Dalle navi dei disperati alle nevi delle Alpi

La comunità albanese di Sestriere (To)

Sbarcato a Brindisi nel 1991 e raggiunto Sestriere, il signor Vebi Zeneli ha trovato lavoro nei cantieri edili, d’estate, e nelle cucine dei ristoranti d’inverno, finché si è messo in proprio, come gestore di un bar.

«I primi lavoratori albanesi arrivarono da noi una quindicina di anni fa – spiega Luca Paparozzi, vice sindaco del comune montano di Sestriere, in provincia di Torino, 886 abitanti -. Erano per lo più lavoratori stagionali, impiegati nel campo dell’edilizia».
Correva l’anno 1991 quando, per risolvere l’emergenza delle migliaia di albanesi sbarcati sulle coste pugliesi, le autorità italiane organizzarono decine di centri di prima accoglienza in tutte le regioni. Uno di questi venne realizzato a Susa, a pochi chilometri da Sestriere. E proprio da quell’esperienza è nata l’attuale comunità albanese di Sestriere, che ormai conta 47 residenti regolarmente registrati.
«C’è voluta una decina di anni prima che i lavoratori albanesi diventassero stanziali – continua Luca Paparozzi – ma oggi vivono a Sestriere con le famiglie e sono sicuramente la comunità straniera più numerosa in paese. Oltre il 50% di tutti gli stranieri residenti».
Una comunità coesa, che si ritrova spesso presso il bar Le cafè creme, gestito dal connazionale Vebi Zeneli. «L’arrivo di queste famiglie, in numero non eccessivo, è stato da noi accettato e percepito come una risorsa positiva» spiega il sindaco di Sestriere Andrea Maria Colarelli.

«Sestriere ormai non la lascio più. Sono 15 anni che ci vivo e mi trovo bene. Questa ora è casa mia». Non ha più dubbi Vebi Zeneli, gestore del bar Le cafè creme, in via Pinerolo 23/b, dove ogni settimana arrivano una ventina di copie di Bota Shiptare, il giornale degli albanesi in Italia.
È arrivato nel 1991, sbarcato in Puglia dalle «navi dei disperati», che ogni sera ci venivano proposte dalle immagini dei telegiornali.
«Era primavera – ricorda Vebi Zeneli -. E con il mio vicino di casa abbiamo comprato una bicicletta per andare in due da Tirana, mia città natale, al porto di Durazzo, a 40 chilometri, sulla costa. Avevo 25 anni e lavoravo in una miniera. Arrivati sul molo il mio amico ha dato l’orologio e un mese di stipendio a un poliziotto che ci ha fatto salire sulla “carretta” ormeggiata, carica all’inverosimile, che batteva bandiera panamense».
Dopo 12 ore arrivavano a Brindisi, dove le autorità italiane smistavano gli sbarcati presso i campi di prima accoglienza organizzati in tutte le regioni italiane per affrontare l’emergenza. «Ci hanno subito dato acqua e cibo. E latte per i bambini – continua Zeneli -. Sono finito nel campo di Ostuni, e dopo poco ho cominciato a uscire durante il giorno in cerca di lavoro. Davano 25 mila lire al giorno. Che non era una gran cifra. Ma d’altra parte eravamo sbarcati in 30 mila. E devo dire che i pugliesi ci hanno davvero aiutato, in tutti i modi».
Un giorno un amico chiama il signor Zeneli dal piccolo comune piemontese di Sestriere. Anche lui un boat people del 1991, sbarcato a Brindisi era stato trasferito presso il campo di prima accoglienza di Susa, in provincia di Torino. «Lavorava a Sestriere dove viveva con la famiglia – spiega Zeneli -. Mi disse che se lo raggiungevo mi avrebbe trovato lavoro». Ed è così che il signor Zeneli arriva finalmente a Sestriere.
«Nel 1993 eravamo una ventina di albanesi a Sestriere – ricorda -. Molti hanno lavorato per anni nella costruzione dell’autostrada del Frejus. Io ho cominciato a lavorare in un cantiere edile. E finita la stagione estiva sono andato a fare il lavapiatti al ristorante Alpette, sulle piste da sci». D’estate nei cantieri e d’inverno in cucina. Prima da clandestino, poi ottenuti i documenti, con contratti stagionali.
Poi, un giorno, la svolta: il vecchio gestore del bar Le cafè creme decide di lasciare l’attività. E il signor Zeneli si fa avanti: «Ho chiesto a un amico ristoratore di Sestriere – ricorda -. Ho lavorato anni per lui, e siamo diventati buoni amici. Mi ha consigliato di provarci. Così sono andato dal padrone dei muri e ho detto: lo prendo. Non lo conoscevo, e mi ha subito detto che per lui non c’erano problemi. Albanesi, americani o cinesi, per lui l’importante era che pagassero l’affitto».
Da ormai 5 anni la famiglia Zeneli gestisce l’esercizio commerciale. Aperto dal mattino alle 6 alla sera alle 21; 365 giorni all’anno. Diventando un punto di riferimento sia per gli abitanti locali che per la comunità albanese. «Penso di non aver fatto male a prendere il bar – spiega Vebi Zeneli -. Riesco a viverci con la famiglia». E riesce a mandare il figlio di 10 anni allo sci club. Che è un’attività costosa, ma praticamente l’unico sport esistente a Sestriere.
«Certo trasferirsi in Italia non è stata una passeggiata – racconta Vebi Zeneli -. Di difficoltà ne abbiamo incontrate. E il problema più grosso è sempre stato il rinnovo dei documenti. Ogni quattro anni. Ora che ho il bar ho ottenuto il permesso di soggiorno decennale. E spero vada meglio. Anche se per chiedere la cittadinanza ci vogliono i documenti albanesi: certificato di nascita ecc. Ma da noi è difficile ottenere i propri diritti. Bisogna pagare per qualsiasi cosa. Per questo non ho ancora fatto domanda».

I l signor Zeneli, quando parla del suo paese natale, si incupisce: «Le scuole non funzionano – spiega -. Gli ospedali neppure. La situazione dal 1991 è molto peggiorata. E mi spiace veramente vederlo in questo stato, perché il paese è molto bello». Ma la tristezza dura poco.
Appena entra un cliente nel locale il suo volto è di nuovo sorridente: «Qui ho ottimi rapporti con tutti – spiega -. L’ex sindaco Franco Giaime, ad esempio, viene spesso a giocare a carte da me con gli amici, e mi ha insegnato un gioco locale di nome Belot. Ho imparato la lingua lavorando: e oggi capisco anche patornis e piemontese. Alle feste locali andiamo sempre. E anche se io non so ballare, i balli occitani non sono poi tanto differenti dai nostri. Persino la questione religiosa non è mai stata un problema: siamo musulmani, ma siccome fino al ‘91 le moschee in Albania erano chiuse, siamo abituati a fae a meno. Mio figlio è felice di frequentare la chiesa cattolica».
E anche se la prospettiva della famiglia è quella di rimanere a vivere a Sestriere, con le rimesse verso il suo paese il signor Zeneli ha comunque ristrutturato la vecchia casa di famiglia. Perché non si sa mai: «Quando William finirà la scuola – conclude – potrà liberamente decidere se tornare in Albania o meno. È per questo motivo che in casa parliamo albanese, così ha l’opportunità di conoscere due lingue. Inoltre gli parlo spesso dell’Albania, e quando andiamo a trovare i nonni gli faccio vedere i luoghi della mia infanzia. Ma sarà comunque molto difficile che torni. Perché ormai amici e interessi li ha a Sestriere. Ho deciso di trasferirmi qui per stare meglio, per migliorare la mia vita. E così è stato. Lavoriamo tanto, è vero, ma con la stessa fatica giù non riuscirei a fare questa vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Da  spaccapietre a imprenditore tessile

La comunità cinese di Barge (Cn)

Le tradizioni familiari e i legami clanici sono ancora forti nelle comunità cinesi; ma qualcosa sta cambiando tra i giovani, che rompono con il passato, avviandosi sulla strada dell’integrazione con l’ambiente in cui lavorano.

«Le prime famiglie cinesi in valle sono arrivate verso la fine degli anni ’90. Richiamate da un mercato del lavoro carente di operai che lavorassero nelle cave di pietra dei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, in provincia di Cuneo». Ricorda bene quel periodo Pietro Schwarz, responsabile di progetto del Consorzio Monviso solidale, associazione costituita dai 52 comuni dell’area cuneese compresa tra Fossano, Saluzzo e le Comunità Montane Valle Varaita e Valle Po, Bronda e Infeotto, per la gestione dei servizi socio-assistenziali.
«Abbiamo subito aperto due sportelli a servizio degli immigrati a Barge e Bagnolo – continua Pietro Schwarz -, i luoghi in cui si è concentrata la comunità cinese. Che oggi conta più di 800 persone». Su 12.700 abitanti (rispettivamente 7.000 a Barge e 5.700 a Bagnolo), secondo i dati ufficiali, vivono ben 801 cinesi – rispettivamente 495 a Barge e 306 a Bagnolo. Ma gli impiegati comunali non nascondono che in realtà ce ne sono molti di più. E presso gli sportelli, un giorno a settimana gli operatori del Consorzio accolgono gli immigrati, aiutandoli nelle operazioni più disparate: dal disbrigo di una pratica burocratica alla lettura e comprensione di una contravvenzione; dalla presa in carico di problemi nati sul posto di lavoro, spesso a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana, all’ascolto dei possibili problemi interni alla stessa comunità cinese.
«Il nostro lavoro, che possiamo definire “di comunità” – continua l’operatore – è nato all’indomani di alcune segnalazioni del Tribunale dei minori di Milano. Perché sebbene a Barge e Bagnolo non si siano mai verificati problemi con la giustizia minorile, è sempre meglio prevenire i problemi lavorando per l’integrazione tra italiani e cinesi».
Il Consorzio non si limita agli sportelli, ma promuove laboratori didattici nelle scuole elementari e medie. «Nel complesso scolastico di Barge i ragazzini cinesi sono ormai il 17,82% – spiega Pietro Schwarz -, mentre in quello di Bagnolo il 19,44%. Numeri rilevanti da cui partire per promuovere fin da subito un corretto percorso di integrazione». Perché se, come spiegano gli operatori del Consorzio, con adulti e anziani l’integrazione praticamente non esiste, e i rapporti con gli italiani si limitano alla coabitazione all’interno del paese, è sui giovani e giovanissimi, fino ai 16/17 anni, che si gioca la vera partita.
«Con i giovani, se si propongono delle attività, si può legare tranquillamente – continua il responsabile di progetto -. E in un luogo come Barge e Bagnolo, dove c’è pochissimo fermento culturale, è molto semplice agganciare i ragazzi». E grazie al paziente lavoro della scuola, delle associazioni come il Consorzio Monviso solidale e alla buona accoglienza da parte della popolazione locale, anche all’interno della conservatrice comunità cinese, dove i clan familiari hanno ancora la loro influenza, oggi qualcosa sta cambiando: «Gli esempi di rottura con il passato sono ancora pochi – conclude Pietro Schwarz -, ma cominciano a nascere. E non mi riferisco agli otto magazzini di lavorazione della pietra gestiti da imprenditori cinesi, che comunque lavorano sempre per conto terzi. Ma ad esempio alla nuova gestione del ristorante cinese in valle o al laboratorio tessile aperto recentemente a Bricherasio. Tutte attività nate per volere di giovani imprenditori cinesi desiderosi di migliorare la loro condizione di vita, sganciandosi dalla tradizione familiare della lavorazione della pietra».

«Sono arrivato a Barge dalla Cina cinque anni fa. Oggi ho 19 anni, che per l’Italia sono solo 17 (l’età anagrafica in Cina viene calcolata in maniera differente rispetto al resto del mondo, nda), e da sei mesi lavoro nel laboratorio tessile di mio fratello maggiore Chen Rongqian, di 21 anni italiani, a Bricherasio».
Chen Rongyong, originario del villaggio di Yuhu, nei pressi di Wenzhou, provincia dello Zijang, oggi lavora dalle 12 alle 15 ore al giorno nel laboratorio di famiglia. Si fa chiamare Davide, perché dice: «Mi serve per lavoro: il nome italiano è più semplice da ricordare per i clienti». Oltre a cucire e stirare, infatti, Davide cura i rapporti con i fornitori. «Arrivato in Italia – spiega – ho continuato gli studi di economia aziendale. E anche se non mi sono diplomato, perché ho preferito andare a lavorare prima, mi è servito per imparare la lingua. Oggi tengo i contatti con i clienti che foiscono i capi da cucire. Ditte importanti come Armani o altre simili».
Il padre di Davide è arrivato a Barge con il fratello maggiore Rongqian nel 1998 per lavorare in una cava di pietra. Dopo tre anni è arrivata la mamma, poi la sorella maggiore e infine, nel 2003, Davide. «Sono contento della scelta che ho fatto – spiega il ragazzo -. Un anno fa ho smesso di studiare, ho fatto un po’ di esperienza presso laboratori tessili di Padova e Rovigo e sei mesi fa sono tornato per aprire il primo laboratorio tessile della zona con mio fratello».
Certo, ammette Davide, prima aveva molto più tempo libero, «mentre ora insieme ai miei colleghi (tutti rigorosamente cinesi, nda) lavoro almeno 12 ore al giorno. Io, mia sorella di 25 anni e mio cognato arriviamo anche a lavorae 15. Perché quando c’è tanta merce da cucire passiamo anche le notti in laboratorio. E non esiste sabato e domenica».
Ma la contropartita è il guadagno. Un buon mensile che permette alla famiglia Chen di sperare in un futuro migliore. «Mia mamma ora lavora con noi, tutti i giorni ci prepara il pranzo che consumiamo in laboratorio – spiega Davide -. Prima faceva le stagioni nella raccolta della frutta, si svegliava tutte le mattine alle 5 e lavorava fino alle 20. Ora è più tranquilla e si può svegliare più tardi. Mio padre invece lavora la pietra, si alza tutte le mattine alle sei».

Davide, quando è partito dalla Cina, aveva solo 12 anni. Sono stati i genitori a decidere per lui. «A Yuhu non stavamo male e avevamo buone scuole – ricorda il ragazzo -. Ma si guadagnava poco e la vita diventava ogni giorno più cara. E in definitiva non mi è dispiaciuto lasciare il mio paese. Da quando sono arrivato in Italia mi son sempre trovato bene, ben accolto da tutti».
In Italia, secondo Davide, oltre al tempo libero non manca nulla. E continua: «Oggi posso dire che vorrei rimanere per sempre in Italia. In Cina c’è troppa confusione, mentre in Italia si vive più tranquilli, si fanno le cose con più calma». Con buona pace dei suoi genitori, che vorrebbero un giorno riportare a Yuhu tutta la famiglia.
«I miei genitori vorrebbero che tornassi con loro. Ma io non voglio. Ormai qui in Italia ho i miei amici, vado al bowling o in altri luoghi di svago. In Cina, in questi cinque anni, non ci sono mai tornato. Non mi interessa più. Anche se questo, sono convinto, non fa molto piacere ai miei genitori». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Tra nostalgia e integrazione

I turchi di Pietrabruna (Im)

La comunità turca nella provincia di Imperia è consistente; le amministrazioni locali cercano di offrire opportunità di integrazione, ma non è sempre facile, sia per mancanza di mezzi che per la resistenza degli immigrati, specie tra i più anziani. 

«Quando hai oltre 100 cittadini stranieri residenti su 390 abitanti si pone un problema di tenuta. Non si tratta assolutamente di razzismo o intolleranza, è un problema di numeri: problemi con le scuole, con i parcheggi ecc.: 100 nuovi cittadini che si aggiungono ai residenti rischiano di mandare in tilt tutti i servizi». Riccardo Giordano, sindaco di Pietrabruna, piccolo comune di 591 abitanti sparso in diverse borgate nell’entroterra della provincia di Imperia, non usa mezzi termini per spiegare la trasformazione vissuta dal suo piccolo comune.
«Abbiamo ben 148 stranieri residenti nel comune, di 14 paesi diversi, in maggioranza, 94, di origine turca. E questi ultimi sono tutti concentrati nella borgata centrale di Pietrabruna». Era la seconda metà degli anni ‘90 quando la vecchia polveriera militare dismessa, che si trova sulla strada d’accesso al piccolo comune imperiese, viene trasformata in un centro di accoglienza per profughi kurdi, in fuga dalla persecuzione subita nella loro regione d’origine. Il piccolo centro arriva ad ospitare fino a 2.500 persone. Alcune delle quali riescono a trovare lavoro e stabilirsi a Pietrabruna.
«Nel 2000, quando sono diventato sindaco, i turchi non erano più di una decina – ricorda Riccardo Giordano -. Poi è successo che famiglia chiama famiglia, e pochi mesi fa abbiamo raggiunto il top. E si, perché più di così non ci possono stare fisicamente, non ci sono più case disponibili». E nonostante le periodiche proteste di alcuni residenti che si sentono «assediati», il primo cittadino cerca di gestire la situazione.
«Se dal punto di vista culturale l’atteggiamento di alcuni abitanti è “fuori dalle scatole”, dal punto di vista economico è “belin che gli affitto la casa”. Poi c’è la maggioranza silenziosa, che non si esprime. In mezzo, noi del comune, che cerchiamo di fare da mediatori».
Ma l’arrivo dei turchi ha anche permesso al comune di mantenere attivi alcuni servizi, che altrimenti sarebbero stati dismessi. «La scuola ad esempio, la manteniamo aperta a tutta la popolazione grazie ai bambini turchi – spiega il primo cittadino -. Nel 2008 infatti su sei bambini nati, cinque sono turchi e uno italiano».
Ma l’altra faccia della medaglia è che alcuni scolari stranieri arrivano durante l’anno, senza conoscere la lingua, e ci vorrebbe il sostegno di un insegnante d’appoggio. Che l’Istituto comprensivo scolastico non riesce a garantire. E finisce che l’amministrazione comunale deve farsi carico del servizio. «Tuttavia non dobbiamo preoccuparci più di tanto – tranquillizza il sindaco -. Qui fortunatamente non abbiamo mai avuto problemi di ordine pubblico. Guai, diventerebbe difficile amministrare la situazione. I turchi sono molto tranquilli, tutti occupati nell’edilizia. Molti magari lavorano in nero, ma altrettanti hanno aperto partita iva, lavorano onestamente e pagano le tasse». Sono specializzati in muri in pietra.

Il vero problema da affrontare in un futuro prossimo, secondo Riccardo Giordano, è quello dell’integrazione della nuova comunità. «Qui integrazione non ce n’è, perché loro non la cercano. Forse ci sarà in un’altra generazione, ma oggi in paese non c’è nessuna visibilità della comunità turca, non hanno aperto negozi né creato nulla di loro. È tutto come prima. Le donne velate le vedi solo quando vanno a fare la spesa. Altrimenti stanno in casa. I turchi si frequentano tra loro ed escono poco».
La giunta comunale ha organizzato corsi di italiano per le donne turche realizzati da una maestra madre lingua. «Non so se il prossimo anno riusciremo a riproporre il servizio – continua il primo cittadino – perché dobbiamo ancora trovare le risorse economiche. L’Ici non c’è più e le spese aumentano. Bisognerebbe anche costruire delle occasioni di confronto, qualche festa assieme per promuovere l’integrazione. Ma non ce la facciamo a far tutto da soli».

«Alle olimpiadi io tifo per l’Italia e non per la Turchia. Perché ormai il mio posto è questo. Sono arrivato a Pietrabruna nel ’99 da Sorgum, provincia di Yozgat, vicino alla capitale Ankara, che avevo 12 anni. Insieme a me tutta la famiglia: padre, madre, quattro fratelli maschi e due sorelle». Questa la confessione di Karaman Ismail, che insieme a tre cugini turchi racconta la sua storia seduto al dehor del bar, nella piazza del paese.
«Partito dalla Turchia – racconta il giovane – sono venuto subito qui. Mio padre lavorava a Pietrabruna come muratore dal 1996, e io, dopo qualche anno di studio, ho aperto una ditta edile con mio fratello. Mio padre aveva conosciuto un connazionale in Germania che gli parlò della provincia di Imperia, dicendo che si trovava lavoro. Abbiamo deciso di venirci tutti».
La comunità turca della provincia di Imperia, secondo Karaman, conta oggi circa 2.500 persone. Di cui ben 94 residenti nel piccolo comune di Pietrabruna. «Il grosso problema per chi arriva qui è trovare casa – spiega -. Giù ad Imperia per una stanza ti chiedono anche 800 euro al mese. Per questo molti sono venuti a stare qui a Pietrabruna, dove si trova anche per 250».
Altro problema, ammette il giovane, è quello della lingua. Anche se, dice: «L’italiano è più facile di tedesco e inglese. E tutto sommato è stato facile impararlo. Chi non lo parla, e purtroppo sono ancora molti, è perché non vuole integrarsi. E questo non è giusto; alcuni vengono qui esclusivamente per lavorare e fare i soldi con la sola idea di tornare in Turchia. Vogliono prendere in giro la gente. Ma a me, come a tanti della mia generazione, non va. Io tra qualche mese prendo la cittadinanza, almeno sono tranquillo di poter rimanere».
Karaman è amico di tutti, parla con i connazionali e i liguri indifferentemente. Suo papà, invece, appartiene a un’altra generazione, non parla ancora molto l’italiano, e tra qualche anno vorrebbe tornare in Turchia. «Mio padre adesso lavora meno, ha cominciato a 12 anni e oggi ne ha 48. Arrivato in Italia ha lavorato per ditte locali, poi appena ottenuto il permesso di soggiorno ne ha aperta una sua. Ma ora è vecchio e tocca a noi provvedere alla famiglia; penso che tra tre o quattro anni toerà a Sorgum».
L’idea di tornare in Turchia al giovane turco invece proprio non va. «A volte mi viene la nostalgia del mio paese – spiega – ma mi va via in fretta. Quando too per le vacanze trovo sempre tutto cambiato. La gente mi guarda in un modo diverso, e anche la mentalità ormai non mi appartiene più. Mi sento a posto più qui che al mio paese, e in Turchia non riuscirei più a viverci. Noi giovani non ce la facciamo più a tornare».

La famiglia Ismail, che ha da poco comprato casa nel piccolo comune ligure, ha comunque conservato la casa di famiglia in provincia di Yozgat. Dove il padre sta addirittura costruendo due alloggi per le vacanze ai figli maggiori. «Oggi tutto sommato non possiamo proprio lamentarci – continua il giovane turco -. Siamo andati via dalla Turchia per motivi economici e da quel punto di vista va molto meglio. Qui possiamo addirittura festeggiare le ricorrenze musulmane nel nostro centro a Porto Maurizio, dove abbiamo un imam e dove ci rechiamo a comprare i prodotti per la nostra cucina. Come la carne alal, proveniente dalla Francia. Sempre a Imperia, poi, c’è un foo e un bar gestiti da turchi. E stanno pensando di aprire un negozio con i nostri prodotti. Tutte notizie positive, perché penso sia un bene che oggi i turchi non facciano più solo i muratori».
Certo Karaman non nasconde che rimangono alcuni problemi, primo fra tutti quello dei documenti. «Il sistema qui da voi proprio non funziona. Possibile che se uno temporaneamente non lavora e non ha la busta paga, per avere il rinnovo del permesso in questura debba iscriversi all’artigianato? E se poi non riesce a pagare le tasse? Gli ritirano immediatamente il permesso di soggiorno».
Inoltre, spiega Karaman tra i gesti di consenso degli amici, il vero problema che deve affrontare la comunità turca di Pietrabruna è la crisi economica. Perché da un anno a questa parte nel piccolo comune gli immigrati faticano a vivere: «C’è poco lavoro e le tasse continuano a salire, tanto che dalla Turchia non arriva più nessuno – conclude Karaman Ismail -. Anzi qualcuno comincia a tornare indietro ed altri emigrano in Francia. In Germania meno, perché lì vive bene chi è andato qualche anno fa. Ora è difficile entrare, fanno il test della lingua. Dicono che vogliono farlo anche in Italia, e secondo me sarebbe giusto, perché chi vuole venire a lavorare qui dovrebbe saperla. Poi come se non bastasse sono arrivati anche i rumeni, che lavorano quasi gratis». 

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Due culture ma… senza patria

Gli ivoriani di Dronero (Cn)

Ottenere la cittadinanza del paese ospitante è il primo passo per l’integrazione con la società locale… Ma rimane incancellabile la nostalgia per il paese di origine.

«N el 2008, la comunità ivoriana di Dronero (piccolo comune montano in provincia di Cuneo, ndr) è stata colpita da un lutto molto sentito: è morta una donna con un bambino di un mese. In paese si sono riversati centinaia di connazionali per assistere al funerale. Era impressionante: sono arrivati fin da Milano e Perugia. Insieme al Comitato per gli immigrati di Dronero hanno raccolto i soldi per mandare la salma al loro paese».
Elda Gottero, insegnante di scuola media in pensione, presidente della locale associazione «Voci del mondo» e animatrice dei corsi serali di alfabetizzazione per stranieri, ricorda con commozione l’evento. È sicuramente la persona più informata sulle comunità straniere in paese. Perché ha seguito l’arrivo dei primi ivoriani, la nascita della numerosa comunità e i suoi sviluppi.
«Oggi a Dronero abbiamo 750 stranieri residenti, su una popolazione di poco più di 7.000 abitanti. E la comunità ivoriana, con i suoi 220 membri registrati, è sicuramente la realtà più grossa». Era il 1992 quando si cominciò a vedere i primi uomini di colore nella zona. «Erano ivoriani irregolari – continua la professoressa – attirati dall’opportunità di lavorare nel corso dei quattro mesi della raccolta della frutta. E venivano a risiedere a Dronero per via dei costi di soggiorno più bassi rispetto a Cuneo».
In seguito alcuni di loro trovarono lavoro anche in inverno presso le piccole fabbriche della zona. «Perché qui da noi i neri sono molto meglio visti di magrebini e balcanici – continua la Gottero -. La gente dice: “I neir a sun pì bun. E a travaiu ad’pì” (i neri sono più buoni e lavorano di più, ndr)».
Nel 1998 viene approvata la Legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, e gli extracomunitari possono mettersi in regola con un contratto di lavoro regolare. «In quel periodo arrivarono molti ivoriani dal Sud Italia – ricorda la professoressa – perché, mi dicevano, che in meridione nessuno gli avrebbe mai fatto un contratto. Qui da noi invece, con un po’ di fatica, riuscivano a ottenerlo. Sono nate in quel periodo molte cornoperative, che chiamavano i soci stranieri nel periodo di gran lavoro per poi lasciarli a casa quando non servivano. Una volta sistemati i documenti, comunque, gli immigrati hanno chiamato a Dronero amici e parenti». Ed è così che è nata la comunità ivoriana più grossa della provincia di Cuneo, nonché una delle più numerose in Piemonte.
«Una vera integrazione tra le persone di origine ivoriana e gli abitanti di Dronero è ancora al di là da venire – spiega Elda Gottero con rassegnazione -. I nuovi arrivati stanno prevalentemente tra loro e anche i ragazzi che frequentano le scuole faticano a legare con i compagni».
Da qualche anno la comunità ospite ha allestito un centro culturale presso un capannone affittato poco fuori dal centro di Dronero. «Organizzano feste, celebrano matrimoni e si ritrovano per le preghiere durante il ramadan. Qualche volta invitano imam illustri che arrivano da altri comuni limitrofi».
E proprio l’elemento religioso sembra essere un forte collante per la comunità ivoriana, per la stragrande maggioranza di fede musulmana. «Siamo ormai abituati a vedere, in occasione delle feste, le donne ivoriane nei loro vestiti tradizionali dai colori sgargianti – spiega Elda Gottero -. Ma da qualche tempo a questa parte hanno cominciato a fare la loro comparsa anche i veli islamici. Che prima, almeno a Dronero, non esistevano. Mi dicono che la componente religiosa in Italia è molto più accentuata che al loro paese. Perché la stragrande maggioranza delle donne in Costa d’Avorio non ha mai messo il velo. Molte di loro arrivate a Dronero, dopo qualche mese, cominciano a metterlo».
Gli ivoriani a Dronero sono in costante aumento, e il comune continua a ricevere iscrizioni di stranieri all’anagrafe. I cambiamenti in paese si notano, secondo la professoressa. Anche se in realtà, tolto il call center del signor Bakary Dembelé in centro paese, non esistono ancora esercizi commerciali o attività gestite da ivoriani.

«A vevo 19 anni quando son partito da Abidjan, in Costa d’Avorio. Ho preso un aereo e sono venuto in Italia per trovare lavoro, perché da noi era impossibile campare. La scelta è stata casuale, non conoscevo l’Italia, ma era il paese più comodo da raggiungere tra quelli in cui non c’era bisogno di visto d’entrata».
Bakary Dembelé, 37 anni, sposato con tre figli, racconta la scelta più importante della sua vita seduto al bancone del call center aperto nel centro di Dronero nel 2003. «Ad Abidjan ho studiato presso la scuola coranica e in seguito ho cominciato quella francese. Sono partito prima di finire il percorso di studi, e arrivato in Italia, trascorsi i primi tre mesi con un permesso di soggiorno da turista, sono diventato clandestino».
Il primo periodo di residenza in Italia il signor Dembelé l’ha passata a Napoli, dove un gruppo di connazionali gli ha trovato un lavoro in nero. «Dopo qualche anno sono andato a lavorare a Cuneo – ricorda l’ivoriano -, mi sono regolarizzato, e sono tornato ad Abidjan per sposarmi».
Bakary Dembelé oggi, oltre ad aver aperto con la moglie il call center, è operaio presso una ditta metalmeccanica di Dronero, che realizza parti per veicoli speciali Fiat. «Da quando sono nati gli ultimi due figli non siamo più tornati in Costa d’Avorio – spiega l’ivoriano -. I parenti li sentiamo per telefono e le notizie le vediamo al computer o in tv con la parabola».
Bakary non nasconde che qualche volta, dopo una telefonata con un parente, viene preso dalla nostalgia: «La cultura italiana mi piace molto, ma è come se stessi vivendo in un universo parallelo – spiega -: mi manca il mio paese natale, la mia terra, ma quando ci vado, dopo pochi giorni mi viene la nostalgia dell’Italia. Perché ormai in Costa d’Avorio è tutto cambiato. Capita anche agli italiani che vivono per un po’ in Costa d’Avorio, quando tornano in Italia hanno problemi a reintegrarsi. E lo chiamano mal d’Africa…».
Non più ivoriano, non ancora italiano. Il signor Dembelé si sente ormai un «senza patria». «Sicuramente l’accoglienza in Italia per noi è stata buona – spiega l’ivoriano -. Dronero è uno dei paesi della provincia di Cuneo con più extracomunitari: gli ivoriani nella zona oggi sono quasi un migliaio, e dal 1990 al 2008, in concomitanza con la crisi politica del nostro paese, sono praticamente raddoppiati. Siamo davvero tanti, e capita a volte di trovarsi a cena con famiglie di Dronero. Mi sembra un sintomo di buona integrazione».
Anche se, fa capire Bakary, gli incontri «misti» non sono certo la regola. E i membri della comunità locale ivoriana continuano a trovarsi tra loro in occasione delle feste tradizionali o religiose. Inoltre la moglie Tagarigbé Dembelé «parla meno l’italiano – spiega il marito -, perché essendo una mamma con tre figli ha meno tempo per badare all’integrazione. Per lei è dura, non ha i parenti vicini e, anche se io cerco di fare la mia parte, non è facile. Perché i figli danno la felicità ma sono anche un bell’impegno…».

C on due lavori, tre figli e tanta voglia di migliorare la loro condizione perché, dice il capofamiglia: «Ho sempre la tendenza a crescere. E se mi viene in mente un’altra attività come quella del call center per soddisfare nuove esigenze dei migranti, la farò».
La famiglia Dembelé ha sicuramente dovuto affrontare grossi cambiamenti. «In Africa vivi in un altro mondo, dal cibo ai comportamenti, ai rapporti – continua Bakary -. Se sei abituato a vivere qui, giù ti trovi malissimo, ma se in Africa ci sei nato e cresciuto te la “fai andare”. Da noi c’è più il senso dell’amicizia, mentre in Italia sono tutti più distaccati a causa della vita frenetica. Ma se si parla ad esempio di sanità, non c’è paragone. In Costa d’Avorio la sanità pubblica è pessima».
Il vero grosso problema per la comunità ivoriana, come per quasi tutti gli immigrati extracomunitari sul nostro territorio nazionale, è quello della burocrazia: «Per fare un documento valido tre mesi chiedono un sacco di cose e lo aspetti anche un anno – spiega Bakary -. E se ti chiamano per un lavoro vogliono il permesso di soggiorno, che se non ti è ancora arrivato ti fa perdere l’opportunità».
Ma nonostante tutto, la famiglia Dembelé è ormai sicura della scelta fatta: «Penso di aver fatto la scelta giusta – spiega il capofamiglia -. Il nostro futuro è questo. I miei figli stanno crescendo qui, e se decidessimo di rientrare per loro sarebbe davvero difficile. C’è qualche mio connazionale che alleva i figli in Costa d’Avorio presso i parenti. Ma io penso che loro debbano stare con i genitori, e un domani avere una doppia cittadinanza. Che è sempre una cosa in più: imparano la cultura italiana a scuola e quella ivoriana da me e mia moglie». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Migrazione di ritorno

La comunità polacca di Pomaretto (To)

Dalle miniere di carbone polacche a quelle del talco in Piemonte, con minore fatica e maggiore guadagno; ma molte cose stanno cambiando e gli immigrati polacchi aspettano solo l’occasione della migrazione di ritorno.

«I primi polacchi sono arrivati in galleria nel 2000 – racconta Ezio Sanmartino, capo servizio presso la cava di talco della Rio Tinto-Luzenac di Rodoretto, da 30 anni al lavoro nel sottosuolo -. L’azienda non trovava più persone locali disposte a scendere nelle gallerie e ha contattato un’agenzia polacca: sono arrivati in 26 in un colpo solo». Tutti assunti a tempo indeterminato. «All’inizio non è stato facile – continua il capo servizio, ormai prossimo alla pensione – perché i minatori polacchi provenivano da cave di carbone. Dove l’attività estrattiva è completamente diversa. Inoltre la lingua era un vero problema».
I responsabili della gestione dell’impianto hanno subito messo a disposizione dei nuovi arrivati una professoressa di italiano, e organizzato tui in galleria in modo che ci fossero sempre coppie formate da un italiano e un polacco. «Questo sicuramente ha aiutato l’integrazione sul posto di lavoro – spiega Sanmartino -, anche se ormai i polacchi sono in maggioranza, 21 su 29, ed è diventato impossibile rispettare il criterio della “coppia mista”. Bisogna comunque dire che “loro” sono più disciplinati dei “nostri giovani”, sono arrivati con esperienza in galleria e lavoravano di più. Una volta. Perché oggi, direi, si sono abbastanza omologati ai ritmi italiani… E hanno giustamente eletto un loro delegato sindacale».
Al signor Ezio capita spesso di accettare l’invito dei colleghi polacchi, che non mancano mai di offrirgli vodka, insaccati artigianali e caffè portati direttamente dal loro paese: «Si può dire che sono ben visti in valle – sottolinea Ezio Sanmartino -, si vedono spesso in giro la domenica e c’è addirittura un ragazzo che va a suonare l’organo nella parrocchia di Perrero, facendo cantare tutti in polacco».
Anche se, ammette il capo servizio, hanno lasciato tutti la famiglia al paese d’origine e appena possono tornano a passare i periodi di vacanza in Polonia. «Addirittura qualcuno dice di voler tornare a vivere nel paese d’origine – spiega -, perché ormai la differenza di salario si è praticamente annullata».
Gli arrivi di polacchi si sono effettivamente fermati. E la proprietà è nuovamente in difficoltà nel reperire mano d’opera: «Le gallerie saranno di sicuro attive ancora per 6 o 7 anni – spiega Sanmartino – e nel frattempo stanno facendo campionamenti per cercare altri filoni. Hanno messo degli annunci di ricerca personale sui giornali specializzati, ma per ora ancora nulla. Perché la miniera è un lavoro che ha il suo fascino, ma poi bisogna fare i conti con la fatica, il fango, lo sporco. E ai giovani oggi tutto questo non piace. Finirà che arriveranno da qualche altro paese in difficoltà, e tra poco non ci sarà più un italiano impiegato nella cava di talco. Pensi che già i miei due nonni e mio padre hanno lavorato a Rodoretto. All’inizio io mi son detto “mai in miniera”. Poi compiuti i 18 anni sono stato come attratto. E oggi, dico la verità, non mi dispiacerebbe se uno dei miei due figli seguisse le mie tracce. Anche se penso sia difficile: uno è diventato ingegnere informatico, l’altro ha 14 anni e sicuramente continuerà anche lui gli studi».

«S ono in Italia da quattro anni – dice Rafael Kubanda -. Vengo da Bielsko Biala, 60 km da Katoviza, zona mineraria. Mio padre e mio fratello sono minatori e sono venuti qui in Italia a lavorare nella cava della Rio Tinto-Luzenac in Val Germanasca otto anni fa. Poi hanno chiamato anche me».
In Polonia Rafael aveva un buon posto di lavoro, faceva consegne con un furgone e aveva uno stipendio considerato «alto» per i parametri polacchi di allora. «Il lavoro è molto diverso – spiega -. Qui sono più tranquillo, faccio le mie 8 ore per 5 giorni la settimana. In Polonia ero costretto a lavorare 13 ore al giorno, dalle 5 e 30 alle 22».
E inizialmente c’era anche una certa differenza di stipendio. «Quattro anni fa un euro valeva 4,20 sloti, ora ne vale solo più 3,40 – continua Rafael Kubanda -. E dicono che salga ancora di qui al 2011, anno in cui anche noi adotteremo l’euro. Alla fine, tra qualche anno, guadagnerò tanto quanto guadagnavo a casa mia».
Rafael Kubanda ha moglie e un figlio, e all’inizio della sua esperienza lavorativa in Italia si era trasferito da Bielsko Biala a Perrero in Val Germanasca, unico caso tra i minatori polacchi, con tutta la famiglia: «Avevamo deciso di venire tutti – ricorda il minatore -, mia moglie avrebbe imparato la lingua e trovato un lavoro anche lei. Dopo un anno ci siamo spostati a Pomaretto, dove mio figlio ha cominciato l’asilo. Ma purtroppo nel 2007, dopo un anno e mezzo, mia moglie ha deciso di tornare in Polonia con mio figlio. Non si trovava bene, non è riuscita ha trovare un lavoro che le piacesse e pativa la lontananza dai parenti».

A desso, appena può, Rafael  torna a Bielsko Biala: «Ogni due mesi cerco di mettere insieme i giorni liberi e vado una settimana dalla mia famiglia. Spesso in macchina con gli altri colleghi per spendere meno. Oppure con il pullman da Torino o con i voli low cost».
Un cambiamento netto di prospettiva. Da aspirare a diventare cittadino italiano a lavoratore «in trasferta». «Non abbiamo molti rapporti con i locali – spiega il polacco -. Ogni tanto andiamo alle feste di paese, ma non frequentiamo molto le famiglie. Nemmeno quando c’era qui mia moglie; anche se in quel periodo vivevamo in modo diverso: facevamo più giri, uscivamo di più. Andavamo anche qualche volta al mare. Ora non più. Non ho nemmeno più l’auto. E qui senza macchina è difficile vivere. Anche le montagne, che mi piacciono tanto, le vedo dalla finestra, ma arrivarci a piedi è lunga. Per cui preferisco stare con i connazionali. E piuttosto di andare a spendere in giro, ci compriamo della birra e ce la beviamo a casa. Con questo non posso dire di aver mai avuto problemi con i locali: vado d’accordo con tutti, sono gentili e conviviamo benissimo. Poi magari chissà cosa pensano di noi…».
La giornata di Rafael si svolge tra il magazzino della Rio Tinto-Luzenac e l’alloggio di Pomaretto. In attesa di maturare i giorni per tornare a casa dalla famiglia. «Da un anno niente più sottosuolo, lavoro in magazzino – spiega -. Ho avuto un infortunio in galleria e quando sono tornato dalla mutua mi hanno offerto questo posto. Il mio infortunio era il primo dopo due anni, perché la sicurezza in miniera è la prima cosa».
La sera Rafael Kubanda, quando torna a casa, passa più di un’ora a parlare con moglie e figlio: «Uso skype, perché Inteet costa molto meno delle schede telefoniche». Poi si mette a tavola con il collega polacco, con cui divide l’alloggio, per la cena: «Mangiamo cucina italiana – spiega – che ci piace molto. Da noi si mangia molta carne e patate. E il pane è un po’ diverso. Qui è dolce, da noi è all’aceto. Ma l’unica cosa che qui manca veramente è la salsiccia speziata, come la facciamo noi. Non sapete proprio farla! In compenso sapete fare bene tante altre cose, come pasta e formaggi, che da noi non ci sono».
La prospettiva della famiglia Kubanda è sicuramente quella di tornare a vivere al più presto a Bielsko Biala: «Mia moglie abita a casa dei suoceri – spiega Rafael -. E penso che la ristruttureremo per il futuro. Sicuramente non investiamo in Italia ma in Polonia. Appena trovo un altro lavoro nel mio paese, in cui mi paghino più o meno come qui too. Ma so che più a lungo rimango in Italia e più difficile diventa tornare in Polonia. Oggi ho 33 anni, e in Polonia chiedono lavoratori al massimo di 36 o 37. Sono gli ultimi anni in cui possiamo riorganizzare la nostra vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Basta mosche …suglio occhi

Dove gli aiuti… aiutano davvero

INTRODUZIONE

Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.

Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.

Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.

S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno! 
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.

Di Romina Remigio

Romina Remigio




Scuola con… battiscopa

Iringa: una giornata con i volontari dell’Allamano Centre

Fondato e diretto dalle suore missionarie della Consolata, l’Allamano Centre comprende asili, scuole, ambulatori e assistenza medica, soprattutto con attività di prevenzione dell’Aids e di attenzione a famiglie e singole persone sieropositive. Oltre a una ventina di persone impiegate a tempo pieno (medici, infermieri, consulenti, addetti ai laboratori, ecc.), il Centro si avvale della collaborazione di 70 volontari che gioalmente assistono i malati a domicilio.

Un odore di cipolla, misto a sudore e urina mi blocca le narici. Joseph è lì che aspetta solo di morire. La malattia è devastante. È devastato! Metastasi di pensieri mi bloccano il cervello. È troppo giovane. È un bravo ragazzo. Non si può morire così. Ma è sereno. Crede in Dio e mi dice che le missionarie della Consolata gli hanno fatto sentire l’amore di Dio e le volontarie dell’Allamano Centre lo aiutano.
La moglie non c’è. È andata a prostituirsi, per una manciata di scellini, contagiando altri o andando con altri contagiati che a sua volta trasmetteranno il virus. Non c’è famiglia che non sia stata colpita dall’Aids. Il pombe, un fermentato alcolico, ubriaca la testa e l’anima. E il virus si propaga. L’amore e il sesso qui sono la stessa cosa. L’amore è libero per natura. Non ci sono preconcetti, non c’è protezione, non c’è contraccettivo mentale. «Siamo tutti malati. Il condom non ha fermato la trasmissione, anzi – mi dice Joseph -, quindi è inutile rinunciare.

Due ore nel bush con Concetta e i volontari dell’Allamano Centre, struttura per la cura e il sostegno a malati sieropositivi, ideata, realizzata e gestita dalle missionarie della Consolata, con l’aiuto di medici, psicologi e personale tanzaniano.
Un caldo che ti scioglie il midollo. Non sento più le labbra arse dal caldo e il corpo. Saltiamo buchi, attraversiamo campi desolati, mangiamo polvere. Concetta, una straordinaria italiana che ha scelto di vivere qui aiutando le missionarie della Consolata e i tanzaniani, tira dritto. Guida decisa nel bush. Ormai lo conosce bene. È da più di un anno che accompagna i volontari dell’Allamano Centre nel giro ai malati terminali, quelli che non hanno più la forza di andare al centro per prendere le medicine.
Ogni giorno è un colpo al cuore. Bambini e giovani che vede morire, o trova già morti. Ma Concetta riesce a strappargli e strapparti un sorriso, sempre. E tutti le vogliono bene. Girare con lei è un divertimento. Con un accento tipicamente campano parla in kiswahili. Dopo ore di sabbia, spine e campi di girasole, imbalsamati dal sole, arriviamo a casa di un altro malato. Anastasia. Cinque figli. Tre morti. Il marito già morto l’ha contagiata, forse senza saperlo.
Una lamiera arrostita a 35°, girasoli a seccare. Un bimbo in lacrime ci viene incontro, spaventato e incuriosito. Vivono talmente distanti dalla città e così inteati nel bush che avrà visto raramente i wazungu. Si avvicina, vuole toccare la mia macchina fotografica, ma si ferma a dieci centimetri dal mio ginocchio e immobile mi fissa. Mi sfiora un ginocchio continuando a fissarmi. Due grandi pupille nere mi sfondano il cuore. Ha solo tre anni e probabilmente è malato.

Toiamo a casa e ci accoglie suor Luisella Benzoni. Una pazzesca suora missionaria che, oltre a prendersi cura di un asilo affollatissimo, insegna e si occupa di altre cento cose, come tradizione per le missionarie della Consolata.
Luisella mi prende subito il cuore. Visito la sua scuola, che gestisce in tipico stile lombardo. Mi fa sorridere la sua precisione, la sua organizzazione in una realtà dove non esiste ordine. Non esiste la parola organizzazione. E lei lo sa bene e ride con me di questo. Due occhi blu e un accento bresciano che mi hanno fatto ridere e divertire per settimane. La sua serietà e organizzazione è direttamente proporzionale alla sua ironia e simpatia.
Ma questa sua ironia, sono convinta, è una protezione contro la disperazione che vive e sente ogni giorno. La sua scuola è un asilo e scuola pre-elementare che ha bisogno di tanto, ma la sua cura e il suo amore lo fanno sembrare bellissimo. Personaggi della Walt Disney disegnati sui muri ci danno il karibu (benvenuto) e 130 bambini, bene ordinati, mi intonano l’inno del Tanzania, mi cantano la Vecchia fattoria, mimando gli animali e mi rendono partecipe in una loro lezione.
Suor Luisella ha fatto una delle cose più difficili ma necessarie: insegnare alle maestre e ai bambini che la scuola è fondamentale ma per essere accessibile a tutti deve essere curata, un senso civico che manca da troppo tempo anche a noi italiani. Ho conosciuto le sue maestre che ridipingevano un battiscopa, una cosa del tutto estranea alla cultura africana. Questo dimostra quello che ho sempre pensato e sostenuto: l’Africa non ha bisogno di una scuola da terzo mondo, dove bisogna accontentarsi, dove la creatività fatta anche da poco, l’ordine, la pulizia sono solo eufemismi.

di Romina Remigio

E non finisce qui

Sono ripartita da Dar Es Salaam il 21 maggio alle 21.20 con un volo della Swiss Air, dopo aver saltato per più di un’ora e mezza per le strade di Mbagala, nel taxi di Goldwin, accompagnata da due amiche speciali che hanno voluto addolcire quello che sarebbe stato il trauma della partenza.
Era già notte, quando ho lasciato Mbagala, il villaggio che mi ha ospitato per mesi; anche la luce elettrica come sempre se n’era andata. Abbiamo caricato la macchina, illuminati solo da un cielo stellato straordinario, che mi ha augurato safari jema (buon viaggio).
Ho salutato velocemente gli amici, le bibi (nonne) e zie con un inevitabile nodo alla gola. Su un sedile di velluto liso, cercavo di fissare nella mente, naso e orecchie immagini, odori e suoni di Mbagala.
Arriviamo in aeroporto che già la gente è in fila per il check-in. Un vento caldo e umido mi attraversa e mi sbatte in faccia. Penso che sto per partire, sto per lasciare il Tanzania. Ogni passo verso il check-in mi tuona dentro come una pugnalata. Devo salutare le mie amiche e penso alle altre missionarie che mi hanno rapito il cuore, ma non riesco a reggere l’affetto dei loro sguardi. Carica di zaini, borse e con una zucca, che sarà motivo di discussione da Dar Es Salaam in Svizzera, perché sembra troppo stravagante girare con una grande zucca, le abbraccio ed entro.

Salita sull’aereo avverto immediatamente la fredda consapevolezza di essere in Europa. Caos, musica e sorrisi africani sono stati prontamente sostituiti da distratti sguardi svizzeri.
Un’italiana, contenta e convinta di aver trovato un’altra italiana, mi vomita tutto il suo risentimento nei confronti dei tanzaniani e del caos del Tanzania; me la cavo con un «sorry, I don’t speach italian» (spiacente, non parlo italiano) e, incollata al finestrino, l’iPod impiantato nelle orecchie, cerco di confondere pensieri e ricordi che affollano la testa. Lascio la pista di Dar Es Salaam con Elton John che canta Your song. Chiudo gli occhi sperando solo di addormentarmi e svegliarmi a Zurigo.
Arrivo alle 6.45 in una Zurigo grigia, umida e fredda. Un aeroporto modeissimo, pulitissimo, fighissimo… tutto issimo. Ordinati e in un silenzio troppo fastidioso seguo i miei compagni di viaggio al controllo bagagli. Ci esaminano come fossimo terroristi. Gli apparecchi elettronici devono seguire un accurato controllo «svizzero».
E io in tipico stile profuga: infradito africane, jeans stra-scoloriti e strappati, felpa ancor più scolorita, abbondavo di apparecchiature elettroniche. Mi sento due occhi addosso. Alzo lo sguardo e mi ritrovo di fronte una «donnona» che esamina attentamente le macchine fotografiche, obbiettivi, computer, come se una fotoreporter fosse un mercante d’armi.
Accendo il telefonino che inizia a squillare all’impazzata per gli sms di amici che mi danno il benvenuto in Europa, tra sguardi urtati compostissimi vicini. Voglio il Tanzania! Voglio il caos, la musica, le grida dei bambini, i clacson delle macchine, la polvere e le buche!

O sservo due africani, cercando nei loro occhi la mia stessa disperazione. Sono una delle ultime a salire sull’aereo. Nemmeno il cioccolatino svizzero, in puro cioccolato al latte finissimo, riuscirà ad addolcire l’ultima ora e mezza di viaggio. Sorvoliamo Roma. La guardo dall’alto. Bella come sempre, ma sono davvero arrivata!
E ora sono qui, divisa tra due mondi, con la certezza che non posso tornare alla mia vita senza aiutare seriamente gli amici che hanno vissuto con me e le straordinarie missionarie capaci di prendere in mano il cuore dei più poveri e disperati tra i poveri, accarezzarlo e dargli la forza e il coraggio di andare avanti, vivendo con loro e cercando di aiutarli con progetti reali, ma fuori moda per le istituzioni inteazionali di cooperazione.
Credenti o meno, atei o non atei, la mia considerazione oggettiva finale, è che aiutando i missionari sicuramente possiamo aiutare questo popolo a liberarsi dal giogo che lo soffoca da decenni.

Romina Remigio




OLTRE LA GUERRA

Russia-Georgia: sullo stato delle cose

INTRODUZIONE

Già a proposito dei conflitti interni scoppiati in Georgia nel 1992/1993 si era parlato di «pulizia etnica», quando oltre 280 mila georgiani furono costretti a lasciare l’Abkhazia e l’Ossetia del Sud, per vivere in situazioni miserabili, profughi nel proprio paese.
Per 15 anni vari organismi inteazionali hanno discusso e proposto soluzioni per sopire le tensioni secessioniste delle due regioni e permettere agli sfollati di tornare nelle loro regioni di origine. Invece, i tragici eventi dell’agosto scorso, in cui si sono fronteggiati l’esercito russo, quello georgiano e le milizie separatiste dell’Ossetia, hanno provocato centinaia di vittime e un esodo di massa dall’Ossetia del Sud, raddoppiando il numero dei profughi.
Sono risuonate di nuovo le parole «genocidio» e «pulizia etnica» come accuse reciproche  tra Mosca e Tblisi: la Russia ha accusato la Georgia di aver condotto un’operazione di pulizia etnica contro il popolo osseto; la Georgia si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Aja accusando la Federazione russa di avere messo in moto una crociata basata su «atti di discriminazione razziale» e di avere condotto con il suo esercito una «metodica pulizia etnica» nei confronti dei georgiani delle due repubbliche separatiste.

Vicende storiche e interessi economici e politici immediati condizionano l’informazione su ciò che sta capitando nel piccolo ma strategico paese caucasico. Con questo breve dossier vogliamo aiutare, per quanto è possibile, a leggere la realtà, senza schierarsi con l’uno o l’altro contendente.
Anzi, in qualche modo vogliamo schierarci, ma dalla parte delle vittime della guerra e delle violenze dei mesi scorsi: sono circa mezzo milione le persone che hanno dovuto fuggire dalle violenze e rifugiarsi nei campi profughi. Alcune hanno iniziato a tornare nelle loro case e a ricostruire la propria vita; la maggioranza, invece, non ha alcuna speranza di ritorno e dipende totalmente dalla solidarietà internazionale.


OLTRE LA GUERRA

Sulla guerra dell’agosto 2008 tra Georgia e Russia si è scritto tanto, ma troppo spesso a sproposito.
La storia dei rapporti tra i due paesi è sempre stata complessa, ma non drammatica, sia durante l’impero russo che ai tempi dell’Unione Sovietica. Le cose sono cambiate in epoca recente (primi anni Novanta), con il nazionalismo georgiano e l’arrivo (non disinteressato) di Washington. Da ultimo va sottolineato che, contrariamente alla vulgata occidentale, il deficit di democrazia e libertà non è soltanto russo. Perché Tblisi e il presidente Saakashvili non sono attori immacolati.

Il recente conflitto tra Russia e Georgia ha imposto all’attenzione internazionale la regione caucasica, le cui dinamiche storiche e politiche sono nel complesso assai poco note (1). Tale conflitto è stato descritto e interpretato in maniera varia e contrastante, molto spesso pregiudizialmente a sostegno dell’una o dell’altra parte (2). Questo articolo mira invece ad affrontare, più che a rispondere, una questione tanto importante quanto complessa: la guerra di agosto è stata davvero l’esito di un secolare e inevitabile contrasto tra la Russia e la Georgia?

AI TEMPI DELL’IMPERO RUSSO

La Georgia ha una storia quanto mai remota, che risale al primo millennio a.C., entrando presto a contatto con la Grecia, l’Iran e Roma. La Georgia è anche uno dei primi paesi a convertirsi al cristianesimo – tradizionalmente nel 336, grazie all’opera di santa Nino – costituendo nei secoli una delle più antiche chiese ortodosse (3).
Dopo un periodo di particolare splendore, nei secoli XII-XIII, la Georgia si divise in piccoli regni e principati, indipendenti ma contesi a lungo tra gli imperi musulmani di Turchia e Persia, nonché minacciati dalle incursioni devastatrici dei bellicosi montanari del Caucaso settentrionale.  I viaggiatori e i missionari europei dei secoli XVII-XVIII (Della Valle, Castelli, Chardin) concordano nel descrivere un paese devastato dalle invasioni musulmane e dal disordine interno, le cui regioni meridionali tendevano a islamizzarsi. Alla luce di questa difficile situazione politica, i georgiani iniziarono già nella seconda metà del XVII secolo ad avvicinarsi alla Russia, potenza cristiana e ortodossa in rapida ascesa, ma senza ottenere alcun aiuto concreto ed esponendosi invece ai sospetti di ottomani e persiani.
Nel 1783 il re Erekle II, che pure era riuscito a riunire buona parte della Georgia orientale, riconobbe il protettorato russo. Il suo successore, Giorgi XII, inviò un’ambasciata a Pietroburgo per chiedere che la Russia esercitasse una piena autorità sul paese, a condizione che egli e i suoi successori potessero restare sul trono. Nel dicembre 1800, l’imperatore russo Paolo I non rispettò questa richiesta, peraltro contraddittoria, e proclamò invece l’annessione della Georgia orientale alla Russia (4). Nei decenni successivi l’impero russo conquistò anche tutti i territori della Georgia occidentale.
Nonostante l’affinità religiosa (il cristianesimo ortodosso) e sociale (anche in Georgia i contadini erano asserviti alla nobiltà), i georgiani accolsero in maniera alquanto negativa la perdita dell’antica e pur precaria indipendenza, anche a causa della politica, per molti aspetti ottusa, della Russia. In particolare, va segnalato il grave attacco portato all’identità religiosa della Georgia. Nel 1811 il patriarca Anton, appartenente alla famiglia reale, fu destituito e sostituito da un esarca russo incaricato di governare la chiesa georgiana, che perse così la sua antica autocefalia.
I primi decenni del dominio russo furono inoltre segnati da numerose rivolte anti-russe, sia contadine che nobiliari. Solo nei decenni successivi, soprattutto grazie all’accorta politica del viceré Michail Voroncov (1844-1855), la Georgia avrebbe trovato un inserimento più positivo all’interno dell’Impero russo. Nonostante le difficoltà politiche e religiose, per i georgiani, così come per i loro vicini armeni, l’inserimento nell’impero russo ebbe delle importantissime conseguenze storico-culturali. Da un lato pose fine alla secolare soggezione alle dominazioni musulmane, dall’altro consentì la recezione della cultura europea modea, sia pure attraverso la mediazione di quella russa. Non a caso la prima generazione degli intellettuali georgiani modei – i cosiddetti «padri» – è nota come Tergdaleulni, vale a dire «coloro che hanno superato il Tergi» per recarsi a studiare a Mosca e Pietroburgo (5).
Un altro fattore positivo dell’inserimento della Georgia nell’impero russo fu che, sia pure sotto una dominazione straniera, per la prima volta dopo molti secoli, il paese toò ad essere unito, superando almeno in parte il forte frazionamento regionale che ne costituisce una caratteristica fondamentale (6).
Anche i georgiani, peraltro, risentirono negativamente della svolta autoritaria e russificatrice che tutto l’impero russo conobbe dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. Una serie di misure restrittive li colpì soprattutto nella sfera dell’educazione, ma tale politica repressiva fu contrastata efficacemente da un forte movimento nazionale, guidato inizialmente da membri della nobiltà, che si levò a difesa della lingua, della letteratura e della cultura georgiane. Il progressivo rafforzamento di una identità nazionale modea e il difficile rapporto con la Russia spiegano come, nonostante lo sviluppo demografico, economico e culturale conosciuto in epoca zarista, dopo la rivoluzione d’Ottobre la Georgia si sia rapidamente resa indipendente. Un’indipendenza durata soltanto dal 1918 al 1921, sino all’invasione dell’Armata Rossa.
AI TEMPI DELL’URSS
Per sette decenni la Georgia fu inserita nell’Unione Sovietica e costretta a subie le politiche di collettivizzazione, lotta antireligiosa, repressione culturale e così via. Pur in questo contesto difficile e spesso tragico, il paese conobbe anche gli aspetti positivi dell’epoca sovietica: costituzione di strutture culturali modee (accademia, università), un forte aumento dell’istruzione media, una notevole industrializzazione e così via. Da segnalare anche il fatto che all’interno della Georgia, che costituiva una delle 15 repubbliche sovietiche, vennero costituite tre autonomie territoriali – Abkhazia, Ossetia meridionale e Agiaria – assegnate a minoranze etniche o culturali (7).
In definitiva, anche nell’epoca sovietica la Georgia conobbe tanto gli aspetti negativi quanto quelli positivi del sistema. Non c’è ragione per affermare che abbia sofferto più di altri paesi; anzi, il livello di vita e istruzione era tra i più alti dell’Urss. Sin dagli anni ‘70, inoltre, in Georgia iniziò a delinearsi un «nazionalismo eterodosso», capace, per esempio, di contrastare vivacemente i tentativi di Mosca di limitare l’uso della lingua nazionale (8).

I DISEGNI DI WASHINGTON (E QUELLI DI MOSCA)

Dopo la fine dell’Urss nel 1991, la Georgia, o almeno la sua classe dirigente, ha coltivato con ostinazione il progetto di un completo distacco dalla Russia e di avvicinamento all’Europa e all’Occidente in generale, che per molti aspetti appare in contrasto sia con la storia che con la  collocazione geografica di questo paese. Ma, come osserva ironicamente uno studioso russo, «… in Europa e negli Stati Uniti è possibile emigrare, ma divenire parte del mondo economico e culturale dell’Europa, ignorando la Russia, resta un desiderio irreale per tutte le regioni del Caucaso, nessuna esclusa» (9). 
Durante la presidenza fortemente nazionalista di Zviad Gansakhurdia (1991-1992) Tblisi si rifiutò di aderire alla Csi (10) e portò avanti una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle minoranze etniche presenti sul suo territorio (11). La Russia appoggiò allora le rivendicazioni indipendentiste di osseti e abkhazi, che sono riusciti a rendersi de facto indipendenti dopo violente guerre nel periodo 1991-93.
Tali conflitti, tra l’altro, hanno determinato l’emigrazione massiccia degli osseti dalla Georgia e dei georgiani dall’Abkhazia. Da allora truppe russe sono presenti nelle due entità secessioniste con funzione di peace-keeping e su mandato internazionale. La Georgia, peraltro, non ha mai accettato questa situazione, anche se durante la lunga presidenza di Shevaadze (1992-2003) non ha potuto in alcun modo ribaltarla.
La situazione è profondamente cambiata dopo la cosiddetta «rivoluzione delle rose», che tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 portò all’avvento di una dirigenza fortemente filo-occidentale guidata da Mikheil Saakashvili. Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore e l’aperto sostegno degli Stati Uniti (12).
Nell’ambito del più generale ridispiegamento strategico e militare verso sud-est, iniziato dopo l’11 settembre 2001, Washington ha infatti individuato nella Georgia il paese chiave della sua penetrazione nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian.
Al tempo stesso, tuttavia, dopo la disastrosa crisi post-sovietica degli anni ‘90, sotto la presidenza di Putin, la Russia è tornata a consolidare le sue posizioni, in particolare nel cosiddetto «estero vicino», vale a dire le ex repubbliche sovietiche, mettendo in dubbio quella «transizione egemonica» (13), che appariva inevitabile sino a pochi anni prima. Soprattutto nel Caucaso, i paesi e i popoli sono quindi in larga misura ostaggi non tanto di conflitti arcaici, come spesso si pretende, quanto piuttosto di questa rivalità geopolitica: mentre la Georgia e, in misura minore, l’Azerbaigian hanno assunto una posizione filo-americana, l’Armenia (incluso l’Alto Karabakh) e soprattutto l’Abkhazia e l’Ossetia meridionale continuano a essere schierate con Mosca.

L’UNIONE EUROPEA, LA NATO, IL KOSOVO 

In questa complicata situazione si è inserita da qualche tempo anche l’Unione europea. Dopo oltre un decennio di scarso interesse nei confronti della regione, nel giugno 2004 Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state incluse nella «Politica europea di vicinanza» (14).
Il nuovo atteggiamento di Bruxelles ha varie motivazioni. In primo luogo è collegato con la questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le frontiere europee direttamente sul Caucaso. Ma anche con la «rivoluzione delle rose» in Georgia, che ha profondamente modificato la situazione di questo paese, facendone il principale motore dell’avvicinamento all’Unione europea. Infine, la crescente preoccupazione europea per l’affidabilità delle foiture energetiche russe ha reso particolarmente rilevante la regione come via alternativa del transito di gas e petrolio (15).
Pur priva delle ambizioni egemoniche di Russia e Stati Uniti, l’accresciuta presenza europea nel Caucaso meridionale non ha però attenuato le tensioni regionali. La dirigenza georgiana, forte del dichiarato sostegno americano, è infatti decisa a riconquistare il controllo dei territori perduti.
Sin dal 2004 Tblisi è riuscita a riprendere pacificamente il controllo dell’Agiaria, una regione abitata da georgiani musulmani, che negli anni precedenti aveva conosciuto una sorta di blanda indipendenza, mentre ha condotto nei confronti di Abkhazia e Ossetia meridionale una politica fatta sia di proposte di vasta autonomia sia di pressione militare.
Già nell’estate 2004 vi furono scontri in Ossetia meridionale, mentre nel 2006 Tblisi rioccupò militarmente la valle di Kodori, in Abkhazia. L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni ravvivò allora la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhazia e Ossetia meridionale, tale annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia è stata a lungo respinta dalla Russia, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni intee (si pensi alla Cecenia) e inteazionali che avrebbe potuto avere.
Mosca ha invece largamente concesso la cittadinanza russa agli abitanti di Abkhazia e Ossetia meridionale, portando avanti una politica di sostanziale integrazione di queste regioni.
La situazione è tuttavia nettamente cambiata dopo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e di molti (ma non tutti) paesi europei dell’indipendenza del Kosovo, che ha comprensibilmente accresciuto le analoghe aspirazioni di Abkhazia ed Ossetia meridionale.
Un altro fattore che ha contribuito notevolmente ad aumentare la tensione nella regione è stata la richiesta georgiana di entrare nella Nato, tanto fortemente osteggiata da Mosca quanto caldeggiata dagli Stati Uniti. Il vertice Nato di Bucarest, nell’aprile di quest’anno, aveva però rimandato l’adesione georgiana, soprattutto per l’opposizione di alcuni paesi europei (Germania e Francia in particolare), preoccupati del sicuro peggioramento dei rapporti con Mosca che tale decisione avrebbe comportato.

AUTORITARISMO RUSSO E DEMOCRAZIA GEORGIANA?

Alla luce di questi precedenti, il conflitto russo-georgiano è stato in effetti improvviso, ma non certo imprevisto. Se il suo esito militare appare chiaro, più complesso risulta interpretae il senso e le conseguenze politiche.
Nonostante molti errori e incomprensioni, i rapporti storici tra Russia e Georgia non sono certo stati così negativi da doversi inevitabilmente concludere con una guerra. Né appare corretto, a differenza di quanto i media occidentali hanno largamente proposto, interpretare il conflitto di agosto come uno scontro tra l’autoritarismo neo-imperiale russo e la democrazia georgiana.
Infatti, se il deficit di democrazia e libertà di espressione della Russia odiea è ampiamente noto, ben poco si sa delle analoghe inclinazioni della dirigenza georgiana, che sarà anche filo-occidentale, ma ha brutalmente represso le manifestazioni dell’opposizione nello scorso novembre, gestito le elezioni presidenziali in maniera quanto mai contestata, nonché imposto su magistratura e informazione radiotelevisiva un controllo non molto differente da quello che viene rimproverato a Mosca (16).
In effetti, al di là delle gravi responsabilità di una dirigenza georgiana irresponsabile nel portare avanti una politica micro-imperiale, ammantata di slogan democratici, il conflitto di agosto può essere considerato essenzialmente uno scontro, breve ma cruento, tra l’egemonismo globale statunitense (che si serve del cliente georgiano) e quello locale russo (che utilizza invece abkhazi e osseti). Parlare a questo proposito di una nuova guerra fredda tra Russia e Occidente è del tutto fuorviante, ma sicuramente ci sarebbero buone ragioni per ripensare modalità e obbiettivi dell’espansione verso est della Nato e dell’Unione Europea. 

di Aldo Ferrari


Note:

(1) Per uno sguardo d’insieme sulla storia della regione caucasica e dei suoi conflitti si veda lo studio di A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Carocci, Roma 2007.
(2) Uno strumento utile per l’aspetto geopolitico è il volume «Quadei speciali di Limes», Russia contro America. Peggio di prima, settembre 2008, interamente dedicato al conflitto russo-georgiano e alle sue implicazioni globali.
(3) Sulla chiesa e la spiritualità georgiana si può fare riferimento soprattutto alle pubblicazioni di  G. Shurgaia (a cura di), Santa Nino e la Georgia: Storia e spiritualità cristiana nel paese del Vello d’oro, Edizioni Antonianum, Roma 2000; La spiritualità ortodossa. Martirio di Abo, santo e martire di Cristo, Edizioni Studium, Roma 2003; La Chiesa ortodossa di Georgia ieri e oggi, in A. Ferrari (a cura di), Popoli e Chiese dell’Oriente cristiano, Edizioni Lavoro, Roma 2008, pp. 249-303. Interessante anche lo studio di N. Gabashvili, La Georgia e Roma. Duemila anni di dialogo tra cristiani, Libreria editrice Vaticana, Roma 2003.
(4) Sulle controverse circostanze che portarono all’annessione della Georgia orientale alla Russia si veda lo studio di L. Magarotto, L’annessione della Georgia alla Russia (1783-1801), Campanotto Editore, Udine 2004.
(5) Il Tergi (in russo Terek), è il fiume che segna il confine, più simbolico che reale, peraltro, tra il Caucaso settentrionale e la Russia.
(6) Su questa fase della storia georgiana si veda soprattutto R. G. Suny, The Making of Georgian Nation, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1942, pp. 63-164.
(7) Occorre peraltro osservare che altre consistenti minoranze nazionali non ebbero alcun riconoscimento territoriale, in particolare gli armeni e gli azeri che costituiscono la maggioranza della popolazione in alcune regioni meridionali del paese. È molto probabile che proprio la mancata costituzione di queste autonomie abbia risparmiato alla Georgia post-sovietica altri conflitti etno-territoriali. 
(8) Cfr. H. Carrère D’Encausse, Esplosione di un impero? La rivolta delle nazionalità in U.R.S.S., tr. it. E/O, Roma 1988, pp. 235-239.
(9) A. Zubov, Il futuro politico del Caucaso, in P. Sinatti (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2001,  p. 68.
(10) La «Comunità degli stati indipendenti» (Csi) è una federazione di 11 dei 15 stati dell’ex Unione Sovietica. Gli esclusi sono i tre paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) e la Georgia.
(11) Cfr. O. Vasilieva, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. Santoro (a cura di), Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex Urss, SPAI, Milano, 1995, pp. 206-228.
(12) Cfr. P. Sinatti, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1, p. 292.
(13) Per «transizione egemonica» si intende il passaggio dal controllo – prevalente o assoluto – di uno stato ad un altro in una determinata regione. Nel caso del Caucaso meridionale, ovviamente da Russia a Stati Uniti.
(14) La «politica europea di vicinanza» (o vicinato o prossimità) è un insieme di misure politiche, giuridiche ed economiche che – senza costituire un passo ufficiale verso l’ingresso nell’Unione Europea – ne costituiscono però un importante presupposto. Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state coinvolte nella primavera del 2004.
(15) Cfr. A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, cit., pp. 131-132.
(16) Si veda al riguardo l’articolo, pubblicato in un sito non certo filo-russo, Reports slam Georgian Govement for use of force, authoritarian tendencies, in «Civil Society», http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav122107.shtml.
Anche Missioni Consolata ha parlato delle carenze democratiche della Georgia: nel numero di gennaio 2008 e sul numero monografico di ottobre-novembre 2008.


Aldo Ferrari




Il lungo inverno

Trai profughi georgiani

Terminate le ostilità tra Russia e Georgia, si sono spenti anche i riflettori dei mass media e nessuno parla più delle vittime di tali ostilità: circa 200 mila profughi e sfollati. Alcuni hanno cominciato a tornare alle proprie case, anche se danneggiate dai bombardamenti; per molti di essi, che hanno avuto la casa distrutta o che temono di rientrare nelle aree ormai per loro insicure, è invece iniziata una fase di vita da rifugiati, in strutture di accoglienza spesso carenti anche di servizi più essenziali o sicuramente inadatte a fronteggiare il duro inverno del Caucaso.

N uvole nere si ammassano nel cielo di Gori, la piccola città georgiana che diede i natali a Josif Stalin. Arrivano dal vicino Caucaso e sono da sempre un segno di sventura per contadini, soldati, poveri e sbandati.
Essere profugo in Georgia significa scrutare il cielo con crescente timore giorno dopo giorno, ma anche guardare con angoscia le foglie degli alberi che cadono. Già a ottobre scendono i primi venti gelidi dalle montagne e alla picchiata delle temperature che caratterizza gli invei da queste parti mancano solo poche settimane. Sarà dura passare un inverno chiusi dentro una tenda, assistiti da volontari che dispongono di tanta buona volontà e poco più.
È in corso uno scontro di interessi sulla pelle di circa ventimila persone, spostate come pacchi da una parte all’altra del paese. È terribile da constatare, ma il loro futuro appare legato sempre più all’interesse dei media inteazionali.
Chi ricorda il conflitto estivo del Caucaso che ha persino distolto l’attenzione dalle mirabolanti olimpiadi cinesi? Nessuno. Le vittime della guerra non fanno vendere se non nel momento iniziale del conflitto, dopo diventano mediaticamente improponibili.
La Georgia è un paese che vive in stato di non pace da circa tre mesi, di fatto occupato militarmente da una super potenza che ne controlla più di un terzo del territorio. È in corso una silenziosa guerra civile. In tutto il paese un sistema mafioso ben radicato alimenta traffici di ogni genere. Predoni sono liberi di girare per villaggi ormai abitati solo più da vecchi. La chiesa ortodossa georgiana, diffidente e aggressiva, non esita a dichiarare da che parte Dio in persona si piazza sul campo di battaglia.
Questa purtroppo è la Georgia di oggi. Una nazione con paesaggi spettacolari, tradizione e cultura, ma che ha avuto la malaugurata sorte di entrare in guerra con la Russia. Un paese che assomiglia tanto a un campo di battaglia, che ospita conflitti per interessi altrui.
In questo delirio nei prossimi mesi si dovranno assistere almeno ventimila profughi stanziali, che si aggiungono agli oltre duecentomila che dal 1991, anno del primo conflitto, vagano per il paese.
Molti tra questi tentano di spacciarsi come «nuovi» profughi nella speranza che la loro condizione possa migliorare.
Fortunatamente, l’aggettivo non è scelto a caso, la stragrande maggioranza dei 15 mila iniziali di quest’ultimo conflitto sono tornati a casa; a molti di loro la sorte non ha voltato del tutto le spalle: nessun lutto, nessun saccheggio e la casa ancora in piedi. I restanti ventimila invece sono persone sul cui telefonino appaiono messaggi come: «Ti abbiamo appena abbattuto la casa col bulldoozer, bastardo georgiano. Non tornare mai più». Sono gli sfollati dalle due regioni ribelli, Abkhazia e Sud Ossetia.

E siste l’orrore e abita da queste parti. Come fronteggiare questa situazione? Come lavorare nel caos totale? Chi comanda? Chi esegue? Chi ruba e chi no?
Soprattutto ora che i media inteazionali se ne sono andati, la Georgia è tornata a essere uno sconosciuto paese incastrato, perso chissà dove nel mondo.
Inizialmente il governo del colorito presidente georgiano Saakashvili, un ragazzone che ama affacciarsi dai balconi per arringare le folle, ha dato ordine di aprire scuole e asili per dare un tetto ai profughi. Sul chi dovesse dare assistenza materiale invece è tuttora un mistero. I municipi in linea teorica si occupano del cibo.
Se un profugo è «fortunato» e capita in una scuola dove copre il servizio la Caritas, mangia come al ristorante, con qualità e quantità sorprendenti. Se invece gli va storto e il rancio lo porta il camioncino del comune spesso si tratta di: pane (un chilo ogni dieci persone), pacchi tipo «razione k» dell’esercito americano (disgustosi), oppure cibo in scatola della mezzaluna rossa (ancora peggio). Questo provoca tensioni e frustrazioni; il senso di sfascio imminente cresce e genera una sfiducia contagiosa.

E ntrando in ogni scuola si notano subito mucchi enormi di vestiti: sono tutti regalati dalle persone che vivono nei paraggi. Roba lisa e vecchia, ma che con l’arrivo dell’inverno potrebbe divenire utile.
Per quanto riguarda l’igiene personale, la Caritas si occupa di distribuire del materiale arrivato soprattutto dalla Polonia. Ma containers possono arrivare anche da congregazioni religiose, fondazioni, privati. Mancano, soprattutto, pannolini per bambini, detersivo, prodotti per l’igiene.
Quando vengono distribuiti questi prodotti si assiste a delle scene molto amare: donne (sempre loro, sempre in prima fila, sempre a lavorare) che litigano furiosamente per un pacco di latte in polvere, un assorbente, uno shampoo.
Eroiche in questo caso sono le volontarie della Caritas, che con santissima pazienza discutono, convincono, responsabilizzano, compilano cento fogli per la burocrazia… In questo tipo di organizzazione, c’è spazio per tutti i soggetti che devono risolvere le emergenze senza sapere come, magari inventandosi idee e progetti in tempo reale.
Esempio: una volontaria che lavora per una Ong passa davanti a un asilo e scopre che mai nessuno ha portato prodotti per l’igiene (capita spessissimo). Inizia la ricerca che passa attraverso tutte le Caritas, i soliti missionari, ambasciate, Croce Rossa, ecc. Se riesce a mettere insieme ciò di cui abbisognano i rifugiati, carica tutto su un camioncino, anche questo da trovare, e lo distribuisce.
Passaggi istituzionali: zero. Organizzazione: zero. È il trionfo dell’arte di arrangiarsi, ma anche lo scempio del concetto di aiuto di stato.
Che l’anarchia regni sovrana è dato dal fatto che non si capisce se stiano arrivando containers con aiuti materiali oppure no. Il deposito Caritas di Tblisi, che dovrebbe fungere da centro di smistamento, è praticamente vuoto. I georgiani ironizzano che gli aiuti in arrivo per il loro paese si devono cercare a Mosca.
In questo marasma c’è spazio anche per le pagliacciate mediatiche: recentemente un cacciatorpediniere Usa ha attraccato nel porto di Poti e ha scaricato centinaia di pacchi di acqua minerale. Uno dei pochi prodotti che la Georgia esporta è l’acqua minerale.
Questo per quanto riguarda i territori non ribelli. Per il Sud Ossetia e Abkhazia nessuno sa nulla. Non si sa se ci siano profughi in Russia, né se chi non è scappato sia assistito da qualcuno. Le autorità di Tblisi non possono entrare dentro una zona occupata dai russi.
Secondo alcune testimonianze i militari sovietici starebbero portando centinaia di containers con ponti aerei. Ma di fatto si tratta di territori fuori controllo: le ultime notizie certe provenienti da Tskhinvali, capoluogo della Sud Ossetia risalgono a ottobre.

I l presidente georgiano Saakashvili ha chiesto al mondo due miliardi di dollari per la ricostruzione del paese. Se mai arriveranno, la gestione sarà un problema non da poco. La Georgia è un paese dove la corruzione dilaga, anche se è in diminuzione, almeno in certi settori come le forze dell’ordine; mentre la reputazione delle Ong locali è quanto di più debole possa esistere al mondo.
Le scuole che inizialmente ospitavano i rifugiati lentamente stanno tornando ad assolvere i loro compiti, così chi qui aveva trovato riparo si trova costretto a vivere in una tenda oppure a rifugiarsi dentro ex ospedali militari cadenti, basi dell’esercito, i vecchi blok sovietici.
Il governo georgiano con i soldi della comunità europea vorrebbe dare una casetta a ogni famiglia; ma voci critiche giungono dalle massime associazioni inteazionali: c’è il timore che tutto si possa trasformare in una immensa speculazione edilizia fatta ai danni di profughi, che verrebbero indotti, più o meno volontariamente, a lasciare le loro «nuove» abitazioni.
Ma non tutto è così nero come potrebbe sembrare, anche se le zone di luce sono quasi sempre legate alla presenza di istituzioni occidentali, curate e coccolate, certe volte anche troppo. Esistono infatti personaggi ambigui che girano per il paese a caccia di giornalisti occidentali cui vendere storie, emozioni, progetti con cui fare la famosa e sempitea «marchetta».
Sono personaggi senza scrupoli, spesso georgiani, che puntano a lucrare sulla massa di denaro in arrivo. Sono in caccia di pubblicità a basso costo e per questo non esitano a offrire pranzi, cene, e compensi vari.
Ma questa è un’altra storia. 

Di Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Un viaggio… rubacuori

Tanzania: diario di un’esperienza di interculturalità

INTRODUZIONE
P er due settimane, sotto la guida di padre Alex Moreschi, un gruppo di 14 studenti e altrettanti docenti, provenienti dagli istituti superiori di 5 città italiane (Milano, Torino, Catania, Brindisi, Napoli), sono stati in Tanzania per realizzare un viaggio-scuola di scambio culturale. Turisti «non per caso», quindi, ma preparati a cogliere con intelligenza e sensibilità tanti aspetti che sfuggono ai turisti superficiali.
Al loro ritorno hanno fissato in un diario alcuni ricordi di ciò che hanno visto e alcune delle esperienze ed emozioni vissute, a contatto con una natura ancora incontaminata, con una popolazione ospitale, ma alle prese con tanti problemi di povertà e sottosviluppo.
Hanno scoperto un’altra Africa, lontana dagli stereotipi con cui essa viene presentata dai nostri mass media. Un’Africa ricca di valori umani e culturali, orgogliosa della propria storia e cultura, impegnata a emergere in tutti i campi della vita intellettuale, economica e sociale per camminare con le proprie gambe, con lo sguardo rivolto a un futuro di speranza.

I giovani hanno familiarizzato con i loro coetanei; i docenti hanno scambiato le proprie esperienze con i colleghi delle scuole tanzaniane. Tutti hanno ammirato, con sensibilità e solidarietà, il lavoro dei missionari e missionarie a favore dei più bisognosi. 
È vero: il viaggio è stato troppo breve per comprendere molti altri aspetti positivi della gente del Tanzania, ma sufficiente per imparare tante cose. Il contatto interculturale ha insegnato a guardare alla realtà con più oggettività e umiltà, a sforzarsi di capire la diversità prima di giudicarla; a vedere le situazioni con gli occhi di chi le vive.
A contatto con la gente hanno capito che basta così poco per essere felice e nell’incontro con i missionari hanno constatato che anche con mezzi limitati si possono fare miracoli. Qualcuno in Tanzania ha lasciato il cuore; tutti sono tornati con la voglia di fare, incontrare, aiutare.                                     

Di Benedetto Bellesi

 
Roma 31.3.08
Ultimi Ripassi

S ul treno per Roma siamo in fermento: ci scambiamo conoscenze, idee, aspettative.
Abbiamo già imparato qualche parola in kiswahili: karibuni (benvenuto), jambo (ciao), habari (come stai), mzuri (sto bene), asante sana (grazie), tafadhali (per favore).
Confrontiamo le nostre informazioni sul Tanzania: sappiamo…
– che ha una superficie che è più del triplo di quella dell’Italia,
– che ha circa 35 milioni di abitanti contro i circa 58 milioni dell’Italia,
– che la metà della popolazione ha meno di 16 anni e che sono pochissime le persone che superano i 60 anni,
– che ha un altissimo indice di fertilità e che la popolazione sarà più che raddoppiata fra 20-30 anni,
– che c’è un’altissima mortalità infantile e che l’Aids colpisce circa il 7% della popolazione,
– che la vita media oscilla intorno ai 45 anni, mentre in Italia è di circa 75/80 anni.

S appiamo che saremo a sud dell’Equatore e che nel cielo vedremo le stelle dell’emisfero australe e la Croce del Sud. Ci raccontiamo della Rift Valley, dove è nata la vita, dei laghi incassati nella fascia occidentale della Rift Valley e dei 1.400 metri di profondità del Tanganika.  
Cerchiamo sulla cartina il Lago Vittoria, le sorgenti del Nilo, il Kilimangiaro, ai confini con il Kenya. Ci raccontiamo degli esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo, le storie di Livingstone, di Stanley…

A rriviamo a Fiumicino presto. In attesa di incontrare i nostri compagni di viaggio facciamo uno spuntino e un brindisi a base di succo di frutta e Malarone (facciamo una tabella per ricordarci la profilassi contro la malaria). Sono le 20 quando ci troviamo con gli altri, al check-in, «raccolti» dalla preside Giuliana di Ischia.
Verso le 23 partiamo con il volo della Qatar Airways, che fa scalo a Doha nel Qatar.

Dar es Salaam 1.4.08
Prime impressioni

A lle cinque del mattino siamo a Doha e verso le sette partiamo per Dar Es Salaam. Sorvoliamo l’Arabia: attraverso le nuvole vediamo il deserto attraversato da solchi di corsi d’acqua completamente asciutti.
Superato il Coo d’Africa, cerchiamo di intravvedere a ovest le cime del Kenya e del Kilimangiaro, che si perdono fra le nuvole.  Quando atterriamo a Dar Es Salaam vediamo per prima cosa una lunga fila di palme, una accanto all’altra contro il cielo azzurro e terso; l’aria è calda e secca: siamo in  Africa.
Sono le 14; siamo piuttosto provati dal viaggio. Ci siamo già conosciuti e mi sembra che possiamo fare un bel gruppo. Poco dopo arriva ad accoglierci padre Alex Moreschi, il missionario che ci farà da guida. Prendiamo posto su un pullmino e una jeep tipo anni ‘70, con sedili di plastica rovinata e «strapuntini»; con fatica i due autisti caricano i nostri infiniti bagagli sul tetto. Hakuna matata (non ci sono problemi).
Aggiungiamo altri termini al nostro vocabolario: pole pole (piano piano) quando il nostro autista va troppo veloce; kwenda (vai) e simama (fermati).

A ttraversiamo la città. Mi colpisce l’estrema povertà: lungo le strade, addossati a muri sbrecciati o seduti su vecchi copertoni, nel caldo afoso del pomeriggio, apparentemente senza aver nulla da fare, siedono uomini ed anche donne e bambini.
Si susseguono le catapecchie, i casermoni fatiscenti. Qua e là la miseria è interrotta da situazioni di un lusso incredibile: l’Hotel Kilimangiaro, con le sue torri di vetro, le macchine nuove, l’affaccendarsi di gente… la residenza del presidente, in un mega-parco… E poi ancora miseria.
Mi colpiscono i ragazzi che escono dalle scuole, in divisa, figure decorose.
Ci dirigiamo alla residenza del Tec (Tanzanian Episcopal Conference), che ci ospiterà nei giorni in cui stiamo a Dar Es Salaam. Chiusi da un cancello, alcuni edifici sobri ma decorosi si affacciano su un grande e rigoglioso cortile: ci sono  l’ostello che ci ospita, la chiesa, la mensa, un piccolo bar con una piacevole terrazza: tutto è semplice, ma pulito e piacevole.
Rifletto sul fatto che la semplicità e il decoro di questi edifici si collocano fra il lusso sfrenato degli hotel occidentali e la povertà delle capanne.

Kigamboni 2.4.08
Tra i banchi dell’asilo

D estinazione Kigamboni, una penisola di fronte a Dar Es Salaam, che raggiungiamo con un traghetto che avrà, se va bene, 50 anni. Non si sa bene se più azzurro o più ruggine; ospita, in una variopinta diversità, macchine vecchissime, pullmini e jeep, e, stipate in mezzo a questi, persone di ogni tipo ed età, tutte rigorosamente di colore, anche se di etnie evidentemente diverse. Siamo gli unici bianchi, guardati un po’ in tralice con aria di disprezzo…
Fotografiamo cautamente, fra carretti di verdura e gelato conservato in bidoni simili ai nostri della spazzatura.

L a penisola di Kigamboni ospita circa 120 mila persone, al 90% musulmani.
Incontriamo padre Dario Rampin, al Centro della Consolata. Padre Dario è stato in Tanzania la prima volta dal 1983 al 1986. Ci spiega che quelli erano gli anni dell’utopia socialista di Nyerere.
Nyerere, presidente della Tanzania dalla sua costituzione in Repubblica (1964) è stato una figura importante per il paese; ha governato per molto tempo, con integrità, cercando di favorire lo sviluppo attraverso la politica dell’ujamaa: valorizzazione della comunità-villaggio e messa in comune dei beni. I giudizi sulla sua politica sono discordi: c’è chi appoggia la linea della condivisione dei beni, chi invece osserva che questa politica più che alla condivisione della ricchezza ha portato alla condivisione della povertà e non ha favorito alcuno sviluppo.
Attualmente la politica dell’ujamaa si ritiene superata; la nazione, grazie anche al condono del debito estero nel 2000, ha avuto un discreto sviluppo.
L a scuola elementare è obbligatoria per tutti. La scuola superiore è riservata ai meritevoli, anche se negli ultimi anni c’è stato uno sforzo per moltiplicare le scuole, a scapito talvolta della qualità di queste, poiché non sono stati formati i docenti. Il dubbio di molti è: è ottimo avere molte scuole o è preferibile avere una ottima scuola?
I missionari sono ben inseriti sul territorio ed hanno un ottimo rapporto con il clero locale; le loro scuole sono frequentate anche da bambini e ragazzi di diversa religione.
Nella religiosità popolare, spesso la pratica della religione cattolica si mescola a elementi dell’antico paganesimo ed è molto presente la superstizione. Il missionario è benvoluto e rispettato, ma è comunque in parte considerato «estraneo».
La convivenza fra cattolici e musulmani è pacifica; sorgono talvolta dei problemi nei casi di matrimoni misti. La famiglia è in genere monogamica ed è molto unita.
Nel lavoro i tanzaniani sono più attenti all’aspetto della socialità che a quello dell’efficienza.

V isitiamo l’asilo costruito da padre Dario, che si chiama Asilo Serenella, ed è portato avanti da due maestre e una cuoca locali.
I bambini sono molto seri, ci stupiscono nelle loro divise con le camicie a quadretti viola e bianchi.  Nelle loro espressioni si coglie anche la fierezza… e la dolcezza.  Cantano per noi e noi, per fortuna, cantiamo per loro. I nostri ragazzi con un po’ di imbarazzo ma molto seriamente, improvvisano «Se sei felice…», «Ci son due coccodrilli…». 
Invasione con le macchine fotografiche e distribuzione di lecca lecca: qualche bambino non sa come togliere la carta al proprio…  Le maestre sono sbrigative, piuttosto brusche coi bambini.
Toiamo all’edificio della missione, dove padre Dario ci offre riso pilau e altre specialità locali.

A l pomeriggio bagno nelle acque dell’Oceano Indiano; poco sole, ma la linea di palme contro il cielo e la sabbia bianca sono bellissime. Il fondale vicino alla riva è sabbioso, sulla spiaggia si trovano grosse conchiglie e pezzi di corallo. Nuotiamo e passeggiamo.

P rima di tornare a casa ci fermiamo a visitare il mercato del pesce. Odori di pesce, di olio fritto, di spezie e di fogna si mescolano rendendo satura l’aria. Decine di rudimentali piastre arroventate dal carbone che brucia sfoano pesce dall’aspetto neanche male, ma che ci guardiamo bene dal comprare.
La fogna si getta in mare non molto lontano, e lì accanto un enorme polipo viene sbattuto sulla pietra per ammorbidie la carne. Dobbiamo guardare a vista le nostre ragazze, che suscitano l’attenzione dei maschi locali. Ci lasciamo prendere dalle bancarelle di conchiglie e giornielli locali.
Bancarelle anguste, sporco, buio, colore e odore e folla e vita brulicante… Poco più in là, si intravvedono le torri dell’Hotel Kilimangiaro.

Bagamoyo 3.4.08

Il porto degli schiavi

M i alzo alle sei del mattino per la messa in kiswahili. Concelebrazione di una dozzina di prelati, partecipazione di una quarantina di sacerdoti. Molte suore, che partecipano con il canto: bellissimo. C’è una linea melodica, decisa e dolce, accompagnata da una polifonia di voci che fanno bordone sui toni bassi.

D opo la colazione con i nostri automezzi ci rechiamo verso nord, diretti alla scuola superiore privata «Colleta Memorial School», dove ci accoglie il direttore della secondaria, Severino Kayanda, un giovane docente tanzaniano. 
Portiamo il nostro materiale da cancelleria e incontriamo i ragazzi delle superiori, con i quali, in inglese, ci scambiamo domande e informazioni sulle caratteristiche delle reciproche scuole. Dopo un po’ «rompiamo le file»: ci uniamo ai ragazzi e parliamo a piccoli gruppi, facendo amicizia, ragazzi con ragazzi e docenti con docenti.
Rafiki (amico): accanto all’inglese che usiamo per parlare è bello usare qualche espressione in kiswahili.
Nell’edificio di fianco ci accolgono i ragazzi delle medie, in divisa verde, che ci cantano il benvenuto in inglese. Con una capacità di cornordinamento eccezionale, cantano e danzano facendo cerchi, sfilando in linee che si intrecciano e si scompongono. L’atmosfera si scalda sempre di più, anche i nostri ragazzi cantano e infine tutti si uniscono in un’unica grande danza, animata dal rullare dei tamburi.

U n po’ a malincuore li salutiamo e ci dirigiamo a nord, verso Bagamoyo, il porto reso tristemente famoso dalla tratta degli schiavi. «Bagamoyo» significa: qui lascio il mio cuore. Nel secolo xvii e xix la tratta degli schiavi, ad opera soprattutto dei mercanti arabi, ma anche dei portoghesi, olandesi, francesi e inglesi, si sviluppa in tutta l’Africa, affiancandosi al commercio tradizionale. Gli schiavi, razziati nelle regioni intee, spesso intorno alla zona dei grandi laghi, venivano trascinati in catene per un cammino di giorni e giorni, spesso di mesi, in mezzo a savane desertiche dove molti morivano per gli stenti e per la fame.
Rinchiusi nelle prigioni sotterranee di Bagamoyo, fatti «ingrassare», venivano ammassati in fragili imbarcazioni per raggiungere le piantagioni di chiodi di garofano, di canna da zucchero… Pare che dei 17 milioni di schiavi catturati, 15 milioni siano morti di stenti prima di arrivare alla destinazione finale.
A Bagamoyo visitiamo il piccolo ma interessante museo, dove sono ancora conservate le catene, alcune riproduzioni dell’epoca, dove sono ricostruiti i luoghi di origine e di destinazione degli schiavi.
Accanto al museo sorge la chiesa costruita dagli irlandesi, prima missione europea in Tanzania. In questa chiesa è stato conservato il corpo del missionario ed esploratore Livingstone, che tanto contribuì alla scoperta della geografia dell’Africa centrale, prima di essere trasportata nella cattedrale di Westminster.

V orremmo fare il bis nella spiaggia, visto che ieri ne siamo stati affascinati, ma la pioggia torrenziale ce lo impedisce. Solo Patrizia, professoressa di Torino, incurante del diluvio, si avventura in una nuotata solitaria.
Ci consoliamo mangiando in un ristorantino tipico sulla spiaggia, riparati da un solido e ampio tetto di foglie di banano. Aragosta, fritto misto, ugali (polenta di mais bianco) con lo spezzatino… tutto buono ed economico; è simpatica la compagnia dei proprietari – europei – che ci magnificano il Parco Ruaha.
La pioggia ostacola anche la visita al porto di Bagamoyo, da cui gli schiavi partivano lasciando definitivamente la loro terra.

R itoo in città nel momento del traffico. Siamo immobili in una situazione che è un eufemismo definire caotica.
Intasati dagli scarichi di mezzi vecchissimi, che emettono fumo nero, assistiamo ai sorpassi e inversioni di marcia più spericolati che io abbia mai visto. Sembra che ad ogni momento qualcuno stia per essere investito o che si verifichi un incidente… Folle di persone sotto la pioggia si accalcano a inseguire fantomatici mezzi pubblici, così sovraffollati che le porte non si chiudono. Rumore, folla, puzza da gas di scarico, manovre spericolate… Ci mettiamo un’infinità di tempo per arrivare a casa. Mi sembra che il traffico di Dar Es Salaam sia molto più pericoloso della fauna dei parchi.

Ubungo 4.4.08

Scuole a confronto

V isitiamo il quartiere di Ubungo, popoloso rione in zona quasi collinare, dove, ai lati di una strada a scorrimento veloce, si dipanano strade sterrate e sconquassate, ai lati delle quali si affollano una sopra l’altra casupole e botteghe di pochi metri quadri, dove si espongono mercanzie di ogni genere, in prevalenza vecchi oggetti provenienti probabilmente dall’Europa.
Alla missione della Consolata, che si sviluppa attorno a una povera ed enorme chiesa dalle vetrate colorate, padre Pietro Cravero ci racconta la storia di questo quartiere. Ubungo è un quartiere che è cresciuto con l’inurbamento che ha caratterizzato questi ultimi decenni in Tanzania. Nel 1973, quando sono arrivati i missionari, nel quartiere c’erano poche case sparse; ora il sobborgo, formato da sette villaggi, è sovraffollato e i missionari faticano a stare dietro alle persone.
Il quartiere ha la fama di essere una zona di «benestanti», un termine che ci sembra poco appropriato a queste casette e baracche appiccicate l’una all’altra… Il quartiere rispecchia la realtà della città, che è passata dai 500 mila abitanti  di 15 anni fa ai 4 milioni attuali. Il quartiere e la città sono cresciuti vertiginosamente e selvaggiamente, senza infrastrutture adeguate. Basti pensare che la città non è dotata di una rete fognaria…  Il quartiere è tagliato a metà dalla trafficatissima strada a scorrimento veloce, dove si verificano investimenti con una regolarità impressionante.
V isitiamo l’asilo della missione, dove vediamo bambini in ordine e locali puliti e decorosi.   Padre Cravero ci accompagna a vedere la scuola elementare pubblica di Ubungo, dove egli è ben accolto, essendo stati all’asilo della missione molti dei ragazzini che studiano qui.
Su una collinetta di terra rossa, fradicia e scivolosa, sorgono alcune casupole lunghe e strette, buie e diroccate; all’interno di ciascuna di esse sono ospitate due/tre classi. Alle finestre, con le sbarre, si accalcano gli alunni che ci vedono passare. Le classi sono composte da sessanta/settanta bambini, alcuni dei quali sono seduti per terra perché i banchi non bastano. Gli scolari sono circa 2 mila. Le pareti sono sbrecciate, il pavimento di cemento ha diverse buche. Alcuni maestri correggono su un banco fuori dalle classi. Gli alunni vanno e vengono, alcuni sono nelle classi, molti altri fuori.
È molto difficile interagire. I nostri ragazzi sono bravi. Improvvisano con un gruppo di una cinquantina di bambini e fanno un grande girotondo, così, con chi c’è, senza troppi problemi. Ci vuole fantasia a creare una bella situazione in questo posto che stringe il cuore.
Dopo la scuola pubblica visitiamo la chiesa in costruzione. Padre Pietro ci presenta i muratori, due tanzaniani, che lavorano a piedi scalzi su una pavimentazione sconnessa, e ci spiega le difficoltà nell’acquisto del terreno, che è diventato molto caro in seguito all’inurbamento.

A  pranzo ci rechiamo alla casa procura della Consolata di Dar Es Salaam. Ci accoglie padre Angelo Parola, responsabile della Procura, in Tanzania da circa 30 anni.
La Procura è un bell’edificio, arioso e confortevole, non lontano dall’Ambasciata americana di Dar Es Salaam, luogo dell’attentato talebano nel 1998. Alla Procura fanno riferimento i missionari che arrivano dall’Europa e partono per l’interno e quelli che dall’interno tornano per lasciare la Tanzania.
Qui possono trovare riposo ed ospitalità prima di affrontare il viaggio. I due volontari torinesi che lavorano qui (una coppia di pensionati) ci hanno preparato un buon pranzo che consumiamo all’aperto in un gazebo dal tetto di foglie di banano.

Al pomeriggio visitiamo il mercato Kariakoo, il più grande dell’Africa Orientale. Chi sperava di trovare qui le stoffe da regalare e i giornielli di ebano si è sbagliato: è un mercato enorme e affollatissimo, frequentato solo dai locali; non vediamo un turista. Le decine di piccolissime e stipate bancarelle espongono spezie sfuse, oggetti europei, verdura e frutta, in una situazione buia e soffocante.  Venditori e acquirenti ci snobbano;  sorge una violenta protesta per una foto a una donna velata… la situazione non ci pare molto raccomandabile.
Alcuni di noi preferiscono visitare le bancarelle estee al mercato, che espongono per lo più brutti oggetti occidentali. Un po’ più lontano però troviamo una donna masai che espone i suoi giornielli e soprattutto il negozio Urafiki che vende alle donne locali a basso prezzo le splendide stoffe tanzaniane. Toiamo al mercato dove ci aspettano i nostri automezzi, saltando sui sassi in mezzo alla piazza per superare l’enorme pozza che si è creata in seguito alla pioggia.

Breve sosta per visitare i templi indù di Kisutu Street, dove un indiano affabile ci fa togliere le scarpe e ci spiega tutte le caratteristiche degli dei indù, le cui raffigurazioni sono collocate nei tempietti  a lato della grande spianata del tempio, dove giocano i bambini.

Morogoro 5.4.08

Ci si alza presto. Con un terzo pullmino si parte per Iringa, direzione ovest, circa 500 chilometri.
Facciamo sosta a Morogoro, ospiti per il pranzo al Seminario della Consolata. Frettolosi ed affamati, la prendiamo un po’ come «sosta pranzo», senza dedicarci troppo a conoscere i nostri ospiti… servirà più attenzione.

Proseguendo per Iringa attraversiamo il Mikumi Park. Non speriamo certo di vedere gli animali passando per la trafficata strada asfaltata; e invece, con nostra grande sorpresa, incontriamo le scimmie, poi una giraffa di fianco alla strada, poi gli elefanti, poi gli impala, e ancora giraffe ed elefanti… Continue soste concitate e fotografie ogni due chilometri.
Usciti dal parco, la strada continua a correre in un paesaggio di grande bellezza. Tramonto sobrio, ma incantevole per il gioco di luce tra le nuvole. Si attraversa la valle dei giganteschi baobab e infine ci si inerpica, attraverso la foresta, verso un passo dove la strada in salita fa fare parecchia fatica ai nostri  poveri automezzi, e a noi che siamo intasati dall’odore del gas.
Arriviamo ad Iringa che è già buio. Ai lati della strada decine di persone, donne, bambini anche soli, camminano e camminano; probabilmente lasciano la campagna dove hanno lavorato in giornata per dirigersi alla cittadina.

Iringa 6.4.08
Momento di riflessione

Siamo a Iringa, ospiti del Ruaha University College, l’ostello per studentidell’università cattolica voluta dalla conferenza episcopale del Tanzania. 
Alle sette siamo in chiesa per la messa. Chiesa grande e affollatissima; come dappertutto non c’è un bianco, se non padre Alex, che concelebra, e noi. Il canto è molto gradevole, nel coro una donna si esibisce con uno strano verso che assomiglia al richiamo di un uccello. L’organista non ha nulla da invidiare a quelli delle nostre chiese, anzi… Il coro si produce anche nel canto dell’Alleluja dal Messia di Haendel. Alla fine della messa veniamo chiamati sull’altare da padre Alex e presentati alla comunità, che applaude e canta di nuovo l’Alleluja. Siamo imbarazzati, ma anche contenti.
Prima di lasciare la chiesa ci salutano, tutti ci vogliono dare la mano… come al presidente o al papa. Di nuovo imbarazzo, ma anche piacere.  Ci raggiungono le donne nei loro sgargianti vestiti della festa, per tentare una conversazione con noi; una mamma vuole che tocchi il suo bambino…! 
Per la lunga strada centrale torniamo al nostro ostello. La condizione è decisamente migliore che a Dar Es Salaam; le case sono povere, ma non fatiscenti, le botteghe sono anguste, ma quasi dignitose, il traffico non è esasperante. 

Dopo la colazione ci dedichiamo a uno dei nostri importanti, anche se non frequenti, momenti di riflessione.
Sono molti i temi che affrontiamo, continuando le conversazioni dei giorni precedenti. Li accenno.
La scuola: la nostra scuola, la loro scuola. La voglia di imparare, la motivazione. La selezione e il merito. Scuola statale e scuola privata (censo e merito). Scuola di massa, formazione della classe dirigente. Il problema dell’autorità e la disciplina.
I missionari: la gioia che viene dalla risurrezione e l’incontro con la gente. L’aiuto: perché l’aiuto non a tutti?
La visione utopica di alcuni ragazzi, la necessità di fare i conti con la realtà.
Il nostro coinvolgimento: l’empatia e l’emozione, la necessità di riflettere e di capire una realtà complessa.

Pausa libera. Una stanza delle ragazze è allagata, tutti al lavoro a salvare le valigie e ad asciugare il pavimento. 
Dopo quasi un’ora siamo liberi di andare al mercato, dove troviamo tutto quello che cerchiamo e anche di più. Piccole ma gradevoli bancarelle ci offrono batik, oggetti di ebano, giornielli masai di ogni fattura, stoffe… Contrattiamo, vantandoci della nostra abilità nello spuntare il prezzo più basso.
Ngapi pesa? e how much? (quanto costa) sono i termini che usiamo di più.

Nel pomeriggio visitiamo il Centro giovanile della diocesi di Iringa, dove in una luminosa chiesa dalle vetrate gialle  la messa è seguita da un gran numero di bambini. Poco distante, saliamo al Gangilonga Rock, la collina formata da un grande masso roccioso su cui Mkwawa, il capo dell’etnia wahehe, si recava a prendere consiglio dagli dei.
Padre Alex ci spiega che l’etnia dei wahehe ha resistito strenuamente all’occupazione tedesca, mostrando grande dignità e coraggio. I tedeschi hanno occupato il Tanganika nella seconda metà dell’Ottocento, patteggiando con i sultani di Zanzibar. L’occupazione tedesca è durata poco ed è passata senza lasciare grande traccia: al termine della prima guerra mondiale il Tanganika è passata sotto l’amministrazione inglese.

Nello stesso pomeriggio visitiamo una casa famiglia dell’Opera Giovanni xxiii, fondata da don Oreste Benzi. Marina è una ragazza giovane, pare che non sia ancora trentenne; insieme al marito, è responsabile della casa famiglia; è in Tanzania da tre anni. È arrivata qui per il servizio civile come «casco bianco», qui ha incontrato l’uomo che è ora suo marito e insieme hanno deciso di restare, non sanno per quanto tempo. Collaborano con loro altri «caschi bianchi», qui per il servizio civile.
La casa famiglia accoglie bambini e ragazzi che per diversi motivi non possono stare in famiglia. Ci sono bambini, anche piccolissimi,  con disabilità, ma soprattutto bambini che sono rimasti senza genitori a causa dell’Aids. Marina ci spiega che in Tanzania la famiglia è allargata e molto cornoperativa; in questo momento storico, però, il flagello dell’Aids mette diverse famiglie nella condizione di non potersi occupare dei bambini propri e di quelli dei fratelli, dei parenti. Molta gente è malata e le famiglie sono decimate.
L’edificio che ospita la casa famiglia è molto modesto, situato in mezzo ad altri edifici; la casa però è ben curata, un piacevole cortile interno è abbellito da vasi di fiori, i lettini hanno le zanzariere…
L’attività della casa famiglia consiste principalmente nel dare una casa ai bambini e ai ragazzi in difficoltà, ma è anche il centro da cui partono altre iniziative: mense scolastiche, assistenza a bambini malnutriti, microcredito…
Spesso bisogna intervenire anche sul piano sanitario; è infatti difficile accedere ad adeguate cure per i bambini malati. L’attività si regge principalmente sull’aiuto di persone di buona volontà, che contribuiscono con le loro offerte a dar vita all’iniziativa.
I nostri ragazzi sono molto interessati all’attività dei «caschi bianchi» e si confrontano con questi, nella prospettiva e nel desiderio di diventarlo a loro volta.

Iringa 7.4.08
Lotta alla pandemia

O ggi in Tanzania è festa nazionale: «K arume day». Padre Angelo Dutto, che ci ospita al Ruaha University College, ci spiega che il paese celebra l’indipendenza dal sultanato di Oman. Karume è colui che ha conquistato l’indipendenza a Zanzibar.
In cerca dell’Allamano Centre di Iringa, facciamo una lunga passeggiata su una strada sterrata fra grandi eucalipti, campi coltivati a mais e girasole, casette piacevoli.  C’è il sole, si sta bene; siamo lontani dal traffico e dall’affollamento di Dar Es Salaam. Parliamo fra di noi, si discute di modelli di sviluppo, di capitalismo e di socialismo…
All’Allamano Centre ci accolgono suor Michela, missionaria della Consolata in Tanzania da 32 anni, e Nicola, il medico che lavora al Centro.
Suor Michela ci racconta che il Centro è sorto nel 2001. Da un vecchio garage abbandonato i missionari hanno ricavato il primo nucleo dell’attuale edificio, sorto per fronteggiare l’emergenza Aids. È stato necessario in questi anni «inventarsi» tutto, poiché ci si è trovati impreparati di fronte all’avanzare del male; inadeguati o inesistenti gli interventi governativi, le organizzazioni di volontariato ed i missionari hanno dovuto costruire a partire da zero.
Si è capito subito che era necessario dare una risposta al singolo malato, ma anche alla sua famiglia.  La risposta alla malattia non poteva che consistere in una serie concatenata di azioni di sensibilizzazione, prevenzione, sostegno al malato e alla sua famiglia. Con mezzi scarsi all’inizio, si è cominciata un’opera di assistenza sociale, che prevedeva la cura a domicilio ai malati terminali, l’informazione sulla trasmissione della malattia, il sostegno economico, perché il malato e la famiglia avessero di che nutrirsi, la rimotivazione del malato nei confronti della possibilità di una vita buona anche in presenza dell’Hiv.
Con il tempo l’intervento è diventato via via più mirato, con un’assistenza di tipo medico e infermieristico, che attualmente permette la diagnosi (nel Centro vi è un buon laboratorio e personale preparato), la terapia e la ricostruzione delle difese immunitarie.
I farmaci che qui vengono distribuiti sono offerti da case farmaceutiche americane. Accanto all’intervento di tipo medico continua l’intervento sociale sul malato e sulla sua famiglia.
Vediamo al lavoro Paola, una economista nipote di suor Michela che distribuisce alle persone sacchi di alimenti e tiene i contatti con gli organismi estei che foiscono aiuti.
Visitiamo la sala per la terapia di gruppo, nella quale i malati si confrontato sulle loro paure e sulle loro speranze, tentando di darsi una mano per ricominciare a sperare.
Parliamo dei modi in cui si contrae la malattia e si parla di prevenzione. Suor Michela ci spiega che il governo e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) conducono una azione capillare finalizzata al family planning (fin dalla scuola primaria) e all’uso dei sistemi anticoncezionali.
Suor Michela ritiene che un’opera efficace possa aver luogo solo se si affronta il problema in modo non riduttivo e si educano le persone a vivere la sessualità in modo responsabile. Se si riesce a intervenire positivamente, il malato ha una discreta speranza di vita e si reinserisce nel suo tessuto sociale. Si assiste a una graduale presa di coscienza della natura della malattia e si supera pian piano l’atteggiamento fatalista, che fa pensare che l’Aids sia conseguenza di malefici e sortilegi.
Anche gli uomini, tradizionalmente più restii, iniziano a farsi curare e seguire i programmi di recupero. Molto utili risultano i gruppi di auto aiuto e la responsabilizzazione delle persone che cominciano a rendersi autonome e a collaborare alle attività del centro. Suor Michela, come gli altri missionari, ritiene che sia fondamentale supportare e indirizzare l’autonomia e la responsabilità locale.
Sono iscritte al centro 1.600 persone, di cui sono in terapia 730, selezionate in base ai parametri per la definizione della malattia. Seguire tutti è impossibile… I bambini seguiti dal Centro, supportati nelle famiglie, sono circa 3 mila, figli di malati, di cui 450 sono sieropositivi.
Gli aiuti che arrivano dall’Unicef e da altri enti sono utili, ma non sempre le cose che vengono mandate rispondono alle necessità… È inutile che arrivino migliaia di siringhe nel momento in cui non servono.
Il dottor Nicola ci spiega che le organizzazioni inteazionali di aiuto ai paesi del terzo mondo hanno una struttura complessa, che assorbe, per il funzionamento interno, circa l’80% dei fondi reperiti; meno del 20% sono i fondi che realmente arrivano alla gente a cui sono destinati.

A circa 20 km da Iringa, sulla strada per Mbeya, si trova il sito archeologico di Isimila. In una piccola conca di sabbia bianca si trovano due capanne a proteggere i reperti risalenti a circa 60 mila anni addietro. I resti fossili di alcuni animali, qui ritrovati, sono ora al museo di Dar Es Salaam, ma qui si vedono ancora utensili e armi di pietra usati da homo habilis: raschiatorni, asce, rudimentali martelli…
Con la guida proseguiamo a piedi per il sentirnerino nella savana e dopo circa un quarto d’ora arriviamo a una valle, dove bizzarre colonne di pietra rossa, alte fino a dieci metri, si susseguono a muraglie rosse frastagliate e a camini svettanti contro il cielo azzurro terso. Ci spostiamo in questo paesaggio fantasmagorico, camminando dentro un fiumicciatolo dalle acque bianche che solcano le costruzioni rocciose.

L asciata Isimila ci rechiamo a Tosamaganga, la prima missione della Consolata in Tanzania. Tosamaganga non è molto distante da Iringa, ma raggiungerla è un’impresa; il pullmino varca voragini aperte nella sterrata e attraversa corsi d’acqua che hanno invaso la strada… il tutto fra una vegetazione lussureggiante e dolcissime colline verdi, che si stendono a perdita d’occhio.
A Tosamaganga siamo colpiti dagli edifici della missione: fra grandi alberi di stelle di natale fioriti e alberi dai bellissimi fiori arancione, su una grande spianata si stendono gli edifici della missione e la grande chiesa, costruita nel 1935 sulle forme della cattedrale di Mogadiscio. Tutti gli edifici sono di mattoni rossi, molto grandi e ben tenuti. 
I missionari sono quattro, e sono molto anziani. Padre Giovanni Giorda ha 81 anni e la pelle cotta dal sole. È qui dal 1952; è arrivato per nave da Venezia, passando per il canale di Suez. È rimasto 10 anni senza tornare in Italia. Ci parla della missione, del fatto che i missionari sono arrivati in Tanzania nella seconda metà del xix secolo; Tosamaganga è stata raggiunta dai benedettini della Baviera, ai tempi della dominazione tedesca, verso la fine del xix secolo. Nel 1919 gli inglesi favoriscono l’ingresso di missionari italiani che si stabiliscono a Tosamaganga. 
Padre Giorda ci porta al cimitero, dove, accanto ai benedettini, sono sepolti decine di giovani missionari italiani, morti prima dei 30 anni soprattutto a causa della malaria.  Con grande commozione troviamo la tomba di suor Adolfa Navoni, zia della prof. Gobbi dell’Agnesi di Milano. Anche questa missionaria è stata qui lunghissimi anni, e qui è morta. Flavia, allieva della prof. Gobbi, posa commossa sulla tomba alcuni fiori di campo, e tutti insieme recitiamo una preghiera.
Padre Giorda ci accompagna poi all’orfanotrofio di Tosamaganga, gestito da suore locali e da una volontaria italiana, Loredana, arrivata da una settimana e intenzionata a stare qui per un anno.
Ci sono bambini di diverse età.  Ci colpisce il nido, dove bambini anche piccolissimi recano sul viso la paura e la sofferenza di una vita pesantemente segnata fin dal suo nascere. Nello stanzone dove si trovano i lettini dei bimbi più grandicelli, fra i due e i tre anni, c’è buio e puzzo… I lettini con le sbarre di ferro sono tantissimi, attaccati l’uno all’altro. Ci si stringe il cuore. I bambini ci tendono le mani: noi pensiamo che vogliano essere presi in braccio e li coccoliamo un po’.  Fabia e Francesco non vorrebbero andarsene mai.
Padre Alex ci spiegherà poi che il tendere le mani è un saluto che indica rispetto, e non l’invito a prendere i bambini in braccio… Ma questo contatto è stato importante per noi e credo anche per questi piccolini, dai grandi occhi scuri imploranti e dal visino triste.
Giochiamo e cantiamo con i bimbi della matea. Ci dispiace non avere più a disposizione le caramelle o la cancelleria, che abbiamo lasciato a Dar, alla Procura, per non appesantire i bagagli.
Padre Alex ci spiega che questi orfani sono a tutti gli effetti figli adottivi delle suore e che ad esse lo stato chiede conto. Si possono aiutare con le adozioni a distanza.  Per una adozione, padre Alex chiede 120 euro all’anno. Mi piacerebbe che la nostra scuola fosse capace di adottare alcuni bambini… magari uno per classe, perché no?

Alla sera, a Iringa, dopo la nostra solita cena a base di riso, pollo, verdura e spezzatino (tutto pulito e sano, la varietà talvolta lascia un po’ a desiderare, ma non ci lamentiamo certo, anzi tutti ci riteniamo dei privilegiati), facciamo un momento di riflessione, mettendo a tema la nostra capacità di incontrare chi è diverso da noi e di prenderci cura di chi è in difficoltà.
Incontriamo padre Gabriel, del Kenya, conoscente di padre Alex;  padre Gabriel ha studiato in Inghilterra, è stato in Italia e parla bene la nostra lingua. Ha lavorato in Uganda e in Tanzania, a Sadani. A Iringa ha aperto una scuola secondaria. Ci spiega che la scuola secondaria dura quattro anni, dopo la quarta i ragazzi possono scegliere una specializzazione e perfezionarsi due anni prima di iscriversi all’Università.
Ci spiega che si studia anche filosofia, che è la filosofia occidentale. In Tanzania non c’è una tradizione filosofica, anche se c’è una saggezza popolare da recuperare. Il saggio, ci dice, «è colui che ha esperienza ed è capace di usare tale esperienza per cambiare la vita».
Parliamo anche dei modelli di sviluppo, di comunismo e capitalismo, della politica di Nyerere.
Padre Gabriel ci invita a visitare la sua scuola.

Parco Ruaha 8.4.08
Caccia grossa

Giornata safari (viaggio). Cielo terso e luminoso. Sistemati in 5 jeep percorriamo due ore di strada sterrata, da Iringa al Ruaha Park. Ci fermiamo all’ingresso del parco, sulle sponde del Grande Ruaha dalle acque limacciose; sulla sponda opposta vediamo spuntare dall’acqua un ippopotamo.
Ci addentriamo nel parco. Vediamo gli impala: colore e struttura simili a quelli di un nostro cerbiatto, si trovano isolati o riuniti in folti gruppi, di fianco alla sterrata, in mezzo alla strada. Fuggono veloci con una corsa elegante. Si mescolano alle zebre, di cui vediamo decine di esemplari, e alle grandi giraffe (twiga, in swahili), tranquille ai lati della strada, incuranti del nostro passaggio.
Il Ruaha attraversa il parco, formando grandi insenature e isolotti sabbiosi, dove si riposano ippopotami e giraffe. In alto volteggia un’aquila.
Lasciamo la pista che corre parallela al fiume, dal terreno paludoso e instabile, per spingerci all’interno del parco alla ricerca di elefanti (tembo), che nella stagione delle piogge si tengono lontani dal fiume. Ne vediamo qualcuno, meno di quelli che abbiamo incontrato al Mikumi.
Con una certa emozione ci troviamo sulle tracce del leone (simba); una carcassa di zebra giace abbandonata in una radura, dove l’erba calpestata racconta di uno scontro; nel folto dei cespugli, nascosti alla vista si scorgono appena i leoni; sono lì, a tre metri da noi.
Il parco è di una bellezza da paradiso terrestre; la pista corre fra distese di campanule bianche che si perdono nell’orizzonte del cielo blu solcato da ciuffi di nuvole bianche. Giganteschi baobab, con la corteccia rovinata dagli elefanti in cerca di acqua, offrono riparo agli animali nell’ora più calda. Acacie di ogni tipo, alberi del pane, e poi ancora fiori rossi, fiori viola, erba alta che si muove leggera al nostro passaggio… E sempre il grande fiume, ora vicino, ora lontano e palme e vegetazione lussureggiante.

V erso le tre del pomeriggio lasciamo il parco e raggiungiamo il lodge, il quale offre una terrazza che si affaccia sul parco, dalla quale vediamo un bellissimo arcobaleno. Il lodge è fresco e ospitale; ci viene servito un pranzo gradevole. 
Cominciamo, però, ad essere preoccupati per una delle nostre jeep, quella del prof. Vincenzo di Catania e dei suoi ragazzi. Sulla jeep c’è anche Giuseppe di Torino. Telefoniamo all’ingresso del parco: l’automezzo è uscito dal parco.  Tranquillizzati e un po’ dispiaciuti pensiamo che si siano diretti a Iringa senza fare sosta al lodge.
Verremo più tardi a sapere che il guidatore della jeep ha perso la strada del lodge e si è inoltrato nella foresta, dove la jeep ha sbandato e non ha tenuto la strada. Siamo assolutamente orgogliosi dei nostri eroi di Catania – e di Torino –  che hanno saputo prendere in mano la situazione; il professore – di filosofia! – si è messo alla guida della jeep acciaccata e ha riportato tutti sani e salvi al lodge.
Grande apprensione, visita di controllo per escludere qualsiasi problema. Tutto è a posto, niente paura. Hakuna matata, non ci sono problemi.

Iringa 9.4.08
Consolazione e speranza

V isitiamo la Faraja House (casa della consolazione) di padre Franco Sordella, che accoglie bimbi di strada. Il complesso sorge su una vasta area, un quadrato di circa 2 km di lato, che i missionari della Consolata hanno acquistato nel 1997 con l’intento di costruire una fattoria. Di fatto, la scarsità di acqua e la difficoltà nello scavo dei pozzi ha indotto i missionari a ripiegare su un progetto diverso… Ma che progetto!
Il centro è costituito da un’abitazione che accoglie al momento 68 bambini senza famiglia; altri 21, affidati al centro, frequentano le scuole superiori e dimorano presso le scuole nel corso della settimana. Le richieste di accoglienza sono moltissime, ma la capienza non permette di accontentare tutti. Qui sono accolti solo i casi più disperati.
Inizialmente la situazione era molto difficile: i ragazzi abbandonati erano aggressivi, talvolta dediti alla droga o all’autolesionismo;  ora le cose vanno molto meglio. I ragazzi, formati, sono capaci a loro volta di prestare aiuto ai nuovi arrivati. I ragazzi sono organizzati in squadre tendenzialmente autonome, dove i grandi accudiscono i piccoli.
Il centro è organizzato con grande efficienza e buoni mezzi, supportato da alcune comunità di volontari a Torino e a Savigliano. Oltre all’abitazione, modesta ma pulita, il centro ospita un asilo, una scuola elementare frequentata anche da bambini estei e soprattutto una scuola professionale; vi sono tre laboratori (uno di meccanica, uno di falegnameria e uno di calzoleria) dove i ragazzi che hanno terminato la scuola elementare e non si iscrivono alla secondaria possono, nel corso di tre anni, imparare un mestiere che li renderà autosufficienti.
Accanto ai laboratori, una cornoperativa organizza il lavoro dei ragazzi che hanno finito la scuola professionale e non sono ancora pronti per spendersi autonomamente sul mercato.
Laboratori e officine sono dotate di macchinari che i nostri colleghi esperti giudicano assolutamente idonei. I macchinari provengono dall’Italia e dall’Europa, donazione di associazioni di volontariato. Vi sono anche automezzi e macchine agricole.
Intoo alle abitazioni e alle officine, una vasta area coltivata e utilizzata per il pascolo (ci sono mucche, capre, pecore, maiali) permette alla comunità una quasi completa autosufficienza alimentare.
Esprimiamo a padre Sordella tutto il nostro apprezzamento per questa opera, che rivela grande capacità e spirito di organizzazione. Il padre ci esprime la sua preoccupazione: la sua salute e l’età non gli permetteranno di continuare per molti anni; anche con l’attenzione al passaggio delle consegne, c’è il rischio che si perda un po’ ciò che si è costruito…

A l pomeriggio abbiamo in programma la visita al Ruaha University College, guidati da padre Dutto. Mentre aspettiamo, come in ogni momento di pausa, ci precipitiamo al coloratissimo mercatino che sta a due passi dalla nostra abitazione, a far razzia di oggetti di ogni specie, di ebano, di stoffe, di giornielli… Ormai siamo conosciuti; i venditori, che sono soliti contrattare, hanno alzato i prezzi convinti che compreremo comunque.
All’università ci confrontiamo con una seconda classe della scuola di specializzazione per tecnici di laboratorio.
Le aule sono confortevoli, anche se non spaziose; i banchi di legno piccoli ma molto belli; gli studenti vestiti in modo sobrio ma elegante. Alcuni sono studenti giunti dalla scuola superiore, altri sono tecnici già in servizio, venuti qui per il perfezionamento: quando toeranno nei loro laboratori potranno chiedere uno stipendio molto più interessante.
Facciamo delle domande, e loro fanno domande a noi. Ci spiegano che nell’università (sussidiaria dell’università cattolica) ci sono corsi per tecnici di laboratorio, per legge, per comunicazioni e informatica. Questa è una università giovane, sorta da quattro anni. È una università privata, si pagano tasse molto alte, ma la qualità dell’insegnamento è molto buona. Alcuni studenti vengono sponsorizzati da enti, da laboratori presso cui già lavorano…
Gli insegnanti sono stimati e ben pagati. I migliori, al termine dei corsi universitari possono diventare a loro volta insegnanti. La paga media di un insegnante universitario è di circa 600 mila scellini tanzaniani, mentre la paga di un operaio è di circa 80 mila scellini tanzaniani.
Nel corso per tecnici di laboratorio si studiano chimica, fisiologia, ematologia, biologia molecolare, immunologia… Le lezioni si dovrebbero tenere in inglese, ma spesso si scivola verso il kiswahili.
C’è una certa selezione, arrivano al compimento degli studi circa i tre quarti degli studenti. Tutti gli esami sono statali.
Una volta finita l’università, la maggioranza degli studenti resta in Tanzania, dove è facile trovare in poco tempo un buon impiego. Solo una piccola minoranza ha intenzione di andare all’estero. Si stupiscono che per noi sia difficile trovare lavoro.

Terminata la visita alla classe, gli studenti nostri si recano in cortile con gli studenti dell’università, mentre i docenti sono ospitati da padre Dutto, che insegna biologia molecolare all’Università di Iringa, dopo essersi specializzato in tale materia negli Stati Uniti.
Ci confrontiamo sui programmi, parliamo dell’Hiv e dell’Aids. Padre Dutto ci fornisce una quantità di informazioni interessanti sui retrovirus, sul fatto che nel nostro organismo questi erano presenti già da prima che si differenziassero le razze. Dopo tutto, l’8% del nostro patrimonio genetico lo abbiamo acquistato inglobando retrovirus.
Parliamo anche di scuola laica e di scuola privata. Ci dice che nell’Università cattolica di Iringa non si chiede la religione per l’iscrizione: qui ci sono indifferentemente cristiani e musulmani… Non ci sono problemi di convivenza. 
Padre Dutto, uomo di grande cultura, ci ricorda che la cultura è capace di far convivere e collaborare le diversità: è una bella lezione.

Concludiamo la nostra giornata, affollatissima, come del resto tutte le altre, con la visita al centro della Consolata di Iringa, sede centrale della Consolata in Tanzania. Gradevole incontro e gradevole rinfresco. 
Rimaniamo affascinati dal bellissimo altare e dall’ambone nella cappella. L’altare, costituito da un enorme tronco di ebano, scolpito a bassorilievo con una rappresentazione, di eccezionale plasticità,  della natività fra le generazioni passate e future.
Sull’ambone sono scolpiti episodi dell’Antico Testamento: Giona nel ventre della balena, il sacrificio di Isacco…

Alla sera, riflessione. Siamo stati colpiti dall’efficienza del centro di padre Sordella. 
Ci interroghiamo sull’accoglienza da parte delle popolazioni locali verso i missionari. Padre Alex ci racconta i suoi sei anni tra i samburu nel nord del Kenya, i loro riti di matrimonio, il pascolo nomade, il consiglio dei saggi intorno al fuoco, le cerimonie per la promozione dei guerrieri e degli anziani.
Ci interroghiamo sul fatto che i missionari diventano anziani e cercano di «passare le consegne» ai locali, sul fatto che talvolta ci sono difficoltà dovute a culture e modi di essere differenti. Concordiamo sulla necessità di far crescere un popolo, aiutandolo, ma soprattutto dandogli gli strumenti per diventare autosufficiente.
Confrontiamo le realtà che abbiamo visto, così differenti: i bambini di strada che dormono nei tubi e quelli accolti nelle case famiglia e negli orfanotrofi… i malati di Aids e quelli che imparano a convivere con il virus Hiv e a sperare nella vita… gli sfaccendati seduti sui marciapiedi di Dar Es Salaam e i falegnami, meccanici, calzolai da padre Sordella…
Non si può dire: Africa e semplificare. Bisogna saper cogliere e raccontare le mille sfaccettature di una realtà complessa; bisogna avere spirito critico e capacità di cogliere i lati positivi. Ciò che abbiamo visto è povertà, ma anche desiderio di riscatto, stenti ma non bellicosità, malattia e speranza di guarigione, fatica e capacità di aiutare e condividere.

Mtuango 10.4.08
Una nuova famiglia

Oggi, ultimo giorno a Iringa, è in programma un viaggio di 2-3 ore (di andata e altrettante al ritorno) per raggiungere Makambako e Mtuango. Ci dirigiamo a sud-ovest, verso Mbeya;  siamo a poche centinaia di chilometri dai grandi laghi.
La zona di Makambako è poverissima. Su una lurida strada si affacciano stente bancarelle e, in mezzo alle mosche, ci inseguono bambini scalzi che ci guardano come fossimo marziani, con un’espressione di presa in giro e di stupore… Probabilmente non hanno mai visto tanti bianchi insieme, dobbiamo sembrare loro parecchio strani.
I nostri ragazzi non si scoraggiano e riescono a conquistarsi la simpatia di questi piccoli sporchi e malvestiti, che prendono in braccio e fanno giocare. A Makambako salutiamo i padri della Consolata, che nel 2004 hanno festeggiato il cinquantesimo del loro insediamento in questa zona.

Dopo pochi chilometri siamo a Mtuango. Incontriamo padre Tarcisio Moreschi e Fausta, una insegnante pensionata che si trova qui da 14 anni; entrambi provengono, come padre Alex, dalla Valcamonica.
Fausta è contenta della nostra visita e ci ha preparato un pranzo di lusso. Su alcuni tavoli, abbelliti con fiori gialli e bianchi, sono serviti piatti buonissimi e bellissimi: antipasti con verdure grigliate, insalate di riso con condimenti locali, fiori di zucchine fritti, carne arrostita, pane scuro, caffè… Ci abbuffiamo.
Fausta regala a ciascuno di noi un cestino locale con un sacchetto di tè e fa amicizia con tutti ma in particolare con la prof. Anna Maria di Brindisi.
Dopo il pranzo e la visita alla chiesa, ci rechiamo a visitare il centro di accoglienza per bambini di strada. È un altro esempio di efficienza e organizzazione. Su un piazzale accogliente, sorgono alcune casette basse, ciascuna con il proprio orto, molto ben curato e pulito. Le casette sono state costruite dai volontari venuti dalla Valcamonica. Ciascuna ospita una piccola comunità autonoma, una «famiglia» formata da due «mamme» locali e da una decina di bambini. In ogni casa c’è il posto per dormire, un cortiletto, la cucina… 
Lavorano qui due volontarie italiane, che supportano il lavoro delle «mamme». Fausta viene due o tre volte la settimana per controllare che tutto funzioni a dovere.
Vedo un bimbo che non avrà più di due mesi; piange in braccio a una bimba di dieci anni; si calma quando lo prendo in braccio: ha la pelle rovinata, un cappellino di lana e due occhi neri brillanti come stelle, enormi, che fanno quasi scomparire il resto del viso. Fausta ci spiega che la sua mamma è morta; lo si nutre con latte in polvere, ma presto passerà all’ugali… non c’è possibilità di fare altro. Lascio qui un pezzo del mio cuore. 
Francesco riesce a comunicare con il maggior numero possibile di bambini. Come sempre, lascia una parte dei suoi soldi. Toerà a Catania senza nulla… tanto, i soldi si rifanno, dice. Ce ne fossero tanti, così.

Morogoro 11.4.08
Sulla via del ritorno

O re 6.30: abbiamo preso un altro pullmino; abbiamo caricato le valigie; siamo in partenza. Salutiamo padre Dutto, il docente di microbiologia molecolare, che ci ha ospitati con grande disponibilità e attenzione e ci ha offerto interessanti riflessioni sulla Tanzania.
È già chiaro; nonostante la stanchezza e il sonno siamo presi dalla bellezza dell’altipiano, dalle coltivazioni, dalle persone che vanno – e camminano, e camminano – dice il preside Vitale, di Brindisi. Risaliamo il passo, ripercorriamo la valle dei baobab e il parco Mikumi:  ci fermiamo perché una famiglia di elefanti ci attraversa la strada.

V erso mezzogiorno siamo a Morogoro; finito il sole di Iringa, siamo di nuovo in mezzo alla grande pioggia. Con quattro jeep, messe a disposizione dal seminario, cerchiamo di raggiungere il villaggio masai; la sterrata che porta al villaggio si è trasformata nel letto di un fiume, scavato da profondi solchi, lunghi alcuni metri, che percorrono la strada e la rendono impraticabile. 
Con mille precauzioni cerchiamo un passaggio; un autista locale, con l’aria di chi la sa lunga, pigia sull’acceleratore e incassa due ruote della nostra jeep in un fosso profondo. Scendiamo, colmiamo il fosso con rami tagliati al momento. Tutti più o meno collaboriamo sotto la pioggia (è una pioggia calda, che non ci invoglia nemmeno a prendere l’ombrello) e padre Alex riesce a tirar fuori la jeep.
Proseguiamo a piedi e nel giro di mezz’ora arriviamo al villaggio masai. Intoo a uno spazio circolare sono costruite con rami e fango cinque o sei capanne, alcune per le persone, altre per le galline e le capre. Bagnato dalla pioggia, scorre ovunque il letame e si aggirano le mosche.
Al villaggio ci sono solo le donne e le bambine. Gli uomini sono al pascolo con le mucche. Le donne sono estroverse e socievoli; una giovane è particolarmente loquace ed espansiva. Sono alte e slanciate; cantano e danzano per noi una nenia e ci chiedono soldi per costruire una tenda. Una anziana non vuole essere fotografata. Le bimbe sono coperte dal telo viola, uno solo, perché non sono sposate. Appesi sotto la pioggia ci sono altri teli. Le donne sposate sono addobbate con collane e bracciali. Nel lobo delle orecchie hanno un grande foro.

Sotto la pioggia, guidati da Obi, un bellissimo masai di 24 anni, slanciato e alto circa un metro e novanta, che studia al seminario, ritorniamo alle jeep.  Camminiamo nell’erba fradicia, alta; mi sembra di non arrivare mai.
Al seminario parliamo con Obi e scopriamo che studia filosofia e che desidera specializzarsi in psicologia. Non avremmo mai pensato che un masai in Tanzania, oggi, potesse interessarsi alla filosofia e alla psicologia.
È una piacevole scoperta, discorriamo a lungo. Il prof. Sergio, di Torino, lo saluta come primo filosofo masai e lo esorta a valorizzare la cultura della sua gente.

Da Morogoro, dopo un interminabile viaggio, arriviamo a Dar Es Salaam e al traffico da incubo; siamo contenti di raggiungere il Tec, le nostre stanze decorose, la nostra mensa pulita. 
Alla sera le ragazze (e qualche ragazzo) hanno ancora l’energia per sfoggiare i loro vestiti tanzaniani. Festeggeranno, sorvegliati da padre Alex e da qualche insegnante di buona volontà, mentre gli altri docenti si ritirano, sfiniti, nelle proprie stanze.

Dar es Salaam 12.4.08

E non finisce qui…

R iflessione e momento di silenzio alla chiesa del Tec. Poi facciamo le valigie. Ci dirigiamo verso l’aeroporto.
Salutiamo Baraha, il nostro grande Baraha, l’autista del pullmino che ci ha guidato indenni per queste tremende strade di Tanzania e per il traffico assurdo di Dar. Salutiamo l’aiutante, autista della jeep, il figlio quattordicenne di Baraha.
Ci imbarchiamo e partiamo alle 15.10, ora tanzaniana (in Italia sono le 14.10). Ci separano da Doha 3.816 km. Dall’alto fotografiamo la terraferma e Zanzibar, la lunga striscia bianca della costa e il verde dei fondali accanto a riva.
Riconosciamo la geografia di Zanzibar e di Pemba, individuiamo sulla terraferma, forse in Kenya, un grande fiume e un lago, non capiamo quali. 
A sera, fotografiamo fra le nuvole un tramonto spettacolare.

Lunga sosta al modeissimo e impersonale aeroporto di Doha, fra negozi che assomigliano alla Rinascente, gente di ogni nazionalità e giovani arabi con il caffetano bianchissimo e la kefiah rossa e bianca in testa.
All’1.45 (ora locale) partiamo da Doha; arriviamo a Roma verso le 8.
Abbracci, saluti, qualche pianto, al ritiro bagagli.
Senza retorica, è stato faticoso ma bellissimo. Grazie a padre Alex e a tutti.
Che questo viaggio sia fecondo nel nostro futuro: che la conoscenza porti volontà di conoscere, di fare, di incontrare, di aiutare.

A cura di Aldina Beltrami

Aldina Beltrami