Come nacque la terra dei «gauchos»

Dall’indipendenza ai giorni nostri

Terra schiacciata prima dai colonizzatori portoghesi e spagnoli, poi da Brasile ed Argentina, l’Uruguay si guadagnò l’indipendenza nel 1825. Ospitò i rivoluzionari che scappavano dall’Europa. Uno di loro si chiamava Giuseppe Garibaldi. Durante le guerre mondiali, grazie al commercio della carne, visse periodi di abbondanza. Poi arrivò la crisi e con essa la dittatura. Con il ritorno della democrazia, ai due partiti storici «Blanco» e «Colorado», entrambi  conservatori, si affiancò il «Frente amplio», che oggi governa il paese.


Un tempo l’Uruguay era considerato la Svizzera dell’America Latina. All’inizio del Novecento, unitamente al Brasile e all’Argentina, attirò schiere di emigranti europei, in buona parte italiani. A tutt’oggi si calcola che quasi la metà della sua popolazione sia composta da discendenti del Bel paese. Pur piccolo geograficamente, l’Uruguay nel panorama dell’America Latina si presenta come una nazione per certi versi straordinaria. Dall’indipendenza (1825) ha sempre avuto (salvo alcuni periodi) governi eletti democraticamente e a suffragio universale. Ha introdotto molto tempo prima dell’Inghilterra l’istruzione elementare, gratuita, laica e obbligatoria per tutti i bambini che vivevano sul suo territorio. Ha dato il voto alle donne molto prima (era il 1932) di gran parte dei paesi europei e sin dall’inizio del Novecento la giornata lavorativa era di otto ore, molto prima che negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Anche la legge sul divorzio venne promulgata decenni prima che in Spagna e in Italia.

All’inizio del XIX secolo, grazie all’opera di José Gervasio Artigas e ad un gruppo di Libertadores, risoluti, con l’aiuto dell’Inghilterra, l’Uruguay conquistò l’indipendenza e si consolidò come stato sovrano a spese dei due grandi imperi coloniali concorrenti Spagna e Portogallo, e poté affermarsi nel consesso delle nazioni in quanto la potenza coloniale inglese, che stava sostituendosi a quella spagnola, anelava avere il controllo di almeno una delle due sponde del Rio de la Plata per potere più facilmente controllae i commerci sia marittimi che fluviali. Sulle ceneri coloniali dei paesi iberici sorsero due grandi nazioni: Brasile e Argentina, che in una certa qual misura ereditarono lo stile imperiale delle rispettive potenze che le avevano generate. L’Uruguay, pur nella sua piccolezza, riuscì a conservare l’indipendenza diventando per tutto l’Ottocento il paese che dava ospitalità a quanti in Europa lottavano contro l’assolutismo regio imperante nel vecchio continente. Non è certamente un caso che schiere di carbonari italiani come di patrioti ricercati dalle polizie di mezza Europa, trovarono rifugio a Montevideo, mettendo così a disposizione di questa piccola Patria d’adozione il loro ardore rivoluzionario e le ansie di libertà che si portavano dentro.
Tra questi «ribelli», la figura di spicco resta Giuseppe Garibaldi (esiliato in America Latina dal 1835 al 1848), che il governo uruguayano del tempo, a fronte delle minacce d’invasione (per non dire di annessione) delle due potenti nazioni vicine, nominò comandante in capo della sua marina militare. Garibaldi seppe, nonostante l’esiguità dei mezzi vincere alcune battaglie che da quel momento lo consacrarono come l’eroe dei due mondi. Le stesse «camice rosse» che i garibaldini indossarono nel periodo del nostro Risorgimento, erano confezionate con stoffa scarlatta che il governo uruguayano aveva regalato al nostro eroe per i servizi resi e che lui non riuscendo a piazzare sul mercato, trasformò in uniforme da battaglia per la spedizione dei Mille.

Grazie ad un territorio molto esteso (parliamo di circa 180 mila chilometri quadrati), scarsamente  popolato, ben presto l’allevamento del bestiame si trasformò in fonte di ricchezza e il porto di Montevideo diventò lo sbocco naturale per una vasta area di territorio, che comprendeva diversi paesi i quali trovavano in quel porto, marittimo e fluviale allo stesso tempo, l’approdo ideale per i loro commerci. L’Uruguay beneficiò di questa situazione favorevole, soprattutto durante i due conflitti mondiali, in quanto potèrifornire della carne bovina ed ovina prodotta nelle immense praterie del suo territorio parecchie nazioni impegnate sull’una e sull’altra parte dei vari fronti bellici. Questa «pacchia» durò fino agli anni ’50 con la guerra di Corea. Le esportazioni di carne diedero al paese una solida riserva di valuta estera che  permise al «pesos», la moneta nazionale di competere con il dollaro degli Usa.
Purtroppo, la classe politica formata dai due partiti tradizionali – il «Blanco», espressione degli interessi agrari, ed il «Colorado» rappresentante della borghesia legata alle attività del porto di Montevideo – non seppe reinvestire le ingenti somme a disposizione per migliorare mezzi e processi di produzione, preferendo la speculazione finanziaria e favorendo il consumo di beni voluttuari. Tutto ciò portò all’aumento dell’inflazione, al crollo dell’occupazione e ad un inasprimento delle tensioni sociali, la recessione entrò quindi al galoppo nella realtà uruguayana scatenando forti reazioni nei settori più colpiti dalla crisi; sorse pertanto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, un vasto movimento di massa capeggiato dalla «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt), che si oppose tenacemente alle indicazioni del «Fondo monetario internazionale», che cominciava a dare delle direttive che avrebbero pesantemente condizionato la politica finanziaria ed economica dell’Uruguay. Parallelamente sorse il «Movimento di liberazione nazionale tupamaros» (leggere il riquadro alle pagine 30-31), che fu protagonista di azioni eclatanti che ebbero un forte impatto nazionale ed una vasta risonanza mondiale.

Nel 1971 fu fondato il «Frente amplio», coalizione di centrosinistra  formatasi attorno ad un programma progressista che candidò il generale a riposo Liber Seregni alle elezioni presidenziali dello stesso anno. Le elezioni furono però vinte da Juan Maria Bordaberry del partito Colorado. Il partito Blanco denunciò brogli rifiutando di accettare il verdetto elettorale: tra caos politico, crisi economica e malessere sociale, si creò una situazione incandescente che spinse le forze armate ad intervenire con un colpo di stato. Sciolsero parlamento, partiti e sindacati, instaurando quindi un regime dittatoriale basato sulla «dottrina della sicurezza nazionale», appresa dalle alte gerarchie militari, nel campo di addestramento di Panamà (la famigerata Escuela de las Americas), gestito e diretto dagli Stati Uniti.
A livello economico applicarono le teorie neoliberali che portarono alla concentrazione della ricchezza nelle mani di diverse multinazionali straniere, riducendo il salario  a meno della metà del potere d’acquisto precedente. Quello fu uno dei periodi più tristi e bui della recente storia uruguayana, i militari diffusero un clima di paura, attuarono un programma di detenzioni arbitrarie, applicarono con  metodi scientifici la tortura sui prigionieri politici, causando di conseguenza l’abbandono del paese di migliaia di persone che si rifugiarono all’estero. Nel 1980 i militari al potere indissero un referendum attraverso il quale intendevano istituzionalizzare il loro regime autoritario; questo referendum fu sonoramente bocciato ed ebbe il merito di far capire che non si poteva continuare su una strada di totale mancanza di libertà e autoritarismo generalizzato.
Lentamente l’opposizione si riorganizzò e in forza anche di un aumento spropositato del debito estero, i militari aprirono la possibilità di un timido ritorno alla  legalità. Nel frattempo, si moltiplicarono le manifestazioni di disobbedienza civile, pacifiche e nonviolente che offrirono al mondo intero l’immagine di un popolo che voleva riappropriarsi della sua storia. Dopo uno sciopero generale coraggiosamente portato avanti dall’intera popolazione nel gennaio del 1984, si riannodarono i colloqui tra la giunta militare e i partiti politici e si avviò un processo di ritorno alla vita democratica in cui venivano coinvolti tutti coloro che nella notte buia della dittatura erano stati esclusi. Lentamente riprese vita tutto ciò che caratterizza un moderno stato rispettoso della Costituzione e dei diritti dell’uomo anche se la ferita dei desaparecidos, dei torturati e degli esiliati, fu traumatica e lacerante e resta tutt’ora aperta  nel tessuto sociale del paese. Con le elezioni del 1984 i militari uscirono di scena con l’impegno che i governi seguenti non avrebbero portato sul banco degli imputati i responsabili delle efferatezze compiute.

Alle elezioni del 1989 il Frente amplio si affermò a Montevideo, dando per la prima volta nella storia del paese un’amministrazione di centrosinistra ad un governo municipale. Logorati da divisioni intee e contrassegnati da atteggiamenti passivi ed ignavi di fronte alla dittatura, i due partiti tradizionali che si erano spartiti il potere tra di loro per quasi due secoli, vennero superati, nel 1999 da una nuova formazione politica denominata «Incontro Progressista», che oltre a recuperare tutte le forze del Frente amplio, seppe integrare al proprio interno anche il movimento dei tupamaros, che accettarono di entrare nell’agone politico con i loro leader più rappresentativi. Il nuovo clima  instauratosi favorì nel 2004 l’elezione di Tabaré Vázquez, primo uomo di sinistra ad accedere alla suprema carica di capo dello stato, ottenendo inoltre la maggioranza assoluta alle Camere.
Sul piano interno il primo atto di Vázquez fu di avviare un piano di emergenza di due anni per rispondere ai bisogni alimentari, sanitari ed educativi della popolazione; in politica estera firmò un accordo con il Venezuela di Hugo Chávez in base al quale il petrolio caraibico veniva acquistato a prezzi contenuti, favorendo nel contempo l’esportazione di prodotti alimentari dall’Uruguay al Venezuela. Riallacciò le relazioni diplomatiche con Cuba (rotte nell’aprile 2002), mentre con l’Argentina firmò accordi su diritti umani ed emigrazione in base ai quali i due paesi, segnati entrambi da devastanti dittature militari nel recente passato, si sarebbero impegnati reciprocamente a fornire informazioni relative ai desaparecidos delle nazioni rioplatensi, al fine di far chiarezza sui numerosi «buchi neri», che hanno costellato la loro storia.

di Mario Bandera


Cronologia storica essenziale
Dai charrua ai giorni nostri

Secolo XVI – La regione è popolata da 3 gruppi autoctoni: i charrúa, i chaná e i guaraní.
1517-1527 – Arrivano i primi esploratori dei popoli colonizzatori: Juan Diaz de Solis e soprattutto Sebastiano Caboto.
Secoli XVI – XIX – Si diffonde l’allevamento del bestiame. Nello stesso tempo, i popoli indigeni vengono cacciati verso nord o sterminati.
1680-1724 – I portoghesi costituiscono la Banda Oriental, un territorio che comprende l’attuale Uruguay e buona parte dello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.  Per tutta risposta, gli spagnoli fondano Montevideo (1724).
1810 – 1816 – Rivolta nella Banda Oriental, capeggiata da José Artigas.
1816-1823 –  Il territorio della Banda Oriental viene invaso dai portoghesi. Nel 1823, l’Uruguay diventa una provincia del Brasile, appena resosi indipendente dal Portogallo.
1825-1828 – Gli abitanti della Banda Oriental chiedono l’indipendenza dal Brasile, che viene dichiarata il 25 agosto 1825, ma ottenuta ufficialmente soltanto nel 1828, dopo la mediazione del Regno Unito.
1830 – Viene emanata la Costituzione della nuova «Repubblica orientale dell’Uruguay» (18 luglio).
1839-1851 – La «Grande guerra» con l’Argentina divide il paese tra indipendentisti e fautori della fusione con il vicino stato.
1865 – Il dittatore Venancio Flores inserisce l’Uruguay nella Triplice Alleanza con Brasile ed Argentina contro il Paraguay.
1876-1879 – Il dittatore Lorenzo Latorre fa recintare i latifondi. Scompare la figura del «gaucho», il mandriano libero.
1903-1915 – José Batlle y Ordóñez, durante le sue due presidenze (1903-1907 e 1911-1915), modeizza il paese ed emana leggi all’avanguardia per l’epoca.
1932 – Viene approvata la legge sul suffragio alle donne.
1915-1950 – Durante le due guerre mondiali e la guerra di Corea, aumentano le esportazioni di carne uruguayana, foita agli alleati (in Europa) e agli statunitensi (in Corea).
1964 – Viene fondata la «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt).
1965 – Nasce il «Movimiento de liberación nacional tupamaros». Lo capeggia Raúl Sendic.
1971 – Nasce il Frente amplio, coalizione di sinistra che ha l’obiettivo di contrastare il dominio dei 2 partiti conservatori dei Blancos e dei Colorados.
1973-1984 – È il decennio della dittatura militare. Sono vietate associazioni, partiti politici e sindacati. Vengono praticate la detenzione arbitraria e la tortura.
1984-1994 – Julio Maria Sanguinetti, candidato del Partido Colorado, vince le elezioni.  Gli succede (1989) Luis Alberto Lacalle del Partido Blanco. Nel 1994 torna Sanguinetti.
Marzo 1991 – Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay creano il Mercosur.
Novembre 1999 – Partido Blanco e Partido Colorado si alleano per impedire al centrosinistra, riunito nella coalizione del Frente amplio (in forte e continua ascesa), di vincere le elezioni. Viene eletto presidente Jorge Batlle, colorado.
Ottobre 2004-marzo 2005 – Tabaré Vázquez, candidato del Frente amplio, vince le elezioni presidenziali (ottobre). Il 1° marzo 2005 inizia il suo mandato.
Marzo – Aprile 2009 – Il relatore Onu stila un rapporto molto duro sulla situazione delle carceri (marzo). Secondo l’Ocse, l’Uruguay è nella lista nera dei «paradisi fiscali» (2 aprile).
Giugno 2009 – Il Frente amplio, la coalizione attualmente al potere, sceglie il proprio candidato per le elezioni presidenziali.
Ottobre 2009/marzo 2010 – Sono in programma le elezioni presidenziali (ottobre 2009). Il nuovo presidente entrerà in carica qualche mese dopo (marzo 2010).

Fonti principali: Guida del mondo, Il mondo visto dal Sud, 2007-2008, Emi, Bologna 2007 (da segnalare che l’edizione originale di quest’opera viene proprio da Montevideo, per merito dell’Instituto del Tercer Mundo); Atlante Universale, Editorial Sol 90, Barcellona 2002.
(a cura di Paolo Moiola)

 

Mario Bandera




Un mondo altro, diverso, nuovo: da «possibile» a «necessario»

B come Bélem

A Belém, nell’Amazzonia brasiliana, si è tenuta la nona edizione del «Forum sociale mondiale». Ora che il mondo attraversa una crisi epocale, per gli «altermondisti», un tempo ridicolizzati (soprattutto dai media e dai politici), è il momento delle rivincite. Ma anche di sfide. Impegnative.

In meno di un decennio è diventato l’incontro per antonomasia dei movimenti sociali del mondo. Per la sua nona edizione, il «Forum sociale mondiale» è tornato in Brasile, da dove nel 2001 era partito. All’epoca, la città ospitante fu Porto Alegre, nello stato di Rio Grande do Sul. Quest’anno invece il Forum si è spostato a Belém, nel nord-est del paese latinoamericano.  
Volendo trovare una frase che descriva la capitale del Pará, potremmo dire che a Belém non mancano né l’acqua né i manghi. Gli alberi di mango sono ovunque, anche lungo le vie del centro, tanto che frequentemente i grossi frutti cadono sulle auto e sui passanti. Quanto all’acqua, il clima equatoriale porta abbondanti piogge quotidiane quasi tutto l’anno. Ma soprattutto Belém è inserita in un sistema fluviale unico e maestoso. La città è bagnata dal Rio Guamá e si affaccia sulla Baia do Guajará. A sua volta, l’intera zona è parte della vastissima area occupata dalle foci del Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas), il più grande fiume del mondo.
Data la sua posizione geografica, Belém è la porta d’entrata per l’Amazzonia, considerata il principale ecosistema del pianeta, ma anche il più minacciato. Proprio l’Amazzonia e i suoi popoli indigeni sono stati tra  i principali protagonisti di questa edizione del Forum, svoltasi in coincidenza con una crisi – finanziaria ed economica, ma anche ambientale, energetica, alimentare e sociale -, che sta scompaginando il mondo e quelli che, soltanto fino a ieri, erano considerati i suoi capisaldi ideologici: il libero mercato e la globalizzazione.

Ufpa o Ufra? Non è uno scioglilingua o un gioco di parole, ma la sigla delle due università di Belém, che hanno ospitato il nono Forum sociale mondiale:  Ufpa sta per «Universidade Federal do Pará», Ufra per «Universidade Federal Rural da Amazonia». Le due università sono strutturate come campus, sono cioè cittadelle autonome, con strutture ad hoc, grandi spazi, negozi, proprie strade intee e addirittura due porticcioli, da cui in 15-20 minuti si può passare dall’una all’altra con barche che solcano il Rio Guamá.
«Vai alla Ufpa o alla Ufra?», è stata dunque una frase d’obbligo nelle giornate del Forum, perché gli eventi – convegni, seminari, dibattiti, laboratori, feste – erano distribuiti sui due campus universitari, molto estesi e distanti qualche chilometro l’uno dall’altro, costringendo pertanto i partecipanti a scegliere in anticipo dove andare.

È vero che i numeri non sempre sono significativi, ma qualche indicazione la danno. A Belém sono arrivate 133.000 persone, provenienti da 142 paesi. Sono giunti i rappresentanti di 5.808 organizzazioni, delle quali 4.193 dell’America Latina, 489 dell’Africa, 491 dell’Europa, 334 dell’America Centrale, 155 dell’America del Nord e 27 dall’Oceania. Per questo variegato pubblico sono stati organizzati ben 2.600 laboratori e seminari (probabilmente troppi, è stato da più parti osservato).
Insomma, numeri importanti che hanno fatto scrivere ad Alejandro Kirk dell’Agenzia Ips: «Screditato tante volte dai mezzi di comunicazione come un carnevale di sinistra fatto di sogni, sesso e marijuana, politicamente impotente, il Forum pare essere vivo e combattivo».

Le due cittadine universitarie che hanno ospitato il Forum sono cresciute al confine con Terra Firme, un quartiere di 100.000 abitanti, povero e con problemi di violenza. Per il Forum il bairro (barrio, in spagnolo) è stato ripulito, le strade principali riparate, l’acqua fatta arrivare nelle case, la polizia triplicata. Contraddizioni del Brasile, metafora delle contraddizioni del pianeta, dove più mondi, molto anzi troppo diversi tra loro (a dispetto della tanto reclamizzata globalizzazione), convivono con sempre maggiore precarietà. Il mondo dei ricchi, il nostro mondo, per difendere il proprio (indifendibile) stile di vita e modello di sviluppo, ha alzato barriere (fisiche, legislative, mediatiche), che però non resistono alle spinte estee, sempre più forti. Oggi il crollo della filosofia neoliberista e del sistema da questa costruito ha messo a nudo tutte quelle contraddizioni – economiche, sociali, ambientali, politiche – che fin dalla loro nascita, nel 2001, i Forum sociali avevano evidenziato, spingendo e lavorando per la costruzione di qualcosa di diverso sotto lo slogan «un altro mondo è possibile», tanto deriso dai media mondiali.
Ebbene, ora quel mondo altro, diverso, nuovo più che possibile è diventato necessario. Sul come arrivarvi la discussione è aperta. Il Forum di Belém, come tutti i forum che lo hanno preceduto, ha dato il suo contributo. Con la differenza che questa volta, forse, le indicazioni provenienti dai movimenti della società civile e dai popoli indigeni saranno ascoltate più che negli anni passati. Forse.   

Di Paolo Moiola    

Gli obiettivi del Forum

DIECI PASSI VERSO IL «BUEN VIVIR»

         Questi sono gli obiettivi attorno ai quali si sono sviluppati gli incontri, i dibattiti e i laboratori del «Forum sociale mondiale» di Belém:

1. «Per la costruzione di un mondo di pace, giustizia, etica e rispetto verso le spiritualità diverse; per un mondo libero da armi, specialmente quelle nucleari.
2. Per la liberazione del mondo dal dominio del capitalismo, delle multinazionali, della dominazione imperialista, patriarcale, coloniale e neocoloniale e dei sistemi diseguali di commercio, attraverso la cancellazione del debito estero dei paesi più sfavoriti.

3. Per l’accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell’umanità e della natura; per la salvaguardia del nostro pianeta e delle sue risorse, con speciale riguardo per l’acqua, i boschi e le risorse energetiche rinnovabili.

4. Per la democratizzazione e l’indipendenza della conoscenza, della cultura e della comunicazione; per la creazione di un sistema comune di conoscenza e abilità attraverso lo smantellamento dei diritti di proprietà intellettuale.
5. Per la dignità, diversità e garanzia della eguaglianza di genere, razza, etnia, generazione, orientamento sessuale e per la eliminazione di tutte le forme di discriminazione e di casta (discriminazione basata sulla discendenza).
6. Per la garanzia dei diritti economici, sociali, umani, culturali ed ambientali, specialmente dei diritti all’alimentazione, alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un impiego e un lavoro degni, alla comunicazione, alla sicurezza alimentare e alla sovranità.
7. Per la costruzione di un ordine mondiale la sovranità, l’autodeterminazione e i diritti dei popoli, includendo le minoranze e gli immigrati.
8. Per la costruzione di un’economia democratica, di emancipazione, sostenibile e solidale, centrata sui popoli e basata su un commercio giusto ed etico.
9. Per la costruzione e l’ampliamento delle strutture e delle istituzioni politiche, economiche e democratiche a livello locale, nazionale e globale, con la partecipazione del popolo alle decisioni e il controllo degli affari pubblici e delle risorse pubbliche.
10.Per la difesa dell’ambiente (l’Amazzonia e tutti gli altri ecosistemi) come fonte di vita del pianeta terra e per le popolazioni ancestrali del mondo (indigeni, afrodiscendenti, tribali e fluviali), che esigono i loro propri territori, idiomi, culture ed identità, giustizia ambientale, spiritualità e diritto alla vita».

A leggere questi obiettivi, certamente si può evidenziare che si tratta di un elenco molto generico, a volte ripetitivo e superficiale, spesso utopico. Ma è innegabile che, al tempo stesso, esso contenga molte verità incontestabili. Da queste alternative e da queste proposte potrà svilupparsi quel «buen vivir» per tutte e tutti che, alla fine, è il grande augurio del «Forum social mundial» di Belém.

Pa.Mo.


Cronistornira del Forum sociale mondiale

Le 9 volte del Forum:

– primo Forum:
25-30 gennaio 2001, a Porto Alegre (Brasile)
– secondo Forum:
31 gennaio-5 febbraio 2002, a Porto Alegre (Brasile)
– terzo Forum:
23-28 gennaio 2003, a Porto Alegre (Brasile)
– quarto Forum:
16-21 gennaio 2004, a Mumbai (India)
– quinto Forum:
26-31 gennaio 2005, a Porto Alegre (Brasile)
– sesto / settimo Forum:
gennaio 2006, a Caracas (Venezuela) e Bamako (Mali)
– ottavo Forum:
gennaio 2007, a Nairobi (Kenya)
– nono Forum:
27 gennaio -1 febbraio 2009, a Belém (Pará, Brasile)

Paolo Moiola




Terra, terra delle mie brame

l’Amazzonia, la terra e il protagonismo degli ultimi

A Belém, per una volta, gli ultimi (alcuni tra gli ultimi) sono diventati protagonisti: i popoli indigeni e i Sem terra. Diversi, ma entrambi legati ad un unico destino: la terra. I primi per difendere i propri territori ancestrali dalle mire dei molteplici usurpatori; i secondi per riuscire (finalmente) ad avere un pezzo di terra con cui vivere. Intanto, nel paese degli immensi latifondi e delle incredibili ingiustizie, il «Forum per la riforma agraria» sostiene una campagna scandalosamente rivoluzionaria: limitare la proprietà privata della terra.  

Nel campus dell’Università agraria di Belém c’era una delle tende – «tende tematiche» sono state chiamate – più frequentate: la «Tenda dos povos indigenas», la tenda dei popoli indigeni.
Al Forum sono arrivati i rappresentanti di 120 etnie indigene, in maggioranza dell’Amazzonia. Si aggiravano in piccoli gruppi per le strade del campus. Si lasciavano fotografare volentieri, perché non erano una mera attrazione (antropologica, turistica, estetica), ma protagonisti, alla pari degli altri partecipanti. E, alla pari degli altri, anche loro fotografavano e filmavano.  
In America Latina vivono circa 44 milioni di indigeni, rappresentando il 10 per cento della popolazione totale della regione. In Amazzonia, un territorio di oltre 6 milioni di chilometri quadrati diviso tra 9 paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana francese e Guyana), le terre indigene rappresentano circa il 27 per cento del totale.
Per gli indigeni, il Forum sociale è stata l’occasione per parlare del loro modo di vedere il mondo (cosmovisione), dei loro problemi e dei diritti negati. Ma anche l’occasione per parlare dell’Amazzonia, il più importante ecosistema del mondo (per la foresta vergine, la biodiversità, l’acqua dolce), la cui sopravvivenza è in grave pericolo. Secondo gli esperti, negli ultimi 40 anni  è stato distrutto il 17 per cento delle foreste amazzoniche e un altro 17 per cento è molto degradato (1).

ABelém erano presenti sia i rappresentanti dei popoli indigeni che quelli dei Sem terra. Che cosa accomuna questi soggetti, altrimenti tanto diversi? Un comune destino: la terra. I primi – soprattutto i popoli dell’Amazzonia –  si trovano a lottare per la difesa delle proprie terre ancestrali dall’occupazione da parte di usurpatori (tagliatori di alberi, allevatori, coltivatori di riso o soia, minatori, ma anche multinazionali dell’agrobusiness e della farmaceutica) e per il loro riconoscimento giuridico (demarcazione e titolazione legale); i secondi, invece, lottano per avere un pezzo di terra con cui vivere.
In Brasile, paese ricchissimo di risorse agricole, domina il latifondo: il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56,7% delle terre coltivabili. Questo si traduce in un modello di agricoltura capitalista, fondata sulla monocoltura e sull’esportazione, un modello incapace di soddisfare le esigenze alimentari di tutta la popolazione brasiliana, oltre che foriero di pesanti conseguenze sul piano sociale.
Per questo il Forum nazionale per la riforma agraria e la giustizia nel campo (Forum nacional pela reforma agraria e justiça no campo, Fnra), che raggruppa 48 organizzazioni, ha promosso una campagna per limitare la proprietà privata della terra.
Perché – si legge nel sito – è illegittima e ingiusta «la concentrazione di immense aree nelle mani di poche persone e gruppi, quando la maggioranza della popolazione si trova esclusa» (2). Dal punto di vista pratico, i promotori propongono l’introduzione nella Costituzione federale di un comma (articolo 186, comma V) in cui alla proprietà privata della terra si stabilisca un limite di 35 «moduli fiscali» (3). L’emendamento costituzionale inciderebbe solamente su poco più di 50 mila proprietari di terra, ma produrrebbe conseguenze rilevanti. Si creerebbe infatti una disponibilità di oltre 200 milioni di ettari di terra per le famiglie accampate, senza spendere risorse pubbliche per l’indennizzo dei proprietari.

Anche la chiesa cattolica brasiliana partecipa attivamente alla Campagna con alcune sue organizzazioni: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionario, Cimi), la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt) e la Caritas brasiliana. Dom Tomas Balduino, vescovo emerito di Goiás, consigliere della Cpt e figura storica delle lotte per la terra in Brasile, non è tenero con il governo del presidente Lula, perché si è allineato sulle posizioni dell’agrobusiness, che è contrario agli interessi dei Sem terra e degli indigeni.
Il religioso cattolico non usa eufemismi per spiegare il dramma del latifondo: «Alla base vi è il vecchio e nefasto concetto della proprietà come un diritto assoluto. Così esso è insegnato dogmaticamente nella maggior parte delle scuole di diritto e, purtroppo, risiede nella testa di un gran numero di giudici».

Nella «Campagna per la limitazione alla proprietà della terra» si parla di lavoratori rurali senza terra e di comunità tradizionali (ovvero afrodiscendenti di schiavi liberati (4), popolazioni rivierasche e popoli indigeni propriamente detti). L’«unità nella diversità» è stata richiesta anche nelle dichiarazioni finali dei popoli indigeni (5), redatte dopo la conclusione del Forum di Belém. Un auspicio che, però, non trova ancora concretizzazione nella realtà.
«È – spiega l’antropologa Silvia Zaccaria – un nostro vizio mettere insieme lotte sociali come sono quelle dei Sem terra e lotte culturali-cosmologiche (nel senso di diversi modi di vedere il mondo) com’è per i popoli indigeni. La verità è che tra Sem terra e popoli indigeni manca un progetto strategico e politico condiviso. Per il momento, unire le due realtà è più una speranza e un desiderio della chiesa cattolica che una effettiva realtà». 
Un problema non da poco, considerando la consistenza degli avversari e della sfida. Perché la storia insegna che i potenti hanno sempre saputo approfittare delle divisioni tra poveri, scatenando conflitti in cui, alla fine, ad uscire vincitori sono sempre i soliti.

Di Paolo Moiola  

(1) Si legga il rapporto 2009 dell’United Nations Enviroment Programme (Unep/Pnuma) dal titolo: «GeoAmazzonia». Il rapporto è scaricabile gratuitamente dal sito: www.unep.org.
(2) Il sito della «Campagna per il limite alla proprietà della terra»: www.limitedapropriedadedaterra.org.br.
(3) Il «modulo fiscale» è una misura di riferimento stabilita dall’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria (Incra), che definisce l’area minima sufficiente per fornire il sostentamento a una famiglia di lavoratori e lavoratrici rurali. Esso varia da regione a regione ed è definito per ogni municipio a partire da vari parametri, come per esempio la situazione geografica, la qualità del suolo e le condizioni di accesso al territorio.
(4) Il termine brasiliano è: «quilombolas».
(5) Le dichiarazioni sono leggibili sul sito della Coiab («Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira»), il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (www.coiab.com.br) e su quello della Coica («Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica»), il Coordinamento delle Organizzazioni indigene della conca amazzonica (www.coica.org.ec).

Paolo Moiola




«CAMBIARE LA LOGICA DEL SISTEMA»

François Houtart:

Belém, 29 gennaio 2009. Sono sul palco, uno accanto all’altro: Evo Morales, l’indio, presidente della Bolivia; Feando Lugo, il vescovo, presidente del Paraguay; Rafael Correa, l’economista, presidente dell’Ecuador; Hugo Chávez, il militare, presidente del Venezuela. All’inizio della conferenza, Chávez saluta con parole di stima ed affetto François Houtart, seduto in platea. Alla fine della giornata, il prete belga, classe 1925, membro del consiglio internazionale del Forum, sale sul palco ad abbracciare il presidente venezuelano. Magari qualcuno si sarà domandato, attonito e probabilmente inorridito: «Ma come fa quest’uomo di chiesa a stimare questo “dittatore”?». In attesa di trovare una risposta al mistero, scambiamo alcune battute con il professor Houtart, alias padre François, sempre sorridente e disponibile (1).

Padre Houtart, lei è uno dei fondatori del Forum. Come è cambiata in questi anni questa manifestazione?
«È cambiata nel senso che il Forum ha potuto costruire una coscienza collettiva, sempre più universale. È fondamentale continuare su questa strada: formare una coscienza universale. Soprattutto in questo periodo di crisi del capitalismo, che è una crisi senza lotta di classe. Il problema è come alimentare una lotta popolare e sociale per trasformare la logica del sistema».  

Lei è rappresentante personale di Miguel D’Escoto (2) nella Commissione dell’Onu, incaricata di studiare la crisi…
«Sono membro della Commissione delle Nazioni Unite diretta da Joseph Stiglitz. È chiaro, però, che questa Commissione propone una regolazione del sistema e non una sua trasformazione, un cambiamento».

Come sta avvenendo anche nel Forum di Davos, contemporaneo a questo…
«Non tutto il mondo è cosciente della necessità fondamentale di cambiare la logica del sistema capitalista. La crisi è finanziaria, energetica, alimentare, climatica, sociale. Questa è una crisi totale».

Forum di Belém e Forum di Davos. Anche lei riscontra una diversità di trattamento da parte dei media?
«Sì. I media folclorizzano il Forum sociale mondiale. Per loro soltanto il Forum di Davos è serio. Il fatto è che noi non abbiamo potere nei media».

I responsabili della crisi ora chiedono aiuto a quegli stessi stati nazionali che prima tenevano lontani come la peste. Non è una palese contraddizione?
«No! È la logica del sistema. Lo stato deve intervenire soltanto per salvare il capitalismo. Lo stato capitalista è al servizio del capitalismo. Pertanto, il problema è come costruire un altro stato che abbia una base popolare e obiettivi alternativi agli attuali. Le alternative esistono».

Lei è un prete. Come si sta comportando la chiesa davanti ai problemi che solleva la crisi. Sta facendo abbastanza?
«No, non sta facendo abbastanza! Le dichiarazioni ufficiali, quando ci sono, sono deboli e superficiali, molto superficiali. E comunque rimangono nel solco della regolarizzazione del sistema».

Questa speranza di un cambio può trasformarsi in realtà concreta e tangibile?
«È una speranza realista. Come arrivarvi? Occorre mobilizzare la coscienza collettiva, altrimenti il sistema si riproducerà fino alla propria distruzione. Se si arriverà alla coscientizzazione, allora il cambio sarà possibile».

Ma quando? Domani o in tempi biblici?
«Ci sono tempi diversi. Un tempo immediato e un tempo più lontano. L’importante è mantenere la coerenza» (3).

di Paolo Moiola

(1) François Houtart è un ospite fisso di MC. Sue interviste sono state pubblicate nell’aprile 2002 (a cura di Paolo Moiola) e nel luglio 2006 (a cura di Marco Bello).
(2) Miguel D’Escoto, nicaraguense, prete, sandinista, è presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal settembre 2008.
(3) Il 31 ottobre 2008, Francois Houtart aveva presentato una relazione sulla crisi – «Le monde a besoin d’alternatives et pas seulement de régulations» – davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Paolo Moiola




«Partendo dal piccolo, partendo da noi»

Antonio Feandes

Icoroasí (Belém). Portoghese, missionario della Consolata, Antonio Manuel de Jesus Feandes è il responsabile dell’istituto per l’America Latina. Ai Forum di Belém è riuscito a portare un folto gruppo di persone: missionari, missionarie, ma anche laici, giornalisti ed operatori televisivi.  

Padre Antonio, brevemente una sua opinione sui forum, che si sono svolti nella città amazzonica.
«Già il fatto che le persone si radunino per scambiarsi opinioni e per condividere esperienze, è una cosa molto positiva. Abbiamo bisogno di scambio. Anche le piccole esperienze sono grandi, perché fanno processo. In secondo luogo, è confortante il fatto di sapere che non siamo soli al mondo a voler costruire qualcosa di diverso, che non siamo gli unici matti che la pensano così. Il terzo punto che voglio sottolineare è che ci sono esperienze molto valide dal punto di vista ideologico, del pensiero e sociale da parte dei popoli indigeni. Nel piccolo, nella chiesa e in tutti gli ambiti si può costruire e si può cambiare».

Incontro, scambio di idee… tutto bene. Ma, dal punto di vista pratico, come piccole comunità indigene, movimenti alternativi, Ong possono intervenire per cambiare la direzione del mondo. Se questa direzione va cambiata.
«Certo, questa è una utopia. Ma sono cose in cui non dobbiamo mai smettere di credere. Considerando la mia esperienza, credo che nel piccolo è possibile cambiare. Io ho l’esperienza con il popolo indigeno e ho visto che si può cambiare, magari non dal punto di vista teologico, ma si può cambiare. Per riassumere, non si può aspettare che cambino le strutture…».

Per «piccolo» intende anche la singola persona?
«Sì, il singolo è al primo posto. Al secondo, ci sono le piccole comunità, dalla famiglia al condominio, dal sindacato agli organismi religiosi, dai partiti politici alle Ong. Tutti devono essere coinvolti, per fare una rete tra piccolo e grande negli spazi in cui una persona vive e lavora ogni giorno. Poi c’è l’ambito internazionale, importantissimo, per la costruzione di ambiti collettivi e alternativi. Questo per me è un terzo passo da fare. Però se non si fa il primo, tutti gli altri non hanno senso. La casa si comincia a costruire dalle fondamenta: la chiesa, le Ong sono il tetto visibile, ma le fondamenta cominciano dalla singola persona, cominciano da te».

Gli indios sono stati i grandi protagonisti di questo Forum svoltosi quasi in casa loro, considerando che Belém è una città amazzonica. Secondo lei, la loro presenza è stata qualificante o è mancato qualcosa?
«Io credo che manchi sempre qualcosa. Per esempio, una cosa che manca sempre agli indigeni è di vederli nella loro interezza. Noi li vediamo o dal punto di vista folclorico o nella lotta per la conquista della terra, dimenticando tutta la loro parte spirituale, la parte di organizzazione comunitaria, i loro legami. Gli indios non possono essere visti in aspetti frammentati. Anche nel forum non siamo riusciti a cogliere la loro ricchezza e complessità, evidenziando sempre singoli aspetti. Perdendo l’identità complessiva dell’indigeno, con la sua religiosità e spiritualità».

Lei ha lavorato per anni in Brasile. Come lo ha trovato?
«Ho trovato solo una parte del Brasile, Belém».

Obiezione giusta. Questo non è un paese, ma un continente. Però lei ha vissuto qui e può fare una comparazione con gli anni precedenti, quando alla guida non c’era un presidente come Lula.
«Dal punto di vista degli occhi, fa sempre bene guardare il Brasile: c’è la natura, c’è l’Amazzonia, ci sono le bellezze fisiche delle donne, c’è molto con cui appagare la vista. Ma, a parte questo giudizio estetico, a me è sembrato che il popolo brasiliano dal punto di vista politico non sia cresciuto. Il governo Lula non ha aiutato la gente. Credo che questo benessere apparente che sembra ci sia nel paese, non ha portato la gente a crescere».

La sua è una critica severa. Possiamo tradurre con «troppo assistenzialismo e patealismo»?
«Credo di sì. Penso che continua a vivere  con questo enorme problema. La coscienza politica delle comunità di base è svanita. Lo vedo in molte cose come, ad esempio, per quanto riguarda l’ecologia.
Una città come Belém doveva essere molto più pulita con tutta questa natura. In generale, c’è poca coscienza ecologica e gli stessi partiti politici hanno perso coscienza civile».

Lei è un uomo di chiesa. Come vede la sua istituzione ovvero, fuor di metafora, «un’altra chiesa è possibile»?
«Lo ha detto anche Evo Morales, no?».

Morales ha detto «possibile», ma anche «necessaria», avendo in mente la situazione della sua Bolivia, dove la chiesa ufficiale non lo ha mai appoggiato molto…
«La chiesa dovrebbe essere più vicina alla gente. Le nostre strutture di governo, oggi, non si avvicinano o non vogliono avvicinarsi ai problemi reali delle persone. Abbiamo delle belle teorie, ma nella pratica forse non ci crediamo o non abbiamo le possibilità, anche perché la struttura della chiesa è molto chiusa. Ad esempio, dovrebbero avere il loro spazio le donne, le donne indigene, il popolo della città, come quello della campagna. Questo vale non soltanto per i vertici, ma anche per la base della chiesa: non siamo abbastanza attenti alla realtà, alle sofferenze per andare in Vaticano a reclamare più attenzione per le diversità».

Guardare di più alle diversità quindi…
«Sì, quanto più la chiesa è diversa tanto più si avvicina alle persone».

In base a questa sua ultima risposta, un commento sul Forum teologico e della liberazione, che si è svolto prima del Forum sociale.
«Il Forum teologico e della liberazione è sempre uno spazio importante, perché ci apre al confronto. Però, manca sempre la teologia fatta dalle basi. Mancano le persone che fanno teologia. Manca il coinvolgimento di tutta la gente, della città e della campagna. Credo che dare spazio a queste realtà sia fondamentale. In un forum teologico c’è bisogno di ampliare gli spazi di rappresentanza».

Quindi, per riassumere: meno Boff e meno professori universitari e più gente comune?
«Boff certamente, ma anche teologie che si applicano quotidianamente tra la gente semplice, che è necessario ascoltare».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




LA FORZA DELL’ENTUSIASMO

Ignacio Ramonet

Belém, 29 gennaio 2009. Gioalista di fama mondiale, tra i fondatori del mensile internazionale Le Monde Diplomatique, amato-odiato per le sue idee progressiste, Ignacio Ramonet è stato fin dall’inizio un sostenitore del Forum social mundial. Lo avviciniamo a conclusione dell’incontro pubblico tra Evo Morales, Feando Lugo, Rafael Correa e Hugo Chávez.  

Inacio Ramonet, oggi si sono incontrati 4 presidenti latinoamericani diversi da tutti gli altri. Che significa?
«Questa è una data fondamentale nella storia del Forum. Qui comincia una nuova tappa. Fino ad oggi il Forum aveva avuto una certa reticenza verso la partecipazione dei dirigenti politici. Prima aveva partecipato solamente Chávez, però a lato della manifestazione. E Lula, nella stessa maniera. Oggi però, invitati dalle organizzazioni sociali, sono intervenuti quattro presidenti latinoamericani, che hanno risposto alle domande dei movimenti. Questo dialogo è molto importante, perché i presidenti hanno riconosciuto il debito intellettuale nei confronti del Forum. Hanno ammesso di aver appreso e di essere tornati nei loro paesi con le idee assorbite qui. Se il Forum non ha oggi l’importanza che aveva nel 2001, possiamo però dire che esso si prolunga quotidianamente in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Brasile. In tutti questi paesi i movimenti sociali oggi sanno come relazionarsi con i governi che stanno trasformando le società».

In Europa, i media più importanti hanno parlato più di Davos che di Belém…
«In verità, io ho osservato che una parte della grande stampa europea (certamente non la stampa italiana, vedere articolo a lato, ndr) ha parlato più di Belém che di Davos. E ha detto due cose. In Belém esiste entusiasmo, dialogo e la convinzione che da qui possono nascere idee per affrontare la crisi. Inoltre, per la prima volta in Davos esiste un pessimismo che non era mai esistito prima. Senza contare che nella città svizzera sono andati soltanto due presidenti latinoamericani – il messicano Felipe Calderón e il colombiano Alvaro Uribe – contro i cinque che sono venuti a Belém. Comunque, a causa della crisi è normale che in Europa si parli di Davos. La differenza è che qui si stanno proponendo soluzioni, mentre nel Forum economico c’è la consapevolezza che qualcosa non ha funzionato nel proprio sistema.  
Altra osservazione: a Davos non è andato alcun rappresentante dell’aministrazione statunitense. Per la prima volta nella storia. Insomma, non è da Davos che usciranno soluzioni per questa crisi».  

di Paolo Moiola

(L’audio di questa intervista è disponibile sul sito)

Paolo Moiola




Intanto, a Davos, si elabora il lutto

M come media: c’è Forum e Forum

Negli stessi giorni di Belém, molti dei responsabili della crisi mondiale – speculatori, finanzieri, banchieri, magnati, amministratori delegati, politici ed economisti neoliberisti – si sono incontrati a Davos per parlare di economia, autornassolversi e chiedere aiuto agli stati nazionali. Nella città svizzera non si sono fatti vedere i rappresentanti degli Stati Uniti, primi responsabili del disastro. Ma come hanno raccontato i due eventi – Davos e Belém – i media italiani? Così…

Belém. Paulo Pereira Lima, giornalista e direttore di Viração (1), rivista brasiliana per i giovani, ha un atteggiamento molto didattico. I ragazzi, seduti in circolo, lo ascoltano con attenzione. Hanno tutti meno di 18 anni e provengono da quartieri disagiati di Belém. Indossano una maglietta con la scritta Curso de comunicacão popular (Corso di comunicazione popolare). «Per le giornate del Forum sono diventati giornalisti», spiega Paulo. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, c’è la riunione di questa redazione particolare per fare il punto sulla giornata e preparare quella seguente.
Già, i media. Ma come è stata fatta l’informazione nei giorni del Forum?
Che si dice del Forum in Italia?, chiedo al mio collega. «Poco o nulla. Ah, c’è stato un giornale gratuito, Metro, che l’altro giorno ha pubblicato in prima pagina una foto da Belém, ma poi l’articolo era costituito da poche righe, come d’altra parte consuetudine per questo tipo di media (2)». Vado in sala stampa per scrivere e mettere in rete il mio disappunto.
Così:«Belém, 29 gennaio 2009. Ieri, tutte le volte che ho fatto tappa nella sala stampa allestita nell’Università nazionale, ho cercato su internet qualche articolo che dicesse una parola o due sul Forum di Belém, contemporaneo a quello di Davos. Ebbene, sui siti on-line di Repubblica e Corriere, vale a dire i due primi quotidiani del nostro paese, non ho trovato nulla.
Sarò distratto o stanco per questo intercalare di sole e piogge torrenziali, ho pensato (invero con poca convinzione). Quello che invece i due quotidiani riportavano erano vari pezzi sul Forum economico della città svizzera. Un evento importante, ma certamente non più di quello di Belém, dove al posto di banchieri, politici e magnati ci sono indigeni, operai e studenti. Una bella compagnia di gente che pagherà la crisi prodotta dai famosi ospiti di Davos. Ma ecco la ciliegina sulla torta confezionata dai media nostrani.
Sul sito del Corriere ho letto un articolo su quella riunione, articolo firmato Danilo Taino (3). In esso si parlava di strapotere degli stati nazionali? Ma come?, mi sono chiesto tra me e me. Pensavo che la crisi fosse stata originata, sì dallo strapotere, ma del libero mercato.
Nello stesso articolo si parlava di egoismi nazionali. Egoismi nazionali? Pensavo che l’egoismo fosse quello dei capitalisti, dei finanzieri, dei banchieri, dei magnati, che hanno lucrato su tutto (compreso il nulla) per anni, infischiandosene del bene comune, della società, dell’ambiente, dello stato nazionale.
Meglio chiudere qui. L’umidità dell’Amazzonia mi gioca brutti scherzi. Sicuramente oggi leggerò qualcosa di diverso. O no?» (4).
No, la mia speranza risulta vana. Sui giornali italiani più importanti (per diffusione) non trovo nulla neppure nei giorni seguenti. In compenso, trovo altri articoli sul Forum di Davos, peraltro distrutto con intelligente ironia (ed un pizzico di sarcasmo) da Loretta Napoleoni: «Quest’anno il meeting dei superglobalizzati è stato molto più sobrio del solito, quasi fossero tutti in lutto».
«Quelli che dovrebbero spegnere il fuoco – scrive ancora l’economista italiana – non sono pompieri professionisti, ma sono gli stessi bambini che fino a poco tempo fa giocavano con i fiammiferi. Su entrambe le sponde dell’Atlantico i signori della deregulation, che ha messo in ginocchio il capitalismo moderno, presiedono le commissioni che dovrebbero affrontare la crisi» (5).

Insomma, riassumendo: i media nazionali non hanno parlato di Belém, ma hanno parlato di Davos, anche se non troppo, probabilmente perché il lutto (per il crollo dei miti: il libero mercato, l’impresa, la finanza creativa) non è stato ancora elaborato. Allora, per dare una spiegazione alle scelte giornalistiche, proviamo a pensare male (che forse ci avviciniamo alla verità).
I giornali più importanti appartengono ai grandi gruppi industriali e bancari (6). Ovvero a quei gruppi di potere che, direttamente o indirettamente, in misura maggiore o minore, sono corresponsabili della crisi e che da questa oggi vogliono uscire con l’aiuto degli stati nazionali (cioè dei cittadini-contribuenti), ma senza cambiare i paradigmi della globalizzazione neoliberista che stanno alla base del sistema e del suo fallimento. Proprio ciò che da sempre chiedono invece i Forum sociali mondiali. Come forse racconteranno i ragazzi del «Corso di comunicazione popolare», che a Belém hanno sperimentato cosa significa fare i giornalisti. Liberamente ed esibendo con orgoglio il proprio pass.

Di Paolo Moiola                                


(1) Vedi: www.revistaviracao.org.br.
(2) Quotidiano gratuito Metro, 28 gennaio 2009, pagg. 1-2.
(3) Vedi: Corriere della Sera, del 28 gennaio 2009.
4) Pubblicato sul sito: www.gennarocarotenuto.it
(5) Loretta Napoleoni, Davos, parole in libertà, settimanale Internazionale, 6 febbraio 2009; Loretta Napoleoni, Il falò del capitalismo, settimanale Internazionale, 20 febbraio 2009.
(6) Sulla proprietà dei media italiani, si legga l’ottimo dossier pubblicato sul mensile Altreconomia, febbraio 2009.

Paolo Moiola




Sull’utilità delle prediche

Antonio Rovelli

A che servono i Forum sociali mondiali? Per esempio, che resta dopo le giornate di Belém? Soltanto parole, buoni propositi, sogni, come dicono i suoi detrattori? Oppure dal Forum si esce con la consapevolezza che nel mondo c’è una grande ricchezza di donne, uomini e idee da valorizzare?  

Belém. Antonio Rovelli, missionario della Consolata, fondatore della Scuola per l’alternativa, è venuto al Forum, dopo aver partecipato a quello di Nairobi, nel 2007.

Si dice che a Belém i protagonisti siano stati, in ordine casuale: la foresta amazzonica; gli abitanti delle Americhe, ovvero i popoli indigeni; i brasiliani, con i loro problemi e le loro speranze; i presidenti latinoamericani progressisti. Padre Antonio, è d’accordo con questa visione?
«Mi è piaciuta l’espressione di Americhe. Identicamente, io sono convinto che occorra parlare di Afriche. Dunque, qui a Belém abbiamo incontrato diverse Americhe, con proprie e specifiche ricchezze. Pensiamo ai popoli indigeni, ai movimenti sociali e a tutte quelle realtà. Quanto alla presenza di tutti quei presidenti (che si auto-definiscono progressisti), la scelta di venire a Belém è positiva. Ma fino a che punto scendono dal palco da cui parlano? Fino a che punto accettano di cambiare radicalmente anche le loro politiche economiche per far sì che i diritti degli indigeni e dei movimenti sociali siano rispettati? Questo secondo me è tutto da vedere. Per questo è bene che i movimenti sociali ed indigeni continuino a stare alle calcagna dei loro leaders, perché non si dimentichino delle promesse che hanno fatto loro».

Un esempio?
«Accenno soltanto al Brasile. Alla politica degli agro-combustibili che sta distruggendo la foresta e alla permanenza dei grandi latifondi a causa della mancanza di una politica agraria che tenga conto dei diritti dei Senza terra e dei popoli indigeni. Insomma, ci sono delle contraddizioni. Cioè occorre stare attenti che ciò che i presidenti scrivono con la mano, non venga cancellato con il gomito».

Evo Morales, presidente della Bolivia, ha parlato di chiesa, con evidente riferimento ai problemi avuti nel suo paese con la gerarchia cattolica. Come prete, qual è la sua opinione al riguardo?
«Prima di tutto dividerei la chiesa gerarchica, quella dei vescovi e delle conferenze episcopali, dalla chiesa delle comunità di base, di chi si fa orante della parola di Dio, ossia missionari, laici, preti, religiosi che camminano a fianco dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. La chiesa gerarchica purtroppo sta dimenticando il cammino che è stato fatto da alcuni vescovi che si sono fatti portavoce delle istanze dei poveri (alcuni dei quali sono stati uccisi: come Oscar Romero in Salvador, Juan Girardi in Guatemala). E oggi mancano, a livello gerarchico, voci profetiche conosciute che fanno opinione.
Dunque, un’altra chiesa è auspicabile. E lo è sicuramente, per chi ascolta i poveri e per chi lavora in mezzo alla gente. D’altra parte, parlare in nome di o farsi voce di chi non ha voce, è giusto fino ad un certo punto. È bene che siano gli stessi soggetti a portare avanti le proprie istanze e lotte, facendo sentire la propria voce».

Da Nairobi a Belém. Portare il Forum in questa regione del Brasile è stata una scelta azzeccata?
«La scelta di Belém è stata strategica. Ed è strategico il luogo, l’Amazzonia, per il suo patrimonio umano, naturale e culturale. Qui troviamo un concentrato di ricchezza che il mondo può custodire o distruggere».

A Belém sono venuti i rappresentanti di centinaia di popoli indigeni. Come valuta questa presenza?
«Secondo me, è l’elemento qualificante di questo Forum».

Nel momento in cui gli indigeni vengono visti e trattati alla pari…
«Assolutamente. Non devono essere trasformati in oggetto per le nostre fotografie, da mostrare alla nostra gente quando si torna a casa. Un parallelo lo posso fare con i popoli nomadi del nord del Kenya. Quando arrivano i turisti, loro si mettono a danzare davanti alle macchine fotografiche…».

Dunque?
«È una ricchezza che deve essere compresa, valorizzata, con la quale bisogna camminare. Quello indigeno è per noi un mondo difficile da catalogare. Dobbiamo farci guidare da loro, che hanno una forza e un coraggio di lottare, che purtroppo sono venute a mancare nel nostro mondo. Ad esempio, per i popoli indigeni la terra è questione di vita o di morte. È parte integrante della loro esistenza. È come un vestito che portano addosso, è come l’aria che respirano».

La salvezza dell’Amazzonia deve passare esclusivamente attraverso i popoli che la abitano?
«Io sono stato molto colpito dalla diversità di questi popoli, dalla loro forza, persone che sono state picchiate, torturate… Il coraggio di queste persone dobbiamo condividerlo con gli altri. D’altra parte, io penso che da soli i popoli indigeni non potranno portare ad un cambiamento. Dovranno unirsi ad altri movimenti sociali, del mondo del lavoro, del mondo agricolo per diventare una forza propositiva che un giorno possa arrivare ad occupare i posti di potere. Così il mondo potrà essere diverso».

Peccato che la maggior parte dei media mondiali continui a descrivere il Forum come una manifestazione folcloristica…
«Mi ha tolto la parola di bocca. Per molti media importanti il Forum attira e incuriosisce soltanto se descritto come un fatto folcloristico».

E dunque?
«I problemi devono essere risolti a livello globale. Se il nostro mondo cosiddetto ricco non accoglie questo mondo che si sta affacciando timidamente, ma con forza, finiremo con il perdere tutti».

di Paolo Moiola

Vuoi ascoltare l’intervista?
Questo brano è parte di una lunga intervista trasmessa nell’ambito del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America», trasmesso da Radio Flash (www.radioflash.to) e curato da Paolo Moiola. L’intervista completa è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it.

Paolo Moiola




A parte tutto: «grazie di esistere»

F come Forum: il Forum sociale mondiale è …

Abbiamo chiesto a quattro giornalisti, tutti stranieri, di scrivere la propria opinione sul Forum di Belém cui hanno partecipato in prima persona. Non mancano le critiche, ma tutti ne sottolineano l’utilità. E criticano l’indifferenza, la superficialità o la supponenza con cui i grandi media mondiali hanno guardato alla manifestazione.

Se la resistenza
al «pensiero unico» non è raccontata

La crisi mondiale e la resistenza dei popoli indigeni sono stati al centro dei dibattiti della nona edizione del Forum sociale mondiale (Fsm) in Belém nello stato del Parà, nell’Amazzonia brasiliana. Questa volta il Forum è avvenuto in un momento unico, dove la globalizzazione neoliberale, dominata dalla finanza libera da qualsiasi controllo pubblico, è in crisi e sta perdendo la sua egemonia. Allo stesso tempo, in Davos, il Forum economico mondiale riconosceva il fallimento e la miscredenza nei principali pilastri del sistema, dando così maggior fiducia al processo del Fsm iniziato nel 2001.
Un consenso sembrava attraversare la maggior parte delle discussioni in Belém: la crisi finanziaria globale deve essere pensata congiuntamente alle crisi energetica, climatica e alimentare. Le conseguenze del processo egemonico hanno generato una crisi di sostenibilità. È importante notare che, oltre le giornate di lotta e azioni globali, molte delle riflessioni realizzate nelle riunioni del Fsm sono trasformate in decisioni politiche. Nonostante i problemi nell’organizzazione, il bilancio finale è stato positivo. L’aspetto più importante è che, attualmente, l’Fsm continua ad essere una delle uniche proposte multisettoriali e inteazionali con un progetto alternativo emergente. In un mondo carente di iniziative, questo è un fatto straordinario. Rispetto alle prime edizioni, l’evento di Belém è stato segnato da una maggior radicalità nelle analisi e una maggior articolazione tra i movimenti. Vi è un consenso comune verso il fatto che la definizione di strategie di lotta sociale e politica, per il superamento della società del capitale, si fa più urgente. Non si tratta più di salvare il sistema, ma di risolvere i problemi dell’umanità cornordinando le forze per uscire da una grave situazione, o vi è la possibilità che non avremo futuro.
Una delle maggiori sfide ancora affrontate dal Forum è la sua comunicazione con il mondo.
Partecipare al Forum è una cosa. Ascoltare parlare del Forum da parte di altri e soprattutto dai grandi mezzi di comunicazione di massa è un’altra cosa. La contraddizione è il non riuscire a «comunicare» ciò che realmente succede nell’evento, proprio perché il Forum stesso è sorto come un’operazione di «controcomunicazione» di fronte al Forum economico. «Un altro mondo è possibile» e non solamente quello del pensiero unico di Davos. Nonostante la presenza di una grande quantità di giornalisti (4.500), l’Fsm è sempre meno «relazionato/descritto» dai grandi mezzi di comunicazione, che quando lo fanno, non raccontano ciò che dovrebbe essere raccontato, ma rimangono sull’aspetto folclorico che l’evento offre.
Per ora l’unica soluzione è valorizzare i media alternativi e la comunicazione che ogni partecipante fa nel suo circolo di appartenenza.


di Jaime Carlos Patias


Guardare oltre, guardare verso chi sta fuori

Mi guardo intorno, a Belém, e vedo una quantità straordinaria di progetti che fervono in tutto il mondo. Al Forum passano in tanti. Ci sono ideologie ormai sclerotizzate. Ci sono missionari cattolici che in Mozambico, Colombia o  Roraima fanno quello che lo Stato o il mercato o chi dovrebbe farlo non fa. Ci sono associazioni che partecipano attivamente nel definire la vita della propria città, della propria regione e perfino del proprio Paese. Ci sono città che praticano quella forma di democrazia e cittadinanza che è il «bilancio partecipativo». Ma tutto ciò non è argomento per riempire pagine di giornali. Sì, al Forum vi è anche folclore; sì, resiste anche un ideario/insieme di idee vecchio, logoro e consumato, ma ciò che mi sorprende è che questo evento, che coinvolge più di 130 mila persone, sia appena una nota di fondo nei telegiornali o una breve notizia nei giornali.
È vero anche che il Forum sociale mondiale è palco di contraddizioni. Dove si accumula immondizia, mentre si discute di un mondo più pulito. Dove ci sono automobili in eccesso, mentre si discute di un mondo più verde. E vi è la mancanza di portare le istanze del Forum fuori dai suoi territori: uscire dalla discussione per andare alla prassi politica, uscire dalla tenda per andare alla città. Oltrepassare i semplici slogan o la parola d’ordine facile è un compito più arduo di ciò che appare. Il Forum è cresciuto molto (133 mila partecipanti, più di cinque mila organizzazioni), ora è necessario crescere nel mondo. Guardare verso chi sta fuori, a lato, al margine. Capire che è necessario tradurre, negli intervalli tra i forum, la ricchezza dei sei giorni di dibattito.
Basta guardare al Forum sociale mondiale di Belém del Parà. La sua realizzazione è avvenuta in due campus universitari enormi, che obbligavano a camminare molto. Ma altro tipo di esercizio è stato mettere insieme alle università, i quartieri di Guamá e Terra Firme, che sono una immersione reale in questo Brasile di contrasti. Favelas immense e poveri al bordo delle strade avrebbero dovuto interpellare maggiormente coloro che hanno partecipato al Forum, per superare la frontiera che separava queste realtà.
«Un altro mondo è possibile», ricorda lo slogan del Forum…

di Miguel Marujo


L’Arca di Noè non è disponibile …

Davanti all’estesa superficie a specchio del fiume Guamá, si è sviluppato il nono Forum sociale mondiale. Il luogo è stato per se stesso un simbolo del proposito di un evento così singolare: «un altro mondo è possibile». La vastità delle acque, il verde e l’esuberanza delle foreste sono una novità impressionante e, allo stesso tempo, scioccante. La ricerca di un mondo senza miseria, senza sfruttamento, senza fame, senza violenza fisica, dove esista comunione, solidarietà, frateità, e rispetto dei diritti di tutte le persone senza distinzione, si scontra però con la più nera e gridante realtà della miseria, rispecchiata nelle favelas e nel commercio informale che pullula in questo paradiso terrestre.
L’Amazzonia è una enorme regione del pianeta, ricca di biodiversità dove, come qualcuno scrisse, «la vita scorre attraverso i fiumi, respira attraverso la foresta, canta attraverso gli uccelli, si dona attraverso i frutti, sogna, soffre e spera attraverso il cuore umano, parla e adora nelle diverse lingue dei popoli amazzonici». In Belém ci siamo sentiti parte del pianeta blu, più vicini gli uni agli altri. L’armonia della natura, ferita dall’uso e abuso senza regole e senza rispetto, penetra nella nostra pelle e denuncia la situazione privilegiata di pochi ottenuta al costo del sangue della maggioranza. Lo stato del Pará porta un carico di problemi drammatici – la deforestazione, l’inquinamento dei fiumi, la moltitudine dei poveri e degli sfruttati, dei Sem terra e altri -, ma la stessa sostenibilità del pianeta è pericolosamente posta a rischio. La minaccia è grande. Come ha allertato Leonardo Boff: «Oggi noi non abbiamo più l’Arca di Noè, che salva alcuni e lascia morire  quelli in eccesso. O noi salviamo tutti o moriamo tutti».
La presenza massiccia di forze di sicurezza nella città e nei locali del Forum non ha oscurato un clima caratterizzato dalla spensieratezza e da una contentezza facile e contagiosa. A Belém, si è respirata un’allegria spontanea e una comunicazione facile tra persone che rispecchiano l’incontro di razze e popoli, provenienti dai vari continenti. Si è formato un ambiente cosmopolita, in contrasto con il Forum di Nairobi, accentuatamente africano, sebbene ci fosse un’allegria e colore che nulla hanno da invidiare a Belém. Di entrambi questi eventi resta la sensazione che è necessario andare oltre la rotta del tanto agognato «altro mondo», che nel frattempo da «possibile» è passato ad essere «necessario e urgente».

di Elisio Assunção

Per la «differenza», contro l’«indifferenza»

La ragione di questo titolo deriva da una delle molte realtà che abbiamo sperimentato nel Forum sociale mondiale (Fsm) di Belém, cioè che è possibile una globalizzazione alternativa e che è possibile unire i movimenti sociali e le Organizzazioni non governative (Ong) per lottare per un mondo più giusto e solidale. È stato in questo contesto, che ho sentito e vissuto l’Fsm del 2009 come un’alternativa effettiva per affrontare le cause sociali, i problemi che preoccupano l’umanità in generale e i popoli che soffrono in particolare.
Il Forum è dunque uno spazio aperto di incontro per l’approfondimento, la riflessione, il dibattito democratico delle idee, per la formulazione di proposte, per il libero scambio di esperienze e per l’articolazione di azioni efficaci. È su queste basi che l’Fsm riunisce entità e movimenti della società civile, che si oppongano al neoliberismo e al dominio del mondo da  parte del capitale o di qualche forma di imperialismo. Ho verificato che un indefinito numero di movimenti sociali, popoli indigeni e Ong inteazionali sono impegnati nella costruzione di una società planetaria incentrata sull’essere umano. Tutti, a viva voce, hanno ricordato che non ha senso, oggi, vivere in un mondo con tanta disuguaglianza e indifferenza.
Dal Forum di Belém sono emerse, in vari pannelli di discussione, proposte che aiutano a dibattere su alternative per costruire una globalizzazione solidale. Ovvero una globalizzazione che, rispettando i diritti umani universali e l’ambiente, si appoggi su sistemi e istituzioni inteazionali democratiche al servizio della giustizia sociale, della uguaglianza e della sovranità dei popoli. Questo significa garantire a tutti gli abitanti del pianeta Terra l’applicazione dei diritti fondamentali, che cominciano con il diritto alla terra, a un tetto, alla salute, al lavoro e all’educazione. Per raggiungere questo obiettivo noi tutti dobbiamo lavorare anche per finanziare questi progetti.
Sono uscito da questo Fsm del 2009 con la speranza che ci sono elementi nuovi e ottimistici rispetto alle alternative. E perfino in termini di lotta, dato che, quello che era impensabile soltanto dieci anni fa, cioè unire in un unico spazio uomini e donne per discutere l’utopico, oggi è stato realizzato. In tutto il mondo abbiamo movimenti che, pur abbracciando il pianeta intero, hanno radici locali create attraverso le proprie lotte e propri sistemi di economia solidale. Partendo da questi soggetti locali stiamo costruendo un nuovo ordine internazionale, più flessibile, più ampio, nel quale i movimenti sociali e i movimenti di cittadini di tutto il pianeta abbiano l’opportunità di dimostrare all’Umanità che un altro mondo è possibile. Un mondo differente, ma contro l’indifferenza.

di Beardino Silva

J. Patias, M. Marujo, E. Assunçao, B. Silva




Migrazione spinta, migrazione attratta

Migranti dal mondo all’Italia

Milioni di persone nel mondo lasciano ogni anno la propria patria per migrare in altri paesi in cerca di un futuro migliore. L’Italia è tra i primi paesi di immigrazione nell’Unione europea e il fenomeno è destinato a crescere, anche perché a causa della crisi demografica cresce il bisogno di manodopera straniera in tutti i settori della nostra società. Un fenomeno necessario e positivo, quindi, ma deve essere accompagnato da politiche aperte e lungimiranti, che favoriscano l’integrazione, il passaggio da immigrati a cittadini. I «nuovi italiani» non sono numeri e statistiche, ma persone con storie di vita, portatori di nuovi valori culturali, che è  necessario conoscere, per la convivenza interculturale e la pace religiosa.

O ggi i migranti nel mondo sono arrivati a quota 200 milioni, pari a quasi il 3% dei 7 miliardi di esseri umani sulla terra, con un incremento annuale di 3 milioni di persone.
Di questi 200 milioni, nonostante il crescente numero di richiedenti asilo e sfollati denunciato annualmente dalle Nazioni Unite, la parte più consistente rimane costituita da lavoratori in cerca di un futuro migliore. Lavoratori immigrati che secondo l’Inteational labour organization arrivano a rappresentare nei paesi industrializzati circa il 12% dell’intera forza lavoro.
Migranti: produttori di ricchezza
La spinta ad abbandonare il proprio paese per cercare condizioni di vita migliori è dettata dal fatto che la ricchezza mondiale è sempre più concentrata nei Paesi a sviluppo avanzato (Psa) a scapito del resto del mondo. Sulla base di una serie di elaborazioni teoriche, si calcola che nel corso del 2007 nel mondo si siano prodotti 65.200 miliardi di dollari di ricchezza, una cifra che sarebbe in grado di assicurare a ogni abitante della terra un reddito annuo pari a 9.768 dollari.
In realtà la forte sperequazione nell’accesso alle risorse tra le diverse aree del mondo fa sì che appena il 13% della popolazione mondiale residente in America settentrionale e negli stati membri dell’Unione europea detenga la metà del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Mentre Africa, America Latina e Asia, che rappresentano la metà della popolazione mondiale, raggiungano appena un quarto del Pil dell’intero pianeta terra.
Per contrastare la crescente povertà nel mondo, l’Onu, nel corso del 2000, ha lanciato gli Obiettivi del millennio. Si tratta di otto obiettivi finalizzati al contrasto della povertà estrema, delle malattie, dell’inquinamento ambientale e all’impegno nell’innalzamento della qualità della vita di ogni essere umano che abita il pianeta, che tutti i 191 stati membri si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015.
Ma oggi, a causa del rallentamento della crescita economica globale, il raggiungimento di tali obiettivi resta incerto. E non è un caso che il 2008 sia da ricordare per il fallimento dei negoziati presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per la liberalizzazione del commercio dei prodotti alimentari, misura che avrebbe dovuto apportare concreti benefici in termini di competitività internazionale per le economie prevalentemente agricole dei paesi in via di sviluppo (Pvs).
I pochi dati economici globali presentati bastano a far capire quali sono i principali flussi delle immigrazioni nel mondo, che vedono milioni di persone abbandonare i propri paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord. Storie di speranza, ma anche di fatiche e sofferenze, qualche volta di disperazione. E proprio per quanto riguarda «l’immigrazione disperata», quella che spesso finisce nelle mani di trafficanti di uomini senza scrupoli, il bilancio è impressionante: nei primi 7 mesi del 2008, tra coloro che hanno cercato di raggiungere Italia e Spagna via mare, si contano 399 morti accertati nel Canale di Sicilia e 188 sulla rotta verso le isole Canarie. Dal 1988 oltre 12.566 persone, per rimanere alle morti accertate, sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Il caso Italia
«Molti immigrati nel nostro paese trovano impiego nell’ambito dei servizi alla persona – spiega Tiziana Caponio, del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione -, soprattutto agli anziani. Perché l’Italia si presenta con una grossa domanda di servizi di cura per anziani non autosufficienti in assenza di strutture residenziali adeguate. Abbiamo un sistema di welfare debole sul lato dei servizi, che viene compensato con il trasferimento dei redditi delle famiglie a badanti straniere».
Nel nostro paese l’équipe del Dossier Caritas/Migrantes stima che a fine 2007 fossero 4 milioni i cittadini stranieri presenti, che su una popolazione totale di 59.619.290 abitanti è uguale al 6,7% del totale, ben al di sopra della media europea. L’Italia infatti si colloca oggi tra i primi paesi di immigrazione dell’Unione europea, subito dopo Germania e Spagna, con un incremento annuo di immigrati di 350 mila unità. E se continuerà questo ritmo l’Italia è avviata a superare la presenza di 10 milioni di stranieri ben prima di metà del secolo, diventando il primo paese europeo per numero di immigrati insieme alla Spagna.
Uno scenario preoccupante?
Al contrario: se si calcola che nel nostro paese il saldo tra nascite e morti è ormai negativo da anni, per l’esiguo numero di nuovi nati e l’aumento esponenziale dei decessi; che l’età media è in continuo aumento e la popolazione attiva in costante diminuzione, il futuro non è pensabile senza gli immigrati che, essendo persone più giovani d’età, diventano indispensabili per abbassare l’età media della popolazione complessiva.
«L’immigrazione in Italia comincia nel ‘74 – spiega Francesco Ciafaloni, ricercatore dell’Ires Lucia Morosini di Torino -. Ma la vera immigrazione importante parte solo 4 anni fa, quando diventa evidente l’effetto della transizione demografica del nostro paese: il passaggio da natalità alta a bassa e da mortalità bassa ad alta».
A quel punto il sistema economico nazionale, non trovando più manodopera nel paese, ha avuto bisogno di importae dall’estero. «Questo aumento di immigrati – continua Francesco Ciafaloni – non è quindi dovuto al degrado del mondo, ma al fatto che il sistema produttivo italiano richiede forza lavoro. Mentre fino a 25 anni fa si parlava di immigrazione spinta, cioè persone arrivate in fuga da guerre e carestie, oggi si può parlare di immigrazione attratta dal lavoro».
Un fenomeno che presenta delle positività per il nostro paese, ma che allo stesso tempo necessita di essere governato e accompagnato da politiche ad hoc. «Si impone la necessità di una politica positiva – scrivono gli specialisti Guerino Di Tora, Vittorio Nozza e Piergiorgio Saviola nell’introduzione al XVIII Rapporto Dossier statistico 2008 immigrazione di Caritas/Migrantes – a favore della maggioranza degli immigrati, investendo in idee e risorse. […] L’ambito delle politiche di integrazione è il banco di prova della capacità della classe dirigente di un paese chiamato ad affrontare il tema delle migrazioni. La reiterazione di provvedimenti sicuritari o emergenziali non mostra la forza nell’affrontare il tema, ma la sua debolezza nell’impostare politiche lungimiranti e illuminate capaci di costruire percorsi di cittadinanza, che siano nello stesso tempo inclusivi e anche esigenti nei confronti delle persone immigrate».
Chi sono questi immigrati
«Sono badanti, muratori, agricoltori – spiega Francesco Ciafaloni -. Ma anche operai e infermieri. Perché se le cose che si possono trasportare, in periodo di globalizzazione e con i trasporti a basso costo, si fanno dove costa poco per portarle dove costano tanto, rimangono alcune cose che bisogna necessariamente fare qui. E infatti le cose che si fanno gli immigrati sono le cose che non si possono trasportare: case, strade, buchi per terra e servizi alla persona. O le infrastrutture per le Olimpiadi di Torino 2006, che, se non ci fosse stata la comunità rumena, non si sarebbe riusciti a fare».
Ma per andare oltre alla professione, se a livello statistico non mancano i dati sui «nuovi italiani» provenienti da paesi esteri, pochi sono gli studi in profondità, la raccolta delle cosiddette «storie di vita» delle famiglie immigrate, per capire chi sono, cosa pensano e quali prospettive hanno i nuovi abitanti della penisola.
Si tratta di una realtà in espansione e soggetta a molti cambiamenti. Dove ad esempio alcune famiglie, a causa dei bassi prezzi degli immobili e dell’alta qualità della vita, decidono di lasciare la città per trasferirsi in provincia. Andando a ripopolare quel «Mondo dei vinti», per citare Nuto Revelli, quelle zone «di confine» abitate da contadini e montanari. Nuovi abitanti impiegati in servizi alla persona, nella ristorazione, nell’edilizia ecc. Intere famiglie trasferite in piccoli comuni per costruirsi una nuova vita. Una nuova identità frutto della mediazione tra la loro cultura d’origine e quella del luogo eletto a nuova dimora.
Grazie a questo fenomeno in questi luoghi si vengono a creare reti lunghe tra piccoli comuni e regioni estese, fino alla creazione di consistenti comunità straniere, provenienti da paesi dell’Africa, dal Sud America, dai paesi dell’Est Europa o da paesi orientali.
«In genere gli immigrati arrivano nei grandi centri urbani – continua Ciafaloni – per poi spostarsi lentamente verso le periferie e creare delle catene migratorie minori. Nei piccoli comuni delle zone marginali, come nei comuni montani ad esempio, si possono creare nicchie che si sostituiscono allo svuotamento. Perché se c’è una nicchia ecologica, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Cosa capita poi in provincia con i nuovi arrivi è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto. Perché per cercare di indovinare il futuro bisogna tenere un occhio al mondo e andare a parlare con quelli che ci stanno».
E proprio al fine di conoscere meglio queste nuove realtà artefici, insieme alle comunità originarie, della trasformazione del tessuto socio-economico delle zone di provincia italiane, insieme al collega fotografo Davide Casali, abbiamo avviato un lavoro di raccolta testimonianze nel corso del 2008. Attraverso una serie di interviste in profondità, condotte con lo strumento sociologico dell’«intervista discorsiva guidata», si è raccolta la testimonianza di oltre 12 comunità straniere numericamente rilevanti residenti in altrettante zone di provincia italiane (alcune delle quali presentate di seguito). 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis