Tanti amici (ma a parole)

Reportage dal paese delle nevi

Invaso e colonizzato dalla Cina, da più di 50 anni il Tibet lotta per difendere la propria cultura e libertà, riscuotendo grande interesse e simpatia da parte dell’opinione pubblica mondiale, grazie soprattutto al carisma del suo leader, il Dalai Lama. La solidarietà, però, rimane al livello teorico: nessuno stato osa inimicarsi la potenza cinese. Ma anche tra i tibetani crescono le tensioni, mettendo in discussione il ruolo politico del loro leader.

La storia, insegnano i cinesi, è una spirale: pur essendo in continuo movimento, ciclicamente ritorna su se stessa, riproponendo eventi già accaduti nel passato. Le manifestazioni avvenute recentemente in Tibet sono la conferma di questa teoria.
Cina e Mongolia hanno sempre cercato di controllare gli altipiani tibetani, influenzando in modo determinante la cultura della regione. I mongoli, ad esempio, hanno condotto la setta dei Gelukpa a prevalere su quella degli Sakya, dando inizio alla discendenza dei Dalai, termine mongolo che significa «oceano», e di cui il lama Tenzin Gyatso è oggi il xiv rappresentante.
Ma nel dizionario tibetano esiste un altro concetto, indispensabile per capire i meccanismi che hanno segnato le fasi storiche della regione: cho-yon. Tradotto in modo approssimativo, cho-yon indica la relazione secolare che lega un maestro spirituale al suo protettore laico.
Presenza ingombrante e violenta
La storia del Tibet, sin dal xii secolo, quando i mongoli si affacciarono in queste lande, si è sempre basata su questa immagine della doppia relazione. L’abilità o meno dei vari governanti nell’amministrare questo rapporto, ha spostato l’equilibrio del potere verso Lhasa o verso Pechino.
Il fatto è che i vari regnanti tibetani non hanno mai mostrato grandi capacità nel manipolare l’arte del governo: le rivalità tra i vari monasteri, vere e proprie città stato appartenenti alle diverse sette buddiste e ognuno con propri eserciti di monaci guerrieri, hanno costretto i Dalai Lama o i loro reggenti a chiedere l’aiuto ora della Cina, ora della Mongolia, sino a rivolgersi addirittura alla Russia zarista, per mantenere unito il paese.
La presenza cinese in Tibet si è sempre mostrata ingombrante, e spesso violenta, in particolar modo durante gli ultimi anni dell’impero Manciù, quando il generale Zhao Erfeng era soprannominato il «macellaio dei lama». Da parte loro, i governanti tibetani non hanno mai fatto nulla per ricercare simpatie altrove. L’unico tentativo di allacciare relazioni diplomatiche con un paese occidentale, fu fatto con la Germania di Hitler, la cui ammirazione per le religioni orientali e per la teosofia di Madame Blavatsky portava i suoi interessi nelle regioni indoeuropee. Una pagina non proprio edificante che oggi i tibetani cercano di nascondere.
È in questo contesto che i cinesi di Mao Zedong sono arrivati in Tibet, all’inizio accolti con favore dai monasteri fedeli all’altra autorità spirituale del paese: il Panchen Lama, allora in disaccordo con il Dalai Lama. La politica maoista fu quella di mantenere lo status quo della regione, evitando cambiamenti repentini e iniziando un dialogo con il Dalai Lama sulla base del cho-yon.
Fu invece sopraffatto dagli eventi. Nel 1959 il segretario del Partito comunista dello Sichuan, Li Jingquan, contro il volere dello stesso presidente, diede inizio alla politica d’integrazione totale: le proprietà vennero requisite, i monasteri chiusi, la lingua tibetana vietata nelle scuole e negli uffici pubblici. In poche settimane la situazione precipitò e il Dalai Lama fuggì in India.
Solo dopo il 1980 i cinesi cominciarono a cambiare politica verso il Tibet, accogliendo una delegazione di tibetani in esilio guidata dal fratello del Dalai Lama, riaprendo i monasteri, inserendo la lingua tibetana nelle scuole e iniziando il dialogo con il governo in esilio in India. Ma, come accaduto per altre regioni, lo sviluppo economico voluto da Pechino è stato interpretato diversamente dai tibetani: l’arrivo di migliaia di Han, la costruzione della ferrovia del Qinghai che collega Lhasa a Pechino in 48 ore, lo sviluppo turistico della regione, sono ragioni sufficienti per accusare la Cina di voler annientare la cultura locale.

Paura per tutti

È all’interno di questo quadro storico che sono tornato in Tibet, dopo essere stato testimone delle manifestazioni della scorsa primavera, cercando di comprendere cosa stesse accadendo realmente al di là delle simpatie che tutti noi abbiamo verso un popolo pacifico, oppresso da un regime che sta ancora cercando di trovare un nuovo equilibrio dopo la morte del Grande Timoniere.
Appena messo piede a Lhasa si comprende immediatamente che molto è cambiato nella società: i vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani ancora innevati.
La normalità è tornata nella capitale tibetana, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista.
L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo; ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i giochi olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang, regione dove la repressione si esprime in forme più violente e subdole rispetto a quella tibetana.
«Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty Inteational a Hong Kong. Allison aggiunge anche che la Cina non ha ancora svelato il «mistero» che circonda la figura di Gedhun Chuekyi Nyima, il quale dal 1995, anno in cui il Dalai Lama lo ha riconosciuto come undicesima reincarnazione del Panchen Lama, è tenuto segregato in un luogo segreto dalle autorità di Pechino. «Aveva sei anni all’epoca ed è stato riconosciuto da Amnesty come il più giovane prigioniero politico del mondo». Dice Allison.

Dagli slogan all’oblio

Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese del sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani.
«Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco originario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglie tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti, ufficialmente dichiarati dalle autorità, o dei 99 proclamati dal governo in esilio.
A parole «siamo tutti tibetani», ma quando si tratta di mettere in pratica gli slogan espressi durante i cortei di piazza, ecco che si preferisce delegare chi sta più in alto. Si chiede il boicottaggio dei prodotti cinesi, ma quando si tratta di comprare abbigliamento, Hi-Fi, computer, accessori per la casa, entrambi gli occhi vengono chiusi di fronte ai prezzi concorrenziali del made in China. Ancora una volta il portafogli prevale sulla coscienza: meglio che il boicottaggio lo facciano gli altri, magari i governi e magari su prodotti che non vengono venduti nei supermercati.
E così, tra i tibetani, si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel vii secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza».
Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del vii Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento.
Solo con la Germania nazista, come già accennato, si stabilirono stretti contatti, sino a consentire a una spedizione antropologica alla ricerca della «razza pura» di girare in lungo e in largo la regione. «La spedizione nazista di Est Schafer, voluta da Himmler, ebbe l’appoggio del Kashag. Fu l’unica spedizione ufficialmente a scopo scientifico, a poter soggioare in Tibet per più di un anno» spiega Christofer Hale, autore del libro La crociata di Himmler – La spedizione nazista in Tibet nel 1938.
E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’«Accordo in diciassette punti» che sanciva «il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica popolare Cinese».

Dal karma al materialismo

Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. È la legge del karma, la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto l’universo» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse.
Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore degli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stato proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico.
Non è un caso che le rivolte di marzo, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. Lo stesso Dalai Lama, in base a questa classificazione cinese, sarebbe nato in Cina, visto che l’Amdo oggi non fa parte della Regione autonoma tibetana. Qui, al risentimento verso i cinesi, si aggiunge un senso di isolamento dalla «madrepatria», che si esprime attraverso forme di protesta che sfociano in veri atti di sfida. È proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’azione più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
Una sorta di Iwojima modea, prontamente occultata dalle autorità cinesi, che si sono affrettate a ripristinare lo status quo precedente. «La Cina afferma che il Tibet ha avuto uno sviluppo economico enorme grazie alla modeizzazione; è vero, ma per questo sviluppo abbiamo dovuto sacrificare, oltre alla cultura, il nostro ecosistema» ricorda uno studente incontrato in un ristorantino nei pressi dell’università.
Durante gli anni Sessanta, per compiere il «grande balzo in avanti» e divenire la prima potenza mondiale produttrice d’acciaio, tutte le regioni cinesi furono sottoposte a sistematici saccheggi naturali. Ma queste devastazioni ecologiche, accompagnate da installazioni nucleari e militari, non furono subite solo dal Tibet, bensì in tutta la Cina, come ha esaurientemente spiegato Jasper Becker, nel suo libro La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta.
Il già citato Xinkjiang, ad esempio, ha patito distruzioni ben peggiori che ancora oggi si ripercuotono sulla popolazione e sulla cultura locale. Purtroppo per gli uiguri, loro non hanno un Dalai Lama e una religione «esotica» ed «affascinante» come quella buddista in grado di affermarsi tra l’opinione pubblica occidentale.

Un esilio in tensione

Inoltre, è anche vero che nella regione di Dharamsala, i tibetani, grazie ai finanziamenti ricevuti dalle organizzazioni pro-Tibet dell’Occidente, hanno «colonizzato» tutte le attività commerciali, allontanando gli autoctoni e creando tensioni che, seppur non siano mai degenerate in scontri, cominciano a causare qualche perplessità nel governo indiano.
M.K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano a Mosca, Islamabad e Kabul, che mi accompagna a Dharamsala, spiega che «Dharamsala è su suolo indiano, ma oramai è come se fosse una città straniera per noi. Non abbiamo alcun controllo sulla comunità tibetana in India. Da ospiti sono diventati padroni». Poi, davanti ad una tazza di tè salato, continua: «Sono sicuro che le manifestazioni di Lhasa sono state organizzate, se non dall’entourage del Dalai Lama, dalle organizzazioni estremiste tibetane, che compongono il mosaico politico della comunità in esilio».
Le relazioni tra New Delhi e Dharamsala, ottime fino a qualche anno fa, si stanno deteriorando. Ora che l’India ha iniziato a interloquire con la Cina, la questione tibetana si sta facendo sempre più bollente e il governo di Manmohan Singh spinge affinché anche il Dalai Lama accetti di intavolare un dialogo fruttifero con Pechino. «Il problema non è tanto il Dalai Lama» spiega a New Delhi Subramanian Swamy, esperto in Cina e consigliere economico del governo Singh, «ma i suoi consiglieri, poco inclini al compromesso con Pechino. La comunità tibetana in India è formata da innumerevoli gruppi in contrasto tra loro e ognuno di questi gruppi ha, all’interno del governo tibetano in esilio, un suo rappresentante.
Uomini come Tsewang Rigzin, presidente del Tibetan Youth Congress, o Tenzin Choeving, dello Students for a Free Tibet, sono in aperto contrasto con il Dalai Lama e chiedono che il Tibet diventi una nazione completamente indipendente. Il Dalai Lama deve mediare tra tutte queste posizioni».
Il ruolo del leader tibetano, quindi non è così indiscusso come potrebbe sembrare. Il dover mediare tra opinioni in contrasto tra loro, ora che anche l’India preme affinché apra un dialogo con la Cina, lo pone di fronte a un bivio cruciale.
Se fino ad oggi, l’ambiguità del suo status politico-religioso garantito dall’esilio, gli ha assicurato la leadership, ora che è costretto a scegliere nei fatti quale politica perseguire, è inevitabile che all’interno della comunità si creino delle fratture forse insanabili. Se sceglie la linea dura si potrebbe alienare le simpatie dei governi sino ad ora a lui solidali come India e Nepal; viceversa, rigettando definitivamente l’idea dell’indipendenza (già rifiutata nei suoi discorsi sin dalla fine degli anni Ottanta), i gruppi più oltranzisti rischierebbero di rifiutare la sua figura di leader e continuare una lotta separata.
Il Dalai Lama, oramai figura ingombrante anche per l’India che lo ospita, sente la pressione del tempo che fugge e deve cercare di trovare una soluzione soddisfacente più per lui che per la Cina. Nella logica del cho-yon ora è lui ad aver bisogno di Pechino. 

Di Pergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sì al dialogo (purché sia serio)

Intervista al Dalai Lama

Lo abbiamo incontrato nella sua residenza in esilio a Dharamsala (India), durante la rivolta anticinese a Lhasa; nonostante la dura repressione, il Dalai Lama continua a credere nel dialogo con Pechino, per la creazione di un Tibet democratico e autonomo. Purché i negoziati siano seri.

T enzin Gyatso, conosciuto in tutto il mondo come il xiv Dalai Lama, incarnazione del Buddha della compassione Avalokitesvara, è, dal 1959, anno in cui fuggì in India, la figura chiave della lotta tibetana contro la Cina. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace.

Iniziamo con una domanda ovvia, ma che suscita sempre perplessità: perché nel 1959 ha lasciato il Tibet?
Perché se fossi rimasto, i cinesi mi avrebbero preso in ostaggio e questo avrebbe potuto causare una sollevazione popolare.

Cosa ha dato l’esilio a lei e ai tibetani che l’hanno seguita?
La consapevolezza che la via del Buddha è l’unico insegnamento adatto per noi tibetani. Seguendo gli insegnamenti buddisti abbiamo riscoperto un nuovo vigore della vita. Sì, posso dire che l’esilio mi ha migliorato. Per questo posso ringraziare i cinesi.

Democrazia per il Tibet. Questo è quanto lei chiede per la sua terra. Nel passato i suoi predecessori non sono però stati dei campioni di democrazia.
Sì, è vero. È per questo che, una volta assicurata al Tibet l’autonomia, mi ritirerò perché la mia figura potrebbe essere d’ingombro a un cammino democratico. Personalmente, poi, sono vecchio e non voglio ricoprire alcuna carica pubblica. Diciamo che andrò in pensione, farò il Dalai Lama a tempo pieno, dedicandomi alla disciplina buddista.
Che obiettivo si pone come guida spirituale e politica dei tibetani?
Fermare il genocidio culturale in atto. Ma per fermarlo bisogna creare i presupposti per un dialogo con Pechino. Ho già detto più volte che non voglio l’indipendenza del Tibet, ma l’autonomia all’interno della nazione cinese.

Osservando le manifestazioni in atto in Europa, in America, in India e Nepal, i sostenitori della causa tibetana portano striscioni inneggianti all’indipendenza tibetana, non all’autonomia. Siamo sicuri che all’interno del suo governo tutti lottino per la stessa causa? Non possiamo dar torto alla Cina quando chiede una prova tangibile dell’unità di intenti nel suo governo.
Free Tibet non significa necessariamente Tibet indipendente. Significa solamente che vogliamo che la Cina interrompa la politica di aggressiva colonizzazione, accettando che i tibetani ricoprano posizioni di vera responsabilità all’interno del Tibet.

Già ora le ricoprono: Qiangba Pungcog, presidente della Regione autonoma tibetana è tibetano.

Tibetano, ma anche filocinese.
Allora dovreste essere più chiari e dire che non è questione di mettere figure tibetane all’interno del governo, ma figure ben specifiche, indicate da voi. È questo il punto di attrito.
Forse.

Altro punto di attrito riguarda i diversi concetti di cosa intendere per Tibet. Il «vostro» Tibet è un Tibet etnico, comprendente anche le regioni del Gansu, Sichuan, Qinghai e parte dello Yunnan. In pratica si tratterebbe di raddoppiare la superficie sulla quale volete applicare le vostre richieste.
Noi non possiamo dimenticare i 4 milioni di nostri fratelli tibetani che vivono al di fuori dai confini amministrativi del Tibet.

È quindi un dialogo tra sordi. E parlando di sordi non mi riferisco solo ai cinesi.
Noi abbiamo già eliminato dal nostro vocabolario la parola indipendenza. Ci siamo già mossi verso la loro richiesta.

Lei di sicuro. Ma non i manifestanti pro-Tibet, non gli attivisti del Congresso giovanile, non i reduci della guerriglia Khamdo. Un compromesso con la Cina e un suo ritorno a Lhasa non risolverebbe i problemi all’interno del Tibet e, soprattutto, aprirebbe crepe nel vostro movimento.
Cerchiamo però di trovare qualche soluzione.

È ottimista?
Sì. Il regime cinese deve cambiare. È solo questione di tempo. I cinesi stessi non vogliono più vivere isolati dal mondo. Cercano la democrazia. È un processo lento iniziato nel 1989 con Tienanmen.

Quale Tibet sogna?
Un Tibet all’interno di una Cina in cui è possibile vivere in un unico paese con due sistemi. È un approccio già usato con Hong Kong e ha funzionato. Perché non utilizzarlo anche con il Tibet?
Ancora una volta ripeto che il Tibet deve rimanere con la Cina. È nell’interesse stesso dei tibetani.

Perché il Tibet non è Hong Kong: cultura, tradizioni, lingua, storia sono differenti. Pechino non si fida dei tibetani. È un ricorso storico.
Ma per trovare una soluzione ognuno deve cedere qualcosa e al tempo stesso dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Un Tibet simile, inoltre, è già esistito tra il 1950 e il 1959, quando il presidente Mao sovrintendeva il processo di integrazione. È a quel Tibet che guardo.

Lei ha più volte detto che il prossimo Dalai Lama verrà scoperto fuori dalla Cina. In questo modo ha sfidato apertamente le autorità di Pechino perdendo un’altra occasione di dialogo.
La prossima reincarnazione, nel tempo in cui i tibetani sono costretti all’esilio, sarà per forza di cose trovata fuori dalla Cina.

Ci saranno quindi due figure religiose, così come lo è stato per il Panchem Lama? Un Dalai Lama a Lhasa eletto con il beneplacito di Pechino ed uno «ufficiale» a Dharmasala?
È molto probabile che sia così. Starà ai tibetani decidere a quale dei due tributare gli onori e la loro fede.

Lei ha parlato anche di genocidio culturale. Cosa intendeva dire?
Oramai a Lhasa la lingua più parlata è il cinese e così nelle altre città del Tibet. Nelle scuole, negli uffici pubblici il cinese è la lingua ufficiale. Inoltre molti monasteri sono stati chiusi, altri sono stati saccheggiati se non distrutti completamente. Questo intendo quando parlo di genocidio culturale.

La violenza è sempre da evitare? Ci sono dei casi in cui lei approva l’uso della violenza?
Sì, ci sono dei casi estremi in cui la violenza può essere un’arma utilizzabile, ma sempre con l’intento di salvaguardare la dignità dell’uomo. Per esempio durante le guerre mondiali o durante la guerra di Corea, quando, per garantire la democrazia e la pace nel mondo futuro, si sono combattute delle guerre. O per salvaguardare i principi del buddismo. Ma è molto pericoloso l’uso della violenza, anche quando la si utilizza con intenti positivi. Spesso la violenza genera altra violenza.

Molti tibetani giudicano la non violenza un’arma non più proponibile per raggiungere gli scopi prefissati dal suo governo.
Specialmente le giovani generazioni. Lo so, sono al corrente che molti mi giudicano troppo morbido, addirittura troppo filocinese. Ma cosa otterremmo con la violenza? Siamo un piccolo popolo, non possiamo contare su alcun aiuto esterno in caso ingaggiassimo una guerriglia con la Cina. La Cina è potente militarmente ed economicamente e ha rapporti diplomatici con tutto il mondo. Realisticamente parlando: quale paese romperebbe rapporti con la Cina per aiutare il piccolo popolo tibetano?

Nel 2007 durante la sua visita in Italia, il papa non l’ha ricevuta. È rimasto deluso?
I rapporti tra Vaticano e Cina sono molto delicati, per certi versi simili a quelli che abbiamo noi tibetani con il governo di Pechino. Ultimamente sembra che tra Pechino e il Vaticano sia ripreso il dialogo. In questo nuovo corso, un incontro con il Santo Padre avrebbe potuto creare delle difficoltà, quindi ho accettato di non interferire. Del resto avevo già incontrato Benedetto xvi nel 2006.

Lei si è dichiarato contrario al boicottaggio dei giochi olimpici. E anche qui la sua opinione è totalmente opposta con i movimenti pro-Tibet in Occidente, che invece lottano affinché vengano boicottate.
Ho detto che appoggio i giochi olimpici e spero che si svolgano tranquillamente. Se poi alcuni capi di stato non saranno presenti all’inaugurazione, questo sarà una loro scelta.

Il governo cinese l’ha invitata più volte ad andare a Pechino e a visitare Lhasa. Perché ha sempre declinato l’invito?
Cosa accadrebbe se andassi a Pechino e tornassi senza aver concluso alcun accordo? I tibetani si rivolterebbero e rischieremmo di infiammare di nuovo il Tibet con altre rivolte e altri dolori. 

Di Piergiorgio Pescali

LACRIME DI SPERANZA
Associazione donne tibetane a Lhasa

Una leggenda tibetana narra che Jetsun Dolma, dea femminile consorte di Avalokitesvara, la divinità di cui il Dalai Lama è l’incarnazione umana, sarebbe nata da un fior di loto sbocciato dopo essere stato innaffiato da una lacrima del marito. Di lacrime, nel Tibet ne sono state versate tante nel corso della sua storia, e non sempre a causa degli stranieri, ma ultimamente il dolore del popolo si è fatto più lacerante. E con i mezzi di informazione imbavagliati, non è facile avere notizie da questo immenso altipiano. Eppure qualcosa riesce sempre a trapelare attraverso le fitte maglie della censura. Merito di quei tibetani che, a rischio della propria libertà, accettano di fare da tramite tra il loro mondo ingabbiato e il nostro.
Dolma, nome fittizio dietro a cui si cela la rappresentante a Lhasa del Movimento delle donne tibetane, è una di queste figure. Sfruttando abilmente la tradizione secondo cui le donne non si occupano di politica, di sera Dolma smette gli abiti dell’insegnante di scuola primaria e veste quelli di attivista in lotta per l’autonomia del suo paese. «Il governo controlla principalmente i tibetani di sesso maschile e questo ci permette di ottenere notizie senza destare troppi sospetti» spiega nella sua casa alla periferia della città.
È grazie a Dolma e a tibetane come lei che riusciamo a sapere quel che realmente sta accadendo in Tibet. Un incarico rischioso, certo, ma Dolma, assieme a poche altre sue compagne, continua a lavorare per la causa. «Mio marito è stato incarcerato ed è morto in un laogai (i campi di prigionia cinesi, nda). Da allora ho deciso di dedicare la mia vita per la liberazione del mio popolo».
Le lacrime del marito imprigionato, hanno fatto nascere in Dolma il fiore della speranza. Con questo fiore sfida pericolosamente il regime nel segno della non violenza che suo zio, monaco buddista al monastero di Sera, le ha impartito.

Intervista a miss Tibet 2007

Anche la bellezza serve alla causa

Il confronto che oppone Pechino al Dalai Lama non si limita allo scontro politico. La comunità tibetana in esilio in India, infatti, ogni anno elegge una Miss che, con disappunto della Cina, partecipa ufficialmente anche ai concorsi inteazionali. L’attuale Miss Tibet in carica è Tenzin Dolma, 22 anni, eletta lo scorso ottobre.

Che responsabilità ti ha dato portare la fascia di Miss Tibet 2007?
«Quella di rappresentare una terra che vuole rendersi libera e lotta per raggiungere tale fine. Voglio anche rappresentare tutte le donne tibetane, mostrare al mondo e alla nostra comunità che anche noi possiamo raggiungere traguardi inteazionali. Il mio titolo servirà a far sapere al mondo che il Tibet è un paese libero».

Sei nata in India e non hai mai conosciuto il Tibet. Ti senti più indiana o tibetana?
«È vero, sono nata in India, ma i miei nonni sono scappati dal Tibet e i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare la nostra cultura. Mi sento tibetana al 100%. Se non lo fossi, non avrei partecipato al concorso».

Si può partecipare a un concorso anche per notorietà, per girare il mondo e non necessariamente per ideologia.
«Non per noi tibetani. Se si partecipa a Miss Tibet sappiamo che molte strade ci verranno precluse. A differenza di altre Miss, la fascia di Miss Tibet non porta fama o denaro».

Ritoeresti in Tibet se la Cina accogliesse le richieste del Dalai Lama e lui rientrasse a Lhasa?
«Immediatamente».

Oltre a un Tibet libero, cosa sogna Miss Tibet 2007?
«Vorrei vedere il paese dei miei nonni, l’Amdo. E naturalmente sposarmi e avere bambini liberi di andare nel loro paese».
E per te stessa?
«Vorrei diventare modella e girare il mondo».

Cosa ha detto il Dalai Lama del concorso? L’ha approvato?
«Certo! Sua Santità ha anche parlato direttamente alle finaliste. Ha suggerito di essere sempre umili e riservate, ma soprattutto di sentirsi sempre tibetane».

All’interno della comunità tibetana in molti, specialmente i monaci più tradizionalisti, hanno criticato il concorso.
«Sì, ma bisogna adeguarsi ai tempi. Se aiutare la causa tibetana significa passare anche attraverso strade non tradizionali nel senso stretto della parola, penso si debba percorrere anche quella strada. Io, però, non mi preoccupo delle critiche: a me è bastata l’approvazione di Sua Santità il Dalai Lama».

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sedotti e abbandonati

Nel Mustang, sulle orme dei guerriglieri tibetani

Nella valle del Mustang, incastonata tra vette himalayane, c’è un Tibet etnico, risparmiato dall’occupazione cinese: indipendente o autonomo per secoli, nel 1950 il Nepal lo annesse al proprio regno, su richiesta dello stesso re del Mustang, prima che fosse l’Armata Rossa di Pechino a decretae la morte. Per due decenni la valle fu la base dei guerriglieri Khampa che, sostenuti e poi abbandonati dagli Usa, lottarono per l’indipendenza del Tibet, provocando più danni alla causa tibetana che all’esercito cinese.

Lo Monthang è una minuscola valle nepalese che si incunea per una sessantina di chilometri nell’altopiano tibetano. Come già successo per altre aree del loro impero coloniale, gli inglesi ne storpiarono la dizione in Mustang, nome con cui oggi viene comunemente identificata la regione.
Circondata da montagne alte più di 6 mila metri che ne garantivano la sicurezza, per almeno due decenni, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1974, la valle del Mustang è stata la base del Chusi Gangdruk, l’esercito dei guerriglieri Khampa in lotta per mantenere l’indipendenza del Tibet invaso dalla Cina. Una lotta impari, ma che venne sostenuta dalla Cia, la quale offrì addestramento e armi alla guerriglia.
Fu Gyalo Thondup, fratello del Dalai Lama, a organizzare il collegamento tra i leaders Khampa e la Cia, celandone l’esistenza allo stesso leader spirituale tibetano. E fu ancora Gyalo Thondup che, nel campo profughi di Kalimpong, scelse il primo gruppo di tibetani per essere addestrati. La prima missione fu organizzata nell’ottobre 1957, quando Athar Norbu e Lhotse, vennero paracadutati a 100 km da Lhasa per incontrare il leader della resistenza Khampa, Gompo Tashi Andrugtsang.
A Leadville, nel Colorado, fu anche allestito un campo di addestramento attraverso il quale passarono circa trecento tibetani.
La grande differenza di ideali e di obiettivi che divideva il movimento tibetano dalla Cia è ben mostrata dalle parole di due protagonisti: l’ex guerrigliero Tenzin Tsultrim e l’ex agente Cia Sam Halpe. «Quando andammo in America nutrivamo grandi speranze – afferma Tenzin Tsultrim -. Pensavamo addirittura che gli americani ci avrebbero dato anche una bomba atomica».
A queste speranze controbatte Sam Halpe: «Lo scopo di organizzare un movimento di guerriglia in Tibet era esclusivamente fatto per tenere occupate le truppe cinesi. Non c’era assolutamente l’idea di portare il Tibet all’indipendenza».

Il primo gruppo di guerriglieri venne insediato nel Mustang nel 1960, sotto la guida di Baba Yeshe, un ex monaco buddista. L’anno dopo la Cia iniziò il rifoimento di armi e munizioni. Nel periodo di maggior fervore, il Chusi Gangdruk arrivò ad annoverare 2.100 uomini armati, accompagnati da altri 4 mila tra famigliari e rifugiati; un totale di 6 mila persone che andarono a raddoppiare la popolazione di una valle che, già in condizioni normali, faticava a produrre cibo a sufficienza per tutti. Accolti con benevolenza e solidarietà dagli abitanti di Lo Monthang, anch’essi di etnia tibetana, i Khampa punteggiarono la valle di campi militari. A Samar sorgeva uno degli accampamenti più grandi del Chusi Gangdruk.
Assieme a Pema, una donna il cui padre era stato assoldato a forza come portatore dai Khampa, salgo sino al luogo dove era stato allestito l’avamposto. «Da qui partiva il sentirnero che conduceva in Tibet» dice indicandomi col dito un leggero solco tracciato tra il pietrisco. «E là – continua portandomi in una grotta – c’era il quartier generale della guerriglia. A volte vedevo anche degli occidentali; seppi dopo che erano americani».
Il Congresso Usa stanziò 500 mila dollari all’anno per finanziare la rivolta, ricevendo in cambio documenti sottratti ai militari cinesi durante le incursioni. Fu grazie a uno di questi attacchi che la Casa Bianca ebbe la conferma dell’avvio della Rivoluzione culturale, del disastro causato dal «Grande balzo in avanti» e, cosa più importante, della crescente disaffezione di Mao verso Mosca.
Quando poi, all’inizio degli anni Settanta, Pechino e Washington cominciarono a riallacciare i rapporti, la Cia interruppe ogni ulteriore appoggio ai ribelli tibetani.

Senza più finanziamenti e consulenti, il Chusi Gangdruk si trasformò in una banda di predoni: ogni villaggio viveva nel terrore delle incursioni dei guerriglieri affamati. Neppure i monasteri vennero risparmiati: «Numerosi thangka e opere d’arte sono state trafugate per finanziare la guerriglia» mi dice l’abate del Jampa Lhakhang, il principale monastero di Lo Monthang.
Jigme Palbar Bista, Lo Gyelbu (re) della valle, afferma che «la guerriglia ha privato Lo Monthang di preziosi manufatti religiosi, ma ora stiamo cercando di riparare al danno con l’aiuto di studiosi e amici occidentali». Persino la sua biblioteca è stata saccheggiata di libri di scritture buddiste risalenti al 1425.
«La simpatia con cui avevamo accolto i Khampa si tramutò in odio e paura» mi dice Nyima Tsering, il padrone della locanda di Samar in cui alloggio. Lo stesso Dalai Lama afferma che «la guerriglia fu strumentalizzata dalla Cia, che abbandonò i Khampa nel periodo di maggior bisogno. È una triste pagina di storia per tutto il popolo tibetano. La rivolta armata ha causato molto più danno ai tibetani che ai cinesi».
Fu quindi con estremo sollievo degli abitanti che nel luglio 1974 la voce registrata del Dalai Lama, risuonò in tutte le basi del Chusi Gangdruk, invitando i militanti a deporre le armi. «Fu una delusione per tutti – ricorda a Dharamsala Hlasang Tsering, ex guerrigliero, poi divenuto presidente del Congresso dei giovani tibetani -. Potevamo accettare di essere abbandonati dalla Cia e dal mondo intero, ma non dal Dalai Lama. Furono molti che preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi». Altri decisero di trasgredire gli ordini del Dalai Lama, ma furono sterminati dall’esercito nepalese. I superstiti si rifugiarono in India, dove vivono tuttora nella consapevolezza che la loro lotta, biasimata e dimenticata da tutti, è stata inutile. E dannosa per lo stesso Tibet. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Indipendenza piena

Intervista a un rappresentante del movimento tibetano indipendentista

Mentre il Dalai Lama chiede alla Cina l’autonomia del Tibet, il Movimento internazionale per l’indipendenza del Tibet (Itim) lotta per la piena indipendenza, non solo dell’attuale Regione autonoma del Tibet (Rat) ma anche per i tibetani presenti in altri stati della Cina, come Amdo e Khamdo.

S ongtsen è il re che per primo, nel vii secolo, riuscì a unire il Tibet in un’unica nazione. Ma è anche colui che, sposando una principessa cinese, gettò le basi affinché la Cina potesse rivendicare la sottomissione della regione alla dinastia Tang.
Oggi Songtsen è il soprannome che il rappresentante a Lhasa del governo tibetano in esilio si è dato. È giovane e idealista. Forse troppo, tanto da contestare lo stesso Dalai Lama e la sua «morbidezza» mostrata, rigettando l’indipendenza del Tibet a favore di una maggiore autonomia.
Songtsen è anche il rappresentante dell’Inteational Tibet Independence Movement (Itim).

I tibetani a Dharamsala si dividono tra autonomisti e indipendentisti. Che idea prevale qui nel Tibet?
Il Dalai Lama si è trasformato in politico e il suo governo è un governo fatto di monaci-politici. Noi rigettiamo l’idea dell’autonomia, che costringerebbe i tibetani a sottomettersi agli Han. Vogliamo inoltre un’indipendenza di tutte le popolazioni tibetane, non solo del Tibet politico, ma anche dell’Amdo e del Khamdo.

E come pensi di raggiungere questi obiettivi? Non c’è nazione che appoggerebbe politicamente la vostra richiesta. I movimenti pro Tibet in Europa e in America sono assolutamente tutti pro Dalai Lama.
Quando guardo le manifestazioni davanti alle ambasciate di Cina in Europa o in Usa, vedo che tutti i manifestanti portano cartelli con la scritta Free Tibet. Free Tibet, hai capito? Non Autonomy for Tibet. Penso che siano stati conquistati dalla figura del Dalai Lama, ma che lottino per qualcosa a cui il Dalai Lama non crede più.

Tibet indipendente vorrebbe dire tornare al Tibet anteguerra? Era un Tibet violento, dove Panchen Lama e Dalai Lama si fronteggiavano con propri eserciti, devastando le campagne… Un Tibet ben lontano dall’idea di nazione pacifica e mistica che abbiamo in Occidente.
No, non vogliamo tornare a quel Tibet. Non vogliamo il feudalesimo, il ritorno all’aristocrazia, alle lotte fra i vari monasteri. Ciò che vogliamo è salvare il meglio della nostra cultura. Un Tibet non chiuso in se stesso. Se il Tibet fosse stato più aperto e avesse allacciato rapporti diplomatici e di amicizia con altri stati, forse la Cina non avrebbe potuto invaderci così facilmente.

Il Dalai Lama vorrebbe per il Tibet il ritorno a uno status politico come quello assicurato da Mao Zedong tra il 1950 e il 1959. Molti tibetani sarebbero d’accordo.
Perderemmo però la nostra identità. Noi vogliamo essere gli artefici del nostro futuro. Ogni popolo ha il diritto di vivere nella sua terra come desidera. Possiamo avere rapporti di buon vicinato con la Cina, ma non vogliamo che sia Pechino a dirci quello che dobbiamo fare.

Eppure c’è stato un miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani grazie alla Cina.
Ma sempre sulla base delle esigenze di Pechino. Non ci servono infrastrutture, case modee, industrie inquinanti. Gli Han hanno comprato tutto. Non siamo padroni di nulla.

È esattamente quello che gli indiani di Dharamsala lamentano nei confronti dei tibetani: con i milioni di dollari che arrivano dalle varie associazioni, fondazioni, governi, i tibetani sono divenuti proprietari di gran parte di Dharamsala, relegando gli indiani a cittadini di serie B.
La soluzione sarebbe fare rientrare questi tibetani dal loro esilio. Ma solo con la totale indipendenza potremo convincerli.

Che ruolo avrebbe il Dalai Lama in un vostro ipotetico governo?
Ne sarebbe il capo, esattamente come lo sono stati i Dalai Lama precedenti. Non possiamo perdere una figura così rispettata. È il nostro passaporto per il mondo. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Elogio dell’eresia (e degli eretici)

Sullo stato delle cose economiche

Il mondo vive nel mito della crescita, della globalizzazione, di un modello di sviluppo unico e immodificabile. Nel frattempo, la catastrofe ambientale è sotto gli occhi di tutti, la crisi alimentare si aggrava, la speculazione finanziaria domina l’economia. In questo bailamme, a vincere sono sempre i soliti. Ma lo diciamo sottovoce, perché – come pretende il «pensiero unico» – certe cose sarebbe meglio tacerle. A meno di non essere degli eretici…

La chiamano «scienza triste», ma in realtà questo è quasi un complimento. L’economia (almeno come la vediamo oggi) è l’applicazione della selezione darwiniana sulla società, in base alla quale vincono sempre i più forti e i più scaltri. È nell’economia finanziario-speculativa, che si mostra in tutta la sua portata l’amoralità del sistema.
Per capire il grande imbroglio della finanza speculativa, è sufficiente un esempio tra i molti disponibili. In tanti avranno sentito parlare delle «agenzie di rating», società private che analizzano la solidità finanziaria di imprese, banche, assicurazioni ma anche degli stati (Italia compresa). Le agenzie che dominano il mercato sono soltanto tre, tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.
I danni che producono le «pagelle» delle tre sorelle sono giganteschi. I loro «report» (con cui vengono motivati i voti: Aaa, C, D, e via simboleggiando) sono inappellabili e – addirittura – difficilmente criticabili (perché «il mercato non capirebbe»). Eppure, sono spessissimo inattendibili, anche perché viziati da svariati conflitti d’interesse (1).
Limitandoci alla stretta attualità, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch sono le stesse agenzie che non hanno avvertito della bomba a tempo dei mutui subprime su cui tante banche hanno giocato (2), salvo poi scottarsi (e far pagare il danno ai clienti, ai risparmiatori o ai cittadini attraverso lo stato).
E che dire dell’altra crisi di questi mesi, quella alimentare? (3) La crisi del cibo non è determinata da una carestia, ma dal costo dei prodotti (in primis, riso, mais, grano, soia), diventato inaccessibile per centinaia di milioni di persone. Il problema è stato generato dall’applicazione all’agricoltura dei principi neoliberisti, specialmente nei paesi poveri. Qui si è persa la sovranità alimentare facendo chiudere i piccoli produttori locali e favorendo invece un’agricoltura estensiva votata all’esportazione. Se a ciò si aggiungono le politiche delle multinazionali delle granaglie (come la Cargill, General Mills, Adm, ecc.) e le onnipresenti speculazioni di borsa (attraverso i contratti denominati futures), il quadro spiega gli aumenti dei prezzi e le conseguenti «rivolte del pane» scoppiate in decine di paesi.
Questi sono soltanto alcuni esempi di un’economia che guarda al profitto di pochi, senza curarsi dei danni che produce. Il sistema si basa su alcuni elementi portanti – il mito della crescita e del libero mercato, le privatizzazioni, il pensiero unico neoliberista – attorno a cui ha costruito la propria filosofia esistenziale. È da questi stessi elementi che occorre partire per spiegare perché il sistema rischia l’implosione.

L’INDICIBILE IMBROGLIO DEL PIL

I disastri conseguenti ad una crescita inadeguata del «Prodotto interno lordo» (Pil) sono spiegati, con cadenza quotidiana, dai mezzi di comunicazione. Eppure, l’inadeguatezza del Pil come strumento per valutare un’economia e le condizioni di un paese è conosciuta da tempo.
Già nel 1968, un politico di primo piano diceva: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (Pil). Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
A parlare così non era un rivoluzionario o un poeta (o tutti e due assieme), ma un politico di nome Robert (Bob) Kennedy (4).  Egli fece questo discorso all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, due mesi prima di essere assassinato.
Per rimanere più vicini nel tempo e nello spazio (geografico), leggiamo quanto scrive Luca De Biase (5): «La retorica della crescita economica non cessa di farsi sentire a tutti i livelli della narrazione pubblica: la crescita del Pil  va bene e il rallentamento della crescita va male. Il messaggio resta inalterato in ogni fase storica dal 1950 ad oggi. Quando finisce la spinta dell’industrializzazione, i media subentrano a spingere i consumi e a sostenere che l’aumento del Pil o la crescita della borsa sono le sole variabili che davvero contano. Peccato che il Pil misuri solo ciò che ha un prezzo. Gli economisti sono i primi a diffidae. La loro classica battuta secondo la quale “se sposi la tua donna di servizio fai scendere il Pil” resta indicativa. Si può vedere un collegamento diretto, senza troppo paradosso, tra le relazioni umane di qualità – che non sono regolate da uno scambio di moneta e la contabilità nazionale. Meno si nutre fiducia negli altri, più ci si affida agli avvocati per qualunque trattativa e più si fa crescere il Pil: ma non per questo si sta meglio. Più tempo si dedica a lavorare, più si guadagna e più si aumenta il Pil, anche a costo di avere meno tempo per gli amici: il bilancio della felicità non è necessariamente in attivo, anche se quello della moneta è in nero. La crescita del Pil, una volta superata la prima fase che porta a un benessere diffuso, innesca una sorta di spirale. Solo una retorica della crescita ben congegnata può far pensare che quella spirale vada giudicata complessivamente positiva».
Insomma, il Prodotto interno lordo non funziona, ma continuano a propagandarlo come un punto di riferimento assoluto. Lo stesso vale per il privato (meglio del pubblico, ci dicono), per le multinazionali (meglio degli stati), il sistema economico neoliberista (meglio di qualsiasi altro sistema, anche ipotetico).

PRIVATO È BELLO. O NO?

Fintantoché c’è il profitto, «privato è bello» (se poi sia anche realmente efficiente e giusto, è tutto un altro discorso). Se però il profitto scompare, allora l’intervento pubblico (cioè con i soldi di tutti i cittadini) è reclamato come indispensabile. Qualche esempio: i fondi pensione (privati) funzionano finché la borsa e l’economia finanziaria sono in salute, ma non sono mai sicuri come la previdenza gestita dallo stato; le cliniche private vanno benissimo finché le cure o le operazioni chirurgiche non sono troppo complesse e dunque troppo costose per la proprietà; le assicurazioni private assicurano chiunque sia in buona salute, chi di salute ne ha meno è meglio che si rivolga altrove; i voli low cost sono un ottimo investimento (privato), finché le compagnie aeree (private) ricevono contributi dagli aeroporti o dagli enti territoriali; e via esemplificando. Il «conflitto tra pubblico e privato» diventa ancora più evidente nell’economia illegale (in cui l’Italia eccelle): la costruzione abusiva di case, lo smaltimento illecito di rifiuti privati, il mancato rilascio di fatture e scontrini fiscali, la dichiarazione dei redditi falsa sono tutti eventi economici illeciti fatti a spese e a danno della collettività.
È una «dittatura del mercato» che agisce sempre e comunque per la convenienza di pochi e, per converso, a scapito della maggioranza. «Il parametro – ha scritto Frei Betto (6) – si sposta dal sociale all’individuale. Una società o un’istituzione è buona nella misura in cui io vengo beneficiato. Non importa se il mio beneficio si realizza a scapito di molti; con l’accumulazione di terre, la concentrazione di redditi».
«In nome della libera concorrenza – ha scritto ancora il teologo e scrittore brasiliano  – si rinuncia al ruolo regolatore dello Stato e del diritto (…). Nella sfera sociale, vale l’inteazionalizzazione del mercato come meta fondamentale, senza che siano posti in discussione i suoi fini sociali e politici. Le forze del mercato passano così ad assumere il ruolo di istanze regolatrici dell’insieme della società. E il guadagno, da parte sua, assume il ruolo di mediatore all’interno dei rapporti sociali. Questa sottomissione della politica, del diritto e dell’etica agli interessi economici privati mina la possibilità di una convivenza globale fondata sui princìpi e sui valori».

«MA NON TI VERGOGNI?»

Ci sono alcuni paesi dell’America Latina (Venezuela e Bolivia su tutti), dove lo stato si è ripreso il controllo delle risorse del sottosuolo, sottraendole alle multinazionali (corporations) che fino a ieri ne avevano ricavato profitti enormi a discapito delle popolazioni locali. Ebbene, la maggioranza dei media mondiali (in primis, quelli dei paesi di appartenenza delle multinazionali ridimensionate) hanno gridato e gridano allo scandalo per la violazione del principio intangibile del «libero mercato».
Si sostiene che le multinazionali lavorino meglio degli stati che sono corrotti ed inefficienti. Dubitiamo fortemente del giudizio alla pari di Joel Bakan (7), un professore che il fenomeno lo ha studiato bene.  Secondo Bakan, le multinazionali sono uno «strumento che serve solo a creare ricchezza, ed è uno strumento estremamente efficace, perché non ha nessun vincolo interno di ordine morale, etico o giuridico che limiti chi o cosa può sfruttare per arricchirsi e far arricchire i suoi proprietari. Il verbo “sfruttare”, secondo il dizionario, significa “utilizzare per i propri fini egoistici o per il profitto”.  Nell’ultimo secolo e mezzo, la corporation si è conquistata il diritto di sfruttare gran parte delle risorse naturali del pianeta e quasi tutte le aree dell’attività umana».
Difendere e diffondere idee opposte o semplicemente diverse da quelle vendute dalla globalizzazione del pensiero unico è difficile, a volte impossibile. «Oggi – ha scritto Francesco Gesualdi (8) – non è ammesso pensarla in maniera diversa dalla logica dominante e chiunque osi utilizzare criteri di analisi e di proposta diversi da quelli mercantili è da eliminare, tramite la derisione o la repressione. Ma mai come oggi è emerso il fallimento di questo sistema e mai come oggi si è avvertito il bisogno di avere degli eretici. Delle persone, cioè, che sappiano leggere e interpretare le scelte che si stanno compiendo, mettendo bene a fuoco a chi giovano e quali conseguenze sociali ed ambientali comportano. Delle persone che sappiano smascherare i giochi e soprattutto che sappiano proporre altri modi di fare economia partendo da altre prospettive: la dignità, la serenità personale, la convivialità, la solidarietà, la sostenibilità, la pace, i diritti, l’uguaglianza. La strada è tracciata. Ora ognuno deve lavorare dentro di sé per diventare lui stesso un eretico e soprattutto per far passare le idee dal mondo dell’intelletto a quello dei fatti».

«QUESTA» COPERTA È CORTA

Come abbiamo cercato di spiegare, la situazione è grave e le prospettive non sono incoraggianti. «L’ottimismo di chi coltiva l’aspettativa di nuovi ritrovati della tecnica capaci di evitare l’abisso verso il quale viaggia la nostra civiltà – l’ottimismo di chi confida che “prima o poi si inventerà qualcosa” – non sembra ragionevole», ha scritto Juan-Ramón Capella (9).
Il problema è che «questa» coperta è corta. Lo spiega bene don Vinicio Albanesi (10): «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a cui appartengono».
Se la coperta è corta, occorre cambiarla. Come splendidamente suggerisce ancora Francesco Gesualdi, pur non essendo un invitato di Porta a Porta né un editorialista del Corriere della Sera o de Il Sole 24-Ore: «La posizione di chi sta sul ponte di comando – scrive Gesualdi – è quella dello sviluppo. Imprenditori, intellettuali, economisti, giornalisti e dirigenti di partito, sostengono in coro che il nostro  obiettivo deve essere più produzione, più commercio, più consumi, più velocità, più tecnologia, più competizione. È l’inno della crescita ritenuta la strada che conduce al benessere, al progresso, alla modeità. Concetti, dai mille significati, che andrebbero discussi di continuo. Invece li abbiamo trasformati in idoli indiscussi. Se un ingegnere si mettesse in testa di costruire un grattacielo sempre più alto senza tenere conto della friabilità del terreno, della velocità dei venti, della tenuta del cemento, verrebbe rinchiuso in un manicomio. Invece gli economisti progettano la crescita infinita, preparando la rovina dell’umanità, e vincono il Nobel».
«È urgente abbandonare l’economia della crescita per avviarci verso l’economia della sobrietà. Ma manchiamo di un modello di riferimento e oscilliamo fra due atteggiamenti contrapposti. Da una parte il semplicismo di chi afferma che basta tornare all’autoproduzione. Dall’altra il pessimismo di chi afferma che non ci sono modelli alternativi. La mia posizione è che l’economia del limite richiede cambiamenti su molti piani, ma non mi angoscio se non vedo tutto chiaro. Le soluzioni di dettaglio si trovano lungo il cammino. L’importante è iniziare a cambiare rotta con le idee chiare sugli obiettivi e su alcune piste principali».
«Ho chiaro che dobbiamo avviarci verso un sistema capace di coniugare sobrietà e garanzia dei diritti fondamentali per tutti. Le mie parole d’ordine sono meno mercato, meno competizione, meno globale, meno denaro; più pubblico, più cooperazione, più locale, più fai da te».
Soltanto un passaggio dall’«economia della crescita infinita» ad una «economia del limite e della sobrietà» potrà evitare l’implosione del sistema e tamponare il problema dei problemi, quella catastrofe ambientale di cui (quasi) tutti sono consapevoli. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il pane della crisi

Analisi della situazione (1)

Il libero mercato, l’ingegneria finanziaria, la speculazione: il sistema economico è alle corde. O forse sull’orlo del baratro. Ma a pagare non sono i colpevoli, ma le vittime, quelle stesse che un’abile campagna mediatica e politica avevano convinto a credere nell’infallibilità del sistema, l’unico possibile per il progresso e lo sviluppo.

Quando il Fondo monetario internazionale valuta in quasi 1.000 miliardi di dollari le perdite  finanziarie è chiaro che qualcosa, nell’economia mondiale, non va.
La crisi è stata scatenata al tracollo dei mutui subprime: si tratta di mutui per l’acquisto della casa concessi dalle banche statunitensi anche a chi non poteva permetterseli, ovvero con un rischio altissimo di sofferenza. Solo che poi le banche statunitensi hanno rivenduto i mutui subprime, e con essi il loro essere estremamente rischiosi, sui mercati inteazionali finanziari. Come era prevedibile, tantissime famiglie non sono state in grado di saldare i loro debiti, e questo si è tradotto in una crisi globale.
Crisi che oggi appare assai più dura di quanto si prevedesse solo qualche mese fa. Si tratta di enormi perdite che stanno travolgendo i conti di molte banche, compagnie d’assicurazione, fondi pensione (sì, quelli che dovrebbero garantirci la pensione), ma che sembrano destinate ad avere ripercussioni sull’intera economia planetaria, contribuendo a rimuovere le fragili paratie fra sistemi finanziari e sistemi produttivi.

I FALLIMENTI
DEL «LIBERO MERCATO»

Vediamo in che condizioni è l’economia mondiale. Gli Stati Uniti nella migliore delle ipotesi cresceranno solo dello 0,5% nel 2008, mentre, proprio a causa del rallentamento Usa, il mondo non dovrebbe andare oltre il 3,7%, a conferma dell’incapacità dei paesi emergenti di sostituire i mercati più tradizionali nel ruolo di traino dei consumi globali.
Gli artifici dell’ingegneria finanziaria – di cui i subprime sono ormai un paradigma – che avrebbero dovuto limitare il rischio, disperdendolo fra più soggetti, hanno mostrato gravi carenze e hanno seminato una profonda paura. Per evitare guai peggiori, le banche centrali si sono adoperate a più riprese al fine di fornire copiose iniezioni di liquidità agli operatori, correndo il pericolo però di scatenare spirali inflazionistiche (cioè di far alzare i prezzi) oltre a ripristinare forme di interventismo statale che costringono i contribuenti a pagare i costi dell’«azzardo morale» dei soggetti finanziari.
Tanto per fare degli esempi, la Commissione europea è stata obbligata a sottoporre ad attenta valutazione sia gli aiuti del governo britannico alla banca Northe Rock e i sussidi erogati dai Land a tre istituti creditizi regionali sia quelli indirizzati dalla Federal Reserve ai colossi come JP Morgan che operano anche in Europa.
Il rischio del costituirsi di situazioni di monopolio privato per effetto del sostegno pubblico è decisamente concreto e l’artificiosa alimentazione di tale monopolio trova le proprie paradossali motivazioni nella gravità delle conseguenze che derivano dagli «eccessi speculativi». Come dire, più il mercato è libero e senza regole, più serve l’intervento dello Stato per salvare i privati dalla bancarotta.
Ecco quindi un evidente paradosso: anziché evolvere secondo una linea qualsiasi, il mercato finanziario sembra crescere negando i suoi stessi presupposti, ovvero la totale deregolamentazione. La «mano invisibile» tanto in auge ha provocato tanti danni da costringere i legislatori a fare da curatori fallimentari. Eppure nessuno contesta che lo sviluppo economico può essere solo garantito  dalla libera concorrenza, che i modelli alternativi hanno dato risultati pessimi.
La centralità di un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo di benessere sociale, ma anche di diritto, e come motore della politica rispetto a modelli immancabilmente bollati come ideologici, antistorici o dirigisti, è un pregiudizio ormai talmente radicato da non venire nemmeno percepito come tale. Un dogma, sarebbe da dire.

LA SPECULAZIONE PASSA 
AI PRODOTTI ALIMENTARI

Toiamo a quello che accade all’economia mondiale. La mancanza di trasparenza nei bilanci, unita al diffuso deprezzamento di molta carta commerciale a causa dell’insicurezza dilagante fra le stesse istituzioni finanziarie, ha amplificato a dismisura danni inizialmente ritenuti circoscritti, tanto da indurre un sovvertimento radicale dei comportamenti persino delle istituzioni più ortodosse del «mercatismo».
Dominique Strauss-Kahn, alla testa del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha auspicato la creazione di una «terza linea di difesa», rappresentata dall’impiego continuativo di risorse pubbliche, per proteggere le banche ed evitare la scomparsa della liquidità; nella stessa prospettiva Ben Beanke non solo ha consentito alla Fed di far accedere al proprio credito le banche d’investimento ma ha anche deciso di cedere i buoni del Tesoro in possesso della banca centrale Usa in cambio di titoli «spazzatura».
Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e il Financial Stability Forum, consapevoli della gravità della situazione, hanno steso severe raccomandazioni per gli operatori finanziari, invitandoli ad abbandonare la pratica dell’indebitamento selvaggio attraverso l’effetto moltiplicatore della leva. È chiaro quindi che l’asprezza della crisi in atto sta provocando avvertibili modifiche nella visione a lungo coltivata di un mercato finanziario in grado di generare ricchezza e di sanare le proprie contraddizioni «inventando» nuovi strumenti e coinvolgendo sempre nuovi soggetti.
Attenzione però, perché per uscire dalle difficoltà scatenate dal crollo dei rendimenti dei valori mobiliari stanno prendendo corpo alcune pratiche molto pericolose.
Se i titoli di settori fondamentali come i bancari, gli assicurativi e gli immobiliari registrano cadute vertiginose, milioni di investitori in giro per il pianeta tendono ad orientarsi verso altre destinazioni di maggiore resa. In tale ottica i contratti relativi alle commodities, cioè i prodotti alimentari, grazie a prezzi in costante ascesa per effetto delle previsioni di una domanda mondiale in marcato aumento, stanno diventando veri e propri beni rifugio al pari dell’oro, contribuendo in maniera decisiva all’esplosione dell’«agrinflazione», dell’impennata dei prezzi dei prodotti agricoli attraverso la loro finanziarizzazione. La crisi dei mutui innesca così la ricerca di impieghi remunerativi in ambiti molto delicati che si legano in modo diretto all’alimentazione primaria del pianeta.

2008: LE RIVOLTE 
PER IL PANE

Ecco perché ad Haiti le rivolte per l’impennata dei prezzi dei generi alimentari hanno condotto a violenti scontri con le forze dell’ordine: almeno cinque persone sono state uccise, altre decine sono rimaste ferite. In Egitto, dove gran parte della popolazione ha pranzo e cena assicurati grazie al prezzo calmierato del pane, la carenza di grano (probabilmente dirottato sul fiorente mercato nero) ha portato ad autentici assalti ai foi. Altre rivolte sono state segnalate in Marocco, Mauritania, Costa d’Avorio, Camerun, Senegal, Indonesia. Secondo alcune stime il prezzo internazionale del grano è più che raddoppiato in un anno, quello del riso è salito del 75%. Robert Zoellick, presidente della Banca mondiale, è arrivato a presentarsi davanti ai giornalisti con una pagnotta in mano, per invocare piani d’emergenza necessari a sfamare «cento milioni di persone – ha detto – che rischiano di essere spinte sotto la soglia di povertà».

I BIOCARBURANTI 
SONO UN CRIMINE?

Molti economisti sostengono che i prezzi degli alimentari difficilmente scenderanno in tempi brevi: a tenerli alti concorrono poi, oltre ai meccanismi speculativi, cause naturali (come le inondazioni che hanno limitato i raccolti) e la destinazione di ampie coltivazioni alla produzione di biocarburanti. Quest’ultimo elemento ha scatenato una serie di reazioni politiche stizzite, specie dopo che Jean Ziegler, relatore dell’Onu sull’alimentazione, ha detto di ritenere la produzione massiccia di carburanti dalle produzioni agricole «un crimine contro l’umanità».
Angela Merkel, premier tedesca, ha replicato che la vera causa dell’impennata dei prezzi è la repentina crescita dei consumi: «In India adesso la gente mangia due volte al giorno…». Dal Brasile il presidente Lula è stato molto netto: «Non accetto più questa contrapposizione fra biocombustibili e alimenti». Va detto che la Merkel ha parlato mentre inaugurava un impianto per ricavare combustibile dalle biomasse e che il Brasile sta puntando molto forte sui biocarburanti, ma intanto l’emergenza alimentare resta fuori dall’agenda politica internazionale. 

di Pietro Raitano e redazione di «Altraeconomia»

Pietro Raitano




Chi ci sta dietro alla voce del padrone?

Analisi della situazione (2)

Il mondo è in mano alle multinazionali? A guardare alle cifre parrebbe proprio di sì. Intanto, però, gli stati con più liquidità entrano nell’economia mondiale usando gli strumenti (ambigui) del sistema finanziario che già tanti danni ha prodotto e continua a produrre.

All’inizio di questo millennio 51 fra le prime 100 economie mondiali sono multinazionali, e solo 49 stati. Som­mando tra loro i prodotti interni lordi di tutti gli stati esistenti ad eccezione dei 9 più importanti (Italia compresa, almeno per ora) si ottiene una cifra inferiore al valore aggregato delle vendite annuali delle prime 200 società del mondo.
Il fatturato di Wal Mart, il colosso dei supermercati Usa, supera da solo il Pil di 161 stati nel mondo. I fatturati di Daimler Chrysler, General Motors e Ford sono superiori al prodotto interno lordo, rispettivamente, di Norvegia, Danimarca e Sudafrica. Non sorprende nemmeno più sapere che la capitalizzazione della Borsa cinese abbia superato il Pil del paese.
Ecco i padroni del mondo: le corporations vanno considerate i veri protagonisti della scena economica contemporanea. Domina­no in molti casi le entità statuali ai cui ordinamenti sarebbero in teoria assoggettate, e riflettono la divisione del mondo tra ricchi e poveri: il 93% delle prime 200 società al mondo appartiene infatti solo a 7 paesi.
I grandi gruppi inteazionali sono un sistema di scambio parallelo, in grado di porsi al di fuori o al di sopra, sia del mercato che della legge.

POSSEDERE È POTERE

Possedere è potere. A livello mondiale le imprese si contano a milioni, per la maggior parte di piccole dimensioni, spesso possedute da privati più o meno facoltosi. In Italia stessa, il 98% del tessuto imprenditoriale è costituito da piccole e medie imprese che in termini di fatturato non superano i 50 milioni di euro all’anno mentre da un punto di vista occupazionale non vanno oltre i 250 addetti. Ma sul brulicare di tante formichuzze si stende l’ombra di pochi formiconi con corpi mastodontici.
Secondo gli ultimi dati, le multinazionali sono 78.000 e controllano 780.000 società disseminate in tutto il globo per un totale di circa 73 milioni di dipendenti. Da un punto di vista produttivo contribuiscono solo al 10% del prodotto lordo mondiale, ma controllano il 60% dei flussi commerciali mondiali.  Quanto ai profitti, le prime 500 da sole, nel 2006 hanno incassato 1.529 miliardi di dollari, pari al 3% del prodotto lordo mondiale.
A seconda dell’attività svolta, dietro ad ogni multinazionale ci sono palazzi, mezzi di trasporto, macchinari, fabbriche, magazzini, miniere, campi. Mezzi di produzione che costituiscono il loro capitale. Fra le imprese industriali, quella con capitale più elevato è Toyota con 276 miliardi di dollari. In Italia la più grande è Telecom con 118 miliardi seguita dall’Eni con 116 miliardi di dollari. Molto più in là viene la Fiat con 76 miliardi di dollari e Finmeccanica con 31 miliardi di dollari. Delle quattro imprese nominate, l’unica saldamente in mano ad una famiglia è la Fiat, dove gli Agnelli continuano a detenere il 30% del capitale. Ma il secondo azionista è una banca: Unicredito Italiano, con una quota del 5,2%. Il terzo azionista è di nuovo una banca, la Barclays Global Investors, una banca d’investimento che non interviene a nome proprio ma di clienti che le hanno affidato dei soldi da investire. Il quarto azionista è Fmr, un fondo comune di investimento che raccoglie denaro tramite il versamento di tante piccole quote.
Per quanto diverse per struttura e funzioni, Unicredito, Barclays e Fmr hanno in comune di non essere persone fisiche, ma istituzioni finanziarie che gestiscono capitale collettivo ottenuto in affidamento da migliaia, se non milioni di persone. L’emergere di colossi che gestiscono capitale collettivo, rastrellato in nome delle più varie funzioni, forse è la vera novità degli ultimi cinquanta anni. Strategie collettiviste in ambito capitalista si confondono con strategie capitaliste in ambito collettivista a dimostrare che il potere  usa le ideologie come stendardi al vento per avvolgere i popoli e insalamarli.
A livello mondiale, le strutture di investimento che raccolgono la maggior quantità di capitale collettivo sono le banche d’investimento, i fondi comuni, le assicurazioni, ma anche i fondi pensione. Il che fa capire come la decisione, attuata anche in Italia, di demolire la previdenza pubblica risponda anche alla logica di fare un regalo alle banche e alle assicurazioni che gestiscono i fondi pensione e confondere i lavoratori.
In base ad uno studio realizzato in Inghilterra nel luglio 2007, è emerso che solo il 13% delle azioni quotate alla borsa di Londra, un valore di 2.700 miliardi di euro ripartito fra 1.139 società, appartiene a individui in carne ed ossa. Il resto è posseduto da istituzioni. Più precisamente 41% da non meglio identificati investitori esteri, 15% assicurazioni, 13% fondi pensione, 10% fondi di investimento, 4% fiduciarie, 3% banche, 1% istituzioni caritatevoli.

CONTROLLATE E 
CONTROLLANTI

In Italia, l’istituzione finanziaria più potente è Assicurazioni Generali. Nata come società assicuratrice, oggi è anche banca, fondo pensione e intermediario finanziario. Nel 2006 ha fatturato 102 miliardi di dollari ed ha realizzato profitti per 3 miliardi di dollari, collocandosi al secondo posto fra le imprese italiane (dopo Eni), al terzo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni sulla vita (dopo Ing e Axa) e al 30° posto nella graduatoria mondiale di tutte le multinazionali. Il suo principale azionista è Mediobanca con una quota del 15,6%.
Altri proprietari di rilievo sono Unicredito, Banca d’Italia, Banca Intesa San Paolo con quote fra il 2 e il 5%. Nel complesso i sette maggiori azionisti detengono il 34% del capitale, mentre il restante 66% è definito flottante, ossia ampiamente frantumato e passato frequentemente di mano. Generali a sua volta possiede oltre il 51% di numerose società assicuratrici e bancarie sia italiane che estere (Ina, Toro, Alleanza, Banca Generali, Banca del Gottardo) e detiene quote di minoranza in una miriade di società italiane ed estere, fra cui il Gruppo editoriale l’Espresso, Capitalia, Bnl, Lottomatica, Telecom. Incredibile, ma vero, Generali possiede anche il 2% di Mediobanca, suo principale azionista e il 7,5 di Intesa San Paolo, altro azionista di rilievo. In conclusione controllate e controllanti si possiedono a vicenda in un groviglio inestricabile che forma una gigantesca cupola di comando dei principali gangli produttivi e finanziari del Paese.
Eni, prima impresa italiana, sfugge alle scalate degli investitori istituzionali (così si chiamano le grandi istituzioni finanziarie) perché la sua quota di maggioranza è saldamente in mano allo Stato. Il ruolo dello Stato nella proprietà aziendale ha subito altee vicende nel corso della storia ed è cambiato di continuo in base dell’andamento degli interessi economici che poi determinano le correnti politiche. Nel secolo scorso, quando il sistema uscì con le ossa rotte dalla crisi del ventinove, in tutta Europa gli stati vennero implorati di acquistare quote importanti di società ridotte al lastrico assieme alle banche che le possedevano. In Italia nacque l’IRI, un fondo pubblico che si ritrovò proprietario di imprese che andavano dai panettoni ai pelati, dalle armi alle automobili. Poi, a metà degli anni, Ottanta il vento cambiò. In base al pensiero liberista lo Stato non doveva avere più ruolo in economia e non solo doveva disfarsi di ogni proprietà industriale, ma doveva abbandonare perfino i servizi pubblici come la sanità e l’istruzione. La vendita di Alitalia rappresenta uno degli ultimi atti del processo di sganciamento dello Stato italiano dalle partecipazioni industriali. Ciò non di meno continua ad essere il principale azionista di Eni, Finmeccanica, Fincantieri e al momento non si intravedono segnali che abbia intenzione di sbarazzarsi di loro.

IL RITORNO 
DELLO STATO AZIONISTA

A dire il vero si ha la sensazione che un nuovo vento stia per spirare perché, in vari paesi del mondo, lo stato si sta di nuovo imponendo come azionista importante.
Sta succedendo in Norvegia, Singapore, Kuwait, ma anche Russia e Cina. I governi di questi paesi si ritrovano fra le mani delle fortune accumulate per le ragioni più varie. Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita, Russia, grazie ai proventi del gas e del petrolio, la Norvegia grazie ad un fondo pensione pubblico, la Cina grazie alle riserve di valuta straniera accumulate tramite l’enorme avanzo commerciale. Nell’insieme tali fondi, definiti fondi sovrani, ammontano a 2.000 miliardi di dollari, un valore ancora modesto, ma suscitano grande preoccupazione non solo perché crescono rapidamente (entro il 2012 potrebbero raggiungere i 12.000 miliardi di dollari), ma soprattutto perché nessuno vede di buon occhio che le proprie industrie nazionali, specie quelle strategiche, possano finire sotto il controllo di uno stato straniero.
Ad esempio, è del dicembre 2007 la notizia che il 10% della banca americana Morgan Stanley è stato comprato dal fondo sovrano cinese China Investment Corporation. Cinque miliardi di dollari che lo stato cinese ha preferito utilizzare per un’operazione di potere piuttosto che per migliorare le condizioni di vita della propria gente. 

Di Pietro Raitano e redazione «Altraeconomia»

Pietro Raitano




Vivere da consumatore critico si può

Le pratiche dell’«altra» economia

Le botteghe del commercio equo e solidale, i gruppi dei bilanci di giustizia, quelli di acquisto solidale, le Mag, la Banca Etica, il turismo responsabile. Sono molte le risposte che si possono dare per combattere in prima persona contro un sistema ingiusto, che perpetua le diseguaglianze e distrugge l’ambiente.

L’attuale sistema economico presenta degli enormi problemi per quanto riguarda la giustizia (intesa come ripartizione tra gli uomini di quanto serve per vivere) e l’ambiente, ovvero la capacità di questo modello di produzione e consumo di durare nel tempo senza minare le basi naturali che lo sostengono.
Come se non bastasse, questo stesso sistema fa sentire i suoi effetti negativi (si chiamano inquinamento, malattia, stress, precarietà) anche sulle popolazioni del Nord, da esso avvantaggiate. Questo ci porta a chiederci quale sia l’efficacia del sistema rispetto al nostro desiderio di condurre una vita sana, serena e densa di relazioni.
Queste problematiche di giustizia, natura, benessere e senso, poste dal sistema economico attuale, da tempo hanno prodotto una ricerca di pratiche che possono fornire delle risposte, anche se parziali.

LE DOMANDE
DEI CONSUMATORI CRITICI

In Italia, le esperienze di costruzione di un’altra economia iniziano negli anni ‘80 con il commercio equo e solidale e la finanza etica. Il primo trae origine dalle condizioni disperate dei contadini del Sud del mondo, costretti a vendere i loro prodotti ad un prezzo bassissimo senza potersi opporre allo sfruttamento generato da una lunga catena di intermediazione. Il commercio equo e solidale cerca allora di creare dei canali alternativi per l’importazione e la vendita dei prodotti del Sud del mondo, instaurando relazioni dirette e proponendo al consumatore un utilizzo critico del proprio potere d’acquisto, secondo una logica di relazione diretta e di presa di coscienza circa l’utilizzo del proprio denaro. La finanza etica applica alla gestione del risparmio queste stesse logiche, ovvero il rifiuto da parte del risparmiatore di essere un ingranaggio all’interno di un meccanismo di sfruttamento e la ricerca di un canale alternativo in cui i propri risparmi possano servire a sostenere progetti con uno scopo sociale, ambientale o culturale.
Dopo il commercio e la finanza, gli anni ‘90 vedono la nascita delle attività legate al consumo e agli stili di vita. Nascono «i gruppi dei bilanci di giustizia», «i gruppi di acquisto solidali» e si diffondono i concetti legati al potere del consumatore e al consumo critico, anche attraverso la pubblicazione della «Guida al consumo critico» nel 1996.
I consumatori critici sono persone che, quando vanno a fare la spesa, si pongono un sacco di domande sui prodotti che stanno per acquistare. Si chiedono in quali condizioni ambientali e di lavoro è stato realizzato un prodotto, chi e cosa sta dietro a quello che stanno per acquistare. L’idea è quella di poter influenzare il mercato inserendo nella domanda le richieste di giustizia, ambiente, benessere e senso. I gruppi dei bilanci di giustizia si chiedono come orientare il loro bilancio familiare per aumentare sia il livello di giustizia che quello di benessere.
I gruppi di acquisto solidale (Gas, in sigla) invece sono gruppi di consumatori che si ritrovano per acquistare insieme, cercando dei piccoli produttori locali e rispettosi dell’ambiente da cui rifoirsi direttamente. È lo stesso concetto del commercio equo e solidale applicato ai prodotti che vengono dal nostro paese, considerando che oramai anche i nostri piccoli contadini sono a rischio di estinzione a causa dei meccanismi della grande distribuzione.
Questi stessi principi si applicano anche al campo del turismo, e troviamo allora «il turismo responsabile»‚ che a partire dalla valutazione dei danni ambientali, economici e sociali generati dal turismo di massa verso i luoghi di destinazione propone un approccio diverso, costruendo nel contempo vere occasioni di incontro tra culture.
Oltre a questi settori, incontriamo esperienze di un’altra idea di economia in tutti i settori dell’attività economica, dai piccoli produttori biologici che coltivano senza l’utilizzo dei pesticidi, alle cornoperative di produzione e servizi che realizzano i beni di cui abbiamo bisogno nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro all’interno di strutture a conduzione democratica.
Tutte queste esperienze, nate perlopiù negli ultimi 30 anni a partire da piccoli gruppi, oggi sono in forte crescita e si stanno diffondendo nell’opinione pubblica. In Italia esistono circa 500 botteghe del commercio equo e solidale (Botteghe del Mondo), ed i prodotti del commercio equo e solidale si trovano anche all’interno della grande distribuzione. Le Mag, cornoperative nate per la gestione etica del risparmio, sono 6 (Torino, Milano, Reggio Emilia, Verona, Venezia, Roma) e dalla loro esperienza è nata «Banca Etica». I gruppi d’acquisto solidale censiti sono circa 400, oltre a molti altri informali. Gruppi di bilanci di giustizia si trovano in diverse città italiane e le organizzazioni che si occupano di turismo responsabile sono un centinaio.
Inoltre, le critiche alle regole del commercio mondiale e ai sistemi di produzione che non rispettano le condizioni di lavoro e l’ambiente hanno conquistato una parte dell’opinione pubblica; i consumatori odiei si dimostrano sempre più attenti agli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale, e le quote dei prodotti biologici, equo-solidali, tipici o ecologici continuano a crescere a ritmi elevati e stanno diventando interessanti per il mercato.
Tutte queste esperienze, insieme ad altre come le banche del tempo e le reti di scambio locale, rappresentano forme di economia che considerano l’attività economica come uno strumento per il soddisfacimento dei propri bisogni e come occasione di relazione tra le persone. Nel mondo le esperienze di questo tipo sono molto diverse; per fare qualche esempio significativo potremmo, ad esempio, citare in Argentina i «club del baratto» (trueques) che fino ad un paio di anni fa coinvolgevano milioni di persone, oppure le fabbriche «recuperate» in cui i lavoratori rilevano un’azienda dal proprietario intenzionato a chiuderla per continuare l’attività secondo forme autogestite.

LE CARATTERISTICHE
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Pur nella evidente diversità, tra queste esperienze sta nascendo la consapevolezza di trattarsi di forme economiche che vogliono applicare la collaborazione alle diverse attività umane: produzione, commercio, servizi, finanza, consumo, etc. Si sta quindi affermando il termine «economia solidale» per rappresentarle, anche se non si può trattare di una definizione precisa in quanto, come abbiamo visto, si riferisce ad esperienze molto varie.
Le caratteristiche dell’economia solidale sono state sintetizzate nella «Carta per la rete italiana di economia solidale»:
• nuove relazioni tra i soggetti economici basate sui principi di reciprocità e cooperazione;
•giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia dei diritti essenziali);
•rispetto dell’ambiente (sostenibilità ecologica);
•partecipazione democratica;
•disponibilità a entrare in rapporto con il territorio (partecipazione al «progetto locale»);
•disponibilità a entrare in relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un percorso comune;
•impiego degli utili per scopi di utilità sociale.

LE RETI
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Questi principi vengono applicati, con caratteristiche diverse, nei vari settori dell’economia. Si tratta quindi di esperienze che stanno mostrando nel concreto come un modo diverso di concepire l’economia sia non solo possibile ma già in atto.
Se consideriamo queste esperienze, possiamo vedere il loro insieme come un progetto di trasformazione dell’economia che interviene contemporaneamente su più livelli: il livello dei comportamenti personali, il livello delle organizzazioni di produzione o di consumo, il livello dei luoghi e quello delle reti economiche. Questi diversi livelli si sostengono e rafforzano l’uno con l’altro nell’indirizzare la trasformazione dell’economia verso il benessere di tutti.
In questa trasformazione, la strategia che si sta sperimentando per intrecciare i diversi livelli è la costruzione di reti, ovvero circuiti economici costruiti tra le diverse realtà di economia solidale, integrando il consumo, la distribuzione, la produzione ed i servizi. In Italia questi esperimenti prendono avvio con la costruzione dei distretti di economia solidale, ovvero di reti locali in cui, a partire dalle esperienze di economia solidale del territorio, si cerca di attivare e sostenere circuiti economici per rafforzare queste realtà e offrire ai consumatori critici una gamma più ampia di prodotti e servizi solidali.
La realizzazione di reti locali di questo tipo comporta numerosi vantaggi: da una parte porta ad attivare legami di fiducia sul territorio, dall’altra a chiudere localmente i cicli di produzione e consumo diminuendo l’impatto sull’ambiente. Inoltre, aumenta il livello di conoscenza tra le diverse realtà, ponendo le basi per poter esprimere una progettualità locale per la trasformazione del territorio.
In Italia, in diversi luoghi si sta ragionando sulla ipotesi dei distretti di economia solidale; in particolare, si stanno avviando delle sperimentazioni a Roma, in Brianza, a Como, nelle Marche, in Trentino e a Verona. Questi esperimenti, a partire dal locale, portano avanti dei progetti per far conoscere le realtà di economia solidale del territorio e procurare beni e servizi integrando gli attori locali lungo tutta la filiera di produzione, distribuzione e consumo. Mettendo insieme le diverse esperienze di economia solidale nei vari settori l’esperienza dei distretti prova a sperimentare nella pratica come potrebbe funzionare un altro sistema economico, in cui l’economia è uno strumento per il benessere di tutti.
L’economia sta cambiando, e per ognuno di noi c’è la possibilità di prendere parte a questa trasformazione. Dobbiamo solo decidere il campo in cui vogliamo operare: come consumatori, imprenditori, educatori, amministratori, produttori, commercianti, etc. Per ognuno di noi c’è la possibilità di portare un contributo. 

Di Andrea Saroldi

Andrea Saroldi




Sembrano percore, ma sono lupi

Il commento: economia o teologia?

Una nuova religione si è diffusa nel mondo globalizzato: è la religione del mercato. Ha i suoi officianti e i suoi fedeli. Ma soprattutto ha le sue vittime. Sempre di più, anche se non si può dire apertamente…

Lunedì di Pasqua, 24 marzo 2008. Dalla finestra del mio studio il panorama appare decisamente invernale, nonostante la primavera astronomica sia iniziata da tre giorni. Vedo precipitare dalle nubi raggrumate un misto di acqua e neve al punto da non distinguere se è l’acqua a nevicare o non sia la neve a piovere. Il che mi indigna. Ora la confusione ha infettato anche la meternorologia e il gioco del «qui-pro-quo» ha contaminato anche le identità delle stagioni. Dopo un inverno di secca, in cui le cime del Monte Bianco hanno registrato perfino gli otto gradi sopra lo zero, ora la primavera mi si presenta infreddolita e tutta bagnata di neve!

«NON PIOVE?
GOVERNO LADRO!»

Il detto popolare, espressione iniziale di una ignoranza diffusa, sedimentazione di quella pigrizia mentale propria di chi non vuol vedere, si presenta oggi come concentrato sapienziale di una coscienza altamente avvertita. Aggiornato alla nostra situazione si dovrebbe dire: «Non piove? Goveo ladro», là dove il «governo» non è l’amministrazione politica della cosa pubblica, bensì la gestione economica della umana comunità. Non contenti di aver desertificato la terra ora vogliono desertificare anche il cielo. Negli ultimi 30 anni sono scomparsi 600mila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, una superficie equivalente a due volte quella dell’Italia. L’acqua potabile sarà una delle risorse naturali che più scarseggeranno in questo inizio del nuovo millennio. Il petrolio e il carbone si esauriranno verso la metà di questo secolo. Alla base di questo processo di saccheggio si nasconde una visione limitata della terra. La si considera unicamente ed esclusivamente come una riserva morta di risorse da sfruttare e non come qualcosa di vivo, la Pacha Mama degli indigeni o la Grande Madre degli antichi.
L’antica religione poneva l’uomo come custode del giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse. La nuova religione impone l’uomo come padrone del mondo e la terra come oggetto di sfruttamento e merce di scambio.

IL DIO TOTALIZZANTE
DELL’ECONOMIA

Nell’editoriale di un piccolo ma grande libro edito nel 2000 dalla società cornoperativa editoriale L’Altrapagina: «Economia come Teologia?», si legge: «L’Economia contemporanea funziona come una teologia, ossia una visione del mondo complessiva che ha per chiave di volta la divinità. Mentre però nella teologia il divino impedisce al discorso di chiudersi, perché Dio è una dimensione insondabile, il dio del sistema economico imprigiona l’uomo in uno schema chiuso e totalizzante, poiché si tratta di un dio perverso».
Riccardo Petrella, autore assieme a Enrique Dussel e Enrico Chiavacci, si è addirittura divertito a utilizzare i simboli della teologia cristiana per dare una descrizione di questa nuova divinità: «Il capitale è il Padre che ama e giudica, l’impresa è il Figlio, cioè l’incarnazione del Padre, il mercato è lo Spirito che anima gli individui e li stimola alla competizione perché diano il meglio di se stessi e conquistino più ricchezza. Ma le analogie con l’universo teologico per Petrella non si fermano qui. Il vangelo della competitività, che ci viene indottrinato da tutti i pulpiti che contano, ha pure i suoi comandamenti, che si potrebbero riassumere nella triade: liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione».

AVERE O ESSERE?
SI «È», SE SI «HA»

L’indottrinamento, in questo ultimo ventennio, è stato così pervasivo e persuasivo che non esistono più terreni vergini. Il «pensiero unico» ovvero il monoteismo della merce, per dirla con l’espressione cara a Giancarlo Zizola, ha contaminato non solo il mondo della produzione e delle sue opere ma anche il mondo del pensiero e dei suoi sogni.
Da ogni pulpito, ormai, con l’euforia propria dei neofiti, i profeti del libero mercato ci ripetono in continuazione che il mercato è economicamente molto efficace. Il fondamentalismo liberista della globalizzazione ridefinisce ogni forma di  vita in termini di merce, la società in termini economici e il mercato come mezzo e fine dell’iniziativa umana. Per essi il mercato è l’unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessità vitali. Il mercato diventa l’unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanità al punto di rendere identitario ciò che alla fine degli anni Sessanta Erich Fromm poneva in termini alternativi: Essere o Avere. Oggi si è se si ha!
Questo è il nuovo dogma e la mercantilizzazione del tutto il suo corollario.

IL CAPITALE
SENZA LIMITI E VINCOLI

Gli effetti sono così devastanti da qualificare come terrorista per antonomasia il mercato stesso, così come Pasquale Gentili sul notiziario di Radié Resch n. 79: «Chi incute terrore, oggi, si chiama mercato… e questi si maschera dietro svariati personaggi, culture e anche religioni! È un potentissimo terrorista, senza volto, che si trova ovunque, come Dio, e che, come Dio, crede di essere eterno. La sua lunghissima fedina penale lo rende temibile. Non ha fatto altro che rubare cibo, ammazzare posti di lavoro, sequestrare interi paesi e fabbricare guerre. Per vendere le sue guerre semina paure! Compie attentati che non compaiono sui giornali: ogni minuto uccide di fame 12 bambini».
Insomma il disastro è totale, con l’aggravante di una impotenza assoluta di intervento da parte della politica e perfino del diritto.
Ci si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, dopo le grandi conquiste che hanno accompagnato la nascita dello «Stato sociale keynesiano» all’inizio dello scorso secolo.
A me sembra che la causa principale vada ricercata già in quella antica tradizione liberale che è propria dell’Occidente, secondo la quale l’unico potere che è stato tematizzato come oggetto di limiti e vincoli (si pensi allo «Stato di diritto») è il potere pubblico, mentre invece il potere privato è stato confuso, per una vecchia operazione ideologica, con la libertà. Il potere economico, il potere del capitale, il potere della libera iniziativa economica, i diritti civili stessi sono stati puramente e semplicemente identificati con la libertà.

NEOCOLONIZZAZIONE
E DELOCALIZZAZIONE

Su questo, che potremmo ritenere l’underground «culturale» si è venuto poi ad innestare il fenomeno della cosiddetta «globalizzazione» e che io più propriamente chiamerei «neocolonizzazione».
Con la globalizzazione, dunque, si è imposta come prassi normale la «delocalizzazione» in forza della quale le imprese scelgono l’ordinamento loro più conveniente. In tal modo dislocano le loro produzioni nei paesi peggiori dal punto di vista della tutela dei diritti, paesi in cui non esistono garanzie dal lavoro, in cui i salari sono bassissimi, in cui si può inquinare senza nessun limite, in cui si possono corrompere i governi, in cui praticamente si ha mano libera. Si veda il caso della Cina, là dove i salari sono addirittura 40 volte più bassi di quelli della Germania. Le ricadute sulle nostre società sono quanto mai devastanti: disoccupazione, precarizzazione del lavoro, abbassamento dei salari  e via decadendo…
Gli osservatori più acuti, una volta liberisti ad oltranza, di fronte a questo ritorno boomerang dagli effetti destabilizzanti, incominciano a parlare, timidamente, della necessità che gli stati, per i problemi nazionali, ed un ente sovranazionale, per i problemi inteazionali, riprendano il loro ruolo di «garanti» in un movimento globale non più gestibile.
La «mano provvidenziale» di cui parlava Smith è ormai scomparsa dall’economia. Cionono­stan­te tutto continua come se nulla fosse. Nell’immaginario col­lettivo, cui fa da supporto anche una certa politica sedicente di sinistra, c’è bisogno ancora di più mercato, più concorrenza, più crescita.
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci» (Mt. 7,15). «Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: è là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli…» (Mt. 24,23-24).
A qualcuno queste citazioni potrebbero sembrare strumentali, se non blasfeme. Non ci si scandalizzi. Se l’autore dell’Apo­calisse ha potuto individuare nell’Impero Romano la figura dell’anticristo, non spetta forse a noi, cristiani del terzo secolo, dare nome e cognome ai novelli falsi profeti?
E non spetta ancora a noi dare voce e carne e sangue a quel Sogno di Dio perché non resti più sogno? Sogno di una umanità fratea e compartecipe, includente e coinvolgente, pacifica e pacificatrice.

LA GRATUITÀ
DELLA PIOGGIA (PER ORA)

Fuori, al di là dei vetri appannati dall’umidità, il sole sembra forzare la primavera e la pioggia, non più equivoca, sembra ora più autentica. Lo scroscio ritmico si fa eco di danza e modula la sua musica sulle note profetiche di un monaco che, sembra, la Cia ha voluto zittire: «Lasciatemi dire una cosa, prima che la pioggia diventi una merce che “loro” potranno controllare e distribuire a pagamento.
«“Loro” sono quelli che non riescono a capire che la pioggia è una festa e non apprezzano la sua gratuità, pensando che ciò che non ha prezzo non ha valore, che ciò che non può essere venduto non ha consistenza, per cui l’unico modo per rendere reale una cosa è metterla sul mercato. Verrà il giorno in cui vi venderanno anche la vostra pioggia. Per il momento è ancora gratuita, e lascio che mi bagni. Celebro la sua gratuità e la sua illogicità».
Il monaco è Thomas Merton. Anno del Signore 1965. 

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Il banchiere dei poveri, versione Afro

Il caso: un’economia comunitaria è possibile

In un villaggio sperduto del Nord del Senegal si sperimenta un’esperienza interessante. Microcredito per finanziare l’agricoltura. Non solo. Un sistema cornoperativo, ma anche comunitario e solidale, fatto da agricoltori per gli agricoltori. E la cosa più sorprendente è che funziona.   

Ronkh. Un villaggio polveroso sulle rive del fiume Senegal, nel Nord dell’omonimo paese, giusto al confine con la Mauritania. File di basse case in mattoni di cemento, scarne e grigie. Tutte simili. Siamo nella valle del fiume, la zona dell’antico reame Walo. Qui i contadini, da secoli, coltivano miglio, sorgo, mais e patata dolce per il sostentamento delle loro famiglie. E sempre in questa zona, i sostenitori del capitalismo selvaggio hanno introdotto all’inizio degli anni ‘60 la risicoltura creando grandi perimetri irrigui.
Ancora oggi parte della popolazione lavora in questi perimetri producendo per terzi. I produttori hanno però mantenuto delle porzioni di terra nella quale coltivano riso, in parte utilizzato per nutrire la famiglia e in parte venduto per acquisire altri beni di prima necessità.

La favola dei Foyer

Proprio da Ronkh, negli anni Sessanta, è partito un movimento che ha visto i contadini organizzarsi in gruppi di base detti Foyer (famiglia in senso allargato), poi diffusi in tutta la valle, fino ad associarsi in strutture regionali. Nasce così, da nove Foyer, nel 1976, l’organizzazione contadina conosciuta come Asescaw (Amicale socio economica sportiva e culturale degli agricoltori del Walo), ancora oggi molto attiva. 
Questa organizzazione è all’origine, tra le altre cose, di un’esperienza molto particolare di «banca dei poveri».

Un cassa di credito
per tutte le tasche

A Ronkh è nata la Mec Delta (mutuelle d’épargne et de crédit, o cornoperativa di risparmio e credito) del delta del fiume. Nel grigiore generale sorprende il rosso di due trattori e il giallo di un’enorme mieti trebbia parcheggiati fuori da una costruzione. Non ci si aspetterebbe tanta tecnologia.
All’interno ci accoglie un giovane alto e magro, dalla parlata colta. Mohamedine Diop è originario di Ronkh ed è il principale ideatore e motore del sistema di credito sperimentato. Anche lui è cresciuto nell’Asescaw ed è ora il direttore generale della Mec Delta.
«La Mec Delta è il prolungamento dell’esperienza contadina nata in villaggio. L’Asescaw ha giocato un ruolo importante nella sua creazione e molti dirigenti di un’istituzione lo sono anche dell’altra. Questo fa sì che le due entità abbiano perfetta concordanza di vedute.
Noi vogliamo materializzare la visione di finanziamento agricolo dell’Asescaw. E questo lo facciamo nell’autonomia totale» racconta Mohamedine ostentando grande sicurezza. 
L’idea dell’organizzazione contadina parte da bisogni concreti dei propri aderenti. Concimi e sementi di qualità al momento giusto, servizi agricoli meccanizzati di buon livello e con tempistiche adeguate, credito per le attrezzature ma anche per la casa.
Accompagnamento e formazioni di vario tipo, oltre che su tecniche di produzione, sulla trasformazione, conservazione e commercializzazione del prodotto. Ma anche la possibilità di mettere al sicuro i risparmi.

Un finanziamento con
La famiglia al centro

«L’opzione strategica scelta è quella di centrare tutto sulla famiglia, giocando sulla complementarietà dei diversi servizi offerti.
Importante è mettere il produttore nelle condizioni ottimali, affinché possa lavorare bene e avere il miglior raccolto possibile».
Mohamedine ci spiega l’originalità del sistema di finanziamento.
«Abbiamo scelto di lavorare nell’agricoltura, perché la maggior parte delle altre casse rurali non vogliono finanziarla a causa dei forti rischi. La nostra base è costituita di produttori agricoli».
I due schemi di finanziamento erano in ballottaggio. La banca seguiva il suo: prestare i soldi e poi tentare di farseli rimborsare.
L’Asescaw ha denigrato quel sistema, perché crea molti problemi, e ha trovato un nuovo schema di credito che sposa la realtà socio-culturale.
«La nostra visione è che i produttori non hanno bisogno di soldi ma di servizi. Facciamo tutto in natura e in prestazioni».
L’altro anello fondamentale della catena è la Delta agricoltura solidarietà (Deltagrisol), una cosiddetta «centrale di acquisto e foitura di servizi agricoli». La Deltagrisol funziona come negozio di tutto ciò di cui il contadino ha bisogno per coltivare (concimi, sementi selezionate, materiali), e allo stesso tempo fornisce servizi agricoli meccanizzati (dissodare la terra, sistemazione dei canali di irrigazione, ecc.). La terza, importante funzione, è quella di fornire un servizio commerciale, ovvero aiutare il produttore a vendere parte del raccolto.

Tutto in natura

La famiglia che ha bisogno di un prestito si rivolge alla Mec Delta. Questa verifica se ci sono le condizioni per il finanziamento (lo stato delle parcelle coltivate dai richiedenti, l’accesso all’acqua, e altri parametri). Se l’indagine è positiva, inoltra una richiesta di materiali e prestazioni di servizio alla Deltagrisol e ne paga la fattura. I tecnici delle due strutture seguono il produttore nelle varie fasi (anche i concimi e i prodotti, così come le prestazioni, saranno foiti nei momenti opportuni).
Una volta realizzato il raccolto, il contadino rimborserà la Mec Delta in natura (ad esempio sacchi di riso valutati a un prezzo equo fissato tra le parti).
In questo schema la famiglia contadina non è sola, ma fa parte di un gruppo (Foyer) che a sua volta è membro di un’organizzazione più vasta. Quest’ultima, oltre a fornire formazione tecnica e gestionale ai suoi membri, è una sorta di garante per il buon funzionamento del meccanismo.
Si tratta di una forma di economia comunitaria, studiata dal professor Enrico Luzzati dell’Univer­sità di Torino (del quale pubblichiamo un contributo in questo dossier), che è tra gli ideatori di questo modello chiamato «Distretto cornoperativo comunitario».
«Le forme di scambio economico più utilizzate nella società agricola del Walo sono sempre state lo scambio, con il riso come prodotto di base o di conversione, per passare da una merce a un’altra – spiega Mohamedine – un contadino che ha un credito con la sua cornoperativa capisce molto meglio: “rimborserai 20 sacchi di riso” piuttosto che una somma di denaro».
Si evitano all’agricoltore due passaggi per lui complessi. Primo: il fatto che si ritrovi con una certa somma di denaro e debba procurarsi sementi di qualità, concimi, ecc. al momento giusto. Secondo: la «trasformazione» della produzione agricola in contanti, per poter rimborsare.

Chi garantisce il prestito?

«Pensiamo sia importante, in ambito rurale, che lo schema di finanziamento non chieda garanzie solide. Perché la gente non le ha, e noi non abbiamo sempre gli strumenti che occorrono per rifarci sulle garanzie.
Non è una buona via, perché eliminerebbe la maggior parte della popolazione. Ma è anche vero che bisogna rendere sicuro il sistema di credito.
Grazie ad alcuni studi abbiamo visto che uno schema adeguato prende in carico i veri bisogni della popolazione. Intanto occorre scegliere i buoni produttori: non tutti sono agricoltori, allevatori o pescatori. Poi occorre andare al di là dell’identificazione delle persone, verificando piuttosto i siti di coltivazione».
La «vicinanza» fisica e culturale ai contadini, ha permesso agli ideatori del meccanismo di capire bene l’attività in tutti i suoi passaggi. Quando qualcuno chiede un credito agricolo a una banca, invece, questa non si interessa a dove il contadino lavorerà, che possono essere luoghi con poca acqua o non idonei a una buona produzione. Tutto questo aumenta il rischio di cattiva produzione e, in ultima analisi, di mancato rimborso.
Piccoli problemi di questo tipo che occorre conoscere per sapere se l’investimento sarà sicuro.
Spiega Mohamedine: «C’è poi la questione dell’acquisizione di concimi e sementi. La banca non si interessa a questo, non dà condizioni o indicazioni. Non è un suo problema. Per noi, invece questa fase partecipa a rendere sicuro il credito. Occorre fare in modo che tutti gli impedimenti del sistema di credito siano eliminati: che il produttore scelga un buon sito, con suolo sfruttabile, accesso all’acqua e che abbia  strumenti di lavoro in buono stato. Poi gli si assicura una foitura in concimi regolare, al momento giusto e non dopo. Tutte queste cose fanno in modo che un agricoltore riesca o meno ad avere una buona produzione».

Non è tutto oro …

Questa è la teoria, che spesso la Mec Delta riesce a mettere in pratica. Ma non sempre: «Abbiamo ricevuto i nostri crediti in ritardo (rispetto alla stagione della semina, ndr) – racconta un agricoltore del villaggio Saninth – così il raccolto è andato male».
Mancanza di liquidità al momento giusto o «mancanza di cornordinazione nella presentazione delle domande da parte dei membri del Foyer», come sostiene Mohamedine. Talvolta le difficoltà si sommano a catastrofi naturali, come nel 2005 quando un’invasione mai vista di uccelli divorò il riso dei coltivatori della valle del Senegal.
Alla fine del processo c’è il problema della «trasformazione» del riso raccolto in denaro.
I produttori sono normalmente poveri e hanno varie difficoltà a livello delle loro famiglie. Sono quindi tentati di vendere la produzione per risolvere tutti questi problemi. È questo il periodo in cui i commercianti vengono verso i contadini e gli offrono di acquistare la produzione a prezzi piuttosto bassi (in quel momento il mercato è pieno di riso appena raccolto).
«Ecco perché pensiamo che subito dopo la produzione la Mec Delta debba prendere il rischio di farsi rimborsare in natura. Questo per togliere un problema ai produttori e assicurare una commercializzazione secondo uno schema più rimunerativo, che permetta di massimizzare il reddito di chi coltiva e ridurre i rischi di rimborso» spiega il direttore generale.
Sono questi elementi che concorrono insieme alla protezione del credito, anche senza garanzie.
La filosofia della Mec Delta è che devono esserci dei buoni rendimenti, e questo si ottiene facendo in modo che i produttori siano messi in condizione di lavorare bene. Quando c’è un buon raccolto è sicuro che rimborseranno.

Credito «inculturato»

«Abbiamo pensato che in ambito rurale occorre uno schema che si integri nel sistema sociale  e i costumi della gente».
Il meccanismo sembra non soffrire di problemi. Ci sono i rischi che sono legati all’agricoltura nel senso generale, ovvero casi di calamità.
La frangia di popolazione più recettiva è anche quella più vulnerabile. Si tratta soprattutto di donne e famiglie a bassissimo reddito, che hanno accesso limitato alla terra e a mezzi di produzione e che da sempre sono escluse dalle altre istituzioni finanziarie. Questa gente ha visto nella Mec Delta un’opportunità di cambiare la propria vita.
Oggi la Mec Delta ha oltre 3.000 membri e finanzia più di 1.000 ettari di produzione. Circa 600 sono i crediti in corso. Per ottenere un prestito occorre infatti associarsi, aprire un conto presso la cassa e depositare un contributo.
Intanto i progetti per il futuro sono di espansione. Sono state aperte tre agenzie decentrate per essere ancora più vicini alla popolazione e altre due sono nei piani per il 2008. Attualmente la zona di intervento è il dipartimento di Dagana, ma presto si spingeran­no più a est in quello di Podor.
«Il contesto ci ha aiutato a convincere gli strati più poveri che è necessario un sistema più comunitario, solidale e adatto a portare risposte concrete ai bisogni della popolazione», ricorda il direttore generale Mohamedine Diop, con lo sguardo di chi è consapevole dell’importanza del­la propria missione. 

Di Marco Bello

Marco Bello