AMORE GENERA AMORE

Da genitori a nonni (adottivi)

Una coppia di volontari sbarca in un paese centroamericano per mettersi al servizio dei desplazados. Ma diventa anche famiglia adottiva. Storia di altri tempi o … sono solo cambiate le procedure?

La storia della nostra famiglia inizia nella tragedia, ma ha un lieto fine.
Finora, per pudore e riservatezza, non l’abbiamo mai raccontata a chi non ci conosce, anche se l’hanno ascoltata dalla nostra voce tanti amici e conoscenti. Oggi, tuttavia, pensiamo che la nostra piccola, ma felice avventura possa contribuire ad infondere fiducia a genitori e figli che stanno formando una famiglia attraverso l’adozione, in un periodo in cui la nostra società fa così fatica a trovare motivi di condivisione e di speranza.

Dal lontano Salvador

I nostri figli sono orfani di guerra: i loro genitori Eugenia e Alejandro sono stati uccisi a Ayutuxtepeque in El Salvador, vittime degli squadroni della morte, addestrati per fermare il comunismo nel piccolo paese centroamericano. Nel periodo dal 1979 al 1991, il popolo salvadoregno ha pagato alla «Guerra fredda» tra Usa e Urss un tributo di sangue altissimo: villaggi rasi al suolo, uccisioni, torture, sparizioni; i morti sono stati 70.000, i feriti non sono mai stati contati. La repressione colpiva soprattutto quella parte della chiesa cattolica che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, sancita dalla Conferenza episcopale latinoamericana di Medellin. Sono stati uccisi decine di sacerdoti, suore, insegnanti, catechisti. Il 24 marzo del 1980 il vescovo Oscar Aulfo Romero è stato assassinato mentre celebrava l’Eucarestia.
Eugenia e Alejandro non erano ribelli armati, erano solo dei contadini, ma la notte del 10 marzo 1982 sono stati prelevati dalla loro casa, strappati ai loro figli e fucilati dalla Policia de hacienda, assieme ad altre venti persone del loro villaggio. La strategia della repressione militare era quella di «togliere l’acqua al pesce»: impedire, seminando il terrore, che la guerriglia ricevesse appoggio dalla popolazione rurale.
Dopo qualche mese, nell’ottobre del 1982, arrivammo in Salvador, giovani coniugi, volontari dell’associazione Mani Tese, impressionati dalle terribili testimo- nianze che arrivavano da quell’angolo del mondo. Con l’aiuto dei Padri Somaschi abbiamo realizzato il primo progetto di Mani Tese a favore dei desplazados, i poveri che arrivavano nella capitale fuggendo dalle aree dove esercito e guerriglia si combattevano. Sempre grazie ai Padri Somaschi abbiamo fondato la nostra famiglia: sono stati loro, infatti, a parlarci di quattro fratellini rimasti senza genitori e rifugiati nella parrocchia di un giovane sacerdote, cugino della madre uccisa.

Una nuova vita

All’epoca, in Italia l’adozione internazionale non era regolamentata da una legge specifica, semplicemente era deliberato il provvedimento del paese di origine del bambino. Dal canto loro, le autorità salvadoregne non stavano a sottilizzare: gli orfani erano un peso economico e un problema sociale, meglio facilitae l’affidamento a coppie straniere.
Così nel giro di un paio di mesi ci ritrovammo genitori di tre bambine, di 8, 4 e 3 anni e di un maschietto di 12 mesi.
Quando rientrammo in Italia, nel dicembre del 1982, ci presentammo al Tribunale dei minorenni di Milano che, superato lo scetticismo iniziale, ci sottopose alla procedura per ottenere l’idoneità che ci fu concessa alla fine del 1983.
Mentre affrontavamo gli aspetti giuridici e burocratici, anche con la benevola assistenza degli operatori del comune della nostra cittadina, la vita famigliare si avviava alla normalità.
Fin dal primo giorno, i bambini si sono adattati alla nuova vita, accettando tranquillamente le tante diversità: la lingua, il clima, i vestiti pesanti, la casa.
Dal punto di vista affettivo, fummo subito accettati come il nuovo papà e la nuova mamma e amati senza condizioni. Un amore grande che incluse immediatamente i nonni, gli zii, gli amici e tutti coloro che venivano in contatto con la nostra famiglia.
Tante volte ci siamo interrogati su questo inizio così «liscio», trovando delle risposte empiriche: i nostri figli non hanno subito il trauma dell’abbandono, non sono stati in istituto, la causa della loro sofferenza era estea alla famiglia, noi abbiamo conosciuto e, in parte condiviso, la loro storia…tutto vero, ma è anche vero che i bambini si affidano senza riserve a chi li cura e, sempre senza riserve, sono disposti ad amare chi li ama.

Non siamo superman

Certo è stato faticoso, lavoravamo entrambi e dovevamo gestire una famiglia di sei persone, tuttavia ce l’abbiamo fatta.
Non ci sentiamo né diversi né, tanto meno, migliori di tanti altri genitori.
I nostri figli sono cresciuti come tanti altri figli, tra successi e problemi, tra soddisfazioni e difficoltà. Oggi sono quattro adulti con una loro vita affettiva e professionale ma, quello che più conta ai nostri occhi, è che sono persone serene, sensibili e generose.
Il colore della loro pelle non ha mai creato imbarazzo in seno alla nostra famiglia e alla nostra comunità, neppure quando erano gli unici bambini «diversi». Oggi in una società, attraversata da un razzismo più sbandierato che reale, il loro aspetto «extracomunitario» e la loro identità italiana servono a far capire, anche ai più ottusi, che il mondo è in evoluzione e che la diversità è un fattore di crescita.
Quest’anno la nostra famiglia è cresciuta: nostra figlia maggiore e suo marito hanno concluso un’adozione internazionale e sono diventati genitori di tre sorelline messicane di 8, 4 e 3 anni.
Ad accogliere la nuova famiglia in aeroporto c’eravamo tutti: nonni, bisnonni, zii, prozii, amici, colleghi. La nostra allegria è risultata contagiosa, anche le altre persone davanti agli arrivi inter- nazionali hanno voluto partecipare, tenendo palloncini colorati e cartelli di benvenuto.
Avremmo, forse, dovuto essere più discreti, ma la nostra commozione era incontenibile e le bambine ci hanno ricambiato con i loro visetti sorridenti e gli occhi che brillavano. Una nuova famiglia è nata e dovrà fare il suo cammino, affrontando le giornie e i dolori di ogni famiglia. Come genitori adottivi, sentiamo una profonda riconoscenza verso nostra figlia e nostro genero che ci hanno reso nonni adottivi.
Grazie a queste bambine, la nostra famiglia sta vivendo una nuova esperienza, così densa di emozioni che vorremmo farla partecipare al mondo intero.
Ecco perché l’abbiamo voluta raccontare: la nostra storia dimostra che l’adozione è una scelta di amore che genera altro amore e semina felicità.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Una marcia in più/ L’arrivo dei «magnifici tre»/ Il lungo viaggio

Storie di adozioni

Anna e Gino / Una marcia in più

Anna e Gino, hanno una figlia di quattro anni «biologica» come si dice in gergo e hanno avuto in adozione un bimbo cambogiano di 17 mesi.
Anna. L’idea di intraprendere il percorso dell’adozione internazionale è nata durante l’adolescenza, nei miei primi viaggi in Inghilterra, venendo a contatto con una società multirazziale. Mi sono chiesta perché l’Italia non fosse così. La prima idea, in realtà, era stata sposare uno straniero, magari di colore. Poi subito dopo ho iniziato a pensare all’adozione. Questa volontà si è poi rafforzata alla nascita di Eleonora, sperando anche che questo avrebbe potuto insegnarle valori positivi di tolleranza e solidarietà.                             
Gino. Nell’ambito scout ho conosciuto persone adottate o in affidamento e mi è sembrata una buona cosa. Una opportunità per un bambino (magari non l’unica), ma anche per la coppia. Come al solito è uno scambio. Con Anna è stata una bella sorpresa condividere l’idea, meglio ancora realizzarla.

Durante il percorso per diventare genitori adottivi le difficoltà incontrate sono state poche. Abbiamo vissuto l’iter con molta serenità, non ci siamo mai sentiti giudicati, forse perché eravamo molto convinti della scelta e delle motivazioni, e crediamo che questo in qualche modo abbia influito positivamente anche su chi doveva esprimere effettivamente un giudizio.
Ovviamente avevamo le spalle coperte dal fatto di avere già una figlia e pure piccola, che quindi assorbiva totalmente la nostra attenzione nei tempi morti, quelli che di solito sono vissuti con molta ansia dagli aspiranti genitori adottivi.
Non abbiamo affrontato il cammino adottivo con la tensione delle coppie senza figli, che sentono l’urgente bisogno di dare e ricevere affetto e sono spesso reduci da travagli di ogni genere per ottenere una gravidanza.
Per quanto riguarda il percorso formativo previsto dai servizi  sociali riteniamo che, almeno nella nostra regione, ci sia una buona organizzazione  tesa ad informare fin dall’inizio le coppie in merito ai vari risvolti: legali, burocratici, organizzativi, educativi e affettivi.
Tra gli enti che curano l’adozione internazionale abbiamo riscontrato differenze non trascurabili.

Le prime vere difficoltà sono emerse quando, dopo l’arrivo di Yan, ci siamo resi conto che, per quanto l’avesse desiderato e fosse stata da noi coinvolta e preparata, Elenora soffriva a causa del  fratello.  Infatti un conto è immaginarsi un piccoletto da coccolare e abituarsi lentamente alla sua presenza, un altro è ritrovarselo già autonomo che pretende i suoi spazi e … i giochi.
Ci siamo così sentiti un po’ spiazzati e impreparati  nei confronti di Eleonora. Crediamo che  su questo tema enti e servizi possano fare molto per la preparazione e il supporto dei figli già presenti e dei genitori: serve una maggiore formazione della famiglia esistente.
Al momento l’attenzione che pongono enti e servizi è particolarmente concentrata verso i bambini adottati. Ma bisogna dire che i servizi si stanno attrezzando su questo.

Rispetto a Yan non abbiamo avuto difficoltà con l’asilo nido, mentre ci siamo dovuti confrontare con la scuola matea che finora non ha formato in modo specifico le maestre, le quali (a parte in alcuni casi), non conoscono il mondo dell’adozione e le implicazioni psicologiche dei bambini e dei genitori.
Dopo un inizio un po’ difficile, dopo aver fatto presente la nostra situazione e informato le insegnanti, a oggi dobbiamo riconoscere un impegno quotidiano positivo da parte loro. Mentre l’istituzione scolastica  ha fatto una dichiarazione di volontà per l’attenzione alla formazione futura delle insegnanti.

Anna e Gino

Cristina ed Enzo / L’arrivo dei «magnifici tre»

Siamo tornati da Addis Abeba con Johannes, Haliu e Hermias i nostri tre splendidi bambini etiopi di 8 e mezzo, 7 e 5 anni.
«Tutti maschi?», «Certo un po’ grandicelli … ,  speriamo in bene … », «E come farete con la scuola? Non sarà certo facile un inserimento a metà anno in un paese con una lingua ed addirittura un alfabeto diversi … », «Quindi sono neri … non che oggi le cose stiano come qualche tempo fa, ma inserire dei ragazzini di colore già grandi non sarà facile, i bimbi sanno essere crudeli a volte. E crescendo la situazione non credo migliorerà… », «Che bravi certo ne avete del coraggio … ormai così grandi e con tanti ricordi non sarà facile farsi accettare come nuovi genitori … », «Certo che tre in un colpo dopo tanti anni da soli … sarà molto dura».

Queste, grosso modo, le osservazioni di «buon senso» di quanti apprendevano la notizia del nostro abbinamento con i «magnifici tre». Grazie al cielo non difettiamo di amici che di buon senso ne hanno poco e che ci hanno incoraggiato molto a compiere questo importante passo.
Ancora una volta la realtà ha superato la fantasia.
Siamo partiti dicendoci che magari due fratellini erano meglio perché, sarebbe stato un punto forza per i nostri figli, magari anche molto diversi somaticamente e cromaticamente da noi, portarsi appresso un pezzetto della propria storia, e al contempo non recidere un legame certamente parte della loro identità. L’associazione aveva poi segnalato la presenza di diversi gruppi di fratelli che, per ovvi motivi, trovavano più difficoltà dei singoli bambini ad essere abbinati. Certo non ci sfiorava l’idea di prendere tre bambini, come declamava la piantina, pressoché definitiva, della ristrutturazione della nostra nuova casa, che esibiva una distribuzione degli spazi pensata per «sole» 4 persone.
Sull’età poi eravamo abbastanza rigidi: doveva essere entro i 5 anni! Una prima «picconata» alla nostra posizione è arrivata dal corso organizzato dal Comune: le adozioni ormai sono in gran parte di bambini già grandi, 7 – 8 anni. Del resto anche loro hanno diritto ad avere una famiglia. Non è detto che siano inserimenti più problematici di quelli dei neonati ed è importante per tutti i bambini avere genitori di un’età adeguata e non dei nonni – genitori. L’intervento, vibrante e ben argomentato ci ha messo molto in discussione, anche se non ci siamo sentiti di aumentare di molto la nostra disponibilità.
La seconda «picconata» è giunta dall’associazione che guardando le nostre carte di identità ci ha proposto una fascia di età di abbinamento dai cinque agli otto anni compiuti! Dopo qualche momento di smarrimento durante il quale abbiamo sentito dentro di noi infrangersi l’immagine del nostro bambino ideale, ci siamo un po’ ripresi pensando che, trattandosi pur sempre di una fascia teorica, magari i nostri figli sarebbero stati più verso i cinque che non gli otto.

Ebbene, a quattro giorni dal nostro ventesimo anniversario di matrimonio abbiamo ricevuto la telefonata di Silvana che ci annunciava, come una vera cicogna, la possibilità del nostro abbinamento con tre fratellini etiopi, tutti maschi, di età ecc. ecc.
Come si fa a dire «no» in questi casi? Come si fa a dire «si» in modo consapevole, evitando il rischio di una disponibilità solo emotiva che però ti tradisce nel vivere quotidiano a contatto con triplici capricci, un’organizzazione improvvisamente impazzita (lavatrice in moto perpetuo, spesa fantasiosa per mediare su gusti culinari incompatibili con i nostri, preparazione di tre bambini entro le 8,20 per l’ingresso a scuola…) , una richiesta di attenzioni che già in partenza soffre di uno scarto incolmabile di tre (figli) a due (genitori)?
Ne abbiamo parlato molto tra noi, con le nostre famiglie, con i servizi di zona e soprattutto insieme ai molti amici che ci hanno accompagnato in questo percorso. Attraverso il confronto con loro e la loro esperienza di genitori abbiamo cercato di capire che tipo di difficoltà avrebbe comportato il «si», ma soprattutto abbiamo sentito la loro vicinanza, il loro incoraggiamento e sostegno, «qualificati» da esperienze, pur faticose ma certamente positive e coraggiose, di adozione e affidamento di minori «grandicelli» vissute direttamente o da molto vicino.

E poi l’incontro. È vero. I nostri figli non sono neonati, ma neanche grandi quanto «temevamo»: preparati al peggio scopriamo che i vestiti portati, in realtà sono troppo lunghi e larghi.
Hanno ugualmente diritto ad una famiglia. Ne hanno già persa una e se lo ricordano bene.
Sono ugualmente, se non di più, affamati di coccole e attenzioni: baci, carezze e abbracci sono ancora oggi il nostro veicolo principale e reciproco di comunicazione. Anche oggi che, sempre di più ed oltre ogni più ottimistica previsione, stiamo arricchendo il comune vocabolario.
Non sono neonati ma persone con una loro autonomia (che ha i suoi lati positivi) non da plasmare a nostra immagine e somiglianza ma che ci arricchiscono e mettono in discussione con le loro domande, intuizioni, punti di vista che arrivano dall’altra parte del mondo per di più personalizzati dal loro vissuto.
Abbiamo scelto di inserirli il prima possibile nel contesto scolastico. Per noi è stata un’esperienza commovente incontrare un mondo della scuola che pensavamo perduto: una direttrice sensibile e decisa che ha posto le migliori premesse per un inserimento di successo; delle insegnanti motivate ed entusiaste e dei genitori aperti che hanno accolto i nostri figli con affetto, considerandoli una risorsa per la classe.
I nostri figli non erano nemmeno bambini. Erano adulti «per forza». Oggi si stanno riappropriando della loro infanzia. Un po’ come le loro biciclette: da grandi, come impone la loro taglia, ma con le rotelle, come richiedono l’inesperienza, la recente scoperta, il rispetto delle tappe di crescita. Ed è uno spettacolo vederli giocare con il «normale» entusiasmo tipico dei bambini.
È vero. I nostri figli non sono neonati. Del resto l’adozione non sostituisce una gravidanza, e non è giusto considerarla un suo surrogato. L’adozione non è dare la vita. È ridarla a chi l’aveva perduta. Ed è crudele negare questa possibilità nel tentativo di imitare un meccanismo riproduttivo che ci ha visti «parte lesa». Il punto di partenza qui è capovolto. In questo caso si ri-genera una persona che già c’è, certamente «lesa» nei suoi diritti di bambino.

Cristina ed Enzo

Maria Elisabetta ed Enrico / Il lungo viaggio

La scelta di adottare un bambino non è stata semplice e, tanto meno, immediata. È stato un processo lento, a tratti doloroso, che è maturato nel tempo. Abbiamo iniziato a pensare di adottare un bimbo solo dopo dieci anni di matrimonio. E forse l’averci pensato così tardi è uno dei rimpianti maggiori che abbiamo. Spesso ci diciamo che se avessimo iniziato prima, magari oggi invece che un figlio ne avremmo due o forse tre. Ma tant’è. Il destino ha voluto così, è così è stato.
In ogni caso nel processo di adozione siamo stati molto fortunati. Abbiamo presentato la domanda di adozione nel marzo 2006 e abbiamo abbracciato il nostro piccolo il 10 dicembre 2007. Un anno e mezzo è pochissimo in un processo che, in molti casi, richiede anni e anni di attesa.

Come dicevamo però non è stato un processo indolore. Anzi. I colloqui con gli assistenti sociali, i numerosi corsi ai quali si deve partecipare obbligatoriamente, i libri che si leggono sono tutti passi che, ogni volta, scavano nella coscienza dei futuri genitori adottivi e vanno giù nel profondo, causando ferite non da poco. Tutto il sistema di verifica delle capacità genitoriali è, di fatto, un processo che ti porta a prendere coscienza del tuo fallimento nella capacità di generare un figlio. E prendere atto di un fallimento non è mai facile. A questo poi si aggiungono le paure di non essere all’altezza di una sfida così importante. Il risultato è uno stato d’ansia che ci ha accompagnato per alcuni mesi, in particolar modo negli ultimi mesi prima di accogliere il piccolo. «Chi sarà il bambino? Quanti anni avrà? Qual è la sua storia?»: sono domande che ti seguono sempre. Che non ti fanno dormire. Ma a fianco di esse c’è anche il desiderio di diventare papà e mamma. Un desiderio fortissimo che attenua ogni dolore e ti dà la forza per andare avanti. Fino al giorno dell’incontro.

Per noi l’incontro è stato quasi improvviso. Il 7 novembre l’ente autorizzato al quale ci siamo rivolti ci ha chiamato. Dovevano comunicarci l’abbinamento con un bambino. Sapevamo che il piccolo era vietnamita, ma non conoscevamo né il nome, né l’età, né da quale provincia del Vietnam provenisse. Vedere la sua foto ci ha riempito di gioia. Il piccolo aveva allora cinque mesi e mezzo, era sano e, soprattutto, non aveva subito traumi psicologici. La comunicazione però non significava partenza immediata. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese prima di imbarcarci per Hanoi.

Il viaggio è stato lungo e difficile. I pensieri e le domande non ci hanno lasciato neppure un minuto. Ma non abbiamo dovuto aspettare molto per avere le risposte. Appena arrivati in albergo il telefono è squillato. «Domani mattina fatevi trovare alle 6 nella hall dell’albergo. Andiamo a prendere il bimbo», ci avvisava con voce perentoria il referente locale dell’ente. Quella notte abbiamo dormito veramente poco. E la mattina infatti eravamo stravolti. Abbiamo ancora le foto che ci siamo fatti fare dalla receptionist alle 6 di mattina. Il viaggio da Hanoi a Nam Dinh è passato velocemente. Arrivati al municipio di Nam Dinh, eravamo come in trance. Facevamo fatica a capire cosa ci stesse capitando. Ci hanno fatto firmare molti documenti. Poi a un certo punto ci siamo voltati ed è entrato il bimbo. Pallidino, spaurito, infagottato in una copertina azzurra. Ci guardava terrorizzato, poi si è messo a piangere. Dopo pochi minuti siamo ripartiti. Ed è cominciato un viaggio che non è ancora terminato.

Maria Elisabetta ed Enrico

Autori vari




GERUSALEMME: ombelico del mondo

«Che gioia, quando mi dissero: “Andiamo alla casa di Dio”. Ora i miei passi si fermano alle tue porte, città di pace» (Sal 121). Così cantava estasiato il pio israelita, quando, dopo un lungo viaggio raggiungeva il Monte degli Ulivi e poteva finalmente contemplare la città santa. Sarà stato anche il canto di Gesù, quando si recava a Gerusalemme per le grandi feste; un canto concluso con un pianto: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Luca 13,34).
Dal Dominus Flevit, la chiesetta che ricorda tale pianto, la visione di Gerusalemme conserva intatto il suo fascino e mistero. Il panorama di cupole, campanili e minareti attesta la sua singolarità: città unica e universale, dove i fedeli di tre monoteismi possono rivolgersi all’unico Dio. Gerusalemme è il centro dell’ebraismo, è il centro del cristianesimo e dal VI secolo è per l’islam «la Santa» (Al Quds). 
Nelle sue vicende storiche, spesso drammatiche, Gerusalemme è stata la città dell’incontro e continua a essere tale. È stata definita ombelico del mondo (Ezechiele 38,12); è stata cantata da salmisti e profeti quale patria spirituale e universale, in cui tutti i popoli sono chiamati a riconoscersi fratelli, anche i nemici tradizionali come Egitto e Babilonia, a causa dell’origine comune: «Raab e Babilonia… Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: l’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: là costui è nato. E danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti» (Salmo 87,4-7).
Vista dall’alto, al momento del tramonto, Gerusalemme diventa tutta d’oro, come se si specchiasse nella città gemella che attende di scendere dall’alto dei cieli e fondersi con la città terrena, come scrive l’Apocalisse. Terrena e celeste, storica e trascendente, materiale e spirituale, temporale e mistica… Gerusalemme è una realtà bipolare, possiede due volti, come ricorda il suo nome ebraico (Jerushalayim è forma duale); una duplice dimensione in perenne tensione dialettica: la Gerusalemme storica richiama quella celeste e la Gerusalemme celeste attrae quella storica e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Gerusalemme città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Un dilemma drammatico che affiora ogni volta che ci si ferma a osservare anche superficialmente il turbinio di lingue, culture, rumori, colori, vestiti e comportamenti che riempiono le stradine della città vecchia: i passi veloci dei rabbini che si recano al Muro e quelli lenti dei musulmani apparentemente senza meta; pellegrini cristiani che pregano ad alta voce a una stazione della via crucis, mentre il bottegaio fuma indifferente il suo naghilé; fogge di monaci ortodossi e suore cattoliche che s’incrociano senza guardarsi; e poi soldati che sembrano bivaccare a ogni angolo delle strade… Ciascuno vive nel suo mondo; mondi differenti che coesistono, l’uno accanto all’altro.
Sotto la scorza di tale coesistenza si celano fortissime tensioni, prima di tutto tra ebrei e palestinesi, che spesso si tramutano in proteste e scontri, e conseguenti repressioni. Tensioni fra le tre religioni monoteistiche e perfino all’interno di ciascuna di queste religioni; tensioni che pervadono anche i fedeli delle varie chiese cristiane.

Nonostante le contraddizioni della sua storia passata e presente, Gerusalemme continua a essere simbolo di tutte le attese e speranze umane. E per rispondere a tali attese è indispensabile che ebrei, cristiani e musulmani realizzino quei valori che concordano nel riconoscere come divini: frateità, amore, giustizia, pace. 
La città senza più né pianto, né lutto, né dolore, della perfetta giustizia e libertà è dono di Dio, è profezia; al tempo stesso è pure sfida e impegno umano. Da Gerusalemme la tradizione delle tre religioni vuole che parta e si concluda la storia della salvezza del genere umano.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Babele o profezia?

Chiesa e chiese in Terra santa

A Gerusalemme sono presenti 13 chiese cristiane, con culture, lingue, credi, riti, leggi, tradizioni proprie. Una varietà che risale alle origini, ma che nei secoli è diventata divisione, con conseguenti tensioni
e conflitti. Eppure oggi più che mai i cristiani della Terra santa si sentono uniti in un ricco mosaico di fede e di vita, destinato a diventare un esempio per tutte le chiese del mondo.

Il primo impatto è stato scioccante per non dire scandaloso. Dopo ore di fila riesco a sfiorare la roccia del Calvario, quando un monaco scorbutico mi sollecita ad allontanarmi; nell’edicola del Santo Sepolcro è anche peggio: il monaco assomiglia più a un buttafuori che al custode del luogo sacro. Per non parlare delle celebrazioni religiose delle diverse confessioni: riti e processioni che si susseguono con ritmo incalzante, con canti e incensi in abbondanza, ma scarsa devozione, almeno in apparenza.
Tale freddezza rituale è frutto delle tensioni esistenti tra le differenti chiese che hanno il controllo della basilica o il diritto di officiarvi: devono rispettare con scrupolo tempi e luoghi loro assegnati dalla consuetudine; la minima invasione di tempo o di campo può finire in risse furibonde.
Tali tensioni hanno origini storiche lontane e si coagulano per futili motivi nella gestione del luogo santo, regolata dal cosiddetto Status quo (vedi p. 32) fuori dal tempio, la diversità tra le chiese appare piuttosto come un dono per la chiesa universale.
In principio… era la diversità
A Gerusalemme e in Terra santa esistono ben 13 confessioni cristiane differenti e separate: tutte riconoscono la città santa come loro madre, ma faticano a riconoscersi sorelle. Da dove derivano tante differenze?
Il giorno stesso di pentecoste, fra i tre mila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua (Atti 2,5). Durante l’era apostolica la chiesa crebbe in pluralità di modi d’intendere riti e comunione, nell’unica chiesa fatta di cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo.
La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la diffusione del vangelo in tutte le direzioni nel mondo allora conosciuto e la fondazione di nuove comunità o chiese locali, che si svilupparono in differenti aree geografiche e attorno a importanti centri amministrativi e culturali, sotto la guida di un vescovo. Alle chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità sulle altre chiese. Cinque in particolare, chiamati patriarcati,   Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (pentarchia), costituirono i vertici  e punto di riferimento, attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di fuori dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
Ogni chiesa locale si sviluppò con caratteristiche proprie di lingua, liturgia, teologia, diritto canonico, spiritualità, conservando sempre la comunione e l’unità di fede, riconoscendosi parte dell’unica chiesa di Cristo. Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. 
Poi le divisioni 
L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie. I primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano) furono accettate da tutte le chiese. Non così i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
A Efeso fu condannato il nestorianesimo, che sosteneva un’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, negando a Maria l’appellativo di «madre di Dio» (Theotókos), ritenendola genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Tale concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano, in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu condannata Eutiche: affermava che Cristo ha solo la natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena.
In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
A partire dal IX secolo, con l’evangelizzazione dei popoli slavi, per opera dei santi Cirillo e Metodio e con il battesimo della Rus’ nel 988, furono stabilite altre chiese ortodosse nell’Europa orientale. Queste rimasero in comunione con la chiesa di Roma o latina fino al 1054, quando cioè, dopo un progressivo e reciproco estraneamento e per motivi politici e teologici, le chiese di Bisanzio e di Roma si scomunicarono a vicenda, trascinando nello scisma anche le chiese dell’Europa orientale.
Cinque secoli dopo, la cosiddetta riforma protestante provocò lacerazioni e divisioni anche nella chiesa d’Occidente, con la cosiddetta riforma protestante, con conseguenze indirette anche sulle chiese dell’Est.
Vari missionari inviati nelle chiese orientali riuscirono a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma, dando origine a «chiese cattoliche orientali» (uniati): chiesa caldea (1552), cattolici ucraini (1595-96), chiesa cattolica siro-malabarica (1599), cattolici siriani (1662), greco-cattolici o melkiti (1724), cattolici armeni (1740), cattolici copti (1895), chiesa cattolica siro-malankara (1930) cattolici etiopici (1961).
Le chiese… pellegrine 
La chiesa di Gerusalemme, inizialmente formata da fedeli di origine, lingua e cultura ebraica, greca e romana, per oltre tre secoli rimase una minoranza nella società, finché, sull’esempio di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la devozione verso i luoghi sacri cominciò ad attirare pellegrini di tutte le nazioni: bizantini, armeni, siriani, georgiani, latini; ognuna cercò di organizzare le strutture di accoglienza materiale e spirituale per i propri pellegrini, dando origine a presenze cristiane di differenti riti, lingue, culture. Tuttavia, durante i primi secoli la chiesa di Gerusalemme era unita attorno a un solo vescovo, che aveva giurisdizione anche sui cristiani di origine straniera che venivano e vivevano nella città santa.
Nel V secolo, però, le divisioni provocate dalle controversie cristologiche si ripercossero anche nelle chiese «pellegrine» stabilitesi a Gerusalemme: anche qui le diversità si tradussero in divisioni.
La conquista islamica provocò una graduale arabizzazione e scristianizzazione del paese. Un largo settore della popolazione passò all’islam per evitare vessazioni di indole sociale e fiscale. Il patriarca della comunità cristiana, assai ridotta e povera, cercò appoggio nella chiesa più forte di Bisanzio; quando questa consumò lo scisma con Roma (1054), anche le chiese di Gerusalemme la seguirono.
Nell’epoca crociata (1099-1291), con l’istituzione del patriarcato latino di Gerusalemme la maggioranza cristiana fu attratta nell’orbita romana, ma con la riconquista della città santa da parte del Saladino il patriarca latino fu costretto a fuggire e con la caduta del Regno latino furono espulse tutte le congregazioni religiose occidentali. La presenza cattolica fu continuata dai frati minori, che nel 1336 ottennero di stabilirsi attorno ai luoghi santi: nasceva la Custodia di Terra santa. Da allora fino al 1847, quando fu ristabilito il patriarcato latino, i francescani furono responsabili del lento ritorno di alcuni cristiani all’unità con Roma.
Il passaggio della Palestina dal dominio dei mamelucchi all’impero turco ottomano (1517) segnò la rinascita dell’influenza degli ortodossi a spese dei latini. Non passò un secolo che, favoriti dai vari sultani,  gli ortodossi cominciarono a rivendicare diritti di proprietà sui luoghi santi, sottraendoli con la forza o con l’inganno ai francescani. Questi, per difendere i propri diritti, facevano appello alle potenze occidentali, finché nel secolo XIX la questione dei luoghi santi divenne un caso politico specie tra Francia e Russia: la prima assunse l’esclusiva protezione dei cattolici; la Russia quella dei cristiani orientali. La pressione delle potenze europee sul sultano ottomano ebbe come risultato il decreto del 1852, che fissava i diritti e proprietà attorno ai luoghi santi, confermando lo Status quo, cioè la situazione esistente prima del 1757.
Nel frattempo, molti missionari occidentali si riversarono nella Terra santa e promossero la creazione di nuove comunità cattoliche e protestanti con relative istituzioni gerarchiche. Nel 1754 fu creata l’archidiocesi greco-cattolica di Galilea; nel 1838 fu eretto il vicariato patriarcale greco-cattolico a Gerusalemme; nel 1842 si stabilì a Gerusalemme il vescovo anglicano-luterano; nel 1847 fu ristabilito il patriarcato latino.
Evviva la differenza
Oggi i cristiani in Israele e Territori palestinesi sono circa 180 mila: 100 mila cattolici (50 mila melkiti, 41 mila latini, 8 mila maroniti, un migliaio di altri riti), 70 mila greco-ortodossi e altri 5 mila ortodossi orientali; 5 mila tra anglicani e protestanti. Durante l’ultimo secolo si sono aggiunte nuove realtà, non sempre quantificabili: cattolici di lingua ebraica, assemblee di ebrei messianici, lavoratori migranti, cristiani dall’ex Unione Sovietica, senza contare i milioni di pellegrini da ogni parte del mondo che affollano i luoghi santi.
Ne risulta quindi un ricco e complesso mosaico di chiese, ognuna delle quali con la propria storia, teologia, spiritualità, lingua, riti, tradizioni… Tale pluralità non pregiudica l’unità, ma arricchisce la chiesa universale; anzi, essa offre l’ispirazione per affrontare alcune urgenze ancora attualissime, come il problema dell’inculturazione del vangelo e il rifiuto di ogni tentazione di fondamentalismo e integralismo.
La chiesa di Gerusalemme rimane punto di riferimento, profezia perenne per la chiesa universale e per tutte le chiese locali. Teologicamente e organizzativamente la comunità dell’età apostolica rimane il modello della chiesa di Cristo, al quale si richiamano tutti i cristiani che, in ogni tempo, hanno sentito il bisogno di rinnovarsi spiritualmente. Anche negli atti concreti con cui ha saputo superare le iniziali tensioni e difficoltà intee, la prima chiesa rimane un modello e punto di riferimento per conservare anche oggi l’unità nella diversità.
In un’epoca in cui la globalizzazione rischia di essere confusa con l’uniformità, le chiese di Gerusalemme sono un richiamo a guardare alle origini, quando l’unica verità, che è Gesù Cristo, fu accolta da culture diverse e narrata, celebrata, pensata in modi differenti, nella teologia, liturgia, spiritualità, diritto… Tali espressioni non furono elaborate da un unico centro, ma fu il risultato dell’incontro del vangelo con le situazioni concrete dei singoli popoli. Per questo le chiese di Gerusalemme sono motivo di ispirazione, oggi, per l’attività missionaria della chiesa, nel fare discepoli di Cristo i popoli e le culture a cui è inviata.
Laboratorio di dialogo
Intanto le diversità, che attraverso i secoli sono diventate separazioni, divisioni e competizioni, rimangono quasi intatte nella chiesa di Gerusalemme, minandone la credibilità della testimonianza e facendole assomigliare alla biblica Babele. Tuttavia, al di là delle apparenze, oggi Gerusalemme è un laboratorio di dialogo ecumenico e interreligioso. I cristiani in Terra santa sono impegnati in incontri di dialogo a livello formale e istituzionale e altre iniziative di vario genere per camminare insieme verso l’unità. Per raggiungere tale meta ognuno è esortato a restare fedele alla chiesa in cui Dio gli ha dato di vivere e a restare al tempo stesso aperto alle altre chiese.
Il cammino del dialogo ecumenico, iniziato nel 1964 con l’abbraccio in Terra santa tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora, è continuato tra ostacoli ereditati dalla storia e innumerevoli difficoltà provenienti dalla situazione politica, di violenza e oppressione. Ma proprio tale situazione di conflitto ha contribuito alla coesione tra le chiese. Unite dalle stesse prove, si sono riavvicinate le une alle altre per ascoltare e rispondere agli appelli e alle sofferenze delle società in cui sono chiamate a vivere e operare; e per rendere più forte la loro voce contro le ingiustizie.
Tra le iniziative prese in comune dai capi delle chiese va segnalato il memorandum comune sul significato di Gerusalemme (1994); l’apertura del giubileo del 2000; l’accoglienza di Giovanni Paolo II (2000) e di Benedetto XVI (2009); la creazione del Jerusalem Inter-Church Center (Jic, Centro interecclesiale di Gerusalemme). L’ultimo esempio è il «Documento Kairos Palestina», pubblicato lo scorso dicembre (vedi riquadro p. 30).
Ponte di pace e riconciliazione
Nel 1948 i cristiani costituivano il 20% della popolazione palestinese; oggi, la percentuale è scesa all’1,8%. I cristiani sono una minoranza schiacciata tra i due colossi: ebrei e musulmani. Il dialogo interreligioso è un’altra dimensione essenziale nella vita della chiesa, soprattutto con l’islam. La situazione di conflitto contribuisce ad avvicinare i fedeli di queste due religioni, anche se una certa propaganda cerca di fare risaltare un’ipotetica persecuzione islamica contro i cristiani.
Nulla di tutto questo, almeno in Palestina. Anche in fatto di dialogo interreligioso, le chiese presenti nella terra di Gesù sono un esempio per le comunità cristiane che vivono nel mondo in situazioni simili di minoranza religiosa, con conseguenti tensioni e conflitti; soprattutto costituiscono una sconfessione di quanti predicano e praticano il «conflitto di civiltà».
Naturalmente il dialogo è esteso anche all’ebraismo. Pur essendo minoranza, i cristiani hanno un ruolo importante da giocare nel conflitto arabo-israeliano. Avendo essi in comune con i giudei i valori biblici e con i musulmani la lingua araba, possono essere il ponte che permette la riconciliazione. Tanto più che, come afferma un professore dell’università di Betlemme, «senza i cristiani lo scontro tra ebrei e musulmani sarebbe molto più forte».
In tale ruolo, la chiesa continua a ricordare al mondo intero che quella in corso non è una guerra di religione, ma una resistenza in difesa dei diritti umani fondamentali. E per resistere i cristiani chiedono la solidarietà e corresponsabilità di tutte le chiese del mondo verso la chiesa madre: dalla pace e riconciliazione di Gerusalemme dipende il futuro del Medio Oriente.
Le chiese cristiane in Palestina hanno bisogno di sostegno morale e materiale per resistere anche a una forte tentazione: quella di emigrare. La Terra santa rischia di diventare un museo cristiano senza pietre viventi. E cosa sarebbe la terra di Cristo senza cristiani?

Di Benedetto Bellesi

Il documento Kairos Palestina

pace subito
 
P orre fine all’occupazione dei territori palestinesi e al boicottaggio che strangola l’economia della Palestina, riducendo in miseria la popolazione; eliminare il muro di separazione che sigilla la barriera fra i due popoli, rinegoziare con serietà e chiarezza per costruire la pace nella regione: sono i punti principali di un appello firmato e diffuso, in vista del natale 2009, da una quindicina di leader cristiani, fra i quali il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, il vescovo luterano Munib Younan, il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Theodosios Atallah Hanna.
L’appello è stato intitolato «Documento Kairos Palestina», proprio perché insiste sul «momento di grazia, tempo favorevole» (kairos), in cui è possibile riprendere in mano con coscienza la questione dell’eterno conflitto fra i popoli di Terra santa. Grazie allo sforzo di buona volontà della comunità internazionale, dei leader politici della regione e delle chiese nel mondo, «la pace è possibile» ed è la sola speranza per il futuro della Terra santa. Ma essa impone uno sforzo concreto da parte di tutti, non solo «parole vuote», risuonate per troppo tempo senza cambiare nulla nella situazione reale.

I firmatari dell’appello denunciano «l’occupazione come peccato contro Dio e l’umanità» e, fra i problemi più scottanti, «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, blocco di Gaza, colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, umiliazioni subite ai posti di blocco militari, restrizioni religiose e accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, prigionieri detenuti in Israele e paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia, afferma il testo, «Dio ci ha creato per vivere in pace. La nostra terra ha una missione universale e la promessa della terra non è mai stato un programma politico, ma piuttosto preludio alla salvezza universale».
Inoltre, si fa appello alle chiese di tutto il mondo perché «dicano una parola di verità e prendano posizione riguardo all’occupazione israeliana del territorio palestinese», affinché «venga applicato contro Israele un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio», il quale «non rappresenta una vendetta ma piuttosto un’azione seria al fine di raggiungere una pace giusta e definitiva». 
(Fides)

Ttutta colpa dello «status quo»

Durante l’occupazione di Gerusalemme da parte dei crociati, i cristiani di rito latino ebbero il predominio sui luoghi, senza affatto escludere gli orientali. Quando il Saladino conquistò la città santa (1187), confiscò tutte le chiese cristiane; alcune le trasformò in moschee, altre le lasciò ai cristiani, anche per lucrare sulle offerte dei pellegrini. L’entrata del Santo Sepolcro, invece, fu affidata a due famiglie musulmane: ai Joudeh fu data la chiave dell’unico portale rimasto funzionale e ai Nusseibeh il privilegio di chiuderlo e aprirlo.
I governi successivi concedevano i diritti a suon di mazzette. Grazie alle somme sborsate dai sovrani di Napoli e Sicilia, i francescani ottennero i diritti di abitare e ufficiare nella basilica del Santo Sepolcro e costruire un convento  sul monte Sion. Dal 1336 al 1662 essi furono gli unici padroni del Cenacolo, Santo Sepolcro, Calvario, Tomba della Vergine, Mangiatornia di Betlemme. 
Poi i turchi ottomani sottrassero la Palestina ai mamelucchi d’Egitto (1517) e i sultani cominciarono a favorire gli ortodossi, loro sudditi. I monaci greci passarono all’offensiva, rivendicando la chiesa di Betlemme e poi quella della risurrezione: con tangenti e documenti falsi ottennero il controllo della cappella del Calvario e della pietra dell’unzione (1633), poi il possesso esclusivo dell’edicola del Santo Sepolcro (1675). Di fronte a tali scippi i papi sollecitarono le potenze cristiane perché facessero pressione sulla Sublime Porta: un decreto del 1690, dichiarava i francescani legittimi proprietari dei santuari e restituiva loro gli antichi diritti.
Per più di un secolo e mezzo, mentre attorno ai luoghi sacri crescevano interferenze e pressioni delle potenze egemoni, dentro le mura sacre la lotta per il controllo si risolveva spesso a cazzotti e bastonate. L’episodio più grave avvenne nel 1756, con l’irruzione vandalica nella basilica e l’assalto al convento francescano. Un altro decreto del sultano concesse ai greci la comproprietà con i latini del Santo Sepolcro e la proprietà della basilica di Betlemme e della Tomba della Vergine. 
Nel XIX secolo la questione dei luoghi sacri divenne un caso politico soprattutto tra Francia e Russia: la prima si assunse la protezione dei cattolici, la Russia quella degli orientali. Le lotte «fratee» continuarono, usando tutti i modi per estromettersi a vicenda. Nel 1847 i greci rimossero dalla grotta di Betlemme la stella d’argento, con la scritta latina che attestava la proprietà latina del luogo. Francia e Russia costrinsero la Turchia, nel 1852, a firmare l’ennesimo decreto che ripristinava la situazione (status quo) sui diritti di proprietà e accesso all’interno del Santo Sepolcro, della basilica della Natività e della tomba di Maria; situazione risalente al 1767, tenendo conto di ulteriori diritti acquisiti da altre comunità cristiane.

Il documento assegna la basilica del Santo Sepolcro quasi interamente ai greci ortodossi, ma le parti essenziali sono in condominio con cattolici (rappresentati dai frati minori) e armeni, che a tuo si susseguono, notte e giorno, con le rispettive cerimonie liturgiche. Queste tre comunità (latina, greca, armena) hanno pure residenza effettiva nella basilica, ognuna con proprie abitazioni e cappelle. Altre chiese, come siro-giacobiti e ortodossi etiopi, godono di alcune concessioni per svolgere le loro funzioni nelle grandi solennità, mentre i copti posseggono alcune stanze e una cappella dietro l’edicola del Santo Sepolcro, col diritto di officiarvi solo alcuni giorni.  
Lo Status quo determina pure orari e tempi di funzioni, percorsi di processioni e modo di realizzarle con canti e incensi… I diritti di ogni comunità sono stabiliti dall’uso di lampade, addobbi, quadri, candelieri. Di importanza cruciale sono i diritti di pulizia, manutenzione, restauro: chi ripara il tetto o il muro di una cappella ne acquista il possesso esclusivo; appendere o rimuovere una lampada, un quadro da un pilastro o un muro… implica il riconoscimento di possesso su tale pilastro o muro. Ma lo Status quo stabilisce un principio draconiano: senza comune accordo, niente può essere cambiato o innovato, sia nel possesso della basilica che nell’esercizio del culto.

T
ale situazione oggi è considerata un dato di fatto acquisito, ma rimane sempre difficile ridurre al minimo i disagi della coabitazione. Le comunità si incontrano periodicamente per decidere riparazioni e restauri della basilica e cercare una migliore distribuzione delle differenti liturgie, ma le trattative sono lunghe ed estenuanti. I monaci etiopi e copti, per esempio, discutono da decenni su chi spetti restaurare un edificio che minaccia di cadere sul tetto del santuario; migliaia di fedeli passano per una sola porta, ma tra le sei diverse confessioni non c’è modo di accordarsi per aprire un’uscita di sicurezza.
Bisogna tenere presente che per queste comunità ogni piccola cosa assume un significato simbolico. Tuttavia il vento del dialogo ecumenico ha cominciato a soffiare anche dentro queste mura, stemperando i conflitti secolari: non esiste più, almeno da parte cattolica, l’accusa di «usurpazione» dei luoghi santi. Frati, pope, monaci armeni, abuna etiopici ed egiziani, incrociandosi nella penombra del luogo, si scambiano perfino sobri cenni di saluto. Anzi, la pluriforme presenza cristiana su tali luoghi è ritenuta una ricchezza preziosa da salvare e un diritto irrinunciabile.
Rimane ancora il fatto innegabile che basta molto poco, come togliere una ragnatela nel posto altrui, per scatenare risse e scazzottate. Eppure, guardando il lato positivo, reazioni del genere sono segni inequivocabili di attaccamento e amore alle memorie tangibili del nostro Salvatore. E anche Lui, di fronte a tali scene, non si scandalizzerebbe più di tanto, ma si farebbe una tacita risata.

Benedetto Bellesi




Stella di Davide e croce di Cristo

Ebrei al cento per cento e discepoli di Yeshua (Gesù)

Credono che Gesù è il Messia, ma non vogliono essere chiamati cristiani; sono una sparuta minoranza, osteggiata e perseguitata, ma in rapida crescita nel mondo e dentro i confini di Israele;
si definiscono «ebrei messianici»: sperano di diventare un ponte tra ebraismo e cristianesimo.

«Mia madre era ebrea irachena, emigrata in Cina, dove sposò un cristiano inglese – comincia Maureen Grimshaw, raccontando la sua storia -. Non cambiò mai la sua fede, ma non volle che i suoi figli fossero educati come ebrei, dopo ciò che era avvenuto con l’olocausto (sono nata nel 1942). Toati in Inghilterra ricevetti un’istruzione cristiana nella chiesa metodista.
Avevo otto anni quando un giorno, sentendomi più triste del solito (mia madre si era risposata), udii una voce che mi disse: “Io ti amo”. Fu la prima esperienza personale di Gesù. Mi piaceva andare al catechismo e sentire parlare di lui. A 12 anni mi domandavo come fosse Dio; un giorno una voce mi risuonò nel cuore: “Io sono l’amore”. A 16 anni, mi sentivo non accettata in famiglia, odiavo me stessa e pregavo il Signore perché mi facesse morire. Ma una notte sentii un grido fortissimo che mi disse: “Io sono morto per te”.
La mia vita mi portò in vari posti per lavoro finché arrivai nel Qatar. Qui sperimentai quanto gli arabi disprezzassero e odiassero americani ed ebrei. “Mia madre è ebrea e io sono ebrea – mi dissi -. Devo andare ad aiutarli”. Pochi mesi dopo tornai a Londra e feci domanda di aliya (migrazione in Israele). Fu un miracolo: mi accettarono, benché fossi coinvolta con il cristianesimo. Lavorai come infermiera, finché sono entrata in questo luogo come volontaria, per testimoniare che Gesù ama gli ebrei».
Il luogo è Christ Church, una chiesa-sinagoga costruita nel 1849 con lo scopo di portare il cristianesimo tra gli ebrei e oggi centro di culto per varie comunità messianiche. E mentre racconta, la signora Maureen intreccia le dita nella catenina da cui pende una medaglia formata dall’unione della stella di Davide e la croce di Cristo. E spiega: «È il simbolo più eloquente della nostra fede: la stella esprime l’identità ebraica; la croce testimonia la fede in Gesù il Cristo».

Si definiscono ebrei al cento per cento e credono che Gesù è il Messia. Per esprimere questa identità essi usano termini ebraici: Gesù diventa Yeshua, Cristo diventa Hamashiah (messia, consacrato); non vogliono essere chiamati giudeo-cristiani o ebreo-cristiani, ma ebrei messianici; tanto meno ebrei convertiti: sono ebrei compiuti o ebrei credenti; la chiesa diventa l’assemblea.
Essi vogliono ricreare le comunità dei primi discepoli del Messia, cresciute a Gerusalemme e in Palestina durante il primo secolo, come sono descritte nel libro degli Atti; comunità formate da ebrei osservanti tutte le tradizioni ebraiche, finché non furono cacciati dalle sinagoghe dal giudaismo talmudico-rabbinico da una parte e assorbiti nel cristianesimo d’impronta greco-romana dall’altra, in cui fu bandita ogni espressione di fede ebraica (sinodo di Nicea 730).
Paolo aveva descritto le comunità dei credenti gentili (non ebrei) come olivo selvatico innestato sull’olivo buono, cioè Israele (Romani 11,17); per quasi 2.000 anni è avvenuto il contrario: l’olivo buono innestato sui rami selvatici: fino a una cinquantina di anni fa un ebreo, per essere battezzato, doveva abiurare il suo ebraismo, perdendo la sua identità ebraica, sia per la sinagoga che per la chiesa.
In quanto ebrei, i messianici rispettano la legge mosaica, seguono la liturgia ebraica, praticano la circoncisione, onorano lo sabath (sabato) e la kasherut (dieta alimentare); alcuni indossano tallit, (scialle della preghiera), kipah (zucchetto) e tefillim (astucci con brani della legge) come gli ebrei più ortodossi; celebrano le feste che ricordano l’intervento di Dio nella storia d’Israele: pessach, shavuot, succot (pasqua, pentecoste e capanne), anche come feste profetiche, che hanno avuto il loro compimento nel Messia.
In quanto messianici credono nel Nuovo Testamento come parte integrante della bibbia, i cui autori e destinatari appartengono al popolo d’Israele, ma data a conoscere a tutte le genti. Celebrano la santa cena in generale una volta al mese. Il battesimo è proposto agli adulti ed è praticato per immersione, come nella chiesa primitiva. Credono nella Trinità e nel valore salvifico della morte del Signore Gesù, ma ostentano la croce nei luoghi di culto, poiché nella memoria collettiva è diventata simbolo di uccisione e morte. «Ma non ci vergogniamo del Messia crocifisso: anche per noi la croce è simbolo significativo della nostra fede, che ci ricorda quello che il Messia ha dovuto soffrire» afferma il messianico Gershon Nerel.

Il messianismo è nato nel 1800 in Inghilterra, quando i cristiani di origine ebraica, per differenziarsi dagli altri, si organizzarono in associazioni proprie, come la «Unione cristiana ebraica» (1865). Associazioni e alleanze messianiche dalla Gran Bretagna si diffusero negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, con la stessa visione: riunire i cristiani di origine ebraica e annunciare il Messia agli ebrei.
Q uanti sono oggi gli ebrei messianici? È difficile dirlo, essendo comunità fluttuanti. Ogni assemblea conta tra 20 e 250 membri, che si radunano in appartamenti o sale private, con poche eccezioni, come l’uso di Christ Church. Ciascuna di esse è autonoma, con storia, carattere e organizzazione propria. Molte somigliano a comunità evangeliche e carismatiche, specie quelle dove i membri provengono da movimenti e gruppi carismatici. Nei loro incontri, tutti danno importanza alla testimonianza: «Noi l’abbiamo trovato!».
Mancando una qualsiasi autorità centrale rimane difficile definire il numero dei messianici. Secondo stime approssimative, attualmente essi sarebbero oltre mezzo milione nel mondo, metà dei quali negli Usa e tra i 5 mila e i 15 mila in Israele, distribuiti in un centinaio di comunità; calcoli più realistici contano nel paese 80 assemblee con circa 7 mila membri.
E sono in continua crescita, come scrive un ampio servizio di Up Front (supplemento del Jerusalem Post del 13-2-2009). Il vistoso titolo dice: «La fede avanza: 7 mila credono in Gesù come loro redentore». E il sottotitolo aggiunge: «Con grande irritazione dell’establishement in Israele». Alcune foto a colori mostrano giovani, con T-shirt rosse e scritta in ebraico: «Ebrei per Gesù», che distribuiscono volantini. L’articolo cita pure espressioni della loro fede senza censurarle: «Yeshua è l’incarnazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». «Se mi rifiutassi di parlare di Yeshua ai miei simili, sarebbe come conoscere la medicina contro l’Aids e tenerla per me».
«Ebrei per Gesù» è il gruppo più conosciuto, anche se minoritario, e il più avversato per la sua attività missionaria. I suoi adepti organizzano campagne con predicazioni pubbliche e discussioni individuali per le strade, distribuzione ai passanti di stampati informativi a bizzeffe e uso di tutti i mezzi di comunicazione di massa, per dimostrare agli ebrei che la messianicità di Gesù è fondata su prove evidenti e aiutare i cristiani a ritrovare le radici della loro fede. 

Per lo più gli ebrei messianici preferiscono non mostrare la propria fede. Oltre a essere rispettosi della legge mosaica, essi si comportano da leali cittadini, sono presenti nell’esercito, università e altri settori professionali, in associazioni israeliane umanitarie, hanno fondato quella «Pro Life» per lottare contro l’aborto e aiutare le donne in difficoltà.
Eppure sono spesso oggetto di angherie, intolleranza e persecuzione. Ad aizzare l’ostilità sono almeno due «Organizzazioni anti-missionarie» ultra-ortodosse, come Yad L’achim (Mano ai fratelli) e Lev L’achim (Cuore per i fratelli). I loro attivisti raggiungono, e a volte oltrepassano, i limiti della legalità, denigrando e minacciando gli ebrei messianici, screditando i loro pastori e anziani, attaccando minacciosi manifesti con la foto del «messianico» del quartiere e la scritta «pericolo».
«Quando un ebreo in Europa dice di credere in Gesù Cristo, ciò diventa un biglietto per entrare nella società normale; in Israele è il contrario: credere in Yeshua è un biglietto per uscire, esclude automaticamente dalla società ebraica» afferma un rabbino; e un altro aggiunge: «In Israele un ebreo può essere buddista o ateo, ma non gli è consentito di credere in Yeshua Hamashiah».

Di Benedetto Bellesi

Chiese di Gerusalemme e dintorni

Le tredici «sorelle»

Comunità ortodosse

PATRIARCATO GRECO-ORTODOSSO. Fu istituito dal Concilio di Calcedonia nel 451, legato a Costantinopoli ne seguì il progressivo distacco fino allo scisma con la chiesa latina (1054). Dal 1534 i patriarchi di Gerusalemme sono tutti di origine greca, causando serie tensioni con il clero di lingua araba. I greco-ortodossi costituiscono la chiesa più grande in Terra santa (circa 70 mila fedeli), tutti arabi, eccetto poche centinaia di greci. Sotto la giurisdizione dello stesso patriarcato sono le chiese ortodosse nazionali di Russia e Romania presenti in Israele.

PATRIARCATO ARMENO. Prima nazione cristiana (IV secolo), chiesa non calcedoniana, presente a Gerusalemme fin dal V secolo, dal 1311 gli armeni hanno un proprio patriarca, che risiede nel convento di san Giacomo. La comunità armena crebbe con l’arrivo di profughi dalla fine del XIX secolo alla prima guerra mondiale. Oggi i 1.500 armeni vivono a Gerusalemme, altre centinaia in Israele e Territori palestinesi.

CHIESA SIRIACA o GIACOBITA. Erede di Antiochia, lingua liturgica l’aramaico (lingua di Gesù) è una chiesa non calcedoniana, anche se chiamata «ortodossa». Dei 300 siriaci in Terra santa, 200 vivono a Gerusalemme, presso il monastero di san Marco, guidati da un vescovo (esarca) rappresentante del patriarca residente a Damasco.

CHIESA ORTODOSSA COPTA. Arrivata dall’Egitto a Gerusalemme nel IV secolo, ebbe forte influsso nell’origine del monachesimo nel deserto di Giuda. La comunità oggi è composta da una decina di monaci, il cui superiore ha dignità vescovile; abitano vicino al Santo Sepolcro.

CHIESA ORTODOSSA ETIOPE. Dal IV secolo presente a Gerusalemme, ebbe vari diritti nei luoghi santi, perduti con il dominio turco. Oggi un vescovo guida poche dozzine di monaci e monache, vicino al Santo Sepolcro.

COMUNITÀ Cattoliche

CATTOLICI DI RITO LATINO. Ebbero amministrazione autonoma con l’istituzione del primo patriarca latino di Gerusalemme per opera dei crociati (1099), finito con la riconquista araba (1187) e restaurato nel 1847. Nel frattempo la presenza cattolica fu assicurata dai francescani (Custodia di Terra santa) con opere pastorali, educative, assistenziali, moltiplicate con l’arrivo di vari istituti religiosi a partire dal 1800. Oggi i circa 41 mila cattolici di rito latino sono quasi tutti arabi, compreso il patriarca; alcune centinaia di cattolici sono di espressione ebraica.

CHIESA CALDEA. La chiesa cattolica caldea è nata nel XVI secolo da uno scisma della chiesa assira (conosciuta come chiesa nestoriana), quando alcuni gruppi elessero un proprio vescovo (1552) e chiesero l’approvazione di Roma, ricevendo il titolo di patriarca dei cattolici caldei. In Terra santa la comunità caldea conta poche famiglie; sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESA MARONITA. È la sola chiesa orientale interamente cattolica, fondata da san Marone (IV sec.) in Siria e affermatasi in Libano. I maroniti sono circa 8 mila, presenti soprattutto i Galilea, guidati da un arcivescovo (esarca patriarcale)  che risiede a Gerusalemme. 

CHIESA GRECO-CATTOLICA o MELKITA. Chiesa calcedonica, dipendente da Antiochia, definitivamente in comunione con Roma nel 1729, segue la liturgia bizantina in lingua araba e greca. I melkiti in Terra santa sono circa 50 mila, buona parte nella Galilea, guidati da un esarca, rappresentante del patriarca di Antiochia.

CHIESA CATTOLICA ARMENA. Fin dai tempi delle crociate ci furono tentativi di unione degli armeni con Roma; con la predicazione dei domenicani si formarono alcune comunità armeno-cattoliche, alle quali papa Benedetto XIV assegnò un patriarca (1742), che dal 1829 risiede a Istanbul. Alcune decine di famiglie di cattolici armeni sono sparse tra Gerusalemme, Haifa, Nazaret e Ramallah; sede dell’esarca patriarcale in santa Maria dello Spasimo.

CHIESA CATTOLICA SIRIACA. Nata in Siria con la predicazione cattolica nel XVII secolo; a causa di persecuzioni, la sede del patriarcato da Aleppo fu portata in Libano. I cattolici siriaci in Terra santa sono 2-300, sparsi in varie città, con sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESE PROTESTANTI

COMUNITà ANGLICANA e LUTERANA. I protestanti arrivarono a Gerusalemme solo a partire dal 1800, con l’instaurarsi delle rappresentanze diplomatiche occidentali a Gerusalemme. Oggi contano circa 5 mila fedeli; ognuna delle due comunità è guidata da un proprio vescovo.

Benedetto Bellesi




Piccolo gregge, grande missione

Comunità cattoliche di espressione ebraica

Non sono molti, forse un migliaio, i cattolici ebreofoni, ma consapevoli del loro ruolo a livello locale e universale: testimoniare i valori di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e di guerra; servire da ponte fra la chiesa universale e il popolo ebreo, accrescere nella chiesa la coscienza delle radici ebraiche e l’identità ebrea di Gesù e degli apostoli. 

«Sono francescano e polacco; quindi un goi (gentile) e non ebreo» dice sorridendo padre Apolinary Szwed, e continua: «Siamo una comunità modesta, che non fa rumore, quasi invisibile, ma viva e cosciente della nostra realtà». Che sia modesta non c’è dubbio. La comunità a lui affidata è formata da una settantina di fedeli, che si raduna in una stanza molto semplice, che funge da chiesa dedicata ai santi Simeone e Anna; ma la novità sta nel fatto che questi cattolici sono di lingua ebraica, e costituiscono un tassello importante nel mosaico della cristianità in Terra santa.  
Tutto è cominciato subito dopo la creazione dello stato di Israele, quando arrivarono in Israele cristiani che pregavano in ebraico. Alcuni preti, per lo più francesi di origine, cominciarono a occuparsi di loro per introdurli nella chiesa di Gerusalemme; a tale scopo fondarono nel 1955 l’associazione chiamata «Opera di san Giacomo», il cui statuto ne stabiliva lo scopo: costituire una comunità di espressione ebraica e colmare il fossato tra giudei e cristiani, promuovere riconciliazione e conoscenza reciproca in seno alla società ebraica.
Per raggiungere tale fine, furono avviate varie iniziative: nel 1959 il domenicano Bruno Hussar, ebreo di origine francese, nato in Egitto e naturalizzato israeliano, fondò la Casa di sant’Isaia, istituto domenicano di ricerche e studi ebraici. Altri religiosi, come Marcel Debois e Jacques Fontaine, promossero tra i giovani francesi lo studio dell’ebraico biblico, della cultura, religione, storia ebraica. Lo stesso padre Hussar fu all’origine di Neve Shalom (Oasi di pace), un villaggio dove ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme ed educano i propri figli in una stessa scuola, rispettosa delle due culture arabe ed ebraiche.
Alcuni membri di questa comunità hanno aiutato a formulare varie riforme del Concilio Vaticano II, come la condanna dell’antisemitismo, il ripudio dell’accusa di deicidio, uso della lingua locale nella messa, iniziato in Israele 10 anni prima del Concilio. Per anni hanno svolto un enorme lavoro per tradurre la liturgia, sviluppare una musica sacra e creare un vocabolario teologico cristiano in ebraico.
L’Opera di san Giacomo non è una parrocchia o un insieme di parrocchie, ma un’associazione con statuto particolare e oggi costituisce il «Vicariato ebreofono» all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme. Nel 1990 fu nominato il primo vicario nella persona dell’abate benedettino israeliano Jean Baptiste Gourion, consacrato vescovo nel 2003, morto prematuramente nel 2005. Dal 2009 il vicario patriarcale è il gesuita israeliano David Neuhaus.

Dopo una ventina di anni la comunità è cresciuta, soprattutto con l’ondata migratoria dall’ex Unione Sovietica, che ha portato decine di migliaia di cristiani, tra i quali vari cattolici. Oggi il vicariato patriarcale conta nove preti, alcune centinaia di fedeli e sei centri: quattro di lingua ebraica (Ber Sheva, Haifa, Jaffa e Gerusalemme) e due di lingua russa.
Negli ultimi 20 anni, però, passata l’ondata immigratoria, i cattolici ebreofoni sono diminuiti e si prevede che resteranno pochi. «Abbiamo qualche conversione – spiega padre Apolinary -. Attualmente due adulti si stanno preparando al battesimo. Anche se le leggi statali lasciano libertà di fede, la pressione sociale, economica e giuridica è tale che non solo scoraggia le conversioni, ma consiglia gli ebrei cristiani alla discrezione, senza sbandierare la loro appartenenza al cristianesimo».
Per il resto, essi vivono le realtà e i problemi di tutti gli altri ebrei. Religione, storia, cultura ebraica stabiliscono il ritmo della vita della comunità cattolica, che segue quindi il calendario e partecipa alle feste ebraiche; alcuni cattolici digiunano nel giorno del kippur e partecipano alle funzioni della sinagoga in segno di solidarietà.
Inizialmente le comunità erano formate da ebrei arrivati in Israele durante la grande emigrazione, coppie miste, formate in prevalenza da un uomo laico ebreo e una donna cattolica; vi erano pure cattolici di origine ebraica che avevano scoperto la loro appartenenza al popolo ebraico in seguito alla shoah. Oggi prevalgono i membri nati e cresciuti in Israele, per cui la grande sfida è trasmettere la fede alle nuove generazioni. Problema non facile, dal momento che, a differenza delle comunità cristiane di lingua araba, i piccoli gruppi di cattolici ebreofoni non hanno istituzioni educative proprie, per cui i giovani frequentano le strutture statali, con il rischio di assimilazione nella società ebraica laica.
«Per questo siamo impegnati nella catechesi – spiega padre Apolinary -: formazione dei bambini, preparazione ai sacramenti, sessioni per giovani coppie, incontri di studio della bibbia, ritiri e preparazione dei catechisti della comunità».

Nonostante la sua quasi invisibilità, la comunità cattolica ebraica è impegnata nella missione che la Provvidenza le ha assegnato. Un primo lavoro è la ricerca delle pecorelle smarrite, cioè coloro che non sanno dell’esistenza della chiesa di lingua ebraica e della possibilità di una vita cattolica nella società israeliana.
Un’altra sfida per i cattolici di lingua ebraica è l’impegno per il dialogo e la riconciliazione. «Le nostre comunità – spiega padre Apolinary – sono diventate un luogo di preghiera per la pace. Vogliamo essere un ponte tra ebrei e arabi, tra la chiesa e il popolo d’Israele, rafforzando i legami di amicizia e testimoniando i valori cristiani di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e conflitto armato».
La comunità cattolica di espressione ebraica ha qualcosa da dire anche alla chiesa universale che, a partire dal Concilio Vaticano II, è chiamata a rinnovarsi mediante la riflessione sull’identità ebraica di Gesù, a riscoprire le radici ebraiche della fede cristiana; una sfida che i cattolici in Terra santa vivono quotidianamente. Pregare in ebraico, vivere da cattolico in ebraico, essere minoranza cattolica nell’unica società totalmente ebraica è una realtà nuova per la chiesa locale e universale.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Testimoni di Cristo nella sua terra

Incontro con Michel Sabbah, patriarca latino emerito

Cosa significa essere cristiani, oggi, nella Terra santa? Essi hanno una vocazione speciale: come minoranza schiacciata tra ebraismo e musulmanesimo, sono chiamati a vivere in Gesù Cristo e renderlo presente nella sua stessa terra; come appartenenti in maggioranza a un popolo di oppressi, sono chiamati a lottare per la pace e la giustizia, attraverso la solidarietà, il dialogo, la riconciliazione.

Fare la conoscenza con la chiesa in Terra santa: fa parte del programma del corso di aggioamento presso la casa dei Padri Bianchi a Gerusalemme. Ce ne parla la voce più autorevole: mons. Michel Sabbah, primo palestinese eletto patriarca latino di Gerusalemme dal 1987 al 2008.
La sua presentazione è molto breve: nato a Nazaret nel 1933, ordinato presbitero nel 1955, laureato in filologia araba a Beirut, dottore in filosofia alla Sorbona di Parigi, presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dell’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra santa e di Pax Christi Inteational (1999-2007) è stato e continua ad essere, anche dopo le dimissioni da patriarca per limiti di età, promotore appassionato del dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, costruttore di pace e riconciliazione tra i due popoli e le tre religioni presenti nella terra di Gesù.
Testimoni per natura e vocazione 
«Siamo una chiesa piccola e lo siamo da sempre – esordisce con voce pacata e ferma -. Nel III secolo il vescovo di Gerusalemme era suffraganeo dell’arcivescovo di Cesarea e solo nel V secolo ottenne il titolo di patriarca (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). Durante i tre secoli di dominio bizantino i cristiani sono stati in maggioranza, ma sono tornati piccolo gregge dal VII secolo in poi, con la conquista araba (638). Possiamo dire che in tutta la sua storia Gerusalemme non è mai stata una città cristiana. 
Tale piccolezza non è solo un problema di carattere storico e politico, ma fa parte del mistero di Cristo, come afferma l’evangelista Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero, non lo accettarono”. Gesù formò un’esigua comunità con gli apostoli, i discepoli e le donne che avevano creduto in lui, e rimase un piccolo gruppo nella sua società. Ancora oggi, dopo quasi 20 secoli, Cristo è nella stessa situazione: non è riconosciuto nella sua terra; non è accettata nella società la sua azione di redenzione».
«Siamo piccoli e siamo molte chiese – continua il patriarca emerito senza reticenze -. A Gerusalemme sono presenti quasi tutte le chiese cristiane storiche: ortodosse, cattoliche e protestanti. Pur con le nostre diversità, dobbiamo rispondere alle sfide del mondo contemporaneo: siamo un piccolo gruppo, ma, come ai tempi delle origini, abbiamo una vocazione speciale: testimoniare Cristo nella sua terra; questa presenza di testimonianza è la vera natura della chiesa di Gerusalemme. Quando incontro dei fedeli che vogliono emigrare dico loro che perdono due cose: patria e vocazione, cioè, essere cristiani e testimoni nella terra di Gesù e in questa società».
Toccando il problema della migrazione, il patriarca si fa serio e ricorda che sono oltre mezzo milione i cristiani palestinesi, in maggioranza dispersi nel mondo dall’emigrazione e dalle guerre del 1948 e del 1967; solo circa 180 mila sono in Terra santa, formando l’1,7% della popolazione sia in Israele che in Palestina.
«Siamo una comunità in via di estinzione? – continua il patriarca ponendosi la domanda e dandosi la risposta -. Molti vorrebbero pensarlo. In realtà, benché piccola siamo una comunità molto viva, partecipe di tutta la vita della chiesa e della società. È vero che tanti sono stremati da una continua lotta per la sopravvivenza e finiscono per andarsene. Altri, però, restano. Resterà sempre in Terra santa una piccola comunità di cristiani. Gesù ha detto ai suoi apostoli: «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e nella Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Per questo noi restiamo e resteremo, lungo i secoli, i testimoni di Gesù nella sua terra.
Situazione insopportabile 
«Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in Terra santa?» si pone la domanda il patriarca, dandone pure la risposta: «Oltre a chiesa di testimoni, siamo anche chiesa del Calvario, sempre in croce per i conflitti politici che hanno interessato questa terra. Se Gerusalemme è per eccellenza la città della croce, la chiesa di Terra santa nasce sotto di essa. Ogni cristiano partecipa alle sofferenze della sua gente: i cristiani israeliani di espressione ebraica si sentono parte di una società che soffre e ha paura; i cristiani palestinesi condividono le sofferenze e le tragedie dei palestinesi. Sulla carta esiste un’autorità palestinese; in realtà non abbiamo alcuna libertà e l’occupazione militare diventa sempre più insostenibile e violenta».
Muro di separazione, umiliazioni ai chek point, aggressioni, demolizioni di case, impossibilità di movimento, disoccupazione… La lista continua sciorinando le ingiustizie che tengono un popolo in ostaggio, impediscono lo sviluppo e fomentano odio e violenza.
«Ai disagi materiali si aggiungono pericolose ricadute sociali e morali come la disgregazione delle famiglie» prosegue il patriarca, spiegando che, per uscire dai territori occupati occorre uno speciale permesso, che viene molto spesso rifiutato. Ne consegue che se un coniuge lavora a Gerusalemme e l’altro vive nei territori palestinesi, entrambi sono impediti di vivere insieme come famiglia. «Ci sono cristiani di Betlemme, per esempio, che non sono mai stati a pregare nei luoghi santi a Gerusalemme. Si dà la colpa alla Giordania, che ha governato Gerusalemme fino al 1967: a quei tempi gli israeliani non potevano recarsi al muro del pianto. Ora il regime d’Israele si comporta allo stesso modo con i cristiani palestinesi e dei paesi islamici come Siria e Giordania».
Responsabilità di religioni e chiese  
Nel conflitto israelo-palestinese fino a che punto c’entrano le ragioni religiose?
«La situazione di oppressione e violenza in cui viviamo rendono difficili le relazioni tra gruppi e individui e risvegliano l’antagonismo tra sensibilità religiose differenti. Tuttavia la religione diventa molto spesso un pretesto per affermare la posizione politica, come la questione delle moschee sulla spianata del tempio. Nelle grandi feste, come capodanno o sukkot, c’è sempre qualche gruppo di fanatici ebrei che tentano di prendere possesso della spianata del tempio. Da parte araba è nata una nuova ideologia: si afferma che non c’è mai stato il tempio, ma il luogo è islamico dai tempi di Abramo.
L’ostilità dei palestinesi non è contro gli ebrei in quanto ebrei, ma contro lo stato d’Israele: ostilità semplicemente politica, derivate dalla situazione politica e non da sentimenti di antisemitismo.
Ma in Oriente la dimensione religiosa compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche, per cui le religioni hanno una grande responsabilità, in questa parte del mondo, nella ricerca della giustizia e della pace; perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso o nell’altro, incitare alla guerra e violenza o esortare alla pace.

Qual è il rapporto tra chiesa e stato d’Israele?
All’interno del territorio israeliano, i rapporti della chiesa con lo stato d’Israele sono basati sul rispetto dovuto a ogni autorità. Quando i cristiani arabo-israeliani mi chiedono come comportarsi di fronte allo stato, io rispondo: siete cristiani, siete arabi e siete cittadini israeliani. Siete dunque tenuti a una triplice fedeltà: alla vostra fede cristiana, al vostro patrimonio culturale arabo, che condividete con i musulmani d’Israele e i popoli arabi, e allo stato d’Israele in cui vivete e disponete di un sistema democratico dove sviluppare la vostra vita sociale e religiosa.
Nei Territori occupati, invece, i rapporti tra chiesa e stato sono spesso tesi a causa del regime di occupazione. Ogni volta che faccio sentire la mia voce in questo senso, si alza la tensione, pur non arrivando alla rottura. Tuttavia cerco sempre di fare comprendere che, come portavoce della chiesa, voglio solo il bene dei palestinesi e degli israeliani.

Anche le altre chiese sono sulla stessa linea?
Grazie a Dio, oggi in Terra santa viviamo in un clima di amicizia e frateità tra le differenti chiese cristiane e speriamo di crescere in un cammino ecumenico reale che ci orienti verso una maggiore unità e meno status quo, meno vita nel passato e più attenzione alle difficoltà dell’ora presente.
Siamo 13 capi di chiese a Gerusalemme e prendiamo la parola ogni volta che la situazione si fa più opprimente per denunciare le ingiustizie, come abbiamo fatto durante la crisi e l’assedio della basilica di Betlemme. Abbiamo fatto insieme un documento su Gerusalemme, sulla natura e significato cristiano della città. In dicembre abbiamo pubblicato Il documento kairos Palestina (vedi pagina 30).
Pace su Gerusalemme!  
Gerusalemme è il cuore del conflitto: come trasformare il problema in soluzione?
Oggi Gerusalemme è la città di due popoli e tre religioni. Le parti in conflitto pensano più a dividerla che a condividerla. È la città di Dio e, come Dio, è per tutti: nessuno può averla in esclusiva. Essa deve essere aperta a tutti i credenti, facendone una città internazionale con uno statuto speciale, governata alla pari da israeliani e palestinesi; un’entità unica di cui nessuno è padrone, ma comproprietario, sotto la supervisione dell’Onu, per garantire il rispetto delle regole e delle speranze dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione; ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti può portare solo a una tregua, non a una pace definitiva.

Chi ha le chiavi della pace?
Il conflitto in corso non è una guerra: non ci sono due eserciti che si combattono tra loro, ma da una parte c’è l’oppressore, dall’altra l’oppresso. Se si parla di azioni terroristiche palestinesi, bisogna parlare anche di azioni terroristiche israeliane. La violenza palestinese e quella israeliana sono purtroppo legate tra loro.
Come rompere il circolo vizioso? La soluzione è semplice: porre fine all’occupazione militare israeliana; non vedo altro modo possibile per far scoppiare la pace in Medio Oriente. Purtroppo, Israele non parla di occupazione, ma di autodifesa, di diritto alla sicurezza, e non capisce che il vero problema è l’ingiustizia fatta al popolo palestinese. Se cesserà tale ingiustizia, se i palestinesi avranno il loro stato, saranno i migliori amici d’Israele. La pace è molto più utile a Israele che ai palestinesi. E se vuole la pace, deve aprire il dialogo, fare passi concreti; è lo stato più forte ed è l’oppressore, per cui dovrà fare il primo passo. La chiave della pace è in mano a Israele.

In concreto, come risolvere il conflitto?
Non può esserci pace senza risolvere il problema del territorio. Nel 1967 il 78% del territorio formava lo stato di Israele; il 22% sotto il governo giordano; poi Israele lo ha occupato e di questo 22% promette di restituire il 40%, che non basta per fare uno stato. Quindi, o Israele si ritira dai territori occupati e li restituisce ai palestinesi, oppure li incorpora formando un unico stato in cui tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi diritti e doveri, cambiando il nome se necessario, tornando magari al nome primitivo, da Èretz Israèl (terra d’Israele) a Terra di Canaan.
Invece Israele continua a costruire nuovi insediamenti nei territori occupati e sta giudeizzando Gerusalemme, confiscando proprietà e case, con il pretesto che prima del 1948 appartenevano o erano abitate da ebrei. Ma lo stesso principio non è applicato per i rifugiati palestinesi, quando reclamano la restituzione delle loro abitazioni, ora occupate da ebrei.

Ma Obama…
Anche Obama ha deluso. Quando ha incontrato il premier israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese, non ha concluso niente: si è accontentato di parole, lasciando le cose come stanno, senza fare alcuna pressione su Netanyahu, permettendogli in pratica di continuare la sua politica. Senza imporre sanzioni e farle rispettare, Israele continua a fare ciò che vuole, contro e al di sopra di ogni legge internazionale.
Obama ha capito che c’è un problema di leadership: né Netanyahu, né Abu Mazen, né Hammas sono all’altezza per risolvere il conflitto; per questo non si impegna più di tanto per risolvere il problema.
Ma Obama…
Allora… come cristiani continuiamo a sperare e lavorare. Nella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste il dialogo è possibile e deve essere possibile. Siamo popoli che da due mila anni viviamo gomito a gomito: è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, o meglio, è la Provvidenza, i Signore della storia  che lo ha permesso e voluto.
Da parte nostra facciamo tutto quello che possiamo, convinti di avere una vocazione specifica: essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra, chiamati a testimoniare il suo amore e la sua riconciliazione qui e non altrove.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




La forza della radio, la vecchia radio

Oggi c’è internet, c’è l’I-pod, c’è Twitter e Facebook, ci sono i cellulari che fanno di tutto, oltre che le telefonate. Ma la radio, la vecchia radio resiste e resiste bene.
In questo dossier, non vogliamo parlare genericamente di questo mezzo di comunicazione, ma di radio particolari: per i loro fondatori, per il loro pubblico, per la funzione che svolgono.
Da parte nostra, nessuna pretesa di completezza. Abbiamo soltanto raccontato alcune storie raccolte in Africa (Ciad, Niger, Malawi, Burkina Faso) e in America Latina (Argentina, Perù, Colombia). Cercando di far comprendere come la vecchia radio rappresenti ancora un insostituibile strumento di comunicazione, soprattutto nei paesi del Sud del mondo.

di Paolo Moiola

AFRICA / Radio per tutti i gusti
Anni Novanta: in Africa si respira aria di democrazia.
Anche l’etere è liberalizzato.
Da allora «fioriscono» centinaia di emittenti, molte delle quali create dalla base.

Dai media monopolio di stato, in Africa, si passa alla liberalizzazione delle onde elettromagnetiche solo agli inizi degli anni Novanta.
Alcune esperienze di radio private si hanno tuttavia già negli anni ‘80, come Horizon Fm in Burkina Faso che, nata nel 1987 è una delle prime radio indipendenti nell’Africa francofona.
Già prima della liberalizzazione erano nate le cosiddette «radio rurali», radio pubbliche che vogliono essere di tipo didattico e orientate al mondo contadino. Trattano i temi come agricoltura, salute, nutrizione, allevamento, igiene, ecc. Utilizzano prevalentemente le lingue africane. Questa tipologia ha però diversi limiti, come la localizzazione nelle capitali, la mancanza di mezzi e di risorse umane competenti e motivate.

Con la liberalizzazione che accompagna i processi di democratizzazione dei paesi, altre tipologie di radio nascono e si diffondono rapidamente: radio confessionali, comunitarie, associative e le radio commerciali.
Sono tutte radio dette di «prossimità» ovvero locali, vicine alla popolazione, ma hanno diversi ruoli e missioni, nonché tipo di gestione.
La radio associativa è l’emanazione di un’associazione, creata e gestita dalla stessa. Ad esempio un’associazione per la difesa dei diritti umani, o una di contadini.
La radio confessionale è invece fondata e gestita da una confessione religiosa, ma orientata sempre al pubblico locale. Tante sono le radio evangeliche e quelle cattoliche nate in Africa nei primi anni ‘90.
La radio comunitaria appartiene invece alla comunità. Può essere una comunità professionale (ad esempio gli agricoltori) o un’entità sociale (le donne o i giovani di una località, le popolazioni di una certa lingua). Deve essere gestita attraverso organi definiti dalla comunità.
Nella pratica c’è una certa confusione tra radio associativa e comunitaria. Alcuni testi definiscono la prima come l’eccezione più ampia, sotto la quale si potrebbero far rientrare sia le radio comunitarie sia quelle confessionali.
La radio privata commerciale invece ha una diversa origine e finalità. Un capitale privato e l’orientamento al profitto il pubblico urbano piuttosto che la popolazione rurale.
 
La radio comunitaria, proprio perché è un’emanazione della comunità diventa strumento di concertazione. Favorisce la comunicazione tra i diversi membri della comunità, prendendo così un ruolo di strumento di regolazione sociale.  È la tipologia più indicata per essere anche uno strumento di sviluppo endogeno. La trasmissione tipo «forum» o «tavola rotonda» è molto utilizzata per permettere a tutte le parti di esprimersi. Attori o parti antagoniste trovano così uno spazio di confronto e spesso di dialogo, e riducono gli ostacoli.
Il «dibattito», la trasmissione pubblica (con la partecipazione degli ascoltatori) servono a instaurare una comunicazione interattiva tra diversi attori e diventano un’espressione democratica e pluralista di opinioni, bisogni e aspirazioni della comunità.
Organizzazioni come Unesco, Unicef, Acct (oggi Agenzia intergovernativa della francofonia, Aif) spingono e investono fondi nelle radio comunitarie in Africa già dalla fine degli anni ‘80.

di Marco Bello

Paolo Moiola e Marco Bello




La zappa sulle onde

Burkina Faso: Radio «Voce del contadino»

Nel Sahel il deserto avanza. La vita dipende dalle piogge. Ma i contadini decidono di organizzarsi. E di fondare una radio di «prossimità». Quasi un social network locale, per risolvere i loro problemi. E funziona.

Jean Victor sfreccia con il suo motorino per polverose strade di Ouahigouya. Questa città tipicamente saheliana, nel Nord del Burkina Faso, è il capoluogo della provincia dello Yatenga, storica sede di un re dei mossì, la cui dinastia continua anche oggi.
Regione questa, semiarida, nella quale si sente sempre di più l’«avanzata» del deserto e dove l’acqua e la terra sono due questioni cruciali, per la vita o per la morte.
La popolazione è all’85% rurale e tutto è legato all’unica stagione delle piogge, tra giugno e settembre. Se il raccolto è buono, il granaio sarà pieno e il cibo durerà fino alle prossime piogge, altrimenti si patirà la fame.
In questo contesto difficile i contadini si organizzano, perché capiscono che da soli non ce la possono fare. Alla fine degli anni Sessanta nasce un’organizzazione che si chiamerà più tardi la Federazione nazionale dei gruppi naam (dove naam, in lingua mooré significa potere).
L’intuizione è di Beard Lédéa Ouedraogo, classe 1930, già insegnante, mente finissima e leader carismatico, ancora oggi capo indiscusso della struttura.
A Beard non sfugge l’importanza dei mass media per lo sviluppo della sua regione. Nel 1996 fonda una radio comunitaria, che si vuole di «prossimità», ovvero vicina ai contadini. La radio Voix du paysan (Vdp, voce del contadino) vuole essere uno strumento per migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Sensibilizzare, animare,
informare

Jean Victor Ouedraogo è giornalista, lavora per il giornale e la radio di stato, ma crede nella radio comunitaria e dal 1997 collabora alla Voix du paysan mettendo a disposizione le sue competenze come volontario:
«L’importanza di una radio come la Vdp è il contributo che dà per sviluppare la regione. È impegnata su vari fronti.
Fondamentale è la sensibilizzazione sulle tematiche sociali. Con questa radio, ad esempio le donne della zona hanno capito che l’escissione (mutilazione genitale femminile tradizionale presso i mossì, ndr) è una pratica nefasta.
Molte hanno anche capito che quando un bambino è malato bisogna portarlo subito all’ospedale. Inoltre i contadini, tramite le trasmissioni, riescono a discutere tra loro su come migliorare le proprie tecniche e metodi di coltivazione e come proteggere l’ambiente». La radio comunitaria diventa un forum, e anche le donne riescono a discutere tra di loro dei problemi quotidiani, e su come risolvere alcune questioni di casa.
Ci sono emissioni politiche, e la radio fa capire al cittadino come votare, o l’importanza di registrare il figlio allo stato civile, per poter avere accesso ai propri diritti.
È una radio rivolta anche ai giovani, spiegando loro, ad esempio, alcune piste per trovare lavoro.
La Vdp, inoltre, è una delle prime radio che hanno partecipato al programma «Piano integrato di comunicazione» (Pic) sulla lotta contro l’escissione e contro il traffico dei bambini. Programma finanziato dall’Unicef (agenzia dell’Onu per l’infanzia), che tramite 17 radio comunitarie in Burkina Faso ha permesso di toccare direttamente 700.000 persone.

Tutti sotto l’albero

La radio fa molta animazione, e diventa vettore di messaggi tra persone: «In questi anni la radio ha contribuito al cambiamento delle mentalità della gente» ricorda Jean Victor. È anche educativa, ad esempio consiglia su come circolare in strada per non avere incidenti, come gli allievi si devono comportare con gli insegnanti.
Un appuntamento importante è il magazine intitolato: «Sotto l’albero» (per ricordare l’abitudine  di sedersi sotto un grande albero a discutere), che anima il dibattito tra ascoltatori che discutono sulla vita sociale. È una trasmissione molto partecipata. Un ascoltatore presenta il suo problema (normalmente famigliare, di vicinato, ecc.), gli animatori della trasmissione danno il loro punto di vista, e poi intervengono altri del pubblico, con i loro consigli per trovare soluzioni.
«Grazie alla Vdp delle coppie sono state salvate o degli aspiranti suicidi sono tornati sulla loro decisione. Villaggi che erano in conflitto da 15 anni si sono riavvicinati. Sono state resuscitate lingue che erano in via di sparizione» sottolinea Jean Victor.
Ma la Vdp fa anche informazione. Importante è la «Rassegna stampa». In Burkina Faso i quotidiani sono tutti in lingua francese, mentre la maggioranza della gente non sa leggere. Questo programma riprende le notizie più importanti in lingua mooré rendendole fruibili da tutti. In progetto c’è la stessa cosa in lingua dioula.
Uno spazio particolare è poi dedicato alle informazioni locali.
A Ouahigouya oggi ci sono altre sei radio. «Quello che distingue al Vdp è la partecipazione degli ascoltatori – ricorda Jean Victor – Inoltre la priorità è data ai programmi sull’ambiente, salute, educazione, sociale, vita coniugale, ai dibattiti. Addirittura i sacerdoti tradizionali hanno iniziato a telefonare per dare il loro punto di vista sulle questioni.
 Cose che non si trovano sulle radio commerciali, più orientate a produrre benefici. Un’inchiesta recente ha dato la radio Vdp come la più ascoltata nella regione del Nord con il 60% del tasso di ascolto».

Una radio
tanti gruppi

La radio comunitaria dà una tribuna a diversi gruppi sociali. I contadini, ad esempio, hanno un loro programma, animato da essi stessi e sulle loro tematiche. Ci sono tecnici che intervengono anche per dare consigli e risposte. Allo stesso modo i giovani e gli anziani hanno i loro programmi.
La radio è anche strutturata sul territorio attraverso quelli che si chiamano «club degli ascoltatori fedeli» e quasi ogni villaggio ne ha uno. Agiscono come «ripetitori» della radio e ripropongono le campagne sociali: lotta ad escissione, Aids, banditismo, matrimonio forzato, ma anche promozione dei diritti e doveri dei bambini, sensibilizzazione per le vaccinazioni. I volontari di questi gruppi, amici appassionati della radio, continuano la sensibilizzazione casa per casa, con un approccio diretto, ad esempio convincendo i genitori di mandare i figli a scuola.

Per ricevere le onde

Va ricordato che la forza di questa radio sono soprattutto gli ascoltatori nei villaggi, non tanto la città. Avere un ricevitore è abbastanza semplice, ma … non ancora alla portata di tutti in un paese tra i più poveri del mondo.
«Abbiamo discusso questo in redazione – ricorda Jean Victor – e proposto vari progetti.
Il numero è ancora insufficiente. Occorrerebbe che in ogni famiglia ci sia un ricevitore. Stiamo cercando di riflettere, per risolvere questa questione».
La Voce del contadino partecipa da alcuni anni a un progetto finanziato dalla Regione Piemonte e promosso dalla rivista Volontari per lo Sviluppo e dall’Ong Cisv. Progetto di cui fanno parte anche Radio Flash e MC. L’idea di fondo è mettere in relazione giornalisti e media del Sahel (altri paesi interessanti sono Senegal e Mali) e gli omologhi piemontesi.
L’appoggio dato è soprattutto in tecnologie e formazione, oltre la realizzazione di scambi Sud-Sud e Sud-Nord. La Vdp, ad esempio, è passata al digitale grazie al progetto e i suoi operatori sono stati formati per lavorare con queste tecnologie. 

Di Marco Bello

 

Marco Bello




Radio Refugees

Ciad: formazione «afro-africana»

Est del Ciad. Nel febbraio 2004 inizia la guerra nel vicino Darfur, Sudan. Oltre 240.000 rifugiati sudanesi invadono un’ampia regione. Un anno dopo iniziano a trasmettere tre radio comunitarie. Ma le redazioni soffrono una cronica carenza di competenze. L’autore, giornalista burundese, nostro collaboratore, è oggi in Ciad, dove lavora come formatore di giovani giornalisti di queste radio.

In Ciad vivono un centinaio di etnie e una popolazione stimata in 10 milioni di abitanti (statistiche governative del 2005). Secondo il World Refugees Survery, pubblicato nel 2007 da un comitato americano per i rifugiati e i migranti, il paese ha sul suo territorio circa 300.000 rifugiati e richiedenti asilo. Tra questi, oltre ai sudanesi, ci sono circa 60.000 profughi della Repubblica Centro africana.
Ma la guerra non è finita in entrambi questi due paesi dell’Africa centrale, così rifugiati, ma anche sfollati interni, continuano ad affluire nei campi. Diventa quindi molto difficile fare delle statistiche per stimare il numero di queste persone.

«Piccole» radio comunitarie

Nell’Est del Ciad si trovano tre radio comunitarie fondate da Inteews (Ong statunitense che si occupa di appoggio ai media come vettore di sviluppo), impiantate nel mezzo dei campi di rifugiati e di sfollati che si sono moltiplicati in questa parte del paese. Si tratta di Radio Sila, Radio Absoun e Radio Voix de Ouadai.
I giornalisti che lavorano in queste strutture sono, per la maggior parte, formati sul campo. Hanno livelli di studi variegati e pochissimi hanno fatto un percorso universitario. Altri hanno ricevuto formazioni per lavorare in questa zona in condizioni di vita molto difficili e sono magari entrati in contatto con diversi formatori.
È strano il panorama mediatico di questa parte del Ciad. La quasi totalità dei giornalisti non ha un vero «carnet d’adresse», ovvero una raccolta di numeri telefonici e indirizzi fondamentali in questo mestiere. Diverso da altri paesi, come il Burundi, dove ogni giornalista dispone di un gran numero di contatti. Si nota nelle riunioni di redazione, dove pochi hanno il numero di telefono di un’autorità locale che si vuole intervistare.

Isolati dal resto del mondo

I giornalisti di questa zona hanno pochissimi contatti con il mondo esterno, il che complica la buona comprensione del mestiere d’informare. Nel loro ambiente non hanno dei punti di riferimento o dei colleghi navigati ai quali si possono identificare.
Ascoltano sulle onde corte le radio inteazionali, come Bbc (British Broadcasting Corporation, radio britannica) e Rfi (Radio France inteationale, radio francese specializzata sull’Africa), ma ignorano ogni processo che porta alla produzione di un giornale o di un programma d’informazione che ascoltano su queste emittenti.
Non è raro sentire qualcuno dire: «Da quando sono giornalista non ho mai ricevuto una formazione». È vero che un manuale dell’Unesco spiega che i giornalisti delle radio comunitarie non hanno bisogno di conoscenze speciali, ma un minimo è necessario.
È ben visibile che l’informazione non si libera dalla pressione della storia, in quanto la predominanza di alcune etnie, che si sono succedute al potere negli ultimi trent’anni, impone la condotta. Si sente ancora dire che una certa informazione è corretta, perché è tale gruppo potente che «l’ha detto».
Diventa allora molto difficile spiegare ai giornalisti che tutte le informazioni senza fonte non sono valide, e che un professionista deve verificare le sue fonti con i propri mezzi. È in gioco la sua credibilità.

Prime difficoltà: la lingua

Questa è la mia seconda consulenza internazionale all’Est del Ciad dopo un’esperienza in Rwanda. Quando si tratta di formazioni occorre prepararsi, organizzare dei moduli formativi.
L’arabo «ciadiano» e il francese sono le lingue ufficiali. Si parlano poi un centinaio di altri idiomi locali. Questi, insieme all’arabo, sono le più utilizzate mentre il francese passa in secondo piano. Molti poi lo conoscono orale, ma quelli che possono leggerlo e scriverlo sono molto rari.
Questo vuol dire che su 10 allievi meno della metà capiscono con facilità la lingua del formatore, il che rende difficile la trasmissione della formazione.
Così, per far passare il messaggio si ricorre ai colleghi che traducono dal francese all’arabo, o in una lingua a grande diffusione come il zagawa e il massalite. Questa traduzione ha il difetto di subire delle trasformazioni durante i vari passaggi.
Ho dovuto quindi organizzare un modulo sulla traduzione stessa per tentare di rendere il passaggio da una lingua all’altra più fedele possibile. Ma questo ha creato dei ritardi sull’avanzamento della stessa formazione.

Mancano i modelli

Questi allievi-giornalisti, con formazione accademica molto diversa, non hanno lo stesso livello di comprensione. Alcuni tra loro hanno bisogno di nozioni di base.
Sono arrivato in radio attive già da due anni, ma ho constatato che  gli operatori hanno ancora bisogno di nozioni basilari di giornalismo. Questo mi ha obbligato a rivedere la formazione che avevo preparato, cercando di uniformarmi al livello di ognuno.
Quando si cercano di spiegare i meandri del mestiere, a dei giornalisti che ascoltano altre radio, si usano spesso degli esempi conosciuti da tutti. Questo non si può fare in Ciad, dove la stampa «indipendente», competitiva è solo agli inizi.
In questo paese, solo a Djamena, la capitale, si capta Rfi sulle Fm, mentre nelle altre località, la popolazione tenta di ascoltare le notizie sulle onde corte, con tutte le difficoltà. Molto spesso per essere informati su cosa succede nel proprio paese, oltre che in Africa e nel resto del mondo, captano solo delle radio straniere: sudanesi in arabo, la Bbc, Deutchewhelle (radio internazionale tedesca), ecc.
Non esiste una copertura radio locale. Da qui la difficoltà a impostare la formazione su esempi di fatti locali coperti da cronache locali.

Deontologia: questa sconosciuta

A osservarli, questi giornalisti, alcuni di loro non hanno ancora l’Abc del mestiere d’informatore. Quest’ultimo si può senz’altro classificare tra quelle professioni che hanno un impatto diretto sulla società. Ha le sue regole, la sua deontologia e la sua etica. Non necessita di molti diplomi, ma della volontà di darsi e, inoltre, occorre avere un po’ di vena giornalistica nel sangue.
A nulla serve installare degli studi radiofonici: senza la volontà degli uomini dei media, niente può fare avanzare o muovere la società.
Ecco qualche esempio che ci fa vedere come la radio comunitaria non sia percepita come un vettore di sviluppo in questa parte dell’Est del Ciad. Ho assistito più volte a presentatori di notizie che al momento della trasmissione hanno detto: «Spiacenti, questa sera non ci sarà il radio giornale», senza capire che un gesto simile è passibile di licenziamento diretto.
Altri giornalisti decidono la fine delle trasmissioni anticipata. In breve, alcuni considerano il mestiere dell’informatore come molto semplice, come quello del venditore di frutta e verdura (senza nulla togliere ai commercianti), che può decidere lui stesso quando andare a vendere e può chiudere ancor prima di aver terminato tutto il prodotto.
Abbiamo più volte sentito giornalisti reclamare delle ore supplementari, altri dire ad alta voce che il giorno di ferie è sacro e sono contenti perché non metteranno piede alla radio.

Intermediario umanitario

Poco a poco i neo-giornalisti trovano il ritmo di lavoro della radio comunitaria. Iniziano a capire che sono gli intermediari tra le fonti d’informazione e il pubblico che è, in questo caso, essenzialmente composto da rifugiati e sfollati. Il lavoro del giornalista rientra, in questo caso, nell’ambito umanitario.
Il reporter è presente dove le Ong distribuiscono viveri o sensibilizzano per l’igiene e la gestione dei rifiuti, ma partecipa anche alle riunioni di cornordinazione o di sicurezza delle Ong inteazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite presenti sul posto.
Nonostante i grandi generi giornalistici come l’indagine e l’inchiesta facciano parte della formazione, ci sono delle tematiche che non sono mai affrontate in queste radio. I grandi soggetti come l’appropriazione indebita degli aiuti, soldi o viveri, destinati ai rifugiati, le violenze su minorenni così frequenti e altri crimini, sono assenti dalle trasmissioni.
Questo dimostra che la nozione di stampa come «quarto potere» è ancora lontana in queste radio comunitarie.
Nell’Est del Ciad, i fatti relativi a certe persone dell’amministrazione di base o di certi responsabili di Ong possono invece alimentare la stampa sensazionale per mesi.

L’Informazione utile per il pubblico

Nonostante tutto, per me è una nuova esperienza quella del «giornalismo umanitario». Cerco di mostrare ai giovani giornalisti che la radio è il solo mezzo di cui dispone questo mondo di rifugiati e sfollati per fare sentire la propria voce.
È vero che in un contesto ancora fragile di tensioni politiche e intercomunitarie, occorre evitare soggetti che producono frizioni. L’importante è che i giornalisti possano sapere sempre dove si trova l’informazione utile per il proprio pubblico.
In Burundi è il contrario. Radio private come la mia, Isanganiro, denunciano sistematicamente, ogni giorno, le derive del potere.
Per questo motivo giocano un grande ruolo nello sviluppo della società e sono sempre a fianco del semplice cittadino per fare rispettare i suoi diritti. 

Di Gabriel Nikundana

Gabriel Nikundana