Consolazione in… potenza

Italia

Già sede del noviziato dei Missionari della Consolata, la Certosa di Pesio è una casa di spiritualità, dove centinaia di persone ogni anno trovano riposo, pace e percorsi di rinascita umana e cristiana.

Le mura della Certosa potrebbero raccontare un’infinità di eventi di consolazione, alcuni dei quali si perdono nel tempo, nella storia secolare iniziata con la prima comunità certosina nel 1173. Ma stiamo sull’oggi, parliamo della consolazione che fra questi chiostri trovano religiosi e laici, persone in crisi e bisognose di pace… quanti cammini di redenzione si sono dipanati da questo centro di spiritualità.
Vorrei però accennare a tre storie di consolazione «in potenza». Mi riferisco a tre giovani: Ermanno, Pier Guido e Anna. In questo caso i nomi sono quelli veri, perché immagino sarebbero loro stessi i primi a voler condividere la loro personale storia di consolazione.
Ermanno, torinese, è un giovane molto vivace, intelligente, laureato a pieni voti in lettere. Inizia a seguire alla Certosa il cammino delle scuole di preghiera mensili, partecipa a degli incontri, approfitta di una guida personale del suo cammino di fede. Poco per volta scocca nella sua storia la chiamata alla missione, scopre i missionari della Consolata. Ora sta terminando i suoi studi teologici a Roma, presto sarà ordinato sacerdote missionario della Consolata e girerà il mondo a portare, a raccontare la consolazione di Maria alle genti.
L’altra storia segue la stessa falsariga: è quella di Pier Guido, un giovane di Cuneo, laureato a pieni voti in fisica all’università di Pavia. Anche lui matura questa chiamata alla missione, alle genti, a portare la consolazione del vangelo. Si trova oggi con Ermanno nel nostro seminario teologico di Roma. Si sta portando avanti con gli studi e partirà presto per un’esperienza in Mozambico. Speriamo sia presto ordinato sacerdote tra di noi.
Un’ultima storia che potrei ancora raccontare è quella di Anna, una ragazza come tante, che sente però forte dentro di se il senso della preghiera, dei fratelli, del dono. Frequenta la scuola di preghiera da noi alla Certosa, inizia un cammino di vita spirituale e matura nel suo cuore la decisione di partire per la missione, di essere dono ed aiuto per gli altri. Da un po’ di anni si trova in Brasile, tra i meninhos de rua, i bambini della strada, a vivere questo servizio per cui si sente chiamata come laica missionaria; chiamata a vivere una vita di amore, di tenerezza, di accoglienza per queste persone senza consolazione, con la disperazione nel cuore.
Sono storie semplici, umanamente parlando potranno apparire forse banali, ma mi sembra importante ricordare che una missione in Europa oggi non può prescindere da un richiamo forte alla spiritualità missionaria.  Sono storie che nel loro piccolo raccontano quanto la preghiera e quanto una casa che sia disponibile all’accoglienza dei giovani per aiutarli a pregare, a riflettere e ad approfondire il senso della vita, possa diventare, un luogo preferenziale di consolazione.

di padre Francesco Peyron

Francesco Peyron




Insieme a zambujal

Portogallo

In uno dei quartieri più poveri e disagiati della periferia di Lisbona prende vita un’esperienza di lavoro comune che unisce missionari e missionarie, religiosi e laici, tutti tesi a portare una parola di speranza.

Una serie di grandi costruzioni giallastre e grigie alla periferia di Lisbona, a pochi passi dai modeissimi stadi di calcio del Benefica e dello Sporting, danno ospitalità a circa ottomila persone, esiliate in quest’angolo di Portogallo dalle loro condizioni di disagiati cronici. Reduci portoghesi mai arricchitisi dall’avventura coloniale si ritrovano come vicini di casa coloro a cui prima contendevano la terra mozambicana, angolana e di altri angoli di mondo. Capoverde è ben rappresentato in questo piccolo microcosmo di umanità racchiuso fra le mura sbrecciate dell’edilizia popolare portoghese, che comprende anche un buon numero di rom, cinesi e persone emigrate dai vari paesi dell’Est Europa. È Zambujal, il territorio che dal 2002 i missionari e le missionarie della Consolata, religiosi e laici, hanno scelto per impostare un lavoro di équipe che fosse una risposta evangelizzatrice alle varie frontiere ad gentes che si iniziavano ad aprire anche in Europa.
Abbandono scolastico, disoccupazione selvaggia, lavoro saltuario e precocità nel costituire una famiglia sono fenomeni quotidiani per molta gente che a Zambujal cerca un luogo in cui sopravvivere alla bene e meglio. Le sfide, per chi opera in questo quartiere sono il dialogo interculturale, la formazione di leader per la gioventù e gli animatori di comunità; senza ciò, il tessuto sociale sarebbe assolutamente impermeabile.
Invece, nel quartiere dello Zambujal, la consolazione si è diffusa rapidamente tra le persone che lo abitano. L’équipe missionaria ha saputo creare entusiasmo e in breve tempo lo sforzo di proporre una forma alternativa di vivere è stato concretamente condiviso da molti.  Ci sentiamo una grande famiglia: la gente ci invita a pranzare a casa  loro, ci vuole presenti durante le celebrazioni e le feste tipiche della loro terra d’origine. Le persone si confidano con noi e raccontano con semplicità e spontaneità i segreti della loro vita: hanno fiducia e, al contempo, cresce e si rafforza il loro senso di appartenenza.
Ho sempre creduto che i vari progetti a favore della gente devono formare leader locali, affinché la dipendenza dai missionari sia minima. In questo quartiere ciò avviene e i progetti di pastorale e di sviluppo sorgono uno dopo l’altro per iniziativa della popolazione, che inizia a realizzarli con autonomia e responsabilità.
Nella mia preghiera personale rifletto e cerco di comprendere il valore e il senso della mia presenza nel quartiere – a volte fugace, fragile e spesso segnata dalla stanchezza per altri impegni che mi sono affidati. Tuttavia, con grande meraviglia constato che Dio risponde alla mia preghiera attraverso le persone: ad esempio, quando sono più stanco, sono accolto con maggior attenzione e amicizia dalla gente; quando mi sembra di avere fatto poco, mi accorgo che le persone valorizzano quel poco che ho donato; quando dopo essere stato lontano per un po’ di tempo too la gente mi accoglie e fa festa.
La mia attività nello Zambujal mi ricorda che la missione è fatta soprattutto di presenza, vicinanza, accoglienza: sì, ci vogliono anche le opere, ma si realizza soprattutto attraverso la condivisione della vita che vale molto di più di tanti progetti. Il missionario lascia la sua terra di origine e va incontro alle persone: questo dà valore alla sua presenza là dove è stato inviato.
In diversi momenti della mia vita ho notato come sia importante prendere e sostenere delle iniziative insieme alla comunità, vivendo profondamente  lo spirito di famiglia. Questo spirito unisce anche la comunità eterogenea dello Zambujal: tutti siamo consolatori e al contempo consolati; tutti catechisti e catechizzati.
La gioia che vedo sul volto delle persone quando arrivo nel quartiere è una delle maggiori consolazioni che provo come missionario nella periferia di Lisbona. Rispetto molto le persone  anziane, mi consola la fiducia che pongono in me quando narrano e confidano le pene e le giornie della loro vita.
Gioisco e sono consolato anche dalle conversazioni in creolo, dalla  musica etnica suonata con tanta passione e, soprattutto, dal vibrare all’unisono per gli eventi giorniosi e anche quelli tristi della vita. Questo intrecciarsi di gesti e parole crea un forte senso di appartenenza che non guarda il colore della pelle, ma si fonda sul calore umano, che consola profondamente tutti.
Nello Zambujal la consolazione è attuale e vibrante, bisogna solo essere capaci di donarla e riceverla con umiltà e generosità.

Di Mario Linhares

Mario Linhares




Fine settimana a Castel Volturno

Italia

Missionaria della Consolata, di origine polacca, da più di quattro anni, presta il suo servizio apostolico a Castel Voltuo nella Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, per gli immigrati. Qui operano i Missionari Comboniani affiancati dalle Suore Nigeriane del Sacro Cuore e alcuni laici volontari.

Arrivai a Castel Voltuo il sabato pomeriggio e cominciai a camminare lungo la strada principale. Scorto un mercatino improvvisato sul marciapiede della via Domitiana, mi avvicinai a quattro donne e altrettanti uomini, di nazionalità polacca, che vendevano oggetti di artigianato. Mi dissero che da due mesi giravano in questa zona, con la merce, ed abitavano nel loro piccolo furgone. Mi raccontarono come la crisi economica li aveva costretti a fare questa vita per guadagnare qualche euro: tutti speravano di poter tornare al più presto in Polonia. Toando verso la parrocchia incontrai tre giovani donne polacche: Elisabeth, Margherita ed Evelina. Erano arrivate il giorno prima dalla Polonia, con il solito pulmino settimanale. Mi raccontarono di aver letto su di un giornale, in Polonia, del viaggio-offerta che assicurava anche un lavoro, in Italia, il tutto per 200 euro. Una volta arrivate a destinazione, però, vennero «scaricate» a Castel Voltuo in una casa gestita da una «mediatrice» del lavoro, alla quale avrebbero dovuto versare un’altra somma di denaro per saldare il debito contratto per arrivare in Italia a inseguire il proprio sogno.
Questa è la storia del mio primo fine settimana passato per le strade della mia nuova missione. Castel Voltuo, in provincia di Caserta, è un paese che si estende per ventisette chilometri lungo il mare, attraversato in tutta la sua lunghezza dalla via Domitiana. Qui, vivono alcune migliaia di immigrati, la maggioranza proveniente dalla Nigeria e dal Ghana. La loro situazione è difficile, perché non riuscendosi a mettere in regola e trovare un lavoro, cadono molto spesso nelle mani della malavita organizzata che li usa come mano d’opera a basso prezzo nel traffico della droga e della prostituzione. Negli ultimi anni, dall’Est Europa, c’è stato un forte e costante afflusso di immigrati, tra cui parecchi polacchi, che settimanalmente arrivano in cerca di lavoro. In Polonia si pubblicizza che in Italia c’è la possibilità di lavorare e di guadagnare tanti soldi. Chi organizza questi viaggi fa pagare molto, sia il trasporto, sia l’indirizzo del presunto datore di lavoro. Queste promesse molte volte finiscono male a causa di tanti «imbroglioni» polacchi e italiani, che guadagnano a spese di chi è in cerca di un lavoro.
La Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, gestita dai Missionari Comboniani costituisce un punto di riferimento per i Polacchi: qui si ritrovano e ricuperano la loro identità cristiana e nazionale, le principali festività religiose Natale e Pasqua sono celebrate secondo le tradizioni e diventano momenti di aggregazione e frateità. Molti immigrati polacchi, inoltre, chiedono di preparare i figli nati a ricevere il sacramento del Battesimo e di amministrare la Cresima a quelli che sono venuti con loro dalla Polonia. Non mancano poi, le giovani coppie, che chiedono di celebrare il matrimonio in chiesa. Qui vengo il fine settimana per prestare un servizio di pastorale missionaria tra le donne, le ragazze e i lavoratori del mio paese.
Oltre alle attività propriamente religiose, il mio compito è quello d’incontrare e ascoltare le persone che incontro lungo la strada, in parrocchia o nelle famiglie.
Sì, anche qui, c’è la missione «ad gentes», che ci spinge ad aprire gli occhi e il cuore e ad andare incontro alle persone accettando la loro realtà culturale, linguistica, religiosa e, soprattutto, a farsi carico della loro sofferenza, pronti ad accogliere e a consolare coloro che incontriamo sul nostro cammino.

di suor Krystyna Jaciow

Krystyna Jaciow




Volti, storie e speranze

Italia

Storie brevi, quasi delle istantanee di sofferenza e disperazione di donne in cerca di consolazione.

Mercy, nigeriana, viene portata in Italia a 14 anni e venduta da uno zio a trafficanti di esseri umani; messa sulla strada, viene recuperata dalla polizia ed è accolta in una comunità per minori; perde i contatti con la famiglia che ritrova solo dopo 6 anni, grazie all’interessamento e al lavoro di rete tra le congregazioni religiose. Ritrova la mamma e la famiglia che la credevano morta, sparita nel nulla. Commovente è stato il contatto telefonico tra madre e figlia dove le lacrime hanno dato spazio ad una profonda riconoscenza al Signore che veglia sui suoi figli come una madre.
Joy, 19 anni, primogenita di 8 figli, lascia la famiglia per aiutare i fratellini a frequentare la scuola. Durante il lungo ed estenuante viaggio attraverso il deserto del Sahara è violentata da tante persone dalle quali non può sottrarsi: rimane incinta.
Per sei mesi lavora sulla strada per pagare il grosso debito di 60 mila euro contratto, senza saperlo, con l’organizzazione criminale. Nessuno sa della sua gravidanza, tranne alcune persone di una «unità di strada» che la seguono e la convincono a lasciare la strada. Finalmente, viene accolta in una delle case-famiglia gestite da religiose e accompagnata con amore ad accogliere, se pur faticosamente, il dono della vita, frutto di  violenza e  umiliazione. È stata questa nuova vita che ha dato a questa donna consolazione e gioia. Ricordo il suo commento dopo la nascita della bimba: «Senza il vostro aiuto, non solo ora non ci sarebbe la mia bambina, ma non ci sarei più nemmeno io, perché la vita per me non aveva più senso».
Sonia, 18 anni appena compiuti, viene presa dalla strada, durante un controllo della polizia e portata al Cpt (Centro di Permanenza Temporaneo) di Roma, perché priva di documenti; in 15 mesi aveva fruttato alle sue tre sorellastre che l’avevano portata in Italia la somma di 55 mila Euro. Sulla strada, per la sua giovane età, era molto ricercata.  A Ponte Galeria incontra le suore che ogni sabato visitano il Centro e che, conosciuta la sua storia, cercano di aiutarla ad uscire dal giro. Viene accolta in una casa-famiglia e segue un programma di reintegrazione sociale. Quale consolazione più bella e più grande di quella di dare ad una giovane morta e distrutta dentro, la gioia e la voglia di vivere e di sperare?
Gloria, 22 anni appena compiuti, lavora sulla strada per pagare il grosso debito contratto con i trafficanti e sanzionato con i riti «voodoo», davanti allo stregone, prima di lasciare la Nigeria. Sulla strada uno dei «clienti» la vuole portare in casa, la ragazza rifiuta e l’uomo si vendica gettandola da un ponte: il suo corpo senza vita viene ritrovato il giorno dopo. Nonostante non abbia documenti attraverso i contatti con alcune suore nigeriane e l’interessamento delle medesime riusciamo a contattare la famiglia e a comunicare la triste notizia. Per l’anziano padre insieme alla grande sofferenza è stato di grande conforto e consolazione  sapere che qualcuno si era preso cura della figlia uccisa e l’ha sepolta in un paesino di montagna.
Jennifer, giovane donna di 27 anni e madre di due bambini lasciati in Nigeria, ha toccato profondamente la mia vita e il mio servizio missionario in Italia. Viene in Italia ed è costretta a vendere il suo corpo come oggetto di piacere  diventa una fonte di guadagno per i trafficanti.
Jennifer lavora in diverse città italiane e una notte, durante l’attesa dei clienti, lungo una delle tante strade dove sostava un’arma da fuoco la colpisce; rimane in coma per diverse settimane ed al risveglio si ritrova paralizzata agli arti inferiori perché un proiettile le aveva perforato il midollo spinale. Durante i lunghi mesi di degenza e di riabilitazione la visito sovente e la seguo. Jennifer chiede di ritornare a casa per rivedere i suoi bambini. Ritorna in Nigeria su di una sedia a rotelle.
L’anno seguente ero in Nigeria e andai a trovarla nella sua capanna, dove l’anziana madre l’assisteva. Non dimenticherò, la gioia, la sua sorpresa nel vedermi, ma soprattutto il sorriso carico di riconoscenza per la consolazione che la mia presenza portava in quella casa: non riusciva a credere che fossi proprio io!
Jennifer è mancata due mesi dopo la mia visita, il giorno di Pasqua: ha terminato di soffrire.
I miei racconti potrebbero continuare e disegnare gli anelli che formano la lunga catena della nuova schiavitù del 21º secolo, che imprigiona tante persone, ma che, come Missionaria della Consolata, cerco di spezzare offrendo ad ogni donna il dono della consolazione vera, della gioia di vivere e di amare, di cantare e danzare alla vita.
Termino questa condivisione accennando alle settimanali visite al Cpt di Ponte Galeria fatte insieme ad un gruppo di 15 religiose provenienti da 13 paesi diversi, che offrono un’assistenza pastorale e religiosa alle donne straniere, in attesa di espulsione, perché senza i documenti.
Il Centro ha una capienza di 180 posti letto e le donne che incontriamo ogni sabato vivono questa esperienza con sofferenza e a volte con disperazione; infatti, tutti i loro progetti per aiutare la famiglia vanno in frantumi perché vengono rimandate a casa a mani vuote e con l’umiliazione di essere state vendute, comperate e scambiate come merce.
La nostra presenza settimanale in questo Centro vuole donare a queste donne la possibilità di condividere un momento di preghiera e di riflessione affinché attraverso la ricchezza della parola di Dio, forza e sorgente di ogni consolazione, possano trovare il coraggio di sperare e, nonostante l’umiliazione e il fallimento, aprirsi a nuove opportunità che la vita può loro offrire.
La triste esperienza che hanno vissuto non può e non deve essere la fine, ma al contrario, deve mostrare loro che un avvenire di serenità e prosperità è ancora possibile.
Il nostro impegno e servizio ci chiede di donare la vera consolazione a quanti incontriamo nel nostro cammino quotidiano e toccare, così, il cuore e la vita di tante donne e dire: “La vostra schiavitù” è finita, anche voi siete consolate dall’amore di Dio e dalla nostra solidarietà e vicinanza.

Di suor Eugenia Bonetti



Eugenia Bonetti




Da guerriglieri a parlamentari (e ministri)

T come «tupamaros»

I tupamaros erano un’organizzazione guerrigliera. Oggi il loro partito – il «Movimento di partecipazione popolare» – è entrato in parlamento con il 30 per cento dei suffragi. E due di loro, entrambi in carcere per 13 anni durante la dittatura, sono diventati ministri nel governo di Tabaré Vázquez: José Mujica ed Eduardo Bonomi.

Un paese con poco meno di tre milioni di abitanti, senza risorse naturali, ma con la grande ricchezza dell’allevamento del bestiame, era concentrato nelle mani di pochi latifondisti agrari. Questi, a loro volta, esprimevano una classe politica che paga dell’abbondanza del periodo delle vacche grasse, non aveva mai investito nello sviluppo industriale del paese. Fino al termine della Seconda guerra mondiale e della guerra di Corea, l’Uruguay riuscì a piazzare tutta la produzione di carne in campo internazionale, ma una volta terminati i conflitti le nazioni europee, gli Stati Uniti, ecc., investirono in campo agricolo e nell’allevamento. Per l’Uruguay iniziò allora il periodo delle vacche magre. Non potendo reperire valuta pregiata, necessaria per far fronte al pagamento dei debiti, per l’impossibilità di esportare i propri prodotti, il paese entrò in una crisi inflazionistica che, come un perverso gioco del domino, si abbatté su tutti i settori del paese.
La «Convención nazional de trabajadores», l’unica centrale sindacale del paese, cercò di canalizzare la protesta dei lavoratori e della classe media (vera ossatura del paese) verso forme di protesta (scioperi, manifestazioni, ecc.) contemplate negli ordinamenti costituzionali. Ma le condizioni di vita dei campesinos (soprattutto dei coltivatori di canna da zucchero, i cosiddetti «cañeros» del nord del paese) si erano ridotte a livelli tanto subumani da generare un malcontento incontenibile. Questo si concretizzò in una marcia di protesta che, raccogliendo migliaia di lavoratori, attraversò tutto l’Uruguay arrivando fino al palazzo legislativo di Montevideo. Questi lavoratori, sfruttati ed umiliati nella loro dignità, erano capeggiati da Raul Sendic, un procuratore legale che aveva fatto della difesa di questa povera gente la ragion d’essere della sua vita.

A fronte di una palese ottusità da parte sia della classe politica come di chi gestiva il potere economico ed agrario del paese, ci fu – quasi come conseguenza speculare – una spaccatura all’interno dei lavoratori, tra chi accettò il difficile cammino del confronto con una classe dirigente che sempre più si avviava verso l’imposizione di una dittatura e chi invece optò per una lotta di resistenza che suscitasse un cambiamento all’interno della società uruguayana. La svolta avvenne il 22 dicembre del 1966, quando in uno scontro con la polizia venne ucciso un giovane studente. La reazione fu pesante. Manifestazioni di protesta che coinvolgevano operai e studenti si succedettero a catena e dall’altra parte si cominciò ad arrestare, imprigionare e purtroppo a torturare. Fu in quel frangente che si decise di optare per una lotta armata portata avanti nella clandestinità: nacque il «Movimiento de liberación nacional tupamaros» (Mlnt), che si rifaceva all’ideale rivoluzionario di Tupac Amarú, il leggendario eroe indigeno peruviano che si era ribellato secoli prima allo strapotere dei conquistadores spagnoli.
L’organizzazione seppe muoversi con abilità senza compiere atti di inutile efferatezza nei confronti dei militari. Anzi, alcuni gesti eclatanti come la presa della città di Pando, dove riuscirono a tenere in scacco l’esercito per diversi giorni, il sequestro di camion di generi alimentari distribuiti alla popolazione dei «cantegriles» (le favelas di Montevideo) e una spettacolare evasione dal carcere di massima sicurezza di Punta Carretas di oltre un centinaio di tupamaros detenuti, attirarono su questo movimento rivoluzionario parecchie simpatie tra la popolazione uruguayana.

La conquista della scena internazionale la ottennero con il sequestro di un anonimo funzionario dell’ambasciata statunitense: Dan Mitrione, che risultò essere un istruttore di tecniche di tortura per l’esercito uruguayano al soldo della Cia. Tale fu il successo di questa azione straordinaria (raccontata magistralmente nel film «L’Amerikano» di Costa-Gavras, interpretato da Yves Montand e Renato Salvatori) che il governo dittatoriale non potè permettersi il lusso di digerire il rospo senza reagire e la reazione fu tremenda. Si cominciò ad arrestare indiscriminatamente i processi divennero sempre più sommari e le torture nelle carceri, sempre più brutali. A quel punto molti abbandonarono la lotta armata e si rifugiarono all’estero e un’intera generazione di giovani prese la strada dell’esilio. Un paese che si era formato grazie all’apporto di emigranti giunti da ogni parte del mondo, in pochi anni si spopolò perdendo buona parte della sua forza lavoro.
Raul Sendic e i membri del direttivo dei tupamaros vennero quasi tutti catturati e incarcerati. Il governo dittatoriale li dichiarò: «rehenes» cioè «ostaggi», dichiarando nel contempo che se fossero state compiute in qualunque parte del paese delle azioni di rivolta armata, i capi dell’Mlnt in «ostaggio«  sarebbero stati giustiziati in carcere. Fu un momento terribile per la nazione intera, certamente gli anni più oscuri di tutta la storia dell’Uruguay. Con il ritorno alla democrazia, il neoeletto Parlamento approvò una legge di amnistia generale, grazie alla quale uscirono dal carcere tutti i prigionieri politici. Nel 1985 il movimento tupamaros, in un congresso a cui parteciparono i vecchi militanti e i molti simpatizzanti, ratificò il rifiuto alla lotta armata e l’accettazione delle regole democratiche della vita partitica e politica. Successivamente confluirono, come gruppo autonomo denominato «Movimento de partecipacion popular», nel «Frente amplio», ottenendo un notevole successo elettorale.
Alle ultime elezioni (ottobre 2004), il politico più votato in assoluto tra i deputati dell’Assemblea nazionale, è risultato essere José Mujica, detto «El Pepe», un militante della prima ora. Mujica è stato ministro ed è un possibile candidato per la successione a Tabaré Vázquez.
Superati gli anni perversi della dittatura, avviatosi l’Uruguay verso il pieno ristabilimento del gioco democratico, i tupamaros sono diventati protagonisti a tutti gli effetti della scena politica del paese con i quali tutte le altre formazioni partitiche, oltre ai vari soggetti istituzionali, devono dialetticamente confrontarsi.

di Mario Bandera

 

Mario Bandera




LA «IGLESIA CHICA»

C come Chiesa

Nell’Ottocento, la diffusione in Uruguay del pensiero illuminista e massonico favorì l’affermazione del laicismo. Nel 1915, la separazione tra stato e chiesa venne formalizzata da José Batlle y Ordóñez, presidente tra i più apprezzati della storia uruguayana. In questo contesto, la chiesa…

Misi piede in Uruguay per la prima volta nel lontano gennaio del 1977, dopo un viaggio in nave di un paio di settimane: a quel tempo l’epoca dei viaggi transoceanici via mare stava concludendo il suo onorato servizio dopo quasi cinque secoli di spola tra le due sponde dell’Atlantico. Da allora il mio legame con il «paysito» (come affettuosamente gli uruguayani chiamano la loro terra) è cresciuto di anno in anno condividendo in gran parte dolori e sofferenze, giornie e speranze della sua gente: i primi legati al triste e buio periodo della  dittatura militare, le seconde intrecciate con il faticoso cammino intrapreso per riacquistare la libertà. Avendo vissuto un’esperienza credo unica ed irripetibile, quella cioè di completare i miei studi di teologia presso l’«Istituto teologico uruguayano “Mariano Soler”» ho avuto modo di passare diversi anni accanto ad una generazione di sacerdoti formatori e giovani seminaristi del luogo, partecipi fino in fondo ai drammi del loro paese, ma dotati di una fede incrollabile nella speranza di un futuro migliore. Alcuni di loro avevano sperimentato sulla propria pelle il carcere, altri avevano qualche familiare detenuto per motivi politici nelle orribili prigioni della dittatura militare, una delle più ottuse di quel periodo. Conservo nitido nella mia mente tutto quanto ho vissuto in quegli anni, anche se dopo tanto tempo, forse è più facile rielaborare con distacco quanto successe nel piccolo paese situato sul lato orientale del Rio de la Plata.

Consolidatosi sul piano culturale grazie all’influsso dell’illuminismo – imperante a quel tempo negli ambienti rivoluzionari del Sud America – ed influenzato da correnti di pensiero della massoneria europea (notoriamente anticlericale), l’Uruguay sin dall’inizio si caratterizzò come una repubblica laica che teneva a una certa distanza la chiesa cattolica. A sua volta la Santa sede, lontana ed avulsa agli avvenimenti del tempo e non percependo i cambiamenti che si andavano operando, mantenne i territori legati a Montevideo soggetti all’arcidiocesi di Buenos Aires, creando molte difficoltà tra i cattolici che, dal punto di vista politico obbedivano alle leggi della nuova nazione repubblicana, mentre dal punto di vista religioso dovevano obbedienza ad un vescovo «straniero». Solo dopo quasi quarant’anni dall’indipendenza, venne costituita, il 13 luglio del 1878, la diocesi di Montevideo, che comprendeva allora tutto il territorio nazionale e che fu affidata alle cure pastorali di mons. Jacinto Vera, primo vescovo nativo dell’Uruguay, uno zelante pastore ricordato ancora oggi come «el Obispo gaucho».
Nel 1915, il presidente José Batlle y Ordóñez separò la chiesa dallo stato e cambiò i nomi delle feste religiose del calendario. Ancora oggi in Uruguay la Settimana santa è denominata «Semana del turismo», così come l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è definito «El dia de la playa» (il giorno della spiaggia) e il Natale «El dia de la familia» e via dicendo. La chiesa uruguayana, la «iglesia chica» (la chiesa piccola), come viene definita, è stata sempre una chiesa povera ma dignitosa, con un suo originale pensiero teologico e una ancora più originale prassi pastorale, dovuti al fatto di confrontarsi con una realtà politica e sociale tanto diversa rispetto al resto dei paesi sudamericani.
Pur connotandosi sin dal suo inizio come uno stato molto secolarizzato, l’influenza di una visione religiosa nella vita sociale e comunitaria, si colse già durante il processo di indipendenza, basti pensare che il segretario dell’eroe nazionale José Artigas, ispiratore di gran parte dei suoi scritti, era un frate francescano, mentre uno degli estensori della prima Costituzione fu il presbitero Antonio Damaso Larrañaga, straordinaria figura di scienziato e letterato, fondatore tra l’altro dell’Università e della Biblioteca nazionale, a tutt’oggi onore e vanto del piccolo Uruguay in campo accademico. Artigas stesso si era formato nei collegi francescani del paese, conservando per tutta la sua esistenza uno spirito di servizio improntato agli ideali di vita del Santo di Assisi. Non a caso tutti i suoi scritti sono molto diversi dal linguaggio retorico e roboante dei grandi Libertadores del suo tempo.

Creata la gerarchia cattolica con la nomina di mons. Jacinto Vera a vescovo di Montevideo, nel paese ben presto si formò una generazione di pastori, che si qualificarono come le menti più acute e brillanti in campo ecclesiale, capaci di opporsi e contrastare l’anticlericalismo e il laicismo che contagiava la classe dominante, sia a livello culturale che politico.
Non a caso quando Leone XIII, nel 1899, convocò a Roma il primo Concilio latinoamericano, la relazione di apertura fu affidata a mons. Mariano Soler, arcivescovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che affiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e francescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inoltre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto italiani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «ante litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e dell’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scritta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella coscienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpestata.
Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indietreggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei militari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influenzarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recupero della vita democratica.
A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammirazione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia.
di Mario Bandera

Don MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA

Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia). 

Il 2 novembre del 1993 stroncato da un male incurabile, concludeva a soli 51anni d’età la sua vita mortale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia.
Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo paese del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don Pierluigi era un po’ l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua nella sua parrocchia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel maggio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimento di liberazioe nazionale tupamaros» e senza nessuna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chiesa schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel «calabozo» (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
di Mario Bandera

Mario Bandera




Poche stelle,  molto cuore

B come «barrio»: visita a Barrio Sur

A Barrio Sur, la maggioranza degli abitanti sono neri. Al quartiere non mancano i problemi – disoccupazione e droga, in primis -, ma neppure le idee e la volontà di riscatto dei suoi abitanti. Ecco cosa ci hanno raccontato Ivonne, Carmen e Cristina…

Montevideo. Barrio Sur sembra un quartiere molto tranquillo: pochissime auto, le strade a disposizione dei bambini. A parte una serie di condomini che guardano verso il mare, le abitazioni sono basse, un piano o due.
Barrio Sur, quartiere abitato da afrouruguayani, è la culla del Caevale di Montevideo, famoso non soltanto per la sua lunghezza, ma soprattutto per la sua musica di origine africana (candombe), per i suoi balli al suono dei tamburi, per le sue rappresentazioni nelle strade che ogni anno richiamano migliaia di persone.
L’appuntamento è al 993 di Calle Michelini, alla «Casa del Vecino», un’associazione comunitaria deputata ad ascoltare e farsi carico degli interessi e delle richieste della comunità di Barrio Sur, quartiere dove certo non mancano i problemi. L’associazione è ospitata al piano terreno di un’abitazione, vecchia ma a suo modo elegante. Le pareti estee sono variopinte e ricche di disegni dal sapore naif: fiori, cuori, stelle, soli.
Anche la stanza intea ha colori pastello, caldi ed accoglienti. Alle pareti sono appese molte fotografie del quartiere, mentre le mensole ospitano i modellini in legno e cartone di alcuni edifici storici. Ci sono anche manifesti e drappi e, nell’angolo in fondo, alcuni tamburi.
La prima cosa che salta agli occhi è che nella stanza dell’associazione ci sono soltanto donne. Cristian Brisacani, cornoperante di Icei e nostra guida, fa le presentazioni. C’è Ivonne, c’è Carmen, c’è Cristina.
Assieme alla gente di Barrio Sur, Icei e Retos al Sur, il partner locale della Ong italiana, stanno cercando di organizzare un itinerario di turismo sostenibile e comunitario. Secondo questo concetto, il luogo turistico, con le sue caratteristiche fisiche ed umane, non è un oggetto come nel turismo tradizionale, ma un soggetto, un protagonista attivo e partecipe.
Le prove generali di questo modo diverso di fare turismo sono state effettuate in occasione del «Gioo del patrimonio» (Día del patrimonio). In Uruguay, questa è una ricorrenza annuale durante la quale il ministero di educazione e cultura incentiva le visite a luoghi e monumenti di rilevanza storica e culturale. A Barrio Sur il Gioo del patrimonio è organizzato dalla comunità. Una comunità di cui Carmen, Ivonne e Cristina sono ad un tempo rappresentanti, difensori e spirito critico.

Carmen Martirena ha vissuto per alcuni anni in Italia. Minuta, capelli corti, occhialetti da vista, Carmen è la più vecchia del gruppo, ma sprizza energia e voglia di fare.
«Il problema più importante del Barrio Sur è la droga. Qui ci sono las bocas, i punti di smercio della droga, soprattutto della pasta base, la peggiore, che viene venduta a prezzi molto bassi. Molti ragazzi del posto si sono fatti prendere nella rete». Quanti sono?, chiediamo. «Abbastanza. La questione è che il problema riguarda non soltanto i consumatori, ma anche i familiari e i conoscenti di questi. Fa male vedere come questi si stanno uccidendo e come stanno uccidendo le proprie famiglie».
Cosa si può fare? «Abbiamo fatto di tutto, ma è impossibile perché le organizzazioni sono potenti. E poi se non fanno nulla le autorità (che sanno tutto) perché dobbiamo farlo noi? A pochi passi da qui, proprio all’angolo, ci sono ragazzi di 15, 16, 17 anni che aspettano per giorni…».
La mancanza di un lavoro influisce sulla situazione?, domandiamo a Carmen. «Ovvio, che influisce», risponde lei. «Sì – ribadisce Ivonne – la mancanza di lavoro influisce molto. Se questi ragazzi avessero qualcosa da fare, non sarebbero in queste condizioni». Ivonne Quegles Martirena, figlia di Carmen, è consigliera di Barrio Sur. È stata eletta già due volte.
«La pasta base non è porro (marijuana, ndr), ma una droga con additivi chimici e altre porcherie. Non è corretto chiamarla la “droga dei poveri”! Perché il suo effetto dura talmente poco – dai 3 ai 5 minuti -, che hai subito necessità di consumae un’altra dose. E per avere quella dose aggiuntiva sei disposto a tutto. In realtà, per me la pasta base è droga più cara».
È vero che le autorità non fanno nulla per contrastare il fenomeno? «Ogni tanto fanno delle retate. L’altro giorno hanno fermato anche me. Mi hanno fatto salire su un furgone per perquisirmi. Non ho protestato. Ma è stato brutto e spiacevole».
Cristina Caiero è una donna forte, ma dal suo viso traspare il dolore quando parla della droga, che è entrata nella sua famiglia.
«Mio figlio ha iniziato con il porro, poi è passato a quest’altra, la pasta base. Una droga che ti arriva subito al cervello e che crea dipendenza. È una situazione che danneggia lui, ma anche la famiglia. In casa ha rubato per poter comprare la droga. Senza dire, della violenza che ingenera la sua assunzione. Tutti i giorni è una discussione continua, che ti stanca».
«Un cammino di speranza per i ragazzi è il lavoro, ma non si può lavorare se non si sa fare nulla. Per questo sono utili i talleres (laboratori di apprendimento, ndr), dove gente competente insegni a questi giovani una professione».
Ci mostra alcuni prodotti fatti in loco: portamonete in cuoio, bottigliette dipinte a mano, portachiavi con materiali riciclati. «Ecco, nel momento in cui arrivasse un turista offrendo questo si dovrebbe spiegare che esso è parte della nostra cultura».
Cristina, che parla di cornoperative, di socialismo e di rivoluzione, ha qualche parola anche per la situazione politica: «Adesso che siamo in prossimità delle elezioni, si critica questo governo per ciò che non ha fatto. Ma non è giusto, perché in 5 anni non si può fare quanto non si è fatto nei precedenti 150».

Eravamo venuti a visitare Barrio Sur, il quartiere afro di Montevideo, per parlare di turismo comunitario.
Abbiamo conosciuto un gruppo di donne coraggiose, disposte ad impegnarsi per dare nuove opportunità ad un quartiere del quale ci si ricorda soltanto nel periodo del carnevale. Donne che conoscono i problemi perché li vedono quotidianamente attorno a loro. Donne che, da sole, senza l’aiuto delle autorità competenti, combattono contro la piaga della droga che si porta via i giovani del luogo.
Donne su cui vale la pena di puntare. 

Di Paolo Moiola

QUELLI dalle magliette celesti

Vittorie incredibili e giocatori portentosi: i «miracoli» calcistici di un paese con appena 3 milioni di abitanti
Due volte campioni del mondo (1930-1950), due titoli olimpici (1924-1928), 14 vittorie in campo continentale tra Coppa americana e toei per nazioni sudamericane, 1 Coppa de oro (Mundialito 1980) conquistata battendo tutte le nazionali campioni del mondo: il palmares della nazionale di calcio dell’Uruguay è ricco ed abbondante. Ma soprattutto è sorprendente, se si considera che tutti questi titoli in campo calcistico sono stati ottenuti da una nazione di tre milioni di abitanti. Forse vale la pena ricordare che la prima edizione dei Campionati del mondo di calcio fu assegnata dalla Fifa proprio all’Uruguay, che nel 1930 celebrava i cent’anni della Costituzione repubblicana. Per l’occasione, la capitale Montevideo si tirò a lucido e costruì un imponente e maestoso stadio denominato appunto «Estadio Centenario». In finale giunsero (manco a farlo apposta) le nazionali dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Rio de la Plata: Uruguay e Argentina. In quella prima finale mondiale l’Uruguay sconfisse l’Argentina per 4 a 2. Raccontano le cronache dell’epoca che l’arbitro belga, prima di entrare in campo, pretese ed ottenne per sé e per la sua famiglia un’assicurazione sulla vita e una nave diretta in Europa in partenza qualche ora dopo la finale  del Campionato del mondo. La vittoria  della nazionale «Charrua» sui cugini argentini rasentò quasi l’interruzione dei rapporti diplomatici per la tensione che si venne a creare.
Ancor più memorabile fu la vittoria nella finale del 1950 nello stadio del Maracanà di Rio de Janeiro. Il Brasile, in quel toeo giocato in casa, sostenuto da un pubblico incandescente aveva fatto un sol boccone di Svezia e Spagna, battendoli rispettivamente per 7 a 1 e 6 a 1 e si preparava a fare altrettanto col «pollicino Uruguay». Questi invece, nonostante i padroni di casa avessero segnato il primo gol con l’attaccante Friaça , ribaltarono il risultato grazie a due prodezze di Schiaffino e Ghiggia, raffinati talenti del calcio creolo rioplatense dell’epoca, mandando in visibilio via radio il minuscolo Uruguay e portando  alla disperazione il grande Brasile, che già si preparava a festeggiare con fantasia carioca e fuochi d’artificio la conquista del titolo. Da quel giorno in entrambi i paesi entrò nel lessico popolare un neologismo: «el maracanazo» in spagnolo e «o maracanaço» in portoghese, sinonimi nel primo caso di un’impresa straordinaria, nel secondo di un disastro nazionale.

Sin da quando il gioco del calcio approdò a Montevideo, grazie alle partite che i marinai inglesi giocavano nell’attesa che le loro navi venissero stivate di carne salata, affumicata o in scatola da portare in Europa, i creoli uruguayos se ne appropriarono inventando una originale variabile del gioco del calcio, che univa la fantasia sudamericana all’agonismo europeo. Nel 1917, l’Uruguay vinse il primo Campionato interamericano di calcio e alle Olimpiadi del 1924 a Parigi la nazionale celeste mandò in delirio il pubblico francese grazie alle prodezze di Josè Leandro Andrade, un nero che si massaggiava le caviglie col grasso di lucertola (così diceva lui), dandole agilità nella corsa e precisione nel tiro. Fu chiamato la «meraviglia nera» e, anticipando i tempi della nazionale brasiliana, riscattò secoli di umiliazioni della sua razza attraverso squisite e delicate giocate calcistiche. Sulla scia di questi straordinari giocatori e di una nazionale di calcio che incantava in qualunque parte del mondo giocava, l’Uruguay continuò a mietere allori in campo interamericano, ma anche ad esportare giocatori in diverse nazioni del mondo. Purtroppo, l’abilità che i giocatori avevano nelle gambe non sempre si trasformò in abilità manageriale dei propri successi. Tanto per fare un esempio, Andrade terminò facendo lo strillone di giornali e Ghiggia morì povero e dimenticato da tutti.
Resta il fatto che il gioco del calcio per gli uruguayani rimane tutt’ora un fenomeno in cui si intrecciano e si mescolano le speranze degli emigranti europei, approdati sul Rio de la Plata alla ricerca di un posto al sole, la giorniosità di neri e meticci e la fantasia creola. Questa stupefacente sintesi di genio e sregolatezza continua a sorprendere gli appassionati del pallone di ogni parte del globo, che non riescono a spiegarsi come un piccolo paese sia riuscito a scrivere pagine così gloriose nella storia dello sport più popolare al mondo.

Mario Bandera


La bevanda guaraní
(BEVUTA ANCHE DAL «CHE»)

Gli uruguayani sono i più grandi consumatori di questa bevanda, inventata dagli indios guaraní e molto diffusa anche
in Argentina, Brasile e Paraguay.

In Uruguay, è difficile sottrarsi al rito del «mate», l’aromatico thè del Cono Sur dell’America Latina. La «yerba mate», nome scientifico Ilex paraguaiensis o Ilex curutibensis, è la naturale compagna della giornata di ogni uruguayano che si rispetti. Ma la stessa cosa si potrebbe dire dei paraguayani, degli argentini e dei brasiliani del sud, in quanto tutti loro ne fanno uso abbondante, a volte eccessivo. Bevanda tipica delle tribù guaranì, non appena entrarono in contatto con gli europei, questi ne furono conquistati e, grazie all’azione dei gesuiti, trasformarono l’anonimo infuso di una sconosciuta etnia sudamericana in un rito suggestivo dai risvolti quasi liturgici.
Si può dire che in questi paesi il mate accompagna tutte le riunioni e gli appuntamenti che si tengono lungo la giornata, dal semplice incontro tra vicini di casa, alle riunioni studentesche o di lavoro, su su fino agli incontri di governo. Resta famosa una foto del «Che», che sorseggia tranquillamente il suo mate: da buon argentino non venne mai meno alla tradizione «matera» della sua gente e sia a Cuba come sugli altopiani della Bolivia, dove concluse tragicamente la sua vita, portava sempre con sé tutto il necessario per prepararsi un buon mate.

I brasiliani lo prendono utilizzando recipienti (porongo o chimarrão) molto capienti, mentre gli argentini lo gustano con variazioni aromatiche e a volte aggiungendo dello zucchero (mate dulce); i paraguayani, invece, a causa del clima subtropicale della loro terra, lo prendono freddo e lo chiamano «tereré».
Gli uruguayani, forse i più forti consumatori di mate, lo bevono amaro e caliente (mate amargo). Non è raro vedere gente nei parchi o più semplicemente seduti fuori casa, che conversando amabilmente si scambiano il recipiente contenente la bevanda che viene succhiata dalla stessa cannuccia (in spagnolo «bombilla») di metallo che ha dei piccoli fori all’estremità in cui è immersa nella yerba mate, onde evitare di succhiare le foglie sminuzzate e tostate della profumata bevanda.
Per molte famiglie povere, il mate aiuta ad attenuare i morsi della fame e consumato verso sera, con l’immancabile «torta frita» (una sorta di ciambella fatta con farina, acqua e sale, fritta nello strutto animale), si trasforma in una cena frugale che sfama intere famiglie.

Qualcuno ha detto che, se il Signore fosse nato in America Latina, certamente il mate avrebbe assunto una valenza sacramentale, tanto è il senso di condivisione della bevanda che viene bevuta sempre comunitariamente, quasi mai da soli. Anzi, proprio il «tomar mate juntos» (prender mate insieme) è una delle caratteristiche della convivialità creola e quello che agli stranieri può in un primo momento creare qualche imbarazzo, cioè bere tutti dalla stessa cannuccia, in realtà è un gesto di estrema familiarità, come darsi un bacio. Difficile esprimere a parole le sensazioni che si provano attraverso il senso del gusto, resta il fatto che il mate è il vero banco di prova del grado d’inculturazione raggiunta. Chi si trasferisce nei paesi del Cono Sur (per lavoro o per servizio pastorale) e fatica a condividere il mate con altri, avrà sempre qualche difficoltà nel capire mentalità e gusti della gente. Mentre coloro che, avendolo gustato e assaporato per anni, una volta rientrati nei luoghi di origine, avranno sempre bisogno di un sorso di mate per continuare a sognare quei tramonti del Rio de la Plata che solo avendo un thermos sotto il braccio, un porongo tra le mani e sorseggiando lentamente un «buen mate», si possono rivivere con immutata nostalgia.

Mario Bandera

Paolo Moiola




Banche e persone: il diverso peso dei diritti

D ccome diritti: incontro con lelsur

Com’è cambiata la percezione dei diritti umani in un paese che ha conosciuto la dittatura? Nei diritti sono compresi anche i diritti economici, sociali e culturali o soltanto quelli politici? Il diritto alla sicurezza va salvaguardato anche calpestando gli altrui diritti? È giusto salvare le banche private con soldi pubblici? Di tutto ciò siamo andati a parlare nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Ielsur).

Montevideo. Dall’alto dell’ottavo piano il panorama sulla Plaza Independencia è molto attraente. Siamo nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Instituto de estudios legales y sociales del Uruguay, Ielsur), un’organizzazione di difesa dei diritti umani sorta nel luglio 1984, immediatamente dopo la fine della dittatura.
Un gruppo di avvocati si unì per presentare denuncie di lesa umanità contro i responsabili della dittatura. Questo fu l’inizio: la lotta contro l’impunità, che ancora oggi rimane un tema importante in Uruguay, dato che in 20 anni nessuna persona è stata incarcerata per quel delitto. Questo è stato il tema storico, ma poi Ielsur ha iniziato a diversificare la sua tematica.
Oggi l’organizzazione si occupa di diritti umani in varie aree: dalle carceri ai minori, dalla libertà di espressione ai diritti economici, sociali e culturali.

Luis Pedeera è uno dei membri dell’associazione. Dopo aver raccontato di aver conosciuto Barrio Sur e i problemi legati al traffico della droga, gli domandiamo se Montevideo sia una capitale violenta.
«Secondo me, no – risponde -. Per lo meno non nella misura in cui appare da certi settori politici e da certa stampa. Di norma, l’uruguayano è una persona amabile, che si preoccupa del vicino, ma il sistema penale rompe per definizione i vincoli comunitari». Negli anni Novanta, i governi di destra hanno attuato una politica repressiva. Con l’approvazione, ad esempio, della «Legge di sicurezza cittadina» (Ley de seguridad ciudadana, 1995). Come sta accadendo in molti paesi del mondo, dall’insicurezza e dalla paura della gente hanno creato il loro consenso. Così le carceri dell’Uruguay si sono riempite oltre ogni limite.
Il problema non ha trovato una soluzione neppure con il governo di centrosinistra, con il quale Ielsur ha avuto qualche incomprensione, a dimostrazione dell’indipendenza della Ong. In particolare, non sono state gradite le critiche sulle condizioni all’interno delle carceri.
«Non ci hanno guardato – spiega Luis – con la mente aperta che dovrebbero avere i progressisti. Non hanno capito che noi siamo un’organizzazione indipendente che agisce soltanto per la difesa dei diritti umani. La sinistra non ha saputo rimuovere quella cultura che fa del prigioniero l’ultimo schiavo della società, dimenticandosi che anche lui è una persona».

Luis è specializzato in diritti umani dei minori. Ed è durissimo nella sua denuncia. «In Uruguay, la povertà si concentra nei bambini. Il 50 per cento dei bambini da 0 a 5 anni nasce in luoghi poveri. Sono loro i più colpiti dalle conseguenze della politica di sicurezza cittadina. E nelle carceri dove sono rinchiusi sono maltrattati, riempiti di psicofarmaci, torturati».
«Se un poliziotto incontra qui sotto, nel centro di Montevideo, un ragazzo con “cara de expedientes” – sporco o con vestiti logori, per esempio -, può portalo in carcere. Il centro è zona turistica…».
Domandiamo a Luis se la gente uruguayana sostiene questo comportamento della polizia. «Sì, lo sostiene. Proprio per questo chiediamo alla sinistra che non copi le dinamiche della destra, la quale concepisce la soluzione dei conflitti sociali attraverso una maggiore repressione».

Luis non ha risparmiato critiche al comportamento della sinistra al governo rispetto alle problematiche delle carceri. Ma c’è anche una legge all’avanguardia, chiamata «Legge di umanizzazione carceraria» (Ley de humanización carcelaria), approvata da questo governo. Essa prevede attività di lavoro ed educazione per i carcerati con sconti di pena per chi svolge queste attività. È un modo anche per decongestionare le carceri, che sono sovraffollate: ci sono luoghi di detenzione che ospitano 3.000 persone invece che 900 (1). 
La legge di umanizzazione prevede un sistema di premi. «Per ogni 2 giorni di lavoro e studio è un giorno in meno di carcere», spiega Luis. Ma la legge stenta a trovare applicazione, per questo Ielsur è intervenuta con una denuncia, suscitando un acceso dibattito. «Erano gli stessi detenuti a spingere per avere lavoro ed educazione. Rompendo con la loro richiesta molti pregiudizi».

Anche in Uruguay sta arrivando la crisi globale. Chiediamo a Luis se essa influirà sui diritti umani. «Terribilmente», risponde sicuro Luis. Che è durissimo contro le politiche pubbliche che mirano a salvare le banche (2) e non i settori sfavoriti, che pagano sempre.
«Perché – protesta con vigore  – i delitti delle banche non sono perseguiti come quelli dei minori? Mediamente un delitto di un adolescente vale 100 dollari ed è compiuto senza armi da fuoco nell’98 per cento dei casi. Il danno compiuto dai banchieri è molto maggiore, perché per salvare gli istituti lo stato sottrae soldi pubblici ai settori sociali. A me non interessa salvare le banche, ma la gente, le vite umane».
«Se non si pensa che il problema principale è di ridistribuire la ricchezza (che sta sempre nelle stesse mani), il sistema rimarrà sempre lo stesso, i ricchi e le banche si salveranno sempre e le crisi saranno pagate dai soliti».
Ielsur è membro della «Rete internazionale per i diritti economici, sociali e culturali» (Red inteacional para los derechos económicos, sociales y culturales, Red Desc). A dicembre 2008, Luis è andato a Nairobi per partecipare al convegno della Rete. Ed è rimasto impressionato dalla città kenyana e dall’enormità dei suoi problemi.
«Mi sono reso conto che Nairobi ha tanti abitanti quanti l’intero Uruguay e che un qualsiasi barrio povero di quella città ha 300 mila abitanti, dove qui ne abbiamo 1.000 o 2.000».
 
Ad ogni domanda, Luis Pedeera risponde con passione e partecipazione: si vede che crede fermamente in quello che dice e che ama il proprio lavoro con Ielsur. Per concludere la nostra conversazione, gli chiediamo se vede una via d’uscita all’attuale crisi globale. Lui sorride.
«Secondo me, la soluzione è quella comunitaria, anche se in società sempre più complesse è diventato molto difficile. Ma proprio in questo consiste la sfida di oggi. A meno che non si voglia vivere e morire nelle condizioni dettate da questo sistema». Un sistema nel quale le banche valgono più delle persone. 

di Paolo Moiola

(1) Alla fine di marzo 2009, il collasso delle carceri uruguayane è stato confermato dal relatore Onu Manfred Nowak.
(2) Il 2 aprile 2009, l’Ocse ha incluso l’Uruguay nella lista nera dei paradisi fiscali, assieme a Costa Rica, Malesia e Filippine.

Paolo Moiola




Viva la cooperazione (se è buona)

C come cooperazione: Cristian Brisacani

L’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana, lavora a Montevideo nei campi del turismo comunitario, delle piante medicinali, dei saperi tradizionali e dei diritti umani.

Montevideo. Sulla soleggiata terrazza della Posada al Sur, nel cuore della vecchia Montevideo, a pochi passi dal porto, Cristian si gusta il mate, del quale – dopo anni trascorsi tra Buenos Aires e Montevideo – non può fare più a meno. Cristian Brisacani lavora nella capitale uruguayana per l’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana che ha molti progetti in America Latina.

In Uruguay c’è stata una consistente emigrazione italiana. Tuttavia, difficilmente un italiano saprebbe trovare di prim’acchito questo paese sul mappamondo. Cristian, come lo descriveresti in poche parole?
«L’Uruguay è un paese dell’America Latina con 3 milioni e mezzo di abitanti. La sua popolazione è molto concentrata nella capitale, dove risiede circa la metà degli uruguayani. Paese relativamente piccolo a confronto con gli altri paesi latinoamericani, l’Uruguay è schiacciato dai due giganti che gli stanno ai lati: il Brasile e l’Argentina. E lo stesso processo di formazione nazionale fu una decisione presa a tavolino dal Brasile e l’Argentina che, per evitare altri conflitti e violenze, decisero di formare uno stato cuscinetto, lo stato uruguayano. È un paese in cui l’apparato statale, unico fornitore di servizi, è il maggiore datore di lavoro. È soprattutto un paese agricolo e di allevamento, che però sta diventando interessante anche dal punto di vista turistico. Soprattutto turismo costiero e stagionale».

A parte i periodi della dittatura, la politica dell’Uruguay è sempre stata dominata da due partiti conservatori, il partito dei Blancos e quello dei Colorados. Dal 2005 è però al potere una coalizione di centrosinistra, guidata dall’oncologo Tabaré Vázquez. Puoi raccontarci come sta procedendo questa esperienza di governo?
«Il governo del Frente amplio (Fronte ampio, in italiano) è stata una svolta storica per questo paese. Dopo 150 anni di governi istituzionali o di periodi di dittatura, un insieme di partiti dalle anime diverse è riuscito a compattarsi in un unico movimento di opposizione. Ripeto: è stata una svolta molto grande per questo stato. Con l’avvento del Frente amplio ci sono stati cambiamenti sociali e culturali; ci sono stati investimenti importanti in settori che in precedenza venivano considerati marginali e secondari rispetto ad altri. C’è stata la lotta all’indigenza, alla povertà estrema, ma probabilmente 5 anni sono pochi per fare una considerazione generale sull’impatto della politica del Frente amplio. Sicuramente il Fronte ampio come molti altri partiti progressisti in America Latina hanno ancora una sfida da affrontare e vincere: la lotta alla povertà e alla distribuzione iniqua delle risorse economiche».

Vuoi dire che neppure il piccolo Uruguay è esente dalle piaghe latinoamericane della povertà e dell’ingiusta distribuzione delle risorse?
«È così. Anche in Uruguay c’è un problema di povertà, anche se forse ha una dimensione diversa rispetto agli altri paesi: qui riguarda il 20-25% della popolazione. Spesso i poveri non sono persone senza lavoro: buona parte di questi poveri hanno un lavoro, magari precario e molto duro, ma percepiscono uno stipendio che non garantisce la soddisfazione delle necessità primarie. L’Uruguay non ha risorse strategiche. Deve importare tutto: prodotti industriali, tecnologia, prodotti tipici e questo fa sì che il costo dei prodotti sia alto e gli stipendi non siano sufficienti. Insomma, le condizioni di vita di un uruguayano medio non sono ottimali».

Una delle sorprese di questa città è stata quella di trovare quartieri afro… 
«Il 10% della popolazione montevideana è di origine africana. E storicamente Barrio Sur e Palermo sono i quartieri della comunità afro-uruguayana. Hanno caratteristiche molto interessanti, ma anche storie di dolore e violenza. Per esempio, i simboli della comunità afro-uruguayana a Barrio Sur e Palermo sono due edifici popolari, dove vivevano famiglie afro-uruguayane che furono espulse, cacciate violentemente, durante gli anni della dittatura militare».

Nel quartiere di Barrio Sur, Icei porta avanti un progetto interessante. Puoi parlarcene?
«Noi lavoriamo con la comunità, che ha tutta una serie di realtà e organizzazioni artistiche, sociali, educative, cornoperative. Con il nostro progetto turistico vogliamo evidenziare l’elemento comunitario, la presenza della comunità come protagonista nella gestione dell’offerta turistica. Immaginando un viaggio ideale, unico che è quello della conoscenza della cultura afro-uruguayana che normalmente non appare. Perché la comunità africana di Montevideo ha sviluppato una musica, una tradizione musicale che è propria di questo territorio».

Ti riferisci al cosiddetto «candombe»…
«Sì, il candombe l’espressione massima della musica tradizionale afro-uruguayana. E il momento migliore per ascoltarlo è quello del carnevale, uno dei più lunghi del mondo. Il carnevale di Montevideo è quello delle “chiamate” (llamadas) al ritmo contagioso dei tamburi (tambores) e delle rappresentazioni teatral-musicali nello scenario dei quartieri (murgas)».

Ieri, mentre visitavamo Barrio Sur, abbiamo avuto un fuori programma, diciamo così. Vuoi raccontarlo brevemente?
«Sì. Abbiamo assistito ad una breve sparatoria e all’intervento della polizia su un piccolo gruppo di drogati. Uno dei motivi per il quale interveniamo nel barrio è proprio per cercare di sconfiggere la diffusione di questa droga che si chiama pasta base e che è molto deleteria».

Che contributo può dare il turismo contro la droga?
«Potrebbe diventare un fattore di limitazione alla diffusione del fenomeno. In generale, sosteniamo il turismo comunitario come strategia di lotta contro il degrado, la marginalità e la povertà. Attraverso di esso vogliamo favorire la riappropriazione da parte della comunità di un territorio e la rivalorizzazione della sua identità culturale. Il turismo si chiama “comunitario”, perché la comunità diventa la protagonista della realizzazione e della gestione dell’offerta turistica. La quale, pertanto, viene difesa, protetta, preservata. Il turismo, lo vedevamo ieri, può essere una fonte di lavoro molto importante. Uno dei motivi della diffusione della droga è proprio dovuto alla mancanza di possibilità lavorative o educative».

A proposito della visita di ieri a Barrio Sur… Ancora una volta abbiamo constatato che, nelle situazioni difficili, le donne sono quelle che lavorano di più per uscire dai problemi, per trovare soluzioni.
«Sì, è un fenomeno tipico delle crisi economiche latinoamericane degli ultimi anni. Il ruolo da protagonista assunto dalle donne nella definizione, ma anche nella attuazione delle strategie di sopravvivenza e di sviluppo. In sostanza, la crisi economica in Argentina e Uruguay è anche la crisi della figura maschile. L’uomo che perde il lavoro e che non riesce ad accettare questa situazione di emarginazione. Con delle ripercussioni psicologiche importanti, legate ad un aspetto fondamentale della cultura maschile: il lavoro fa dell’uomo un uomo. Dopo la crisi l’uomo resta a casa. La donna invece, con la crisi deve darsi da fare e cercare di trovare strategie alternative per la propria famiglia. Questo fenomeno socio-culturale è molto presente come testimonia il fatto che nei movimenti sociali e nelle organizzazioni comunitarie la presenza delle donne è molto forte. Mi spiegava Ivonne, la rappresentante comunitaria di Barrio Sur, che la difficoltà di articolazione con le altre organizzazioni del quartiere nasce anche dalla circostanza che la Casa del Vecino è una organizzazione composta di donne».

Siamo a due passi dal porto, nella parte vecchia della città di Montevideo. Poco fa abbiamo visto passare un transatlantico, una nave crociera, puoi dirci la tua opinione su questa ambivalenza del fenomeno turistico: da una parte il turismo dei grandi numeri e dei tanti soldi, dall’altra il turismo responsabile, sostenibile, comunitario…
«L’Uruguay riceve molte navi da crociera per la sua posizione strategica: il porto di Montevideo è molto più vicino al mare che non il porto di Buenos Aires. Effettivamente è un turismo dai grandi numeri (3.600 persone per barca) e un turismo che muove tanti soldi. Però, l’impatto che produce questo turismo sulla realtà economica e sulla società dell’Uruguay è molto limitato. Il turismo produce ricchezza: in molti paesi è una delle principali fonti di entrate dello stato. Tuttavia, molto raramente questo tipo di turismo produce redistribuzione di ricchezza. La ricchezza si concentra infatti nelle mani di soggetti transnazionali e non ha un impatto positivo sulla qualità di vita della popolazione locale. Le crociere rientrano pienamente in questa tipologia. Come d’altra parte avviene per Colonia, dove il turista va e torna in un giorno. Colonia è una città al di là del Rio de la Plata, molto più vicina a Buenos Aires che a Montevideo, una città storica, una colonia portoghese, patrimonio dell’Unesco, molto carina. C’è un transito impressionante di turisti che, in un giorno, visitano la città e poi tornano a Buenos Aires».

Abbiamo parlato di crociere. Abbiamo parlato di Montevideo e di Colonia. Però non abbiamo accennato a Punta dell’Este…
«Quello di Punta dell’Este è però un turismo d’élite. Ci sono europei che fanno 13 mila Km per passare le prime due settimane di gennaio qui. È un fenomeno molto ridotto, stagionale, che non produce un impatto economico positivo sulla popolazione, che non è fonte di sviluppo e di crescita».

Toiamo allora alla vostra idea di turismo.
«Preso atto che l’Uruguay ha potenzialità turistiche inesplorate, noi vogliamo sviluppare un turismo che si avvicini alle comunità di un paese attraverso i racconti, la storia, le leggende, i suoni, la cultura delle persone che di quelle comunità sono parte. Tutto quello che abbiamo visto visitando Barrio Sur: la musica, i colori, i suoni, le parole degli abitanti  e non di persone estee. Chi beneficia di questo approccio diverso non è soltanto la comunità, ma anche il visitatore: è uno scambio, che arricchisce entrambi. Perché quando il turista toerà a casa, si ricorderà non soltanto i luoghi, ma anche e soprattutto i volti e i racconti delle persone».

Il mondo sta vivendo una crisi generalizzata. Questa si sta riflettendo o si rifletterà su un paese come l’Uruguay?
«Questo è un momento di crisi molto acuta. In Uruguay, essa riguarda soprattutto il mondo agricolo. Per ragioni naturali, congiunturali, intee, inteazionali. La produzione agricola è distrutta, dato che non piove da diversi mesi. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle. Gli animali (l’allevamento è un settore fondamentale di questo paese) stanno morendo. Ci saranno dei costi molto alti per i produttori e la popolazione. Il problema è che l’attuale modello economico agricolo non prende in considerazione quelli che sono gli elementi per una crescita duratura e per una strategia di sviluppo. Ad esempio: gli elementi di sostenibilità, l’impatto ambientale, il cambio climatico (che ormai non può essere dimenticato nelle strategie di sviluppo di un paese). Ed ancora, le risorse idriche e la loro gestione. La siccità non è un evento di questo anno, ma un fenomeno con cui ci si dovrà confrontare anche negli anni futuri».

Icei, la vostra organizzazione, lavora anche nel campo agricolo con alcuni progetti. In cosa consistono?
«In Uruguay, noi lavoriamo nel campo dell’agricoltura familiare. In particolare, siamo attivi con un progetto sulle piante medicinali, finanziato dal ministero degli affari esteri italiano. È un progetto sull’uso di piante come prodotto terapeutico. Anzi, devo dirlo meglio: è un progetto sull’uso popolare delle piante come medicina. Il progetto si chiama “dialogo tra saperi”, perché l’obiettivo è il reciproco riconoscimento dei diversi saperi: il sapere accademico, il sapere scientifico, il sapere popolare… Noi stiamo lavorando quasi esclusivamente con donne rurali, che sono depositarie di un sapere popolare sulla coltivazione, la raccolta, l’uso delle piante come medicina in zone dove l’accesso alla salute può essere un problema».

Cristian, per me l’Uruguay è il paese di Eduardo Galeano. Tutti i suoi libri vengono tradotti in italiano. Però, tu hai un altro nome da proporci…
«È un autore con un nome tutto italiano: Mario Benedetti. È un autore latinoamericano, che associo alla letteratura italiana di inizio secolo scorso: Svevo, Pirandello… È un autore con molta attenzione nei confronti della società. Galeano forse è più politico, mentre Benedetti è uno scrittore più sociale, che si interessa delle piccole grandi tragedie dell’umanità, descrive l’uruguayano per quello che è. È scrittore, drammaturgo, poeta…
Accanto a questi scrittori importanti, ci sono anche cantautori, che hanno saputo raccontare la cultura uruguayana… Uno dei sogni che avevo quando venni in America Latina era di poter ascoltare dal vivo Daniel Viglietti. Finalmente, ci sono riuscito e l’ho anche conosciuto di persona. È un cantautore, un artista dal forte impegno politico.
Insomma, la cultura uruguayana è molto ricca. Non va dimenticato che questo è uno dei paesi più colti delle Americhe, con il tasso di alfabetizzazione più alto dopo Cuba».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Piccolo e orgoglioso

U come Uruguay

Schiacciato tra Argentina e Brasile, l’Uruguay è un paese semisconosciuto. Eppure ha una storia importante, anche in relazione all’Italia. Lì ha vissuto Giuseppe Garibaldi, lì sono arrivati migliaia di emigrati italiani (quasi il 40 per cento della popolazione è di origine italiana). Ed oggi…

Montevideo. C’è un poliziotto quasi ad ogni incrocio. Eppure la città – la parte vecchia della capitale uruguagia – sembra deserta di persone e di auto. È domenica, uffici e negozi sono chiusi. Spinti da una curiosità che necessita di soddisfazione, domandiamo ad un agente con una pettorina giallo canarino: «Perché c’è un poliziotto ad ogni angolo?». «Perché – ci risponde gentilissimo (probabilmente felice di rompere la noia della mansione) – quando attraccano le navi da crociera la sicurezza nella  zona della città vecchia viene rafforzata per proteggere i turisti che sbarcano a terra». E, infatti, al porto è attraccata una nave da crociera, tanto grande che pare una città galleggiante.
Il porto di Montevideo dista da quello di Buenos Aires poco più di 3 ore, ma è spesso preferito dalle imbarcazioni perché, a differenza del secondo, guarda direttamente sull’Oceano Atlantico, invece che sul Rio de la Plata. Per questo qui attraccano le navi delle grandi compagnie crocieristiche – Princess Cruises, Royal Caribbean, Norwegian Cruise Line, tra le principali -, che sbarcano migliaia di persone al colpo. Sono turisti mordi e fuggi, che scendono a terra intruppati e spesso con la paura di essere scippati, aggrediti, imbrogliati. Si fanno fotografare davanti ad un monumento, non hanno tempo per parlare con la gente del posto a meno che non si tratti del cameriere o del venditore di souvenir.
Peccato, perché l’Uruguay meriterebbe attenzione, nonostante sia schiacciato – fisicamente, politicamente e mediaticamente – dai due grandi paesi confinanti, il Brasile e l’Argentina.

Provenendo da Buenos Aires, metropoli sfavillante e vibrante di vita, una persona potrebbe giudicare Montevideo una città sonnolenta. Ma la prima apparenza non sempre è quella giusta. Come ha scritto, con mirabile autornironia, Eduardo Galeano: «Noi uruguayani, malinconici, poco reattivi, che sulle prime sembriamo argentini col valium» (1). Appunto, sulle prime.
Ricordiamo allora alcuni fatti di sostanza. Lungimiranti ed antisignani – alla luce dell’attuale crisi planetaria – sono stati gli uruguayani quando furono chiamati a decidere su questioni di vitale importanza. Con i referendum del 1992, essi hanno respinto – con una maggioranza del 72% – le proposte che miravano alla privatizzazione delle imprese pubbliche. E nell’ottobre 2004 sono stati straordinari nel dire «no» alla privatizzazione dell’acqua, richiesta dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale (2). In seguito a quel referendum, la costituzione del 1967 è stata integrata. Oggi l’articolo 47 della carta fondamentale dell’Uruguay recita così: «L’acqua è una risorsa naturale essenziale per la vita. L’accesso all’acqua potabile e l’accesso alla bonifica costituiscono diritti umani fondamentali» (3).
Un altro momento che ha evidenziato la maturità del paese riguarda la politica intea. Il movimento guerrigliero dei «tupamaros», che lottò (e perse) contro la dittatura militare, è stato recuperato alla politica ed è riuscito a diventare il secondo partito in parlamento (con il nome di «Movimiento de partecipación popular») ed il primo nella maggioranza di centrosinistra («Encuentro progresista-Frente amplio»). Anticipando di qualche anno quanto poi sarebbe accaduto nel Salvador, dove nel marzo 2009 sono arrivati al governo gli ex guerriglieri del «Frente Farabundo Martí para la liberación nacional» (Fmln).
Dalle fila del Frente amplio è uscito Tabaré Vázquez, attuale presidente del paese latinoamericano.

Nella vita, Ramón Tabaré Vázquez fa il medico oncologo. Dal 2005 è presidente dell’Uruguay, primo capo di stato progressista nella storia del paese latinoamericano, dopo 150 anni di governi conservatori tra Blancos e Colorados (i due partiti egemoni fino al 1971, anno della nascita del Frente amplio) e il decennio della dittatura militare. In questi anni, l’Uruguay è cresciuto, ma il percorso del dottor Tabaré Vázquez non è stato e non è semplice.
Due fatti hanno reso difficili questi anni, uno di natura internazionale e l’altro interno. Il primo riguarda i rapporti con l’Argentina, divenuti tesi da quando – era il 2002 – il governo di Montevideo decise di costruire due grandi cartiere (papeleras, in spagnolo) sulle acque del Rio Uruguay, fiume che funge da confine tra Uruguay ed Argentina. Gli argentini contestano la presenza delle industrie perché produrrebbero un grave inquinamento.  Da allora, ci sono state periodiche proteste delle popolazioni argentine che vivono nei  pressi degli impianti produttivi, mentre i due governi si sono dati battaglia legale negli ambiti inteazionali (Mercosur e Corte internazionale di giustizia), senza riuscire a trovare una soluzione.
Il fatto interno è stato ancora più devastante, perché ha guastato i rapporti del presidente con la sua coalizione. Tabaré Vázquez ha posto il veto presidenziale alla legge di depenalizzazione dell’aborto, votata dal parlamento. La norma mirava a cancellare una vecchia legge del 1938, il cui articolo 325 afferma che «la donna che causa il suo aborto o lo consente sarà punita con la prigione da 3 a 9 mesi» (4).
Intanto, a fine giugno, ci sarà un altro passaggio importante per la coalizione al potere: con elezioni intee il Frente amplio sceglierà il proprio candidato per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2009. A contendersi la nomina, ci sono 3 candidati, ma 2 sono quelli forti: il moderato Danilo Astori, economista liberista ed ex ministro dell’economia e delle finanze, e José Mujica detto el Pepe (5), ex guerrigliero tupamaro ed ex ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca.

E duardo Galeano ha parlato di «un paese ignorato, un paese quasi segreto, chiamato Uruguay». Forse anche per questo è diventato un paese vitale e capace di sorprendere. Come ci ha confermato l’anonimo artista di strada di Plaza Constitución che, vedendoci andare in direzione del porto, così ci ha salutato: «Buen viaje! Y no se olviden de ser felices!». Ovvero: «Buon viaggio! E non dimenticatevi di essere felici!».

Di Paolo Moiola

(1)  Eduardo Galeano, Duopolio addio. L’Uruguay va ai vinti, il Manifesto 2 novembre 2004 e Latinoamerica n.89/4.2004.
(2) Si legga: Gennaro Carotenuto, La rivincita di Tupacamaru, Latinoamerica n.89/4.2004; Raúl Pierri, No a la privatización del agua, Ips, 31 Octubre 2004.
(3) Testuale: «El agua es un recurso natural esencial para la vida. El acceso al agua potable y el acceso al saneamiento constituyen derechos humanos fundamentales».
(4) Il presidente ha però firmato la nuova legge sul testamento biologico, approvata il 18 marzo 2009.
(4) Si veda il blog: www.pepetalcuales.com.uy.

Paolo Moiola