Colombia: Radio «Payumat»

I leaders dei popoli indigeni colombiani rischiano la vita, sono chiamati «terroristi» dal governo Uribe,
ma non rinunciano alla lotta. Pacifica ed organizzata.Nonostante anche la loro emittente sia stata messa a tacere da un attentato. Era il 14 dicembre 2008. Da allora, le trasmissioni di Radio Payumat sono sospese.

In Colombia, la popolazione è afflitta da una guerra intea interminabile, povertà ed ingiustizie secolari. In questo contesto, gli indigeni sono una minoranza (meno di un milione su un totale di 36), che deve difendere con le unghie e spesso con la vita le proprie peculiarità. Il governo di Alvaro Uribe non esita a qualificarli come «terroristi», per la loro contiguità fisica con i guerriglieri delle Farc. I leaders delle varie comunità rischiano la vita a causa delle violenze dell’esercito e dei gruppi paramilitari (l’ultimo dei quali si è dato il nome di «aguilas negras»). Nonostante questa difficile situazione, le istanze degli indigeni colombiani sono oscurate dai media ufficiali.
In assenza dello stato, in questi ultimi anni, gli indigeni hanno organizzato la propria esistenza-resistenza, in parte con l’aiuto di missionari e organizzazioni inteazionali, in parte trovando forza nelle proprie tradizioni più consolidate. Una delle organizzazioni indigene più attive, conosciute e meglio strutturate è l’Acin («Asociación de Cabildos Indígenas del norte»), che raccoglie le etnie della regione del Cauca. Nel «piano di vita» («plan de vida») dell’Acin sono previste 5 reti («tejidos», tessuti) operative: economia e ambiente, popolazione e cultura, giustizia ed armonia, difesa della vita, comunicazione e relazioni estee.
Dora Muñoz, giovane indigena nasa (paez), è perfettamente consapevole delle innumerevoli difficoltà e per questo svolge la propria professione di giornalista come una missione. Lavora all’emittente comunitaria della Acin, che trasmette da Santander de Quilichao. «Noi ci definiamo una “rete di comunicazione”, perché lavoriamo per unire i fili di un tessuto. Lo facciamo con la radio comunitaria, ma anche con un gruppo che lavora con i video. Abbiamo poi una pagina internet, attraverso la quale informiamo soprattutto all’esterno quello che sta accadendo. In Colombia i grandi mezzi di comunicazione non parlano degli indigeni e del nostro “Piano di vita”. Se ci fossero soltanto loro, nessuno conoscerebbe il nostro percorso esistenziale. E quando parlano di noi, è unicamente per dire che siamo terroristi…».
Il motivo di tanta avversione è presto spiegato. «I nostri territori sono occupati militarmente da gruppi di sinistra e di destra. Dall’esercito, dalla guerriglia e per finire dalle multinazionali.  Tutti vogliono appropriarsi del territorio e delle sue risorse, senza curarsi delle comunità che vivono qui. Per le comunità indigene il territorio e le risorse naturali non sono mercanzia, ma beni che danno la vita e che perciò vanno protetti». Insomma, gli indigeni danno fastidio, sono d’intralcio agli interessi di molti e per questo vanno fermati.
La radio comunitaria della Acin si chiama Payumat (Pa’yumat). Nella lingua della etnia nasa (paez), «payumat» è il termine utilizzato quando una persona arriva in una casa della comunità: con esso si annuncia il proprio arrivo e si chiede il permesso di entrare. Si usa in qualunque ora del giorno. Le trasmissioni di Radio Payumat vanno in onda dalle 7 del mattino alle 5 del pomeriggio, «ma – precisa Dora – trasmettiamo a tempo pieno quando c’è un’emergenza». Si calcola che l’emittente indigena raggiunga una audience di 110.000 persone, tra indigeni, contadini e popolazione afro.
Chiediamo a Dora come riescano a mantenersi. «La sostenibilità economica di Radio Payumat e di tutta la rete di comunicazione – spiega la giornalista nasa – è una questione piuttosto complessa. Le autorità indigene danno un sostegno annuale. Inoltre, raccogliamo qualcosa con le nostre produzioni e ogni tanto collaboriamo con agenzie ed istituzioni. Però, nonostante le perenni difficoltà economiche, molte volte decidiamo di rifiutare gli aiuti di coloro che pretendono di condizionarci».

Le trasmissioni di Radio Payumat sono sospese dal 14 dicembre 2008. Racconta Dora: «Subito dopo il grande lavoro di informazione svolto in occasione della minga (mobilitazione indigena, ndr) sociale e comunitaria, mani criminali hanno sabotato i ripetitori installati sul Cerro di Munchique, la parte alta di Santander de Quilichao. Su chi sia l’autore dell’attentato non abbiamo certezza assoluta, ma in base alle investigazioni svolte abbiamo dei sospetti. Però per noi è pericoloso dirlo. Ed ancora di più pubblicarlo su un giornale…».
Esagerazioni? Macché, gli assassinii di attivisti e dirigenti indigeni sono all’ordine del giorno. Solamente durante la scrittura di questo articolo, sono stati ammazzati Héctor Betancourth Domicó, governatore indigeno di Changarra (6 luglio 2009), e Marino Mestizo, indigeno nasa assassinato nel Municipio di Caloto, Cauca (23 giugno 2009).

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Perù: Radio «La Voz de Caybarachi»

Un prete italiano contro le prepotenze delle multinazionali nell’Amazzonia peruviana

Alla fine la storia è sempre la stessa: i deboli che debbono difendersi dalle prepotenze dei forti. Così a Barranquita, provincia di Lamas, dipartimento amazzonico di San Martin, le popolazioni contadine debbono difendere le loro terre dalle brame della società «Palmas de Espino», un’impresa che deforesta l’Amazzonia per produrre biocombustibile dall’olio di palma. L’impresa fa parte del «Grupo Romero», uno dei più grandi gruppi industriali del Perù, con interessi in svariati settori produttivi. Politici ed amministratori sostengono le ragioni dell’azienda, giustificando la loro scelta con lo sviluppo economico che ne deriverebbe.
A difesa dei diritti delle comunità contadine della Valle Rio de Caynarachi si è invece schierata una piccola, ma seguitissima radio che di nome fa «Voz de Caynarachi». Questa ha iniziato una battaglia per sostenere che le terre disputate appartengono legalmente alle popolazioni che da sempre le abitano e lavorano.
Fondatore e anima dell’emittente è padre Mario Bartolini Palombi, un prete passionista italiano di 70 anni, che da 30 opera nel paese andino. Già nel novembre del 2006, il prete italiano era stato dichiarato «persona no grata» dal sindaco di Barranquita, il quale aveva chiesto al vescovo di allontanare quel sacerdote troppo molesto. Allora mons. Astigarraga, vicario apostolico di Yurimaguas, aveva difeso padre Bartolini e le trasmissioni diffuse da «La Voz de Caynarachi». Di fronte agli attacchi di oggi, con un comunicato datato 20 giugno 2009, il prelato cattolico ribadisce il concetto: padre Bartolini obbedisce all’obbligo di «scegliere l’opzione per i poveri e i meno fortunati, cercare la verità e la giustizia, difendere i beni della creazione».

La vicenda di Barranquita ricorda quella del confinante dipartimento di Amazonas, dove, lo scorso giugno, in località Bagua ci fu una cruenta battaglia tra le locali popolazioni awajun e le forze dell’ordine peruviane. Gli indigeni erano insorti per difendere le proprie terre cedute dal governo del presidente Alan Garcia alle compagnie minerarie, infrangendo i principi stabiliti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (settembre 2007) e nella Convenzione della Organizzazione internazionale del lavoro (Oit/Ilo) n. 169 del 1989. Alla fine, dopo decine, forse centinaia di morti, il governo e le compagnie minerarie hanno dovuto fare retromarcia, derogando ai decreti legislativi su cui fondavano la propria azione (decreti 1090 e 1064, conosciuti anche come «leyes de la selva»).
A Barranquita e a Bagua, le prepotenze del potere politico ed economico sono state (momentaneamente) fermate. Ma – questa è una certezza – la guerra per i diritti delle popolazioni indigene sarà ancora lunga.

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Catastrofe infinita

Introduzione

La campagna scatenata dalle Forze armate israeliane (Tsahal) contro la Striscia di Gaza, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, è stata chiamata operazione «Piombo fuso», parole desunte da una canzone cantata durante gli otto giorni di Hanukkah, una festa che ricorda la vittoria riportata dai Maccabei, nel II secolo a.C., sui greci che volevano imporre al popolo ebreo l’ellenismo con relativi usi e costumi pagani; una vittoria, secondo Zaccaria 4,6, «dello spirito sulla forza brutale» che minaccia Israele nella sua vita religiosa e spirituale. Tale operazione militare è stata lanciata proprio durante tale festa di Hanukkah, il sabato, elevandola così al rango di causa nazionale e religiosa.
Da parte d’Israele l’attacco militare è presentato come operazione di legittima difesa, cioè per neutralizzare i razzi Qassam lanciati da Hamas contro obiettivi civili del sud di Israele; tale lancio si sarebbe intensificato appena scaduta la tregua di sei mesi, stipulata il 19 giugno 2008 grazie alla mediazione egiziana.
Da parte palestinese, invece, la ripresa del lancio di razzi è stato motivato dalle violazioni della tregua di parte israeliana il 4 novembre 2008, con l’assassinio di 6 suoi militanti, con il blocco dei convogli umanitari e l’uccisione di 19 palestinesi in attacchi aerei.

Ora, la nozione di legittima difesa presuppone una proporzionalità dei mezzi impiegati, ma non è il caso dell’operazione  «Piombo fuso»: Tsahal ha attivato una sessantina di bombardieri e almeno 20 mila uomini super equipaggiati di fronte a resistenti armati di razzi rudimentali e di adolescenti armati di pietre.
Scopi ufficiali dell’operazione erano: distruggere i supporti logistici di Hamas, eliminare il maggior numero possibile di leader, rallentare o addirittura prevenire il riarmo, distruggendo i tunnel sotterranei tra Gaza ed Egitto, attraverso i quali si rifoiscono di armi Hamas e altre fazioni paramilitari. Di fatto l’operazione «Piombo fuso» ha seminato morte tra i civili e ridotto Gaza in un cumulo di rovine.
L’uso sproporzionato della forza è confermato anche da un rapporto interno delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio del mese di maggio, in cui vengono ricostruiti i fatti di «nove incidenti più gravi» accaduti durante l’operazione «Piombo fuso». Il giudizio degli esperti Onu è duro: essi accusano Israele di uso eccessivo e indiscriminato della forza contro i civili, e di aver aperto il fuoco e bombardato deliberatamente le sedi Onu pur sapendo che si trattava di edifici delle Nazioni Unite, a partire dal bombardamento della scuola femminile Unrwa (agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi) di Khan Younis, a quello della scuola elementare di Gaza City, alla scuola di Jabalya, fino ai mezzi e alle ambulanze Onu e ai morti provocati dai proiettili contro la scuola elementare di Beit Lahia.

Poche settimane dopo il cessate il fuoco, in Israele si sono tenute le elezioni anticipate (10 febbraio). Secondo molti commentatori la campagna elettorale è strettamente legata alla messa in opera dell’attacco militare, della sua escalation e dell’appoggio unanime delle principali forze politiche israeliane. Il risultato delle votazioni ha premiato i politici che hanno maggiormente appoggiato la campagna militare.
Ciò non significa che tutta la società israeliana sia guerrafondaia. Da alcuni anni cresce il numero degli obiettori di coscienza, chiamati «refusnik»: sono i giovani che rifiutano di arruolarsi e numerosi soldati, ufficiali e sottufficiali che abbandonano l’esercito, per sottrarsi al dover prestare servizio nei Territori Occupati palestinesi e dovere obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili.
E poiché Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza né prevede servizio civile alternativo, coloro che rifiutano di arruolarsi vengono sottoposti a processi e umiliati, fino a essere riformati in quanto «mentalmente disabili»; mentre quei militari, arruolati o riservisti, che scoprono di non potere, in coscienza, obbedire agli ordini dei loro superiori, vengono incarcerati e scontano la loro pena in un carcere vicino a Haifa.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Prigione a cielo aperto

Gaza: 10 giorni dopo il cessate il fuoco

Una campagna militare, presentata all’opinione mondiale come operazione di «legittima difesa», in 22 giorni di bombardamenti aerei e incursioni di carri armati ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, distruggendo case, scuole, alberghi, ospedali e altre infrastrutture, provocando soprattutto morti, feriti e profughi, riducendo la popolazione palestinese alla miseria più nera, senza tuttavia cancellae la dignità e la voglia di ricostruire il proprio futuro, in attesa della pace.

R afah, 28 gennaio 2009. Dopo un viaggio di diverse ore lungo la costa settentrionale del Sinai, arriviamo al valico egiziano. La guerra israeliana contro la popolatissima Striscia è terminata il 18 e l’Egitto ha riaperto, con il contagocce, il passaggio. Ne approfittiamo per presentarci alle autorità egiziane di confine, che, da quasi tre anni, contribuiscono all’assedio di Gaza.
Ci disponiamo ad attendere diverse ore, in coda all’ufficio passaporti, in compagnia di decine di altre persone: un simpatico e creativo gruppo di ingegneri egiziani con tanto di elmetto giallo, due parlamentari marocchini, attivisti greci e feriti palestinesi di ritorno dagli ospedali del Cairo.
Mentre aspettiamo più o meno pazientemente, osserviamo alcuni ragazzi con arti ingessati o amputati. Sono stati feriti dalle bombe lanciate da Israele, poche settimane prima, durante l’operazione «Piombo fuso»: dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Storie di umanità ferita
Hamid ha 30 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha passato diversi giorni in un ospedale del Cairo, dove è stato sottoposto a quattro interventi. Ci indica le ferite: sono sparse in tutto il corpo. È un giovane padre di famiglia, residente a Beit Lahiya, nel nord della Striscia: è uno delle centinaia e centinaia di «terroristi» che Israele ha fatto a pezzi. La sua colpa, infatti, è stata quella di uscire in strada, una mattina – il primo giorno di invasione di terra israeliana – per comprare un po’ di dolci ai figlioletti terrorizzati dai bombardamenti nottui. Mentre era al supermercato, un missile dell’aviazione si è abbattuto su di lui e su altri cittadini, uccidendone sei. Lui si è salvato, ma è rimasto gravemente ferito.
Thaer ha 18 anni e anche lui viene da Beit Lahia. I medici egiziani gli hanno amputato una gamba, spappolata dai cannoni dell’artiglieria israeliana. Pure lui, a quanto pare, era un «terrorista», come le sue nove sorelle e il fratellino disabile. La loro casa era stata rasa al suolo 25 giorni prima. Suo papà lo guarda con gli occhi pieni di lacrime, accarezzandogli il capo: «Grazie a Dio» ci dice. È l’unico figlio che gli è rimasto…
Dopo un numero interminabile di ore, un solerte ufficiale ci spiega che non potremo procedere verso i Territori palestinesi. Nonostante le lettere di «remissione di responsabilità» rilasciateci dalla Faesina e dall’ambasciata italiana al Cairo, necessarie per recarci a Gaza, ci manca ancora qualcosa: una presentazione ufficiale dei dirigenti dell’Ordine dei giornalisti d’Egitto.
Nonostante i proclami di fratellanza e solidarietà con una popolazione stremata da quasi 3 anni di embargo e 22 giorni di attacchi da cielo, terra e mare, le autorità del Cairo permettono solo raramente l’entrata e l’uscita dalla Striscia. A nord e a est, ci pensa Israele a sigillare gli altri valichi.
Ci ripresentiamo il giorno successivo con la lettera dei colleghi egiziani, determinati a passare. Con noi valicheranno il confine ingegneri giordani, palestinesi feriti, diversi medici e altri giornalisti.
L’armageddon
La Rafah palestinese ci appare in tutta la sua devastazione: case rase al suolo dai missili e carri armati israeliani, campi spianati dai bulldozer. «Hanno fatto un deserto di macerie e distruzione e l’hanno chiamato “legittima difesa”» ci viene subito da pensare, parafrasando una celebre espressione.
Pochi chilometri più avanti, a Khan Younes, vedremo abitazioni, scuole, sedi della polizia cittadina, ufficio postale e altri luoghi pubblici ridotti a cumuli di detriti. In questa cittadina le vittime dei bombardamenti per niente selettivi di Israele sono state 120 e i feriti 150.
La Striscia di Gaza è larga 7 km e lunga poco più di 50. Percorrerla da sud a nord – Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza City, Jabaliya, Beit Lahiyah – necessita di poche ore. Dovunque, ora, c’è morte e distruzione.
Nuseirat è dislocata nei pressi di Deir al-Balah, nella regione centrale: fermiamo l’auto davanti a una barriera di lamiera. C’è scritto: «Centro di polizia di Nuseirat»; ma di quella che fino a poche settimana fa era una caserma rimangono solo i blocchi di cemento fracassati dai missili israeliani e crollati sopra i poliziotti che vi prestavano servizio. I morti sono stati 70, tutti giovani fatti a pezzi dall’esplosione o schiacciati da pesanti lastroni.
«Missili contro covo di terroristi» hanno tuonato i nostri media. In realtà, si trattava degli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti di loro, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti.
Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo la strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: a destra e a sinistra scorrono cittadine, campi profughi, terreni agricoli. Nulla è stato risparmiato dalla furia devastatrice dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane: intere palazzine, edifici di 15-18 piani, aziende, serre, completamente distrutti. Sotto quei massi scagliati qua e là dalla forza delle bombe, i soccorritori hanno estratto intere famiglie massacrate. Cittadini comuni. Non terroristi. 
I crateri lasciati dai missili sono ovunque: nei villaggi, nei terreni, nelle strade.
Neanche le scuole sono state risparmiate. Entriamo nel cortile di un complesso scolastico costruito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. I bombardamenti hanno sventrato intere aule, distrutto edifici. I ragazzi ora fanno lezione all’aperto.
Ritorniamo a Khan Younes: siamo ospiti di un albergo della Mezzaluna Rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a famiglie rimaste senza tetto.
Siamo subito colpiti da un particolare, banale e scontato in altre occasioni: nei bagni ci sono asciugamani puliti, sapone e shampoo confezionati. Come in un qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di «normalità» e dignità nell’accoglienza ci commuove.
Questa fierezza, questa forza d’animo la noteremo continuamente, sia negli adulti sia nei bambini. «Andremo avanti – ci dicono – con l’aiuto di Dio». Forse proprio la determinazione e uno spirito indomito hanno permesso al popolo palestinese di sopravvivere a 60 anni di pulizia etnica.
Nella cittadina visitiamo un centro caritativo islamico, dove ogni giorno tantissime persone si recano a chiedere aiuto in denaro e in viveri. Sono circa 800 gli orfani assistiti e tantissime le famiglie indigenti che vengono sostenute. I responsabili dell’associazione, finanziata da organizzazioni arabe e occidentali, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Abspp) di Genova, ci mostrano le foto dei bimbi rimasti orfani e poi quelle dei loro genitori – papà o mamma – uccisi durante i quotidiani bombardamenti di Israele.
La Striscia di Gaza sopravvive grazie alla carità che giunge dall’estero. Qui, infatti, manca tutto: cibo, acqua, vestiario, medicine, libri, quadei, combustibile, materiale sanitario e per l’igiene e la pulizia. L’embargo israelo-internazionale e la chiusura di tutti i valichi di entrata e uscita l’hanno resa un immenso carcere a cielo aperto. A ciò si sono sommati gli «effetti collaterali» di «Piombo fuso», con i 1.366 morti e gli oltre 5.000 feriti, le migliaia e migliaia di edifici distrutti e i danni alla salute e all’ambiente provocati dalle armi di distruzione di massa usate dall’aviazione e dall’artiglieria di Israele.
Scelta «sbagliata» dei palestinesi
Ora la maggior parte dei palestinesi di Gaza è costretta a vivere di aiuti umanitari, ma prima non era così. In questa striscia di terra c’erano industrie alimentari e di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Non era certo la Svizzera, ma non c’erano la fame e la miseria attuali. La popolazione della Striscia, e del resto della Palestina, infatti, sta subendo una punizione collettiva, come è stata definita da inviati dell’Onu e personaggi inteazionali come Desmond Tutu e Jimmy Carter, per aver compiuto la scelta elettorale «sbagliata», durante le votazioni del 25 gennaio del 2006, le prime veramente democratiche e monitorate da osservatori inteazionali.
I palestinesi, in quell’occasione, diedero in massa il voto a Hamas, snobbando Fatah, ritenuta da molti corrotta e collaborazionista. Da lì, dall’esito di quella decisione presa dalla maggioranza assoluta di un popolo, è scaturito un disumano embargo e la chiusura di tutta la Striscia, e poi bombardamenti e morte.
Paradossalmente, quelle elezioni furono incoraggiate e sostenute proprio dall’Europa e dagli Stati Uniti, certi del fatto che avrebbe vinto il partito dell’amico Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e non il movimento di resistenza islamica. Questo è ciò che i palestinesi di Gaza rinfacciano a chiunque rivolga loro domande «politiche». È difficile riuscire a dimostrare il contrario, vista la storia degli ultimi tre anni.
Distruggere il futuro
Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio gazese, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Affollano le strade, i vicoli, i campi. I loro piedini nudi affondano nella sabbia e le manine sono protese a salutare. Si avvicinano fiduciosi e sorridenti. Si presentano. Vogliono conoscere i nostri nomi e poi, prima di tornare a giocare, con l’indice e il medio fanno il segno della vittoria.
Sono vivi, loro, ma hanno visto i loro cari, i vicini, gli amici dilaniati dalle bombe «intelligenti» di Israele. A livello psicologico, spiegano medici e psichiatri, il trauma li segnerà per sempre. Da grandi, la rabbia e il dolore impotente, che ora hanno il sopravvento, potranno trasformarli in violenti.
Nonostante si sforzino di dichiarare il contrario, i generali e ministri israeliani lo sanno benissimo: colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. È impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, tantissimi.
Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato israeliano ci ha raccontato che Hamas ha usato scudi umani, ma questa versione deve ancora essere provata dalle indagini che condurranno le Nazioni Unite. Documentate oltre ogni ragionevole dubbio e denunciate da diverse organizzazioni inteazionali, dall’Onu, dal Phr (Physicians for Human Rights, Medici per i diritti umani), da testimoni oculari e dalle testimonianze degli stessi soldati1, sono invece le stragi compiute dall’esercito.
Gaza City: paesaggi lunari
Attraversiamo interi quartieri rasi al suolo o con palazzi trasformati in tanti scheletri. Sembra di essere atterrati su Marte o su una terra del futuro post-guerra nucleare.
Il compound dei ministeri (Finanze, Esteri e Inteo) e il Parlamento ci appaiono in tutta la loro imponente distruzione. Proviamo a pensare alle sedi delle nostre istituzioni, a Roma, e a un qualche Attila che le bombardi, senza rispetto alcuno per ciò che esse rappresentano per un intero popolo.
Qui, anche l’assurdo diventa possibile. Non molto lontano, alla faccia di qualsiasi convenzione di Ginevra e diritto umanitario, vedremo anche l’ospedale al-Quds annerito e ridotto a una semplice carcassa vuota.
Nonostante fossimo preparati al peggio, ciò che vediamo ci lascia impietriti. Proviamo puro sgomento e vergogna, in quanto cittadini di un’Europa completamente incapace di prendere la parte dei deboli, degli oppressi, e di far applicare anche solo un barlume di giustizia.
La morte dell’informazione
Le tre settimane di guerra contro la Striscia di Gaza hanno provocato anche un’altra vittima: l’informazione. Come giornalisti, ci sentiamo mortificati per il modo in cui i nostri media hanno raccontato ai nostri connazionali i massacri israeliani. Tv di stato e private, quotidiani e riviste, ci hanno fornito, senza sostanziali differenze, le stesse notizie, quelle passate loro da Tsahal (Forze di difesa israeliane) e dal governo di Tel Aviv. Il leit motiv che accomunava tutti era: «Israele ha diritto a difendersi dai razzi di Hamas»; «Hamas ha rotto la tregua»2; «negli ospedali/scuole/case si nascondono terroristi di Hamas».
A fronte di tali affermazioni, non vi è stato alcun tentativo di verificare le notizie, di scoprire i fatti, la realtà. A un certo punto, è emerso pure il caso dell’inviato di un importante quotidiano nazionale che, più realista del re, ha scritto che i morti nella Striscia erano 600 e non 1.300, ma è stato prontamente smentito dall’esercito israeliano, il giorno dopo.
La guerra contro Gaza è stata un esperimento, riuscito, di manipolazione delle coscienze attraverso un uso spregiudicato e scorretto dell’informazione. Almeno, fino a quando in internet non hanno iniziato a circolare i video girati dagli operatori della tv satellitare Al-Jazeera, che hanno rivelato al mondo i crimini commessi da Tsahal, e denunciati, appunto, da numerose organizzazioni inteazionali, arabe e israeliane.
Vittorio, il palestinese
A Gaza City incontriamo l’ormai famoso attivista dell’Inteational solidarity movement (Ism), scampato a 22 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza: Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia. Ci racconta delle giornate e delle nottate di bombordamenti israeliani, del suo lavoro di «scudo umano volontario» sulle ambulanze cariche di feriti, nel tentativo di impedire che i soldati israeliani le colpissero, come da documentata abitudine. Ci narra delle telefonate che l’esercito faceva alle famiglie, annunciando bombardamenti imminenti, e dei bambini morti d’infarto, per la paura, il primo giorno di guerra.
Durante le settimane di attacchi continui, Vittorio è stato l’unico corrispondente occidentale: la sua eccezionale testimonianza è stata raccolta in «Gaza, restiamo umani», edita dal Manifesto.
Shifa hospital e tenda degli orrori
Domenica primo febbraio, alle 9, abbiamo appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza. Nel cortile è allestita una tenda con foto delle vittime. Sui tavoli, al centro, sono disposti frammenti delle armi usate da Israele. L’odore è pesante: ci sono pezzi di bombe al fosforo e a frammentazione, e proiettili all’uranio impoverito.
I cittadini entrano, osservano ammutoliti, piangono. Mentre scattiamo foto e prendiamo appunti, ascoltiamo le testimonianze di chi ha perso tutto: figli, marito o moglie, genitori, parenti, casa.
Hanan, una signora sulla cinquantina, ci viene incontro e ci mostra la foto della sua abitazione demolita, sbriciolata dagli F16. Uno dei suoi figli è rimasto senza gambe. Abita a Sudania, un quartiere di Gaza City. Zakya, un’anziana, ci indica la foto dei suoi cinque figli uccisi. È disperata, perché è vedova e senza più casa.
Entriamo nell’ospedale sovraffollato. Ci accoglie il dott. Ashur. «Dopo il cessate il fuoco – racconta -, annunciato il 19 gennaio, Israele ha ucciso almeno altri 13 civili. Nei giorni di bombardamento indiscriminato abbiamo ricoverato 1.926 feriti e ricevuto 658 cadaveri. Il primo giorno di guerra, il 27 dicembre, sono arrivate, in mezz’ora, ben 200 persone. Il totale delle vittime, su tutta la Striscia, è di 1.366, di cui 430 bambini e 111 donne, ovvero il 40% dei morti. I feriti sono 5.360, di cui 1.870 bambini e 800 donne. Anche qui, donne e bambini costituiscono il 50% del bilancio complessivo. Il resto sono civili maschi adulti, e una minima parte di combattenti.
Nonostante i tanti aiuti ricevuti da tutto il mondo, ci mancano molte attrezzature per la cura del cancro e diagnostiche, di cui Israele impedisce l’entrata nella Striscia».
Armi di distruzione di massa
«Nel primo attacco contro i civili – continua il dott. Ashur – sono state usate armi Dime3. Tutti i feriti portati in ospedale presentavano arti amputati. Inoltre, molti avevano gravi ferite, una colorazione della pelle sospetta. Un altro elemento che dimostra l’uso di armi non convenzionali è il fatto che gli alberi, intorno alle aree colpite, non sono stati distrutti. Le bombe non hanno avuto effetti sul pavimento, sul selciato, ma solo sui corpi, sulla massa corporea».
Usciamo dall’ospedale ash-Shifa, e, attraversata la strada piena di auto, ci troviamo di fronte alle macerie dell’omonima moschea, completamente distrutta.
I bombardamenti riprendono. Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Maa, nel centro di Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, ci sono alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai34 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, sembra non ci siano altri cronisti italiani.
Sono le 16, quando Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.

S i chiudono le porte dell’inferno di Gaza. Il nostro «permesso» di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Lunedì 2 febbraio faremo ritorno in Egitto. Alle spalle ci lasciamo 1,5 milioni di persone intrappolate nella più grande prigione del mondo. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, abbandonati dai governi del mondo civile e democratico. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Armi vecchie e nuove

Uranio impoverito e informazione impoverita

L a guerra è sempre un dramma, l’uccisione dei propri simili non dovrebbe mai trovare una giustificazione, ma quando si passa da un confronto tra guerrieri, che utilizzano armi convenzionali, all’utilizzo di armi insidiose e devastanti, che colpiscono anche la popolazione civile e i bambini, le persone, che sono a conoscenza di questi eventi, non dovrebbero restare indifferenti o, peggio, nascondere i fatti, siano essi recenti o passati.
Non possiamo dimenticare, ad esempio, i bombardamenti delle nostre città ad opera dei cosiddetti «alleati»: suonava l’allarme e si correva in cantina, sperando di non fare la fine del topo. Finiti i bombardamenti, se si usciva vivi, come minimo si trovavano i vetri rotti, le case senza luce né acqua, niente da mangiare… Venivano utilizzate anche bombe incendiarie e le città erano in fiamme.
Gli strateghi pensavano che questo fosse un sistema per demoralizzare le truppe al fronte, che temevano che fosse successo qualcosa di grave alle loro famiglie. Nessun tribunale internazionale si è mai occupato di questi fatti, che hanno riguardato i nostri genitori e i nostri nonni.
Anche i vari tipi di armi, utilizzate nel tempo, meritano una valutazione sui loro meccanismi di azione, perché alcune sono molto efficaci, ma particolarmente crudeli.
Andando indietro nel tempo ricordiamo, ad esempio, che a volte i cannoni venivano riempiti di chiodi e altri frammenti metallici, per ferire gli avversari prima degli assalti. Poi l’evoluzione della tecnica ha consentito di utilizzare delle granate piene di pallini metallici, definite shrapnel, che mediante un innesco a tempo, potevano esplodere nel punto desiderato sparando i pallini in tutte le direzioni. Più recentemente sono state realizzate armi ancora più devastanti. Ricordo soltanto la bomba atomica, che oltre al danno immediato, causa danni letali anche a distanza di tempo per via delle radiazioni.

S i è parlato anche delle radiazioni dell’uranio impoverito, ma in questo caso il meccanismo di azione è più complesso. L’uranio impoverito viene usato nelle munizioni delle armi modee ed è stato associato con gravi malattie non solo dei soldati, ma anche delle persone che vivono in aree di guerra o vicino ai poligoni militari.
L’uranio impoverito è un’arma formidabile, perché riesce a perforare anche le corazze più robuste per via della grande forza di penetrazione e del fatto che esplode a 3.000 gradi, «polverizzando» i bersagli. È verosimile che le gravi malattie riscontrate, soprattutto tra i militari, siano causate non solo dalle radiazioni dell’uranio, ma anche dalle nanopolveri, che entrano nell’organismo e determinano reazioni non del tutto prevedibili e, in ogni caso, sicuramente non benefiche.
L’uranio impoverito emette una modesta quantità di radiazioni alfa, che sono le più pericolose per l’organismo. Gli esperti dicono che basterebbe un foglio di carta per fermare queste radiazioni e che si potrebbe dormire tranquilli con un proiettile di uranio impoverito nel cassetto del comodino. Il fatto grave, però, è che dopo l’esplosione anche l’uranio si trova disperso nell’aria sotto forma di nanopolveri e può raggiungere il sangue e gli organi interni, dove le radiazioni possono fare danni non trovando nessuna barriera.
Tutta la questione che riguarda l’uranio impoverito è ancora oggetto di studio e le uniche tragiche certezze sono i tumori dei soldati e le malformazioni dei loro figli.
Danni devastanti sono stati descritti anche per gli effetti delle bombe a grappolo (cluster bomb), che praticamente sono un numero variabile di piccole bombe racchiuse in un ordigno principale, che quando esplode le lancia in tutte le direzioni (evoluzione della granata shrapnel).

I giornali di questi giorni hanno parlato delle bombe al fosforo, che secondo alcune testimonianze, sono state usate nella Striscia di Gaza. I proiettili al fosforo bianco creano spesse cortine fumogene, ma possono anche causare terribili ustioni, perché le gocce di fosforo bruciano al contatto con la pelle. Tra i militari il fosforo bianco viene chiamato Willy Pete (le iniziali di White Phosphorus) fin dalla prima guerra mondiale ed è stato utilizzato, secondo alcune fonti, dagli Usa nel Vietnam e in Iraq.
Il fosforo bianco viene conservato sott’acqua o in azoto, perché a contatto con l’ossigeno presente nell’aria produce anidride fosforica generando calore. L’anidride fosforica reagisce violentemente con composti contenenti acqua (come il corpo umano) e li disidrata producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle. Il risultato è la distruzione completa del tessuto organico. Sono reperibili in rete le testimonianze di alcuni medici che descrivono lesioni analoghe tra i feriti della Striscia di Gaza.
Alcuni recenti articoli riferiscono l’utilizzo, da parte dell’esercito israeliano, di bombe Dime (Dense Inert Metal Explosive). Si tratta di un tipo innovativo di bomba, con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica integrata con acciaio e tungsteno. Queste armi hanno un enorme potere esplosivo, che si dissipa molto rapidamente: il raggio interessato non è molto lungo, forse dieci metri; le persone travolte da questa esplosione per effetto dell’onda d’urto, vengono letteralmente fatte a pezzi.
Secondo Massimo Zucchetti (professore al Politecnico di Torino e membro del Comitato scienziati contro la guerra) le ferite che si vedono oggi all’ospedale Shifa di Gaza rendono assodato che sia stato fatto uso di armi Dime da parte degli israeliani in questa guerra.
Anche in questo caso, come per l’uranio impoverito, bisogna tener presente che le nanopolveri, non solo del tungsteno e dell’uranio, inalate durante e dopo le esplosioni, sono in grado di raggiungere il sangue e depositarsi nei vari tessuti. Si tratta di polveri non biodegradabili e non biocompatibili, che sono in grado di penetrare addirittura all’interno del nucleo delle nostre cellule. Studi recenti stanno confermando la presenza di nanopolveri di origine antropica (non solo dovute alle esplosioni) all’interno di tessuti tumorali anche di neonati, in questi casi le nanopolveri hanno raggiunto i feti tramite il sangue della madre e la placenta. Chi non resta ucciso dalle esplosioni rischia, a distanza di tempo, di ammalarsi di tumore o veder ammalare i propri figli.
Non dimentichiamo, infine, che anche i modei inceneritori di rifiuti producono nanopolveri simili, sia pure in forma più diluita, e che i danni ipotizzabili riguardano i bambini  soprattutto. È la strage degli innocenti dei nostri giorni e non riguarda solo le aree di guerra.
E l’informazione? Impoverita pure quella!

di Roberto Topino

Roberto Topino




Democraticamente castigati

Intervista al dottor Ahmed Elkurd

Tre settimane di attacchi a Gaza non hanno provocato solo morte e macerie, ma anche tanti e diversi problemi sociali: ce lo spiega il dott. Ahmed Elkurd, ministro degli Affari sociali della Striscia di Gaza.

Signor ministro, ci spieghi qual è il bilancio della guerra.
Innanzitutto, è necessario premettere che i confini della Striscia sono molto ridotti, è lunga solo 50 km, ma vi abitano 1,5 milioni di persone, di cui un milione sono rifugiati provenienti dai Territori palestinesi del ‘48. Io stesso provengo da un villaggio nei pressi di Ashkelon. I campi profughi sono 8.
In secondo luogo, voglio ricordare che da tre anni siamo sotto embargo e assedio. Ciò ha provocato una grave crisi umanitaria che è precipitata con i 22 giorni di bombardamenti israeliani.
Gaza è chiusa. Questo perché nel gennaio del 2006, elezioni libere e democratiche, chieste dall’Occidente intero e monitorate da osservatori inteazionali, hanno assegnato la vittoria a Hamas. Ecco che il mondo ci ha puniti, soffocandoci con un feroce embargo.
Come se non bastassero tre anni di assedio israelo-internazionale, si è scatenata la guerra che ha portato una devastazione molto grande: oltre 1.300 morti e più di 5.000 feriti, 5.000 famiglie senza casa, 20 mila appartamenti distrutti. La centrale elettrica funziona solo poche ore al giorno. Il bilancio economico è di 3 miliardi di dollari di danni. Ci sono tante persone che dormono nelle tende; 10 mila famiglie necessitano di sostegno immediato: casa, vestiti, cibo.

La Striscia di Gaza vive grazie agli aiuti umanitari, ma con i valichi chiusi, come fate?
Da quando siamo sotto embargo, siamo costretti a sopravvivere con gli aiuti umanitari. Tuttavia, essi possono passare solo attraverso i valichi israeliani, e quando sono chiusi per noi è una catastrofe.
Per la ricostruzione delle infrastrutture e delle abitazioni avremmo bisogno di attrezzature, di cemento, di materiali per l’edilizia, di pezzi di ricambio, ma non lasciano passare nulla. Gli israeliani non fanno entrare benzina, gasolio, gas. È difficile lavorare, in questo modo.

Finita la tregua, è esplosa la guerra…
E noi non avevamo che modesti mezzi per difenderci da un esercito super-tecnologizzato. Mentre avanzavano via terra, distruggevano tutto ciò che incontravano. Hanno devastato tutto. Non c’era scampo neanche nelle strutture dell’Onu, bombardate come tutte le altre.
Durante le settimane di guerra, sono stati compiuti veri e propri eccidi, come quello della famiglia As-Samouni, rinchiusa in un palazzo che è stato bombardato subito dopo con gli F16. In altri casi, hanno sparato a un’intera famiglia, lasciando vivo un bimbo solo.

Dall’Europa cosa vi aspettate?
Chiedo invece: cosa abbiamo fatto noi all’Europa? Perché contribuisce all’embargo israelo-americano? Perché Unione europea e Francia mandano le loro navi per chiudere ulteriormente il mare di Gaza? Vogliono inviare un contingente che garantisca la «sicurezza»: quella di Israele, non la nostra. Inizino con il far aprire i valichi, allora.
 
Metà delle vittime dell’ultima guerra erano bambini. Molti hanno assistito a scene devastanti. Che ne sarà del loro equilibrio psichico? Avete attivato dei progetti speciali?
Le fasi previste sono tre.
Primo: aiuto psicologico rivolto a chi è stato ferito o è stato testimone di massacri. Sostegno generale a tutti i minori, per permettere loro di scaricare la tensione nervosa, lo stress psichico. In tutte le scuole abbiamo previsto programmi di intervento psicologico.
Secondo: terapie di riabilitazione per chi ha subito ferite o è rimasto handicappato.
Terzo: sostegno economico alle famiglie con figli feriti o resi disabili.

Di Angela Lano

Angela Lano




Il coraggio di dire «No»

Refusenik: obiettori di coscienza israeliani

Più di 700 militari dell’esercito israeliano, arruolati e riservisti, hanno scelto di rifiutarsi di prestare servizio nei territori palestinesi occupati e obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili: una scelta pagata con umiliazioni e carcere.

Sono i rivoluzionari d’Israele. Pochi ma coraggiosi, e soprattutto nonviolenti, «Pacifisti» con la maiuscola: sono le svariate centinaia di cittadini israeliani, in gran parte giovani, che hanno deciso di rifiutare il servizio militare obbligatorio del proprio paese. Si chiamano refusenik, e si battono per uno scopo ben preciso: evitare di combattere laddove lo scopo non è più «difendere la patria», ma «attaccare la popolazione palestinese», ovvero nei Territori occupati, dove lo stato di Israele si è insediato dalla sua nascita, nel maggio 1948.
Quindi non rifiutano in toto le armi e la divisa di Tsahal (l’esercito israeliano, chiamato anche Idf, acronimo di Israeli defense forces), questi obiettori di coscienza sui generis: piuttosto, esercitano il loro patriottismo prendendo le distanze da quelle che considerano pratiche oppressive: l’invasione di villaggi palestinesi per scopi militari, ma soprattutto la continua avanzata delle colonie israeliane.
Tali insediamenti, sempre più grandi e numerosi (a fine 2008 erano 121, per 2.600 unità abitative e mezzo milione di abitanti), stanno via via erodendo il Territorio della Palestina originaria, oggi ridotta al 22% rispetto a 61 anni fa: quando, oltre alla fondazione di Israele, avveniva quella che viene definita da molti la nakba, la «catastrofe», termine arabo che si riferisce alla cacciata degli abitanti palestinesi dalle terre dove avevano vissuto fino a quel momento.
Il servizio militare obbligatorio in Israele occupa una parte considerevole della crescita di tutta la popolazione. Dai 18 anni in poi (è previsto il rinvio fino alla fine degli studi), i ragazzi lo devono compiere per tre anni consecutivi, le ragazze due. È un periodo davvero lungo, che non ha eguali in nessun altro stato del mondo. Ma non è finita qui: dopo questi anni, si diventa «riservisti», e lo si rimane fino a 40 anni d’età.
Tutti gli anni, ogni cittadino israeliano riservista deve prestare almeno due settimane di esercitazioni nell’esercito. Perché in caso di una guerra in cui non bastassero le forze regolari, chiunque potrebbe essere richiamato alle armi: è successo nell’estate 2006 nello scontro con il Libano, ma soprattutto è accaduto tra la fine del 2008 e l’inizio di quest’anno, nelle tre settimane dell’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Una guerra vera e propria, condotta senza tregua via cielo, mare e terra da Tsahal contro Hamas, il partito palestinese al potere nella Striscia, che ha però provocato almeno 1.300 vittime fra i civili (30% bambini) e la distruzione di centinaia di case ed edifici pubblici.

Una guerra che, come in passato, ha provocato però il netto rifiuto da parte di nuovi refusenik, una ventina in tutto, che si sono aggiunti ai circa 700 che, soprattutto dal 2000, con l’inizio della seconda intifada (la «rivolta», guerra civile che nei primi anni del nuovo secolo ha causato almeno 5mila vittime palestinesi e mille israeliane), hanno rifiutato di servire il proprio paese se impiegati nei Territori palestinesi.
Facendo il passo del «rifiuto motivato», questi ragazzi e ragazze sono diventati oggetto di furenti accuse, soprattutto da parte dei propri marescialli, che non hanno esitato a trascinarli davanti a una corte militare. Come è successo, più volte, a uno dei refusenik più famosi d’Israele, uno dei pochi che, oltre ad aver detto no ai propri superiori, si è esposto anche all’opinione pubblica. Finendo più volte alla gogna.
È questa la storia di Noam Livne, nato 34 anni fa in uno dei tanti kibbutz (una sorta di comunità di famiglie basata sulla vita agreste) d’Israele e residente tuttora a Tel Aviv, la città più «progressista» e tecnologicamente all’avanguardia dello stato ebraico. Negli ultimi anni Noam ha girato università e centri culturali del proprio paese e (forse in misura maggiore) all’estero, per far conoscere al mondo la realtà dei refusenik israeliani: «Una realtà fatta di coerenza, di lotta per affermare i propri ideali, per convincere altri giovani a “uscire dal guscio” e dall’incessante propaganda militare».
Il giovane israeliano, che ci parla mentre passeggia per la città con il suo cane Doobie, in una calda giornata di maggio 2009, è una persona che ha imparato a dosare bene ogni parola, perché sa che c’è molto in gioco, soprattutto per quanto riguarda la sfera personale.
Il suo ennesimo rifiuto a imbracciare le armi come riservista per l’Idf, durante la guerra di Gaza, gli è costato a fine gennaio tre giorni di carcere preventivo, ma soprattutto l’apertura di un nuovo processo di cui non sa ancora le conseguenze.
Quando aveva detto il primo «no» nel 2001, durante, appunto, la seconda intifada, Noam era stato condannato a scontare 22 giorni di prigione. Questa volta potrebbe andare peggio, e di molto. «Mi è stato detto che rischio il processo civile e che la pena può arrivare fino a due anni, mentre quella militare è al massimo un mese», spiega l’obiettore, che attualmente sta svolgendo un dottorato in Matematica all’università di Tel Aviv.
«Non capisco le ragioni di questa minaccia, ma sono pronto ad affrontare il verdetto, perché ho la coscienza pulita. Anche se suppongo che, a quattro mesi dalla fine dell’attacco su Gaza, all’esercito convenga “dimenticarsi” di me, piuttosto che condannarmi con il rischio di scatenare un putiferio mediatico senza precedenti» commenta Noam.

Infatti, proprio questo è il punto: il tenente Livne (prima del rifiuto del 2001, il giovane aveva servito Tsahal per ben sette anni, salendo nei gradi), grazie alla sua azione di disobbedienza civile, nel tempo è diventato celebre in tutto il suo paese. Soprattutto dal 2002, quando, con altri riservisti come lui, ha fondato l’associazione Courage to refuse (Coraggio di rifiutare, Ometz Le’sarev in ebraico), pubblicando su vari mezzi d’informazione nazionali il proprio manifesto politico, ovvero la Lettera dei combattenti, testo in 10 punti che ribadiva le ragioni del «no» alle armi.
Eccone un estratto: «Noi, che abbiamo visto le sanguinose conseguenze dell’occupazione, in entrambe le società, israeliana e palestinese (…) riteniamo l’ordine di combattere nei Territori come la distruzione di tutti i valori con i quali siamo cresciuti; (…) dichiariamo che non parteciperemo mai a guerre per la difesa delle colonie; ma serviremo comunque l’esercito in ogni missione che sia di natura difensiva, quindi non quelle riguardanti l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese».
Una presa di posizione forte, inedita per la società israeliana, che, inaspettatamente, ha riscosso un enorme successo: sono stati ben 628, nel corso degli anni, i soldati o i riservisti che hanno firmato la Lettera dei combattenti. «Ci hanno chiamato traditori, vigliacchi, oppure egoisti. Tentano spesso di convincerci a fare marcia indietro, a ritornare a combattere. Ma io, come gli altri, quando ho scelto la via illegale dell’obiezione di coscienza, e non quella medica (l’esenzione dopo aver sostenuto una visita psichiatrica per cui si veniva considerati alla stregua di “pazzi”, ndr), l’ho fatto perché ero stufo di mentire a me stesso sulle azioni del mio esercito. Per questo ho rifiutato e sono diventato attivista per la pace» chiarisce con voce risoluta Noam.

M a non c’è solo l’associazione Courage to refuse nell’universo dei coraggiosi obiettori israeliani: sono almeno altri tre (ognuno con il proprio sito internet anche in inglese, vedi link sotto) i gruppi molto attivi nel sensibilizzare la gente sull’importanza di non combattere nelle operazioni militari volte a rafforzare l’occupazione dei Territori palestinesi.
C’è, infatti, Breaking the silence (rompere il silenzio), organizzazione di veterani dell’esercito nata nel 2004. Essa si occupa di provvedere un’informazione più trasparente possibile su quanto accade nei Territori. In particolare, gli attivisti di Breaking the silence raccolgono testimonianze dei soldati dal fronte, che poi pubblicano ogni anno in un report omonimo, per far capire l’assurdità delle azioni militari israeliane e l’altro prezzo morale che la popolazione continua a pagare, mandando a combattere giovanissimi in situazioni la cui violenza porterà loro traumi successivi.
Un altro gruppo molto noto anche all’estero, Italia compresa, è Combatants for peace (combattenti per la pace), la cui particolarità è la presenza di entrambi gli «schieramenti»: da una parte soldati israeliani che hanno combattuto nei Territori occupati e che sono oggi obiettori, dall’altra palestinesi che hanno preso parte in passato alla lotta armata di resistenza.
«Oggi siamo uniti nel rifiuto di ogni violenza: siamo comunque rimasti combattenti, ma per la pace, che significa la creazione di due stati indipendenti: uno stato palestinese accanto a Israele» dicono nella loro dichiarazione d’intenti.
Ancora, c’è Yesh Gvul, (in ebraico significa «C’è un limite»), i cui volontari si occupano di supportare sotto tutti i punti di vista ogni refusenik. Tutti questi gruppi possono infine contare su una grossa rete di scambio di informazioni, la Rsn (Refuser solidarity network, rete di solidarietà per obiettori), nata nel 2002 e ancora oggi, soprattutto dopo i bombardamenti di Gaza, molto attiva nell’organizzare momenti di sensibilizzazione («il semplice rifiuto, se passivo, non basta: bisogna agire» recita un motto della Rsn) e nel tenere alta l’attenzione su cosa accade a ogni singolo soldato che dichiara la propria obiezione e che quindi, andando contro l’obbligatorietà del servizio, compie un atto fuorilegge.

Essere refusenik in Israele, oggi, significa essere disprezzato in patria, ma rispettato più che mai altrove. L’appoggio estero alla causa di questi giovani obiettori è enorme, e lo stesso Noam Livne ne è cosciente, in quanto è stato più volte invitato in Europa e Stati Uniti a tenere incontri.
In Italia, in particolare, l’associazione che più lo segue è Mondo senza guerre, che durante l’assedio della Striscia di Gaza ha diffuso via web un video (con i sottotitoli in italiano) in cui Noam spiegava «il no di noi refusenik a una guerra bieca, moralmente inaccettabile. Così come lo è il muro di separazione in Cisgiordania»; lo stesso muro che nel viaggio dello scorso maggio in Israele e nei Territori palestinesi lo stesso papa Benedetto XVI ha definito «sbagliato, destinato a non durare, a essere abbattuto».
Noam si dice contento delle parole del papa, così come dei mezzi di informazione stranieri, «che riescono a dire molte più cose di quelli israeliani, spesso poco obiettivi e manipolatori». Basti pensare che l’appoggio della società israeliana all’offensiva di Gaza è stato riportato attorno al 95%.
Di fronte a questo dato, anche la cifra dei 700 refusenik sembra irrimediabilmente piccola. «La maggior parte di noi, giovani compresi, non vuole vedere la realtà delle cose» aggiunge il tenente obiettore. Ne è un valido esempio il fatto che non abbiano avuto nessun seguito rilevante le tremende dichiarazioni, diffuse ad aprile, di soldati di leva mandati a combattere per le strade della Striscia pochi mesi prima: «Abbiamo sparato a civili inermi, distrutto case, compiuto atti vandalici e di umiliazione verso i palestinesi» dicevano questi militari.
Ma né episodi sconcertanti come questo, né il risultato delle ue, che ha visto trionfare la destra del premier Benjamin Netanyiahu, ostile alla concessione di uno stato palestinese e favorevole al proseguimento dell’avanzata delle colonie (nonostante la richiesta di sospensione del presidente degli Usa, Barack Obama), spezzano la forza di volontà e la lotta nonviolenta di Noam e compagni.
«Ci rendiamo conto che è difficile essere obiettori di coscienza in Israele, oggi più che mai. Ma noi continuiamo il nostro lavoro, perché vogliamo arrivare a vivere un’esistenza normale, non dominata dalla paura e dall’odio, fatta di rispetto reciproco tra noi e i palestinesi: crediamo profondamente che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti» afferma Noam.
Una voce dissonante la sua in patria, ma che l’esercito teme più che mai, forse ritenendola troppo «libera». Per questo, la sua storia e quella degli altri giovani refusenik israeliani va conosciuta e, perché no? diffusa. Dopotutto, la scelta della nonviolenza, nel mondo d’oggi, può ancora provocare «miracoli»: il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (oggi 91enne), sono profeti recenti, del secolo scorso. E se uno di quelli del XXI secolo arrivasse proprio dalla Terra promessa, dandole la pace vera e quindi avvicinando la Gerusalemme terrena a quella celeste? Perché no?

di Daniele Biella

Daniele Biella




Intrecci di solidarietà

Italia

La storia di un lungo viaggio attraverso i sentirneri di carte bollate e di cavilli burocratici, raccontato da chi, per lunghi anni, è stata una presenza di consolazione nell’Ufficio di Pastorale Migrantes (Upm) di Torino. Un breve racconto a lieto fine, pieno di luci ed ombre, pregiudizi, paura, ma anche tanta tenacia e incrollabile speranza.

Conobbi Sandra nel luglio 2007; era venuta al nostro Centro, incinta di due gemelli, per chiedere un sostegno e un aiuto. Nigeriana, 28 anni di età, conviveva con un connazionale dal quale aveva avuto una bimba riconosciuta da entrambi.
Quando si trovò incinta di due gemelli, il convivente voleva che Sandra abortisse, ma lei rifiutò e lui se ne andò. 
La nuova vita che attendeva, per lei, donna africana, non poteva che essere portatrice di speranza e gioia: «La vita è di Dio e nessuno può toglierla», mi disse. Le sue convinzioni culturali e religiose non le consentivano di abortire. Per questo Sandra, ormai sola, con una bimba di due anni, al quinto mese di gravidanza, si rivolse al Centro Migranti.
Mentre si avvicinava la data del parto, oltre ai problemi della sopravvivenza si aggiunse anche quello dell’abitazione: doveva lasciare l’appartamento perché non poteva più pagare l’affitto!
Cominciammo le ricerche e, finalmente, trovammo per Sandra una sistemazione provvisoria, segnalando immediatamente il caso anche all’«Ufficio stranieri minori» del Comune di Torino che riuscì ad inserirla in una comunità nei dintorni del capoluogo: era il primo ottobre del 2007. Il 25 novembre, nacquero Daniel e David!
La gioia per la nascita dei bimbi fu grande, ma per Sandra i problemi si moltiplicarono: le era scaduto il permesso di soggiorno che aveva ottenuto a Brescia, dove aveva lavorato prima della gravidanza.
Incredibile, ma vero, per uno sbaglio nella compilazione dei moduli, la questura bresciana rifiutò il rinnovo. Si tentò il ricorso, ma l’avvocato non se ne interessò. I ricorsi costano e se non si possono pagare…! Tutto si arenò. Coinvolsi l’Ufficio Diocesano Migrantes di Brescia, che ci aiutò moltissimo, riuscendo a far accettare l’integrazione dei documenti.
Nel maggio del 2008, Sandra ebbe di nuovo tra le mani il sogno di ogni emigrante: il permesso di soggiorno, valido però solo fino a luglio del 2008.
Il rinnovo era condizionato dall’avere un lavoro sicuro, regolarizzato, che dimostrasse che l’interessata aveva un reddito compatibile per il mantenimento suo e dei figli: 10.300 euro all’anno, richiesto dalla legge.
Come poteva, questa donna nigeriana trovare un lavoro in breve tempo con tre bimbi, due dei quali di pochi mesi? Inoltre, di lì a poco avrebbe dovuto lasciare la comunità che la ospitava.
Furono momenti di desolazione per tutti. Dove e come trovare una struttura che accogliesse la famigliola, dal momento che era impossibile per la donna trovare un lavoro a tempo pieno, che rendesse diecimila euro? Dopo molte ricerche trovammo un’Associazione che se ne fece carico.
Ma il calvario di Sandra non era ancora finito. Purtroppo, la soluzione non fu ottimale per la carenza ed inefficienza nella gestione della struttura.
Sorsero altre difficoltà, sì da far pensare, che la cattiva sorte perseguitasse Sandra e i suoi piccoli. Il ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno della questura di Brescia, generò un errore anagrafico nei documenti dei gemelli. Nati nel torinese, risultavano residenti in Nigeria, perché la madre è nigeriana e non aveva ancora la residenza a Brescia. Questo disguido impedì a Sandra di inserire i bimbi all’asilo nido municipale e di conseguenza di poter cercare e trovare un lavoro. L’irregolarità della sua situazione civile impediva anche all’assistente sociale di venirle incontro, visto che i quattro non risultavano residenti.
La situazione era veramente drammatica e Sandra era esasperata al punto da decidere di cercare qualcuno che portasse i bambini in Nigeria, presso la sua famiglia di origine, anche se poverissima, affinché lei potesse trovare un lavoro che le consentisse di vivere e di mandare parte dei soldi nel suo paese per il mantenimento dei figli. Cercai, senza sosta, un’altra struttura che potesse accoglierla e aiutarla. La Caritas di Asti rispose all’appello, capì la gravità della situazione e decise di farsene carico, accogliendo Sandra e i figli nella sua struttura: la sostenne e l’aiutò a risolvere i problemi burocratici negli uffici dell’anagrafe e in quelli della questura.
L’Associazione Amici Missioni Consolata di Torino da alcuni anni devolve un’offerta all’Ufficio Pastorale Migranti, per le donne in difficoltà; il mio pensiero corse immediatamente a Sandra, per cui presentai la sua situazione. L’Associazione accolse con entusiasmo e con tanta sensibilità la situazione di questa ragazza e se ne fece carico.
I vari interventi consentirono a Sandra di far fronte alle spese più urgenti per lei e per i bambini. Alcuni amici di Asti, poi, riuscirono a trovarle un lavoro, come badante, presso una famiglia. Anche qui, però, sorse una difficoltà: i datori di lavoro non volevano regolarizzarla. La regolarizzazione per Sandra era fondamentale, era la sola condizione posta dalla questura per poterle rinnovare il permesso di soggiorno.
Un intervento della responsabile della Caritas sbloccò la pratica e si riuscì ad ottenere la legalizzazione lavorativa. Per Sandra iniziò una nuova vita.
La nuova situazione le fece accantonare il progetto di rimpatriare i bambini. Inoltre, comprese che non era più sola, ma aveva una rete di persone, che Sandra chiama «famiglia allargata», che si occupava di lei e dei suoi figli.
La storia di Sandra è simile a quella  di centinaia di donne che si presentano al nostro Centro.
Quando la donna straniera non è guardata come «l’altra» o «la donna che sbaglia», quando c’è sinergia tra il pubblico e il privato e gli interventi di carità e di solidarietà s’intrecciano; quando sorgono persone disposte a dare voce a chi non ce l’ha, allora la speranza si riaccende e si comprende che un mondo diverso è possibile.
Dio, oggi come nei tempi antichi, sente il grido del suo popolo oppresso e sfruttato, se ne prende cura: lo libera, lo guida, lo protegge, lo consola e lo sostiene con la sua Provvidenza. Oggi, come ieri, non interviene da solo ma si affida a noi per continuare a compiere le sue grandi opere nello scorrere del quotidiano.

di Suor Maresa Sabena

Maresa Sabena




Volti e storie di consolazione

Introduzione

Rubo il titolo di questo editoriale all’articolo di Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, da anni impegnata ad offrire «consolazione di strada» a giovani donne impigliate nelle maglie della tratta e avviate a uno squallido futuro di prostituzione. Forse inconsapevolmente Suor Eugenia ha colto lo spirito con cui i missionari e le missionarie della Consolata, attraverso la Commissione Europea di giustizia, pace ed integrità del creato (Gpic), hanno pensato e organizzato questo dossier, pubblicato integralmente o in parte da tutte le nostre riviste.
Dietro le quinte di questo lavoro ci siamo noi, missionari in ricerca,  tesi a scoprire un volto europeo della consolazione da offrire al continente che più, nel passato, è stato fornitore di risorse umane e materiali.  Oggi, l’Europa si scopre invece sempre più terra di missione e quindi da guardare con occhi differenti rispetto al passato. Con quali occhi?

Ridefinire con coraggio la nostra presenza missionaria in Italia e in Europa non è facile. Le sfide nuove che l’analisi congiunturale svela impietosamente davanti al nostro sguardo ci scopre indecisi, frenati, «vecchi» di età e di idee, incapaci di scrollarci di dosso uno stile della missione ad gentes che non è più. Come i pozzi di petrolio anche i nostri bacini di drenaggio economico e vocazionale stanno offrendo valori molto diversi rispetto al passato. Tuttavia, invece di rischiare la scoperta di alternative missionarie, di nuovi stili di presenza o di una nuova spiritualità missionaria incarnata nell’oggi europeo, tendiamo a giocare in difesa, continuando ad offrire vecchie soluzioni a interrogativi nuovi e diversi.
L’incontro dei missionari che operano nei settori di animazione e di giustizia e pace, tenutosi a Fatima lo scorso febbraio, ha espresso l’esigenza di dare una scrollata al nostro modo classico di essere presenti oggi in Europa.  Nel contempo, ha rivelato anche i dubbi, le contraddizioni, le difficoltà che quotidianamente si incontrano nel camminare verso un autentico cambio di paradigma per il nostro stile di essere e fare missione.
Per una volta, però, abbiamo deciso di non «spararci in un piede», torturandoci con cifre e statistiche , ma di raccontare in tutta semplicità ciò che noi facciamo. Come in ogni cammino di conversione vorremmo iniziare a valorizzare ciò che già è presente, realtà,  applicando a noi stessi uno dei postulati della missione, che ci dice che ogni attività di evangelizzazione nasce essenzialmente da una storia che viene narrata.

Il risultato l’avete fra le mani: un piccolo approccio, minimalista ma sincero, alla realtà della nostra missione oggi in Italia, Spagna e Portogallo. Andrebbe corroborato con altri dati, con analisi, riflessioni e progetti… Lo faremo, e anche sulle pagine delle nostre riviste avrete modo di verificare i risultati di tale lavoro. Oggi, però, quello che vogliamo offrire sono le storie di consolazione che suore, padri e laici, figli della Consolata e dell’Allamano, vivono personalmente o di riflesso negli ambienti in cui operano. Alcuni temi emergono con decisione e segnano un interesse specifico, una traccia di cammino che già si è voluta intraprendere: la questione femminile, le periferie urbane, il macrotema della migrazione… ma dietro le quinte di questi grandi scenari si aprono domande di senso su altri aspetti della nostra presenza: quale pastorale, quale animazione, quale stile?

Un fattore pare essere certo: la missione oggi, anche in Europa, è e deve essere una missione di insieme. Molte delle storie che qui trovano spazio narrano relazioni pastorali feconde, dove i carismi degli istituti religiosi si fondono con quelli più propri del mondo laicale, formando un abbozzo di stile di missione che deve ormai essere tenuto presente se si vogliono trovare nuovi ambiti e nuove modalità ad gentes nel nostro continente.
Ancora una volta, sporgendoci idealmente dal coretto del santuario della Consolata in cui il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, soleva ingaggiare lunghe «conversazioni spirituali» con la vergine Maria ci rivolgiamo a lei, madre di ogni consolazione, per avere ispirazione e luce.

di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Consolazione è donna

Spagna

Malaika è una parola swahili che significa «angelo». È anche il nome di un Centro di dialogo e scambio tra fedi e culture diverse che i laici missionari della Consolata spagnoli hanno creato a Málaga. Due di loro ci raccontano la storia di un «angelo» colombiano e di un gruppo di donne da consolare.

Siamo a Málaga, nel Sud della Spagna: una città che si vanta di essere accogliente, terra di transito e  incontro di civiltà e che oggi riceve persone di molte nazionalità diverse. C’è chi per turismo viene a lasciare palate di soldi alla Costa del Sol, chi invece cerca la speranza di un lavoro sicuro e un futuro migliore.
Il Centro di dialogo interculturale e interreligioso «Malaika» nasce qui nel 2005; si interessa soprattutto al fenomeno migratorio, diventando ben presto un punto di riferimento per la città di Málaga nell’accoglienza dello straniero.
Le sue attività si sviluppano in modo particolare su due livelli. A livello individuale, Malaika offre orientamento e accompagnamento  per facilitare al singolo una miglior integrazione nel tessuto sociale cittadino e una più approfondita formazione interculturale a tutte le persone o istituzioni interessate a questo tema. A livello sociale, invece, si propone come un luogo di incontro che favorisce le relazioni interculturali e il mutuo scambio tra la popolazione migrante e quella locale. 
Anno 2006. A Malaika intrecciamo un rapporto stretto con un gruppo di boliviani con i quali riusciamo a organizzare varie attività. Lavorando gomito a gomito ci rendiamo conto di una grande inquietudine all’interno della loro comunità: tre giovani donne boliviane si sono suicidate in uno spazio di tempo molto breve. Impera la preoccupazione e si discute sui motivi che hanno portato a questa serie di atti: la situazione familiare delle tre donne, il lavoro che manca, il contesto ostile in cui molte volte i migranti sono costretti a vivere, ecc. ecc. La cosa peggiore è che, in confidenza, alcune amiche mi rivelano frasi inquietanti che stanno diventando ormai sempre più ricorrenti: «Chissà che non sia stato il modo migliore per risolvere i loro problemi», «sono così sfinita che anche io ho pensato di farlo in alcuni momenti».
Bisogna fare qualcosa. Sappiamo troppo bene come questo tipo di «soluzione finale» possa diventare contagioso. È la Provvidenza a venirci incontro e darci una mano, nella persona di Magali Adriana, arrivata di recente dalla Colombia dove, ci rivela, lavorava con un gruppo di supporto per donne maltrattate e i loro figli. Lei stessa, in passato, aveva vissuto traversie di questo genere e aveva sempre trovato importante poter dare un po’ di consolazione a persone in difficoltà. In Spagna la vita le sta mostrando la sua faccia più dura: qui tutto ciò che ha fatto un tempo sembra non contare niente, nessuno la riconosce per chi veramente è. Sta cercando un lavoro come collaboratrice domestica perché da tempo non riesce più a mandare soldi ai figli rimasti a casa e che stanno studiando, ma sente di essere chiamata anche a fare altro, che la soddisfi in pieno.
Grazie alla presenza e all’entusiasmo di Magali nasce l’idea di formare un gruppo di donne per lavorare su temi come l’autostima, le reti di appoggio sociale, la famiglia, le coppie miste, la società spagnola, ecc. Iniziamo a spargere la voce con associazioni e con immigrati, ricevendo incoraggiamenti e candidature: dalla Bolivia, Colombia, Argentina, Marocco. L’inizio non è facile. Non è infatti normale che queste donne manifestino le loro sofferenze più profonde in pubblico. Per questo cerchiamo l’aiuto di due psicologi, laici missionari della Consolata, che diventano responsabili del gruppo. Si cominciano gli incontri e il gruppo poco a poco prende confidenza, la profondità delle condivisioni aumenta, e le donne cominciano a volersi incontrare più spesso. Si organizzano momenti divertenti dove si cucinano piatti tipici, si balla, si ride e si scherza. L’ambiente si carica di amicizia, la solitudine si allontana dalle loro vite e i momenti di incontro sono ormai numerosi. Con la crescita dell’autostima e il rafforzamento delle reti di contatto alcune donne si iscrivono a corsi professionali; altre, trovano  il lavoro che non riuscivano a conseguire; altre ancora si inseriscono in circoli di immigrati e danno una mano nelle varie attività. Alcune (anche se senza documenti in regola) trovano il coraggio di denunciare abusi nel proprio lavoro. 
Trascorsi vari mesi, alcuni uomini legati alle donne del gruppo chiedono o sono invitati a partecipare alle loro attività, creando di fatto un gruppo misto, ormai perfettamente autonomo. I membri sono diventati volontari di Malaika, si sentono a casa e ci danno una mano nelle nostre attività.
Magali ha finalmente trovato una ragione in più per cui vivere. Si sente consolata da questa opportunità che le è stata offerta di rendersi utile in ciò che sa fare. Ma non soltanto lei ha beneficiato di questa piccola «avventura» del nostro Centro. Grazie a Magali e a questo gruppo di donne un po’ di consolazione è arrivata anche a noi che lavoriamo a Malaika e riceviamo affetto e amicizia di persone che hanno condiviso con noi un breve istante della loro vita. Per non parlare della consolazione ricevuta dalle donne stesse. Le inquietanti frasi di disperazione che tanto ci avevano preoccupato tre anni fa, oggi non sono che un lontano ricordo.

di Silvio e Pilar Testa

Silvio e Pilar Testa