Gaza: 10 giorni dopo il cessate il fuoco
Una campagna militare, presentata all’opinione mondiale come operazione di «legittima difesa», in 22 giorni di bombardamenti aerei e incursioni di carri armati ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, distruggendo case, scuole, alberghi, ospedali e altre infrastrutture, provocando soprattutto morti, feriti e profughi, riducendo la popolazione palestinese alla miseria più nera, senza tuttavia cancellae la dignità e la voglia di ricostruire il proprio futuro, in attesa della pace.
R afah, 28 gennaio 2009. Dopo un viaggio di diverse ore lungo la costa settentrionale del Sinai, arriviamo al valico egiziano. La guerra israeliana contro la popolatissima Striscia è terminata il 18 e l’Egitto ha riaperto, con il contagocce, il passaggio. Ne approfittiamo per presentarci alle autorità egiziane di confine, che, da quasi tre anni, contribuiscono all’assedio di Gaza.
Ci disponiamo ad attendere diverse ore, in coda all’ufficio passaporti, in compagnia di decine di altre persone: un simpatico e creativo gruppo di ingegneri egiziani con tanto di elmetto giallo, due parlamentari marocchini, attivisti greci e feriti palestinesi di ritorno dagli ospedali del Cairo.
Mentre aspettiamo più o meno pazientemente, osserviamo alcuni ragazzi con arti ingessati o amputati. Sono stati feriti dalle bombe lanciate da Israele, poche settimane prima, durante l’operazione «Piombo fuso»: dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Storie di umanità ferita
Hamid ha 30 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha passato diversi giorni in un ospedale del Cairo, dove è stato sottoposto a quattro interventi. Ci indica le ferite: sono sparse in tutto il corpo. È un giovane padre di famiglia, residente a Beit Lahiya, nel nord della Striscia: è uno delle centinaia e centinaia di «terroristi» che Israele ha fatto a pezzi. La sua colpa, infatti, è stata quella di uscire in strada, una mattina – il primo giorno di invasione di terra israeliana – per comprare un po’ di dolci ai figlioletti terrorizzati dai bombardamenti nottui. Mentre era al supermercato, un missile dell’aviazione si è abbattuto su di lui e su altri cittadini, uccidendone sei. Lui si è salvato, ma è rimasto gravemente ferito.
Thaer ha 18 anni e anche lui viene da Beit Lahia. I medici egiziani gli hanno amputato una gamba, spappolata dai cannoni dell’artiglieria israeliana. Pure lui, a quanto pare, era un «terrorista», come le sue nove sorelle e il fratellino disabile. La loro casa era stata rasa al suolo 25 giorni prima. Suo papà lo guarda con gli occhi pieni di lacrime, accarezzandogli il capo: «Grazie a Dio» ci dice. È l’unico figlio che gli è rimasto…
Dopo un numero interminabile di ore, un solerte ufficiale ci spiega che non potremo procedere verso i Territori palestinesi. Nonostante le lettere di «remissione di responsabilità» rilasciateci dalla Faesina e dall’ambasciata italiana al Cairo, necessarie per recarci a Gaza, ci manca ancora qualcosa: una presentazione ufficiale dei dirigenti dell’Ordine dei giornalisti d’Egitto.
Nonostante i proclami di fratellanza e solidarietà con una popolazione stremata da quasi 3 anni di embargo e 22 giorni di attacchi da cielo, terra e mare, le autorità del Cairo permettono solo raramente l’entrata e l’uscita dalla Striscia. A nord e a est, ci pensa Israele a sigillare gli altri valichi.
Ci ripresentiamo il giorno successivo con la lettera dei colleghi egiziani, determinati a passare. Con noi valicheranno il confine ingegneri giordani, palestinesi feriti, diversi medici e altri giornalisti.
L’armageddon
La Rafah palestinese ci appare in tutta la sua devastazione: case rase al suolo dai missili e carri armati israeliani, campi spianati dai bulldozer. «Hanno fatto un deserto di macerie e distruzione e l’hanno chiamato “legittima difesa”» ci viene subito da pensare, parafrasando una celebre espressione.
Pochi chilometri più avanti, a Khan Younes, vedremo abitazioni, scuole, sedi della polizia cittadina, ufficio postale e altri luoghi pubblici ridotti a cumuli di detriti. In questa cittadina le vittime dei bombardamenti per niente selettivi di Israele sono state 120 e i feriti 150.
La Striscia di Gaza è larga 7 km e lunga poco più di 50. Percorrerla da sud a nord – Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza City, Jabaliya, Beit Lahiyah – necessita di poche ore. Dovunque, ora, c’è morte e distruzione.
Nuseirat è dislocata nei pressi di Deir al-Balah, nella regione centrale: fermiamo l’auto davanti a una barriera di lamiera. C’è scritto: «Centro di polizia di Nuseirat»; ma di quella che fino a poche settimana fa era una caserma rimangono solo i blocchi di cemento fracassati dai missili israeliani e crollati sopra i poliziotti che vi prestavano servizio. I morti sono stati 70, tutti giovani fatti a pezzi dall’esplosione o schiacciati da pesanti lastroni.
«Missili contro covo di terroristi» hanno tuonato i nostri media. In realtà, si trattava degli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti di loro, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti.
Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo la strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: a destra e a sinistra scorrono cittadine, campi profughi, terreni agricoli. Nulla è stato risparmiato dalla furia devastatrice dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane: intere palazzine, edifici di 15-18 piani, aziende, serre, completamente distrutti. Sotto quei massi scagliati qua e là dalla forza delle bombe, i soccorritori hanno estratto intere famiglie massacrate. Cittadini comuni. Non terroristi.
I crateri lasciati dai missili sono ovunque: nei villaggi, nei terreni, nelle strade.
Neanche le scuole sono state risparmiate. Entriamo nel cortile di un complesso scolastico costruito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. I bombardamenti hanno sventrato intere aule, distrutto edifici. I ragazzi ora fanno lezione all’aperto.
Ritorniamo a Khan Younes: siamo ospiti di un albergo della Mezzaluna Rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a famiglie rimaste senza tetto.
Siamo subito colpiti da un particolare, banale e scontato in altre occasioni: nei bagni ci sono asciugamani puliti, sapone e shampoo confezionati. Come in un qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di «normalità» e dignità nell’accoglienza ci commuove.
Questa fierezza, questa forza d’animo la noteremo continuamente, sia negli adulti sia nei bambini. «Andremo avanti – ci dicono – con l’aiuto di Dio». Forse proprio la determinazione e uno spirito indomito hanno permesso al popolo palestinese di sopravvivere a 60 anni di pulizia etnica.
Nella cittadina visitiamo un centro caritativo islamico, dove ogni giorno tantissime persone si recano a chiedere aiuto in denaro e in viveri. Sono circa 800 gli orfani assistiti e tantissime le famiglie indigenti che vengono sostenute. I responsabili dell’associazione, finanziata da organizzazioni arabe e occidentali, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Abspp) di Genova, ci mostrano le foto dei bimbi rimasti orfani e poi quelle dei loro genitori – papà o mamma – uccisi durante i quotidiani bombardamenti di Israele.
La Striscia di Gaza sopravvive grazie alla carità che giunge dall’estero. Qui, infatti, manca tutto: cibo, acqua, vestiario, medicine, libri, quadei, combustibile, materiale sanitario e per l’igiene e la pulizia. L’embargo israelo-internazionale e la chiusura di tutti i valichi di entrata e uscita l’hanno resa un immenso carcere a cielo aperto. A ciò si sono sommati gli «effetti collaterali» di «Piombo fuso», con i 1.366 morti e gli oltre 5.000 feriti, le migliaia e migliaia di edifici distrutti e i danni alla salute e all’ambiente provocati dalle armi di distruzione di massa usate dall’aviazione e dall’artiglieria di Israele.
Scelta «sbagliata» dei palestinesi
Ora la maggior parte dei palestinesi di Gaza è costretta a vivere di aiuti umanitari, ma prima non era così. In questa striscia di terra c’erano industrie alimentari e di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Non era certo la Svizzera, ma non c’erano la fame e la miseria attuali. La popolazione della Striscia, e del resto della Palestina, infatti, sta subendo una punizione collettiva, come è stata definita da inviati dell’Onu e personaggi inteazionali come Desmond Tutu e Jimmy Carter, per aver compiuto la scelta elettorale «sbagliata», durante le votazioni del 25 gennaio del 2006, le prime veramente democratiche e monitorate da osservatori inteazionali.
I palestinesi, in quell’occasione, diedero in massa il voto a Hamas, snobbando Fatah, ritenuta da molti corrotta e collaborazionista. Da lì, dall’esito di quella decisione presa dalla maggioranza assoluta di un popolo, è scaturito un disumano embargo e la chiusura di tutta la Striscia, e poi bombardamenti e morte.
Paradossalmente, quelle elezioni furono incoraggiate e sostenute proprio dall’Europa e dagli Stati Uniti, certi del fatto che avrebbe vinto il partito dell’amico Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e non il movimento di resistenza islamica. Questo è ciò che i palestinesi di Gaza rinfacciano a chiunque rivolga loro domande «politiche». È difficile riuscire a dimostrare il contrario, vista la storia degli ultimi tre anni.
Distruggere il futuro
Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio gazese, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Affollano le strade, i vicoli, i campi. I loro piedini nudi affondano nella sabbia e le manine sono protese a salutare. Si avvicinano fiduciosi e sorridenti. Si presentano. Vogliono conoscere i nostri nomi e poi, prima di tornare a giocare, con l’indice e il medio fanno il segno della vittoria.
Sono vivi, loro, ma hanno visto i loro cari, i vicini, gli amici dilaniati dalle bombe «intelligenti» di Israele. A livello psicologico, spiegano medici e psichiatri, il trauma li segnerà per sempre. Da grandi, la rabbia e il dolore impotente, che ora hanno il sopravvento, potranno trasformarli in violenti.
Nonostante si sforzino di dichiarare il contrario, i generali e ministri israeliani lo sanno benissimo: colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. È impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, tantissimi.
Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato israeliano ci ha raccontato che Hamas ha usato scudi umani, ma questa versione deve ancora essere provata dalle indagini che condurranno le Nazioni Unite. Documentate oltre ogni ragionevole dubbio e denunciate da diverse organizzazioni inteazionali, dall’Onu, dal Phr (Physicians for Human Rights, Medici per i diritti umani), da testimoni oculari e dalle testimonianze degli stessi soldati1, sono invece le stragi compiute dall’esercito.
Gaza City: paesaggi lunari
Attraversiamo interi quartieri rasi al suolo o con palazzi trasformati in tanti scheletri. Sembra di essere atterrati su Marte o su una terra del futuro post-guerra nucleare.
Il compound dei ministeri (Finanze, Esteri e Inteo) e il Parlamento ci appaiono in tutta la loro imponente distruzione. Proviamo a pensare alle sedi delle nostre istituzioni, a Roma, e a un qualche Attila che le bombardi, senza rispetto alcuno per ciò che esse rappresentano per un intero popolo.
Qui, anche l’assurdo diventa possibile. Non molto lontano, alla faccia di qualsiasi convenzione di Ginevra e diritto umanitario, vedremo anche l’ospedale al-Quds annerito e ridotto a una semplice carcassa vuota.
Nonostante fossimo preparati al peggio, ciò che vediamo ci lascia impietriti. Proviamo puro sgomento e vergogna, in quanto cittadini di un’Europa completamente incapace di prendere la parte dei deboli, degli oppressi, e di far applicare anche solo un barlume di giustizia.
La morte dell’informazione
Le tre settimane di guerra contro la Striscia di Gaza hanno provocato anche un’altra vittima: l’informazione. Come giornalisti, ci sentiamo mortificati per il modo in cui i nostri media hanno raccontato ai nostri connazionali i massacri israeliani. Tv di stato e private, quotidiani e riviste, ci hanno fornito, senza sostanziali differenze, le stesse notizie, quelle passate loro da Tsahal (Forze di difesa israeliane) e dal governo di Tel Aviv. Il leit motiv che accomunava tutti era: «Israele ha diritto a difendersi dai razzi di Hamas»; «Hamas ha rotto la tregua»2; «negli ospedali/scuole/case si nascondono terroristi di Hamas».
A fronte di tali affermazioni, non vi è stato alcun tentativo di verificare le notizie, di scoprire i fatti, la realtà. A un certo punto, è emerso pure il caso dell’inviato di un importante quotidiano nazionale che, più realista del re, ha scritto che i morti nella Striscia erano 600 e non 1.300, ma è stato prontamente smentito dall’esercito israeliano, il giorno dopo.
La guerra contro Gaza è stata un esperimento, riuscito, di manipolazione delle coscienze attraverso un uso spregiudicato e scorretto dell’informazione. Almeno, fino a quando in internet non hanno iniziato a circolare i video girati dagli operatori della tv satellitare Al-Jazeera, che hanno rivelato al mondo i crimini commessi da Tsahal, e denunciati, appunto, da numerose organizzazioni inteazionali, arabe e israeliane.
Vittorio, il palestinese
A Gaza City incontriamo l’ormai famoso attivista dell’Inteational solidarity movement (Ism), scampato a 22 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza: Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia. Ci racconta delle giornate e delle nottate di bombordamenti israeliani, del suo lavoro di «scudo umano volontario» sulle ambulanze cariche di feriti, nel tentativo di impedire che i soldati israeliani le colpissero, come da documentata abitudine. Ci narra delle telefonate che l’esercito faceva alle famiglie, annunciando bombardamenti imminenti, e dei bambini morti d’infarto, per la paura, il primo giorno di guerra.
Durante le settimane di attacchi continui, Vittorio è stato l’unico corrispondente occidentale: la sua eccezionale testimonianza è stata raccolta in «Gaza, restiamo umani», edita dal Manifesto.
Shifa hospital e tenda degli orrori
Domenica primo febbraio, alle 9, abbiamo appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza. Nel cortile è allestita una tenda con foto delle vittime. Sui tavoli, al centro, sono disposti frammenti delle armi usate da Israele. L’odore è pesante: ci sono pezzi di bombe al fosforo e a frammentazione, e proiettili all’uranio impoverito.
I cittadini entrano, osservano ammutoliti, piangono. Mentre scattiamo foto e prendiamo appunti, ascoltiamo le testimonianze di chi ha perso tutto: figli, marito o moglie, genitori, parenti, casa.
Hanan, una signora sulla cinquantina, ci viene incontro e ci mostra la foto della sua abitazione demolita, sbriciolata dagli F16. Uno dei suoi figli è rimasto senza gambe. Abita a Sudania, un quartiere di Gaza City. Zakya, un’anziana, ci indica la foto dei suoi cinque figli uccisi. È disperata, perché è vedova e senza più casa.
Entriamo nell’ospedale sovraffollato. Ci accoglie il dott. Ashur. «Dopo il cessate il fuoco – racconta -, annunciato il 19 gennaio, Israele ha ucciso almeno altri 13 civili. Nei giorni di bombardamento indiscriminato abbiamo ricoverato 1.926 feriti e ricevuto 658 cadaveri. Il primo giorno di guerra, il 27 dicembre, sono arrivate, in mezz’ora, ben 200 persone. Il totale delle vittime, su tutta la Striscia, è di 1.366, di cui 430 bambini e 111 donne, ovvero il 40% dei morti. I feriti sono 5.360, di cui 1.870 bambini e 800 donne. Anche qui, donne e bambini costituiscono il 50% del bilancio complessivo. Il resto sono civili maschi adulti, e una minima parte di combattenti.
Nonostante i tanti aiuti ricevuti da tutto il mondo, ci mancano molte attrezzature per la cura del cancro e diagnostiche, di cui Israele impedisce l’entrata nella Striscia».
Armi di distruzione di massa
«Nel primo attacco contro i civili – continua il dott. Ashur – sono state usate armi Dime3. Tutti i feriti portati in ospedale presentavano arti amputati. Inoltre, molti avevano gravi ferite, una colorazione della pelle sospetta. Un altro elemento che dimostra l’uso di armi non convenzionali è il fatto che gli alberi, intorno alle aree colpite, non sono stati distrutti. Le bombe non hanno avuto effetti sul pavimento, sul selciato, ma solo sui corpi, sulla massa corporea».
Usciamo dall’ospedale ash-Shifa, e, attraversata la strada piena di auto, ci troviamo di fronte alle macerie dell’omonima moschea, completamente distrutta.
I bombardamenti riprendono. Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Maa, nel centro di Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, ci sono alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai34 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, sembra non ci siano altri cronisti italiani.
Sono le 16, quando Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.
S i chiudono le porte dell’inferno di Gaza. Il nostro «permesso» di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Lunedì 2 febbraio faremo ritorno in Egitto. Alle spalle ci lasciamo 1,5 milioni di persone intrappolate nella più grande prigione del mondo. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, abbandonati dai governi del mondo civile e democratico.
Di Angela Lano
Angela Lano