C come cooperazione: Cristian Brisacani
L’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana, lavora a Montevideo nei campi del turismo comunitario, delle piante medicinali, dei saperi tradizionali e dei diritti umani.
Montevideo. Sulla soleggiata terrazza della Posada al Sur, nel cuore della vecchia Montevideo, a pochi passi dal porto, Cristian si gusta il mate, del quale – dopo anni trascorsi tra Buenos Aires e Montevideo – non può fare più a meno. Cristian Brisacani lavora nella capitale uruguayana per l’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana che ha molti progetti in America Latina.
In Uruguay c’è stata una consistente emigrazione italiana. Tuttavia, difficilmente un italiano saprebbe trovare di prim’acchito questo paese sul mappamondo. Cristian, come lo descriveresti in poche parole?
«L’Uruguay è un paese dell’America Latina con 3 milioni e mezzo di abitanti. La sua popolazione è molto concentrata nella capitale, dove risiede circa la metà degli uruguayani. Paese relativamente piccolo a confronto con gli altri paesi latinoamericani, l’Uruguay è schiacciato dai due giganti che gli stanno ai lati: il Brasile e l’Argentina. E lo stesso processo di formazione nazionale fu una decisione presa a tavolino dal Brasile e l’Argentina che, per evitare altri conflitti e violenze, decisero di formare uno stato cuscinetto, lo stato uruguayano. È un paese in cui l’apparato statale, unico fornitore di servizi, è il maggiore datore di lavoro. È soprattutto un paese agricolo e di allevamento, che però sta diventando interessante anche dal punto di vista turistico. Soprattutto turismo costiero e stagionale».
A parte i periodi della dittatura, la politica dell’Uruguay è sempre stata dominata da due partiti conservatori, il partito dei Blancos e quello dei Colorados. Dal 2005 è però al potere una coalizione di centrosinistra, guidata dall’oncologo Tabaré Vázquez. Puoi raccontarci come sta procedendo questa esperienza di governo?
«Il governo del Frente amplio (Fronte ampio, in italiano) è stata una svolta storica per questo paese. Dopo 150 anni di governi istituzionali o di periodi di dittatura, un insieme di partiti dalle anime diverse è riuscito a compattarsi in un unico movimento di opposizione. Ripeto: è stata una svolta molto grande per questo stato. Con l’avvento del Frente amplio ci sono stati cambiamenti sociali e culturali; ci sono stati investimenti importanti in settori che in precedenza venivano considerati marginali e secondari rispetto ad altri. C’è stata la lotta all’indigenza, alla povertà estrema, ma probabilmente 5 anni sono pochi per fare una considerazione generale sull’impatto della politica del Frente amplio. Sicuramente il Fronte ampio come molti altri partiti progressisti in America Latina hanno ancora una sfida da affrontare e vincere: la lotta alla povertà e alla distribuzione iniqua delle risorse economiche».
Vuoi dire che neppure il piccolo Uruguay è esente dalle piaghe latinoamericane della povertà e dell’ingiusta distribuzione delle risorse?
«È così. Anche in Uruguay c’è un problema di povertà, anche se forse ha una dimensione diversa rispetto agli altri paesi: qui riguarda il 20-25% della popolazione. Spesso i poveri non sono persone senza lavoro: buona parte di questi poveri hanno un lavoro, magari precario e molto duro, ma percepiscono uno stipendio che non garantisce la soddisfazione delle necessità primarie. L’Uruguay non ha risorse strategiche. Deve importare tutto: prodotti industriali, tecnologia, prodotti tipici e questo fa sì che il costo dei prodotti sia alto e gli stipendi non siano sufficienti. Insomma, le condizioni di vita di un uruguayano medio non sono ottimali».
Una delle sorprese di questa città è stata quella di trovare quartieri afro…
«Il 10% della popolazione montevideana è di origine africana. E storicamente Barrio Sur e Palermo sono i quartieri della comunità afro-uruguayana. Hanno caratteristiche molto interessanti, ma anche storie di dolore e violenza. Per esempio, i simboli della comunità afro-uruguayana a Barrio Sur e Palermo sono due edifici popolari, dove vivevano famiglie afro-uruguayane che furono espulse, cacciate violentemente, durante gli anni della dittatura militare».
Nel quartiere di Barrio Sur, Icei porta avanti un progetto interessante. Puoi parlarcene?
«Noi lavoriamo con la comunità, che ha tutta una serie di realtà e organizzazioni artistiche, sociali, educative, cornoperative. Con il nostro progetto turistico vogliamo evidenziare l’elemento comunitario, la presenza della comunità come protagonista nella gestione dell’offerta turistica. Immaginando un viaggio ideale, unico che è quello della conoscenza della cultura afro-uruguayana che normalmente non appare. Perché la comunità africana di Montevideo ha sviluppato una musica, una tradizione musicale che è propria di questo territorio».
Ti riferisci al cosiddetto «candombe»…
«Sì, il candombe l’espressione massima della musica tradizionale afro-uruguayana. E il momento migliore per ascoltarlo è quello del carnevale, uno dei più lunghi del mondo. Il carnevale di Montevideo è quello delle “chiamate” (llamadas) al ritmo contagioso dei tamburi (tambores) e delle rappresentazioni teatral-musicali nello scenario dei quartieri (murgas)».
Ieri, mentre visitavamo Barrio Sur, abbiamo avuto un fuori programma, diciamo così. Vuoi raccontarlo brevemente?
«Sì. Abbiamo assistito ad una breve sparatoria e all’intervento della polizia su un piccolo gruppo di drogati. Uno dei motivi per il quale interveniamo nel barrio è proprio per cercare di sconfiggere la diffusione di questa droga che si chiama pasta base e che è molto deleteria».
Che contributo può dare il turismo contro la droga?
«Potrebbe diventare un fattore di limitazione alla diffusione del fenomeno. In generale, sosteniamo il turismo comunitario come strategia di lotta contro il degrado, la marginalità e la povertà. Attraverso di esso vogliamo favorire la riappropriazione da parte della comunità di un territorio e la rivalorizzazione della sua identità culturale. Il turismo si chiama “comunitario”, perché la comunità diventa la protagonista della realizzazione e della gestione dell’offerta turistica. La quale, pertanto, viene difesa, protetta, preservata. Il turismo, lo vedevamo ieri, può essere una fonte di lavoro molto importante. Uno dei motivi della diffusione della droga è proprio dovuto alla mancanza di possibilità lavorative o educative».
A proposito della visita di ieri a Barrio Sur… Ancora una volta abbiamo constatato che, nelle situazioni difficili, le donne sono quelle che lavorano di più per uscire dai problemi, per trovare soluzioni.
«Sì, è un fenomeno tipico delle crisi economiche latinoamericane degli ultimi anni. Il ruolo da protagonista assunto dalle donne nella definizione, ma anche nella attuazione delle strategie di sopravvivenza e di sviluppo. In sostanza, la crisi economica in Argentina e Uruguay è anche la crisi della figura maschile. L’uomo che perde il lavoro e che non riesce ad accettare questa situazione di emarginazione. Con delle ripercussioni psicologiche importanti, legate ad un aspetto fondamentale della cultura maschile: il lavoro fa dell’uomo un uomo. Dopo la crisi l’uomo resta a casa. La donna invece, con la crisi deve darsi da fare e cercare di trovare strategie alternative per la propria famiglia. Questo fenomeno socio-culturale è molto presente come testimonia il fatto che nei movimenti sociali e nelle organizzazioni comunitarie la presenza delle donne è molto forte. Mi spiegava Ivonne, la rappresentante comunitaria di Barrio Sur, che la difficoltà di articolazione con le altre organizzazioni del quartiere nasce anche dalla circostanza che la Casa del Vecino è una organizzazione composta di donne».
Siamo a due passi dal porto, nella parte vecchia della città di Montevideo. Poco fa abbiamo visto passare un transatlantico, una nave crociera, puoi dirci la tua opinione su questa ambivalenza del fenomeno turistico: da una parte il turismo dei grandi numeri e dei tanti soldi, dall’altra il turismo responsabile, sostenibile, comunitario…
«L’Uruguay riceve molte navi da crociera per la sua posizione strategica: il porto di Montevideo è molto più vicino al mare che non il porto di Buenos Aires. Effettivamente è un turismo dai grandi numeri (3.600 persone per barca) e un turismo che muove tanti soldi. Però, l’impatto che produce questo turismo sulla realtà economica e sulla società dell’Uruguay è molto limitato. Il turismo produce ricchezza: in molti paesi è una delle principali fonti di entrate dello stato. Tuttavia, molto raramente questo tipo di turismo produce redistribuzione di ricchezza. La ricchezza si concentra infatti nelle mani di soggetti transnazionali e non ha un impatto positivo sulla qualità di vita della popolazione locale. Le crociere rientrano pienamente in questa tipologia. Come d’altra parte avviene per Colonia, dove il turista va e torna in un giorno. Colonia è una città al di là del Rio de la Plata, molto più vicina a Buenos Aires che a Montevideo, una città storica, una colonia portoghese, patrimonio dell’Unesco, molto carina. C’è un transito impressionante di turisti che, in un giorno, visitano la città e poi tornano a Buenos Aires».
Abbiamo parlato di crociere. Abbiamo parlato di Montevideo e di Colonia. Però non abbiamo accennato a Punta dell’Este…
«Quello di Punta dell’Este è però un turismo d’élite. Ci sono europei che fanno 13 mila Km per passare le prime due settimane di gennaio qui. È un fenomeno molto ridotto, stagionale, che non produce un impatto economico positivo sulla popolazione, che non è fonte di sviluppo e di crescita».
Toiamo allora alla vostra idea di turismo.
«Preso atto che l’Uruguay ha potenzialità turistiche inesplorate, noi vogliamo sviluppare un turismo che si avvicini alle comunità di un paese attraverso i racconti, la storia, le leggende, i suoni, la cultura delle persone che di quelle comunità sono parte. Tutto quello che abbiamo visto visitando Barrio Sur: la musica, i colori, i suoni, le parole degli abitanti e non di persone estee. Chi beneficia di questo approccio diverso non è soltanto la comunità, ma anche il visitatore: è uno scambio, che arricchisce entrambi. Perché quando il turista toerà a casa, si ricorderà non soltanto i luoghi, ma anche e soprattutto i volti e i racconti delle persone».
Il mondo sta vivendo una crisi generalizzata. Questa si sta riflettendo o si rifletterà su un paese come l’Uruguay?
«Questo è un momento di crisi molto acuta. In Uruguay, essa riguarda soprattutto il mondo agricolo. Per ragioni naturali, congiunturali, intee, inteazionali. La produzione agricola è distrutta, dato che non piove da diversi mesi. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle. Gli animali (l’allevamento è un settore fondamentale di questo paese) stanno morendo. Ci saranno dei costi molto alti per i produttori e la popolazione. Il problema è che l’attuale modello economico agricolo non prende in considerazione quelli che sono gli elementi per una crescita duratura e per una strategia di sviluppo. Ad esempio: gli elementi di sostenibilità, l’impatto ambientale, il cambio climatico (che ormai non può essere dimenticato nelle strategie di sviluppo di un paese). Ed ancora, le risorse idriche e la loro gestione. La siccità non è un evento di questo anno, ma un fenomeno con cui ci si dovrà confrontare anche negli anni futuri».
Icei, la vostra organizzazione, lavora anche nel campo agricolo con alcuni progetti. In cosa consistono?
«In Uruguay, noi lavoriamo nel campo dell’agricoltura familiare. In particolare, siamo attivi con un progetto sulle piante medicinali, finanziato dal ministero degli affari esteri italiano. È un progetto sull’uso di piante come prodotto terapeutico. Anzi, devo dirlo meglio: è un progetto sull’uso popolare delle piante come medicina. Il progetto si chiama “dialogo tra saperi”, perché l’obiettivo è il reciproco riconoscimento dei diversi saperi: il sapere accademico, il sapere scientifico, il sapere popolare… Noi stiamo lavorando quasi esclusivamente con donne rurali, che sono depositarie di un sapere popolare sulla coltivazione, la raccolta, l’uso delle piante come medicina in zone dove l’accesso alla salute può essere un problema».
Cristian, per me l’Uruguay è il paese di Eduardo Galeano. Tutti i suoi libri vengono tradotti in italiano. Però, tu hai un altro nome da proporci…
«È un autore con un nome tutto italiano: Mario Benedetti. È un autore latinoamericano, che associo alla letteratura italiana di inizio secolo scorso: Svevo, Pirandello… È un autore con molta attenzione nei confronti della società. Galeano forse è più politico, mentre Benedetti è uno scrittore più sociale, che si interessa delle piccole grandi tragedie dell’umanità, descrive l’uruguayano per quello che è. È scrittore, drammaturgo, poeta…
Accanto a questi scrittori importanti, ci sono anche cantautori, che hanno saputo raccontare la cultura uruguayana… Uno dei sogni che avevo quando venni in America Latina era di poter ascoltare dal vivo Daniel Viglietti. Finalmente, ci sono riuscito e l’ho anche conosciuto di persona. È un cantautore, un artista dal forte impegno politico.
Insomma, la cultura uruguayana è molto ricca. Non va dimenticato che questo è uno dei paesi più colti delle Americhe, con il tasso di alfabetizzazione più alto dopo Cuba».
Paolo Moiola
Paolo Moiola