta a un benessere diffuso, innesca una sorta di spirale. Solo una retorica della crescita ben congegnata può far pensare che quella spirale vada giudicata complessivamente positiva».
Insomma, il Prodotto interno lordo non funziona, ma continuano a propagandarlo come un punto di riferimento assoluto. Lo stesso vale per il privato (meglio del pubblico, ci dicono), per le multinazionali (meglio degli stati), il sistema economico neoliberista (meglio di qualsiasi altro sistema, anche ipotetico).

PRIVATO È BELLO. O NO?

Fintantoché c’è il profitto, «privato è bello» (se poi sia anche realmente efficiente e giusto, è tutto un altro discorso). Se però il profitto scompare, allora l’intervento pubblico (cioè con i soldi di tutti i cittadini) è reclamato come indispensabile. Qualche esempio: i fondi pensione (privati) funzionano finché la borsa e l’economia finanziaria sono in salute, ma non sono mai sicuri come la previdenza gestita dallo stato; le cliniche private vanno benissimo finché le cure o le operazioni chirurgiche non sono troppo complesse e dunque troppo costose per la proprietà; le assicurazioni private assicurano chiunque sia in buona salute, chi di salute ne ha meno è meglio che si rivolga altrove; i voli low cost sono un ottimo investimento (privato), finché le compagnie aeree (private) ricevono contributi dagli aeroporti o dagli enti territoriali; e via esemplificando. Il «conflitto tra pubblico e privato» diventa ancora più evidente nell’economia illegale (in cui l’Italia eccelle): la costruzione abusiva di case, lo smaltimento illecito di rifiuti privati, il mancato rilascio di fatture e scontrini fiscali, la dichiarazione dei redditi falsa sono tutti eventi economici illeciti fatti a spese e a danno della collettività.
È una «dittatura del mercato» che agisce sempre e comunque per la convenienza di pochi e, per converso, a scapito della maggioranza. «Il parametro – ha scritto Frei Betto (6) – si sposta dal sociale all’individuale. Una società o un’istituzione è buona nella misura in cui io vengo beneficiato. Non importa se il mio beneficio si realizza a scapito di molti; con l’accumulazione di terre, la concentrazione di redditi».
«In nome della libera concorrenza – ha scritto ancora il teologo e scrittore brasiliano  – si rinuncia al ruolo regolatore dello Stato e del diritto (…). Nella sfera sociale, vale l’inteazionalizzazione del mercato come meta fondamentale, senza che siano posti in discussione i suoi fini sociali e politici. Le forze del mercato passano così ad assumere il ruolo di istanze regolatrici dell’insieme della società. E il guadagno, da parte sua, assume il ruolo di mediatore all’interno dei rapporti sociali. Questa sottomissione della politica, del diritto e dell’etica agli interessi economici privati mina la possibilità di una convivenza globale fondata sui princìpi e sui valori».

«MA NON TI VERGOGNI?»

Ci sono alcuni paesi dell’America Latina (Venezuela e Bolivia su tutti), dove lo stato si è ripreso il controllo delle risorse del sottosuolo, sottraendole alle multinazionali (corporations) che fino a ieri ne avevano ricavato profitti enormi a discapito delle popolazioni locali. Ebbene, la maggioranza dei media mondiali (in primis, quelli dei paesi di appartenenza delle multinazionali ridimensionate) hanno gridato e gridano allo scandalo per la violazione del principio intangibile del «libero mercato».
Si sostiene che le multinazionali lavorino meglio degli stati che sono corrotti ed inefficienti. Dubitiamo fortemente del giudizio alla pari di Joel Bakan (7), un professore che il fenomeno lo ha studiato bene.  Secondo Bakan, le multinazionali sono uno «strumento che serve solo a creare ricchezza, ed è uno strumento estremamente efficace, perché non ha nessun vincolo interno di ordine morale, etico o giuridico che limiti chi o cosa può sfruttare per arricchirsi e far arricchire i suoi proprietari. Il verbo “sfruttare”, secondo il dizionario, significa “utilizzare per i propri fini egoistici o per il profitto”.  Nell’ultimo secolo e mezzo, la corporation si è conquistata il diritto di sfruttare gran parte delle risorse naturali del pianeta e quasi tutte le aree dell’attività umana».
Difendere e diffondere idee opposte o semplicemente diverse da quelle vendute dalla globalizzazione del pensiero unico è difficile, a volte impossibile. «Oggi – ha scritto Francesco Gesualdi (8) – non è ammesso pensarla in maniera diversa dalla logica dominante e chiunque osi utilizzare criteri di analisi e di proposta diversi da quelli mercantili è da eliminare, tramite la derisione o la repressione. Ma mai come oggi è emerso il fallimento di questo sistema e mai come oggi si è avvertito il bisogno di avere degli eretici. Delle persone, cioè, che sappiano leggere e interpretare le scelte che si stanno compiendo, mettendo bene a fuoco a chi giovano e quali conseguenze sociali ed ambientali comportano. Delle persone che sappiano smascherare i giochi e soprattutto che sappiano proporre altri modi di fare economia partendo da altre prospettive: la dignità, la serenità personale, la convivialità, la solidarietà, la sostenibilità, la pace, i diritti, l’uguaglianza. La strada è tracciata. Ora ognuno deve lavorare dentro di sé per diventare lui stesso un eretico e soprattutto per far passare le idee dal mondo dell’intelletto a quello dei fatti».

«QUESTA» COPERTA È CORTA

Come abbiamo cercato di spiegare, la situazione è grave e le prospettive non sono incoraggianti. «L’ottimismo di chi coltiva l’aspettativa di nuovi ritrovati della tecnica capaci di evitare l’abisso verso il quale viaggia la nostra civiltà – l’ottimismo di chi confida che “prima o poi si inventerà qualcosa” – non sembra ragionevole», ha scritto Juan-Ramón Capella (9).
Il problema è che «questa» coperta è corta. Lo spiega bene don Vinicio Albanesi (10): «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a cui appartengono».
Se la coperta è corta, occorre cambiarla. Come splendidamente suggerisce ancora Francesco Gesualdi, pur non essendo un invitato di Porta a Porta né un editorialista del Corriere della Sera o de Il Sole 24-Ore: «La posizione di chi sta sul ponte di comando – scrive Gesualdi – è quella dello sviluppo. Imprenditori, intellettuali, economisti, giornalisti e dirigenti di partito, sostengono in coro che il nostro  obiettivo deve essere più produzione, più commercio, più consumi, più velocità, più tecnologia, più competizione. È l’inno della crescita ritenuta la strada che conduce al benessere, al progresso, alla modeità. Concetti, dai mille significati, che andrebbero discussi di continuo. Invece li abbiamo trasformati in idoli indiscussi. Se un ingegnere si mettesse in testa di costruire un grattacielo sempre più alto senza tenere conto della friabilità del terreno, della velocità dei venti, della tenuta del cemento, verrebbe rinchiuso in un manicomio. Invece gli economisti progettano la crescita infinita, preparando la rovina dell’umanità, e vincono il Nobel».
«È urgente abbandonare l’economia della crescita per avviarci verso l’economia della sobrietà. Ma manchiamo di un modello di riferimento e oscilliamo fra due atteggiamenti contrapposti. Da una parte il semplicismo di chi afferma che basta tornare all’autoproduzione. Dall’altra il pessimismo di chi afferma che non ci sono modelli alternativi. La mia posizione è che l’economia del limite richiede cambiamenti su molti piani, ma non mi angoscio se non vedo tutto chiaro. Le soluzioni di dettaglio si trovano lungo il cammino. L’importante è iniziare a cambiare rotta con le idee chiare sugli obiettivi e su alcune piste principali».
«Ho chiaro che dobbiamo avviarci verso un sistema capace di coniugare sobrietà e garanzia dei diritti fondamentali per tutti. Le mie parole d’ordine sono meno mercato, meno competizione, meno globale, meno denaro; più pubblico, più cooperazione, più locale, più fai da te».
Soltanto un passaggio dall’«economia della crescita infinita» ad una «economia del limite e della sobrietà» potrà evitare l’implosione del sistema e tamponare il problema dei problemi, quella catastrofe ambientale di cui (quasi) tutti sono consapevoli. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il pane della crisi

Analisi della situazione (1)

Il libero mercato, l’ingegneria finanziaria, la speculazione: il sistema economico è alle corde. O forse sull’orlo del baratro. Ma a pagare non sono i colpevoli, ma le vittime, quelle stesse che un’abile campagna mediatica e politica avevano convinto a credere nell’infallibilità del sistema, l’unico possibile per il progresso e lo sviluppo.

Quando il Fondo monetario internazionale valuta in quasi 1.000 miliardi di dollari le perdite  finanziarie è chiaro che qualcosa, nell’economia mondiale, non va.
La crisi è stata scatenata al tracollo dei mutui subprime: si tratta di mutui per l’acquisto della casa concessi dalle banche statunitensi anche a chi non poteva permetterseli, ovvero con un rischio altissimo di sofferenza. Solo che poi le banche statunitensi hanno rivenduto i mutui subprime, e con essi il loro essere estremamente rischiosi, sui mercati inteazionali finanziari. Come era prevedibile, tantissime famiglie non sono state in grado di saldare i loro debiti, e questo si è tradotto in una crisi globale.
Crisi che oggi appare assai più dura di quanto si prevedesse solo qualche mese fa. Si tratta di enormi perdite che stanno travolgendo i conti di molte banche, compagnie d’assicurazione, fondi pensione (sì, quelli che dovrebbero garantirci la pensione), ma che sembrano destinate ad avere ripercussioni sull’intera economia planetaria, contribuendo a rimuovere le fragili paratie fra sistemi finanziari e sistemi produttivi.

I FALLIMENTI
DEL «LIBERO MERCATO»

Vediamo in che condizioni è l’economia mondiale. Gli Stati Uniti nella migliore delle ipotesi cresceranno solo dello 0,5% nel 2008, mentre, proprio a causa del rallentamento Usa, il mondo non dovrebbe andare oltre il 3,7%, a conferma dell’incapacità dei paesi emergenti di sostituire i mercati più tradizionali nel ruolo di traino dei consumi globali.
Gli artifici dell’ingegneria finanziaria – di cui i subprime sono ormai un paradigma – che avrebbero dovuto limitare il rischio, disperdendolo fra più soggetti, hanno mostrato gravi carenze e hanno seminato una profonda paura. Per evitare guai peggiori, le banche centrali si sono adoperate a più riprese al fine di fornire copiose iniezioni di liquidità agli operatori, correndo il pericolo però di scatenare spirali inflazionistiche (cioè di far alzare i prezzi) oltre a ripristinare forme di interventismo statale che costringono i contribuenti a pagare i costi dell’«azzardo morale» dei soggetti finanziari.
Tanto per fare degli esempi, la Commissione europea è stata obbligata a sottoporre ad attenta valutazione sia gli aiuti del governo britannico alla banca Northe Rock e i sussidi erogati dai Land a tre istituti creditizi regionali sia quelli indirizzati dalla Federal Reserve ai colossi come JP Morgan che operano anche in Europa.
Il rischio del costituirsi di situazioni di monopolio privato per effetto del sostegno pubblico è decisamente concreto e l’artificiosa alimentazione di tale monopolio trova le proprie paradossali motivazioni nella gravità delle conseguenze che derivano dagli «eccessi speculativi». Come dire, più il mercato è libero e senza regole, più serve l’intervento dello Stato per salvare i privati dalla bancarotta.
Ecco quindi un evidente paradosso: anziché evolvere secondo una linea qualsiasi, il mercato finanziario sembra crescere negando i suoi stessi presupposti, ovvero la totale deregolamentazione. La «mano invisibile» tanto in auge ha provocato tanti danni da costringere i legislatori a fare da curatori fallimentari. Eppure nessuno contesta che lo sviluppo economico può essere solo garantito  dalla libera concorrenza, che i modelli alternativi hanno dato risultati pessimi.
La centralità di un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo di benessere sociale, ma anche di diritto, e come motore della politica rispetto a modelli immancabilmente bollati come ideologici, antistorici o dirigisti, è un pregiudizio ormai talmente radicato da non venire nemmeno percepito come tale. Un dogma, sarebbe da dire.

LA SPECULAZIONE PASSA 
AI PRODOTTI ALIMENTARI

Toiamo a quello che accade all’economia mondiale. La mancanza di trasparenza nei bilanci, unita al diffuso deprezzamento di molta carta commerciale a causa dell’insicurezza dilagante fra le stesse istituzioni finanziarie, ha amplificato a dismisura danni inizialmente ritenuti circoscritti, tanto da indurre un sovvertimento radicale dei comportamenti persino delle istituzioni più ortodosse del «mercatismo».
Dominique Strauss-Kahn, alla testa del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha auspicato la creazione di una «terza linea di difesa», rappresentata dall’impiego continuativo di risorse pubbliche, per proteggere le banche ed evitare la scomparsa della liquidità; nella stessa prospettiva Ben Beanke non solo ha consentito alla Fed di far accedere al proprio credito le banche d’investimento ma ha anche deciso di cedere i buoni del Tesoro in possesso della banca centrale Usa in cambio di titoli «spazzatura».
Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e il Financial Stability Forum, consapevoli della gravità della situazione, hanno steso severe raccomandazioni per gli operatori finanziari, invitandoli ad abbandonare la pratica dell’indebitamento selvaggio attraverso l’effetto moltiplicatore della leva. È chiaro quindi che l’asprezza della crisi in atto sta provocando avvertibili modifiche nella visione a lungo coltivata di un mercato finanziario in grado di generare ricchezza e di sanare le proprie contraddizioni «inventando» nuovi strumenti e coinvolgendo sempre nuovi soggetti.
Attenzione però, perché per uscire dalle difficoltà scatenate dal crollo dei rendimenti dei valori mobiliari stanno prendendo corpo alcune pratiche molto pericolose.
Se i titoli di settori fondamentali come i bancari, gli assicurativi e gli immobiliari registrano cadute vertiginose, milioni di investitori in giro per il pianeta tendono ad orientarsi verso altre destinazioni di maggiore resa. In tale ottica i contratti relativi alle commodities, cioè i prodotti alimentari, grazie a prezzi in costante ascesa per effetto delle previsioni di una domanda mondiale in marcato aumento, stanno diventando veri e propri beni rifugio al pari dell’oro, contribuendo in maniera decisiva all’esplosione dell’«agrinflazione», dell’impennata dei prezzi dei prodotti agricoli attraverso la loro finanziarizzazione. La crisi dei mutui innesca così la ricerca di impieghi remunerativi in ambiti molto delicati che si legano in modo diretto all’alimentazione primaria del pianeta.

2008: LE RIVOLTE 
PER IL PANE

Ecco perché ad Haiti le rivolte per l’impennata dei prezzi dei generi alimentari hanno condotto a violenti scontri con le forze dell’ordine: almeno cinque persone sono state uccise, altre decine sono rimaste ferite. In Egitto, dove gran parte della popolazione ha pranzo e cena assicurati grazie al prezzo calmierato del pane, la carenza di grano (probabilmente dirottato sul fiorente mercato nero) ha portato ad autentici assalti ai foi. Altre rivolte sono state segnalate in Marocco, Mauritania, Costa d’Avorio, Camerun, Senegal, Indonesia. Secondo alcune stime il prezzo internazionale del grano è più che raddoppiato in un anno, quello del riso è salito del 75%. Robert Zoellick, presidente della Banca mondiale, è arrivato a presentarsi davanti ai giornalisti con una pagnotta in mano, per invocare piani d’emergenza necessari a sfamare «cento milioni di persone – ha detto – che rischiano di essere spinte sotto la soglia di povertà».

I BIOCARBURANTI 
SONO UN CRIMINE?

Molti economisti sostengono che i prezzi degli alimentari difficilmente scenderanno in tempi brevi: a tenerli alti concorrono poi, oltre ai meccanismi speculativi, cause naturali (come le inondazioni che hanno limitato i raccolti) e la destinazione di ampie coltivazioni alla produzione di biocarburanti. Quest’ultimo elemento ha scatenato una serie di reazioni politiche stizzite, specie dopo che Jean Ziegler, relatore dell’Onu sull’alimentazione, ha detto di ritenere la produzione massiccia di carburanti dalle produzioni agricole «un crimine contro l’umanità».
Angela Merkel, premier tedesca, ha replicato che la vera causa dell’impennata dei prezzi è la repentina crescita dei consumi: «In India adesso la gente mangia due volte al giorno…». Dal Brasile il presidente Lula è stato molto netto: «Non accetto più questa contrapposizione fra biocombustibili e alimenti». Va detto che la Merkel ha parlato mentre inaugurava un impianto per ricavare combustibile dalle biomasse e che il Brasile sta puntando molto forte sui biocarburanti, ma intanto l’emergenza alimentare resta fuori dall’agenda politica internazionale. 

di Pietro Raitano e redazione di «Altraeconomia»

Pietro Raitano