12.01.2010 HAITI (ORA) ESISTE

Quel che resta di Boukman

«Haiti n’existe pas», Haiti non esiste, è il titolo di un libro dell’esperto Christophe Wargny, dedicato al bicentenario dell’indipendenza di Haiti (1804-2004). Ebbene, questo era vero fino al 12 gennaio scorso. Nessuno conosceva neppure l’esistenza di questo piccolo paese dalla storia tanto originale e travagliata. Molti italiani lo confondevano con Thaiti, atollo del Pacifico.
Oggi, per lo meno si sa che esiste e più o meno che si trova nelle Americhe. È stato pure scritto che è il più povero …
Peccato, però, che l’informazione  – di massa – che si è avuta su Haiti nei giorni e nelle settimane successive al terribile evento, sia stata sovente molto parziale, superficiale e fatto più grave, viziata dal punto di vista italiano (vedi sparate di Bertolaso e battibecco con Hillary Clinton e trionfalismo per l’intervento – minimo e fuori luogo – delle autorità del nostro paese).  
Tanto di cappello per i colleghi inviati che hanno raggiunto Port-au-Prince pochi giorni dopo il sisma. Sapersi muovere in quella situazione, non essendo mai stati nel paese era impresa non facile. Peccato che, come spesso accade in questi casi, ma soprattutto per la «sconosciuta» Haiti, ci sia stata scarsità di conoscenza del paese, della sua storia, della sua cultura. La lettura della realtà, nuda e cruda come si vedeva. Ma dando poco, o nulla, la parola agli haitiani.

Siamo tornati ad Haiti. Ci siamo tornati anche per raccontarvi cosa sta succedendo adesso, quando nessuno ne parla più e gli italiani credono che sia tutto finito. Per portarvi le speranze e i sogni degli haitiani sul loro futuro, ma anche per mettere in luce i meccanismi e gli intrecci che si stanno giocando sulla pelle di questo popolo. Un popolo ricco di umanità, ma sfortunato. Perché anche qui, sul terremoto, qualcuno ci sta guadagnando.

Marco Bello

Marco Bello




Ritorno a Port-au-Prince

Alla riscoperta della capitale caraibica

Sono passati alcuni mesi dalla grande tragedia del 12 gennaio. La stagione delle piogge è arrivata e dopo di lei quella degli uragani. Port-au-Prince, con i suoi quasi 3 milioni d’abitanti è una città ferita. Case distrutte e tendopoli si sono aggiunti al caos quotidiano, al caldo, all’umidità e agli odori forti. Ma la dignità è grande e una nuova solidarietà sembra nata.

L’aereo che ci porta a Port-au-Prince atterra sotto una pioggia battente. È buio pesto perché è sera inoltrata. Non pensavo che la pista della capitale avesse le luci. Il bus interno ci recupera e ci lascia ad un hangar poco lontano. È qui che sono stati allestiti gli arrivi dell’aeroporto Toussaint Louverture, danneggiato durante il sisma del 12 gennaio. Una poliziotta gentile ci timbra il passaporto e poco dopo una doganiera assonnata ci indica di uscire. Tutto è tranquillo e normale. La stagione delle piogge è cominciata e con lei gli allagamenti di strade, cortili, terreni.

Per le strade della capitale

Il mattino Port-au-Prince ci accoglie con il suo solito caos. Con i tap-tap smarmittati carichi di gente, e i giganteschi camion americani «Mack» che non guardano in faccia a nessuno prendendosi la strada come e quando vogliono. Le lunghe file di mezzi di ogni tipo a passo d’uomo lungo le arterie principali. Sotto un sole caldo e un’umidità che induce una traspirazione continua. Se si prende un appuntamento bisogna contare più di un’ora per un qualsiasi trasferimento: il tempo è aleatorio, non è una variabile di nostro dominio. Ma il traffico congestionato, i blokis, come si dice in creolo, sono una costante di questa città, almeno negli ultimi 15 anni. Non è certo una scoperta del terremoto.
Ci rinfranca vedere che la capitale non è distrutta. Molte case sono crollate, ma molte hanno resistito. È strano notare come sia successo a «scacchiera»: un edificio in perfette condizioni a fianco di un altro ridotto a un mucchio di macerie, o ancora a una casa molto danneggiata. La distruzione è avvenuta di più in certi quartieri piuttosto che in altri. La città bassa, ba lavil, il centro nevralgico, è il più colpito e con lei molti edifici pubblici e simbolici. Dal palazzo presidenziale a diversi ministeri e uffici governativi. La cattedrale, la chiesa del Sacro Cuore. Alcuni hotel rinomati. Molte le scuole crollate o danneggiate, così come gli immobili dell’università.
E il traffico vuol dire movimento, commercio, lavoro, vita. Sì, Port-au-Prince è viva, vitale, molto più di quello che ci si possa aspettare dopo il dramma che l’ha colpita e dopo le immagini che abbiamo visto attraverso i mass media. Già dal mattino presto il formicaio umano si attiva. Uomini e donne con il vestito «buono» cercano di infilarsi su uno degli innumerevoli tap-tap per recarsi in ufficio. Mamme e papà zig-zagando nel traffico, accompagnano per mano il figlioletto a scuola, vestito con l’impeccabile uniforme. Gli operai si accalcano per attraversare il cancello del Parc Industriel Métropolitain (ampia area recintata e controllata nella periferia Nord), dove faticheranno tutta la giornata per poco più di un dollaro, in una delle tante fabbriche manifatturiere. Le madam sara – donne commercianti al dettaglio di ogni cosa, dal sale alla verdura, dai quadei ai prodotti di bellezza – sono già appostate con i loro grandi cappelli di paglia nelle vie di mercato. Segni di quotidianità. Di voglia di vivere. «La gente ha subito reagito – ci racconta l’amico giornalista Gotson Pierre – il giorno stesso. Non si è fermata un istante. Se si fossero fermati sarebbe stato peggio, avrebbero avuto più difficoltà a riprendersi. Invece hanno cominciato subito: a soccorrere i feriti, a togliere macerie».
E una grande solidarietà umana, da tempo perduta in questa città caotica e violenta, sembra rinata, come ci spiega Suzy Castor, nota storica e politica haitiana: «La solidarietà interhaitiana è venuta fuori fin dal primo giorno. Ci si lamentava molto della mancanza di questo valore, ma con il terremoto è stata spontanea. Si vedevano delle cose straordinarie che rasentavano l’eroismo». E continua: «Il terremoto è stato duro, terribilmente. Ma due o tre giorni dopo la vita è ricominciata. Per me è straordinario questo dinamismo di cui ha fatto prova il popolo haitiano. Questa forza nella disavventura, è una grande fortuna che abbiamo».

Città nella città

Ma il paesaggio urbano di Port-au-Prince non è cambiato solo per le case distrutte. E i mucchi di macerie lungo le strade fatti da chi, faticosamente, toglie pezzo per pezzo quello che resta della propria casa e lo ammucchia in strada, nella speranza che un giorno qualcuno porti via tutto. Ovunque in capitale, come nella vicina Petion-Ville (comune adiacente dalla parte montagnosa, abitato dalla classe media) e a Léogane, epicentro del sisma, sono comparse tende di ogni specie e forma. Qualsiasi spazio aperto, piazza, campo sportivo, cortile è diventato una tendopoli. Lo sono i Champs de Mars, giardini di fronte al palazzo presidenziale, lo è la piacevole piazza Saint Pierre, nel centro di Petion-Ville. Ci sono zone dove al posto delle tende si trovano ancora i ripari di fortuna, fatti da lenzuoli, stuoie e teli colorati. Altrove sono i teloni blu degli aiuti umanitari che hanno avuto la meglio.
Anche a Canapé Vert, bel quartiere residenziale che si arrampica sulla collina, come a Pacot, a Tourgeau, a Bois Patate, file di tende a igloo, dalla due posti alla famigliare sono allineate sui bordi delle strade rendendo difficile il passaggio.
Sulla route Nazionale 2, in uscita dalla capitale verso la città satellite Carrefour, i ripari di fortuna si trovano addirittura nell’isola tra le due carreggiate.
Camp Fierté è una tendopoli o «centro di accoglienza» come sono anche chiamati, nel cuore di Cité Soleil, una delle più grandi e tristemente conosciute (anche prima del terremoto) bidonville di Port-au-Prince. Qui è difficile lavorare, la tensione è sempre palpabile, proprio per la popolazione che abita questo quartiere e la sua storia. Il campo è assistito da Medici senza frontiere e dall’Ong italiana Avsi. Sotto alcune grosse tende si è ricreata una scuola e un ambulatorio per consultazioni e prime cure dove si avvicendano medici italiani, sempre con un progetto di Avsi. «Ieri è arrivato un tizio con una grossa ferita da arma da taglio – ci racconta uno dei medici sul posto – lo abbiamo suturato in fretta e poi abbiamo capito che c’era più tensione del solito. Per questo abbiamo finito le consultazioni molto presto». «Questo bambino è un “meno quattro”, non ne avevo ancora visti qui» dice un’altra dottoressa con in braccio un frugoletto che pare avere pochi mesi. In gergo vuole dire che pesa quattro chili in meno di quanto dovrebbe: «È in uno stato avanzato di malnutrizione».
Marino Contiero, cornoperante dell’Avsi, lavora qui ogni giorno. Organizza distribuzioni di cibo e di acqua. Ci accompagna in giro tra le grosse e pesanti tende della Protezione civile italiana e quelle più leggere di Medici senza frontiere. «Il clima in generale non è buono e nei campi la situazione si fa dura ed è sempre più difficile lavorare. Anche nei quartieri di Cité Soleil (ci sono ampie zone di baracche non crollate, ndr.) si verificano continui scontri tra le bande e le sparatorie sono giornaliere». Ci racconta che anche in altre zone, come Martissant, quartiere popolare all’uscita Sud della capitale, le gang sono tornate attive e a volte impediscono le distribuzioni alimentari (si veda su questo fenomeno MC gennaio 2007).
Nel campo vediamo soprattutto donne e bambini, ma anche ragazzi. Gli uomini sembrano non esserci. Ci chiediamo quali saranno i tempi per il ritorno alla «normalità» o piuttosto a una casa decente per tutte queste persone. Molte tende non sono fatte per resistere mesi sotto il forte sole dei Caraibi e si stanno deteriorando. Le piogge iniziate a maggio sono torrenziali, e creano fiumi di fango. A giugno è anche iniziata la stagione degli uragani e questi ripari possono facilmente prendere il volo.
Marino: «Spero di terminare presto con le distribuzioni e incominciare a fare qualche cosa di concreto per aiutare le famiglie a tornare a casa loro». Questo è infatti previsto dal programma. Le distribuzioni non sono fatte a caso: «Noi di-
stribuiamo solo a donne e bambini e abbiamo delle liste ben verificate. Non diamo più teloni come all’inizio e il cibo è dosato con grande precisione. Occorre fare di tutto affinché non si inneschi la spirale della dipendenza». In effetti questo è un rischio enorme. Esistono già i campi «fantasmi» dove la gente viene di giorno solo perché una qualche Ong internazionale distribuisce cibo. Poi la notte rientra nei propri quartieri. «Ma allo stato attuale distribuire acqua e cibo in alcune zone è necessario perché ci sono molti casi di malnutrizione, anche grave, nei bambini» conclude Marino.
Le stime ufficiali parlano di 1,3 milioni di senza tetto a causa del terremoto e circa 500.000 sarebbero quelli che ancora vivono in tenda.

Il trauma che non si vede

Ma c’è qualcosa più difficile da vedere, se si guarda solo in superficie. Qualcosa di molto importante, che si percepisce parlando con la gente. «La popolazione è rimasta traumatizzata. Ad esempio i nostri seminaristi che hanno visto morire i loro compagni». Chi parla è padre Crescenzo Mazzella, camilliano, da oltre dieci anni nel paese. Il crollo del centro di formazione della Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha causato molte vittime. «I nostri seminaristi erano in macchina e stavano per partire. A fianco, nel parcheggio, la macchina di un gruppo di loro compagni era già accesa. La scossa li ha sepolti, mentre i nostri sono rimasti indenni. Ma scioccati. Ora è molto più difficile lavorare con loro». Il sisma, qui come altrove, ha deciso per la vita o la morte di qualcuno secondo un criterio che non ci è dato conoscere. «Dopo questi drammi occorre ricostruire la persona, prima ancora di ricostruire le infrastrutture» afferma padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata e psicologo. Dopo il sisma ha già compiuto due viaggia ad Haiti, su richiesta del nunzio apostolico, Monsignor Beardito Auza, proprio per lavorare con religiosi e seminaristi sulla «gestione e rimozione del trauma». «Occorre aiutare le persone a gestire il trauma, e motivarle per riprendere la vita normale con un impegno in prima persona nella ricostruzione – ci racconta padre Enzo -. Abbiamo lavorato con terapie individuali e di gruppo, per togliere il senso di “distruzione totale” che porta alla non azione» (vedi box).
L’appoggio psicologico è dunque altrettanto importante quanto quello materiale, anche se meno visibile e forse meno praticato.
Tutti, a Port-au-Prince, parlano della «grande scossa» che deve ancora arrivare. Molti, dopo mesi, pur avendo la casa in buone condizioni e usandola durante il giorno, preferiscono dormire nella tendina piantata in cortile o in strada. Ed è forse anche per questo che il governo (nel momento in cui scriviamo) non ha ancora dato il permesso di ricostruire le scuole e gli altri edifici in muratura, ma solo in materiali provvisori: legno, lamiere, tende. Le Ong e gli enti privati hanno costruito in questo modo le scuole crollate, e così – fatto molto importante – i bambini e i ragazzi hanno potuto riprendere le lezioni.
Come al College Saint Martial un’antica scuola della capitale, fondata dai padri dello Spirito Santo (Spiritani). Dall’asilo al liceo, la scuola è sempre stata un riferimento per gli abitanti di Port-au-Prince. Situato nella città bassa, alla fine di rue de Miracles, il College ha subito danni gravissimi. I due grossi edifici con le aule scolastiche sono crollati e la casa dei padri, seriamente danneggiata, è da radere al suolo. La Bibliothèque Haitienne, collezione unica di volumi, giornali, documenti originali e fotografie sulla storia di Haiti si trovava al secondo piano. «Siamo riusciti a salvare quasi tutto, e a metterlo al sicuro nella cappella – ci racconta padre Paulin Innocent, superiore regionale degli Spiritani – in attesa di rifare la biblioteca in un nuovo edificio. Per smantellare il palazzo rimasto in piedi ci hanno chiesto 100 mila dollari!».
Ma gli oltre 1.000 allievi di Saint Martial hanno potuto riprendere i corsi a marzo. Tutti, nelle loro uniformi pulite, dai piccoli dell’asilo, in una tendona dell’Unicef, all’ultimo anno del liceo, in aule fabbricate in materiale leggero. Il tutto dipinto in verde-giallo, da sempre i colori della scuola. Sono segni importanti per un ritorno alla normalità.

Marco Bello

Marco Bello




Due volte vittime

Chi gestisce il futuro del Paese

Dopo il terremoto la comunità internazionale si mobilita. Gli Usa inviano 20.000 marines e prendono in mano la situazione. Il governo haitiano si affida a esperti stranieri per il piano di ricostruzione nazionale. Quando avrebbe dovuto mobilitare le «forze vive» della nazione. Ma società civile e partiti politici non ci stanno. Intanto si profila all’orizzonte la scadenza elettorale.  E la commissione per la ricostruzione è cornordinata da una vecchia conoscenza: Bill Clinton.

«Il terremoto rappresenta una nuova tappa per Haiti. In un certo senso niente può essere come prima. I 35 secondi del sisma hanno avuto un impatto di ampiezza straordinaria, che si prolungherà per molto tempo ancora». Suzy Castor parla nel suo ufficio nel Cresfed  (Centro di ricerca e di formazione economica e sociale per lo sviluppo), situato nel quartiere di Canapé Vert. Struttura che, nonostante le vistose crepe, è sopravvissuta al sisma. «Questo è valido sia che si tratti di distruzione fisica materiale sia di perdita di vite. Perché 300 mila morti sono anche 300 mila risorse che abbiamo perso». La storica haitiana è anche militante politica (partito Opl, Organizzazione del popolo in lotta): «Per questo io credo, non sia un’opportunità, ma l’occasione per potere ricostruire, non solo fisicamente, ma anche materialmente. Noi parliamo di “rifondazione”. C’è stata la fondazione nazionale con il primo gennaio 1804, l’indipendenza di Haiti, la libertà, i molti sogni. Penso che questa rifondazione debba farsi, in modo naturale. Tutti ne parlano adesso».
Un’opportunità importante, che però sta inesorabilmente scivolando via dalle mani degli haitiani. E non è la prima volta nella storia del paese.

Aiuti, marines e piani di sviluppo

Dopo il sisma che crea un vero disastro, la comunità internazionale si attiva. La solidarietà dai popoli di mezzo mondo è commovente, ma anche gli interessi di alcuni stati sono evidenti. Gli Usa mandano nel paese 20.000 marines.
Il 31 marzo si tiene a New York la conferenza per la ricostruzione di Haiti. Vi partecipano i paesi donatori e le Nazioni Unite.
Il governo haitiano deve preparare un piano di sviluppo per il paese. Per farlo, anziché coinvolgere i diversi settori della nazione, utilizza un altro documento il Post disaster needs assessments, un modello (anglosassone) di valutazione dei bisogni dopo i disastri, realizzata, in questo caso, in gran parte da esperti stranieri. è così che il governo partorisce il «Piano d’azione per il sollevamento e lo sviluppo di Haiti» con l’obiettivo di fare «di Haiti un paese emergente da oggi al 2030».
Ma i movimenti sociali e i partiti politici haitiani non ci stanno e contestano duramente il documento. Nei contenuti e soprattutto nel metodo. «A livello della società civile, le organizzazioni hanno denunciato l’assenza di partecipazione. Di fatto non riconoscono il piano del governo perché loro non hanno potuto partecipare» ci spiega il giornalista Gotson Pierre. «Il piano non collega le richieste che potevano venire dal paese rurale, dalle donne, dai quartieri popolari, dai campi di sfollati, etc. Non è veramente articolato sulle aspirazioni dei settori sociali di Haiti».  E continua: «Lo stato da solo non può risolvere questa situazione. Da qui la necessità di cercare di mobilitare l’insieme della società haitiana per far affrontare la situazione: questo è il ruolo dello stato». Ma tutto ciò non è successo. Gotson Pierre: «Non si sente questa capacità di mobilitazione dei settori della società per far fronte a questa situazione». Anche gli aiuti della comunità internazionale vanno cornordinati: «Bisogna creare questa sinergia tra la volontà della comunità internazionale, la possibilità dello stato di cornordinare lui stesso questo sforzo e la società haitiana, altrimenti non arriviamo da nessuna parte».

Groviglio politico interno …

Ma non basta. Il 15 aprile il governo riesce a far votare al Parlamento il prolungamento di 18 mesi della «Legge sullo stato di emergenza», legge che di fatto trasferisce tutti i poteri all’esecutivo. Il 10 maggio la camera dei deputati e un terzo del senato scadono (ad Haiti il senato è rinnovato un terzo alla volta per sei anni). In effetti le elezioni generali (amministrative, legislative e presidenziali) dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – tenersi a fine novembre, in modo che il nuovo presidente della Repubblica (René Préval non può ricandidarsi) possa assumere la carica alla scadenza costituzionale: il 7 febbraio.
Il senatore Jean-William Jeanty fa parte di un gruppo di 10 parlamentari che hanno votato contro la legge d’emergenza e si definiscono «resistenti»: «Abbiamo denunciato questa legge e abbiamo pubblicato una lettera, protestando contro la sua incostituzionalità».
Un’altra mossa del presidente è stata far votare un emendamento della legge elettorale che rende possibile prolungare il mandato presidenziale «qualora non fosse possibile tenere le elezioni nella data costituzionale». Continua l’onorevole Jeanty: «Abbiamo poi scritto una lettera contro la legge che corregge il mandato del presidente. Noi siamo in “resistenza” completa rispetto a quello che si fa attualmente nel paese».

… e affari inteazionali

E con la legge di emergenza riaffiora anche un vecchio «adagio» della geopolitica dell’area. Continua il senatore Jeanty: «La legge sullo stato di emergenza delega i poteri non solo all’esecutivo ma anche all’internazionale, perché in essa è definita la creazione della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), di cui Bill Clinton sarà il cornordinatore principale». La Cirh ha preso ufficialmente forma il 17 giugno scorso ed è composta per la metà di rappresentanti di istituzioni e paesi donatori (Usa, Francia, Canada, Spagna, Brasile, Unione europea, Onu, Banca mondiale, ecc.), e per l’altra metà di rappresentanti haitiani «istituzionali», parlamento, governo, giudiziario e (poco) collettività locali. È co-presieduta dal primo ministro Jean-Max Bellerive e da Bill Clinton. Quest’ultimo non è estraneo alla storia di Haiti, in quanto fu lui (insieme a 20.000 marines) a «riportare in patria» il presidente Jean-Bertrand Aristide, dopo i tre anni di sanguinoso regime di Raul Cédras (1991-94). Un Aristide molto vicino ai democratici statunitensi, ormai edulcorato e «venduto» agli interessi dello zio Sam.
«In questa legge si dice chiaramente che la Cirh deve assicurare la “messa in esecuzione del programma di sviluppo” di Haiti. Questo vuol dire che i poteri della commissione sono superiori a quelli dell’esecutivo» continua Jeanty. Una vera ingerenza degli stranieri negli affari interni del paese.
La società civile e i partiti politici, tenuti totalmente al di fuori del processo, temono che non solo la ricostruzione del paese ma anche la visione del futuro di Haiti sia gestito dai paesi stranieri, in particolare dagli Stati Uniti.
Ribadisce Suzy Castor: «Nella storia non conosciamo alcun caso in cui il salvataggio viene dall’estero solamente. Non dico che non si deve contare sull’appoggio dell’esterno, ma se non è il popolo che prende in mano il suo destino, non c’è futuro».
Mettere nelle mani della comunità internazionale gli orientamenti per lo sviluppo di una nazione è, certo, fatto anomalo e premessa a nuove forme di controllo geopolitico. Continua Suzy Castor: «Per questo dico, il primo responsabile di questo orientamento deve essere il governo haitiano, insieme alla popolazione. La cooperazione può continuare a essere quello che è con i risultati che conosciamo, oppure, approfittando di questa esperienza, fare un passo che può essere benefico alla nazione. Ma questa cooperazione rischia di trasformarsi in nuove forme di tutela per il XXI secolo».
Tutela che gli Usa cercano da oltre un secolo (riuscirono ad occupare il paese dal 1915 al ’34). Haiti interessa non solo perché è nel “cortile di casa”, nell’area geopolitica a totale (o quasi) controllo nordamericano. È da vent’anni il principale snodo per il traffico della cocaina dal Sud al Nord America, pratica incoraggiata da governi corrotti e putchisti o dalla mancanza dello stato. È all’origine delle migliaia di boat people, che a ondate successive hanno tentato (e tentano) di raggiungere la Florida. È inoltre molto vicino a Cuba: le due isole sono separate solo dagli 80 Km del Passe du Vent, nel Nord Ovest. Zona dove, già da molti anni si dice, gli Usa volessero trasferire la base di Guantanamo. Per gli Usa Haiti è anche un mercato, del riso in particolare, alimento base della dieta haitiana. Secondo una strategia ben pianificata l’american rice invade da oltre 15 anni i piatti degli haitiani a scapito dei produttori locali. E dopo il sisma l’immissione di riso Usa è stata straordinaria. Perché dunque, in prospettiva, non fare di Haiti una nuova Porto Rico?

Verso improbabili elezioni

Secondo il senatore Jeanty il governo non ha offerto alcun margine di negoziato. Per questo il movimento tende a radicalizzarsi e la situazione potrebbe scaldarsi.
Fino dal 10 maggio si moltiplicano le manifestazioni in capitale e nei capoluoghi dei dipartimenti. Mobilitazioni contro il presidente René Garcia Préval e contro la legge di emergenza. Sono organizzate dai movimenti della società civile e dai partiti politici. Alcuni settori chiedono le dimissioni del presidente e la creazione di un governo di transizione, altri vogliono che si tengano le elezioni nei tempi stabiliti. Tutti sono contrari al prolungamento –  fuori costituzione – del mandato. «Per me è essenziale che si metta in piedi un potere di transizione che identifichi i bisogni di questo momento e formi le strutture che permettano di farci uscire da questa situazione creatasi a gennaio e per poter andare avanti» spiega Jeanty.
Il 24 giugno nuova mossa del presidente: il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), presieduto da Gaillont Dorsainvil ottiene il mandato per organizzare le elezioni del 28 novembre. Ma il Cep è un altro nodo duramente contestato da opposizione e società civile. Dorsainvil aveva la stessa carica durante le passate elezioni, che hanno visto la vittoria di Préval ed è accusato di essere vicino al presidente. L’attuale Cep è poi stato coinvolto in diversi scandali. La richiesta popolare è invece quella di un Consiglio nominato secondo i criteri dettati dalla costituzione del 1987, con maggiore partecipazione di tutti i settori della società haitiana. «E inoltre c’è la volontà di Préval: lui vuole organizzare le sue proprie elezioni, in maniera da portare la sua ombra al palazzo presidenziale dopo di lui» sostiene il senatore.

Ricostruzione: «this is business»

Un segnale evidente dell’interesse Usa e Canadese è l’impegno che questi due stati si sono presi per ricostruire rispettivamente 47.000 e 16.500 edifici. Impegno che in realtà è il grosso business della ricostruzione edilizia. Il primo ministro canadese è volato ad Haiti per assicurarsi che le imprese canadesi vi partecipino. C’è un negoziato politico in appoggio all’imprenditoria. Da sottolineare che la legge sullo stato di emergenza rende molto semplificate le procedure per l’assegnazione degli appalti.
Nella conferenza di New York del 31 marzo i paesi donatori hanno promesso 9,9 miliardi di dollari su 5-10 anni per la ricostruzione di Haiti. Cifra in parte confermata (7,8 milioni) all’incontro internazionale del 2 giugno a Punta Cana (Repubblica Domenicana). Di fatto, però, a cinque mesi dal sisma, solo 150 milioni di dollari erano stati sbloccati da Brasile e Venezuela. Quest’ultimo ha anche cancellato un debito petrolifero di 395 milioni.
È chiaro che questa montagna di soldi “promessi” solletichi la cupidigia di molti. Si pensi, inoltre, che nel 2006 Haiti era il paese più corrotto del mondo secondo la classifica di Transparency Inteational (vedi MC gennaio 2007). Forse per questo Préval e la sua équipe hanno difficoltà a mettersi da parte.
René Préval, già primo ministro e delfino di Aristide (’95), è poi diventato presidente della Repubblica in un primo mandato (’96-2001) durante il quale subiva la pesante influenza del predecessore. È di nuovo eletto presidente nel 2006, dopo il periodo di transizione del primo ministro Gérard Latortue (vedi intervista su MC marzo 2005). Ma durante i suoi due mandati non ha mai fatto nulla di concreto e ha pesanti responsabilità sullo stato in cui versa oggi il paese.
Camille Chalmers, direttore esecutivo del Papda (piattaforma di organizzazioni della società civile haitiana), mette in luce il doppio dramma del popolo haitiano.
«Oggi per la maggior parte degli attori potenti sul terreno, lo spazio di ricostruzione è uno spazio di riconquista e ri-colonizzazione, per approfittare della terribile crisi post sisma e spingere su una serie di riforme economiche, che vanno nel senso di un controllo diretto delle risorse strategiche da parte delle multinazionali».
I movimenti della società civile haitiana, nati agli inizi degli anni ’80 per cacciare Duvalier, hanno vissuto periodi storici altei di effervescenza e appiattimento. Oggi, rivitalizzanti da questa nuova solidarietà interhaitiana, stanno cercando di creare un fronte unico e fornire proposte alternative. Vogliono una rottura rispetto allo stato della dipendenza, dell’esclusione e del dominio oligarchico. Chalmers: «Secondo noi pensare oggi a delle risposte alla crisi post sisma vuol dire pensare delle risposte alla crisi strutturale haitiana che data molto prima il 12 gennaio e attraversa tutto il XX secolo». Ma come?
«Uno degli strumenti che stiamo cercando di mettere in piedi è quello che chiamiamo l’Assemblea dei movimenti sociali di fronte alla crisi haitiana. Sarà uno spazio di incontro di tutti i movimenti sociali di Haiti, nel quale vorremmo arrivare a definire l’opzione di sviluppo, ovvero una visione di sviluppo economico e sociale, per avere un minimo di accordo sui grandi orientamenti da prendere rispetto al futuro».
Ma la strada è ancora lunga e, soprattutto, il cammino intrapreso dal governo dopo il sisma va nella direzione opposta.

Marco Bello

Marco Bello




«Ricostruire» la persona

La parola allo psicologo (missionario)

Padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata, psicologo, è docente all’Università Cattolica di Milano. È al suo secondo viaggio ad Haiti (dopo il sisma) per lavorare sulla «rimozione del trauma» con seminaristi, preti e religiosi. Lo abbiamo incontrato a Lilavois, periferia di Port-au-Prince, dai missionari Scalabriniani.
«Si parla di disturbo post traumatico da stress. Il rischio maggiore è la non azione, l’incapacità di riattivarsi, restare a contemplare le macerie e non fare nulla. Poi ci sono reazioni tipo la disperazione o la negazione, per cui non vedi la situazione reale. Senza contare le varie conseguenze che si portano avanti nel tempo, come allucinazioni, ansie improvvise, difficoltà di rimanere in posti chiusi, fino a problemi fisici, come tremiti del corpo, ecc. Il fatto è che questi disturbi diventano cronici alcuni mesi dopo l’evento. Per questo l’intervento dovrebbe essere fatto all’inizio».
Lui e la sua équipe sono intervenuti a diversi livelli.
«Si parte dai dati scientifici che descrivono la realtà. Per questo abbiamo fatto interventi su cos’è il terremoto, come ci si può salvare, come gestire l’emergenza.
Dopo si fanno esempi concreti per dare loro il senso che si può ricostruire partendo dalle piccole cose. Se prendo un mattone un giorno e domani ne prendo un altro e lo metto sopra, dopo due giorni sarà ancora lì. Perché il senso che ti rimane è quello dell’inutilità di ricostruire, in quanto poi tutto sarà distrutto».
Poi si passa a terapie individuali e di gruppo.
«Questo consiste soprattutto nel far raccontare alla persona quello che ha vissuto, nei particolari. C’è bisogno di ricordare. Tra le conseguenze ci sono anche le amnesie. La gente non ricorda per negazione. Ha bisogno del racconto personale e l’ascolto del racconto degli altri, per questo i racconti si fanno in gruppo. Ha bisogno di ricollegare, rimettere insieme i pezzi di una situazione che è stata molto traumatica.
Chi subisce un trauma di questo genere, quando inizia a raccontare poi va avanti e fa uscire quello che ha dentro. Però non basta. L’intervento non si deve fermare al solo racconto ma si passa alla ricostruzione, quindi alla rimotivazione».
Dentro chi ha vissuto il terremoto nascono molte domande. Come mai io ero qui, mi sono salvato e la persona che era a cinque metri da me io l’ho vista morire? Come i seminaristi dei padri Camilliani, salvi nel parcheggio mentre i loro colleghi, già in macchina, venivano sepolti dalle macerie. E tantissimi altri casi.
«A queste domande si risponde in modo pericoloso, come: chi meritava di vivere o di morire … Di fronte a un’esperienza estrema come questa dove, come dice il Vangelo “uno viene preso e l’altro viene lasciato” occorre lavorare sul senso e sul significato di quello che è successo non solo a livello fisico ma di motivazione e senso della vita».
«Qui ad Haiti c’è stata la questione di chi ha mandato il terremoto. Dall’inizio l’interpretazione più frequente è legata al vudù. Oppure a Dio che “ci ha puniti un’altra volta per i nostri peccati”. L’immagine di Dio contro questo popolo sempre molto martoriato. L’intervento sui significati io l’ho fatto da prete, con celebrazioni, messe. Ho parlato della bontà del Padre che non è lì a decidere di fare il terremoto sui cattivi o sui buoni».
L’analisi di padre Enzo si spinge a scovare alcuni aspetti «positivi, se possibile» del terribile evento.
«Ci sono due o tre esperienze che la gente ha fatto, soprattutto i giovani.
Primo: si sono resi conto che il mondo li ha riconosciuti come popolo. Si sono meravigliati su come tutto il mondo si sia accorto di loro. Pensavano di non esistere.
Secondo: hanno capito che gran parte della distruzione è causa di come loro avevano costruito e urbanizzato la città.
Terzo: c’è la voglia di provare a ricostruire la società su basi diverse. è positivo il fatto di dire: “tutto è distrutto, possiamo riprovarci”. Altra cosa: all’inizio c’era una solidarietà tra di loro che non c’era mai stata. Questo è importante. Un’esperienza che non avevano mai fatto». Padre Enzo è ad Haiti anche per un altro progetto. Verificare la possibilità di una collaborazione tra l’Università cattolica di Haiti e quella di Milano: «È un’idea della Conferenza episcopale haitiana e ne abbiamo parlato con monsignor Louis Kebrau, vescovo di Cap Haitien, l’attuale presidente. Chiedono l’appoggio a nuovi leader in ambito amministrativo e politico» racconta padre Enzo. «Si potrebbe realizzare una convenzione tra università e poi organizzare diverse iniziative, iniziando ad esempio con un master in comune».

Marco Bello

Marco Bello




Un gruppo per crescere

Un’associazione dalla parte delle coppie

Creare uno spazio dove si possa parlare di adozione. Perché parlare di certe cose non è facile. Nel gruppo le famiglie possono ascoltare le emozioni di gente che ha già vissuto una problematica. E si possono preparare ad ogni evenienza.

Elio Biasi, corporatura robusta, parla deciso, mai fuori luogo. Soprattutto: sa di cosa parla. È il promotore dell’associazione Gruppi volontari per l’affidamento e l’adozione, che opera a Torino e provincia.
Il gruppo nasce nel 1982 come gruppo di sensibilizzazione e promozione all’affidamento. Poi nel 1987 passa ad occuparsi di adozione perché «il comune ha preso in mano l’affidamento» e diventa associazione.
«Abbiamo voluto far nascere un gruppo per aiutare le coppie in difficoltà, sia prima, quando occorre seguire tutto l’iter, sia nel dopo».
L’adozione implica problematiche forti: discriminazione razziale, riuscita scolastica, problemi sanitari, paura del rifiuto, eccetera. «C’era, e c’è tuttora, questa esigenza: molte famiglie non sanno a chi chiedere e sono timorose su certe cose».
Il metodo: raccontare le proprie esperienze. Elio lo chiama: «automutuoaiuto», ovvero condividere il proprio vissuto su certe tematiche con gli altri, in una dinamica di gruppo.
«Certe questioni meno importanti quando i figli sono piccoli, poi con la crescita vengono fuori. A posteriori ci diciamo: se avessimo lavorato meglio su alcune cose, che non abbiamo valutato, probabilmente potevano risolversi in una maniera migliore. Sono quelle cose che nessuno ti ha detto. Ci ha sempre animato questa grossa voglia di trasmettere agli altri e di creare dei luoghi dove si potesse parlare di adozione».
In seguito l’associazione crea due gruppi, uno per le famiglie che devono adottare e l’altro per chi affronta la post adozione.
«L’importante è che le famiglie ascoltino le emozioni da gente che ha già il vissuto e in questo modo si prepari a quanto può accadere».

Farsi una «corazza» protettiva

«Ad esempio – continua Elio – cerchiamo di dare un sostegno per affrontare tutte le traversie per ottenere l’idoneità. E cerchiamo di preparare la gente anche al caso di esito negativo. Noi non vogliamo fare gli psicologi e gli assistenti sociali. Ma è molto importante avvisare la coppia che potrebbe esserci questa eventualità».
Fondamentale è il concetto di gruppo: «Secondo me la famiglia va guidata, occorre aprirle gli occhi, darle tutte le possibili informazioni sui disagi che ci sono sul cammino. Il gruppo ti sostiene quando tu hai problemi a relazionarti con il bambino. Se non c’è un gruppo alle spalle come fai?
Le capacità e l’esperienza di gestire il gruppo è tirare fuori il problema al momento giusto. Riuscire a portare chi ha vissuto un problema a parlarne con gli altri».
I loro incontri sono seguiti da 10 -15 coppie, che si avvicendano. Dal gruppo principale, negli anni, ne sono nati altri che si incontrano regolarmente: «L’idea è non avere tanta gente. Ma avere più gruppi sparsi nel territorio». Così hanno preso vita i gruppi di Collegno, Rivalta, Bibiana e Aosta. Ogni incontro è gestito da uno o due volontari: «Persone che hanno seguito il mio gruppo e poi hanno sentito la spinta per creae un altro»
Sono nati anche gruppi legati ad altre associazioni. E anche le équipe dei servizi sociali hanno capito l’importanza di questo accompagnamento: «Importante è che gli psicologi delle Asl si stanno ispirando al nostro lavoro e organizzano riunioni con le coppie adottive che hanno selezionato nella loro zona e che poi hanno avuto il figlio. Questa è la cosa più bella per noi». Gli incontri (uno al mese per gruppo) hanno un calendario annuale sulle tematiche. «Prima svisceriamo le problematiche e poi invitiamo dei tecnici: psicologo, fisioterapista, assistente sociale, operatore dell’ente autorizzato, ecc.» prosegue Elio.
«L’obiettivo è anche di mettere le famiglie a conoscenza dei loro diritti, di quello che possono fare in caso di …, da chi possono andare.
Raccontiamo le nostre storie, più che dare consigli. Gioie e dolori. Serve anche per creare uno scudo per loro, ma grazie a quello che abbiamo fatto noi».

Verso il futuro

L’associazione è conosciuta, i servizi sanno che esiste e nei corsi preparatori della Regione la citano. Però la frequentazione è cambiata negli anni: «Ultimamente c’è più gente presuntuosa, o non preparata all’adozione, che vuole prendere e non dare. Vengono due o tre volte. Poi spariscono».
A Elio non piacciono molto gli enti autorizzati (vedi altri articoli), almeno quelli privati: «Penso che la cosa più importante da fare sia creare enti pubblici che possano collaborare con il governo dei paesi di origine dei bambini, tramite i loro specialisti: assistenti sociali, psicologi. Per semplificare il tutto, senza passare attraverso agli enti privati».
Elio Biasi è un fiume in piena, trasmette una grande carica umana. E pensa al futuro: «Una delle cose che voglio fare adesso che sono in pensione è portare l’adozione e l’affidamento nei corsi prematrimoniali. È importante far conoscere alle coppie che, tra le diverse possibilità di avere figli, ci sono anche queste».
Ma anche portare avanti le relazioni con il tribunale. Far capire l’utilità dei gruppi: «Vorrei parlare loro dei malfunzionamenti, come la disparità di selezione da un servizio sociale all’altro. Qualcuno fa cose fuori ruolo, mettono in crisi la coppia, sembra quasi che debbano martellarli per vedere se sono in grado o meno. Ma non sempre è il modo migliore».

Di Marco Bello

Marco Bello




AMORE GENERA AMORE

Da genitori a nonni (adottivi)

Una coppia di volontari sbarca in un paese centroamericano per mettersi al servizio dei desplazados. Ma diventa anche famiglia adottiva. Storia di altri tempi o … sono solo cambiate le procedure?

La storia della nostra famiglia inizia nella tragedia, ma ha un lieto fine.
Finora, per pudore e riservatezza, non l’abbiamo mai raccontata a chi non ci conosce, anche se l’hanno ascoltata dalla nostra voce tanti amici e conoscenti. Oggi, tuttavia, pensiamo che la nostra piccola, ma felice avventura possa contribuire ad infondere fiducia a genitori e figli che stanno formando una famiglia attraverso l’adozione, in un periodo in cui la nostra società fa così fatica a trovare motivi di condivisione e di speranza.

Dal lontano Salvador

I nostri figli sono orfani di guerra: i loro genitori Eugenia e Alejandro sono stati uccisi a Ayutuxtepeque in El Salvador, vittime degli squadroni della morte, addestrati per fermare il comunismo nel piccolo paese centroamericano. Nel periodo dal 1979 al 1991, il popolo salvadoregno ha pagato alla «Guerra fredda» tra Usa e Urss un tributo di sangue altissimo: villaggi rasi al suolo, uccisioni, torture, sparizioni; i morti sono stati 70.000, i feriti non sono mai stati contati. La repressione colpiva soprattutto quella parte della chiesa cattolica che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, sancita dalla Conferenza episcopale latinoamericana di Medellin. Sono stati uccisi decine di sacerdoti, suore, insegnanti, catechisti. Il 24 marzo del 1980 il vescovo Oscar Aulfo Romero è stato assassinato mentre celebrava l’Eucarestia.
Eugenia e Alejandro non erano ribelli armati, erano solo dei contadini, ma la notte del 10 marzo 1982 sono stati prelevati dalla loro casa, strappati ai loro figli e fucilati dalla Policia de hacienda, assieme ad altre venti persone del loro villaggio. La strategia della repressione militare era quella di «togliere l’acqua al pesce»: impedire, seminando il terrore, che la guerriglia ricevesse appoggio dalla popolazione rurale.
Dopo qualche mese, nell’ottobre del 1982, arrivammo in Salvador, giovani coniugi, volontari dell’associazione Mani Tese, impressionati dalle terribili testimo- nianze che arrivavano da quell’angolo del mondo. Con l’aiuto dei Padri Somaschi abbiamo realizzato il primo progetto di Mani Tese a favore dei desplazados, i poveri che arrivavano nella capitale fuggendo dalle aree dove esercito e guerriglia si combattevano. Sempre grazie ai Padri Somaschi abbiamo fondato la nostra famiglia: sono stati loro, infatti, a parlarci di quattro fratellini rimasti senza genitori e rifugiati nella parrocchia di un giovane sacerdote, cugino della madre uccisa.

Una nuova vita

All’epoca, in Italia l’adozione internazionale non era regolamentata da una legge specifica, semplicemente era deliberato il provvedimento del paese di origine del bambino. Dal canto loro, le autorità salvadoregne non stavano a sottilizzare: gli orfani erano un peso economico e un problema sociale, meglio facilitae l’affidamento a coppie straniere.
Così nel giro di un paio di mesi ci ritrovammo genitori di tre bambine, di 8, 4 e 3 anni e di un maschietto di 12 mesi.
Quando rientrammo in Italia, nel dicembre del 1982, ci presentammo al Tribunale dei minorenni di Milano che, superato lo scetticismo iniziale, ci sottopose alla procedura per ottenere l’idoneità che ci fu concessa alla fine del 1983.
Mentre affrontavamo gli aspetti giuridici e burocratici, anche con la benevola assistenza degli operatori del comune della nostra cittadina, la vita famigliare si avviava alla normalità.
Fin dal primo giorno, i bambini si sono adattati alla nuova vita, accettando tranquillamente le tante diversità: la lingua, il clima, i vestiti pesanti, la casa.
Dal punto di vista affettivo, fummo subito accettati come il nuovo papà e la nuova mamma e amati senza condizioni. Un amore grande che incluse immediatamente i nonni, gli zii, gli amici e tutti coloro che venivano in contatto con la nostra famiglia.
Tante volte ci siamo interrogati su questo inizio così «liscio», trovando delle risposte empiriche: i nostri figli non hanno subito il trauma dell’abbandono, non sono stati in istituto, la causa della loro sofferenza era estea alla famiglia, noi abbiamo conosciuto e, in parte condiviso, la loro storia…tutto vero, ma è anche vero che i bambini si affidano senza riserve a chi li cura e, sempre senza riserve, sono disposti ad amare chi li ama.

Non siamo superman

Certo è stato faticoso, lavoravamo entrambi e dovevamo gestire una famiglia di sei persone, tuttavia ce l’abbiamo fatta.
Non ci sentiamo né diversi né, tanto meno, migliori di tanti altri genitori.
I nostri figli sono cresciuti come tanti altri figli, tra successi e problemi, tra soddisfazioni e difficoltà. Oggi sono quattro adulti con una loro vita affettiva e professionale ma, quello che più conta ai nostri occhi, è che sono persone serene, sensibili e generose.
Il colore della loro pelle non ha mai creato imbarazzo in seno alla nostra famiglia e alla nostra comunità, neppure quando erano gli unici bambini «diversi». Oggi in una società, attraversata da un razzismo più sbandierato che reale, il loro aspetto «extracomunitario» e la loro identità italiana servono a far capire, anche ai più ottusi, che il mondo è in evoluzione e che la diversità è un fattore di crescita.
Quest’anno la nostra famiglia è cresciuta: nostra figlia maggiore e suo marito hanno concluso un’adozione internazionale e sono diventati genitori di tre sorelline messicane di 8, 4 e 3 anni.
Ad accogliere la nuova famiglia in aeroporto c’eravamo tutti: nonni, bisnonni, zii, prozii, amici, colleghi. La nostra allegria è risultata contagiosa, anche le altre persone davanti agli arrivi inter- nazionali hanno voluto partecipare, tenendo palloncini colorati e cartelli di benvenuto.
Avremmo, forse, dovuto essere più discreti, ma la nostra commozione era incontenibile e le bambine ci hanno ricambiato con i loro visetti sorridenti e gli occhi che brillavano. Una nuova famiglia è nata e dovrà fare il suo cammino, affrontando le giornie e i dolori di ogni famiglia. Come genitori adottivi, sentiamo una profonda riconoscenza verso nostra figlia e nostro genero che ci hanno reso nonni adottivi.
Grazie a queste bambine, la nostra famiglia sta vivendo una nuova esperienza, così densa di emozioni che vorremmo farla partecipare al mondo intero.
Ecco perché l’abbiamo voluta raccontare: la nostra storia dimostra che l’adozione è una scelta di amore che genera altro amore e semina felicità.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Una marcia in più/ L’arrivo dei «magnifici tre»/ Il lungo viaggio

Storie di adozioni

Anna e Gino / Una marcia in più

Anna e Gino, hanno una figlia di quattro anni «biologica» come si dice in gergo e hanno avuto in adozione un bimbo cambogiano di 17 mesi.
Anna. L’idea di intraprendere il percorso dell’adozione internazionale è nata durante l’adolescenza, nei miei primi viaggi in Inghilterra, venendo a contatto con una società multirazziale. Mi sono chiesta perché l’Italia non fosse così. La prima idea, in realtà, era stata sposare uno straniero, magari di colore. Poi subito dopo ho iniziato a pensare all’adozione. Questa volontà si è poi rafforzata alla nascita di Eleonora, sperando anche che questo avrebbe potuto insegnarle valori positivi di tolleranza e solidarietà.                             
Gino. Nell’ambito scout ho conosciuto persone adottate o in affidamento e mi è sembrata una buona cosa. Una opportunità per un bambino (magari non l’unica), ma anche per la coppia. Come al solito è uno scambio. Con Anna è stata una bella sorpresa condividere l’idea, meglio ancora realizzarla.

Durante il percorso per diventare genitori adottivi le difficoltà incontrate sono state poche. Abbiamo vissuto l’iter con molta serenità, non ci siamo mai sentiti giudicati, forse perché eravamo molto convinti della scelta e delle motivazioni, e crediamo che questo in qualche modo abbia influito positivamente anche su chi doveva esprimere effettivamente un giudizio.
Ovviamente avevamo le spalle coperte dal fatto di avere già una figlia e pure piccola, che quindi assorbiva totalmente la nostra attenzione nei tempi morti, quelli che di solito sono vissuti con molta ansia dagli aspiranti genitori adottivi.
Non abbiamo affrontato il cammino adottivo con la tensione delle coppie senza figli, che sentono l’urgente bisogno di dare e ricevere affetto e sono spesso reduci da travagli di ogni genere per ottenere una gravidanza.
Per quanto riguarda il percorso formativo previsto dai servizi  sociali riteniamo che, almeno nella nostra regione, ci sia una buona organizzazione  tesa ad informare fin dall’inizio le coppie in merito ai vari risvolti: legali, burocratici, organizzativi, educativi e affettivi.
Tra gli enti che curano l’adozione internazionale abbiamo riscontrato differenze non trascurabili.

Le prime vere difficoltà sono emerse quando, dopo l’arrivo di Yan, ci siamo resi conto che, per quanto l’avesse desiderato e fosse stata da noi coinvolta e preparata, Elenora soffriva a causa del  fratello.  Infatti un conto è immaginarsi un piccoletto da coccolare e abituarsi lentamente alla sua presenza, un altro è ritrovarselo già autonomo che pretende i suoi spazi e … i giochi.
Ci siamo così sentiti un po’ spiazzati e impreparati  nei confronti di Eleonora. Crediamo che  su questo tema enti e servizi possano fare molto per la preparazione e il supporto dei figli già presenti e dei genitori: serve una maggiore formazione della famiglia esistente.
Al momento l’attenzione che pongono enti e servizi è particolarmente concentrata verso i bambini adottati. Ma bisogna dire che i servizi si stanno attrezzando su questo.

Rispetto a Yan non abbiamo avuto difficoltà con l’asilo nido, mentre ci siamo dovuti confrontare con la scuola matea che finora non ha formato in modo specifico le maestre, le quali (a parte in alcuni casi), non conoscono il mondo dell’adozione e le implicazioni psicologiche dei bambini e dei genitori.
Dopo un inizio un po’ difficile, dopo aver fatto presente la nostra situazione e informato le insegnanti, a oggi dobbiamo riconoscere un impegno quotidiano positivo da parte loro. Mentre l’istituzione scolastica  ha fatto una dichiarazione di volontà per l’attenzione alla formazione futura delle insegnanti.

Anna e Gino

Cristina ed Enzo / L’arrivo dei «magnifici tre»

Siamo tornati da Addis Abeba con Johannes, Haliu e Hermias i nostri tre splendidi bambini etiopi di 8 e mezzo, 7 e 5 anni.
«Tutti maschi?», «Certo un po’ grandicelli … ,  speriamo in bene … », «E come farete con la scuola? Non sarà certo facile un inserimento a metà anno in un paese con una lingua ed addirittura un alfabeto diversi … », «Quindi sono neri … non che oggi le cose stiano come qualche tempo fa, ma inserire dei ragazzini di colore già grandi non sarà facile, i bimbi sanno essere crudeli a volte. E crescendo la situazione non credo migliorerà… », «Che bravi certo ne avete del coraggio … ormai così grandi e con tanti ricordi non sarà facile farsi accettare come nuovi genitori … », «Certo che tre in un colpo dopo tanti anni da soli … sarà molto dura».

Queste, grosso modo, le osservazioni di «buon senso» di quanti apprendevano la notizia del nostro abbinamento con i «magnifici tre». Grazie al cielo non difettiamo di amici che di buon senso ne hanno poco e che ci hanno incoraggiato molto a compiere questo importante passo.
Ancora una volta la realtà ha superato la fantasia.
Siamo partiti dicendoci che magari due fratellini erano meglio perché, sarebbe stato un punto forza per i nostri figli, magari anche molto diversi somaticamente e cromaticamente da noi, portarsi appresso un pezzetto della propria storia, e al contempo non recidere un legame certamente parte della loro identità. L’associazione aveva poi segnalato la presenza di diversi gruppi di fratelli che, per ovvi motivi, trovavano più difficoltà dei singoli bambini ad essere abbinati. Certo non ci sfiorava l’idea di prendere tre bambini, come declamava la piantina, pressoché definitiva, della ristrutturazione della nostra nuova casa, che esibiva una distribuzione degli spazi pensata per «sole» 4 persone.
Sull’età poi eravamo abbastanza rigidi: doveva essere entro i 5 anni! Una prima «picconata» alla nostra posizione è arrivata dal corso organizzato dal Comune: le adozioni ormai sono in gran parte di bambini già grandi, 7 – 8 anni. Del resto anche loro hanno diritto ad avere una famiglia. Non è detto che siano inserimenti più problematici di quelli dei neonati ed è importante per tutti i bambini avere genitori di un’età adeguata e non dei nonni – genitori. L’intervento, vibrante e ben argomentato ci ha messo molto in discussione, anche se non ci siamo sentiti di aumentare di molto la nostra disponibilità.
La seconda «picconata» è giunta dall’associazione che guardando le nostre carte di identità ci ha proposto una fascia di età di abbinamento dai cinque agli otto anni compiuti! Dopo qualche momento di smarrimento durante il quale abbiamo sentito dentro di noi infrangersi l’immagine del nostro bambino ideale, ci siamo un po’ ripresi pensando che, trattandosi pur sempre di una fascia teorica, magari i nostri figli sarebbero stati più verso i cinque che non gli otto.

Ebbene, a quattro giorni dal nostro ventesimo anniversario di matrimonio abbiamo ricevuto la telefonata di Silvana che ci annunciava, come una vera cicogna, la possibilità del nostro abbinamento con tre fratellini etiopi, tutti maschi, di età ecc. ecc.
Come si fa a dire «no» in questi casi? Come si fa a dire «si» in modo consapevole, evitando il rischio di una disponibilità solo emotiva che però ti tradisce nel vivere quotidiano a contatto con triplici capricci, un’organizzazione improvvisamente impazzita (lavatrice in moto perpetuo, spesa fantasiosa per mediare su gusti culinari incompatibili con i nostri, preparazione di tre bambini entro le 8,20 per l’ingresso a scuola…) , una richiesta di attenzioni che già in partenza soffre di uno scarto incolmabile di tre (figli) a due (genitori)?
Ne abbiamo parlato molto tra noi, con le nostre famiglie, con i servizi di zona e soprattutto insieme ai molti amici che ci hanno accompagnato in questo percorso. Attraverso il confronto con loro e la loro esperienza di genitori abbiamo cercato di capire che tipo di difficoltà avrebbe comportato il «si», ma soprattutto abbiamo sentito la loro vicinanza, il loro incoraggiamento e sostegno, «qualificati» da esperienze, pur faticose ma certamente positive e coraggiose, di adozione e affidamento di minori «grandicelli» vissute direttamente o da molto vicino.

E poi l’incontro. È vero. I nostri figli non sono neonati, ma neanche grandi quanto «temevamo»: preparati al peggio scopriamo che i vestiti portati, in realtà sono troppo lunghi e larghi.
Hanno ugualmente diritto ad una famiglia. Ne hanno già persa una e se lo ricordano bene.
Sono ugualmente, se non di più, affamati di coccole e attenzioni: baci, carezze e abbracci sono ancora oggi il nostro veicolo principale e reciproco di comunicazione. Anche oggi che, sempre di più ed oltre ogni più ottimistica previsione, stiamo arricchendo il comune vocabolario.
Non sono neonati ma persone con una loro autonomia (che ha i suoi lati positivi) non da plasmare a nostra immagine e somiglianza ma che ci arricchiscono e mettono in discussione con le loro domande, intuizioni, punti di vista che arrivano dall’altra parte del mondo per di più personalizzati dal loro vissuto.
Abbiamo scelto di inserirli il prima possibile nel contesto scolastico. Per noi è stata un’esperienza commovente incontrare un mondo della scuola che pensavamo perduto: una direttrice sensibile e decisa che ha posto le migliori premesse per un inserimento di successo; delle insegnanti motivate ed entusiaste e dei genitori aperti che hanno accolto i nostri figli con affetto, considerandoli una risorsa per la classe.
I nostri figli non erano nemmeno bambini. Erano adulti «per forza». Oggi si stanno riappropriando della loro infanzia. Un po’ come le loro biciclette: da grandi, come impone la loro taglia, ma con le rotelle, come richiedono l’inesperienza, la recente scoperta, il rispetto delle tappe di crescita. Ed è uno spettacolo vederli giocare con il «normale» entusiasmo tipico dei bambini.
È vero. I nostri figli non sono neonati. Del resto l’adozione non sostituisce una gravidanza, e non è giusto considerarla un suo surrogato. L’adozione non è dare la vita. È ridarla a chi l’aveva perduta. Ed è crudele negare questa possibilità nel tentativo di imitare un meccanismo riproduttivo che ci ha visti «parte lesa». Il punto di partenza qui è capovolto. In questo caso si ri-genera una persona che già c’è, certamente «lesa» nei suoi diritti di bambino.

Cristina ed Enzo

Maria Elisabetta ed Enrico / Il lungo viaggio

La scelta di adottare un bambino non è stata semplice e, tanto meno, immediata. È stato un processo lento, a tratti doloroso, che è maturato nel tempo. Abbiamo iniziato a pensare di adottare un bimbo solo dopo dieci anni di matrimonio. E forse l’averci pensato così tardi è uno dei rimpianti maggiori che abbiamo. Spesso ci diciamo che se avessimo iniziato prima, magari oggi invece che un figlio ne avremmo due o forse tre. Ma tant’è. Il destino ha voluto così, è così è stato.
In ogni caso nel processo di adozione siamo stati molto fortunati. Abbiamo presentato la domanda di adozione nel marzo 2006 e abbiamo abbracciato il nostro piccolo il 10 dicembre 2007. Un anno e mezzo è pochissimo in un processo che, in molti casi, richiede anni e anni di attesa.

Come dicevamo però non è stato un processo indolore. Anzi. I colloqui con gli assistenti sociali, i numerosi corsi ai quali si deve partecipare obbligatoriamente, i libri che si leggono sono tutti passi che, ogni volta, scavano nella coscienza dei futuri genitori adottivi e vanno giù nel profondo, causando ferite non da poco. Tutto il sistema di verifica delle capacità genitoriali è, di fatto, un processo che ti porta a prendere coscienza del tuo fallimento nella capacità di generare un figlio. E prendere atto di un fallimento non è mai facile. A questo poi si aggiungono le paure di non essere all’altezza di una sfida così importante. Il risultato è uno stato d’ansia che ci ha accompagnato per alcuni mesi, in particolar modo negli ultimi mesi prima di accogliere il piccolo. «Chi sarà il bambino? Quanti anni avrà? Qual è la sua storia?»: sono domande che ti seguono sempre. Che non ti fanno dormire. Ma a fianco di esse c’è anche il desiderio di diventare papà e mamma. Un desiderio fortissimo che attenua ogni dolore e ti dà la forza per andare avanti. Fino al giorno dell’incontro.

Per noi l’incontro è stato quasi improvviso. Il 7 novembre l’ente autorizzato al quale ci siamo rivolti ci ha chiamato. Dovevano comunicarci l’abbinamento con un bambino. Sapevamo che il piccolo era vietnamita, ma non conoscevamo né il nome, né l’età, né da quale provincia del Vietnam provenisse. Vedere la sua foto ci ha riempito di gioia. Il piccolo aveva allora cinque mesi e mezzo, era sano e, soprattutto, non aveva subito traumi psicologici. La comunicazione però non significava partenza immediata. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese prima di imbarcarci per Hanoi.

Il viaggio è stato lungo e difficile. I pensieri e le domande non ci hanno lasciato neppure un minuto. Ma non abbiamo dovuto aspettare molto per avere le risposte. Appena arrivati in albergo il telefono è squillato. «Domani mattina fatevi trovare alle 6 nella hall dell’albergo. Andiamo a prendere il bimbo», ci avvisava con voce perentoria il referente locale dell’ente. Quella notte abbiamo dormito veramente poco. E la mattina infatti eravamo stravolti. Abbiamo ancora le foto che ci siamo fatti fare dalla receptionist alle 6 di mattina. Il viaggio da Hanoi a Nam Dinh è passato velocemente. Arrivati al municipio di Nam Dinh, eravamo come in trance. Facevamo fatica a capire cosa ci stesse capitando. Ci hanno fatto firmare molti documenti. Poi a un certo punto ci siamo voltati ed è entrato il bimbo. Pallidino, spaurito, infagottato in una copertina azzurra. Ci guardava terrorizzato, poi si è messo a piangere. Dopo pochi minuti siamo ripartiti. Ed è cominciato un viaggio che non è ancora terminato.

Maria Elisabetta ed Enrico

Autori vari




Una strada in salita

L’adozione, un terreno delicato

Vengono dal cielo

Avvicinarsi al mondo delle adozioni, anche solo per capire qualcosa in più, è molto coinvolgente a livello personale. Si toccano aspetti di profonda umanità, ed è inevitabile entrare nell’intimità dell’altro, nella sua sfera dei sentimenti, pur tentando di farlo in punta di piedi.
Le storie sono tante, tutte importanti, alcune bellissime, altre molto tristi. Ma ci si rende subito conto, che in questo campo, non esiste la mediocrità.
Abbiamo cercato di affrontare il tema con umiltà, senza accusare (troppo) e ascoltando molto. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, ma vorremmo dare al lettore alcune possibili piste di lettura e delle pennellate di storie umane. Per non allargare ulteriormente il campo d’azione si è deciso di non estendere il dossier all’adozione nazionale.
Dedichiamo questo lavoro a tutti i bambini haitiani che hanno perso la famiglia il 12 gennaio 2010.

Marco Bello

L’Italia è uno dei primi paesi al mondo come numero di adozioni inteazionali. Ma avere un bambino in adozione è tutt’altro che facile.
E i tempi di attesa sono in media di due anni. Dal 1998 la procedura è allineata con la convenzione dell’Aja. Ma la situazione si fa più «scivolosa» in certi paesi di origine.

«Erano passate 24 ore dal nostro arrivo a Phnom Penh capitale della Cambogia. Ci avevano portato in un orfanotrofio fuori città. Non era male, pulito, perfino profumato. Entriamo in una stanza e da un’altra porta arriva una donna con in braccio un piccolo di 14 mesi. La maman ci sporge il fagotto, poi ci fanno firmare alcune carte. E via, pochi minuti dopo, di ritorno verso la città sul taxi scassato. Il bimbo irrigidito, impaurito, di vedere noi “visi pallidi”, di sentire noi con un odore diverso». È il racconto di un incontro tra genitori e figlio: un trauma, quasi una seconda nascita, che ha dato origine a una seconda vita.

Boom di adozioni

In Italia arrivano ogni anno poco meno di quattromila bambini stranieri (3.964 nel 2009) per inserirsi in circa tremila famiglie adottive. I maggiori paesi di provenienza sono stabili: Russia, Ucraina, Colombia, Etiopia e Brasile, insieme coprono quasi il 60% delle adozioni inteazionali nel nostro paese.
Questi alcuni dati «freddi» del rapporto annuale della Commissione adozioni inteazionali (Cai), l’autorità centrale per le adozioni inteazionali. Dati importanti per capire le tendenze italiane e dei paesi che foiscono bambini in stato di adattabilità.
Dati dietro i quali si nascondono migliaia di storie personali e di famiglie.
L’adozione internazionale è cambiata radicalmente nel 1998, quando l’Italia ratifica la convenzione dell’Aja del ’93. La convenzione, firmata da paesi di origine e di accoglienza, regolamenta l’adozione internazionale e impone nuove modalità e procedure.

Percorso ad ostacoli

L’iter per diventare genitori adottivi è un percorso ad ostacoli. Innanzitutto si presenta domanda al Tribunale dei minorenni di propria competenza. Si devono quindi affrontare accertamenti di tipo sanitario e innumerevoli colloqui con l’équipe adozioni del proprio territorio. Questa è composta da assistente sociale e psicologo e da essa dipenderà in larga misura l’idoneità o meno della coppia ad accogliere un bambino in adozione.
Alla fine dei colloqui, l’équipe invia al Tribunale per i minorenni una relazione che descrive la situazione personale, relazionale e ambientale degli aspiranti genitori adottivi. Sarà il giudice, in base a questa relazione a emanare il tanto agognato «decreto di idoneità» che permette di affrontare il passo successivo.
A questo punto la coppia è obbligata a scegliere uno degli enti autorizzati, associazioni senza fini di lucro (precisarlo è d’obbligo), che dovrà accompagnarla in tutte le fasi successive.
«L’adozione è cambiata in meglio sotto certi punti di vista» racconta Elio Biasi, papà adottivo di due figli brasiliani, ora maggiorenni. «Prima ci voleva più tempo per avere il decreto di idoneità e meno per avere l’adozione. Per questa seconda fase c’era più la strada del “fai da te”». Esistevano già degli enti specializzati, alcuni dei quali operano tuttora e sono quelli oggi indicati come «storici».
«Ci si muoveva tramite l’aiuto, il passaparola. Con tutti i pericoli che poteva comportare. Anche io ne ho aiutati molti, tramite missionari, in Brasile. Ma erano percorsi consolidati, di cui eravamo certi», continua Elio che, si può dire abbia dedicato la sua vita all’adozione, in quanto da 28 anni investe tempo ed energie in un’associazione di aiuto alle coppie (vedi articolo).
«Da quando ci sono gli enti, è più veloce il tribunale, poi ci si arena. Inoltre, la maggior parte degli enti non ti fanno scegliere il paese in cui andare. Ma devi dare la disponibilità multipla. Uno potrebbe invece avere motivazioni particolari verso un dato paese».
E rincara la dose: «Loro (gli enti, ndr) tendono a spingere i paesi dove hanno più possibilità di riuscita, hanno referenti più attivi. Agli enti, secondo me, non interessa darti il bambino, ma chiudere la pratica il più in fretta possibile, perché comunque porta a casa soldi. Non pensano alle sofferenze della coppia, ma al lavoro che devono fare. Si va dai due a tre anni dopo il decreto, per avere il figlio».
E come districarsi nella scelta dell’ente? «Oggi c’è molta domanda. Hanno molte coppie. Qualsiasi ente a cui telefoni per avere informazioni ti fa aspettare 4-5 mesi prima di darti un primo appuntamento.
Non si riesce a capire perché si debba aspettare così tanto. In due o tre anni può succedere di tutto. Dopo l’abbinamento (quando la coppia è associata a un bambino in stato di adattabilità, ndr) aspetti ancora alcuni mesi. Loro danno la colpa alle burocrazie dei paesi. Ma io non sono così convinto che non si possano eliminare questi percorsi».

Procedure non troppo chiare

Gli enti sono tenuti ad avere dei «referenti» nei paesi, ovvero dei loro incaricati che devono sbrigare le procedure burocratiche, accogliere le coppie quando arrivano, e accompagnarle in tutti i momenti della loro permanenza nel paese.
Con il lemma «il fine giustifica i mezzi» molti enti hanno comportamenti a dir poco dubbi in alcuni paesi. «L’associazione per la quale lavoravo puntava ad ottenere l’adozione il più in fretta possibile» racconta una ex referente che ha lavorato per un ente italiano in Africa dell’Ovest.
Ma i tempi erano molto lunghi: «Molto spesso ci si rendeva conto che bisognava pagare qualcosa sottobanco per fare andare avanti le pratiche. Io non ero d’accordo con questo metodo, mentre l’ente non aveva problemi. Per loro l’importante era velocizzare il processo». Per questa incompatibilità, dopo cinque mesi la referente decide di dimettersi.
Di casi di corruzione se ne sentono svariati, a vari livelli, in diversi paesi, soprattutto africani.
Un altro aspetto delicato è quello della facilità con cui i bambini, in alcuni casi, diventano adottabili: «Mi rendevo conto a volte che sarebbe bastato appoggiare la famiglia magari con un progetto di sviluppo, e questa avrebbe potuto e voluto tenere il bambino. Il problema è che non si creava l’alternativa per questa mamma» continua la referente. In questo modo si nega il principio di sussidiarietà sancito dalla convenzione dell’Aja, che prevede come priorità quella di creare le condizioni affinché i bambini trovino una famiglia nel loro paese. «Non riuscivamo a comunicare direttamente con i genitori, perché usavamo l’interprete. Questi, portati davanti al notaio, firmavano per l’adottabilità del proprio figlio». 
Non si vuole qui attaccare il lavoro dei molti enti italiani estremamente seri. Ne sono un esempio quelli che lasciarono il Vietnam, quando nel settembre 2009, furono condannate 16 persone per falsificazione di documenti per rendere adottabili 250 neonati.

Non tutti gli enti, vengono per nuocere

E dal punto di vista delle coppie?
«Le esperienze con gli enti sono sempre soggettive, dipende se ti è andata bene oppure no. Io non accuso mai un ente, ma mi permetto di dare giudizi generali in base a quello che sento. Moltiplico sempre, quantifico e mi rendo conto dei soldi che circolano», continua Elio Biasi.
In effetti un’adozione internazionale costa cara, anche se ci sono delle tabelle della Cai che le regolamentano. «Un’adozione va dai 10 mila euro di un paese africano ai 30 mila di un paese dell’Est Europa. A parte ci sono le spese di permanenza, viaggio nel paese» ci ricorda Elio.
I costi sono suddivisi in spese in Italia e in spese da fare nel paese straniero. Queste, a volte, raggiungono delle cifre anche molto alte.
«In Italia l’ente ha esperti e professionisti: giuristi, assistenti sociali, psicologi. Questi devono aiutare la coppia a predisporre il fascicolo capire dove depositarlo, fornire una formazione sul paese, … poi ci sono enti che dicono di fare queste cose ma non le fanno» ci svela un’addetta ai lavori. E si aggiungono tutte le spese fatte in Italia per la struttura.
«Gli enti hanno spese che si aggirano sui 3.000 – 4.000 euro in Italia. Ma alcuni hanno aumentato e ne chiedono 5.000 – 6.000. In questo caso è la Cai che dovrebbe fare un controllo per verificare innanzi tutto se i servizi vengono resi, e secondo quanto costano effettivamente all’ente». Continua l’operatrice. Poi ci sono i servizi all’estero che differiscono dai paesi: preparazione documenti, traduzioni e legalizzazioni. Spese di procedure. Il Brasile ad esempio ha procedure gratuite, altri chiedono un contributo per il mantenimento del minore che ha già vissuto in una struttura per anni. C’è il referente da pagare, talvolta l’avvocato. E ancora i follow up obbligatori: le relazioni che le coppie devono redigere insieme all’ente da mandare allo stato straniero ogni anno (o ogni semestre), in alcuni casi fino a 18 anni del figlio adottivo.Ma gli enti, essendo Onlus, organizzazioni senza fini di lucro, devono solo rientrare nei costi e non fare profitti. «Un’adozione che con un ente costa in tutto 13.000 euro, nello stesso paese altri enti la fanno pagare 25.000» conclude l’operatrice.
Mentre Elio si chiede: «Perché ci sono enti che fanno 10 adozioni in un paese e altri che ne fanno 200? Io non do giudizi, faccio solo le moltiplicazioni».

di Marco Bello

Marco Bello




Guardare al futuro

Anna Maria Colella, direttore Arai

I bambini vanno aiutati a crescere nella propria famiglia e nel proprio paese. Ma talvolta questo non è possibile. Il confine tra lo stato di indigenza e l’abbandono non è sempre netto. Ecco il punto di vista della dottoressa Colella, fondatrice del primo (e unico) ente pubblico per le adozioni inteazionali.

Anna Maria Colella è un funzionario della Regione Piemonte che si occupa da anni della promozione e della tutela dei minori. Annovera tra i tanti incarichi quello di esperta per le politiche minorili presso l’Ufficio di gabinetto dell’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco. Inoltre, è stata componente della Commissione adozioni inteazionali e anche dell’Osservatorio nazionale minori.
Nel 2001 ha promosso la nascita del primo (e unico) ente pubblico italiano per le adozioni inteazionali, l’Agenzia regionale per le adozioni inteazionali (Arai) di cui è direttore.

Come è cambiata l’adozione internazionale negli ultimi anni?
«Lo scenario dell’adozione internazionale è cambiato molto. Occorre partire dalla Convenzione de L’Aja per poter parlare di adozioni inteazionali a tutto campo. Nel ‘93 a L’Aja è stato siglato un accordo, tra paesi di origine e paesi di accoglienza, dove si individuava come principio basilare la «sussidiarietà delle adozioni inteazionali»: le adozioni sono possibili, ma solo nel momento in cui il paese di origine non riesca a dare una risposta di famiglia al bambino in abbandono. Si tratta di un principio molto importante, riconfermato con la legge italiana di ratifica della Convenzione de L’Aja (legge n. 476 del 1998).
Lo stato italiano peraltro prevede in tale legge che anche gli enti che si occupano di adozione debbano sviluppare, nei paesi nei quali operano, progetti a sostegno dell’infanzia. Viene ribadito in tal modo un aspetto molto importante: la tutela dei diritti dei bambini passa soprattutto attraverso l’attenzione degli stati di origine, in quanto ciascun bambino deve essere aiutato e sostenuto innanzi tutto nel suo paese».

Il che sembra in contraddizione con l’adozione?

«Questo principio è stato al centro dell’attenzione di tutti (stato, regioni, enti locali) ed è un riferimento per le coppie che vanno ad adottare all’estero. In passato le famiglie avevano l’idea di adottare con facilità in un paese straniero, un bambino molto piccolo e sano. Questo era il desiderio di tanti e spesso lo è ancora.
La trasformazione di questi anni è passata anche attraverso la diffusione di una diversa cultura dell’adozione, promossa sia dai servizi sia dagli enti che si occupano di adozioni. L’enorme cambiamento riguarda soprattutto la maturazione, da parte delle coppie aspiranti all’adozione, di una maggiore consapevolezza delle caratteristiche dei minori in stato di abbandono: sono spesso bimbi in età scolare, con difficili storie famigliari alle spalle e con disabilità, appartenenti a gruppi di fratelli in adozione. Si è cercato sempre più di far capire la differenza tra il bambino desiderato e il bambino reale».

Pensa che questa consapevolezza sia stata raggiunta?
«Le coppie italiane che desiderano avere un figlio adottivo hanno ben compreso questa realtà. Ci sono coppie che si preparano ad accogliere gruppi di fratelli, bambini grandi, a volte con difficoltà sanitarie.
Abbiamo accompagnato diverse famiglie all’adozione di bambini di etnia rom di 8 – 9 anni:  sono casi complessi, per nulla facilitati dal dibattito italiano su integrazione e interculturalità, che rende più difficile l’accoglienza di bambini con differenze somatiche e il loro inserimento nella rete sociale allargata. Un altro principio da tener presente è quello per cui le coppie italiane non possono realizzare adozioni “fai-da-te”, ma devono essere accompagnate da enti autorizzati, iscritti in un Albo presso la Commissione per le adozioni inteazionali (Cai) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una volta che si ottiene il decreto di idoneità all’adozione internazionale, rilasciato dal Tribunale per i minorenni, bisogna conferire l’incarico a un ente autorizzato, che, tra i vari compiti, annovera anche la preparazione delle coppie all’intero percorso adottivo. Nel panorama italiano ci sono circa 70 enti privati e un solo ente pubblico: l’Arai».

Ci sono ancora le coppie che vogliono un bimbo «piccolo, subito e sano»?

«Dipende molto sia dalla professionalità dei servizi socio-assistenziali e sanitari del territorio, sia dalla capacità dell’ente di preparare e accompagnare la coppia: l’accompagnamento è un percorso di crescita e consapevolezza.
Certi paesi d’origine chiedono alle coppie requisiti particolari e disponibilità specifiche. Se la relazione sociale, elaborata dall’équipe adozioni del territorio di residenza, riporta che la coppia non se la sente di adottare un bambino di colore o di etnia diversa, è difficile che quella coppia venga accompagnata ad adottare in un paese i cui bambini presentano differenze somatiche evidenti. Noi, però, dobbiamo sostenere le coppie e farle crescere nella loro disponibilità e nella consapevolezza che la realtà dei bambini dichiarati adottabili è complessa.
Ci sono enti che realizzano adozioni in paesi che presentano situazioni giuridiche, sociali e politiche in cui è molto difficile lavorare. Ne è un esempio il Vietnam, dove, di recente, sono emerse delle irregolarità nello svolgimento delle procedure adottive, che hanno portato all’arresto di alcuni cittadini vietnamiti incaricati della gestione di orfanotrofi collegati all’adozione».

In alcuni paesi, genitori in stato di indigenza acconsentono a «dare» i figli in adozione.

«Tutto dipende dalla capacità del paese di origine di controllare le proprie strutture e verificare che i bambini siano effettivamente in stato di abbandono. Alcuni, per esempio, prevedono che venga firmato un consenso all’adozione da parte della famiglia di origine; in tal caso è compito dei paesi d’origine controllare che il consenso non sia stato estorto alla madre per problemi di povertà o indigenza. In base alla nostra legislazione, infatti, un bambino può essere adottato se ne viene dichiarato lo stato di abbandono e di adottabilità.
Se si opera in stati dove la povertà è tale per cui maggiori sono le difficoltà legate all’ottenimento dei provvedimenti di abbandono, bisogna lavorare con cautela. Problemi di questo tipo non riguardano generalmente quei paesi dotati di strutture giuridiche e amministrative consolidate, come il Brasile e la Russia».

In casi di grande povertà il confine tra abbandono e impossibilità di occuparsi dei figli non è netto.

«Sono situazioni difficili da decifrare: alcuni bambini sono in abbandono solo a causa della povertà della famiglia d’origine? Fino a che punto la povertà stessa incide sull’incapacità educativa?
Una mamma molto povera, che vuole bene al suo bambino e lo vuole tenere, va aiutata; se, al contrario, non dimostra l’amore e l’attenzione necessari ad educare il figlio e a crescerlo, bisogna chiedersi se è più importante la mamma o il futuro del bambino.
È pur vero che bisogna avere delle alternative positive da offrire, come strutture adatte a sostenere le famiglie e i loro bambini e investire risorse nella cooperazione internazionale, nel sostegno alla mateità e all’infanzia. È estremamente importante che tutti, lo stato, le regioni, gli enti locali, gli istituti religiosi, le Ong, facciano la loro parte.
All’inizio della mia esperienza professionale nel settore non appoggiavo di buon grado le adozioni inteazionali, ritenendo che ciascun bambino dovesse essere aiutato nel proprio paese d’origine».

Qual è stata per lei la svolta?
«Nel 1998 sono andata in Brasile e ho visto per la prima volta bambini che crescevano negli istituti. Di fronte a questa situazione ci dobbiamo chiedere con che diritto diciamo no alle adozioni inteazionali, se queste possono essere uno strumento per dare una famiglia a un bambino. Se non ci sono legami affettivi e giuridici che tengono quel bambino nella sua terra, un altro paese può dargli gli affetti che non ha trovato. È fondamentale però avere e mantenere il rispetto per questi bambini, per la loro cultura, il loro passato, la loro lingua, la loro storia. Adottando un bambino dal Sud America o dall’Africa bisogna fare in modo che non perda le sue origini: la cultura del paese d’accoglienza va ad aggiungersi alla sua, quale risorsa in più.
Noi, come servizio pubblico che si occupa di progetti di cooperazione internazionale e di adozioni,  cerchiamo di preparare il più possibile le coppie a questo passaggio, a non tagliare i legami con il paese d’origine del loro bambino. Per questo riteniamo che soggioare nel paese di provenienza del minore per un certo periodo di tempo sia utile per capire e conoscere meglio la sua cultura. Concordo in ciò con le autorità sudamericane, che richiedono una permanenza minima delle coppie di 40 – 50 giorni.
L’adozione internazionale è una sfida da vincere verso il futuro e rispetto a un mondo sempre più multietnico, caratterizzato dalla convivenza di culture diverse. Noi operatori del settore, occupandoci di bambini, dobbiamo per forza guardare al futuro. Grazie all’adozione internazionale si stringono legami anche tra paesi: una famiglia con figli di origini diverse può rappresentare un modello per migliorare la convivenza e l’integrazione nella scuola e nelle istituzioni».

Perché un’agenzia regionale?
«Questo servizio pubblico è nato per dare un’opportunità in più alle coppie piemontesi aspiranti all’adozione internazionale. Il fatto che possiamo prendere in carico solo coppie della regione è una positività, ma è anche un vincolo: siamo più vicini alla coppia, ma, allo stesso tempo, abbiamo il limite di non poter prendere in carico coppie di altre regioni, che magari hanno decreti di idoneità più ampi. A seguito di una Convenzione con le amministrazioni di Liguria e Val d’Aosta, dal 2010 anche le coppie residenti nelle due regioni possono avvalersi di questo ente pubblico».

Verso un ente nazionale?
«Ci sono altre regioni italiane che vedono positivamente la possibilità di poter istituire un servizio pubblico regionale nelle adozioni inteazionali. Se, da un lato, bisogna valorizzare gli enti privati già esistenti, considerato che alcuni di questi lavorano con molta competenza e professionalità, dall’altro lato sarebbe auspicabile che altre  regioni diano vita a dei servizi pubblici in questo settore».

A cura di Marco Bello

Marco Bello




GERUSALEMME: ombelico del mondo

«Che gioia, quando mi dissero: “Andiamo alla casa di Dio”. Ora i miei passi si fermano alle tue porte, città di pace» (Sal 121). Così cantava estasiato il pio israelita, quando, dopo un lungo viaggio raggiungeva il Monte degli Ulivi e poteva finalmente contemplare la città santa. Sarà stato anche il canto di Gesù, quando si recava a Gerusalemme per le grandi feste; un canto concluso con un pianto: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Luca 13,34).
Dal Dominus Flevit, la chiesetta che ricorda tale pianto, la visione di Gerusalemme conserva intatto il suo fascino e mistero. Il panorama di cupole, campanili e minareti attesta la sua singolarità: città unica e universale, dove i fedeli di tre monoteismi possono rivolgersi all’unico Dio. Gerusalemme è il centro dell’ebraismo, è il centro del cristianesimo e dal VI secolo è per l’islam «la Santa» (Al Quds). 
Nelle sue vicende storiche, spesso drammatiche, Gerusalemme è stata la città dell’incontro e continua a essere tale. È stata definita ombelico del mondo (Ezechiele 38,12); è stata cantata da salmisti e profeti quale patria spirituale e universale, in cui tutti i popoli sono chiamati a riconoscersi fratelli, anche i nemici tradizionali come Egitto e Babilonia, a causa dell’origine comune: «Raab e Babilonia… Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: l’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: là costui è nato. E danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti» (Salmo 87,4-7).
Vista dall’alto, al momento del tramonto, Gerusalemme diventa tutta d’oro, come se si specchiasse nella città gemella che attende di scendere dall’alto dei cieli e fondersi con la città terrena, come scrive l’Apocalisse. Terrena e celeste, storica e trascendente, materiale e spirituale, temporale e mistica… Gerusalemme è una realtà bipolare, possiede due volti, come ricorda il suo nome ebraico (Jerushalayim è forma duale); una duplice dimensione in perenne tensione dialettica: la Gerusalemme storica richiama quella celeste e la Gerusalemme celeste attrae quella storica e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Gerusalemme città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Un dilemma drammatico che affiora ogni volta che ci si ferma a osservare anche superficialmente il turbinio di lingue, culture, rumori, colori, vestiti e comportamenti che riempiono le stradine della città vecchia: i passi veloci dei rabbini che si recano al Muro e quelli lenti dei musulmani apparentemente senza meta; pellegrini cristiani che pregano ad alta voce a una stazione della via crucis, mentre il bottegaio fuma indifferente il suo naghilé; fogge di monaci ortodossi e suore cattoliche che s’incrociano senza guardarsi; e poi soldati che sembrano bivaccare a ogni angolo delle strade… Ciascuno vive nel suo mondo; mondi differenti che coesistono, l’uno accanto all’altro.
Sotto la scorza di tale coesistenza si celano fortissime tensioni, prima di tutto tra ebrei e palestinesi, che spesso si tramutano in proteste e scontri, e conseguenti repressioni. Tensioni fra le tre religioni monoteistiche e perfino all’interno di ciascuna di queste religioni; tensioni che pervadono anche i fedeli delle varie chiese cristiane.

Nonostante le contraddizioni della sua storia passata e presente, Gerusalemme continua a essere simbolo di tutte le attese e speranze umane. E per rispondere a tali attese è indispensabile che ebrei, cristiani e musulmani realizzino quei valori che concordano nel riconoscere come divini: frateità, amore, giustizia, pace. 
La città senza più né pianto, né lutto, né dolore, della perfetta giustizia e libertà è dono di Dio, è profezia; al tempo stesso è pure sfida e impegno umano. Da Gerusalemme la tradizione delle tre religioni vuole che parta e si concluda la storia della salvezza del genere umano.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi