Babele o profezia?

Chiesa e chiese in Terra santa

A Gerusalemme sono presenti 13 chiese cristiane, con culture, lingue, credi, riti, leggi, tradizioni proprie. Una varietà che risale alle origini, ma che nei secoli è diventata divisione, con conseguenti tensioni
e conflitti. Eppure oggi più che mai i cristiani della Terra santa si sentono uniti in un ricco mosaico di fede e di vita, destinato a diventare un esempio per tutte le chiese del mondo.

Il primo impatto è stato scioccante per non dire scandaloso. Dopo ore di fila riesco a sfiorare la roccia del Calvario, quando un monaco scorbutico mi sollecita ad allontanarmi; nell’edicola del Santo Sepolcro è anche peggio: il monaco assomiglia più a un buttafuori che al custode del luogo sacro. Per non parlare delle celebrazioni religiose delle diverse confessioni: riti e processioni che si susseguono con ritmo incalzante, con canti e incensi in abbondanza, ma scarsa devozione, almeno in apparenza.
Tale freddezza rituale è frutto delle tensioni esistenti tra le differenti chiese che hanno il controllo della basilica o il diritto di officiarvi: devono rispettare con scrupolo tempi e luoghi loro assegnati dalla consuetudine; la minima invasione di tempo o di campo può finire in risse furibonde.
Tali tensioni hanno origini storiche lontane e si coagulano per futili motivi nella gestione del luogo santo, regolata dal cosiddetto Status quo (vedi p. 32) fuori dal tempio, la diversità tra le chiese appare piuttosto come un dono per la chiesa universale.
In principio… era la diversità
A Gerusalemme e in Terra santa esistono ben 13 confessioni cristiane differenti e separate: tutte riconoscono la città santa come loro madre, ma faticano a riconoscersi sorelle. Da dove derivano tante differenze?
Il giorno stesso di pentecoste, fra i tre mila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua (Atti 2,5). Durante l’era apostolica la chiesa crebbe in pluralità di modi d’intendere riti e comunione, nell’unica chiesa fatta di cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo.
La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la diffusione del vangelo in tutte le direzioni nel mondo allora conosciuto e la fondazione di nuove comunità o chiese locali, che si svilupparono in differenti aree geografiche e attorno a importanti centri amministrativi e culturali, sotto la guida di un vescovo. Alle chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità sulle altre chiese. Cinque in particolare, chiamati patriarcati,   Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (pentarchia), costituirono i vertici  e punto di riferimento, attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di fuori dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
Ogni chiesa locale si sviluppò con caratteristiche proprie di lingua, liturgia, teologia, diritto canonico, spiritualità, conservando sempre la comunione e l’unità di fede, riconoscendosi parte dell’unica chiesa di Cristo. Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. 
Poi le divisioni 
L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie. I primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano) furono accettate da tutte le chiese. Non così i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
A Efeso fu condannato il nestorianesimo, che sosteneva un’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, negando a Maria l’appellativo di «madre di Dio» (Theotókos), ritenendola genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Tale concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano, in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu condannata Eutiche: affermava che Cristo ha solo la natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena.
In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
A partire dal IX secolo, con l’evangelizzazione dei popoli slavi, per opera dei santi Cirillo e Metodio e con il battesimo della Rus’ nel 988, furono stabilite altre chiese ortodosse nell’Europa orientale. Queste rimasero in comunione con la chiesa di Roma o latina fino al 1054, quando cioè, dopo un progressivo e reciproco estraneamento e per motivi politici e teologici, le chiese di Bisanzio e di Roma si scomunicarono a vicenda, trascinando nello scisma anche le chiese dell’Europa orientale.
Cinque secoli dopo, la cosiddetta riforma protestante provocò lacerazioni e divisioni anche nella chiesa d’Occidente, con la cosiddetta riforma protestante, con conseguenze indirette anche sulle chiese dell’Est.
Vari missionari inviati nelle chiese orientali riuscirono a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma, dando origine a «chiese cattoliche orientali» (uniati): chiesa caldea (1552), cattolici ucraini (1595-96), chiesa cattolica siro-malabarica (1599), cattolici siriani (1662), greco-cattolici o melkiti (1724), cattolici armeni (1740), cattolici copti (1895), chiesa cattolica siro-malankara (1930) cattolici etiopici (1961).
Le chiese… pellegrine 
La chiesa di Gerusalemme, inizialmente formata da fedeli di origine, lingua e cultura ebraica, greca e romana, per oltre tre secoli rimase una minoranza nella società, finché, sull’esempio di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la devozione verso i luoghi sacri cominciò ad attirare pellegrini di tutte le nazioni: bizantini, armeni, siriani, georgiani, latini; ognuna cercò di organizzare le strutture di accoglienza materiale e spirituale per i propri pellegrini, dando origine a presenze cristiane di differenti riti, lingue, culture. Tuttavia, durante i primi secoli la chiesa di Gerusalemme era unita attorno a un solo vescovo, che aveva giurisdizione anche sui cristiani di origine straniera che venivano e vivevano nella città santa.
Nel V secolo, però, le divisioni provocate dalle controversie cristologiche si ripercossero anche nelle chiese «pellegrine» stabilitesi a Gerusalemme: anche qui le diversità si tradussero in divisioni.
La conquista islamica provocò una graduale arabizzazione e scristianizzazione del paese. Un largo settore della popolazione passò all’islam per evitare vessazioni di indole sociale e fiscale. Il patriarca della comunità cristiana, assai ridotta e povera, cercò appoggio nella chiesa più forte di Bisanzio; quando questa consumò lo scisma con Roma (1054), anche le chiese di Gerusalemme la seguirono.
Nell’epoca crociata (1099-1291), con l’istituzione del patriarcato latino di Gerusalemme la maggioranza cristiana fu attratta nell’orbita romana, ma con la riconquista della città santa da parte del Saladino il patriarca latino fu costretto a fuggire e con la caduta del Regno latino furono espulse tutte le congregazioni religiose occidentali. La presenza cattolica fu continuata dai frati minori, che nel 1336 ottennero di stabilirsi attorno ai luoghi santi: nasceva la Custodia di Terra santa. Da allora fino al 1847, quando fu ristabilito il patriarcato latino, i francescani furono responsabili del lento ritorno di alcuni cristiani all’unità con Roma.
Il passaggio della Palestina dal dominio dei mamelucchi all’impero turco ottomano (1517) segnò la rinascita dell’influenza degli ortodossi a spese dei latini. Non passò un secolo che, favoriti dai vari sultani,  gli ortodossi cominciarono a rivendicare diritti di proprietà sui luoghi santi, sottraendoli con la forza o con l’inganno ai francescani. Questi, per difendere i propri diritti, facevano appello alle potenze occidentali, finché nel secolo XIX la questione dei luoghi santi divenne un caso politico specie tra Francia e Russia: la prima assunse l’esclusiva protezione dei cattolici; la Russia quella dei cristiani orientali. La pressione delle potenze europee sul sultano ottomano ebbe come risultato il decreto del 1852, che fissava i diritti e proprietà attorno ai luoghi santi, confermando lo Status quo, cioè la situazione esistente prima del 1757.
Nel frattempo, molti missionari occidentali si riversarono nella Terra santa e promossero la creazione di nuove comunità cattoliche e protestanti con relative istituzioni gerarchiche. Nel 1754 fu creata l’archidiocesi greco-cattolica di Galilea; nel 1838 fu eretto il vicariato patriarcale greco-cattolico a Gerusalemme; nel 1842 si stabilì a Gerusalemme il vescovo anglicano-luterano; nel 1847 fu ristabilito il patriarcato latino.
Evviva la differenza
Oggi i cristiani in Israele e Territori palestinesi sono circa 180 mila: 100 mila cattolici (50 mila melkiti, 41 mila latini, 8 mila maroniti, un migliaio di altri riti), 70 mila greco-ortodossi e altri 5 mila ortodossi orientali; 5 mila tra anglicani e protestanti. Durante l’ultimo secolo si sono aggiunte nuove realtà, non sempre quantificabili: cattolici di lingua ebraica, assemblee di ebrei messianici, lavoratori migranti, cristiani dall’ex Unione Sovietica, senza contare i milioni di pellegrini da ogni parte del mondo che affollano i luoghi santi.
Ne risulta quindi un ricco e complesso mosaico di chiese, ognuna delle quali con la propria storia, teologia, spiritualità, lingua, riti, tradizioni… Tale pluralità non pregiudica l’unità, ma arricchisce la chiesa universale; anzi, essa offre l’ispirazione per affrontare alcune urgenze ancora attualissime, come il problema dell’inculturazione del vangelo e il rifiuto di ogni tentazione di fondamentalismo e integralismo.
La chiesa di Gerusalemme rimane punto di riferimento, profezia perenne per la chiesa universale e per tutte le chiese locali. Teologicamente e organizzativamente la comunità dell’età apostolica rimane il modello della chiesa di Cristo, al quale si richiamano tutti i cristiani che, in ogni tempo, hanno sentito il bisogno di rinnovarsi spiritualmente. Anche negli atti concreti con cui ha saputo superare le iniziali tensioni e difficoltà intee, la prima chiesa rimane un modello e punto di riferimento per conservare anche oggi l’unità nella diversità.
In un’epoca in cui la globalizzazione rischia di essere confusa con l’uniformità, le chiese di Gerusalemme sono un richiamo a guardare alle origini, quando l’unica verità, che è Gesù Cristo, fu accolta da culture diverse e narrata, celebrata, pensata in modi differenti, nella teologia, liturgia, spiritualità, diritto… Tali espressioni non furono elaborate da un unico centro, ma fu il risultato dell’incontro del vangelo con le situazioni concrete dei singoli popoli. Per questo le chiese di Gerusalemme sono motivo di ispirazione, oggi, per l’attività missionaria della chiesa, nel fare discepoli di Cristo i popoli e le culture a cui è inviata.
Laboratorio di dialogo
Intanto le diversità, che attraverso i secoli sono diventate separazioni, divisioni e competizioni, rimangono quasi intatte nella chiesa di Gerusalemme, minandone la credibilità della testimonianza e facendole assomigliare alla biblica Babele. Tuttavia, al di là delle apparenze, oggi Gerusalemme è un laboratorio di dialogo ecumenico e interreligioso. I cristiani in Terra santa sono impegnati in incontri di dialogo a livello formale e istituzionale e altre iniziative di vario genere per camminare insieme verso l’unità. Per raggiungere tale meta ognuno è esortato a restare fedele alla chiesa in cui Dio gli ha dato di vivere e a restare al tempo stesso aperto alle altre chiese.
Il cammino del dialogo ecumenico, iniziato nel 1964 con l’abbraccio in Terra santa tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora, è continuato tra ostacoli ereditati dalla storia e innumerevoli difficoltà provenienti dalla situazione politica, di violenza e oppressione. Ma proprio tale situazione di conflitto ha contribuito alla coesione tra le chiese. Unite dalle stesse prove, si sono riavvicinate le une alle altre per ascoltare e rispondere agli appelli e alle sofferenze delle società in cui sono chiamate a vivere e operare; e per rendere più forte la loro voce contro le ingiustizie.
Tra le iniziative prese in comune dai capi delle chiese va segnalato il memorandum comune sul significato di Gerusalemme (1994); l’apertura del giubileo del 2000; l’accoglienza di Giovanni Paolo II (2000) e di Benedetto XVI (2009); la creazione del Jerusalem Inter-Church Center (Jic, Centro interecclesiale di Gerusalemme). L’ultimo esempio è il «Documento Kairos Palestina», pubblicato lo scorso dicembre (vedi riquadro p. 30).
Ponte di pace e riconciliazione
Nel 1948 i cristiani costituivano il 20% della popolazione palestinese; oggi, la percentuale è scesa all’1,8%. I cristiani sono una minoranza schiacciata tra i due colossi: ebrei e musulmani. Il dialogo interreligioso è un’altra dimensione essenziale nella vita della chiesa, soprattutto con l’islam. La situazione di conflitto contribuisce ad avvicinare i fedeli di queste due religioni, anche se una certa propaganda cerca di fare risaltare un’ipotetica persecuzione islamica contro i cristiani.
Nulla di tutto questo, almeno in Palestina. Anche in fatto di dialogo interreligioso, le chiese presenti nella terra di Gesù sono un esempio per le comunità cristiane che vivono nel mondo in situazioni simili di minoranza religiosa, con conseguenti tensioni e conflitti; soprattutto costituiscono una sconfessione di quanti predicano e praticano il «conflitto di civiltà».
Naturalmente il dialogo è esteso anche all’ebraismo. Pur essendo minoranza, i cristiani hanno un ruolo importante da giocare nel conflitto arabo-israeliano. Avendo essi in comune con i giudei i valori biblici e con i musulmani la lingua araba, possono essere il ponte che permette la riconciliazione. Tanto più che, come afferma un professore dell’università di Betlemme, «senza i cristiani lo scontro tra ebrei e musulmani sarebbe molto più forte».
In tale ruolo, la chiesa continua a ricordare al mondo intero che quella in corso non è una guerra di religione, ma una resistenza in difesa dei diritti umani fondamentali. E per resistere i cristiani chiedono la solidarietà e corresponsabilità di tutte le chiese del mondo verso la chiesa madre: dalla pace e riconciliazione di Gerusalemme dipende il futuro del Medio Oriente.
Le chiese cristiane in Palestina hanno bisogno di sostegno morale e materiale per resistere anche a una forte tentazione: quella di emigrare. La Terra santa rischia di diventare un museo cristiano senza pietre viventi. E cosa sarebbe la terra di Cristo senza cristiani?

Di Benedetto Bellesi

Il documento Kairos Palestina

pace subito
 
P orre fine all’occupazione dei territori palestinesi e al boicottaggio che strangola l’economia della Palestina, riducendo in miseria la popolazione; eliminare il muro di separazione che sigilla la barriera fra i due popoli, rinegoziare con serietà e chiarezza per costruire la pace nella regione: sono i punti principali di un appello firmato e diffuso, in vista del natale 2009, da una quindicina di leader cristiani, fra i quali il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, il vescovo luterano Munib Younan, il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Theodosios Atallah Hanna.
L’appello è stato intitolato «Documento Kairos Palestina», proprio perché insiste sul «momento di grazia, tempo favorevole» (kairos), in cui è possibile riprendere in mano con coscienza la questione dell’eterno conflitto fra i popoli di Terra santa. Grazie allo sforzo di buona volontà della comunità internazionale, dei leader politici della regione e delle chiese nel mondo, «la pace è possibile» ed è la sola speranza per il futuro della Terra santa. Ma essa impone uno sforzo concreto da parte di tutti, non solo «parole vuote», risuonate per troppo tempo senza cambiare nulla nella situazione reale.

I firmatari dell’appello denunciano «l’occupazione come peccato contro Dio e l’umanità» e, fra i problemi più scottanti, «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, blocco di Gaza, colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, umiliazioni subite ai posti di blocco militari, restrizioni religiose e accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, prigionieri detenuti in Israele e paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia, afferma il testo, «Dio ci ha creato per vivere in pace. La nostra terra ha una missione universale e la promessa della terra non è mai stato un programma politico, ma piuttosto preludio alla salvezza universale».
Inoltre, si fa appello alle chiese di tutto il mondo perché «dicano una parola di verità e prendano posizione riguardo all’occupazione israeliana del territorio palestinese», affinché «venga applicato contro Israele un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio», il quale «non rappresenta una vendetta ma piuttosto un’azione seria al fine di raggiungere una pace giusta e definitiva». 
(Fides)

Ttutta colpa dello «status quo»

Durante l’occupazione di Gerusalemme da parte dei crociati, i cristiani di rito latino ebbero il predominio sui luoghi, senza affatto escludere gli orientali. Quando il Saladino conquistò la città santa (1187), confiscò tutte le chiese cristiane; alcune le trasformò in moschee, altre le lasciò ai cristiani, anche per lucrare sulle offerte dei pellegrini. L’entrata del Santo Sepolcro, invece, fu affidata a due famiglie musulmane: ai Joudeh fu data la chiave dell’unico portale rimasto funzionale e ai Nusseibeh il privilegio di chiuderlo e aprirlo.
I governi successivi concedevano i diritti a suon di mazzette. Grazie alle somme sborsate dai sovrani di Napoli e Sicilia, i francescani ottennero i diritti di abitare e ufficiare nella basilica del Santo Sepolcro e costruire un convento  sul monte Sion. Dal 1336 al 1662 essi furono gli unici padroni del Cenacolo, Santo Sepolcro, Calvario, Tomba della Vergine, Mangiatornia di Betlemme. 
Poi i turchi ottomani sottrassero la Palestina ai mamelucchi d’Egitto (1517) e i sultani cominciarono a favorire gli ortodossi, loro sudditi. I monaci greci passarono all’offensiva, rivendicando la chiesa di Betlemme e poi quella della risurrezione: con tangenti e documenti falsi ottennero il controllo della cappella del Calvario e della pietra dell’unzione (1633), poi il possesso esclusivo dell’edicola del Santo Sepolcro (1675). Di fronte a tali scippi i papi sollecitarono le potenze cristiane perché facessero pressione sulla Sublime Porta: un decreto del 1690, dichiarava i francescani legittimi proprietari dei santuari e restituiva loro gli antichi diritti.
Per più di un secolo e mezzo, mentre attorno ai luoghi sacri crescevano interferenze e pressioni delle potenze egemoni, dentro le mura sacre la lotta per il controllo si risolveva spesso a cazzotti e bastonate. L’episodio più grave avvenne nel 1756, con l’irruzione vandalica nella basilica e l’assalto al convento francescano. Un altro decreto del sultano concesse ai greci la comproprietà con i latini del Santo Sepolcro e la proprietà della basilica di Betlemme e della Tomba della Vergine. 
Nel XIX secolo la questione dei luoghi sacri divenne un caso politico soprattutto tra Francia e Russia: la prima si assunse la protezione dei cattolici, la Russia quella degli orientali. Le lotte «fratee» continuarono, usando tutti i modi per estromettersi a vicenda. Nel 1847 i greci rimossero dalla grotta di Betlemme la stella d’argento, con la scritta latina che attestava la proprietà latina del luogo. Francia e Russia costrinsero la Turchia, nel 1852, a firmare l’ennesimo decreto che ripristinava la situazione (status quo) sui diritti di proprietà e accesso all’interno del Santo Sepolcro, della basilica della Natività e della tomba di Maria; situazione risalente al 1767, tenendo conto di ulteriori diritti acquisiti da altre comunità cristiane.

Il documento assegna la basilica del Santo Sepolcro quasi interamente ai greci ortodossi, ma le parti essenziali sono in condominio con cattolici (rappresentati dai frati minori) e armeni, che a tuo si susseguono, notte e giorno, con le rispettive cerimonie liturgiche. Queste tre comunità (latina, greca, armena) hanno pure residenza effettiva nella basilica, ognuna con proprie abitazioni e cappelle. Altre chiese, come siro-giacobiti e ortodossi etiopi, godono di alcune concessioni per svolgere le loro funzioni nelle grandi solennità, mentre i copti posseggono alcune stanze e una cappella dietro l’edicola del Santo Sepolcro, col diritto di officiarvi solo alcuni giorni.  
Lo Status quo determina pure orari e tempi di funzioni, percorsi di processioni e modo di realizzarle con canti e incensi… I diritti di ogni comunità sono stabiliti dall’uso di lampade, addobbi, quadri, candelieri. Di importanza cruciale sono i diritti di pulizia, manutenzione, restauro: chi ripara il tetto o il muro di una cappella ne acquista il possesso esclusivo; appendere o rimuovere una lampada, un quadro da un pilastro o un muro… implica il riconoscimento di possesso su tale pilastro o muro. Ma lo Status quo stabilisce un principio draconiano: senza comune accordo, niente può essere cambiato o innovato, sia nel possesso della basilica che nell’esercizio del culto.

T
ale situazione oggi è considerata un dato di fatto acquisito, ma rimane sempre difficile ridurre al minimo i disagi della coabitazione. Le comunità si incontrano periodicamente per decidere riparazioni e restauri della basilica e cercare una migliore distribuzione delle differenti liturgie, ma le trattative sono lunghe ed estenuanti. I monaci etiopi e copti, per esempio, discutono da decenni su chi spetti restaurare un edificio che minaccia di cadere sul tetto del santuario; migliaia di fedeli passano per una sola porta, ma tra le sei diverse confessioni non c’è modo di accordarsi per aprire un’uscita di sicurezza.
Bisogna tenere presente che per queste comunità ogni piccola cosa assume un significato simbolico. Tuttavia il vento del dialogo ecumenico ha cominciato a soffiare anche dentro queste mura, stemperando i conflitti secolari: non esiste più, almeno da parte cattolica, l’accusa di «usurpazione» dei luoghi santi. Frati, pope, monaci armeni, abuna etiopici ed egiziani, incrociandosi nella penombra del luogo, si scambiano perfino sobri cenni di saluto. Anzi, la pluriforme presenza cristiana su tali luoghi è ritenuta una ricchezza preziosa da salvare e un diritto irrinunciabile.
Rimane ancora il fatto innegabile che basta molto poco, come togliere una ragnatela nel posto altrui, per scatenare risse e scazzottate. Eppure, guardando il lato positivo, reazioni del genere sono segni inequivocabili di attaccamento e amore alle memorie tangibili del nostro Salvatore. E anche Lui, di fronte a tali scene, non si scandalizzerebbe più di tanto, ma si farebbe una tacita risata.

Benedetto Bellesi




Stella di Davide e croce di Cristo

Ebrei al cento per cento e discepoli di Yeshua (Gesù)

Credono che Gesù è il Messia, ma non vogliono essere chiamati cristiani; sono una sparuta minoranza, osteggiata e perseguitata, ma in rapida crescita nel mondo e dentro i confini di Israele;
si definiscono «ebrei messianici»: sperano di diventare un ponte tra ebraismo e cristianesimo.

«Mia madre era ebrea irachena, emigrata in Cina, dove sposò un cristiano inglese – comincia Maureen Grimshaw, raccontando la sua storia -. Non cambiò mai la sua fede, ma non volle che i suoi figli fossero educati come ebrei, dopo ciò che era avvenuto con l’olocausto (sono nata nel 1942). Toati in Inghilterra ricevetti un’istruzione cristiana nella chiesa metodista.
Avevo otto anni quando un giorno, sentendomi più triste del solito (mia madre si era risposata), udii una voce che mi disse: “Io ti amo”. Fu la prima esperienza personale di Gesù. Mi piaceva andare al catechismo e sentire parlare di lui. A 12 anni mi domandavo come fosse Dio; un giorno una voce mi risuonò nel cuore: “Io sono l’amore”. A 16 anni, mi sentivo non accettata in famiglia, odiavo me stessa e pregavo il Signore perché mi facesse morire. Ma una notte sentii un grido fortissimo che mi disse: “Io sono morto per te”.
La mia vita mi portò in vari posti per lavoro finché arrivai nel Qatar. Qui sperimentai quanto gli arabi disprezzassero e odiassero americani ed ebrei. “Mia madre è ebrea e io sono ebrea – mi dissi -. Devo andare ad aiutarli”. Pochi mesi dopo tornai a Londra e feci domanda di aliya (migrazione in Israele). Fu un miracolo: mi accettarono, benché fossi coinvolta con il cristianesimo. Lavorai come infermiera, finché sono entrata in questo luogo come volontaria, per testimoniare che Gesù ama gli ebrei».
Il luogo è Christ Church, una chiesa-sinagoga costruita nel 1849 con lo scopo di portare il cristianesimo tra gli ebrei e oggi centro di culto per varie comunità messianiche. E mentre racconta, la signora Maureen intreccia le dita nella catenina da cui pende una medaglia formata dall’unione della stella di Davide e la croce di Cristo. E spiega: «È il simbolo più eloquente della nostra fede: la stella esprime l’identità ebraica; la croce testimonia la fede in Gesù il Cristo».

Si definiscono ebrei al cento per cento e credono che Gesù è il Messia. Per esprimere questa identità essi usano termini ebraici: Gesù diventa Yeshua, Cristo diventa Hamashiah (messia, consacrato); non vogliono essere chiamati giudeo-cristiani o ebreo-cristiani, ma ebrei messianici; tanto meno ebrei convertiti: sono ebrei compiuti o ebrei credenti; la chiesa diventa l’assemblea.
Essi vogliono ricreare le comunità dei primi discepoli del Messia, cresciute a Gerusalemme e in Palestina durante il primo secolo, come sono descritte nel libro degli Atti; comunità formate da ebrei osservanti tutte le tradizioni ebraiche, finché non furono cacciati dalle sinagoghe dal giudaismo talmudico-rabbinico da una parte e assorbiti nel cristianesimo d’impronta greco-romana dall’altra, in cui fu bandita ogni espressione di fede ebraica (sinodo di Nicea 730).
Paolo aveva descritto le comunità dei credenti gentili (non ebrei) come olivo selvatico innestato sull’olivo buono, cioè Israele (Romani 11,17); per quasi 2.000 anni è avvenuto il contrario: l’olivo buono innestato sui rami selvatici: fino a una cinquantina di anni fa un ebreo, per essere battezzato, doveva abiurare il suo ebraismo, perdendo la sua identità ebraica, sia per la sinagoga che per la chiesa.
In quanto ebrei, i messianici rispettano la legge mosaica, seguono la liturgia ebraica, praticano la circoncisione, onorano lo sabath (sabato) e la kasherut (dieta alimentare); alcuni indossano tallit, (scialle della preghiera), kipah (zucchetto) e tefillim (astucci con brani della legge) come gli ebrei più ortodossi; celebrano le feste che ricordano l’intervento di Dio nella storia d’Israele: pessach, shavuot, succot (pasqua, pentecoste e capanne), anche come feste profetiche, che hanno avuto il loro compimento nel Messia.
In quanto messianici credono nel Nuovo Testamento come parte integrante della bibbia, i cui autori e destinatari appartengono al popolo d’Israele, ma data a conoscere a tutte le genti. Celebrano la santa cena in generale una volta al mese. Il battesimo è proposto agli adulti ed è praticato per immersione, come nella chiesa primitiva. Credono nella Trinità e nel valore salvifico della morte del Signore Gesù, ma ostentano la croce nei luoghi di culto, poiché nella memoria collettiva è diventata simbolo di uccisione e morte. «Ma non ci vergogniamo del Messia crocifisso: anche per noi la croce è simbolo significativo della nostra fede, che ci ricorda quello che il Messia ha dovuto soffrire» afferma il messianico Gershon Nerel.

Il messianismo è nato nel 1800 in Inghilterra, quando i cristiani di origine ebraica, per differenziarsi dagli altri, si organizzarono in associazioni proprie, come la «Unione cristiana ebraica» (1865). Associazioni e alleanze messianiche dalla Gran Bretagna si diffusero negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, con la stessa visione: riunire i cristiani di origine ebraica e annunciare il Messia agli ebrei.
Q uanti sono oggi gli ebrei messianici? È difficile dirlo, essendo comunità fluttuanti. Ogni assemblea conta tra 20 e 250 membri, che si radunano in appartamenti o sale private, con poche eccezioni, come l’uso di Christ Church. Ciascuna di esse è autonoma, con storia, carattere e organizzazione propria. Molte somigliano a comunità evangeliche e carismatiche, specie quelle dove i membri provengono da movimenti e gruppi carismatici. Nei loro incontri, tutti danno importanza alla testimonianza: «Noi l’abbiamo trovato!».
Mancando una qualsiasi autorità centrale rimane difficile definire il numero dei messianici. Secondo stime approssimative, attualmente essi sarebbero oltre mezzo milione nel mondo, metà dei quali negli Usa e tra i 5 mila e i 15 mila in Israele, distribuiti in un centinaio di comunità; calcoli più realistici contano nel paese 80 assemblee con circa 7 mila membri.
E sono in continua crescita, come scrive un ampio servizio di Up Front (supplemento del Jerusalem Post del 13-2-2009). Il vistoso titolo dice: «La fede avanza: 7 mila credono in Gesù come loro redentore». E il sottotitolo aggiunge: «Con grande irritazione dell’establishement in Israele». Alcune foto a colori mostrano giovani, con T-shirt rosse e scritta in ebraico: «Ebrei per Gesù», che distribuiscono volantini. L’articolo cita pure espressioni della loro fede senza censurarle: «Yeshua è l’incarnazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». «Se mi rifiutassi di parlare di Yeshua ai miei simili, sarebbe come conoscere la medicina contro l’Aids e tenerla per me».
«Ebrei per Gesù» è il gruppo più conosciuto, anche se minoritario, e il più avversato per la sua attività missionaria. I suoi adepti organizzano campagne con predicazioni pubbliche e discussioni individuali per le strade, distribuzione ai passanti di stampati informativi a bizzeffe e uso di tutti i mezzi di comunicazione di massa, per dimostrare agli ebrei che la messianicità di Gesù è fondata su prove evidenti e aiutare i cristiani a ritrovare le radici della loro fede. 

Per lo più gli ebrei messianici preferiscono non mostrare la propria fede. Oltre a essere rispettosi della legge mosaica, essi si comportano da leali cittadini, sono presenti nell’esercito, università e altri settori professionali, in associazioni israeliane umanitarie, hanno fondato quella «Pro Life» per lottare contro l’aborto e aiutare le donne in difficoltà.
Eppure sono spesso oggetto di angherie, intolleranza e persecuzione. Ad aizzare l’ostilità sono almeno due «Organizzazioni anti-missionarie» ultra-ortodosse, come Yad L’achim (Mano ai fratelli) e Lev L’achim (Cuore per i fratelli). I loro attivisti raggiungono, e a volte oltrepassano, i limiti della legalità, denigrando e minacciando gli ebrei messianici, screditando i loro pastori e anziani, attaccando minacciosi manifesti con la foto del «messianico» del quartiere e la scritta «pericolo».
«Quando un ebreo in Europa dice di credere in Gesù Cristo, ciò diventa un biglietto per entrare nella società normale; in Israele è il contrario: credere in Yeshua è un biglietto per uscire, esclude automaticamente dalla società ebraica» afferma un rabbino; e un altro aggiunge: «In Israele un ebreo può essere buddista o ateo, ma non gli è consentito di credere in Yeshua Hamashiah».

Di Benedetto Bellesi

Chiese di Gerusalemme e dintorni

Le tredici «sorelle»

Comunità ortodosse

PATRIARCATO GRECO-ORTODOSSO. Fu istituito dal Concilio di Calcedonia nel 451, legato a Costantinopoli ne seguì il progressivo distacco fino allo scisma con la chiesa latina (1054). Dal 1534 i patriarchi di Gerusalemme sono tutti di origine greca, causando serie tensioni con il clero di lingua araba. I greco-ortodossi costituiscono la chiesa più grande in Terra santa (circa 70 mila fedeli), tutti arabi, eccetto poche centinaia di greci. Sotto la giurisdizione dello stesso patriarcato sono le chiese ortodosse nazionali di Russia e Romania presenti in Israele.

PATRIARCATO ARMENO. Prima nazione cristiana (IV secolo), chiesa non calcedoniana, presente a Gerusalemme fin dal V secolo, dal 1311 gli armeni hanno un proprio patriarca, che risiede nel convento di san Giacomo. La comunità armena crebbe con l’arrivo di profughi dalla fine del XIX secolo alla prima guerra mondiale. Oggi i 1.500 armeni vivono a Gerusalemme, altre centinaia in Israele e Territori palestinesi.

CHIESA SIRIACA o GIACOBITA. Erede di Antiochia, lingua liturgica l’aramaico (lingua di Gesù) è una chiesa non calcedoniana, anche se chiamata «ortodossa». Dei 300 siriaci in Terra santa, 200 vivono a Gerusalemme, presso il monastero di san Marco, guidati da un vescovo (esarca) rappresentante del patriarca residente a Damasco.

CHIESA ORTODOSSA COPTA. Arrivata dall’Egitto a Gerusalemme nel IV secolo, ebbe forte influsso nell’origine del monachesimo nel deserto di Giuda. La comunità oggi è composta da una decina di monaci, il cui superiore ha dignità vescovile; abitano vicino al Santo Sepolcro.

CHIESA ORTODOSSA ETIOPE. Dal IV secolo presente a Gerusalemme, ebbe vari diritti nei luoghi santi, perduti con il dominio turco. Oggi un vescovo guida poche dozzine di monaci e monache, vicino al Santo Sepolcro.

COMUNITÀ Cattoliche

CATTOLICI DI RITO LATINO. Ebbero amministrazione autonoma con l’istituzione del primo patriarca latino di Gerusalemme per opera dei crociati (1099), finito con la riconquista araba (1187) e restaurato nel 1847. Nel frattempo la presenza cattolica fu assicurata dai francescani (Custodia di Terra santa) con opere pastorali, educative, assistenziali, moltiplicate con l’arrivo di vari istituti religiosi a partire dal 1800. Oggi i circa 41 mila cattolici di rito latino sono quasi tutti arabi, compreso il patriarca; alcune centinaia di cattolici sono di espressione ebraica.

CHIESA CALDEA. La chiesa cattolica caldea è nata nel XVI secolo da uno scisma della chiesa assira (conosciuta come chiesa nestoriana), quando alcuni gruppi elessero un proprio vescovo (1552) e chiesero l’approvazione di Roma, ricevendo il titolo di patriarca dei cattolici caldei. In Terra santa la comunità caldea conta poche famiglie; sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESA MARONITA. È la sola chiesa orientale interamente cattolica, fondata da san Marone (IV sec.) in Siria e affermatasi in Libano. I maroniti sono circa 8 mila, presenti soprattutto i Galilea, guidati da un arcivescovo (esarca patriarcale)  che risiede a Gerusalemme. 

CHIESA GRECO-CATTOLICA o MELKITA. Chiesa calcedonica, dipendente da Antiochia, definitivamente in comunione con Roma nel 1729, segue la liturgia bizantina in lingua araba e greca. I melkiti in Terra santa sono circa 50 mila, buona parte nella Galilea, guidati da un esarca, rappresentante del patriarca di Antiochia.

CHIESA CATTOLICA ARMENA. Fin dai tempi delle crociate ci furono tentativi di unione degli armeni con Roma; con la predicazione dei domenicani si formarono alcune comunità armeno-cattoliche, alle quali papa Benedetto XIV assegnò un patriarca (1742), che dal 1829 risiede a Istanbul. Alcune decine di famiglie di cattolici armeni sono sparse tra Gerusalemme, Haifa, Nazaret e Ramallah; sede dell’esarca patriarcale in santa Maria dello Spasimo.

CHIESA CATTOLICA SIRIACA. Nata in Siria con la predicazione cattolica nel XVII secolo; a causa di persecuzioni, la sede del patriarcato da Aleppo fu portata in Libano. I cattolici siriaci in Terra santa sono 2-300, sparsi in varie città, con sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESE PROTESTANTI

COMUNITà ANGLICANA e LUTERANA. I protestanti arrivarono a Gerusalemme solo a partire dal 1800, con l’instaurarsi delle rappresentanze diplomatiche occidentali a Gerusalemme. Oggi contano circa 5 mila fedeli; ognuna delle due comunità è guidata da un proprio vescovo.

Benedetto Bellesi




Piccolo gregge, grande missione

Comunità cattoliche di espressione ebraica

Non sono molti, forse un migliaio, i cattolici ebreofoni, ma consapevoli del loro ruolo a livello locale e universale: testimoniare i valori di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e di guerra; servire da ponte fra la chiesa universale e il popolo ebreo, accrescere nella chiesa la coscienza delle radici ebraiche e l’identità ebrea di Gesù e degli apostoli. 

«Sono francescano e polacco; quindi un goi (gentile) e non ebreo» dice sorridendo padre Apolinary Szwed, e continua: «Siamo una comunità modesta, che non fa rumore, quasi invisibile, ma viva e cosciente della nostra realtà». Che sia modesta non c’è dubbio. La comunità a lui affidata è formata da una settantina di fedeli, che si raduna in una stanza molto semplice, che funge da chiesa dedicata ai santi Simeone e Anna; ma la novità sta nel fatto che questi cattolici sono di lingua ebraica, e costituiscono un tassello importante nel mosaico della cristianità in Terra santa.  
Tutto è cominciato subito dopo la creazione dello stato di Israele, quando arrivarono in Israele cristiani che pregavano in ebraico. Alcuni preti, per lo più francesi di origine, cominciarono a occuparsi di loro per introdurli nella chiesa di Gerusalemme; a tale scopo fondarono nel 1955 l’associazione chiamata «Opera di san Giacomo», il cui statuto ne stabiliva lo scopo: costituire una comunità di espressione ebraica e colmare il fossato tra giudei e cristiani, promuovere riconciliazione e conoscenza reciproca in seno alla società ebraica.
Per raggiungere tale fine, furono avviate varie iniziative: nel 1959 il domenicano Bruno Hussar, ebreo di origine francese, nato in Egitto e naturalizzato israeliano, fondò la Casa di sant’Isaia, istituto domenicano di ricerche e studi ebraici. Altri religiosi, come Marcel Debois e Jacques Fontaine, promossero tra i giovani francesi lo studio dell’ebraico biblico, della cultura, religione, storia ebraica. Lo stesso padre Hussar fu all’origine di Neve Shalom (Oasi di pace), un villaggio dove ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme ed educano i propri figli in una stessa scuola, rispettosa delle due culture arabe ed ebraiche.
Alcuni membri di questa comunità hanno aiutato a formulare varie riforme del Concilio Vaticano II, come la condanna dell’antisemitismo, il ripudio dell’accusa di deicidio, uso della lingua locale nella messa, iniziato in Israele 10 anni prima del Concilio. Per anni hanno svolto un enorme lavoro per tradurre la liturgia, sviluppare una musica sacra e creare un vocabolario teologico cristiano in ebraico.
L’Opera di san Giacomo non è una parrocchia o un insieme di parrocchie, ma un’associazione con statuto particolare e oggi costituisce il «Vicariato ebreofono» all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme. Nel 1990 fu nominato il primo vicario nella persona dell’abate benedettino israeliano Jean Baptiste Gourion, consacrato vescovo nel 2003, morto prematuramente nel 2005. Dal 2009 il vicario patriarcale è il gesuita israeliano David Neuhaus.

Dopo una ventina di anni la comunità è cresciuta, soprattutto con l’ondata migratoria dall’ex Unione Sovietica, che ha portato decine di migliaia di cristiani, tra i quali vari cattolici. Oggi il vicariato patriarcale conta nove preti, alcune centinaia di fedeli e sei centri: quattro di lingua ebraica (Ber Sheva, Haifa, Jaffa e Gerusalemme) e due di lingua russa.
Negli ultimi 20 anni, però, passata l’ondata immigratoria, i cattolici ebreofoni sono diminuiti e si prevede che resteranno pochi. «Abbiamo qualche conversione – spiega padre Apolinary -. Attualmente due adulti si stanno preparando al battesimo. Anche se le leggi statali lasciano libertà di fede, la pressione sociale, economica e giuridica è tale che non solo scoraggia le conversioni, ma consiglia gli ebrei cristiani alla discrezione, senza sbandierare la loro appartenenza al cristianesimo».
Per il resto, essi vivono le realtà e i problemi di tutti gli altri ebrei. Religione, storia, cultura ebraica stabiliscono il ritmo della vita della comunità cattolica, che segue quindi il calendario e partecipa alle feste ebraiche; alcuni cattolici digiunano nel giorno del kippur e partecipano alle funzioni della sinagoga in segno di solidarietà.
Inizialmente le comunità erano formate da ebrei arrivati in Israele durante la grande emigrazione, coppie miste, formate in prevalenza da un uomo laico ebreo e una donna cattolica; vi erano pure cattolici di origine ebraica che avevano scoperto la loro appartenenza al popolo ebraico in seguito alla shoah. Oggi prevalgono i membri nati e cresciuti in Israele, per cui la grande sfida è trasmettere la fede alle nuove generazioni. Problema non facile, dal momento che, a differenza delle comunità cristiane di lingua araba, i piccoli gruppi di cattolici ebreofoni non hanno istituzioni educative proprie, per cui i giovani frequentano le strutture statali, con il rischio di assimilazione nella società ebraica laica.
«Per questo siamo impegnati nella catechesi – spiega padre Apolinary -: formazione dei bambini, preparazione ai sacramenti, sessioni per giovani coppie, incontri di studio della bibbia, ritiri e preparazione dei catechisti della comunità».

Nonostante la sua quasi invisibilità, la comunità cattolica ebraica è impegnata nella missione che la Provvidenza le ha assegnato. Un primo lavoro è la ricerca delle pecorelle smarrite, cioè coloro che non sanno dell’esistenza della chiesa di lingua ebraica e della possibilità di una vita cattolica nella società israeliana.
Un’altra sfida per i cattolici di lingua ebraica è l’impegno per il dialogo e la riconciliazione. «Le nostre comunità – spiega padre Apolinary – sono diventate un luogo di preghiera per la pace. Vogliamo essere un ponte tra ebrei e arabi, tra la chiesa e il popolo d’Israele, rafforzando i legami di amicizia e testimoniando i valori cristiani di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e conflitto armato».
La comunità cattolica di espressione ebraica ha qualcosa da dire anche alla chiesa universale che, a partire dal Concilio Vaticano II, è chiamata a rinnovarsi mediante la riflessione sull’identità ebraica di Gesù, a riscoprire le radici ebraiche della fede cristiana; una sfida che i cattolici in Terra santa vivono quotidianamente. Pregare in ebraico, vivere da cattolico in ebraico, essere minoranza cattolica nell’unica società totalmente ebraica è una realtà nuova per la chiesa locale e universale.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Testimoni di Cristo nella sua terra

Incontro con Michel Sabbah, patriarca latino emerito

Cosa significa essere cristiani, oggi, nella Terra santa? Essi hanno una vocazione speciale: come minoranza schiacciata tra ebraismo e musulmanesimo, sono chiamati a vivere in Gesù Cristo e renderlo presente nella sua stessa terra; come appartenenti in maggioranza a un popolo di oppressi, sono chiamati a lottare per la pace e la giustizia, attraverso la solidarietà, il dialogo, la riconciliazione.

Fare la conoscenza con la chiesa in Terra santa: fa parte del programma del corso di aggioamento presso la casa dei Padri Bianchi a Gerusalemme. Ce ne parla la voce più autorevole: mons. Michel Sabbah, primo palestinese eletto patriarca latino di Gerusalemme dal 1987 al 2008.
La sua presentazione è molto breve: nato a Nazaret nel 1933, ordinato presbitero nel 1955, laureato in filologia araba a Beirut, dottore in filosofia alla Sorbona di Parigi, presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dell’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra santa e di Pax Christi Inteational (1999-2007) è stato e continua ad essere, anche dopo le dimissioni da patriarca per limiti di età, promotore appassionato del dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, costruttore di pace e riconciliazione tra i due popoli e le tre religioni presenti nella terra di Gesù.
Testimoni per natura e vocazione 
«Siamo una chiesa piccola e lo siamo da sempre – esordisce con voce pacata e ferma -. Nel III secolo il vescovo di Gerusalemme era suffraganeo dell’arcivescovo di Cesarea e solo nel V secolo ottenne il titolo di patriarca (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). Durante i tre secoli di dominio bizantino i cristiani sono stati in maggioranza, ma sono tornati piccolo gregge dal VII secolo in poi, con la conquista araba (638). Possiamo dire che in tutta la sua storia Gerusalemme non è mai stata una città cristiana. 
Tale piccolezza non è solo un problema di carattere storico e politico, ma fa parte del mistero di Cristo, come afferma l’evangelista Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero, non lo accettarono”. Gesù formò un’esigua comunità con gli apostoli, i discepoli e le donne che avevano creduto in lui, e rimase un piccolo gruppo nella sua società. Ancora oggi, dopo quasi 20 secoli, Cristo è nella stessa situazione: non è riconosciuto nella sua terra; non è accettata nella società la sua azione di redenzione».
«Siamo piccoli e siamo molte chiese – continua il patriarca emerito senza reticenze -. A Gerusalemme sono presenti quasi tutte le chiese cristiane storiche: ortodosse, cattoliche e protestanti. Pur con le nostre diversità, dobbiamo rispondere alle sfide del mondo contemporaneo: siamo un piccolo gruppo, ma, come ai tempi delle origini, abbiamo una vocazione speciale: testimoniare Cristo nella sua terra; questa presenza di testimonianza è la vera natura della chiesa di Gerusalemme. Quando incontro dei fedeli che vogliono emigrare dico loro che perdono due cose: patria e vocazione, cioè, essere cristiani e testimoni nella terra di Gesù e in questa società».
Toccando il problema della migrazione, il patriarca si fa serio e ricorda che sono oltre mezzo milione i cristiani palestinesi, in maggioranza dispersi nel mondo dall’emigrazione e dalle guerre del 1948 e del 1967; solo circa 180 mila sono in Terra santa, formando l’1,7% della popolazione sia in Israele che in Palestina.
«Siamo una comunità in via di estinzione? – continua il patriarca ponendosi la domanda e dandosi la risposta -. Molti vorrebbero pensarlo. In realtà, benché piccola siamo una comunità molto viva, partecipe di tutta la vita della chiesa e della società. È vero che tanti sono stremati da una continua lotta per la sopravvivenza e finiscono per andarsene. Altri, però, restano. Resterà sempre in Terra santa una piccola comunità di cristiani. Gesù ha detto ai suoi apostoli: «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e nella Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Per questo noi restiamo e resteremo, lungo i secoli, i testimoni di Gesù nella sua terra.
Situazione insopportabile 
«Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in Terra santa?» si pone la domanda il patriarca, dandone pure la risposta: «Oltre a chiesa di testimoni, siamo anche chiesa del Calvario, sempre in croce per i conflitti politici che hanno interessato questa terra. Se Gerusalemme è per eccellenza la città della croce, la chiesa di Terra santa nasce sotto di essa. Ogni cristiano partecipa alle sofferenze della sua gente: i cristiani israeliani di espressione ebraica si sentono parte di una società che soffre e ha paura; i cristiani palestinesi condividono le sofferenze e le tragedie dei palestinesi. Sulla carta esiste un’autorità palestinese; in realtà non abbiamo alcuna libertà e l’occupazione militare diventa sempre più insostenibile e violenta».
Muro di separazione, umiliazioni ai chek point, aggressioni, demolizioni di case, impossibilità di movimento, disoccupazione… La lista continua sciorinando le ingiustizie che tengono un popolo in ostaggio, impediscono lo sviluppo e fomentano odio e violenza.
«Ai disagi materiali si aggiungono pericolose ricadute sociali e morali come la disgregazione delle famiglie» prosegue il patriarca, spiegando che, per uscire dai territori occupati occorre uno speciale permesso, che viene molto spesso rifiutato. Ne consegue che se un coniuge lavora a Gerusalemme e l’altro vive nei territori palestinesi, entrambi sono impediti di vivere insieme come famiglia. «Ci sono cristiani di Betlemme, per esempio, che non sono mai stati a pregare nei luoghi santi a Gerusalemme. Si dà la colpa alla Giordania, che ha governato Gerusalemme fino al 1967: a quei tempi gli israeliani non potevano recarsi al muro del pianto. Ora il regime d’Israele si comporta allo stesso modo con i cristiani palestinesi e dei paesi islamici come Siria e Giordania».
Responsabilità di religioni e chiese  
Nel conflitto israelo-palestinese fino a che punto c’entrano le ragioni religiose?
«La situazione di oppressione e violenza in cui viviamo rendono difficili le relazioni tra gruppi e individui e risvegliano l’antagonismo tra sensibilità religiose differenti. Tuttavia la religione diventa molto spesso un pretesto per affermare la posizione politica, come la questione delle moschee sulla spianata del tempio. Nelle grandi feste, come capodanno o sukkot, c’è sempre qualche gruppo di fanatici ebrei che tentano di prendere possesso della spianata del tempio. Da parte araba è nata una nuova ideologia: si afferma che non c’è mai stato il tempio, ma il luogo è islamico dai tempi di Abramo.
L’ostilità dei palestinesi non è contro gli ebrei in quanto ebrei, ma contro lo stato d’Israele: ostilità semplicemente politica, derivate dalla situazione politica e non da sentimenti di antisemitismo.
Ma in Oriente la dimensione religiosa compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche, per cui le religioni hanno una grande responsabilità, in questa parte del mondo, nella ricerca della giustizia e della pace; perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso o nell’altro, incitare alla guerra e violenza o esortare alla pace.

Qual è il rapporto tra chiesa e stato d’Israele?
All’interno del territorio israeliano, i rapporti della chiesa con lo stato d’Israele sono basati sul rispetto dovuto a ogni autorità. Quando i cristiani arabo-israeliani mi chiedono come comportarsi di fronte allo stato, io rispondo: siete cristiani, siete arabi e siete cittadini israeliani. Siete dunque tenuti a una triplice fedeltà: alla vostra fede cristiana, al vostro patrimonio culturale arabo, che condividete con i musulmani d’Israele e i popoli arabi, e allo stato d’Israele in cui vivete e disponete di un sistema democratico dove sviluppare la vostra vita sociale e religiosa.
Nei Territori occupati, invece, i rapporti tra chiesa e stato sono spesso tesi a causa del regime di occupazione. Ogni volta che faccio sentire la mia voce in questo senso, si alza la tensione, pur non arrivando alla rottura. Tuttavia cerco sempre di fare comprendere che, come portavoce della chiesa, voglio solo il bene dei palestinesi e degli israeliani.

Anche le altre chiese sono sulla stessa linea?
Grazie a Dio, oggi in Terra santa viviamo in un clima di amicizia e frateità tra le differenti chiese cristiane e speriamo di crescere in un cammino ecumenico reale che ci orienti verso una maggiore unità e meno status quo, meno vita nel passato e più attenzione alle difficoltà dell’ora presente.
Siamo 13 capi di chiese a Gerusalemme e prendiamo la parola ogni volta che la situazione si fa più opprimente per denunciare le ingiustizie, come abbiamo fatto durante la crisi e l’assedio della basilica di Betlemme. Abbiamo fatto insieme un documento su Gerusalemme, sulla natura e significato cristiano della città. In dicembre abbiamo pubblicato Il documento kairos Palestina (vedi pagina 30).
Pace su Gerusalemme!  
Gerusalemme è il cuore del conflitto: come trasformare il problema in soluzione?
Oggi Gerusalemme è la città di due popoli e tre religioni. Le parti in conflitto pensano più a dividerla che a condividerla. È la città di Dio e, come Dio, è per tutti: nessuno può averla in esclusiva. Essa deve essere aperta a tutti i credenti, facendone una città internazionale con uno statuto speciale, governata alla pari da israeliani e palestinesi; un’entità unica di cui nessuno è padrone, ma comproprietario, sotto la supervisione dell’Onu, per garantire il rispetto delle regole e delle speranze dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione; ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti può portare solo a una tregua, non a una pace definitiva.

Chi ha le chiavi della pace?
Il conflitto in corso non è una guerra: non ci sono due eserciti che si combattono tra loro, ma da una parte c’è l’oppressore, dall’altra l’oppresso. Se si parla di azioni terroristiche palestinesi, bisogna parlare anche di azioni terroristiche israeliane. La violenza palestinese e quella israeliana sono purtroppo legate tra loro.
Come rompere il circolo vizioso? La soluzione è semplice: porre fine all’occupazione militare israeliana; non vedo altro modo possibile per far scoppiare la pace in Medio Oriente. Purtroppo, Israele non parla di occupazione, ma di autodifesa, di diritto alla sicurezza, e non capisce che il vero problema è l’ingiustizia fatta al popolo palestinese. Se cesserà tale ingiustizia, se i palestinesi avranno il loro stato, saranno i migliori amici d’Israele. La pace è molto più utile a Israele che ai palestinesi. E se vuole la pace, deve aprire il dialogo, fare passi concreti; è lo stato più forte ed è l’oppressore, per cui dovrà fare il primo passo. La chiave della pace è in mano a Israele.

In concreto, come risolvere il conflitto?
Non può esserci pace senza risolvere il problema del territorio. Nel 1967 il 78% del territorio formava lo stato di Israele; il 22% sotto il governo giordano; poi Israele lo ha occupato e di questo 22% promette di restituire il 40%, che non basta per fare uno stato. Quindi, o Israele si ritira dai territori occupati e li restituisce ai palestinesi, oppure li incorpora formando un unico stato in cui tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi diritti e doveri, cambiando il nome se necessario, tornando magari al nome primitivo, da Èretz Israèl (terra d’Israele) a Terra di Canaan.
Invece Israele continua a costruire nuovi insediamenti nei territori occupati e sta giudeizzando Gerusalemme, confiscando proprietà e case, con il pretesto che prima del 1948 appartenevano o erano abitate da ebrei. Ma lo stesso principio non è applicato per i rifugiati palestinesi, quando reclamano la restituzione delle loro abitazioni, ora occupate da ebrei.

Ma Obama…
Anche Obama ha deluso. Quando ha incontrato il premier israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese, non ha concluso niente: si è accontentato di parole, lasciando le cose come stanno, senza fare alcuna pressione su Netanyahu, permettendogli in pratica di continuare la sua politica. Senza imporre sanzioni e farle rispettare, Israele continua a fare ciò che vuole, contro e al di sopra di ogni legge internazionale.
Obama ha capito che c’è un problema di leadership: né Netanyahu, né Abu Mazen, né Hammas sono all’altezza per risolvere il conflitto; per questo non si impegna più di tanto per risolvere il problema.
Ma Obama…
Allora… come cristiani continuiamo a sperare e lavorare. Nella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste il dialogo è possibile e deve essere possibile. Siamo popoli che da due mila anni viviamo gomito a gomito: è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, o meglio, è la Provvidenza, i Signore della storia  che lo ha permesso e voluto.
Da parte nostra facciamo tutto quello che possiamo, convinti di avere una vocazione specifica: essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra, chiamati a testimoniare il suo amore e la sua riconciliazione qui e non altrove.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




La forza della radio, la vecchia radio

Oggi c’è internet, c’è l’I-pod, c’è Twitter e Facebook, ci sono i cellulari che fanno di tutto, oltre che le telefonate. Ma la radio, la vecchia radio resiste e resiste bene.
In questo dossier, non vogliamo parlare genericamente di questo mezzo di comunicazione, ma di radio particolari: per i loro fondatori, per il loro pubblico, per la funzione che svolgono.
Da parte nostra, nessuna pretesa di completezza. Abbiamo soltanto raccontato alcune storie raccolte in Africa (Ciad, Niger, Malawi, Burkina Faso) e in America Latina (Argentina, Perù, Colombia). Cercando di far comprendere come la vecchia radio rappresenti ancora un insostituibile strumento di comunicazione, soprattutto nei paesi del Sud del mondo.

di Paolo Moiola

AFRICA / Radio per tutti i gusti
Anni Novanta: in Africa si respira aria di democrazia.
Anche l’etere è liberalizzato.
Da allora «fioriscono» centinaia di emittenti, molte delle quali create dalla base.

Dai media monopolio di stato, in Africa, si passa alla liberalizzazione delle onde elettromagnetiche solo agli inizi degli anni Novanta.
Alcune esperienze di radio private si hanno tuttavia già negli anni ‘80, come Horizon Fm in Burkina Faso che, nata nel 1987 è una delle prime radio indipendenti nell’Africa francofona.
Già prima della liberalizzazione erano nate le cosiddette «radio rurali», radio pubbliche che vogliono essere di tipo didattico e orientate al mondo contadino. Trattano i temi come agricoltura, salute, nutrizione, allevamento, igiene, ecc. Utilizzano prevalentemente le lingue africane. Questa tipologia ha però diversi limiti, come la localizzazione nelle capitali, la mancanza di mezzi e di risorse umane competenti e motivate.

Con la liberalizzazione che accompagna i processi di democratizzazione dei paesi, altre tipologie di radio nascono e si diffondono rapidamente: radio confessionali, comunitarie, associative e le radio commerciali.
Sono tutte radio dette di «prossimità» ovvero locali, vicine alla popolazione, ma hanno diversi ruoli e missioni, nonché tipo di gestione.
La radio associativa è l’emanazione di un’associazione, creata e gestita dalla stessa. Ad esempio un’associazione per la difesa dei diritti umani, o una di contadini.
La radio confessionale è invece fondata e gestita da una confessione religiosa, ma orientata sempre al pubblico locale. Tante sono le radio evangeliche e quelle cattoliche nate in Africa nei primi anni ‘90.
La radio comunitaria appartiene invece alla comunità. Può essere una comunità professionale (ad esempio gli agricoltori) o un’entità sociale (le donne o i giovani di una località, le popolazioni di una certa lingua). Deve essere gestita attraverso organi definiti dalla comunità.
Nella pratica c’è una certa confusione tra radio associativa e comunitaria. Alcuni testi definiscono la prima come l’eccezione più ampia, sotto la quale si potrebbero far rientrare sia le radio comunitarie sia quelle confessionali.
La radio privata commerciale invece ha una diversa origine e finalità. Un capitale privato e l’orientamento al profitto il pubblico urbano piuttosto che la popolazione rurale.
 
La radio comunitaria, proprio perché è un’emanazione della comunità diventa strumento di concertazione. Favorisce la comunicazione tra i diversi membri della comunità, prendendo così un ruolo di strumento di regolazione sociale.  È la tipologia più indicata per essere anche uno strumento di sviluppo endogeno. La trasmissione tipo «forum» o «tavola rotonda» è molto utilizzata per permettere a tutte le parti di esprimersi. Attori o parti antagoniste trovano così uno spazio di confronto e spesso di dialogo, e riducono gli ostacoli.
Il «dibattito», la trasmissione pubblica (con la partecipazione degli ascoltatori) servono a instaurare una comunicazione interattiva tra diversi attori e diventano un’espressione democratica e pluralista di opinioni, bisogni e aspirazioni della comunità.
Organizzazioni come Unesco, Unicef, Acct (oggi Agenzia intergovernativa della francofonia, Aif) spingono e investono fondi nelle radio comunitarie in Africa già dalla fine degli anni ‘80.

di Marco Bello

Paolo Moiola e Marco Bello




La zappa sulle onde

Burkina Faso: Radio «Voce del contadino»

Nel Sahel il deserto avanza. La vita dipende dalle piogge. Ma i contadini decidono di organizzarsi. E di fondare una radio di «prossimità». Quasi un social network locale, per risolvere i loro problemi. E funziona.

Jean Victor sfreccia con il suo motorino per polverose strade di Ouahigouya. Questa città tipicamente saheliana, nel Nord del Burkina Faso, è il capoluogo della provincia dello Yatenga, storica sede di un re dei mossì, la cui dinastia continua anche oggi.
Regione questa, semiarida, nella quale si sente sempre di più l’«avanzata» del deserto e dove l’acqua e la terra sono due questioni cruciali, per la vita o per la morte.
La popolazione è all’85% rurale e tutto è legato all’unica stagione delle piogge, tra giugno e settembre. Se il raccolto è buono, il granaio sarà pieno e il cibo durerà fino alle prossime piogge, altrimenti si patirà la fame.
In questo contesto difficile i contadini si organizzano, perché capiscono che da soli non ce la possono fare. Alla fine degli anni Sessanta nasce un’organizzazione che si chiamerà più tardi la Federazione nazionale dei gruppi naam (dove naam, in lingua mooré significa potere).
L’intuizione è di Beard Lédéa Ouedraogo, classe 1930, già insegnante, mente finissima e leader carismatico, ancora oggi capo indiscusso della struttura.
A Beard non sfugge l’importanza dei mass media per lo sviluppo della sua regione. Nel 1996 fonda una radio comunitaria, che si vuole di «prossimità», ovvero vicina ai contadini. La radio Voix du paysan (Vdp, voce del contadino) vuole essere uno strumento per migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Sensibilizzare, animare,
informare

Jean Victor Ouedraogo è giornalista, lavora per il giornale e la radio di stato, ma crede nella radio comunitaria e dal 1997 collabora alla Voix du paysan mettendo a disposizione le sue competenze come volontario:
«L’importanza di una radio come la Vdp è il contributo che dà per sviluppare la regione. È impegnata su vari fronti.
Fondamentale è la sensibilizzazione sulle tematiche sociali. Con questa radio, ad esempio le donne della zona hanno capito che l’escissione (mutilazione genitale femminile tradizionale presso i mossì, ndr) è una pratica nefasta.
Molte hanno anche capito che quando un bambino è malato bisogna portarlo subito all’ospedale. Inoltre i contadini, tramite le trasmissioni, riescono a discutere tra loro su come migliorare le proprie tecniche e metodi di coltivazione e come proteggere l’ambiente». La radio comunitaria diventa un forum, e anche le donne riescono a discutere tra di loro dei problemi quotidiani, e su come risolvere alcune questioni di casa.
Ci sono emissioni politiche, e la radio fa capire al cittadino come votare, o l’importanza di registrare il figlio allo stato civile, per poter avere accesso ai propri diritti.
È una radio rivolta anche ai giovani, spiegando loro, ad esempio, alcune piste per trovare lavoro.
La Vdp, inoltre, è una delle prime radio che hanno partecipato al programma «Piano integrato di comunicazione» (Pic) sulla lotta contro l’escissione e contro il traffico dei bambini. Programma finanziato dall’Unicef (agenzia dell’Onu per l’infanzia), che tramite 17 radio comunitarie in Burkina Faso ha permesso di toccare direttamente 700.000 persone.

Tutti sotto l’albero

La radio fa molta animazione, e diventa vettore di messaggi tra persone: «In questi anni la radio ha contribuito al cambiamento delle mentalità della gente» ricorda Jean Victor. È anche educativa, ad esempio consiglia su come circolare in strada per non avere incidenti, come gli allievi si devono comportare con gli insegnanti.
Un appuntamento importante è il magazine intitolato: «Sotto l’albero» (per ricordare l’abitudine  di sedersi sotto un grande albero a discutere), che anima il dibattito tra ascoltatori che discutono sulla vita sociale. È una trasmissione molto partecipata. Un ascoltatore presenta il suo problema (normalmente famigliare, di vicinato, ecc.), gli animatori della trasmissione danno il loro punto di vista, e poi intervengono altri del pubblico, con i loro consigli per trovare soluzioni.
«Grazie alla Vdp delle coppie sono state salvate o degli aspiranti suicidi sono tornati sulla loro decisione. Villaggi che erano in conflitto da 15 anni si sono riavvicinati. Sono state resuscitate lingue che erano in via di sparizione» sottolinea Jean Victor.
Ma la Vdp fa anche informazione. Importante è la «Rassegna stampa». In Burkina Faso i quotidiani sono tutti in lingua francese, mentre la maggioranza della gente non sa leggere. Questo programma riprende le notizie più importanti in lingua mooré rendendole fruibili da tutti. In progetto c’è la stessa cosa in lingua dioula.
Uno spazio particolare è poi dedicato alle informazioni locali.
A Ouahigouya oggi ci sono altre sei radio. «Quello che distingue al Vdp è la partecipazione degli ascoltatori – ricorda Jean Victor – Inoltre la priorità è data ai programmi sull’ambiente, salute, educazione, sociale, vita coniugale, ai dibattiti. Addirittura i sacerdoti tradizionali hanno iniziato a telefonare per dare il loro punto di vista sulle questioni.
 Cose che non si trovano sulle radio commerciali, più orientate a produrre benefici. Un’inchiesta recente ha dato la radio Vdp come la più ascoltata nella regione del Nord con il 60% del tasso di ascolto».

Una radio
tanti gruppi

La radio comunitaria dà una tribuna a diversi gruppi sociali. I contadini, ad esempio, hanno un loro programma, animato da essi stessi e sulle loro tematiche. Ci sono tecnici che intervengono anche per dare consigli e risposte. Allo stesso modo i giovani e gli anziani hanno i loro programmi.
La radio è anche strutturata sul territorio attraverso quelli che si chiamano «club degli ascoltatori fedeli» e quasi ogni villaggio ne ha uno. Agiscono come «ripetitori» della radio e ripropongono le campagne sociali: lotta ad escissione, Aids, banditismo, matrimonio forzato, ma anche promozione dei diritti e doveri dei bambini, sensibilizzazione per le vaccinazioni. I volontari di questi gruppi, amici appassionati della radio, continuano la sensibilizzazione casa per casa, con un approccio diretto, ad esempio convincendo i genitori di mandare i figli a scuola.

Per ricevere le onde

Va ricordato che la forza di questa radio sono soprattutto gli ascoltatori nei villaggi, non tanto la città. Avere un ricevitore è abbastanza semplice, ma … non ancora alla portata di tutti in un paese tra i più poveri del mondo.
«Abbiamo discusso questo in redazione – ricorda Jean Victor – e proposto vari progetti.
Il numero è ancora insufficiente. Occorrerebbe che in ogni famiglia ci sia un ricevitore. Stiamo cercando di riflettere, per risolvere questa questione».
La Voce del contadino partecipa da alcuni anni a un progetto finanziato dalla Regione Piemonte e promosso dalla rivista Volontari per lo Sviluppo e dall’Ong Cisv. Progetto di cui fanno parte anche Radio Flash e MC. L’idea di fondo è mettere in relazione giornalisti e media del Sahel (altri paesi interessanti sono Senegal e Mali) e gli omologhi piemontesi.
L’appoggio dato è soprattutto in tecnologie e formazione, oltre la realizzazione di scambi Sud-Sud e Sud-Nord. La Vdp, ad esempio, è passata al digitale grazie al progetto e i suoi operatori sono stati formati per lavorare con queste tecnologie. 

Di Marco Bello

 

Marco Bello




Radio Refugees

Ciad: formazione «afro-africana»

Est del Ciad. Nel febbraio 2004 inizia la guerra nel vicino Darfur, Sudan. Oltre 240.000 rifugiati sudanesi invadono un’ampia regione. Un anno dopo iniziano a trasmettere tre radio comunitarie. Ma le redazioni soffrono una cronica carenza di competenze. L’autore, giornalista burundese, nostro collaboratore, è oggi in Ciad, dove lavora come formatore di giovani giornalisti di queste radio.

In Ciad vivono un centinaio di etnie e una popolazione stimata in 10 milioni di abitanti (statistiche governative del 2005). Secondo il World Refugees Survery, pubblicato nel 2007 da un comitato americano per i rifugiati e i migranti, il paese ha sul suo territorio circa 300.000 rifugiati e richiedenti asilo. Tra questi, oltre ai sudanesi, ci sono circa 60.000 profughi della Repubblica Centro africana.
Ma la guerra non è finita in entrambi questi due paesi dell’Africa centrale, così rifugiati, ma anche sfollati interni, continuano ad affluire nei campi. Diventa quindi molto difficile fare delle statistiche per stimare il numero di queste persone.

«Piccole» radio comunitarie

Nell’Est del Ciad si trovano tre radio comunitarie fondate da Inteews (Ong statunitense che si occupa di appoggio ai media come vettore di sviluppo), impiantate nel mezzo dei campi di rifugiati e di sfollati che si sono moltiplicati in questa parte del paese. Si tratta di Radio Sila, Radio Absoun e Radio Voix de Ouadai.
I giornalisti che lavorano in queste strutture sono, per la maggior parte, formati sul campo. Hanno livelli di studi variegati e pochissimi hanno fatto un percorso universitario. Altri hanno ricevuto formazioni per lavorare in questa zona in condizioni di vita molto difficili e sono magari entrati in contatto con diversi formatori.
È strano il panorama mediatico di questa parte del Ciad. La quasi totalità dei giornalisti non ha un vero «carnet d’adresse», ovvero una raccolta di numeri telefonici e indirizzi fondamentali in questo mestiere. Diverso da altri paesi, come il Burundi, dove ogni giornalista dispone di un gran numero di contatti. Si nota nelle riunioni di redazione, dove pochi hanno il numero di telefono di un’autorità locale che si vuole intervistare.

Isolati dal resto del mondo

I giornalisti di questa zona hanno pochissimi contatti con il mondo esterno, il che complica la buona comprensione del mestiere d’informare. Nel loro ambiente non hanno dei punti di riferimento o dei colleghi navigati ai quali si possono identificare.
Ascoltano sulle onde corte le radio inteazionali, come Bbc (British Broadcasting Corporation, radio britannica) e Rfi (Radio France inteationale, radio francese specializzata sull’Africa), ma ignorano ogni processo che porta alla produzione di un giornale o di un programma d’informazione che ascoltano su queste emittenti.
Non è raro sentire qualcuno dire: «Da quando sono giornalista non ho mai ricevuto una formazione». È vero che un manuale dell’Unesco spiega che i giornalisti delle radio comunitarie non hanno bisogno di conoscenze speciali, ma un minimo è necessario.
È ben visibile che l’informazione non si libera dalla pressione della storia, in quanto la predominanza di alcune etnie, che si sono succedute al potere negli ultimi trent’anni, impone la condotta. Si sente ancora dire che una certa informazione è corretta, perché è tale gruppo potente che «l’ha detto».
Diventa allora molto difficile spiegare ai giornalisti che tutte le informazioni senza fonte non sono valide, e che un professionista deve verificare le sue fonti con i propri mezzi. È in gioco la sua credibilità.

Prime difficoltà: la lingua

Questa è la mia seconda consulenza internazionale all’Est del Ciad dopo un’esperienza in Rwanda. Quando si tratta di formazioni occorre prepararsi, organizzare dei moduli formativi.
L’arabo «ciadiano» e il francese sono le lingue ufficiali. Si parlano poi un centinaio di altri idiomi locali. Questi, insieme all’arabo, sono le più utilizzate mentre il francese passa in secondo piano. Molti poi lo conoscono orale, ma quelli che possono leggerlo e scriverlo sono molto rari.
Questo vuol dire che su 10 allievi meno della metà capiscono con facilità la lingua del formatore, il che rende difficile la trasmissione della formazione.
Così, per far passare il messaggio si ricorre ai colleghi che traducono dal francese all’arabo, o in una lingua a grande diffusione come il zagawa e il massalite. Questa traduzione ha il difetto di subire delle trasformazioni durante i vari passaggi.
Ho dovuto quindi organizzare un modulo sulla traduzione stessa per tentare di rendere il passaggio da una lingua all’altra più fedele possibile. Ma questo ha creato dei ritardi sull’avanzamento della stessa formazione.

Mancano i modelli

Questi allievi-giornalisti, con formazione accademica molto diversa, non hanno lo stesso livello di comprensione. Alcuni tra loro hanno bisogno di nozioni di base.
Sono arrivato in radio attive già da due anni, ma ho constatato che  gli operatori hanno ancora bisogno di nozioni basilari di giornalismo. Questo mi ha obbligato a rivedere la formazione che avevo preparato, cercando di uniformarmi al livello di ognuno.
Quando si cercano di spiegare i meandri del mestiere, a dei giornalisti che ascoltano altre radio, si usano spesso degli esempi conosciuti da tutti. Questo non si può fare in Ciad, dove la stampa «indipendente», competitiva è solo agli inizi.
In questo paese, solo a Djamena, la capitale, si capta Rfi sulle Fm, mentre nelle altre località, la popolazione tenta di ascoltare le notizie sulle onde corte, con tutte le difficoltà. Molto spesso per essere informati su cosa succede nel proprio paese, oltre che in Africa e nel resto del mondo, captano solo delle radio straniere: sudanesi in arabo, la Bbc, Deutchewhelle (radio internazionale tedesca), ecc.
Non esiste una copertura radio locale. Da qui la difficoltà a impostare la formazione su esempi di fatti locali coperti da cronache locali.

Deontologia: questa sconosciuta

A osservarli, questi giornalisti, alcuni di loro non hanno ancora l’Abc del mestiere d’informatore. Quest’ultimo si può senz’altro classificare tra quelle professioni che hanno un impatto diretto sulla società. Ha le sue regole, la sua deontologia e la sua etica. Non necessita di molti diplomi, ma della volontà di darsi e, inoltre, occorre avere un po’ di vena giornalistica nel sangue.
A nulla serve installare degli studi radiofonici: senza la volontà degli uomini dei media, niente può fare avanzare o muovere la società.
Ecco qualche esempio che ci fa vedere come la radio comunitaria non sia percepita come un vettore di sviluppo in questa parte dell’Est del Ciad. Ho assistito più volte a presentatori di notizie che al momento della trasmissione hanno detto: «Spiacenti, questa sera non ci sarà il radio giornale», senza capire che un gesto simile è passibile di licenziamento diretto.
Altri giornalisti decidono la fine delle trasmissioni anticipata. In breve, alcuni considerano il mestiere dell’informatore come molto semplice, come quello del venditore di frutta e verdura (senza nulla togliere ai commercianti), che può decidere lui stesso quando andare a vendere e può chiudere ancor prima di aver terminato tutto il prodotto.
Abbiamo più volte sentito giornalisti reclamare delle ore supplementari, altri dire ad alta voce che il giorno di ferie è sacro e sono contenti perché non metteranno piede alla radio.

Intermediario umanitario

Poco a poco i neo-giornalisti trovano il ritmo di lavoro della radio comunitaria. Iniziano a capire che sono gli intermediari tra le fonti d’informazione e il pubblico che è, in questo caso, essenzialmente composto da rifugiati e sfollati. Il lavoro del giornalista rientra, in questo caso, nell’ambito umanitario.
Il reporter è presente dove le Ong distribuiscono viveri o sensibilizzano per l’igiene e la gestione dei rifiuti, ma partecipa anche alle riunioni di cornordinazione o di sicurezza delle Ong inteazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite presenti sul posto.
Nonostante i grandi generi giornalistici come l’indagine e l’inchiesta facciano parte della formazione, ci sono delle tematiche che non sono mai affrontate in queste radio. I grandi soggetti come l’appropriazione indebita degli aiuti, soldi o viveri, destinati ai rifugiati, le violenze su minorenni così frequenti e altri crimini, sono assenti dalle trasmissioni.
Questo dimostra che la nozione di stampa come «quarto potere» è ancora lontana in queste radio comunitarie.
Nell’Est del Ciad, i fatti relativi a certe persone dell’amministrazione di base o di certi responsabili di Ong possono invece alimentare la stampa sensazionale per mesi.

L’Informazione utile per il pubblico

Nonostante tutto, per me è una nuova esperienza quella del «giornalismo umanitario». Cerco di mostrare ai giovani giornalisti che la radio è il solo mezzo di cui dispone questo mondo di rifugiati e sfollati per fare sentire la propria voce.
È vero che in un contesto ancora fragile di tensioni politiche e intercomunitarie, occorre evitare soggetti che producono frizioni. L’importante è che i giornalisti possano sapere sempre dove si trova l’informazione utile per il proprio pubblico.
In Burundi è il contrario. Radio private come la mia, Isanganiro, denunciano sistematicamente, ogni giorno, le derive del potere.
Per questo motivo giocano un grande ruolo nello sviluppo della società e sono sempre a fianco del semplice cittadino per fare rispettare i suoi diritti. 

Di Gabriel Nikundana

Gabriel Nikundana




La democrazia non può attendere

Niger: Radio «Alteative»

Sono un gruppo di intellettuali nigerini. All’università fondano un giornale, che diventa uno dei più letti. Poi si accorgono della potenza della radio. Nel 2001 nasce la prima Radio «Alteative», seguita quest’anno dalla seconda. La loro missione è educare alla cittadinanza attiva. E lo fanno ogni giorno, non senza problemi.

Moussa Tchangari è un uomo corpulento, con lo sguardo sincero. È molto indaffarato ma altrettanto disponibile. Entriamo nel suo ufficio senza troppi appuntamenti e lui lascia tutto per accoglierci.
Siamo nella sede di Alteative espaces citoyens (Asc, Alteativa spazi di cittadinanza, www.alternative.ne), un’associazione che lavora nel campo dell’educazione alla cittadinanza, la promozione diritti umani e dell’auto-organizzazione dei gruppi di base.

Quei favolosi anni ‘90

Ma facciamo un passo indietro. Negli anni ’90, dopo il famoso discorso del presidente francese François Mitterand (20 giugno 1990, noto come discorso de la Baule), l’Africa francofona è in fermento. Si respira un vento di cambiamento e di cammino verso la democrazia.
In Niger un gruppo di studenti universitari militanti per i diritti umani e per la svolta democratica, fonda a Niamey una cornoperativa, che definisce «mediatica e culturale». Subito si caratterizza per la scelta dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione come strumenti principali.
Nel 1994 il gruppo crea un giornale, che si chiama «Alteative», e ancor oggi è pubblicato due volte al mese. «È un mezzo molto importante di partecipare al dibattito della società su un certo numero di questioni» spiega Moussa Tchangari, uno dei leader di allora, oggi segretario generale di Alteative. «Eravamo studenti e volevamo poterci esprimere e portare il nostro contributo al dibattito. Al tempo stesso l’obiettivo era sostenere le lotte sociali e politiche nel nostro paese nell’ottica di una vera trasformazione».
Per molti anni concentrarono le loro energie sul giornale. Erano volontari e anzi, si auto tassavano per pagare le spese: «Eravamo pronti a subire tutti i sacrifici necessari per poter fare il giornale».

La svolta: arrivano le onde

Qualche anno dopo il gruppo si rende conto che incarna una corrente importante in seno all’opinione pubblica e decide di offrire un quadro diverso, più aperto, a quelli che condividono le loro idee. Nasce così Alteative espaces citoyens, riconosciuta nel 2001 come associazione, e con lei la radio associativa: «Radio Alteative».
Tchangari: «Abbiamo deciso di lanciarci nella radio, con la creazione di una stazione qui a Niamey. Faceva già parte dei nostri progetti». La visione sulla comunicazione sociale è chiara fin dall’inizio: «È importante usare i media perché ci permettono di comunicare direttamente con la gente, suscitare i dibattiti, e una presa di coscienza politica nella popolazione. La radio diventa strumento essenziale per fare lavoro di educazione e di mobilitazione e abbiamo visto negli anni come questo media sia importante».
Lo è anche il giornale, spiega ancora, ma essendo in un contesto di un paese analfabeta, si indirizza a una certa élite: «Allo stesso tempo quello che si scrive è spesso ri-trasmesso a voce o ripreso dalle radio».
Nello scorso mese di giugno una seconda emittente ha iniziato a trasmettere a Zinder, antica città a 900 km ad est della capitale.
Tutto pronto da oltre un anno, è stata dura avere l’autorizzazione e la frequenza. L’associazione ha in progetto di aprire almeno altre due radio associative, ad Agadez, città nel Nord e Diffa all’estremo Est.
«Vorremmo avere 4 o 5 Radio Alteative, sarà una cosa straordinaria. Allo stesso tempo lavoriamo con la rete delle radio comunitarie e associative del Niger e collaboriamo anche con le radio commerciali».
Oltre al giornale e alle radio, l’associazione ha infatti creato un centro di produzione sia di programmi audio, sia di video documentari.
Producono programmi più commerciali e li scambiano o vendono ad altre radio o alle televisioni, compresa la Tv di stato. Realizzano anche video per organismi inteazionali, allo scopo di auto finanziarsi.
Ma le produzioni sono anche fatte per sostenere campagne, come quella, in preparazione, sul diritto all’alimentazione. In questo caso è Alteative che paga per dare la massima diffusione del messaggio su altri media. «Questo riusciamo a farlo grazie a sovvenzioni dei nostri partner».

Campagne di informazione e di educazione

Un’altra campagna in preparazione è quella sulla nutrizione: «Una delle cause della malnutrizione dei bambini è la povertà, ma una parte è legata all’ignoranza, quindi pensiamo che si possano usare i media, in particolare la radio, per ridurre l’impatto della malnutrizione nel paese. Vogliamo fare la promozione dei prodotti locali disponibili, di facile accesso e che possono contribuire a migliorare la situazione nutrizionale dei bambini».
Preparati i programmi sulle campagne di informazione si cercano finanziamenti. Una volta trovati firmano contratti con diverse radio perché ci sia la più larga diffusione. Con la rete delle radio associative si riescono a trattare prezzi abbordabili, in quanto la sensibilizzazione sulle tematiche affrontate rientrano nella vocazione di questi media.
Alteative supera i propri confini, partecipando a progetti per la sensibilizzazione sui diritti umani, con radio dei vicini Mali e del Burkina Faso.
Progetti, questi, finanziati dall’Agenzia internazionale della francofonia (Aif). Attualmente, insieme alle radio associative e comunitarie del Niger, stanno trasmettendo una serie sulla partecipazione politica delle donne  nella prospettiva delle elezioni (previste a novembre).

L’ossessione dei fondi, e dell’indipendenza

«Abbiamo una grande preoccupazione: quella di restare indipendenti, ma l’indipendenza resta qualcosa di molto difficile». Moussa Tchangari continua a raccontare: «Ci provammo già ai tempi del giornale, il quale poteva avere la pubblicità. Ma il contesto era difficile, per cui non riuscivamo più ad auto finanziarci».
Cominciano così altre attività, che potevano portare un po’ di soldi, come la video produzione. Poi partecipano a programmi di sviluppo con partner inteazionali, come Oxfam Movib (Paesi Bassi), Cooperazione svizzera, l’Acdi (Agenzia canadese di cooperazione e sviluppo internazionale), e la fondazione del miliardario Soros. Quest’ultima ha finanziato, ad esempio, la radio di Zinder.
Mentre l’Acdi, nell’ambito di un programma di rinforzo della società civile in Sahel ha permesso l’installazione dell’emittente di Niamey. «L’investimento iniziale per far partire una radio è elevato e da soli non abbiamo abbastanza mezzi».
Alteative espaces citoyens ha oggi circa 550 membri che pagano una quota associativa e vi lavorano una trentina di persone, alcuni salariati altri volontari.

Alteativa sì, ma scomoda

Ma la vita per un’associazione come Alteative non è affatto facile e le battaglie sono sovente «scomode» per il potere.
Ricorda il segretario generale: «Abbiamo conosciuto molte difficoltà nel nostro percorso. Abbiamo vissuto repressioni di tutti i tipi.
Io stesso sono stato arrestato più volte, picchiato, umiliato. Altri membri sono stati perseguitati. Compreso il nostro presidente. Né possiamo dire che oggi queste vicende siano totalmente escluse. Noi esistiamo, prima di tutto, perché siamo un gruppo autonomo che si batte. Questo è legato alla nostra determinazione.
Facciamo parte di quelle organizzazioni che il regime al potere in Niger vorrebbe vedere scomparire».
Fin dall’inizio il gruppo di studenti è stato attivo nella lotta per la democrazia: «Tutti i regimi che si sono succeduti dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi hanno accettato difficilmente il lavoro che facciamo: critichiamo, denunciamo, mobilitiamo la gente per battersi e approfondire la democrazia, perché i diritti siano concreti».
Nel 2005 Alteative ha animato l’importante movimento sociale di protesta. Per questo il regime ha chiuso la radio, che faceva uno straordinario lavoro di mobilitazione.
Tchangari è stato rinchiuso nella prigione di alta sicurezza, dove mettono i criminali pericolosi. Il governo aveva preso misure economiche molto gravi con un impatto terribile sulla vita della gente: l’aumento delle imposte fisse (tva) su prodotti di base: riso, acqua, elettricità, farina di grano, latte, zucchero.
I prezzi si sarebbero impennati di colpo, influenzando direttamente la vita della gente. «Abbiamo fatto un gran lavoro attraverso la radio affinché la popolazione comprendesse l’impatto di queste misure. Questo ha generato mobilitazioni straordinarie a Niamey, con più di 100 mila persone nelle strade. E lo sciopero generale: in giro non c’erano neanche le venditrici di frittelle. Il successo delle manifestazioni ha fatto pensare al governo che il nostro obiettivo fosse quello di rovesciarlo. Cosa che non è neanche alla nostra portata».
In seguito al movimento l’Iva è stata tolta su alcuni prodotti e mantenuta su altri. «È stato raggiunto un accordo, che per me è un bidone, perché frange della società civile sono state comprate dal potere. Noi abbiamo rifiutato di partecipare alla negoziazione».

In prima linea ai Forum sociali

Asc partecipa a tutte le lotte della società civile contro le ingiustizie sociali reali, in parte dovute alle politiche neoliberali imposte dalle organizzazioni finanziarie inteazionali.
È parte attiva del movimento altermondialista, della dinamica del Forum sociale mondiale (Fsm) e di quello africano, fin dalla loro creazione.
Assicura, inoltre, il segretariato del Forum sociale nigerino, e ha organizzato il quinto Forum sociale africano a Niamey (novembre 2008).
Nel 2010 vorrebbero (il condizionale è d’obbligo, vista la situazione politica) organizzare il Fsm tematico su migrazione, ambiente e sovranità alimentare.
«Ci hanno ostacolati nel 2006, nell’organizzazione del Forum sociale nigerino. Dicevano che volevamo mobilitare migliaia di contadini con l’obiettivo di prendere il potere. Che avremmo messo nella testa della gente che è possibile avere uno stato che garantisce tutto».
«Nel 2007 il governo ha minacciato di espellere i nostri partner dal paese, in particolare Oxfam, e di sciogliere la nostra organizzazione.
Questo perché avevamo fatto un’inchiesta nella regione di Tillabery sulla situazione alimentare e volevamo organizzare un atelier per presentare i risultati. Le autorità erano state invitate.
Noi abbiamo voluto andare avanti perché siamo nel nostro paese, nessuno può impedirci di fare un incontro. Se vogliono sciogliere le organizzazioni hanno solo daå farlo. Noi ci siamo battuti affinché ci sia la democrazia e il minimo è la possibilità di esistere come entità autonome, e siamo pronti a tutto per questo.
La gente che gestisce il paese ci conosce ed è cosciente della nostra determinazione». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Le radio che rompono il silenzio

Malawi: le emittenti comunitarie

In un paese dove l’analfabetismo interessa buona parte della popolazione, la radio è uno strumento di informazione e comunicazione essenziale. «Radio Umoyo» è un’emittente nata dalla comunità: parla di temi difficili come l’Aids, l’Hiv, le malattie a trasmissione sessuale, ma anche di argomenti pratici riguardanti l’agricoltura e la pesca.  Proprio per gli argomenti trattati, le radio comunitarie non sono ben viste dal potere e in generale da chi ha interesse a mantenere uno status quo, fatto di miseria ed ingiustizia.

«Il mio amico ha l’Aids, ma sarà mio amico per sempre» (1), cantano i ragazzi del gruppo Yaga (Youths against Aids) ai microfoni della «Umoyo Broadcasting Station, Wailesi (2), wa anthu», la cui traduzione suona più o meno così: «La comunicazione vitale per la gente, l’informazione che permette alle persone di vivere». Il solista, che ripete lo stesso motivo in modo «rappato» (3), è accompagnato da un basso, da una chitarra elettrica e da una batteria realizzata con materiali di scarto: i cerchioni di una macchina come piatti, cartone per la cassa e una molla fatta di fili di alluminio per pedale.
Radio Umoyo trasmette dal villaggio di Saiti Kadzua, nel distretto di Mangochi, situato sulla punta sud del lago Malawi, che segna il confine con il Mozambico. Si tratta di una radio comunitaria, gestita da giovani, che parlano ai loro coetanei di prevenzione dell’Hiv ed altre malattie sessualmente trasmissibili, discutono di pratiche tradizionali pericolose per la salute ed invitano la gente a non discriminare chi, coraggiosamente, «rompe il silenzio» e dichiara il proprio status.
I messaggi sono trasmessi nella forma di brevi radioromanzi, sketch radiofonici in cui, partendo da situazioni-tipo stile Nollywood (4) e facendo ricorso alle tradizionali tecniche del dramma, gli interpreti illustrano le conseguenze di una condotta sessuale disordinata.
In studio si alternano come ospiti tutti gli attori della società locale: i leader delle confessioni religiose, i guaritori (sinanga) e le levatrici tradizionali (tradizional birth attendants), personaggi capaci di influenzare il comportamento della popolazione.
Umoyo, infatti, è «la radio della gente» (wa anthu, gente, che pronunciato suona come il one… two… con cui gli annunciatori aprono le trasmissioni), perché i programmi sono costruiti a partire dai bisogni, dalle storie e dal vissuto dei membri della comunità e sono trasmessi in un linguaggio culturalmente condiviso.

Mentre si costeggiano in auto villaggi e mercati, è comune veder camminare, sul bordo della strada, un uomo con una radio in spalla, fedele compagna nel tragitto verso casa, al campo o al pascolo. Intanto, sotto un albero del villaggio, o nello spazio antistante la scuola o la casa del capo, è riunito un piccolo gruppo di persone. In mezzo a loro spicca una coloratissima radio a manovella, acquistata grazie al finanziamento di qualche agenzia o ong internazionale. Il gruppo è sintonizzato sul programma preferito: Market on the air di «Radio Dzimwe», con i suoi annunci interminabili visto che tutti hanno qualcosa da vendere.
Il gruppo costituisce un «listening club» (5), che si riunisce per ascoltare insieme i programmi, al termine dei quali un animatore comunitario, leader del gruppo, raccoglie e registra i commenti e le osservazioni, che sono poi inviate e trasmesse dalla stazione radio. In questo modo, anche gli abitanti dei villaggi più remoti, possono dialogare, attraverso la radio, con le autorità, che difficilmente visitano le zone rurali, sui temi che gli stanno più a cuore: salute, educazione, cittadinanza.
In un caso, per esempio, il ministro della salute è stato invitato da una comunità a rispondere sul tema della corruzione presente all’interno del centro di salute locale. La comunità aveva registrato «le voci del villaggio» e aveva inviato le registrazioni al ministro. Quando il programma è stato trasmesso, il ministro aveva già preso dei provvedimenti. 
Visto che la maggior parte degli ascoltatori dipende dall’agricoltura di sussistenza e dalla pesca, i programmi più gettonati, oltre a quello dedicato alla vendita dei prodotti, sono: «Ulimi Wokhazikika», che si occupa di agricoltura sostenibile su base familiare; «Tisodze», dedicato alla legislazione sulla pesca, in cui si indicano periodi consentiti e restrizioni; e «Zachilengedwe», che tratta della conservazione e corretta gestione delle risorse naturali. Altrettanto seguiti sono quelli in cui si parla di salute riproduttiva, violenza contro le donne e le ragazze, e di attività generatrici di reddito.
Umoyo, però, è l’unica radio che si concentra sulla prevenzione dell’Aids e sul rapporto tra infezione e pratiche culturali, sul cambiamento comportamentale ed i Plawas (6), i sieropositivi. La radio dà voce anche a loro, incoraggiandoli a combattere i pregiudizi di chi crede che un semplice contatto con un malato possa determinare il contagio.
In una società chiusa come quella rurale malawiana, l’individuo emarginato dalla comunità è estremamente fragile. Per questo motivo non sono rari i casi di coloro (soprattutto donne) che, appreso l’esito del test, si sono tolti la vita, per paura del giudizio e del rigetto della comunità.
Così mi raccontava Kinsley Pota, il primo sieropositivo a dichiarare il proprio status nel distretto di Mangochi: «È stato molto difficile aprirmi e farmi accettare dalle persone, ma sapevo che dovevo farlo per permettere a tutti gli altri di svelare la propria condizione ed accedere alla cura». Kinsley ha fondato così un’associazione di promozione dei diritti dei Plwas e sensibilizzazione della popolazione, la Maso, che in chichewa significa «occhi»: occhi per vedere e comprendere il virus e la realtà di chi convive con esso.

La radio, dunque, è uno strumento insostituibile e necessario di informazione e comunicazione in Malawi (7), soprattutto in zone come quella di Mangochi, dove l’87% della popolazione non sa leggere e scrivere.
Purtroppo però, la maggior parte delle radio sono in mano al governo (come il caso di MBC Radio 1 e MBC Radio 2 FM, che dominano quasi completamente la radiocomunicazione), a singoli politici (come Radio Joy FM, di proprietà dell’ex presidente Bakili Muluzu) e potenti gruppi locali (Zodiak Radio Statio) o a gruppi religiosi (Cfc; African bible college, Abc; Calvary family church radio; Christ for all nations; Radio Alinafe; Radio Islam; Trans.World e Radio Maria). Molte radio private, poi, si concentrano solo sull’intrattenimento musicale (come FM101 e Capital Radio 102.5).
Inoltre, la maggior parte di queste trasmette solo in inglese e in chichewa (8), mentre le radio comunitarie trasmettono in tutte le lingue predominanti nella regione ove queste sono ubicate. Ciò significa che le radio comunitarie contribuiscono alla preservazione della diversità socio-culturale del Paese e ad ampliare il pubblico radiofonico, visto che la gente si sente più invogliata ad ascoltare i programmi nella propria lingua.
Al momento però sono solo 5 le radio comunitarie funzionanti: Radio Dzimwe, Mzimba Community Radio Station, MJI FM, Nkhotakota Community e Radio Umoyo.
La prima, che opera dal 1997 da Monkey-Bay, ma anche in parte dei distretti di Ntcheu, Balaka e Dedza, è stata realizzata dall’Associazione di donne Mamwa’s. (Malawi Media Women’s Association). Con un raggio di copertura di circa 100 km raggiunge 3.2 milioni di persone, con lo share di ascolti più alto nel distretto di Mangochi.
Il loro impatto è dunque limitato rispetto a quello delle radio «di stato», commerciali e religiose.
Queste inoltre non possono fare pubblicità e non ricevono finanziamenti pubblici, e quindi la loro sostenibilità è sempre precaria. Infine, non possono dare notizie e parlare di politica.
La gente dei villaggi è molto lontana dalle vicende politiche del paese, e viene coinvolta solo al momento delle elezioni. Le donne vestite con il chitenge (9) del colore del partito su cui è stampata la faccia del candidato che le ha reclutate per danzare e cantare durante la sua campagna elettorale, non sanno neanche chi sia e non hanno idea dello schieramento cui questo appartiene.

I programmi trasmessi dalle radio comunitarie, costruiti con l’apporto dei club di ascolto, rappresentano dunque l’unica possibilità, per gli abitanti delle aree remote, tradizionalmente esclusi dalla vita politica del Paese, di conoscere e discutere le decisioni che li riguardano.
Se le radio comunitarie riusciranno a mantenere una loro autonomia e a conquistare un’audience sempre crescente, potranno rappresentare in futuro uno spazio reale di dibattito e formazione di una coscienza civile critica, ancora pressoché inesistente, non limitandosi quindi solo a denunciare povertà e malattie, ma discutendo le loro cause, che vanno al di là dei comportamenti individuali.
Non basta infatti condannare pratiche «tradizionali», che sarebbero responsabili della diffusione del virus, senza dire che quelle stesse pratiche (come per esempio il «property grabbing», per cui la donna vedova o divorziata è privata di ogni bene dai parenti del marito ed è costretta a prostituirsi) sono sostenute o tollerate da un quadro istituzionale e da un apparato normativo retrogrado. Così come non si può parlare di stagnazione economica – attribuita generalmente alla pandemia dell’Aids e alla siccità legata al cambiamento climatico – senza puntare il dito anche sulla iniqua distribuzione delle terre, eredità del passato coloniale, la corruzione dilagante, e i privilegi di una minoranza che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo. 

di Silvia Zaccaria

Note
(1) «Eh Sanghabazi, my friend has got Hiv-Aids, but he will my friend for ever». Il testo, scritto da «Prince» Isaac, alterna l’inglese al chichewa, l’altra lingua ufficiale del Malawi.
(2) Wailesi è la corruzione locale della parola «wireless».
(3) Il rap costituisce attualmente il linguaggio musicale di maggior successo e presa tra i giovani del Malawi.
(4) Il termine fa riferimento alla produzione cinematografica nigeriana, destinata soprattutto all’homevideo, che costituisce attualmente la terza industria cinematografica mondiale dopo Hollywood (Los Angeles, Usa) e Bollywood (Bombay, India). Diretta prosecuzione di una forte tradizione teatrale e performativa, strumento importante di comunicazione popolare in Africa, anglofona in particolare, i film nollywoodiani riflettono su tematiche legate ai grandi dilemmi morali e alle problematiche tipiche dell’Africa contemporanea. Alcuni promuovono la fede cristiana o quella islamica, mentre altri sono completamente evangelici. Spesso, tuttavia, riflettono su questioni legate proprio alla convivenza e all’interazione tra persone di fedi diverse, altri trattano di argomenti forti come l’Aids, la corruzione, l’adulterio e l’emanicipazione femminile.
Sul cinema africano si legga: Marco Bello, Mc maggio 2009.
(5) Club di ascolto.
(6) Sigla di «People Living with Aids», persone portatrici di Aids, sieropositivi.
(7) La radio in Malawi raggiunge circa il 90% dei 13 milioni di abitanti.
(8) Fatto questo molto limitante ed escludente, considerando che in Malawi ci sono 14 etnie che parlano più di 25 lingue inintellegibili tra loro.
(9) È la veste tradizionale utilizzata dalle donne per coprire il corpo dalla vita alle ginocchia. Il giallo, per esempio, contraddistingue i sostenitori dell’UDF (United Democratic Front), mentre l’azzurro caratterizza quelli del DPP (Democratic Progressive Party), partito dell’attuale presidente Bingu Mutharika.

Silvia Zaccaria




Quando i matti regalano la felicità

Argentina: Radio «La Colifata»

Dal settembre 1991 trasmette ogni sabato dalle 14.30 alle 19.30. È una emittente particolare, essendo nata all’interno dell’ospedale neuropsichiatrico Borda di Buenos Aires. A condurla ci pensano pazienti ed ex pazienti. Oggi Radio La Colifata è famosa (ed imitata) anche grazie al cantante Manu Chao, ad uno spot pubblicitario, a documentari. Ma i protagonisti non si sono «montati la testa». Forse perché sono «matti»…

Buenos Aires. Sulla parete, sull’unica parete, c’è un mosaico con un disegno naïf. Sulla destra trova posto un mondo, sulla sinistra una mezzaluna circondata da stelle, tra l’uno e l’altra un trenino che sale una china con le sue carrozze, ognuna delle quali ospita il volto di una persona.  
Davanti a quella parete, a quell’unica parete, ci sono dei tavolini sui quali sono stati disposti un mixer, un paio di computer portatili e alcuni altoparlanti. Il resto è costituito da alberi e panchine. È in quest’ambiente che ha il proprio «studio» un’emittente radio particolare, probabilmente unica, che di nome fa La Colifata.
Ma non è il fatto di lavorare all’aperto la caratteristica principale di questa radio. La circostanza che la rende unica è di trasmettere dal cortile interno del Borda, vecchio e decadente ospedale neuropsichiatrico (oggi rinominato «ospedale psicoassistenziale interdisciplinare») di Buenos Aires. E soprattutto di essere una radio fatta da pazienti ed ex pazienti. Una scommessa che ormai dura da quasi 20 anni: La Colifata è nata nel settembre del 1991.
La diretta e le registrazioni (da distribuire ad altre radio o da diffondere via web) si fanno ogni sabato pomeriggio nel cortile alberato del manicomio, dove prendono posto tutti coloro che vogliono partecipare.
Oggi ci sono una ventina di persone e una piccola troupe televisiva francese. Fin dal suo esordio, l’esperienza de La Colifata ha infatti richiamato, oltre a medici e psicologi, anche giornalisti, produttori e artisti da ogni parte del mondo.
Su una lavagna nera con il gessetto è stato scritto il palinsesto della trasmissione odiea. Musica e parole in una situazione piacevolmente rilassata. Qualcuno dei presenti improvvisa un ballo, con in bocca una sigaretta, perenne oggetto del desiderio. Quando una canzone termina, chiunque può andare al microfono. Le persone si presentano, salutano, esprimono opinioni, cantano.  
Lo fa anche Hugo Norberto López, classe 1934, con una voce squillante e un intervento carico di umanità ed ottimismo. «Queridos amigos…». Hugo è la esplicitazione della terapia della parola, è la rottura dell’isolamento tra manicomio e società, è la connessione tra «il dentro» e «il fuori».
Ormai lui è un volto piuttosto conosciuto, anche oltre i confini argentini. Lo si è visto con il suo faccione simpatico, i suoi grandi occhiali e la sua verve in una pubblicità spagnola della Aquarius, dove gli attori sono i matti de La Colifata. Aquarius non è un prodotto alternativo o equosolidale, anzi è proprio il contrario, trattandosi di  una bevanda della Coca-Cola. Tuttavia, bisogna ammettere che il film pubblicitario è molto ben fatto, sprizzando ironia e gioia di vivere. È proprio Hugo che chiude lo spot con un benaugurante: «L’essere umano è straordinario».
Per Hugo e i colifatos non è l’unica esperienza nel mondo dello spettacolo. È del 2007 la partecipazione ad un videoclip musicale di Manu Chao, noto cantante francoiberico che da anni collabora con La Colifata. Il film, titolato Rainin in Paradize, è stato girato da Emir Kusturica, regista e musicista serbo di fama internazionale. Nel video Hugo e gli altri «fanno i matti», alternandosi con immagini di paesi in guerra, cui la canzone di Manu Chao è dedicata. 
 
Maglietta bianca e grandi occhiali, Hugo è abituato ad essere oggetto di attenzione, ma il suo entusiasmo rimane sempre genuino, travolgente e coinvolgente.
«Sono Hugo López, per età il più vecchio della Colifata. La frequento da 8 anni. Io sono stato inteato nel 1986. Mi diedero una montagna di psicofarmaci. Va bene, quando uno ha una crisi, ma quando la crisi passa, perché continuare con essi?».
Chiediamo come mai Radio La Colifata trasmetta all’aperto. «Semplicemente – risponde -, perché non abbiamo studi. Però credo che ci sia anche uno spirito di libertà in questa scelta».
Libertà in una radio nata in un manicomio e fatta da matti sembra un controsenso… «Ma è così – spiega -. I mezzi di comunicazione di massa fanno sì che la gente abbia paura. Non so se lo fanno a proposito. Per questo, anni fa, abbiamo venduto la nostra casa e siamo andati a vivere in un appartamento. Però la paura paralizza. Non bisognerebbe avere paura».
Quanto al Borda, è un ospedale decadente, ma occupa una vasta area verde che fa gola a molti speculatori. «Sì – conferma Hugo -. Il Borda sorge sui terreni più ambiti della zona sud di Buenos Aires. Si chiamano “Los Altos de Barracas”. Ci sono gruppi di potere che vorrebbero questa zona per trasformarla in un country o comunque in un luogo privato. Però questo terreno è di tutti noi. Dobbiamo fare in modo che la gente venga qui ad approfittare degli alberi e dell’ossigeno. Questo è un luogo da aprire come si aprì il manicomio di Trieste per merito di Franco Basaglia. Ho una grande ammirazione per lo psichiatra italiano, soprattutto perché si battè contro l’oscurantismo».
Nel dialetto locale el colifato significa «loco lindo, loco bueno», ovvero il matto che vorrebbe vedere tutti felici. Ma cos’è la felicità, chiediamo a Hugo, sfidando le leggi dell’ovvietà. Ma lui non delude le aspettative, rispondendo: «È quando tutti possono mangiare, avere un’educazione. Insomma, un delirio, un’utopia».
Hugo è sposato. «La mia signora – dice –  ha 70 anni. Fortunatamente abbiamo una vita degna».
Lui ha studiato e lavorato nel campo dell’arte grafica. «Per 33 anni – specifica -. Adesso sono pensionato. Sfortunatamente, la pensione è rimasta congelata per molto tempo. Però adesso pare che la attualizzeranno. In tanti non abbiamo a sufficienza per vivere e per mangiare. Ma così lo stato spende di più, perché quello che risparmia sulle nostre pensioni, lo spende in medicine, ricoveri e terapie. A meno che non sia fatto tutto a proposito: più malati, più business per l’industria della malattia».
Hugo stronca la filosofia neoliberista applicata nel suo paese. «In Argentina si è distrutta la scuola pubblica per favorire quella privata. Così oggi si distruggono gli ospedali pubblici per favorire quelli privati. Tutto si converte in lucro, in commercio. Le cose necessarie non dovrebbero essere legate al guadagno: l’alimentazione, la luce, l’acqua. Non dovrebbe esistere una differenza tra chi può pagare questi beni e chi no. Crescono l’invidia e il risentimento. E la corruzione. Il denaro è sinonimo di successo, indipendentemente dal fatto che la persona sia un ladro, un degenerato o altro».
Dunque, il futuro è grigio? «Un conoscente – racconta – si lamentava dell’Argentina, della corruzione, di una strada senza uscita. Questa persona aveva con sé due figli, allora gli ho detto: “Ma come fai a dire questo se hai messo al mondo due creature? Devi avere speranza. Dopo di ché ha chiuso la bocca perché non sapeva cosa rispondermi».
Ma dove sta la speranza? «Quando ci sarà un cambio nel sistema di produzione, allora cambierà anche il modello sociale cambierà in meglio. Questo significa che l’uomo si ammalerà meno».
Gli chiediamo di esplicitare questa sua idea. «Viviamo in una società basata sul denaro. Alimentazione, salute, abitazione, educazione dovrebbero non essere commerciali, ma beni accessibili a tutti. Ci sarebbero meno malati, meno carcerati e molta più gente felice. Se l’uomo avesse queste 4 condizioni assicurate, tutto sarebbe migliore. Ognuno facendo qualcosa, non vivendo da parassita, sia chiaro questo».
La conversazione è interrotta dall’arrivo di Claudia Alejandra, una simpatica signora con i capelli bianchi legati sulla nuca. Lei è stata inteata al Mojano, il manicomio femminile che confina con il Borda e del quale serba un pessimo ricordo. Salutata Alejandra, Hugo riprende il filo del discorso.
Lui è come un torrente in piena, ma benefico, rinfrescante. Intona una poesia e poi mi mette in mano un Cd musicale: «Canciones para la oreja izquierda», Canzoni per l’orecchio sinistro. È firmato dal «Frente de artistas del Borda», il Fronte degli artisti del Borda, un gruppo che organizza laboratori artistici con i pazienti dell’ospedale.
«Sono 16 pezzi  – racconta Hugo  -. Io ho interpretato due brani: Pedacito de cielo e A mis amigos».
Considerando che il nostro matto ha già lavorato per uno spot pubblicitario e per Manu Chao, certamente anche quest’altra performance artistica sarà all’altezza.

«Hasta que los muros caigan», fino a quando i muri cadranno. Muri fisici e muri psicologici ce ne sono molti e non soltanto tra sani e malati, tra cosiddetti «normali» e cosiddetti «matti». L’incredibile esperienza di Radio La Colifata ha fatto breccia. Ha portato frutti. E seminato. Oggi, in giro per il mondo, ci sono molte esperienze che si rifanno alla radio nata nell’ospedale Borda di Buenos Aires. Una scommessa pazza. Una scommessa vinta.  

Di Paolo Moiola

Radio La Colifata

Fondazione: agosto 1991, per merito di Alfredo Olivera, psicologo.

Luogo:  Ospedale psicoassistenziale interdisciplinare José Tiburcio Borda, rua Ramon Carrillo 375, barrio Barracas, Buenos Aires.

Trasmissioni:  ogni sabato dalle 14.30 alle 19.30; i programmi vengono ritrasmessi nel corso della settimana da altre radio e dal web.

Video su La Colifata: 2008, spot per Aquarius, bevanda della Coca-Cola; 2007, Rainin in Paradize, videoclip per il cantante Manu Chao diretto dal regista Emir Kusturica; 2004, film documentario La Colifata di Valentina Monti e Mirta Morrone. A La Colifata è stata dedicata un’apposita sezione all’XI edizione del «Festival inteacional cine de derechos humanos» di Buenos Aires 2009.

Articoli su La Colifata: Veronica Gago, «La pazzia come forma di resistenza» in America Latina dal basso, a cura di Marco Coscione, Edizioni Punto Rosso / Carta 2008; Ruben H. Oliva, «Radio libera follia», D-Donna de la Repubblica, 5 aprile 2008.

Sito web: www.lacolifata.org

Emittenti similari in Italia:
• Radio 180, Mantova, www.radio180.it 
• Radio Fragola, Trieste, www.radiofragola.com

Paolo Moiola