Radio Refugees

Ciad: formazione «afro-africana»

Est del Ciad. Nel febbraio 2004 inizia la guerra nel vicino Darfur, Sudan. Oltre 240.000 rifugiati sudanesi invadono un’ampia regione. Un anno dopo iniziano a trasmettere tre radio comunitarie. Ma le redazioni soffrono una cronica carenza di competenze. L’autore, giornalista burundese, nostro collaboratore, è oggi in Ciad, dove lavora come formatore di giovani giornalisti di queste radio.

In Ciad vivono un centinaio di etnie e una popolazione stimata in 10 milioni di abitanti (statistiche governative del 2005). Secondo il World Refugees Survery, pubblicato nel 2007 da un comitato americano per i rifugiati e i migranti, il paese ha sul suo territorio circa 300.000 rifugiati e richiedenti asilo. Tra questi, oltre ai sudanesi, ci sono circa 60.000 profughi della Repubblica Centro africana.
Ma la guerra non è finita in entrambi questi due paesi dell’Africa centrale, così rifugiati, ma anche sfollati interni, continuano ad affluire nei campi. Diventa quindi molto difficile fare delle statistiche per stimare il numero di queste persone.

«Piccole» radio comunitarie

Nell’Est del Ciad si trovano tre radio comunitarie fondate da Inteews (Ong statunitense che si occupa di appoggio ai media come vettore di sviluppo), impiantate nel mezzo dei campi di rifugiati e di sfollati che si sono moltiplicati in questa parte del paese. Si tratta di Radio Sila, Radio Absoun e Radio Voix de Ouadai.
I giornalisti che lavorano in queste strutture sono, per la maggior parte, formati sul campo. Hanno livelli di studi variegati e pochissimi hanno fatto un percorso universitario. Altri hanno ricevuto formazioni per lavorare in questa zona in condizioni di vita molto difficili e sono magari entrati in contatto con diversi formatori.
È strano il panorama mediatico di questa parte del Ciad. La quasi totalità dei giornalisti non ha un vero «carnet d’adresse», ovvero una raccolta di numeri telefonici e indirizzi fondamentali in questo mestiere. Diverso da altri paesi, come il Burundi, dove ogni giornalista dispone di un gran numero di contatti. Si nota nelle riunioni di redazione, dove pochi hanno il numero di telefono di un’autorità locale che si vuole intervistare.

Isolati dal resto del mondo

I giornalisti di questa zona hanno pochissimi contatti con il mondo esterno, il che complica la buona comprensione del mestiere d’informare. Nel loro ambiente non hanno dei punti di riferimento o dei colleghi navigati ai quali si possono identificare.
Ascoltano sulle onde corte le radio inteazionali, come Bbc (British Broadcasting Corporation, radio britannica) e Rfi (Radio France inteationale, radio francese specializzata sull’Africa), ma ignorano ogni processo che porta alla produzione di un giornale o di un programma d’informazione che ascoltano su queste emittenti.
Non è raro sentire qualcuno dire: «Da quando sono giornalista non ho mai ricevuto una formazione». È vero che un manuale dell’Unesco spiega che i giornalisti delle radio comunitarie non hanno bisogno di conoscenze speciali, ma un minimo è necessario.
È ben visibile che l’informazione non si libera dalla pressione della storia, in quanto la predominanza di alcune etnie, che si sono succedute al potere negli ultimi trent’anni, impone la condotta. Si sente ancora dire che una certa informazione è corretta, perché è tale gruppo potente che «l’ha detto».
Diventa allora molto difficile spiegare ai giornalisti che tutte le informazioni senza fonte non sono valide, e che un professionista deve verificare le sue fonti con i propri mezzi. È in gioco la sua credibilità.

Prime difficoltà: la lingua

Questa è la mia seconda consulenza internazionale all’Est del Ciad dopo un’esperienza in Rwanda. Quando si tratta di formazioni occorre prepararsi, organizzare dei moduli formativi.
L’arabo «ciadiano» e il francese sono le lingue ufficiali. Si parlano poi un centinaio di altri idiomi locali. Questi, insieme all’arabo, sono le più utilizzate mentre il francese passa in secondo piano. Molti poi lo conoscono orale, ma quelli che possono leggerlo e scriverlo sono molto rari.
Questo vuol dire che su 10 allievi meno della metà capiscono con facilità la lingua del formatore, il che rende difficile la trasmissione della formazione.
Così, per far passare il messaggio si ricorre ai colleghi che traducono dal francese all’arabo, o in una lingua a grande diffusione come il zagawa e il massalite. Questa traduzione ha il difetto di subire delle trasformazioni durante i vari passaggi.
Ho dovuto quindi organizzare un modulo sulla traduzione stessa per tentare di rendere il passaggio da una lingua all’altra più fedele possibile. Ma questo ha creato dei ritardi sull’avanzamento della stessa formazione.

Mancano i modelli

Questi allievi-giornalisti, con formazione accademica molto diversa, non hanno lo stesso livello di comprensione. Alcuni tra loro hanno bisogno di nozioni di base.
Sono arrivato in radio attive già da due anni, ma ho constatato che  gli operatori hanno ancora bisogno di nozioni basilari di giornalismo. Questo mi ha obbligato a rivedere la formazione che avevo preparato, cercando di uniformarmi al livello di ognuno.
Quando si cercano di spiegare i meandri del mestiere, a dei giornalisti che ascoltano altre radio, si usano spesso degli esempi conosciuti da tutti. Questo non si può fare in Ciad, dove la stampa «indipendente», competitiva è solo agli inizi.
In questo paese, solo a Djamena, la capitale, si capta Rfi sulle Fm, mentre nelle altre località, la popolazione tenta di ascoltare le notizie sulle onde corte, con tutte le difficoltà. Molto spesso per essere informati su cosa succede nel proprio paese, oltre che in Africa e nel resto del mondo, captano solo delle radio straniere: sudanesi in arabo, la Bbc, Deutchewhelle (radio internazionale tedesca), ecc.
Non esiste una copertura radio locale. Da qui la difficoltà a impostare la formazione su esempi di fatti locali coperti da cronache locali.

Deontologia: questa sconosciuta

A osservarli, questi giornalisti, alcuni di loro non hanno ancora l’Abc del mestiere d’informatore. Quest’ultimo si può senz’altro classificare tra quelle professioni che hanno un impatto diretto sulla società. Ha le sue regole, la sua deontologia e la sua etica. Non necessita di molti diplomi, ma della volontà di darsi e, inoltre, occorre avere un po’ di vena giornalistica nel sangue.
A nulla serve installare degli studi radiofonici: senza la volontà degli uomini dei media, niente può fare avanzare o muovere la società.
Ecco qualche esempio che ci fa vedere come la radio comunitaria non sia percepita come un vettore di sviluppo in questa parte dell’Est del Ciad. Ho assistito più volte a presentatori di notizie che al momento della trasmissione hanno detto: «Spiacenti, questa sera non ci sarà il radio giornale», senza capire che un gesto simile è passibile di licenziamento diretto.
Altri giornalisti decidono la fine delle trasmissioni anticipata. In breve, alcuni considerano il mestiere dell’informatore come molto semplice, come quello del venditore di frutta e verdura (senza nulla togliere ai commercianti), che può decidere lui stesso quando andare a vendere e può chiudere ancor prima di aver terminato tutto il prodotto.
Abbiamo più volte sentito giornalisti reclamare delle ore supplementari, altri dire ad alta voce che il giorno di ferie è sacro e sono contenti perché non metteranno piede alla radio.

Intermediario umanitario

Poco a poco i neo-giornalisti trovano il ritmo di lavoro della radio comunitaria. Iniziano a capire che sono gli intermediari tra le fonti d’informazione e il pubblico che è, in questo caso, essenzialmente composto da rifugiati e sfollati. Il lavoro del giornalista rientra, in questo caso, nell’ambito umanitario.
Il reporter è presente dove le Ong distribuiscono viveri o sensibilizzano per l’igiene e la gestione dei rifiuti, ma partecipa anche alle riunioni di cornordinazione o di sicurezza delle Ong inteazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite presenti sul posto.
Nonostante i grandi generi giornalistici come l’indagine e l’inchiesta facciano parte della formazione, ci sono delle tematiche che non sono mai affrontate in queste radio. I grandi soggetti come l’appropriazione indebita degli aiuti, soldi o viveri, destinati ai rifugiati, le violenze su minorenni così frequenti e altri crimini, sono assenti dalle trasmissioni.
Questo dimostra che la nozione di stampa come «quarto potere» è ancora lontana in queste radio comunitarie.
Nell’Est del Ciad, i fatti relativi a certe persone dell’amministrazione di base o di certi responsabili di Ong possono invece alimentare la stampa sensazionale per mesi.

L’Informazione utile per il pubblico

Nonostante tutto, per me è una nuova esperienza quella del «giornalismo umanitario». Cerco di mostrare ai giovani giornalisti che la radio è il solo mezzo di cui dispone questo mondo di rifugiati e sfollati per fare sentire la propria voce.
È vero che in un contesto ancora fragile di tensioni politiche e intercomunitarie, occorre evitare soggetti che producono frizioni. L’importante è che i giornalisti possano sapere sempre dove si trova l’informazione utile per il proprio pubblico.
In Burundi è il contrario. Radio private come la mia, Isanganiro, denunciano sistematicamente, ogni giorno, le derive del potere.
Per questo motivo giocano un grande ruolo nello sviluppo della società e sono sempre a fianco del semplice cittadino per fare rispettare i suoi diritti. 

Di Gabriel Nikundana

Gabriel Nikundana




La democrazia non può attendere

Niger: Radio «Alteative»

Sono un gruppo di intellettuali nigerini. All’università fondano un giornale, che diventa uno dei più letti. Poi si accorgono della potenza della radio. Nel 2001 nasce la prima Radio «Alteative», seguita quest’anno dalla seconda. La loro missione è educare alla cittadinanza attiva. E lo fanno ogni giorno, non senza problemi.

Moussa Tchangari è un uomo corpulento, con lo sguardo sincero. È molto indaffarato ma altrettanto disponibile. Entriamo nel suo ufficio senza troppi appuntamenti e lui lascia tutto per accoglierci.
Siamo nella sede di Alteative espaces citoyens (Asc, Alteativa spazi di cittadinanza, www.alternative.ne), un’associazione che lavora nel campo dell’educazione alla cittadinanza, la promozione diritti umani e dell’auto-organizzazione dei gruppi di base.

Quei favolosi anni ‘90

Ma facciamo un passo indietro. Negli anni ’90, dopo il famoso discorso del presidente francese François Mitterand (20 giugno 1990, noto come discorso de la Baule), l’Africa francofona è in fermento. Si respira un vento di cambiamento e di cammino verso la democrazia.
In Niger un gruppo di studenti universitari militanti per i diritti umani e per la svolta democratica, fonda a Niamey una cornoperativa, che definisce «mediatica e culturale». Subito si caratterizza per la scelta dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione come strumenti principali.
Nel 1994 il gruppo crea un giornale, che si chiama «Alteative», e ancor oggi è pubblicato due volte al mese. «È un mezzo molto importante di partecipare al dibattito della società su un certo numero di questioni» spiega Moussa Tchangari, uno dei leader di allora, oggi segretario generale di Alteative. «Eravamo studenti e volevamo poterci esprimere e portare il nostro contributo al dibattito. Al tempo stesso l’obiettivo era sostenere le lotte sociali e politiche nel nostro paese nell’ottica di una vera trasformazione».
Per molti anni concentrarono le loro energie sul giornale. Erano volontari e anzi, si auto tassavano per pagare le spese: «Eravamo pronti a subire tutti i sacrifici necessari per poter fare il giornale».

La svolta: arrivano le onde

Qualche anno dopo il gruppo si rende conto che incarna una corrente importante in seno all’opinione pubblica e decide di offrire un quadro diverso, più aperto, a quelli che condividono le loro idee. Nasce così Alteative espaces citoyens, riconosciuta nel 2001 come associazione, e con lei la radio associativa: «Radio Alteative».
Tchangari: «Abbiamo deciso di lanciarci nella radio, con la creazione di una stazione qui a Niamey. Faceva già parte dei nostri progetti». La visione sulla comunicazione sociale è chiara fin dall’inizio: «È importante usare i media perché ci permettono di comunicare direttamente con la gente, suscitare i dibattiti, e una presa di coscienza politica nella popolazione. La radio diventa strumento essenziale per fare lavoro di educazione e di mobilitazione e abbiamo visto negli anni come questo media sia importante».
Lo è anche il giornale, spiega ancora, ma essendo in un contesto di un paese analfabeta, si indirizza a una certa élite: «Allo stesso tempo quello che si scrive è spesso ri-trasmesso a voce o ripreso dalle radio».
Nello scorso mese di giugno una seconda emittente ha iniziato a trasmettere a Zinder, antica città a 900 km ad est della capitale.
Tutto pronto da oltre un anno, è stata dura avere l’autorizzazione e la frequenza. L’associazione ha in progetto di aprire almeno altre due radio associative, ad Agadez, città nel Nord e Diffa all’estremo Est.
«Vorremmo avere 4 o 5 Radio Alteative, sarà una cosa straordinaria. Allo stesso tempo lavoriamo con la rete delle radio comunitarie e associative del Niger e collaboriamo anche con le radio commerciali».
Oltre al giornale e alle radio, l’associazione ha infatti creato un centro di produzione sia di programmi audio, sia di video documentari.
Producono programmi più commerciali e li scambiano o vendono ad altre radio o alle televisioni, compresa la Tv di stato. Realizzano anche video per organismi inteazionali, allo scopo di auto finanziarsi.
Ma le produzioni sono anche fatte per sostenere campagne, come quella, in preparazione, sul diritto all’alimentazione. In questo caso è Alteative che paga per dare la massima diffusione del messaggio su altri media. «Questo riusciamo a farlo grazie a sovvenzioni dei nostri partner».

Campagne di informazione e di educazione

Un’altra campagna in preparazione è quella sulla nutrizione: «Una delle cause della malnutrizione dei bambini è la povertà, ma una parte è legata all’ignoranza, quindi pensiamo che si possano usare i media, in particolare la radio, per ridurre l’impatto della malnutrizione nel paese. Vogliamo fare la promozione dei prodotti locali disponibili, di facile accesso e che possono contribuire a migliorare la situazione nutrizionale dei bambini».
Preparati i programmi sulle campagne di informazione si cercano finanziamenti. Una volta trovati firmano contratti con diverse radio perché ci sia la più larga diffusione. Con la rete delle radio associative si riescono a trattare prezzi abbordabili, in quanto la sensibilizzazione sulle tematiche affrontate rientrano nella vocazione di questi media.
Alteative supera i propri confini, partecipando a progetti per la sensibilizzazione sui diritti umani, con radio dei vicini Mali e del Burkina Faso.
Progetti, questi, finanziati dall’Agenzia internazionale della francofonia (Aif). Attualmente, insieme alle radio associative e comunitarie del Niger, stanno trasmettendo una serie sulla partecipazione politica delle donne  nella prospettiva delle elezioni (previste a novembre).

L’ossessione dei fondi, e dell’indipendenza

«Abbiamo una grande preoccupazione: quella di restare indipendenti, ma l’indipendenza resta qualcosa di molto difficile». Moussa Tchangari continua a raccontare: «Ci provammo già ai tempi del giornale, il quale poteva avere la pubblicità. Ma il contesto era difficile, per cui non riuscivamo più ad auto finanziarci».
Cominciano così altre attività, che potevano portare un po’ di soldi, come la video produzione. Poi partecipano a programmi di sviluppo con partner inteazionali, come Oxfam Movib (Paesi Bassi), Cooperazione svizzera, l’Acdi (Agenzia canadese di cooperazione e sviluppo internazionale), e la fondazione del miliardario Soros. Quest’ultima ha finanziato, ad esempio, la radio di Zinder.
Mentre l’Acdi, nell’ambito di un programma di rinforzo della società civile in Sahel ha permesso l’installazione dell’emittente di Niamey. «L’investimento iniziale per far partire una radio è elevato e da soli non abbiamo abbastanza mezzi».
Alteative espaces citoyens ha oggi circa 550 membri che pagano una quota associativa e vi lavorano una trentina di persone, alcuni salariati altri volontari.

Alteativa sì, ma scomoda

Ma la vita per un’associazione come Alteative non è affatto facile e le battaglie sono sovente «scomode» per il potere.
Ricorda il segretario generale: «Abbiamo conosciuto molte difficoltà nel nostro percorso. Abbiamo vissuto repressioni di tutti i tipi.
Io stesso sono stato arrestato più volte, picchiato, umiliato. Altri membri sono stati perseguitati. Compreso il nostro presidente. Né possiamo dire che oggi queste vicende siano totalmente escluse. Noi esistiamo, prima di tutto, perché siamo un gruppo autonomo che si batte. Questo è legato alla nostra determinazione.
Facciamo parte di quelle organizzazioni che il regime al potere in Niger vorrebbe vedere scomparire».
Fin dall’inizio il gruppo di studenti è stato attivo nella lotta per la democrazia: «Tutti i regimi che si sono succeduti dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi hanno accettato difficilmente il lavoro che facciamo: critichiamo, denunciamo, mobilitiamo la gente per battersi e approfondire la democrazia, perché i diritti siano concreti».
Nel 2005 Alteative ha animato l’importante movimento sociale di protesta. Per questo il regime ha chiuso la radio, che faceva uno straordinario lavoro di mobilitazione.
Tchangari è stato rinchiuso nella prigione di alta sicurezza, dove mettono i criminali pericolosi. Il governo aveva preso misure economiche molto gravi con un impatto terribile sulla vita della gente: l’aumento delle imposte fisse (tva) su prodotti di base: riso, acqua, elettricità, farina di grano, latte, zucchero.
I prezzi si sarebbero impennati di colpo, influenzando direttamente la vita della gente. «Abbiamo fatto un gran lavoro attraverso la radio affinché la popolazione comprendesse l’impatto di queste misure. Questo ha generato mobilitazioni straordinarie a Niamey, con più di 100 mila persone nelle strade. E lo sciopero generale: in giro non c’erano neanche le venditrici di frittelle. Il successo delle manifestazioni ha fatto pensare al governo che il nostro obiettivo fosse quello di rovesciarlo. Cosa che non è neanche alla nostra portata».
In seguito al movimento l’Iva è stata tolta su alcuni prodotti e mantenuta su altri. «È stato raggiunto un accordo, che per me è un bidone, perché frange della società civile sono state comprate dal potere. Noi abbiamo rifiutato di partecipare alla negoziazione».

In prima linea ai Forum sociali

Asc partecipa a tutte le lotte della società civile contro le ingiustizie sociali reali, in parte dovute alle politiche neoliberali imposte dalle organizzazioni finanziarie inteazionali.
È parte attiva del movimento altermondialista, della dinamica del Forum sociale mondiale (Fsm) e di quello africano, fin dalla loro creazione.
Assicura, inoltre, il segretariato del Forum sociale nigerino, e ha organizzato il quinto Forum sociale africano a Niamey (novembre 2008).
Nel 2010 vorrebbero (il condizionale è d’obbligo, vista la situazione politica) organizzare il Fsm tematico su migrazione, ambiente e sovranità alimentare.
«Ci hanno ostacolati nel 2006, nell’organizzazione del Forum sociale nigerino. Dicevano che volevamo mobilitare migliaia di contadini con l’obiettivo di prendere il potere. Che avremmo messo nella testa della gente che è possibile avere uno stato che garantisce tutto».
«Nel 2007 il governo ha minacciato di espellere i nostri partner dal paese, in particolare Oxfam, e di sciogliere la nostra organizzazione.
Questo perché avevamo fatto un’inchiesta nella regione di Tillabery sulla situazione alimentare e volevamo organizzare un atelier per presentare i risultati. Le autorità erano state invitate.
Noi abbiamo voluto andare avanti perché siamo nel nostro paese, nessuno può impedirci di fare un incontro. Se vogliono sciogliere le organizzazioni hanno solo daå farlo. Noi ci siamo battuti affinché ci sia la democrazia e il minimo è la possibilità di esistere come entità autonome, e siamo pronti a tutto per questo.
La gente che gestisce il paese ci conosce ed è cosciente della nostra determinazione». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Le radio che rompono il silenzio

Malawi: le emittenti comunitarie

In un paese dove l’analfabetismo interessa buona parte della popolazione, la radio è uno strumento di informazione e comunicazione essenziale. «Radio Umoyo» è un’emittente nata dalla comunità: parla di temi difficili come l’Aids, l’Hiv, le malattie a trasmissione sessuale, ma anche di argomenti pratici riguardanti l’agricoltura e la pesca.  Proprio per gli argomenti trattati, le radio comunitarie non sono ben viste dal potere e in generale da chi ha interesse a mantenere uno status quo, fatto di miseria ed ingiustizia.

«Il mio amico ha l’Aids, ma sarà mio amico per sempre» (1), cantano i ragazzi del gruppo Yaga (Youths against Aids) ai microfoni della «Umoyo Broadcasting Station, Wailesi (2), wa anthu», la cui traduzione suona più o meno così: «La comunicazione vitale per la gente, l’informazione che permette alle persone di vivere». Il solista, che ripete lo stesso motivo in modo «rappato» (3), è accompagnato da un basso, da una chitarra elettrica e da una batteria realizzata con materiali di scarto: i cerchioni di una macchina come piatti, cartone per la cassa e una molla fatta di fili di alluminio per pedale.
Radio Umoyo trasmette dal villaggio di Saiti Kadzua, nel distretto di Mangochi, situato sulla punta sud del lago Malawi, che segna il confine con il Mozambico. Si tratta di una radio comunitaria, gestita da giovani, che parlano ai loro coetanei di prevenzione dell’Hiv ed altre malattie sessualmente trasmissibili, discutono di pratiche tradizionali pericolose per la salute ed invitano la gente a non discriminare chi, coraggiosamente, «rompe il silenzio» e dichiara il proprio status.
I messaggi sono trasmessi nella forma di brevi radioromanzi, sketch radiofonici in cui, partendo da situazioni-tipo stile Nollywood (4) e facendo ricorso alle tradizionali tecniche del dramma, gli interpreti illustrano le conseguenze di una condotta sessuale disordinata.
In studio si alternano come ospiti tutti gli attori della società locale: i leader delle confessioni religiose, i guaritori (sinanga) e le levatrici tradizionali (tradizional birth attendants), personaggi capaci di influenzare il comportamento della popolazione.
Umoyo, infatti, è «la radio della gente» (wa anthu, gente, che pronunciato suona come il one… two… con cui gli annunciatori aprono le trasmissioni), perché i programmi sono costruiti a partire dai bisogni, dalle storie e dal vissuto dei membri della comunità e sono trasmessi in un linguaggio culturalmente condiviso.

Mentre si costeggiano in auto villaggi e mercati, è comune veder camminare, sul bordo della strada, un uomo con una radio in spalla, fedele compagna nel tragitto verso casa, al campo o al pascolo. Intanto, sotto un albero del villaggio, o nello spazio antistante la scuola o la casa del capo, è riunito un piccolo gruppo di persone. In mezzo a loro spicca una coloratissima radio a manovella, acquistata grazie al finanziamento di qualche agenzia o ong internazionale. Il gruppo è sintonizzato sul programma preferito: Market on the air di «Radio Dzimwe», con i suoi annunci interminabili visto che tutti hanno qualcosa da vendere.
Il gruppo costituisce un «listening club» (5), che si riunisce per ascoltare insieme i programmi, al termine dei quali un animatore comunitario, leader del gruppo, raccoglie e registra i commenti e le osservazioni, che sono poi inviate e trasmesse dalla stazione radio. In questo modo, anche gli abitanti dei villaggi più remoti, possono dialogare, attraverso la radio, con le autorità, che difficilmente visitano le zone rurali, sui temi che gli stanno più a cuore: salute, educazione, cittadinanza.
In un caso, per esempio, il ministro della salute è stato invitato da una comunità a rispondere sul tema della corruzione presente all’interno del centro di salute locale. La comunità aveva registrato «le voci del villaggio» e aveva inviato le registrazioni al ministro. Quando il programma è stato trasmesso, il ministro aveva già preso dei provvedimenti. 
Visto che la maggior parte degli ascoltatori dipende dall’agricoltura di sussistenza e dalla pesca, i programmi più gettonati, oltre a quello dedicato alla vendita dei prodotti, sono: «Ulimi Wokhazikika», che si occupa di agricoltura sostenibile su base familiare; «Tisodze», dedicato alla legislazione sulla pesca, in cui si indicano periodi consentiti e restrizioni; e «Zachilengedwe», che tratta della conservazione e corretta gestione delle risorse naturali. Altrettanto seguiti sono quelli in cui si parla di salute riproduttiva, violenza contro le donne e le ragazze, e di attività generatrici di reddito.
Umoyo, però, è l’unica radio che si concentra sulla prevenzione dell’Aids e sul rapporto tra infezione e pratiche culturali, sul cambiamento comportamentale ed i Plawas (6), i sieropositivi. La radio dà voce anche a loro, incoraggiandoli a combattere i pregiudizi di chi crede che un semplice contatto con un malato possa determinare il contagio.
In una società chiusa come quella rurale malawiana, l’individuo emarginato dalla comunità è estremamente fragile. Per questo motivo non sono rari i casi di coloro (soprattutto donne) che, appreso l’esito del test, si sono tolti la vita, per paura del giudizio e del rigetto della comunità.
Così mi raccontava Kinsley Pota, il primo sieropositivo a dichiarare il proprio status nel distretto di Mangochi: «È stato molto difficile aprirmi e farmi accettare dalle persone, ma sapevo che dovevo farlo per permettere a tutti gli altri di svelare la propria condizione ed accedere alla cura». Kinsley ha fondato così un’associazione di promozione dei diritti dei Plwas e sensibilizzazione della popolazione, la Maso, che in chichewa significa «occhi»: occhi per vedere e comprendere il virus e la realtà di chi convive con esso.

La radio, dunque, è uno strumento insostituibile e necessario di informazione e comunicazione in Malawi (7), soprattutto in zone come quella di Mangochi, dove l’87% della popolazione non sa leggere e scrivere.
Purtroppo però, la maggior parte delle radio sono in mano al governo (come il caso di MBC Radio 1 e MBC Radio 2 FM, che dominano quasi completamente la radiocomunicazione), a singoli politici (come Radio Joy FM, di proprietà dell’ex presidente Bakili Muluzu) e potenti gruppi locali (Zodiak Radio Statio) o a gruppi religiosi (Cfc; African bible college, Abc; Calvary family church radio; Christ for all nations; Radio Alinafe; Radio Islam; Trans.World e Radio Maria). Molte radio private, poi, si concentrano solo sull’intrattenimento musicale (come FM101 e Capital Radio 102.5).
Inoltre, la maggior parte di queste trasmette solo in inglese e in chichewa (8), mentre le radio comunitarie trasmettono in tutte le lingue predominanti nella regione ove queste sono ubicate. Ciò significa che le radio comunitarie contribuiscono alla preservazione della diversità socio-culturale del Paese e ad ampliare il pubblico radiofonico, visto che la gente si sente più invogliata ad ascoltare i programmi nella propria lingua.
Al momento però sono solo 5 le radio comunitarie funzionanti: Radio Dzimwe, Mzimba Community Radio Station, MJI FM, Nkhotakota Community e Radio Umoyo.
La prima, che opera dal 1997 da Monkey-Bay, ma anche in parte dei distretti di Ntcheu, Balaka e Dedza, è stata realizzata dall’Associazione di donne Mamwa’s. (Malawi Media Women’s Association). Con un raggio di copertura di circa 100 km raggiunge 3.2 milioni di persone, con lo share di ascolti più alto nel distretto di Mangochi.
Il loro impatto è dunque limitato rispetto a quello delle radio «di stato», commerciali e religiose.
Queste inoltre non possono fare pubblicità e non ricevono finanziamenti pubblici, e quindi la loro sostenibilità è sempre precaria. Infine, non possono dare notizie e parlare di politica.
La gente dei villaggi è molto lontana dalle vicende politiche del paese, e viene coinvolta solo al momento delle elezioni. Le donne vestite con il chitenge (9) del colore del partito su cui è stampata la faccia del candidato che le ha reclutate per danzare e cantare durante la sua campagna elettorale, non sanno neanche chi sia e non hanno idea dello schieramento cui questo appartiene.

I programmi trasmessi dalle radio comunitarie, costruiti con l’apporto dei club di ascolto, rappresentano dunque l’unica possibilità, per gli abitanti delle aree remote, tradizionalmente esclusi dalla vita politica del Paese, di conoscere e discutere le decisioni che li riguardano.
Se le radio comunitarie riusciranno a mantenere una loro autonomia e a conquistare un’audience sempre crescente, potranno rappresentare in futuro uno spazio reale di dibattito e formazione di una coscienza civile critica, ancora pressoché inesistente, non limitandosi quindi solo a denunciare povertà e malattie, ma discutendo le loro cause, che vanno al di là dei comportamenti individuali.
Non basta infatti condannare pratiche «tradizionali», che sarebbero responsabili della diffusione del virus, senza dire che quelle stesse pratiche (come per esempio il «property grabbing», per cui la donna vedova o divorziata è privata di ogni bene dai parenti del marito ed è costretta a prostituirsi) sono sostenute o tollerate da un quadro istituzionale e da un apparato normativo retrogrado. Così come non si può parlare di stagnazione economica – attribuita generalmente alla pandemia dell’Aids e alla siccità legata al cambiamento climatico – senza puntare il dito anche sulla iniqua distribuzione delle terre, eredità del passato coloniale, la corruzione dilagante, e i privilegi di una minoranza che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo. 

di Silvia Zaccaria

Note
(1) «Eh Sanghabazi, my friend has got Hiv-Aids, but he will my friend for ever». Il testo, scritto da «Prince» Isaac, alterna l’inglese al chichewa, l’altra lingua ufficiale del Malawi.
(2) Wailesi è la corruzione locale della parola «wireless».
(3) Il rap costituisce attualmente il linguaggio musicale di maggior successo e presa tra i giovani del Malawi.
(4) Il termine fa riferimento alla produzione cinematografica nigeriana, destinata soprattutto all’homevideo, che costituisce attualmente la terza industria cinematografica mondiale dopo Hollywood (Los Angeles, Usa) e Bollywood (Bombay, India). Diretta prosecuzione di una forte tradizione teatrale e performativa, strumento importante di comunicazione popolare in Africa, anglofona in particolare, i film nollywoodiani riflettono su tematiche legate ai grandi dilemmi morali e alle problematiche tipiche dell’Africa contemporanea. Alcuni promuovono la fede cristiana o quella islamica, mentre altri sono completamente evangelici. Spesso, tuttavia, riflettono su questioni legate proprio alla convivenza e all’interazione tra persone di fedi diverse, altri trattano di argomenti forti come l’Aids, la corruzione, l’adulterio e l’emanicipazione femminile.
Sul cinema africano si legga: Marco Bello, Mc maggio 2009.
(5) Club di ascolto.
(6) Sigla di «People Living with Aids», persone portatrici di Aids, sieropositivi.
(7) La radio in Malawi raggiunge circa il 90% dei 13 milioni di abitanti.
(8) Fatto questo molto limitante ed escludente, considerando che in Malawi ci sono 14 etnie che parlano più di 25 lingue inintellegibili tra loro.
(9) È la veste tradizionale utilizzata dalle donne per coprire il corpo dalla vita alle ginocchia. Il giallo, per esempio, contraddistingue i sostenitori dell’UDF (United Democratic Front), mentre l’azzurro caratterizza quelli del DPP (Democratic Progressive Party), partito dell’attuale presidente Bingu Mutharika.

Silvia Zaccaria




Quando i matti regalano la felicità

Argentina: Radio «La Colifata»

Dal settembre 1991 trasmette ogni sabato dalle 14.30 alle 19.30. È una emittente particolare, essendo nata all’interno dell’ospedale neuropsichiatrico Borda di Buenos Aires. A condurla ci pensano pazienti ed ex pazienti. Oggi Radio La Colifata è famosa (ed imitata) anche grazie al cantante Manu Chao, ad uno spot pubblicitario, a documentari. Ma i protagonisti non si sono «montati la testa». Forse perché sono «matti»…

Buenos Aires. Sulla parete, sull’unica parete, c’è un mosaico con un disegno naïf. Sulla destra trova posto un mondo, sulla sinistra una mezzaluna circondata da stelle, tra l’uno e l’altra un trenino che sale una china con le sue carrozze, ognuna delle quali ospita il volto di una persona.  
Davanti a quella parete, a quell’unica parete, ci sono dei tavolini sui quali sono stati disposti un mixer, un paio di computer portatili e alcuni altoparlanti. Il resto è costituito da alberi e panchine. È in quest’ambiente che ha il proprio «studio» un’emittente radio particolare, probabilmente unica, che di nome fa La Colifata.
Ma non è il fatto di lavorare all’aperto la caratteristica principale di questa radio. La circostanza che la rende unica è di trasmettere dal cortile interno del Borda, vecchio e decadente ospedale neuropsichiatrico (oggi rinominato «ospedale psicoassistenziale interdisciplinare») di Buenos Aires. E soprattutto di essere una radio fatta da pazienti ed ex pazienti. Una scommessa che ormai dura da quasi 20 anni: La Colifata è nata nel settembre del 1991.
La diretta e le registrazioni (da distribuire ad altre radio o da diffondere via web) si fanno ogni sabato pomeriggio nel cortile alberato del manicomio, dove prendono posto tutti coloro che vogliono partecipare.
Oggi ci sono una ventina di persone e una piccola troupe televisiva francese. Fin dal suo esordio, l’esperienza de La Colifata ha infatti richiamato, oltre a medici e psicologi, anche giornalisti, produttori e artisti da ogni parte del mondo.
Su una lavagna nera con il gessetto è stato scritto il palinsesto della trasmissione odiea. Musica e parole in una situazione piacevolmente rilassata. Qualcuno dei presenti improvvisa un ballo, con in bocca una sigaretta, perenne oggetto del desiderio. Quando una canzone termina, chiunque può andare al microfono. Le persone si presentano, salutano, esprimono opinioni, cantano.  
Lo fa anche Hugo Norberto López, classe 1934, con una voce squillante e un intervento carico di umanità ed ottimismo. «Queridos amigos…». Hugo è la esplicitazione della terapia della parola, è la rottura dell’isolamento tra manicomio e società, è la connessione tra «il dentro» e «il fuori».
Ormai lui è un volto piuttosto conosciuto, anche oltre i confini argentini. Lo si è visto con il suo faccione simpatico, i suoi grandi occhiali e la sua verve in una pubblicità spagnola della Aquarius, dove gli attori sono i matti de La Colifata. Aquarius non è un prodotto alternativo o equosolidale, anzi è proprio il contrario, trattandosi di  una bevanda della Coca-Cola. Tuttavia, bisogna ammettere che il film pubblicitario è molto ben fatto, sprizzando ironia e gioia di vivere. È proprio Hugo che chiude lo spot con un benaugurante: «L’essere umano è straordinario».
Per Hugo e i colifatos non è l’unica esperienza nel mondo dello spettacolo. È del 2007 la partecipazione ad un videoclip musicale di Manu Chao, noto cantante francoiberico che da anni collabora con La Colifata. Il film, titolato Rainin in Paradize, è stato girato da Emir Kusturica, regista e musicista serbo di fama internazionale. Nel video Hugo e gli altri «fanno i matti», alternandosi con immagini di paesi in guerra, cui la canzone di Manu Chao è dedicata. 
 
Maglietta bianca e grandi occhiali, Hugo è abituato ad essere oggetto di attenzione, ma il suo entusiasmo rimane sempre genuino, travolgente e coinvolgente.
«Sono Hugo López, per età il più vecchio della Colifata. La frequento da 8 anni. Io sono stato inteato nel 1986. Mi diedero una montagna di psicofarmaci. Va bene, quando uno ha una crisi, ma quando la crisi passa, perché continuare con essi?».
Chiediamo come mai Radio La Colifata trasmetta all’aperto. «Semplicemente – risponde -, perché non abbiamo studi. Però credo che ci sia anche uno spirito di libertà in questa scelta».
Libertà in una radio nata in un manicomio e fatta da matti sembra un controsenso… «Ma è così – spiega -. I mezzi di comunicazione di massa fanno sì che la gente abbia paura. Non so se lo fanno a proposito. Per questo, anni fa, abbiamo venduto la nostra casa e siamo andati a vivere in un appartamento. Però la paura paralizza. Non bisognerebbe avere paura».
Quanto al Borda, è un ospedale decadente, ma occupa una vasta area verde che fa gola a molti speculatori. «Sì – conferma Hugo -. Il Borda sorge sui terreni più ambiti della zona sud di Buenos Aires. Si chiamano “Los Altos de Barracas”. Ci sono gruppi di potere che vorrebbero questa zona per trasformarla in un country o comunque in un luogo privato. Però questo terreno è di tutti noi. Dobbiamo fare in modo che la gente venga qui ad approfittare degli alberi e dell’ossigeno. Questo è un luogo da aprire come si aprì il manicomio di Trieste per merito di Franco Basaglia. Ho una grande ammirazione per lo psichiatra italiano, soprattutto perché si battè contro l’oscurantismo».
Nel dialetto locale el colifato significa «loco lindo, loco bueno», ovvero il matto che vorrebbe vedere tutti felici. Ma cos’è la felicità, chiediamo a Hugo, sfidando le leggi dell’ovvietà. Ma lui non delude le aspettative, rispondendo: «È quando tutti possono mangiare, avere un’educazione. Insomma, un delirio, un’utopia».
Hugo è sposato. «La mia signora – dice –  ha 70 anni. Fortunatamente abbiamo una vita degna».
Lui ha studiato e lavorato nel campo dell’arte grafica. «Per 33 anni – specifica -. Adesso sono pensionato. Sfortunatamente, la pensione è rimasta congelata per molto tempo. Però adesso pare che la attualizzeranno. In tanti non abbiamo a sufficienza per vivere e per mangiare. Ma così lo stato spende di più, perché quello che risparmia sulle nostre pensioni, lo spende in medicine, ricoveri e terapie. A meno che non sia fatto tutto a proposito: più malati, più business per l’industria della malattia».
Hugo stronca la filosofia neoliberista applicata nel suo paese. «In Argentina si è distrutta la scuola pubblica per favorire quella privata. Così oggi si distruggono gli ospedali pubblici per favorire quelli privati. Tutto si converte in lucro, in commercio. Le cose necessarie non dovrebbero essere legate al guadagno: l’alimentazione, la luce, l’acqua. Non dovrebbe esistere una differenza tra chi può pagare questi beni e chi no. Crescono l’invidia e il risentimento. E la corruzione. Il denaro è sinonimo di successo, indipendentemente dal fatto che la persona sia un ladro, un degenerato o altro».
Dunque, il futuro è grigio? «Un conoscente – racconta – si lamentava dell’Argentina, della corruzione, di una strada senza uscita. Questa persona aveva con sé due figli, allora gli ho detto: “Ma come fai a dire questo se hai messo al mondo due creature? Devi avere speranza. Dopo di ché ha chiuso la bocca perché non sapeva cosa rispondermi».
Ma dove sta la speranza? «Quando ci sarà un cambio nel sistema di produzione, allora cambierà anche il modello sociale cambierà in meglio. Questo significa che l’uomo si ammalerà meno».
Gli chiediamo di esplicitare questa sua idea. «Viviamo in una società basata sul denaro. Alimentazione, salute, abitazione, educazione dovrebbero non essere commerciali, ma beni accessibili a tutti. Ci sarebbero meno malati, meno carcerati e molta più gente felice. Se l’uomo avesse queste 4 condizioni assicurate, tutto sarebbe migliore. Ognuno facendo qualcosa, non vivendo da parassita, sia chiaro questo».
La conversazione è interrotta dall’arrivo di Claudia Alejandra, una simpatica signora con i capelli bianchi legati sulla nuca. Lei è stata inteata al Mojano, il manicomio femminile che confina con il Borda e del quale serba un pessimo ricordo. Salutata Alejandra, Hugo riprende il filo del discorso.
Lui è come un torrente in piena, ma benefico, rinfrescante. Intona una poesia e poi mi mette in mano un Cd musicale: «Canciones para la oreja izquierda», Canzoni per l’orecchio sinistro. È firmato dal «Frente de artistas del Borda», il Fronte degli artisti del Borda, un gruppo che organizza laboratori artistici con i pazienti dell’ospedale.
«Sono 16 pezzi  – racconta Hugo  -. Io ho interpretato due brani: Pedacito de cielo e A mis amigos».
Considerando che il nostro matto ha già lavorato per uno spot pubblicitario e per Manu Chao, certamente anche quest’altra performance artistica sarà all’altezza.

«Hasta que los muros caigan», fino a quando i muri cadranno. Muri fisici e muri psicologici ce ne sono molti e non soltanto tra sani e malati, tra cosiddetti «normali» e cosiddetti «matti». L’incredibile esperienza di Radio La Colifata ha fatto breccia. Ha portato frutti. E seminato. Oggi, in giro per il mondo, ci sono molte esperienze che si rifanno alla radio nata nell’ospedale Borda di Buenos Aires. Una scommessa pazza. Una scommessa vinta.  

Di Paolo Moiola

Radio La Colifata

Fondazione: agosto 1991, per merito di Alfredo Olivera, psicologo.

Luogo:  Ospedale psicoassistenziale interdisciplinare José Tiburcio Borda, rua Ramon Carrillo 375, barrio Barracas, Buenos Aires.

Trasmissioni:  ogni sabato dalle 14.30 alle 19.30; i programmi vengono ritrasmessi nel corso della settimana da altre radio e dal web.

Video su La Colifata: 2008, spot per Aquarius, bevanda della Coca-Cola; 2007, Rainin in Paradize, videoclip per il cantante Manu Chao diretto dal regista Emir Kusturica; 2004, film documentario La Colifata di Valentina Monti e Mirta Morrone. A La Colifata è stata dedicata un’apposita sezione all’XI edizione del «Festival inteacional cine de derechos humanos» di Buenos Aires 2009.

Articoli su La Colifata: Veronica Gago, «La pazzia come forma di resistenza» in America Latina dal basso, a cura di Marco Coscione, Edizioni Punto Rosso / Carta 2008; Ruben H. Oliva, «Radio libera follia», D-Donna de la Repubblica, 5 aprile 2008.

Sito web: www.lacolifata.org

Emittenti similari in Italia:
• Radio 180, Mantova, www.radio180.it 
• Radio Fragola, Trieste, www.radiofragola.com

Paolo Moiola




Colombia: Radio «Payumat»

I leaders dei popoli indigeni colombiani rischiano la vita, sono chiamati «terroristi» dal governo Uribe,
ma non rinunciano alla lotta. Pacifica ed organizzata.Nonostante anche la loro emittente sia stata messa a tacere da un attentato. Era il 14 dicembre 2008. Da allora, le trasmissioni di Radio Payumat sono sospese.

In Colombia, la popolazione è afflitta da una guerra intea interminabile, povertà ed ingiustizie secolari. In questo contesto, gli indigeni sono una minoranza (meno di un milione su un totale di 36), che deve difendere con le unghie e spesso con la vita le proprie peculiarità. Il governo di Alvaro Uribe non esita a qualificarli come «terroristi», per la loro contiguità fisica con i guerriglieri delle Farc. I leaders delle varie comunità rischiano la vita a causa delle violenze dell’esercito e dei gruppi paramilitari (l’ultimo dei quali si è dato il nome di «aguilas negras»). Nonostante questa difficile situazione, le istanze degli indigeni colombiani sono oscurate dai media ufficiali.
In assenza dello stato, in questi ultimi anni, gli indigeni hanno organizzato la propria esistenza-resistenza, in parte con l’aiuto di missionari e organizzazioni inteazionali, in parte trovando forza nelle proprie tradizioni più consolidate. Una delle organizzazioni indigene più attive, conosciute e meglio strutturate è l’Acin («Asociación de Cabildos Indígenas del norte»), che raccoglie le etnie della regione del Cauca. Nel «piano di vita» («plan de vida») dell’Acin sono previste 5 reti («tejidos», tessuti) operative: economia e ambiente, popolazione e cultura, giustizia ed armonia, difesa della vita, comunicazione e relazioni estee.
Dora Muñoz, giovane indigena nasa (paez), è perfettamente consapevole delle innumerevoli difficoltà e per questo svolge la propria professione di giornalista come una missione. Lavora all’emittente comunitaria della Acin, che trasmette da Santander de Quilichao. «Noi ci definiamo una “rete di comunicazione”, perché lavoriamo per unire i fili di un tessuto. Lo facciamo con la radio comunitaria, ma anche con un gruppo che lavora con i video. Abbiamo poi una pagina internet, attraverso la quale informiamo soprattutto all’esterno quello che sta accadendo. In Colombia i grandi mezzi di comunicazione non parlano degli indigeni e del nostro “Piano di vita”. Se ci fossero soltanto loro, nessuno conoscerebbe il nostro percorso esistenziale. E quando parlano di noi, è unicamente per dire che siamo terroristi…».
Il motivo di tanta avversione è presto spiegato. «I nostri territori sono occupati militarmente da gruppi di sinistra e di destra. Dall’esercito, dalla guerriglia e per finire dalle multinazionali.  Tutti vogliono appropriarsi del territorio e delle sue risorse, senza curarsi delle comunità che vivono qui. Per le comunità indigene il territorio e le risorse naturali non sono mercanzia, ma beni che danno la vita e che perciò vanno protetti». Insomma, gli indigeni danno fastidio, sono d’intralcio agli interessi di molti e per questo vanno fermati.
La radio comunitaria della Acin si chiama Payumat (Pa’yumat). Nella lingua della etnia nasa (paez), «payumat» è il termine utilizzato quando una persona arriva in una casa della comunità: con esso si annuncia il proprio arrivo e si chiede il permesso di entrare. Si usa in qualunque ora del giorno. Le trasmissioni di Radio Payumat vanno in onda dalle 7 del mattino alle 5 del pomeriggio, «ma – precisa Dora – trasmettiamo a tempo pieno quando c’è un’emergenza». Si calcola che l’emittente indigena raggiunga una audience di 110.000 persone, tra indigeni, contadini e popolazione afro.
Chiediamo a Dora come riescano a mantenersi. «La sostenibilità economica di Radio Payumat e di tutta la rete di comunicazione – spiega la giornalista nasa – è una questione piuttosto complessa. Le autorità indigene danno un sostegno annuale. Inoltre, raccogliamo qualcosa con le nostre produzioni e ogni tanto collaboriamo con agenzie ed istituzioni. Però, nonostante le perenni difficoltà economiche, molte volte decidiamo di rifiutare gli aiuti di coloro che pretendono di condizionarci».

Le trasmissioni di Radio Payumat sono sospese dal 14 dicembre 2008. Racconta Dora: «Subito dopo il grande lavoro di informazione svolto in occasione della minga (mobilitazione indigena, ndr) sociale e comunitaria, mani criminali hanno sabotato i ripetitori installati sul Cerro di Munchique, la parte alta di Santander de Quilichao. Su chi sia l’autore dell’attentato non abbiamo certezza assoluta, ma in base alle investigazioni svolte abbiamo dei sospetti. Però per noi è pericoloso dirlo. Ed ancora di più pubblicarlo su un giornale…».
Esagerazioni? Macché, gli assassinii di attivisti e dirigenti indigeni sono all’ordine del giorno. Solamente durante la scrittura di questo articolo, sono stati ammazzati Héctor Betancourth Domicó, governatore indigeno di Changarra (6 luglio 2009), e Marino Mestizo, indigeno nasa assassinato nel Municipio di Caloto, Cauca (23 giugno 2009).

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Perù: Radio «La Voz de Caybarachi»

Un prete italiano contro le prepotenze delle multinazionali nell’Amazzonia peruviana

Alla fine la storia è sempre la stessa: i deboli che debbono difendersi dalle prepotenze dei forti. Così a Barranquita, provincia di Lamas, dipartimento amazzonico di San Martin, le popolazioni contadine debbono difendere le loro terre dalle brame della società «Palmas de Espino», un’impresa che deforesta l’Amazzonia per produrre biocombustibile dall’olio di palma. L’impresa fa parte del «Grupo Romero», uno dei più grandi gruppi industriali del Perù, con interessi in svariati settori produttivi. Politici ed amministratori sostengono le ragioni dell’azienda, giustificando la loro scelta con lo sviluppo economico che ne deriverebbe.
A difesa dei diritti delle comunità contadine della Valle Rio de Caynarachi si è invece schierata una piccola, ma seguitissima radio che di nome fa «Voz de Caynarachi». Questa ha iniziato una battaglia per sostenere che le terre disputate appartengono legalmente alle popolazioni che da sempre le abitano e lavorano.
Fondatore e anima dell’emittente è padre Mario Bartolini Palombi, un prete passionista italiano di 70 anni, che da 30 opera nel paese andino. Già nel novembre del 2006, il prete italiano era stato dichiarato «persona no grata» dal sindaco di Barranquita, il quale aveva chiesto al vescovo di allontanare quel sacerdote troppo molesto. Allora mons. Astigarraga, vicario apostolico di Yurimaguas, aveva difeso padre Bartolini e le trasmissioni diffuse da «La Voz de Caynarachi». Di fronte agli attacchi di oggi, con un comunicato datato 20 giugno 2009, il prelato cattolico ribadisce il concetto: padre Bartolini obbedisce all’obbligo di «scegliere l’opzione per i poveri e i meno fortunati, cercare la verità e la giustizia, difendere i beni della creazione».

La vicenda di Barranquita ricorda quella del confinante dipartimento di Amazonas, dove, lo scorso giugno, in località Bagua ci fu una cruenta battaglia tra le locali popolazioni awajun e le forze dell’ordine peruviane. Gli indigeni erano insorti per difendere le proprie terre cedute dal governo del presidente Alan Garcia alle compagnie minerarie, infrangendo i principi stabiliti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (settembre 2007) e nella Convenzione della Organizzazione internazionale del lavoro (Oit/Ilo) n. 169 del 1989. Alla fine, dopo decine, forse centinaia di morti, il governo e le compagnie minerarie hanno dovuto fare retromarcia, derogando ai decreti legislativi su cui fondavano la propria azione (decreti 1090 e 1064, conosciuti anche come «leyes de la selva»).
A Barranquita e a Bagua, le prepotenze del potere politico ed economico sono state (momentaneamente) fermate. Ma – questa è una certezza – la guerra per i diritti delle popolazioni indigene sarà ancora lunga.

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Catastrofe infinita

Introduzione

La campagna scatenata dalle Forze armate israeliane (Tsahal) contro la Striscia di Gaza, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, è stata chiamata operazione «Piombo fuso», parole desunte da una canzone cantata durante gli otto giorni di Hanukkah, una festa che ricorda la vittoria riportata dai Maccabei, nel II secolo a.C., sui greci che volevano imporre al popolo ebreo l’ellenismo con relativi usi e costumi pagani; una vittoria, secondo Zaccaria 4,6, «dello spirito sulla forza brutale» che minaccia Israele nella sua vita religiosa e spirituale. Tale operazione militare è stata lanciata proprio durante tale festa di Hanukkah, il sabato, elevandola così al rango di causa nazionale e religiosa.
Da parte d’Israele l’attacco militare è presentato come operazione di legittima difesa, cioè per neutralizzare i razzi Qassam lanciati da Hamas contro obiettivi civili del sud di Israele; tale lancio si sarebbe intensificato appena scaduta la tregua di sei mesi, stipulata il 19 giugno 2008 grazie alla mediazione egiziana.
Da parte palestinese, invece, la ripresa del lancio di razzi è stato motivato dalle violazioni della tregua di parte israeliana il 4 novembre 2008, con l’assassinio di 6 suoi militanti, con il blocco dei convogli umanitari e l’uccisione di 19 palestinesi in attacchi aerei.

Ora, la nozione di legittima difesa presuppone una proporzionalità dei mezzi impiegati, ma non è il caso dell’operazione  «Piombo fuso»: Tsahal ha attivato una sessantina di bombardieri e almeno 20 mila uomini super equipaggiati di fronte a resistenti armati di razzi rudimentali e di adolescenti armati di pietre.
Scopi ufficiali dell’operazione erano: distruggere i supporti logistici di Hamas, eliminare il maggior numero possibile di leader, rallentare o addirittura prevenire il riarmo, distruggendo i tunnel sotterranei tra Gaza ed Egitto, attraverso i quali si rifoiscono di armi Hamas e altre fazioni paramilitari. Di fatto l’operazione «Piombo fuso» ha seminato morte tra i civili e ridotto Gaza in un cumulo di rovine.
L’uso sproporzionato della forza è confermato anche da un rapporto interno delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio del mese di maggio, in cui vengono ricostruiti i fatti di «nove incidenti più gravi» accaduti durante l’operazione «Piombo fuso». Il giudizio degli esperti Onu è duro: essi accusano Israele di uso eccessivo e indiscriminato della forza contro i civili, e di aver aperto il fuoco e bombardato deliberatamente le sedi Onu pur sapendo che si trattava di edifici delle Nazioni Unite, a partire dal bombardamento della scuola femminile Unrwa (agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi) di Khan Younis, a quello della scuola elementare di Gaza City, alla scuola di Jabalya, fino ai mezzi e alle ambulanze Onu e ai morti provocati dai proiettili contro la scuola elementare di Beit Lahia.

Poche settimane dopo il cessate il fuoco, in Israele si sono tenute le elezioni anticipate (10 febbraio). Secondo molti commentatori la campagna elettorale è strettamente legata alla messa in opera dell’attacco militare, della sua escalation e dell’appoggio unanime delle principali forze politiche israeliane. Il risultato delle votazioni ha premiato i politici che hanno maggiormente appoggiato la campagna militare.
Ciò non significa che tutta la società israeliana sia guerrafondaia. Da alcuni anni cresce il numero degli obiettori di coscienza, chiamati «refusnik»: sono i giovani che rifiutano di arruolarsi e numerosi soldati, ufficiali e sottufficiali che abbandonano l’esercito, per sottrarsi al dover prestare servizio nei Territori Occupati palestinesi e dovere obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili.
E poiché Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza né prevede servizio civile alternativo, coloro che rifiutano di arruolarsi vengono sottoposti a processi e umiliati, fino a essere riformati in quanto «mentalmente disabili»; mentre quei militari, arruolati o riservisti, che scoprono di non potere, in coscienza, obbedire agli ordini dei loro superiori, vengono incarcerati e scontano la loro pena in un carcere vicino a Haifa.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Prigione a cielo aperto

Gaza: 10 giorni dopo il cessate il fuoco

Una campagna militare, presentata all’opinione mondiale come operazione di «legittima difesa», in 22 giorni di bombardamenti aerei e incursioni di carri armati ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, distruggendo case, scuole, alberghi, ospedali e altre infrastrutture, provocando soprattutto morti, feriti e profughi, riducendo la popolazione palestinese alla miseria più nera, senza tuttavia cancellae la dignità e la voglia di ricostruire il proprio futuro, in attesa della pace.

R afah, 28 gennaio 2009. Dopo un viaggio di diverse ore lungo la costa settentrionale del Sinai, arriviamo al valico egiziano. La guerra israeliana contro la popolatissima Striscia è terminata il 18 e l’Egitto ha riaperto, con il contagocce, il passaggio. Ne approfittiamo per presentarci alle autorità egiziane di confine, che, da quasi tre anni, contribuiscono all’assedio di Gaza.
Ci disponiamo ad attendere diverse ore, in coda all’ufficio passaporti, in compagnia di decine di altre persone: un simpatico e creativo gruppo di ingegneri egiziani con tanto di elmetto giallo, due parlamentari marocchini, attivisti greci e feriti palestinesi di ritorno dagli ospedali del Cairo.
Mentre aspettiamo più o meno pazientemente, osserviamo alcuni ragazzi con arti ingessati o amputati. Sono stati feriti dalle bombe lanciate da Israele, poche settimane prima, durante l’operazione «Piombo fuso»: dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Storie di umanità ferita
Hamid ha 30 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha passato diversi giorni in un ospedale del Cairo, dove è stato sottoposto a quattro interventi. Ci indica le ferite: sono sparse in tutto il corpo. È un giovane padre di famiglia, residente a Beit Lahiya, nel nord della Striscia: è uno delle centinaia e centinaia di «terroristi» che Israele ha fatto a pezzi. La sua colpa, infatti, è stata quella di uscire in strada, una mattina – il primo giorno di invasione di terra israeliana – per comprare un po’ di dolci ai figlioletti terrorizzati dai bombardamenti nottui. Mentre era al supermercato, un missile dell’aviazione si è abbattuto su di lui e su altri cittadini, uccidendone sei. Lui si è salvato, ma è rimasto gravemente ferito.
Thaer ha 18 anni e anche lui viene da Beit Lahia. I medici egiziani gli hanno amputato una gamba, spappolata dai cannoni dell’artiglieria israeliana. Pure lui, a quanto pare, era un «terrorista», come le sue nove sorelle e il fratellino disabile. La loro casa era stata rasa al suolo 25 giorni prima. Suo papà lo guarda con gli occhi pieni di lacrime, accarezzandogli il capo: «Grazie a Dio» ci dice. È l’unico figlio che gli è rimasto…
Dopo un numero interminabile di ore, un solerte ufficiale ci spiega che non potremo procedere verso i Territori palestinesi. Nonostante le lettere di «remissione di responsabilità» rilasciateci dalla Faesina e dall’ambasciata italiana al Cairo, necessarie per recarci a Gaza, ci manca ancora qualcosa: una presentazione ufficiale dei dirigenti dell’Ordine dei giornalisti d’Egitto.
Nonostante i proclami di fratellanza e solidarietà con una popolazione stremata da quasi 3 anni di embargo e 22 giorni di attacchi da cielo, terra e mare, le autorità del Cairo permettono solo raramente l’entrata e l’uscita dalla Striscia. A nord e a est, ci pensa Israele a sigillare gli altri valichi.
Ci ripresentiamo il giorno successivo con la lettera dei colleghi egiziani, determinati a passare. Con noi valicheranno il confine ingegneri giordani, palestinesi feriti, diversi medici e altri giornalisti.
L’armageddon
La Rafah palestinese ci appare in tutta la sua devastazione: case rase al suolo dai missili e carri armati israeliani, campi spianati dai bulldozer. «Hanno fatto un deserto di macerie e distruzione e l’hanno chiamato “legittima difesa”» ci viene subito da pensare, parafrasando una celebre espressione.
Pochi chilometri più avanti, a Khan Younes, vedremo abitazioni, scuole, sedi della polizia cittadina, ufficio postale e altri luoghi pubblici ridotti a cumuli di detriti. In questa cittadina le vittime dei bombardamenti per niente selettivi di Israele sono state 120 e i feriti 150.
La Striscia di Gaza è larga 7 km e lunga poco più di 50. Percorrerla da sud a nord – Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza City, Jabaliya, Beit Lahiyah – necessita di poche ore. Dovunque, ora, c’è morte e distruzione.
Nuseirat è dislocata nei pressi di Deir al-Balah, nella regione centrale: fermiamo l’auto davanti a una barriera di lamiera. C’è scritto: «Centro di polizia di Nuseirat»; ma di quella che fino a poche settimana fa era una caserma rimangono solo i blocchi di cemento fracassati dai missili israeliani e crollati sopra i poliziotti che vi prestavano servizio. I morti sono stati 70, tutti giovani fatti a pezzi dall’esplosione o schiacciati da pesanti lastroni.
«Missili contro covo di terroristi» hanno tuonato i nostri media. In realtà, si trattava degli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti di loro, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti.
Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo la strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: a destra e a sinistra scorrono cittadine, campi profughi, terreni agricoli. Nulla è stato risparmiato dalla furia devastatrice dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane: intere palazzine, edifici di 15-18 piani, aziende, serre, completamente distrutti. Sotto quei massi scagliati qua e là dalla forza delle bombe, i soccorritori hanno estratto intere famiglie massacrate. Cittadini comuni. Non terroristi. 
I crateri lasciati dai missili sono ovunque: nei villaggi, nei terreni, nelle strade.
Neanche le scuole sono state risparmiate. Entriamo nel cortile di un complesso scolastico costruito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. I bombardamenti hanno sventrato intere aule, distrutto edifici. I ragazzi ora fanno lezione all’aperto.
Ritorniamo a Khan Younes: siamo ospiti di un albergo della Mezzaluna Rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a famiglie rimaste senza tetto.
Siamo subito colpiti da un particolare, banale e scontato in altre occasioni: nei bagni ci sono asciugamani puliti, sapone e shampoo confezionati. Come in un qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di «normalità» e dignità nell’accoglienza ci commuove.
Questa fierezza, questa forza d’animo la noteremo continuamente, sia negli adulti sia nei bambini. «Andremo avanti – ci dicono – con l’aiuto di Dio». Forse proprio la determinazione e uno spirito indomito hanno permesso al popolo palestinese di sopravvivere a 60 anni di pulizia etnica.
Nella cittadina visitiamo un centro caritativo islamico, dove ogni giorno tantissime persone si recano a chiedere aiuto in denaro e in viveri. Sono circa 800 gli orfani assistiti e tantissime le famiglie indigenti che vengono sostenute. I responsabili dell’associazione, finanziata da organizzazioni arabe e occidentali, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Abspp) di Genova, ci mostrano le foto dei bimbi rimasti orfani e poi quelle dei loro genitori – papà o mamma – uccisi durante i quotidiani bombardamenti di Israele.
La Striscia di Gaza sopravvive grazie alla carità che giunge dall’estero. Qui, infatti, manca tutto: cibo, acqua, vestiario, medicine, libri, quadei, combustibile, materiale sanitario e per l’igiene e la pulizia. L’embargo israelo-internazionale e la chiusura di tutti i valichi di entrata e uscita l’hanno resa un immenso carcere a cielo aperto. A ciò si sono sommati gli «effetti collaterali» di «Piombo fuso», con i 1.366 morti e gli oltre 5.000 feriti, le migliaia e migliaia di edifici distrutti e i danni alla salute e all’ambiente provocati dalle armi di distruzione di massa usate dall’aviazione e dall’artiglieria di Israele.
Scelta «sbagliata» dei palestinesi
Ora la maggior parte dei palestinesi di Gaza è costretta a vivere di aiuti umanitari, ma prima non era così. In questa striscia di terra c’erano industrie alimentari e di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Non era certo la Svizzera, ma non c’erano la fame e la miseria attuali. La popolazione della Striscia, e del resto della Palestina, infatti, sta subendo una punizione collettiva, come è stata definita da inviati dell’Onu e personaggi inteazionali come Desmond Tutu e Jimmy Carter, per aver compiuto la scelta elettorale «sbagliata», durante le votazioni del 25 gennaio del 2006, le prime veramente democratiche e monitorate da osservatori inteazionali.
I palestinesi, in quell’occasione, diedero in massa il voto a Hamas, snobbando Fatah, ritenuta da molti corrotta e collaborazionista. Da lì, dall’esito di quella decisione presa dalla maggioranza assoluta di un popolo, è scaturito un disumano embargo e la chiusura di tutta la Striscia, e poi bombardamenti e morte.
Paradossalmente, quelle elezioni furono incoraggiate e sostenute proprio dall’Europa e dagli Stati Uniti, certi del fatto che avrebbe vinto il partito dell’amico Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e non il movimento di resistenza islamica. Questo è ciò che i palestinesi di Gaza rinfacciano a chiunque rivolga loro domande «politiche». È difficile riuscire a dimostrare il contrario, vista la storia degli ultimi tre anni.
Distruggere il futuro
Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio gazese, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Affollano le strade, i vicoli, i campi. I loro piedini nudi affondano nella sabbia e le manine sono protese a salutare. Si avvicinano fiduciosi e sorridenti. Si presentano. Vogliono conoscere i nostri nomi e poi, prima di tornare a giocare, con l’indice e il medio fanno il segno della vittoria.
Sono vivi, loro, ma hanno visto i loro cari, i vicini, gli amici dilaniati dalle bombe «intelligenti» di Israele. A livello psicologico, spiegano medici e psichiatri, il trauma li segnerà per sempre. Da grandi, la rabbia e il dolore impotente, che ora hanno il sopravvento, potranno trasformarli in violenti.
Nonostante si sforzino di dichiarare il contrario, i generali e ministri israeliani lo sanno benissimo: colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. È impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, tantissimi.
Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato israeliano ci ha raccontato che Hamas ha usato scudi umani, ma questa versione deve ancora essere provata dalle indagini che condurranno le Nazioni Unite. Documentate oltre ogni ragionevole dubbio e denunciate da diverse organizzazioni inteazionali, dall’Onu, dal Phr (Physicians for Human Rights, Medici per i diritti umani), da testimoni oculari e dalle testimonianze degli stessi soldati1, sono invece le stragi compiute dall’esercito.
Gaza City: paesaggi lunari
Attraversiamo interi quartieri rasi al suolo o con palazzi trasformati in tanti scheletri. Sembra di essere atterrati su Marte o su una terra del futuro post-guerra nucleare.
Il compound dei ministeri (Finanze, Esteri e Inteo) e il Parlamento ci appaiono in tutta la loro imponente distruzione. Proviamo a pensare alle sedi delle nostre istituzioni, a Roma, e a un qualche Attila che le bombardi, senza rispetto alcuno per ciò che esse rappresentano per un intero popolo.
Qui, anche l’assurdo diventa possibile. Non molto lontano, alla faccia di qualsiasi convenzione di Ginevra e diritto umanitario, vedremo anche l’ospedale al-Quds annerito e ridotto a una semplice carcassa vuota.
Nonostante fossimo preparati al peggio, ciò che vediamo ci lascia impietriti. Proviamo puro sgomento e vergogna, in quanto cittadini di un’Europa completamente incapace di prendere la parte dei deboli, degli oppressi, e di far applicare anche solo un barlume di giustizia.
La morte dell’informazione
Le tre settimane di guerra contro la Striscia di Gaza hanno provocato anche un’altra vittima: l’informazione. Come giornalisti, ci sentiamo mortificati per il modo in cui i nostri media hanno raccontato ai nostri connazionali i massacri israeliani. Tv di stato e private, quotidiani e riviste, ci hanno fornito, senza sostanziali differenze, le stesse notizie, quelle passate loro da Tsahal (Forze di difesa israeliane) e dal governo di Tel Aviv. Il leit motiv che accomunava tutti era: «Israele ha diritto a difendersi dai razzi di Hamas»; «Hamas ha rotto la tregua»2; «negli ospedali/scuole/case si nascondono terroristi di Hamas».
A fronte di tali affermazioni, non vi è stato alcun tentativo di verificare le notizie, di scoprire i fatti, la realtà. A un certo punto, è emerso pure il caso dell’inviato di un importante quotidiano nazionale che, più realista del re, ha scritto che i morti nella Striscia erano 600 e non 1.300, ma è stato prontamente smentito dall’esercito israeliano, il giorno dopo.
La guerra contro Gaza è stata un esperimento, riuscito, di manipolazione delle coscienze attraverso un uso spregiudicato e scorretto dell’informazione. Almeno, fino a quando in internet non hanno iniziato a circolare i video girati dagli operatori della tv satellitare Al-Jazeera, che hanno rivelato al mondo i crimini commessi da Tsahal, e denunciati, appunto, da numerose organizzazioni inteazionali, arabe e israeliane.
Vittorio, il palestinese
A Gaza City incontriamo l’ormai famoso attivista dell’Inteational solidarity movement (Ism), scampato a 22 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza: Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia. Ci racconta delle giornate e delle nottate di bombordamenti israeliani, del suo lavoro di «scudo umano volontario» sulle ambulanze cariche di feriti, nel tentativo di impedire che i soldati israeliani le colpissero, come da documentata abitudine. Ci narra delle telefonate che l’esercito faceva alle famiglie, annunciando bombardamenti imminenti, e dei bambini morti d’infarto, per la paura, il primo giorno di guerra.
Durante le settimane di attacchi continui, Vittorio è stato l’unico corrispondente occidentale: la sua eccezionale testimonianza è stata raccolta in «Gaza, restiamo umani», edita dal Manifesto.
Shifa hospital e tenda degli orrori
Domenica primo febbraio, alle 9, abbiamo appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza. Nel cortile è allestita una tenda con foto delle vittime. Sui tavoli, al centro, sono disposti frammenti delle armi usate da Israele. L’odore è pesante: ci sono pezzi di bombe al fosforo e a frammentazione, e proiettili all’uranio impoverito.
I cittadini entrano, osservano ammutoliti, piangono. Mentre scattiamo foto e prendiamo appunti, ascoltiamo le testimonianze di chi ha perso tutto: figli, marito o moglie, genitori, parenti, casa.
Hanan, una signora sulla cinquantina, ci viene incontro e ci mostra la foto della sua abitazione demolita, sbriciolata dagli F16. Uno dei suoi figli è rimasto senza gambe. Abita a Sudania, un quartiere di Gaza City. Zakya, un’anziana, ci indica la foto dei suoi cinque figli uccisi. È disperata, perché è vedova e senza più casa.
Entriamo nell’ospedale sovraffollato. Ci accoglie il dott. Ashur. «Dopo il cessate il fuoco – racconta -, annunciato il 19 gennaio, Israele ha ucciso almeno altri 13 civili. Nei giorni di bombardamento indiscriminato abbiamo ricoverato 1.926 feriti e ricevuto 658 cadaveri. Il primo giorno di guerra, il 27 dicembre, sono arrivate, in mezz’ora, ben 200 persone. Il totale delle vittime, su tutta la Striscia, è di 1.366, di cui 430 bambini e 111 donne, ovvero il 40% dei morti. I feriti sono 5.360, di cui 1.870 bambini e 800 donne. Anche qui, donne e bambini costituiscono il 50% del bilancio complessivo. Il resto sono civili maschi adulti, e una minima parte di combattenti.
Nonostante i tanti aiuti ricevuti da tutto il mondo, ci mancano molte attrezzature per la cura del cancro e diagnostiche, di cui Israele impedisce l’entrata nella Striscia».
Armi di distruzione di massa
«Nel primo attacco contro i civili – continua il dott. Ashur – sono state usate armi Dime3. Tutti i feriti portati in ospedale presentavano arti amputati. Inoltre, molti avevano gravi ferite, una colorazione della pelle sospetta. Un altro elemento che dimostra l’uso di armi non convenzionali è il fatto che gli alberi, intorno alle aree colpite, non sono stati distrutti. Le bombe non hanno avuto effetti sul pavimento, sul selciato, ma solo sui corpi, sulla massa corporea».
Usciamo dall’ospedale ash-Shifa, e, attraversata la strada piena di auto, ci troviamo di fronte alle macerie dell’omonima moschea, completamente distrutta.
I bombardamenti riprendono. Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Maa, nel centro di Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, ci sono alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai34 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, sembra non ci siano altri cronisti italiani.
Sono le 16, quando Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.

S i chiudono le porte dell’inferno di Gaza. Il nostro «permesso» di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Lunedì 2 febbraio faremo ritorno in Egitto. Alle spalle ci lasciamo 1,5 milioni di persone intrappolate nella più grande prigione del mondo. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, abbandonati dai governi del mondo civile e democratico. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Armi vecchie e nuove

Uranio impoverito e informazione impoverita

L a guerra è sempre un dramma, l’uccisione dei propri simili non dovrebbe mai trovare una giustificazione, ma quando si passa da un confronto tra guerrieri, che utilizzano armi convenzionali, all’utilizzo di armi insidiose e devastanti, che colpiscono anche la popolazione civile e i bambini, le persone, che sono a conoscenza di questi eventi, non dovrebbero restare indifferenti o, peggio, nascondere i fatti, siano essi recenti o passati.
Non possiamo dimenticare, ad esempio, i bombardamenti delle nostre città ad opera dei cosiddetti «alleati»: suonava l’allarme e si correva in cantina, sperando di non fare la fine del topo. Finiti i bombardamenti, se si usciva vivi, come minimo si trovavano i vetri rotti, le case senza luce né acqua, niente da mangiare… Venivano utilizzate anche bombe incendiarie e le città erano in fiamme.
Gli strateghi pensavano che questo fosse un sistema per demoralizzare le truppe al fronte, che temevano che fosse successo qualcosa di grave alle loro famiglie. Nessun tribunale internazionale si è mai occupato di questi fatti, che hanno riguardato i nostri genitori e i nostri nonni.
Anche i vari tipi di armi, utilizzate nel tempo, meritano una valutazione sui loro meccanismi di azione, perché alcune sono molto efficaci, ma particolarmente crudeli.
Andando indietro nel tempo ricordiamo, ad esempio, che a volte i cannoni venivano riempiti di chiodi e altri frammenti metallici, per ferire gli avversari prima degli assalti. Poi l’evoluzione della tecnica ha consentito di utilizzare delle granate piene di pallini metallici, definite shrapnel, che mediante un innesco a tempo, potevano esplodere nel punto desiderato sparando i pallini in tutte le direzioni. Più recentemente sono state realizzate armi ancora più devastanti. Ricordo soltanto la bomba atomica, che oltre al danno immediato, causa danni letali anche a distanza di tempo per via delle radiazioni.

S i è parlato anche delle radiazioni dell’uranio impoverito, ma in questo caso il meccanismo di azione è più complesso. L’uranio impoverito viene usato nelle munizioni delle armi modee ed è stato associato con gravi malattie non solo dei soldati, ma anche delle persone che vivono in aree di guerra o vicino ai poligoni militari.
L’uranio impoverito è un’arma formidabile, perché riesce a perforare anche le corazze più robuste per via della grande forza di penetrazione e del fatto che esplode a 3.000 gradi, «polverizzando» i bersagli. È verosimile che le gravi malattie riscontrate, soprattutto tra i militari, siano causate non solo dalle radiazioni dell’uranio, ma anche dalle nanopolveri, che entrano nell’organismo e determinano reazioni non del tutto prevedibili e, in ogni caso, sicuramente non benefiche.
L’uranio impoverito emette una modesta quantità di radiazioni alfa, che sono le più pericolose per l’organismo. Gli esperti dicono che basterebbe un foglio di carta per fermare queste radiazioni e che si potrebbe dormire tranquilli con un proiettile di uranio impoverito nel cassetto del comodino. Il fatto grave, però, è che dopo l’esplosione anche l’uranio si trova disperso nell’aria sotto forma di nanopolveri e può raggiungere il sangue e gli organi interni, dove le radiazioni possono fare danni non trovando nessuna barriera.
Tutta la questione che riguarda l’uranio impoverito è ancora oggetto di studio e le uniche tragiche certezze sono i tumori dei soldati e le malformazioni dei loro figli.
Danni devastanti sono stati descritti anche per gli effetti delle bombe a grappolo (cluster bomb), che praticamente sono un numero variabile di piccole bombe racchiuse in un ordigno principale, che quando esplode le lancia in tutte le direzioni (evoluzione della granata shrapnel).

I giornali di questi giorni hanno parlato delle bombe al fosforo, che secondo alcune testimonianze, sono state usate nella Striscia di Gaza. I proiettili al fosforo bianco creano spesse cortine fumogene, ma possono anche causare terribili ustioni, perché le gocce di fosforo bruciano al contatto con la pelle. Tra i militari il fosforo bianco viene chiamato Willy Pete (le iniziali di White Phosphorus) fin dalla prima guerra mondiale ed è stato utilizzato, secondo alcune fonti, dagli Usa nel Vietnam e in Iraq.
Il fosforo bianco viene conservato sott’acqua o in azoto, perché a contatto con l’ossigeno presente nell’aria produce anidride fosforica generando calore. L’anidride fosforica reagisce violentemente con composti contenenti acqua (come il corpo umano) e li disidrata producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle. Il risultato è la distruzione completa del tessuto organico. Sono reperibili in rete le testimonianze di alcuni medici che descrivono lesioni analoghe tra i feriti della Striscia di Gaza.
Alcuni recenti articoli riferiscono l’utilizzo, da parte dell’esercito israeliano, di bombe Dime (Dense Inert Metal Explosive). Si tratta di un tipo innovativo di bomba, con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica integrata con acciaio e tungsteno. Queste armi hanno un enorme potere esplosivo, che si dissipa molto rapidamente: il raggio interessato non è molto lungo, forse dieci metri; le persone travolte da questa esplosione per effetto dell’onda d’urto, vengono letteralmente fatte a pezzi.
Secondo Massimo Zucchetti (professore al Politecnico di Torino e membro del Comitato scienziati contro la guerra) le ferite che si vedono oggi all’ospedale Shifa di Gaza rendono assodato che sia stato fatto uso di armi Dime da parte degli israeliani in questa guerra.
Anche in questo caso, come per l’uranio impoverito, bisogna tener presente che le nanopolveri, non solo del tungsteno e dell’uranio, inalate durante e dopo le esplosioni, sono in grado di raggiungere il sangue e depositarsi nei vari tessuti. Si tratta di polveri non biodegradabili e non biocompatibili, che sono in grado di penetrare addirittura all’interno del nucleo delle nostre cellule. Studi recenti stanno confermando la presenza di nanopolveri di origine antropica (non solo dovute alle esplosioni) all’interno di tessuti tumorali anche di neonati, in questi casi le nanopolveri hanno raggiunto i feti tramite il sangue della madre e la placenta. Chi non resta ucciso dalle esplosioni rischia, a distanza di tempo, di ammalarsi di tumore o veder ammalare i propri figli.
Non dimentichiamo, infine, che anche i modei inceneritori di rifiuti producono nanopolveri simili, sia pure in forma più diluita, e che i danni ipotizzabili riguardano i bambini  soprattutto. È la strage degli innocenti dei nostri giorni e non riguarda solo le aree di guerra.
E l’informazione? Impoverita pure quella!

di Roberto Topino

Roberto Topino




Democraticamente castigati

Intervista al dottor Ahmed Elkurd

Tre settimane di attacchi a Gaza non hanno provocato solo morte e macerie, ma anche tanti e diversi problemi sociali: ce lo spiega il dott. Ahmed Elkurd, ministro degli Affari sociali della Striscia di Gaza.

Signor ministro, ci spieghi qual è il bilancio della guerra.
Innanzitutto, è necessario premettere che i confini della Striscia sono molto ridotti, è lunga solo 50 km, ma vi abitano 1,5 milioni di persone, di cui un milione sono rifugiati provenienti dai Territori palestinesi del ‘48. Io stesso provengo da un villaggio nei pressi di Ashkelon. I campi profughi sono 8.
In secondo luogo, voglio ricordare che da tre anni siamo sotto embargo e assedio. Ciò ha provocato una grave crisi umanitaria che è precipitata con i 22 giorni di bombardamenti israeliani.
Gaza è chiusa. Questo perché nel gennaio del 2006, elezioni libere e democratiche, chieste dall’Occidente intero e monitorate da osservatori inteazionali, hanno assegnato la vittoria a Hamas. Ecco che il mondo ci ha puniti, soffocandoci con un feroce embargo.
Come se non bastassero tre anni di assedio israelo-internazionale, si è scatenata la guerra che ha portato una devastazione molto grande: oltre 1.300 morti e più di 5.000 feriti, 5.000 famiglie senza casa, 20 mila appartamenti distrutti. La centrale elettrica funziona solo poche ore al giorno. Il bilancio economico è di 3 miliardi di dollari di danni. Ci sono tante persone che dormono nelle tende; 10 mila famiglie necessitano di sostegno immediato: casa, vestiti, cibo.

La Striscia di Gaza vive grazie agli aiuti umanitari, ma con i valichi chiusi, come fate?
Da quando siamo sotto embargo, siamo costretti a sopravvivere con gli aiuti umanitari. Tuttavia, essi possono passare solo attraverso i valichi israeliani, e quando sono chiusi per noi è una catastrofe.
Per la ricostruzione delle infrastrutture e delle abitazioni avremmo bisogno di attrezzature, di cemento, di materiali per l’edilizia, di pezzi di ricambio, ma non lasciano passare nulla. Gli israeliani non fanno entrare benzina, gasolio, gas. È difficile lavorare, in questo modo.

Finita la tregua, è esplosa la guerra…
E noi non avevamo che modesti mezzi per difenderci da un esercito super-tecnologizzato. Mentre avanzavano via terra, distruggevano tutto ciò che incontravano. Hanno devastato tutto. Non c’era scampo neanche nelle strutture dell’Onu, bombardate come tutte le altre.
Durante le settimane di guerra, sono stati compiuti veri e propri eccidi, come quello della famiglia As-Samouni, rinchiusa in un palazzo che è stato bombardato subito dopo con gli F16. In altri casi, hanno sparato a un’intera famiglia, lasciando vivo un bimbo solo.

Dall’Europa cosa vi aspettate?
Chiedo invece: cosa abbiamo fatto noi all’Europa? Perché contribuisce all’embargo israelo-americano? Perché Unione europea e Francia mandano le loro navi per chiudere ulteriormente il mare di Gaza? Vogliono inviare un contingente che garantisca la «sicurezza»: quella di Israele, non la nostra. Inizino con il far aprire i valichi, allora.
 
Metà delle vittime dell’ultima guerra erano bambini. Molti hanno assistito a scene devastanti. Che ne sarà del loro equilibrio psichico? Avete attivato dei progetti speciali?
Le fasi previste sono tre.
Primo: aiuto psicologico rivolto a chi è stato ferito o è stato testimone di massacri. Sostegno generale a tutti i minori, per permettere loro di scaricare la tensione nervosa, lo stress psichico. In tutte le scuole abbiamo previsto programmi di intervento psicologico.
Secondo: terapie di riabilitazione per chi ha subito ferite o è rimasto handicappato.
Terzo: sostegno economico alle famiglie con figli feriti o resi disabili.

Di Angela Lano

Angela Lano