Il coraggio di dire «No»

Refusenik: obiettori di coscienza israeliani

Più di 700 militari dell’esercito israeliano, arruolati e riservisti, hanno scelto di rifiutarsi di prestare servizio nei territori palestinesi occupati e obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili: una scelta pagata con umiliazioni e carcere.

Sono i rivoluzionari d’Israele. Pochi ma coraggiosi, e soprattutto nonviolenti, «Pacifisti» con la maiuscola: sono le svariate centinaia di cittadini israeliani, in gran parte giovani, che hanno deciso di rifiutare il servizio militare obbligatorio del proprio paese. Si chiamano refusenik, e si battono per uno scopo ben preciso: evitare di combattere laddove lo scopo non è più «difendere la patria», ma «attaccare la popolazione palestinese», ovvero nei Territori occupati, dove lo stato di Israele si è insediato dalla sua nascita, nel maggio 1948.
Quindi non rifiutano in toto le armi e la divisa di Tsahal (l’esercito israeliano, chiamato anche Idf, acronimo di Israeli defense forces), questi obiettori di coscienza sui generis: piuttosto, esercitano il loro patriottismo prendendo le distanze da quelle che considerano pratiche oppressive: l’invasione di villaggi palestinesi per scopi militari, ma soprattutto la continua avanzata delle colonie israeliane.
Tali insediamenti, sempre più grandi e numerosi (a fine 2008 erano 121, per 2.600 unità abitative e mezzo milione di abitanti), stanno via via erodendo il Territorio della Palestina originaria, oggi ridotta al 22% rispetto a 61 anni fa: quando, oltre alla fondazione di Israele, avveniva quella che viene definita da molti la nakba, la «catastrofe», termine arabo che si riferisce alla cacciata degli abitanti palestinesi dalle terre dove avevano vissuto fino a quel momento.
Il servizio militare obbligatorio in Israele occupa una parte considerevole della crescita di tutta la popolazione. Dai 18 anni in poi (è previsto il rinvio fino alla fine degli studi), i ragazzi lo devono compiere per tre anni consecutivi, le ragazze due. È un periodo davvero lungo, che non ha eguali in nessun altro stato del mondo. Ma non è finita qui: dopo questi anni, si diventa «riservisti», e lo si rimane fino a 40 anni d’età.
Tutti gli anni, ogni cittadino israeliano riservista deve prestare almeno due settimane di esercitazioni nell’esercito. Perché in caso di una guerra in cui non bastassero le forze regolari, chiunque potrebbe essere richiamato alle armi: è successo nell’estate 2006 nello scontro con il Libano, ma soprattutto è accaduto tra la fine del 2008 e l’inizio di quest’anno, nelle tre settimane dell’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Una guerra vera e propria, condotta senza tregua via cielo, mare e terra da Tsahal contro Hamas, il partito palestinese al potere nella Striscia, che ha però provocato almeno 1.300 vittime fra i civili (30% bambini) e la distruzione di centinaia di case ed edifici pubblici.

Una guerra che, come in passato, ha provocato però il netto rifiuto da parte di nuovi refusenik, una ventina in tutto, che si sono aggiunti ai circa 700 che, soprattutto dal 2000, con l’inizio della seconda intifada (la «rivolta», guerra civile che nei primi anni del nuovo secolo ha causato almeno 5mila vittime palestinesi e mille israeliane), hanno rifiutato di servire il proprio paese se impiegati nei Territori palestinesi.
Facendo il passo del «rifiuto motivato», questi ragazzi e ragazze sono diventati oggetto di furenti accuse, soprattutto da parte dei propri marescialli, che non hanno esitato a trascinarli davanti a una corte militare. Come è successo, più volte, a uno dei refusenik più famosi d’Israele, uno dei pochi che, oltre ad aver detto no ai propri superiori, si è esposto anche all’opinione pubblica. Finendo più volte alla gogna.
È questa la storia di Noam Livne, nato 34 anni fa in uno dei tanti kibbutz (una sorta di comunità di famiglie basata sulla vita agreste) d’Israele e residente tuttora a Tel Aviv, la città più «progressista» e tecnologicamente all’avanguardia dello stato ebraico. Negli ultimi anni Noam ha girato università e centri culturali del proprio paese e (forse in misura maggiore) all’estero, per far conoscere al mondo la realtà dei refusenik israeliani: «Una realtà fatta di coerenza, di lotta per affermare i propri ideali, per convincere altri giovani a “uscire dal guscio” e dall’incessante propaganda militare».
Il giovane israeliano, che ci parla mentre passeggia per la città con il suo cane Doobie, in una calda giornata di maggio 2009, è una persona che ha imparato a dosare bene ogni parola, perché sa che c’è molto in gioco, soprattutto per quanto riguarda la sfera personale.
Il suo ennesimo rifiuto a imbracciare le armi come riservista per l’Idf, durante la guerra di Gaza, gli è costato a fine gennaio tre giorni di carcere preventivo, ma soprattutto l’apertura di un nuovo processo di cui non sa ancora le conseguenze.
Quando aveva detto il primo «no» nel 2001, durante, appunto, la seconda intifada, Noam era stato condannato a scontare 22 giorni di prigione. Questa volta potrebbe andare peggio, e di molto. «Mi è stato detto che rischio il processo civile e che la pena può arrivare fino a due anni, mentre quella militare è al massimo un mese», spiega l’obiettore, che attualmente sta svolgendo un dottorato in Matematica all’università di Tel Aviv.
«Non capisco le ragioni di questa minaccia, ma sono pronto ad affrontare il verdetto, perché ho la coscienza pulita. Anche se suppongo che, a quattro mesi dalla fine dell’attacco su Gaza, all’esercito convenga “dimenticarsi” di me, piuttosto che condannarmi con il rischio di scatenare un putiferio mediatico senza precedenti» commenta Noam.

Infatti, proprio questo è il punto: il tenente Livne (prima del rifiuto del 2001, il giovane aveva servito Tsahal per ben sette anni, salendo nei gradi), grazie alla sua azione di disobbedienza civile, nel tempo è diventato celebre in tutto il suo paese. Soprattutto dal 2002, quando, con altri riservisti come lui, ha fondato l’associazione Courage to refuse (Coraggio di rifiutare, Ometz Le’sarev in ebraico), pubblicando su vari mezzi d’informazione nazionali il proprio manifesto politico, ovvero la Lettera dei combattenti, testo in 10 punti che ribadiva le ragioni del «no» alle armi.
Eccone un estratto: «Noi, che abbiamo visto le sanguinose conseguenze dell’occupazione, in entrambe le società, israeliana e palestinese (…) riteniamo l’ordine di combattere nei Territori come la distruzione di tutti i valori con i quali siamo cresciuti; (…) dichiariamo che non parteciperemo mai a guerre per la difesa delle colonie; ma serviremo comunque l’esercito in ogni missione che sia di natura difensiva, quindi non quelle riguardanti l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese».
Una presa di posizione forte, inedita per la società israeliana, che, inaspettatamente, ha riscosso un enorme successo: sono stati ben 628, nel corso degli anni, i soldati o i riservisti che hanno firmato la Lettera dei combattenti. «Ci hanno chiamato traditori, vigliacchi, oppure egoisti. Tentano spesso di convincerci a fare marcia indietro, a ritornare a combattere. Ma io, come gli altri, quando ho scelto la via illegale dell’obiezione di coscienza, e non quella medica (l’esenzione dopo aver sostenuto una visita psichiatrica per cui si veniva considerati alla stregua di “pazzi”, ndr), l’ho fatto perché ero stufo di mentire a me stesso sulle azioni del mio esercito. Per questo ho rifiutato e sono diventato attivista per la pace» chiarisce con voce risoluta Noam.

M a non c’è solo l’associazione Courage to refuse nell’universo dei coraggiosi obiettori israeliani: sono almeno altri tre (ognuno con il proprio sito internet anche in inglese, vedi link sotto) i gruppi molto attivi nel sensibilizzare la gente sull’importanza di non combattere nelle operazioni militari volte a rafforzare l’occupazione dei Territori palestinesi.
C’è, infatti, Breaking the silence (rompere il silenzio), organizzazione di veterani dell’esercito nata nel 2004. Essa si occupa di provvedere un’informazione più trasparente possibile su quanto accade nei Territori. In particolare, gli attivisti di Breaking the silence raccolgono testimonianze dei soldati dal fronte, che poi pubblicano ogni anno in un report omonimo, per far capire l’assurdità delle azioni militari israeliane e l’altro prezzo morale che la popolazione continua a pagare, mandando a combattere giovanissimi in situazioni la cui violenza porterà loro traumi successivi.
Un altro gruppo molto noto anche all’estero, Italia compresa, è Combatants for peace (combattenti per la pace), la cui particolarità è la presenza di entrambi gli «schieramenti»: da una parte soldati israeliani che hanno combattuto nei Territori occupati e che sono oggi obiettori, dall’altra palestinesi che hanno preso parte in passato alla lotta armata di resistenza.
«Oggi siamo uniti nel rifiuto di ogni violenza: siamo comunque rimasti combattenti, ma per la pace, che significa la creazione di due stati indipendenti: uno stato palestinese accanto a Israele» dicono nella loro dichiarazione d’intenti.
Ancora, c’è Yesh Gvul, (in ebraico significa «C’è un limite»), i cui volontari si occupano di supportare sotto tutti i punti di vista ogni refusenik. Tutti questi gruppi possono infine contare su una grossa rete di scambio di informazioni, la Rsn (Refuser solidarity network, rete di solidarietà per obiettori), nata nel 2002 e ancora oggi, soprattutto dopo i bombardamenti di Gaza, molto attiva nell’organizzare momenti di sensibilizzazione («il semplice rifiuto, se passivo, non basta: bisogna agire» recita un motto della Rsn) e nel tenere alta l’attenzione su cosa accade a ogni singolo soldato che dichiara la propria obiezione e che quindi, andando contro l’obbligatorietà del servizio, compie un atto fuorilegge.

Essere refusenik in Israele, oggi, significa essere disprezzato in patria, ma rispettato più che mai altrove. L’appoggio estero alla causa di questi giovani obiettori è enorme, e lo stesso Noam Livne ne è cosciente, in quanto è stato più volte invitato in Europa e Stati Uniti a tenere incontri.
In Italia, in particolare, l’associazione che più lo segue è Mondo senza guerre, che durante l’assedio della Striscia di Gaza ha diffuso via web un video (con i sottotitoli in italiano) in cui Noam spiegava «il no di noi refusenik a una guerra bieca, moralmente inaccettabile. Così come lo è il muro di separazione in Cisgiordania»; lo stesso muro che nel viaggio dello scorso maggio in Israele e nei Territori palestinesi lo stesso papa Benedetto XVI ha definito «sbagliato, destinato a non durare, a essere abbattuto».
Noam si dice contento delle parole del papa, così come dei mezzi di informazione stranieri, «che riescono a dire molte più cose di quelli israeliani, spesso poco obiettivi e manipolatori». Basti pensare che l’appoggio della società israeliana all’offensiva di Gaza è stato riportato attorno al 95%.
Di fronte a questo dato, anche la cifra dei 700 refusenik sembra irrimediabilmente piccola. «La maggior parte di noi, giovani compresi, non vuole vedere la realtà delle cose» aggiunge il tenente obiettore. Ne è un valido esempio il fatto che non abbiano avuto nessun seguito rilevante le tremende dichiarazioni, diffuse ad aprile, di soldati di leva mandati a combattere per le strade della Striscia pochi mesi prima: «Abbiamo sparato a civili inermi, distrutto case, compiuto atti vandalici e di umiliazione verso i palestinesi» dicevano questi militari.
Ma né episodi sconcertanti come questo, né il risultato delle ue, che ha visto trionfare la destra del premier Benjamin Netanyiahu, ostile alla concessione di uno stato palestinese e favorevole al proseguimento dell’avanzata delle colonie (nonostante la richiesta di sospensione del presidente degli Usa, Barack Obama), spezzano la forza di volontà e la lotta nonviolenta di Noam e compagni.
«Ci rendiamo conto che è difficile essere obiettori di coscienza in Israele, oggi più che mai. Ma noi continuiamo il nostro lavoro, perché vogliamo arrivare a vivere un’esistenza normale, non dominata dalla paura e dall’odio, fatta di rispetto reciproco tra noi e i palestinesi: crediamo profondamente che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti» afferma Noam.
Una voce dissonante la sua in patria, ma che l’esercito teme più che mai, forse ritenendola troppo «libera». Per questo, la sua storia e quella degli altri giovani refusenik israeliani va conosciuta e, perché no? diffusa. Dopotutto, la scelta della nonviolenza, nel mondo d’oggi, può ancora provocare «miracoli»: il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (oggi 91enne), sono profeti recenti, del secolo scorso. E se uno di quelli del XXI secolo arrivasse proprio dalla Terra promessa, dandole la pace vera e quindi avvicinando la Gerusalemme terrena a quella celeste? Perché no?

di Daniele Biella

Daniele Biella




Volti e storie di consolazione

Introduzione

Rubo il titolo di questo editoriale all’articolo di Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, da anni impegnata ad offrire «consolazione di strada» a giovani donne impigliate nelle maglie della tratta e avviate a uno squallido futuro di prostituzione. Forse inconsapevolmente Suor Eugenia ha colto lo spirito con cui i missionari e le missionarie della Consolata, attraverso la Commissione Europea di giustizia, pace ed integrità del creato (Gpic), hanno pensato e organizzato questo dossier, pubblicato integralmente o in parte da tutte le nostre riviste.
Dietro le quinte di questo lavoro ci siamo noi, missionari in ricerca,  tesi a scoprire un volto europeo della consolazione da offrire al continente che più, nel passato, è stato fornitore di risorse umane e materiali.  Oggi, l’Europa si scopre invece sempre più terra di missione e quindi da guardare con occhi differenti rispetto al passato. Con quali occhi?

Ridefinire con coraggio la nostra presenza missionaria in Italia e in Europa non è facile. Le sfide nuove che l’analisi congiunturale svela impietosamente davanti al nostro sguardo ci scopre indecisi, frenati, «vecchi» di età e di idee, incapaci di scrollarci di dosso uno stile della missione ad gentes che non è più. Come i pozzi di petrolio anche i nostri bacini di drenaggio economico e vocazionale stanno offrendo valori molto diversi rispetto al passato. Tuttavia, invece di rischiare la scoperta di alternative missionarie, di nuovi stili di presenza o di una nuova spiritualità missionaria incarnata nell’oggi europeo, tendiamo a giocare in difesa, continuando ad offrire vecchie soluzioni a interrogativi nuovi e diversi.
L’incontro dei missionari che operano nei settori di animazione e di giustizia e pace, tenutosi a Fatima lo scorso febbraio, ha espresso l’esigenza di dare una scrollata al nostro modo classico di essere presenti oggi in Europa.  Nel contempo, ha rivelato anche i dubbi, le contraddizioni, le difficoltà che quotidianamente si incontrano nel camminare verso un autentico cambio di paradigma per il nostro stile di essere e fare missione.
Per una volta, però, abbiamo deciso di non «spararci in un piede», torturandoci con cifre e statistiche , ma di raccontare in tutta semplicità ciò che noi facciamo. Come in ogni cammino di conversione vorremmo iniziare a valorizzare ciò che già è presente, realtà,  applicando a noi stessi uno dei postulati della missione, che ci dice che ogni attività di evangelizzazione nasce essenzialmente da una storia che viene narrata.

Il risultato l’avete fra le mani: un piccolo approccio, minimalista ma sincero, alla realtà della nostra missione oggi in Italia, Spagna e Portogallo. Andrebbe corroborato con altri dati, con analisi, riflessioni e progetti… Lo faremo, e anche sulle pagine delle nostre riviste avrete modo di verificare i risultati di tale lavoro. Oggi, però, quello che vogliamo offrire sono le storie di consolazione che suore, padri e laici, figli della Consolata e dell’Allamano, vivono personalmente o di riflesso negli ambienti in cui operano. Alcuni temi emergono con decisione e segnano un interesse specifico, una traccia di cammino che già si è voluta intraprendere: la questione femminile, le periferie urbane, il macrotema della migrazione… ma dietro le quinte di questi grandi scenari si aprono domande di senso su altri aspetti della nostra presenza: quale pastorale, quale animazione, quale stile?

Un fattore pare essere certo: la missione oggi, anche in Europa, è e deve essere una missione di insieme. Molte delle storie che qui trovano spazio narrano relazioni pastorali feconde, dove i carismi degli istituti religiosi si fondono con quelli più propri del mondo laicale, formando un abbozzo di stile di missione che deve ormai essere tenuto presente se si vogliono trovare nuovi ambiti e nuove modalità ad gentes nel nostro continente.
Ancora una volta, sporgendoci idealmente dal coretto del santuario della Consolata in cui il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, soleva ingaggiare lunghe «conversazioni spirituali» con la vergine Maria ci rivolgiamo a lei, madre di ogni consolazione, per avere ispirazione e luce.

di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Consolazione è donna

Spagna

Malaika è una parola swahili che significa «angelo». È anche il nome di un Centro di dialogo e scambio tra fedi e culture diverse che i laici missionari della Consolata spagnoli hanno creato a Málaga. Due di loro ci raccontano la storia di un «angelo» colombiano e di un gruppo di donne da consolare.

Siamo a Málaga, nel Sud della Spagna: una città che si vanta di essere accogliente, terra di transito e  incontro di civiltà e che oggi riceve persone di molte nazionalità diverse. C’è chi per turismo viene a lasciare palate di soldi alla Costa del Sol, chi invece cerca la speranza di un lavoro sicuro e un futuro migliore.
Il Centro di dialogo interculturale e interreligioso «Malaika» nasce qui nel 2005; si interessa soprattutto al fenomeno migratorio, diventando ben presto un punto di riferimento per la città di Málaga nell’accoglienza dello straniero.
Le sue attività si sviluppano in modo particolare su due livelli. A livello individuale, Malaika offre orientamento e accompagnamento  per facilitare al singolo una miglior integrazione nel tessuto sociale cittadino e una più approfondita formazione interculturale a tutte le persone o istituzioni interessate a questo tema. A livello sociale, invece, si propone come un luogo di incontro che favorisce le relazioni interculturali e il mutuo scambio tra la popolazione migrante e quella locale. 
Anno 2006. A Malaika intrecciamo un rapporto stretto con un gruppo di boliviani con i quali riusciamo a organizzare varie attività. Lavorando gomito a gomito ci rendiamo conto di una grande inquietudine all’interno della loro comunità: tre giovani donne boliviane si sono suicidate in uno spazio di tempo molto breve. Impera la preoccupazione e si discute sui motivi che hanno portato a questa serie di atti: la situazione familiare delle tre donne, il lavoro che manca, il contesto ostile in cui molte volte i migranti sono costretti a vivere, ecc. ecc. La cosa peggiore è che, in confidenza, alcune amiche mi rivelano frasi inquietanti che stanno diventando ormai sempre più ricorrenti: «Chissà che non sia stato il modo migliore per risolvere i loro problemi», «sono così sfinita che anche io ho pensato di farlo in alcuni momenti».
Bisogna fare qualcosa. Sappiamo troppo bene come questo tipo di «soluzione finale» possa diventare contagioso. È la Provvidenza a venirci incontro e darci una mano, nella persona di Magali Adriana, arrivata di recente dalla Colombia dove, ci rivela, lavorava con un gruppo di supporto per donne maltrattate e i loro figli. Lei stessa, in passato, aveva vissuto traversie di questo genere e aveva sempre trovato importante poter dare un po’ di consolazione a persone in difficoltà. In Spagna la vita le sta mostrando la sua faccia più dura: qui tutto ciò che ha fatto un tempo sembra non contare niente, nessuno la riconosce per chi veramente è. Sta cercando un lavoro come collaboratrice domestica perché da tempo non riesce più a mandare soldi ai figli rimasti a casa e che stanno studiando, ma sente di essere chiamata anche a fare altro, che la soddisfi in pieno.
Grazie alla presenza e all’entusiasmo di Magali nasce l’idea di formare un gruppo di donne per lavorare su temi come l’autostima, le reti di appoggio sociale, la famiglia, le coppie miste, la società spagnola, ecc. Iniziamo a spargere la voce con associazioni e con immigrati, ricevendo incoraggiamenti e candidature: dalla Bolivia, Colombia, Argentina, Marocco. L’inizio non è facile. Non è infatti normale che queste donne manifestino le loro sofferenze più profonde in pubblico. Per questo cerchiamo l’aiuto di due psicologi, laici missionari della Consolata, che diventano responsabili del gruppo. Si cominciano gli incontri e il gruppo poco a poco prende confidenza, la profondità delle condivisioni aumenta, e le donne cominciano a volersi incontrare più spesso. Si organizzano momenti divertenti dove si cucinano piatti tipici, si balla, si ride e si scherza. L’ambiente si carica di amicizia, la solitudine si allontana dalle loro vite e i momenti di incontro sono ormai numerosi. Con la crescita dell’autostima e il rafforzamento delle reti di contatto alcune donne si iscrivono a corsi professionali; altre, trovano  il lavoro che non riuscivano a conseguire; altre ancora si inseriscono in circoli di immigrati e danno una mano nelle varie attività. Alcune (anche se senza documenti in regola) trovano il coraggio di denunciare abusi nel proprio lavoro. 
Trascorsi vari mesi, alcuni uomini legati alle donne del gruppo chiedono o sono invitati a partecipare alle loro attività, creando di fatto un gruppo misto, ormai perfettamente autonomo. I membri sono diventati volontari di Malaika, si sentono a casa e ci danno una mano nelle nostre attività.
Magali ha finalmente trovato una ragione in più per cui vivere. Si sente consolata da questa opportunità che le è stata offerta di rendersi utile in ciò che sa fare. Ma non soltanto lei ha beneficiato di questa piccola «avventura» del nostro Centro. Grazie a Magali e a questo gruppo di donne un po’ di consolazione è arrivata anche a noi che lavoriamo a Malaika e riceviamo affetto e amicizia di persone che hanno condiviso con noi un breve istante della loro vita. Per non parlare della consolazione ricevuta dalle donne stesse. Le inquietanti frasi di disperazione che tanto ci avevano preoccupato tre anni fa, oggi non sono che un lontano ricordo.

di Silvio e Pilar Testa

Silvio e Pilar Testa




Consolazione in… potenza

Italia

Già sede del noviziato dei Missionari della Consolata, la Certosa di Pesio è una casa di spiritualità, dove centinaia di persone ogni anno trovano riposo, pace e percorsi di rinascita umana e cristiana.

Le mura della Certosa potrebbero raccontare un’infinità di eventi di consolazione, alcuni dei quali si perdono nel tempo, nella storia secolare iniziata con la prima comunità certosina nel 1173. Ma stiamo sull’oggi, parliamo della consolazione che fra questi chiostri trovano religiosi e laici, persone in crisi e bisognose di pace… quanti cammini di redenzione si sono dipanati da questo centro di spiritualità.
Vorrei però accennare a tre storie di consolazione «in potenza». Mi riferisco a tre giovani: Ermanno, Pier Guido e Anna. In questo caso i nomi sono quelli veri, perché immagino sarebbero loro stessi i primi a voler condividere la loro personale storia di consolazione.
Ermanno, torinese, è un giovane molto vivace, intelligente, laureato a pieni voti in lettere. Inizia a seguire alla Certosa il cammino delle scuole di preghiera mensili, partecipa a degli incontri, approfitta di una guida personale del suo cammino di fede. Poco per volta scocca nella sua storia la chiamata alla missione, scopre i missionari della Consolata. Ora sta terminando i suoi studi teologici a Roma, presto sarà ordinato sacerdote missionario della Consolata e girerà il mondo a portare, a raccontare la consolazione di Maria alle genti.
L’altra storia segue la stessa falsariga: è quella di Pier Guido, un giovane di Cuneo, laureato a pieni voti in fisica all’università di Pavia. Anche lui matura questa chiamata alla missione, alle genti, a portare la consolazione del vangelo. Si trova oggi con Ermanno nel nostro seminario teologico di Roma. Si sta portando avanti con gli studi e partirà presto per un’esperienza in Mozambico. Speriamo sia presto ordinato sacerdote tra di noi.
Un’ultima storia che potrei ancora raccontare è quella di Anna, una ragazza come tante, che sente però forte dentro di se il senso della preghiera, dei fratelli, del dono. Frequenta la scuola di preghiera da noi alla Certosa, inizia un cammino di vita spirituale e matura nel suo cuore la decisione di partire per la missione, di essere dono ed aiuto per gli altri. Da un po’ di anni si trova in Brasile, tra i meninhos de rua, i bambini della strada, a vivere questo servizio per cui si sente chiamata come laica missionaria; chiamata a vivere una vita di amore, di tenerezza, di accoglienza per queste persone senza consolazione, con la disperazione nel cuore.
Sono storie semplici, umanamente parlando potranno apparire forse banali, ma mi sembra importante ricordare che una missione in Europa oggi non può prescindere da un richiamo forte alla spiritualità missionaria.  Sono storie che nel loro piccolo raccontano quanto la preghiera e quanto una casa che sia disponibile all’accoglienza dei giovani per aiutarli a pregare, a riflettere e ad approfondire il senso della vita, possa diventare, un luogo preferenziale di consolazione.

di padre Francesco Peyron

Francesco Peyron




Insieme a zambujal

Portogallo

In uno dei quartieri più poveri e disagiati della periferia di Lisbona prende vita un’esperienza di lavoro comune che unisce missionari e missionarie, religiosi e laici, tutti tesi a portare una parola di speranza.

Una serie di grandi costruzioni giallastre e grigie alla periferia di Lisbona, a pochi passi dai modeissimi stadi di calcio del Benefica e dello Sporting, danno ospitalità a circa ottomila persone, esiliate in quest’angolo di Portogallo dalle loro condizioni di disagiati cronici. Reduci portoghesi mai arricchitisi dall’avventura coloniale si ritrovano come vicini di casa coloro a cui prima contendevano la terra mozambicana, angolana e di altri angoli di mondo. Capoverde è ben rappresentato in questo piccolo microcosmo di umanità racchiuso fra le mura sbrecciate dell’edilizia popolare portoghese, che comprende anche un buon numero di rom, cinesi e persone emigrate dai vari paesi dell’Est Europa. È Zambujal, il territorio che dal 2002 i missionari e le missionarie della Consolata, religiosi e laici, hanno scelto per impostare un lavoro di équipe che fosse una risposta evangelizzatrice alle varie frontiere ad gentes che si iniziavano ad aprire anche in Europa.
Abbandono scolastico, disoccupazione selvaggia, lavoro saltuario e precocità nel costituire una famiglia sono fenomeni quotidiani per molta gente che a Zambujal cerca un luogo in cui sopravvivere alla bene e meglio. Le sfide, per chi opera in questo quartiere sono il dialogo interculturale, la formazione di leader per la gioventù e gli animatori di comunità; senza ciò, il tessuto sociale sarebbe assolutamente impermeabile.
Invece, nel quartiere dello Zambujal, la consolazione si è diffusa rapidamente tra le persone che lo abitano. L’équipe missionaria ha saputo creare entusiasmo e in breve tempo lo sforzo di proporre una forma alternativa di vivere è stato concretamente condiviso da molti.  Ci sentiamo una grande famiglia: la gente ci invita a pranzare a casa  loro, ci vuole presenti durante le celebrazioni e le feste tipiche della loro terra d’origine. Le persone si confidano con noi e raccontano con semplicità e spontaneità i segreti della loro vita: hanno fiducia e, al contempo, cresce e si rafforza il loro senso di appartenenza.
Ho sempre creduto che i vari progetti a favore della gente devono formare leader locali, affinché la dipendenza dai missionari sia minima. In questo quartiere ciò avviene e i progetti di pastorale e di sviluppo sorgono uno dopo l’altro per iniziativa della popolazione, che inizia a realizzarli con autonomia e responsabilità.
Nella mia preghiera personale rifletto e cerco di comprendere il valore e il senso della mia presenza nel quartiere – a volte fugace, fragile e spesso segnata dalla stanchezza per altri impegni che mi sono affidati. Tuttavia, con grande meraviglia constato che Dio risponde alla mia preghiera attraverso le persone: ad esempio, quando sono più stanco, sono accolto con maggior attenzione e amicizia dalla gente; quando mi sembra di avere fatto poco, mi accorgo che le persone valorizzano quel poco che ho donato; quando dopo essere stato lontano per un po’ di tempo too la gente mi accoglie e fa festa.
La mia attività nello Zambujal mi ricorda che la missione è fatta soprattutto di presenza, vicinanza, accoglienza: sì, ci vogliono anche le opere, ma si realizza soprattutto attraverso la condivisione della vita che vale molto di più di tanti progetti. Il missionario lascia la sua terra di origine e va incontro alle persone: questo dà valore alla sua presenza là dove è stato inviato.
In diversi momenti della mia vita ho notato come sia importante prendere e sostenere delle iniziative insieme alla comunità, vivendo profondamente  lo spirito di famiglia. Questo spirito unisce anche la comunità eterogenea dello Zambujal: tutti siamo consolatori e al contempo consolati; tutti catechisti e catechizzati.
La gioia che vedo sul volto delle persone quando arrivo nel quartiere è una delle maggiori consolazioni che provo come missionario nella periferia di Lisbona. Rispetto molto le persone  anziane, mi consola la fiducia che pongono in me quando narrano e confidano le pene e le giornie della loro vita.
Gioisco e sono consolato anche dalle conversazioni in creolo, dalla  musica etnica suonata con tanta passione e, soprattutto, dal vibrare all’unisono per gli eventi giorniosi e anche quelli tristi della vita. Questo intrecciarsi di gesti e parole crea un forte senso di appartenenza che non guarda il colore della pelle, ma si fonda sul calore umano, che consola profondamente tutti.
Nello Zambujal la consolazione è attuale e vibrante, bisogna solo essere capaci di donarla e riceverla con umiltà e generosità.

Di Mario Linhares

Mario Linhares




Fine settimana a Castel Volturno

Italia

Missionaria della Consolata, di origine polacca, da più di quattro anni, presta il suo servizio apostolico a Castel Voltuo nella Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, per gli immigrati. Qui operano i Missionari Comboniani affiancati dalle Suore Nigeriane del Sacro Cuore e alcuni laici volontari.

Arrivai a Castel Voltuo il sabato pomeriggio e cominciai a camminare lungo la strada principale. Scorto un mercatino improvvisato sul marciapiede della via Domitiana, mi avvicinai a quattro donne e altrettanti uomini, di nazionalità polacca, che vendevano oggetti di artigianato. Mi dissero che da due mesi giravano in questa zona, con la merce, ed abitavano nel loro piccolo furgone. Mi raccontarono come la crisi economica li aveva costretti a fare questa vita per guadagnare qualche euro: tutti speravano di poter tornare al più presto in Polonia. Toando verso la parrocchia incontrai tre giovani donne polacche: Elisabeth, Margherita ed Evelina. Erano arrivate il giorno prima dalla Polonia, con il solito pulmino settimanale. Mi raccontarono di aver letto su di un giornale, in Polonia, del viaggio-offerta che assicurava anche un lavoro, in Italia, il tutto per 200 euro. Una volta arrivate a destinazione, però, vennero «scaricate» a Castel Voltuo in una casa gestita da una «mediatrice» del lavoro, alla quale avrebbero dovuto versare un’altra somma di denaro per saldare il debito contratto per arrivare in Italia a inseguire il proprio sogno.
Questa è la storia del mio primo fine settimana passato per le strade della mia nuova missione. Castel Voltuo, in provincia di Caserta, è un paese che si estende per ventisette chilometri lungo il mare, attraversato in tutta la sua lunghezza dalla via Domitiana. Qui, vivono alcune migliaia di immigrati, la maggioranza proveniente dalla Nigeria e dal Ghana. La loro situazione è difficile, perché non riuscendosi a mettere in regola e trovare un lavoro, cadono molto spesso nelle mani della malavita organizzata che li usa come mano d’opera a basso prezzo nel traffico della droga e della prostituzione. Negli ultimi anni, dall’Est Europa, c’è stato un forte e costante afflusso di immigrati, tra cui parecchi polacchi, che settimanalmente arrivano in cerca di lavoro. In Polonia si pubblicizza che in Italia c’è la possibilità di lavorare e di guadagnare tanti soldi. Chi organizza questi viaggi fa pagare molto, sia il trasporto, sia l’indirizzo del presunto datore di lavoro. Queste promesse molte volte finiscono male a causa di tanti «imbroglioni» polacchi e italiani, che guadagnano a spese di chi è in cerca di un lavoro.
La Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, gestita dai Missionari Comboniani costituisce un punto di riferimento per i Polacchi: qui si ritrovano e ricuperano la loro identità cristiana e nazionale, le principali festività religiose Natale e Pasqua sono celebrate secondo le tradizioni e diventano momenti di aggregazione e frateità. Molti immigrati polacchi, inoltre, chiedono di preparare i figli nati a ricevere il sacramento del Battesimo e di amministrare la Cresima a quelli che sono venuti con loro dalla Polonia. Non mancano poi, le giovani coppie, che chiedono di celebrare il matrimonio in chiesa. Qui vengo il fine settimana per prestare un servizio di pastorale missionaria tra le donne, le ragazze e i lavoratori del mio paese.
Oltre alle attività propriamente religiose, il mio compito è quello d’incontrare e ascoltare le persone che incontro lungo la strada, in parrocchia o nelle famiglie.
Sì, anche qui, c’è la missione «ad gentes», che ci spinge ad aprire gli occhi e il cuore e ad andare incontro alle persone accettando la loro realtà culturale, linguistica, religiosa e, soprattutto, a farsi carico della loro sofferenza, pronti ad accogliere e a consolare coloro che incontriamo sul nostro cammino.

di suor Krystyna Jaciow

Krystyna Jaciow




Volti, storie e speranze

Italia

Storie brevi, quasi delle istantanee di sofferenza e disperazione di donne in cerca di consolazione.

Mercy, nigeriana, viene portata in Italia a 14 anni e venduta da uno zio a trafficanti di esseri umani; messa sulla strada, viene recuperata dalla polizia ed è accolta in una comunità per minori; perde i contatti con la famiglia che ritrova solo dopo 6 anni, grazie all’interessamento e al lavoro di rete tra le congregazioni religiose. Ritrova la mamma e la famiglia che la credevano morta, sparita nel nulla. Commovente è stato il contatto telefonico tra madre e figlia dove le lacrime hanno dato spazio ad una profonda riconoscenza al Signore che veglia sui suoi figli come una madre.
Joy, 19 anni, primogenita di 8 figli, lascia la famiglia per aiutare i fratellini a frequentare la scuola. Durante il lungo ed estenuante viaggio attraverso il deserto del Sahara è violentata da tante persone dalle quali non può sottrarsi: rimane incinta.
Per sei mesi lavora sulla strada per pagare il grosso debito di 60 mila euro contratto, senza saperlo, con l’organizzazione criminale. Nessuno sa della sua gravidanza, tranne alcune persone di una «unità di strada» che la seguono e la convincono a lasciare la strada. Finalmente, viene accolta in una delle case-famiglia gestite da religiose e accompagnata con amore ad accogliere, se pur faticosamente, il dono della vita, frutto di  violenza e  umiliazione. È stata questa nuova vita che ha dato a questa donna consolazione e gioia. Ricordo il suo commento dopo la nascita della bimba: «Senza il vostro aiuto, non solo ora non ci sarebbe la mia bambina, ma non ci sarei più nemmeno io, perché la vita per me non aveva più senso».
Sonia, 18 anni appena compiuti, viene presa dalla strada, durante un controllo della polizia e portata al Cpt (Centro di Permanenza Temporaneo) di Roma, perché priva di documenti; in 15 mesi aveva fruttato alle sue tre sorellastre che l’avevano portata in Italia la somma di 55 mila Euro. Sulla strada, per la sua giovane età, era molto ricercata.  A Ponte Galeria incontra le suore che ogni sabato visitano il Centro e che, conosciuta la sua storia, cercano di aiutarla ad uscire dal giro. Viene accolta in una casa-famiglia e segue un programma di reintegrazione sociale. Quale consolazione più bella e più grande di quella di dare ad una giovane morta e distrutta dentro, la gioia e la voglia di vivere e di sperare?
Gloria, 22 anni appena compiuti, lavora sulla strada per pagare il grosso debito contratto con i trafficanti e sanzionato con i riti «voodoo», davanti allo stregone, prima di lasciare la Nigeria. Sulla strada uno dei «clienti» la vuole portare in casa, la ragazza rifiuta e l’uomo si vendica gettandola da un ponte: il suo corpo senza vita viene ritrovato il giorno dopo. Nonostante non abbia documenti attraverso i contatti con alcune suore nigeriane e l’interessamento delle medesime riusciamo a contattare la famiglia e a comunicare la triste notizia. Per l’anziano padre insieme alla grande sofferenza è stato di grande conforto e consolazione  sapere che qualcuno si era preso cura della figlia uccisa e l’ha sepolta in un paesino di montagna.
Jennifer, giovane donna di 27 anni e madre di due bambini lasciati in Nigeria, ha toccato profondamente la mia vita e il mio servizio missionario in Italia. Viene in Italia ed è costretta a vendere il suo corpo come oggetto di piacere  diventa una fonte di guadagno per i trafficanti.
Jennifer lavora in diverse città italiane e una notte, durante l’attesa dei clienti, lungo una delle tante strade dove sostava un’arma da fuoco la colpisce; rimane in coma per diverse settimane ed al risveglio si ritrova paralizzata agli arti inferiori perché un proiettile le aveva perforato il midollo spinale. Durante i lunghi mesi di degenza e di riabilitazione la visito sovente e la seguo. Jennifer chiede di ritornare a casa per rivedere i suoi bambini. Ritorna in Nigeria su di una sedia a rotelle.
L’anno seguente ero in Nigeria e andai a trovarla nella sua capanna, dove l’anziana madre l’assisteva. Non dimenticherò, la gioia, la sua sorpresa nel vedermi, ma soprattutto il sorriso carico di riconoscenza per la consolazione che la mia presenza portava in quella casa: non riusciva a credere che fossi proprio io!
Jennifer è mancata due mesi dopo la mia visita, il giorno di Pasqua: ha terminato di soffrire.
I miei racconti potrebbero continuare e disegnare gli anelli che formano la lunga catena della nuova schiavitù del 21º secolo, che imprigiona tante persone, ma che, come Missionaria della Consolata, cerco di spezzare offrendo ad ogni donna il dono della consolazione vera, della gioia di vivere e di amare, di cantare e danzare alla vita.
Termino questa condivisione accennando alle settimanali visite al Cpt di Ponte Galeria fatte insieme ad un gruppo di 15 religiose provenienti da 13 paesi diversi, che offrono un’assistenza pastorale e religiosa alle donne straniere, in attesa di espulsione, perché senza i documenti.
Il Centro ha una capienza di 180 posti letto e le donne che incontriamo ogni sabato vivono questa esperienza con sofferenza e a volte con disperazione; infatti, tutti i loro progetti per aiutare la famiglia vanno in frantumi perché vengono rimandate a casa a mani vuote e con l’umiliazione di essere state vendute, comperate e scambiate come merce.
La nostra presenza settimanale in questo Centro vuole donare a queste donne la possibilità di condividere un momento di preghiera e di riflessione affinché attraverso la ricchezza della parola di Dio, forza e sorgente di ogni consolazione, possano trovare il coraggio di sperare e, nonostante l’umiliazione e il fallimento, aprirsi a nuove opportunità che la vita può loro offrire.
La triste esperienza che hanno vissuto non può e non deve essere la fine, ma al contrario, deve mostrare loro che un avvenire di serenità e prosperità è ancora possibile.
Il nostro impegno e servizio ci chiede di donare la vera consolazione a quanti incontriamo nel nostro cammino quotidiano e toccare, così, il cuore e la vita di tante donne e dire: “La vostra schiavitù” è finita, anche voi siete consolate dall’amore di Dio e dalla nostra solidarietà e vicinanza.

Di suor Eugenia Bonetti



Eugenia Bonetti




Intrecci di solidarietà

Italia

La storia di un lungo viaggio attraverso i sentirneri di carte bollate e di cavilli burocratici, raccontato da chi, per lunghi anni, è stata una presenza di consolazione nell’Ufficio di Pastorale Migrantes (Upm) di Torino. Un breve racconto a lieto fine, pieno di luci ed ombre, pregiudizi, paura, ma anche tanta tenacia e incrollabile speranza.

Conobbi Sandra nel luglio 2007; era venuta al nostro Centro, incinta di due gemelli, per chiedere un sostegno e un aiuto. Nigeriana, 28 anni di età, conviveva con un connazionale dal quale aveva avuto una bimba riconosciuta da entrambi.
Quando si trovò incinta di due gemelli, il convivente voleva che Sandra abortisse, ma lei rifiutò e lui se ne andò. 
La nuova vita che attendeva, per lei, donna africana, non poteva che essere portatrice di speranza e gioia: «La vita è di Dio e nessuno può toglierla», mi disse. Le sue convinzioni culturali e religiose non le consentivano di abortire. Per questo Sandra, ormai sola, con una bimba di due anni, al quinto mese di gravidanza, si rivolse al Centro Migranti.
Mentre si avvicinava la data del parto, oltre ai problemi della sopravvivenza si aggiunse anche quello dell’abitazione: doveva lasciare l’appartamento perché non poteva più pagare l’affitto!
Cominciammo le ricerche e, finalmente, trovammo per Sandra una sistemazione provvisoria, segnalando immediatamente il caso anche all’«Ufficio stranieri minori» del Comune di Torino che riuscì ad inserirla in una comunità nei dintorni del capoluogo: era il primo ottobre del 2007. Il 25 novembre, nacquero Daniel e David!
La gioia per la nascita dei bimbi fu grande, ma per Sandra i problemi si moltiplicarono: le era scaduto il permesso di soggiorno che aveva ottenuto a Brescia, dove aveva lavorato prima della gravidanza.
Incredibile, ma vero, per uno sbaglio nella compilazione dei moduli, la questura bresciana rifiutò il rinnovo. Si tentò il ricorso, ma l’avvocato non se ne interessò. I ricorsi costano e se non si possono pagare…! Tutto si arenò. Coinvolsi l’Ufficio Diocesano Migrantes di Brescia, che ci aiutò moltissimo, riuscendo a far accettare l’integrazione dei documenti.
Nel maggio del 2008, Sandra ebbe di nuovo tra le mani il sogno di ogni emigrante: il permesso di soggiorno, valido però solo fino a luglio del 2008.
Il rinnovo era condizionato dall’avere un lavoro sicuro, regolarizzato, che dimostrasse che l’interessata aveva un reddito compatibile per il mantenimento suo e dei figli: 10.300 euro all’anno, richiesto dalla legge.
Come poteva, questa donna nigeriana trovare un lavoro in breve tempo con tre bimbi, due dei quali di pochi mesi? Inoltre, di lì a poco avrebbe dovuto lasciare la comunità che la ospitava.
Furono momenti di desolazione per tutti. Dove e come trovare una struttura che accogliesse la famigliola, dal momento che era impossibile per la donna trovare un lavoro a tempo pieno, che rendesse diecimila euro? Dopo molte ricerche trovammo un’Associazione che se ne fece carico.
Ma il calvario di Sandra non era ancora finito. Purtroppo, la soluzione non fu ottimale per la carenza ed inefficienza nella gestione della struttura.
Sorsero altre difficoltà, sì da far pensare, che la cattiva sorte perseguitasse Sandra e i suoi piccoli. Il ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno della questura di Brescia, generò un errore anagrafico nei documenti dei gemelli. Nati nel torinese, risultavano residenti in Nigeria, perché la madre è nigeriana e non aveva ancora la residenza a Brescia. Questo disguido impedì a Sandra di inserire i bimbi all’asilo nido municipale e di conseguenza di poter cercare e trovare un lavoro. L’irregolarità della sua situazione civile impediva anche all’assistente sociale di venirle incontro, visto che i quattro non risultavano residenti.
La situazione era veramente drammatica e Sandra era esasperata al punto da decidere di cercare qualcuno che portasse i bambini in Nigeria, presso la sua famiglia di origine, anche se poverissima, affinché lei potesse trovare un lavoro che le consentisse di vivere e di mandare parte dei soldi nel suo paese per il mantenimento dei figli. Cercai, senza sosta, un’altra struttura che potesse accoglierla e aiutarla. La Caritas di Asti rispose all’appello, capì la gravità della situazione e decise di farsene carico, accogliendo Sandra e i figli nella sua struttura: la sostenne e l’aiutò a risolvere i problemi burocratici negli uffici dell’anagrafe e in quelli della questura.
L’Associazione Amici Missioni Consolata di Torino da alcuni anni devolve un’offerta all’Ufficio Pastorale Migranti, per le donne in difficoltà; il mio pensiero corse immediatamente a Sandra, per cui presentai la sua situazione. L’Associazione accolse con entusiasmo e con tanta sensibilità la situazione di questa ragazza e se ne fece carico.
I vari interventi consentirono a Sandra di far fronte alle spese più urgenti per lei e per i bambini. Alcuni amici di Asti, poi, riuscirono a trovarle un lavoro, come badante, presso una famiglia. Anche qui, però, sorse una difficoltà: i datori di lavoro non volevano regolarizzarla. La regolarizzazione per Sandra era fondamentale, era la sola condizione posta dalla questura per poterle rinnovare il permesso di soggiorno.
Un intervento della responsabile della Caritas sbloccò la pratica e si riuscì ad ottenere la legalizzazione lavorativa. Per Sandra iniziò una nuova vita.
La nuova situazione le fece accantonare il progetto di rimpatriare i bambini. Inoltre, comprese che non era più sola, ma aveva una rete di persone, che Sandra chiama «famiglia allargata», che si occupava di lei e dei suoi figli.
La storia di Sandra è simile a quella  di centinaia di donne che si presentano al nostro Centro.
Quando la donna straniera non è guardata come «l’altra» o «la donna che sbaglia», quando c’è sinergia tra il pubblico e il privato e gli interventi di carità e di solidarietà s’intrecciano; quando sorgono persone disposte a dare voce a chi non ce l’ha, allora la speranza si riaccende e si comprende che un mondo diverso è possibile.
Dio, oggi come nei tempi antichi, sente il grido del suo popolo oppresso e sfruttato, se ne prende cura: lo libera, lo guida, lo protegge, lo consola e lo sostiene con la sua Provvidenza. Oggi, come ieri, non interviene da solo ma si affida a noi per continuare a compiere le sue grandi opere nello scorrere del quotidiano.

di Suor Maresa Sabena

Maresa Sabena




Uruguay. Piccolo e orgoglioso

Schiacciato tra Argentina e Brasile, l’Uruguay è un paese semisconosciuto. Eppure ha una storia importante, anche in relazione all’Italia. Lì ha vissuto Giuseppe Garibaldi, lì sono arrivati migliaia di emigrati italiani (quasi il 40 per cento della popolazione è di origine italiana). Ed oggi… Un reportage da Montevideo.

Montevideo. C’è un poliziotto quasi ad ogni incrocio. Eppure la città – la parte vecchia della capitale uruguagia – sembra deserta di persone e di auto. È domenica, uffici e negozi sono chiusi. Spinti da una curiosità che necessita di soddisfazione, domandiamo ad un agente con una pettorina giallo canarino: «Perché c’è un poliziotto ad ogni angolo?». «Perché – ci risponde gentilissimo (probabilmente felice di rompere la noia della mansione) – quando attraccano le navi da crociera la sicurezza nella  zona della città vecchia viene rafforzata per proteggere i turisti che sbarcano a terra». E, infatti, al porto è attraccata una nave da crociera, tanto grande che pare una città galleggiante.
Il porto di Montevideo dista da quello di Buenos Aires poco più di 3 ore, ma è spesso preferito dalle imbarcazioni perché, a differenza del secondo, guarda direttamente sull’Oceano Atlantico, invece che sul Rio de la Plata. Per questo qui attraccano le navi delle grandi compagnie crocieristiche – Princess Cruises, Royal Caribbean, Norwegian Cruise Line, tra le principali -, che sbarcano migliaia di persone al colpo. Sono turisti mordi e fuggi, che scendono a terra intruppati e spesso con la paura di essere scippati, aggrediti, imbrogliati. Si fanno fotografare davanti ad un monumento, non hanno tempo per parlare con la gente del posto a meno che non si tratti del cameriere o del venditore di souvenir.
Peccato, perché l’Uruguay meriterebbe attenzione, nonostante sia schiacciato – fisicamente, politicamente e mediaticamente – dai due grandi paesi confinanti, il Brasile e l’Argentina.

Provenendo da Buenos Aires, metropoli sfavillante e vibrante di vita, una persona potrebbe giudicare Montevideo una città sonnolenta. Ma la prima apparenza non sempre è quella giusta. Come ha scritto, con mirabile autornironia, Eduardo Galeano: «Noi uruguayani, malinconici, poco reattivi, che sulle prime sembriamo argentini col valium» (1). Appunto, sulle prime.
Ricordiamo allora alcuni fatti di sostanza. Lungimiranti ed antisignani – alla luce dell’attuale crisi planetaria – sono stati gli uruguayani quando furono chiamati a decidere su questioni di vitale importanza. Con i referendum del 1992, essi hanno respinto – con una maggioranza del 72% – le proposte che miravano alla privatizzazione delle imprese pubbliche. E nell’ottobre 2004 sono stati straordinari nel dire «no» alla privatizzazione dell’acqua, richiesta dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale (2). In seguito a quel referendum, la costituzione del 1967 è stata integrata. Oggi l’articolo 47 della carta fondamentale dell’Uruguay recita così: «L’acqua è una risorsa naturale essenziale per la vita. L’accesso all’acqua potabile e l’accesso alla bonifica costituiscono diritti umani fondamentali» (3).
Un altro momento che ha evidenziato la maturità del paese riguarda la politica intea. Il movimento guerrigliero dei «tupamaros», che lottò (e perse) contro la dittatura militare, è stato recuperato alla politica ed è riuscito a diventare il secondo partito in parlamento (con il nome di «Movimiento de partecipación popular») ed il primo nella maggioranza di centrosinistra («Encuentro progresista-Frente amplio»). Anticipando di qualche anno quanto poi sarebbe accaduto nel Salvador, dove nel marzo 2009 sono arrivati al governo gli ex guerriglieri del «Frente Farabundo Martí para la liberación nacional» (Fmln).
Dalle fila del Frente amplio è uscito Tabaré Vázquez, attuale presidente del paese latinoamericano.

Nella vita, Ramón Tabaré Vázquez fa il medico oncologo. Dal 2005 è presidente dell’Uruguay, primo capo di stato progressista nella storia del paese latinoamericano, dopo 150 anni di governi conservatori tra Blancos e Colorados (i due partiti egemoni fino al 1971, anno della nascita del Frente amplio) e il decennio della dittatura militare. In questi anni, l’Uruguay è cresciuto, ma il percorso del dottor Tabaré Vázquez non è stato e non è semplice.
Due fatti hanno reso difficili questi anni, uno di natura internazionale e l’altro interno. Il primo riguarda i rapporti con l’Argentina, divenuti tesi da quando – era il 2002 – il governo di Montevideo decise di costruire due grandi cartiere (papeleras, in spagnolo) sulle acque del Rio Uruguay, fiume che funge da confine tra Uruguay ed Argentina. Gli argentini contestano la presenza delle industrie perché produrrebbero un grave inquinamento.  Da allora, ci sono state periodiche proteste delle popolazioni argentine che vivono nei  pressi degli impianti produttivi, mentre i due governi si sono dati battaglia legale negli ambiti inteazionali (Mercosur e Corte internazionale di giustizia), senza riuscire a trovare una soluzione.
Il fatto interno è stato ancora più devastante, perché ha guastato i rapporti del presidente con la sua coalizione. Tabaré Vázquez ha posto il veto presidenziale alla legge di depenalizzazione dell’aborto, votata dal parlamento. La norma mirava a cancellare una vecchia legge del 1938, il cui articolo 325 afferma che «la donna che causa il suo aborto o lo consente sarà punita con la prigione da 3 a 9 mesi» (4).
Intanto, a fine giugno, ci sarà un altro passaggio importante per la coalizione al potere: con elezioni intee il Frente amplio sceglierà il proprio candidato per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2009. A contendersi la nomina, ci sono 3 candidati, ma 2 sono quelli forti: il moderato Danilo Astori, economista liberista ed ex ministro dell’economia e delle finanze, e José Mujica detto el Pepe (5), ex guerrigliero tupamaro ed ex ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca.

Eduardo Galeano ha parlato di «un paese ignorato, un paese quasi segreto, chiamato Uruguay». Forse anche per questo è diventato un paese vitale e capace di sorprendere. Come ci ha confermato l’anonimo artista di strada di Plaza Constitución che, vedendoci andare in direzione del porto, così ci ha salutato: «Buen viaje! Y no se olviden de ser felices!». Ovvero: «Buon viaggio! E non dimenticatevi di essere felici!».

Paolo Moiola

(1)  Eduardo Galeano, Duopolio addio. L’Uruguay va ai vinti, il Manifesto 2 novembre 2004 e Latinoamerica n.89/4.2004.
(2) Si legga: Gennaro Carotenuto, La rivincita di Tupacamaru, Latinoamerica n.89/4.2004; Raúl Pierri, No a la privatización del agua, Ips, 31 Octubre 2004.
(3) Testuale: «El agua es un recurso natural esencial para la vida. El acceso al agua potable y el acceso al saneamiento constituyen derechos humanos fundamentales».
(4) Il presidente ha però firmato la nuova legge sul testamento biologico, approvata il 18 marzo 2009.
(4) Si veda il blog: www.pepetalcuales.com.uy.

Paolo Moiola




Come nacque la terra dei «gauchos»

Dall’indipendenza ai giorni nostri

Terra schiacciata prima dai colonizzatori portoghesi e spagnoli, poi da Brasile ed Argentina, l’Uruguay si guadagnò l’indipendenza nel 1825. Ospitò i rivoluzionari che scappavano dall’Europa. Uno di loro si chiamava Giuseppe Garibaldi. Durante le guerre mondiali, grazie al commercio della carne, visse periodi di abbondanza. Poi arrivò la crisi e con essa la dittatura. Con il ritorno della democrazia, ai due partiti storici «Blanco» e «Colorado», entrambi  conservatori, si affiancò il «Frente amplio», che oggi governa il paese.


Un tempo l’Uruguay era considerato la Svizzera dell’America Latina. All’inizio del Novecento, unitamente al Brasile e all’Argentina, attirò schiere di emigranti europei, in buona parte italiani. A tutt’oggi si calcola che quasi la metà della sua popolazione sia composta da discendenti del Bel paese. Pur piccolo geograficamente, l’Uruguay nel panorama dell’America Latina si presenta come una nazione per certi versi straordinaria. Dall’indipendenza (1825) ha sempre avuto (salvo alcuni periodi) governi eletti democraticamente e a suffragio universale. Ha introdotto molto tempo prima dell’Inghilterra l’istruzione elementare, gratuita, laica e obbligatoria per tutti i bambini che vivevano sul suo territorio. Ha dato il voto alle donne molto prima (era il 1932) di gran parte dei paesi europei e sin dall’inizio del Novecento la giornata lavorativa era di otto ore, molto prima che negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Anche la legge sul divorzio venne promulgata decenni prima che in Spagna e in Italia.

All’inizio del XIX secolo, grazie all’opera di José Gervasio Artigas e ad un gruppo di Libertadores, risoluti, con l’aiuto dell’Inghilterra, l’Uruguay conquistò l’indipendenza e si consolidò come stato sovrano a spese dei due grandi imperi coloniali concorrenti Spagna e Portogallo, e poté affermarsi nel consesso delle nazioni in quanto la potenza coloniale inglese, che stava sostituendosi a quella spagnola, anelava avere il controllo di almeno una delle due sponde del Rio de la Plata per potere più facilmente controllae i commerci sia marittimi che fluviali. Sulle ceneri coloniali dei paesi iberici sorsero due grandi nazioni: Brasile e Argentina, che in una certa qual misura ereditarono lo stile imperiale delle rispettive potenze che le avevano generate. L’Uruguay, pur nella sua piccolezza, riuscì a conservare l’indipendenza diventando per tutto l’Ottocento il paese che dava ospitalità a quanti in Europa lottavano contro l’assolutismo regio imperante nel vecchio continente. Non è certamente un caso che schiere di carbonari italiani come di patrioti ricercati dalle polizie di mezza Europa, trovarono rifugio a Montevideo, mettendo così a disposizione di questa piccola Patria d’adozione il loro ardore rivoluzionario e le ansie di libertà che si portavano dentro.
Tra questi «ribelli», la figura di spicco resta Giuseppe Garibaldi (esiliato in America Latina dal 1835 al 1848), che il governo uruguayano del tempo, a fronte delle minacce d’invasione (per non dire di annessione) delle due potenti nazioni vicine, nominò comandante in capo della sua marina militare. Garibaldi seppe, nonostante l’esiguità dei mezzi vincere alcune battaglie che da quel momento lo consacrarono come l’eroe dei due mondi. Le stesse «camice rosse» che i garibaldini indossarono nel periodo del nostro Risorgimento, erano confezionate con stoffa scarlatta che il governo uruguayano aveva regalato al nostro eroe per i servizi resi e che lui non riuscendo a piazzare sul mercato, trasformò in uniforme da battaglia per la spedizione dei Mille.

Grazie ad un territorio molto esteso (parliamo di circa 180 mila chilometri quadrati), scarsamente  popolato, ben presto l’allevamento del bestiame si trasformò in fonte di ricchezza e il porto di Montevideo diventò lo sbocco naturale per una vasta area di territorio, che comprendeva diversi paesi i quali trovavano in quel porto, marittimo e fluviale allo stesso tempo, l’approdo ideale per i loro commerci. L’Uruguay beneficiò di questa situazione favorevole, soprattutto durante i due conflitti mondiali, in quanto potèrifornire della carne bovina ed ovina prodotta nelle immense praterie del suo territorio parecchie nazioni impegnate sull’una e sull’altra parte dei vari fronti bellici. Questa «pacchia» durò fino agli anni ’50 con la guerra di Corea. Le esportazioni di carne diedero al paese una solida riserva di valuta estera che  permise al «pesos», la moneta nazionale di competere con il dollaro degli Usa.
Purtroppo, la classe politica formata dai due partiti tradizionali – il «Blanco», espressione degli interessi agrari, ed il «Colorado» rappresentante della borghesia legata alle attività del porto di Montevideo – non seppe reinvestire le ingenti somme a disposizione per migliorare mezzi e processi di produzione, preferendo la speculazione finanziaria e favorendo il consumo di beni voluttuari. Tutto ciò portò all’aumento dell’inflazione, al crollo dell’occupazione e ad un inasprimento delle tensioni sociali, la recessione entrò quindi al galoppo nella realtà uruguayana scatenando forti reazioni nei settori più colpiti dalla crisi; sorse pertanto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, un vasto movimento di massa capeggiato dalla «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt), che si oppose tenacemente alle indicazioni del «Fondo monetario internazionale», che cominciava a dare delle direttive che avrebbero pesantemente condizionato la politica finanziaria ed economica dell’Uruguay. Parallelamente sorse il «Movimento di liberazione nazionale tupamaros» (leggere il riquadro alle pagine 30-31), che fu protagonista di azioni eclatanti che ebbero un forte impatto nazionale ed una vasta risonanza mondiale.

Nel 1971 fu fondato il «Frente amplio», coalizione di centrosinistra  formatasi attorno ad un programma progressista che candidò il generale a riposo Liber Seregni alle elezioni presidenziali dello stesso anno. Le elezioni furono però vinte da Juan Maria Bordaberry del partito Colorado. Il partito Blanco denunciò brogli rifiutando di accettare il verdetto elettorale: tra caos politico, crisi economica e malessere sociale, si creò una situazione incandescente che spinse le forze armate ad intervenire con un colpo di stato. Sciolsero parlamento, partiti e sindacati, instaurando quindi un regime dittatoriale basato sulla «dottrina della sicurezza nazionale», appresa dalle alte gerarchie militari, nel campo di addestramento di Panamà (la famigerata Escuela de las Americas), gestito e diretto dagli Stati Uniti.
A livello economico applicarono le teorie neoliberali che portarono alla concentrazione della ricchezza nelle mani di diverse multinazionali straniere, riducendo il salario  a meno della metà del potere d’acquisto precedente. Quello fu uno dei periodi più tristi e bui della recente storia uruguayana, i militari diffusero un clima di paura, attuarono un programma di detenzioni arbitrarie, applicarono con  metodi scientifici la tortura sui prigionieri politici, causando di conseguenza l’abbandono del paese di migliaia di persone che si rifugiarono all’estero. Nel 1980 i militari al potere indissero un referendum attraverso il quale intendevano istituzionalizzare il loro regime autoritario; questo referendum fu sonoramente bocciato ed ebbe il merito di far capire che non si poteva continuare su una strada di totale mancanza di libertà e autoritarismo generalizzato.
Lentamente l’opposizione si riorganizzò e in forza anche di un aumento spropositato del debito estero, i militari aprirono la possibilità di un timido ritorno alla  legalità. Nel frattempo, si moltiplicarono le manifestazioni di disobbedienza civile, pacifiche e nonviolente che offrirono al mondo intero l’immagine di un popolo che voleva riappropriarsi della sua storia. Dopo uno sciopero generale coraggiosamente portato avanti dall’intera popolazione nel gennaio del 1984, si riannodarono i colloqui tra la giunta militare e i partiti politici e si avviò un processo di ritorno alla vita democratica in cui venivano coinvolti tutti coloro che nella notte buia della dittatura erano stati esclusi. Lentamente riprese vita tutto ciò che caratterizza un moderno stato rispettoso della Costituzione e dei diritti dell’uomo anche se la ferita dei desaparecidos, dei torturati e degli esiliati, fu traumatica e lacerante e resta tutt’ora aperta  nel tessuto sociale del paese. Con le elezioni del 1984 i militari uscirono di scena con l’impegno che i governi seguenti non avrebbero portato sul banco degli imputati i responsabili delle efferatezze compiute.

Alle elezioni del 1989 il Frente amplio si affermò a Montevideo, dando per la prima volta nella storia del paese un’amministrazione di centrosinistra ad un governo municipale. Logorati da divisioni intee e contrassegnati da atteggiamenti passivi ed ignavi di fronte alla dittatura, i due partiti tradizionali che si erano spartiti il potere tra di loro per quasi due secoli, vennero superati, nel 1999 da una nuova formazione politica denominata «Incontro Progressista», che oltre a recuperare tutte le forze del Frente amplio, seppe integrare al proprio interno anche il movimento dei tupamaros, che accettarono di entrare nell’agone politico con i loro leader più rappresentativi. Il nuovo clima  instauratosi favorì nel 2004 l’elezione di Tabaré Vázquez, primo uomo di sinistra ad accedere alla suprema carica di capo dello stato, ottenendo inoltre la maggioranza assoluta alle Camere.
Sul piano interno il primo atto di Vázquez fu di avviare un piano di emergenza di due anni per rispondere ai bisogni alimentari, sanitari ed educativi della popolazione; in politica estera firmò un accordo con il Venezuela di Hugo Chávez in base al quale il petrolio caraibico veniva acquistato a prezzi contenuti, favorendo nel contempo l’esportazione di prodotti alimentari dall’Uruguay al Venezuela. Riallacciò le relazioni diplomatiche con Cuba (rotte nell’aprile 2002), mentre con l’Argentina firmò accordi su diritti umani ed emigrazione in base ai quali i due paesi, segnati entrambi da devastanti dittature militari nel recente passato, si sarebbero impegnati reciprocamente a fornire informazioni relative ai desaparecidos delle nazioni rioplatensi, al fine di far chiarezza sui numerosi «buchi neri», che hanno costellato la loro storia.

di Mario Bandera


Cronologia storica essenziale
Dai charrua ai giorni nostri

Secolo XVI – La regione è popolata da 3 gruppi autoctoni: i charrúa, i chaná e i guaraní.
1517-1527 – Arrivano i primi esploratori dei popoli colonizzatori: Juan Diaz de Solis e soprattutto Sebastiano Caboto.
Secoli XVI – XIX – Si diffonde l’allevamento del bestiame. Nello stesso tempo, i popoli indigeni vengono cacciati verso nord o sterminati.
1680-1724 – I portoghesi costituiscono la Banda Oriental, un territorio che comprende l’attuale Uruguay e buona parte dello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.  Per tutta risposta, gli spagnoli fondano Montevideo (1724).
1810 – 1816 – Rivolta nella Banda Oriental, capeggiata da José Artigas.
1816-1823 –  Il territorio della Banda Oriental viene invaso dai portoghesi. Nel 1823, l’Uruguay diventa una provincia del Brasile, appena resosi indipendente dal Portogallo.
1825-1828 – Gli abitanti della Banda Oriental chiedono l’indipendenza dal Brasile, che viene dichiarata il 25 agosto 1825, ma ottenuta ufficialmente soltanto nel 1828, dopo la mediazione del Regno Unito.
1830 – Viene emanata la Costituzione della nuova «Repubblica orientale dell’Uruguay» (18 luglio).
1839-1851 – La «Grande guerra» con l’Argentina divide il paese tra indipendentisti e fautori della fusione con il vicino stato.
1865 – Il dittatore Venancio Flores inserisce l’Uruguay nella Triplice Alleanza con Brasile ed Argentina contro il Paraguay.
1876-1879 – Il dittatore Lorenzo Latorre fa recintare i latifondi. Scompare la figura del «gaucho», il mandriano libero.
1903-1915 – José Batlle y Ordóñez, durante le sue due presidenze (1903-1907 e 1911-1915), modeizza il paese ed emana leggi all’avanguardia per l’epoca.
1932 – Viene approvata la legge sul suffragio alle donne.
1915-1950 – Durante le due guerre mondiali e la guerra di Corea, aumentano le esportazioni di carne uruguayana, foita agli alleati (in Europa) e agli statunitensi (in Corea).
1964 – Viene fondata la «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt).
1965 – Nasce il «Movimiento de liberación nacional tupamaros». Lo capeggia Raúl Sendic.
1971 – Nasce il Frente amplio, coalizione di sinistra che ha l’obiettivo di contrastare il dominio dei 2 partiti conservatori dei Blancos e dei Colorados.
1973-1984 – È il decennio della dittatura militare. Sono vietate associazioni, partiti politici e sindacati. Vengono praticate la detenzione arbitraria e la tortura.
1984-1994 – Julio Maria Sanguinetti, candidato del Partido Colorado, vince le elezioni.  Gli succede (1989) Luis Alberto Lacalle del Partido Blanco. Nel 1994 torna Sanguinetti.
Marzo 1991 – Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay creano il Mercosur.
Novembre 1999 – Partido Blanco e Partido Colorado si alleano per impedire al centrosinistra, riunito nella coalizione del Frente amplio (in forte e continua ascesa), di vincere le elezioni. Viene eletto presidente Jorge Batlle, colorado.
Ottobre 2004-marzo 2005 – Tabaré Vázquez, candidato del Frente amplio, vince le elezioni presidenziali (ottobre). Il 1° marzo 2005 inizia il suo mandato.
Marzo – Aprile 2009 – Il relatore Onu stila un rapporto molto duro sulla situazione delle carceri (marzo). Secondo l’Ocse, l’Uruguay è nella lista nera dei «paradisi fiscali» (2 aprile).
Giugno 2009 – Il Frente amplio, la coalizione attualmente al potere, sceglie il proprio candidato per le elezioni presidenziali.
Ottobre 2009/marzo 2010 – Sono in programma le elezioni presidenziali (ottobre 2009). Il nuovo presidente entrerà in carica qualche mese dopo (marzo 2010).

Fonti principali: Guida del mondo, Il mondo visto dal Sud, 2007-2008, Emi, Bologna 2007 (da segnalare che l’edizione originale di quest’opera viene proprio da Montevideo, per merito dell’Instituto del Tercer Mundo); Atlante Universale, Editorial Sol 90, Barcellona 2002.
(a cura di Paolo Moiola)

 

Mario Bandera