Alla riscoperta della capitale caraibica
Sono passati alcuni mesi dalla grande tragedia del 12 gennaio. La stagione delle piogge è arrivata e dopo di lei quella degli uragani. Port-au-Prince, con i suoi quasi 3 milioni d’abitanti è una città ferita. Case distrutte e tendopoli si sono aggiunti al caos quotidiano, al caldo, all’umidità e agli odori forti. Ma la dignità è grande e una nuova solidarietà sembra nata.
L’aereo che ci porta a Port-au-Prince atterra sotto una pioggia battente. È buio pesto perché è sera inoltrata. Non pensavo che la pista della capitale avesse le luci. Il bus interno ci recupera e ci lascia ad un hangar poco lontano. È qui che sono stati allestiti gli arrivi dell’aeroporto Toussaint Louverture, danneggiato durante il sisma del 12 gennaio. Una poliziotta gentile ci timbra il passaporto e poco dopo una doganiera assonnata ci indica di uscire. Tutto è tranquillo e normale. La stagione delle piogge è cominciata e con lei gli allagamenti di strade, cortili, terreni.
Per le strade della capitale
Il mattino Port-au-Prince ci accoglie con il suo solito caos. Con i tap-tap smarmittati carichi di gente, e i giganteschi camion americani «Mack» che non guardano in faccia a nessuno prendendosi la strada come e quando vogliono. Le lunghe file di mezzi di ogni tipo a passo d’uomo lungo le arterie principali. Sotto un sole caldo e un’umidità che induce una traspirazione continua. Se si prende un appuntamento bisogna contare più di un’ora per un qualsiasi trasferimento: il tempo è aleatorio, non è una variabile di nostro dominio. Ma il traffico congestionato, i blokis, come si dice in creolo, sono una costante di questa città, almeno negli ultimi 15 anni. Non è certo una scoperta del terremoto.
Ci rinfranca vedere che la capitale non è distrutta. Molte case sono crollate, ma molte hanno resistito. È strano notare come sia successo a «scacchiera»: un edificio in perfette condizioni a fianco di un altro ridotto a un mucchio di macerie, o ancora a una casa molto danneggiata. La distruzione è avvenuta di più in certi quartieri piuttosto che in altri. La città bassa, ba lavil, il centro nevralgico, è il più colpito e con lei molti edifici pubblici e simbolici. Dal palazzo presidenziale a diversi ministeri e uffici governativi. La cattedrale, la chiesa del Sacro Cuore. Alcuni hotel rinomati. Molte le scuole crollate o danneggiate, così come gli immobili dell’università.
E il traffico vuol dire movimento, commercio, lavoro, vita. Sì, Port-au-Prince è viva, vitale, molto più di quello che ci si possa aspettare dopo il dramma che l’ha colpita e dopo le immagini che abbiamo visto attraverso i mass media. Già dal mattino presto il formicaio umano si attiva. Uomini e donne con il vestito «buono» cercano di infilarsi su uno degli innumerevoli tap-tap per recarsi in ufficio. Mamme e papà zig-zagando nel traffico, accompagnano per mano il figlioletto a scuola, vestito con l’impeccabile uniforme. Gli operai si accalcano per attraversare il cancello del Parc Industriel Métropolitain (ampia area recintata e controllata nella periferia Nord), dove faticheranno tutta la giornata per poco più di un dollaro, in una delle tante fabbriche manifatturiere. Le madam sara – donne commercianti al dettaglio di ogni cosa, dal sale alla verdura, dai quadei ai prodotti di bellezza – sono già appostate con i loro grandi cappelli di paglia nelle vie di mercato. Segni di quotidianità. Di voglia di vivere. «La gente ha subito reagito – ci racconta l’amico giornalista Gotson Pierre – il giorno stesso. Non si è fermata un istante. Se si fossero fermati sarebbe stato peggio, avrebbero avuto più difficoltà a riprendersi. Invece hanno cominciato subito: a soccorrere i feriti, a togliere macerie».
E una grande solidarietà umana, da tempo perduta in questa città caotica e violenta, sembra rinata, come ci spiega Suzy Castor, nota storica e politica haitiana: «La solidarietà interhaitiana è venuta fuori fin dal primo giorno. Ci si lamentava molto della mancanza di questo valore, ma con il terremoto è stata spontanea. Si vedevano delle cose straordinarie che rasentavano l’eroismo». E continua: «Il terremoto è stato duro, terribilmente. Ma due o tre giorni dopo la vita è ricominciata. Per me è straordinario questo dinamismo di cui ha fatto prova il popolo haitiano. Questa forza nella disavventura, è una grande fortuna che abbiamo».
Città nella città
Ma il paesaggio urbano di Port-au-Prince non è cambiato solo per le case distrutte. E i mucchi di macerie lungo le strade fatti da chi, faticosamente, toglie pezzo per pezzo quello che resta della propria casa e lo ammucchia in strada, nella speranza che un giorno qualcuno porti via tutto. Ovunque in capitale, come nella vicina Petion-Ville (comune adiacente dalla parte montagnosa, abitato dalla classe media) e a Léogane, epicentro del sisma, sono comparse tende di ogni specie e forma. Qualsiasi spazio aperto, piazza, campo sportivo, cortile è diventato una tendopoli. Lo sono i Champs de Mars, giardini di fronte al palazzo presidenziale, lo è la piacevole piazza Saint Pierre, nel centro di Petion-Ville. Ci sono zone dove al posto delle tende si trovano ancora i ripari di fortuna, fatti da lenzuoli, stuoie e teli colorati. Altrove sono i teloni blu degli aiuti umanitari che hanno avuto la meglio.
Anche a Canapé Vert, bel quartiere residenziale che si arrampica sulla collina, come a Pacot, a Tourgeau, a Bois Patate, file di tende a igloo, dalla due posti alla famigliare sono allineate sui bordi delle strade rendendo difficile il passaggio.
Sulla route Nazionale 2, in uscita dalla capitale verso la città satellite Carrefour, i ripari di fortuna si trovano addirittura nell’isola tra le due carreggiate.
Camp Fierté è una tendopoli o «centro di accoglienza» come sono anche chiamati, nel cuore di Cité Soleil, una delle più grandi e tristemente conosciute (anche prima del terremoto) bidonville di Port-au-Prince. Qui è difficile lavorare, la tensione è sempre palpabile, proprio per la popolazione che abita questo quartiere e la sua storia. Il campo è assistito da Medici senza frontiere e dall’Ong italiana Avsi. Sotto alcune grosse tende si è ricreata una scuola e un ambulatorio per consultazioni e prime cure dove si avvicendano medici italiani, sempre con un progetto di Avsi. «Ieri è arrivato un tizio con una grossa ferita da arma da taglio – ci racconta uno dei medici sul posto – lo abbiamo suturato in fretta e poi abbiamo capito che c’era più tensione del solito. Per questo abbiamo finito le consultazioni molto presto». «Questo bambino è un “meno quattro”, non ne avevo ancora visti qui» dice un’altra dottoressa con in braccio un frugoletto che pare avere pochi mesi. In gergo vuole dire che pesa quattro chili in meno di quanto dovrebbe: «È in uno stato avanzato di malnutrizione».
Marino Contiero, cornoperante dell’Avsi, lavora qui ogni giorno. Organizza distribuzioni di cibo e di acqua. Ci accompagna in giro tra le grosse e pesanti tende della Protezione civile italiana e quelle più leggere di Medici senza frontiere. «Il clima in generale non è buono e nei campi la situazione si fa dura ed è sempre più difficile lavorare. Anche nei quartieri di Cité Soleil (ci sono ampie zone di baracche non crollate, ndr.) si verificano continui scontri tra le bande e le sparatorie sono giornaliere». Ci racconta che anche in altre zone, come Martissant, quartiere popolare all’uscita Sud della capitale, le gang sono tornate attive e a volte impediscono le distribuzioni alimentari (si veda su questo fenomeno MC gennaio 2007).
Nel campo vediamo soprattutto donne e bambini, ma anche ragazzi. Gli uomini sembrano non esserci. Ci chiediamo quali saranno i tempi per il ritorno alla «normalità» o piuttosto a una casa decente per tutte queste persone. Molte tende non sono fatte per resistere mesi sotto il forte sole dei Caraibi e si stanno deteriorando. Le piogge iniziate a maggio sono torrenziali, e creano fiumi di fango. A giugno è anche iniziata la stagione degli uragani e questi ripari possono facilmente prendere il volo.
Marino: «Spero di terminare presto con le distribuzioni e incominciare a fare qualche cosa di concreto per aiutare le famiglie a tornare a casa loro». Questo è infatti previsto dal programma. Le distribuzioni non sono fatte a caso: «Noi di-
stribuiamo solo a donne e bambini e abbiamo delle liste ben verificate. Non diamo più teloni come all’inizio e il cibo è dosato con grande precisione. Occorre fare di tutto affinché non si inneschi la spirale della dipendenza». In effetti questo è un rischio enorme. Esistono già i campi «fantasmi» dove la gente viene di giorno solo perché una qualche Ong internazionale distribuisce cibo. Poi la notte rientra nei propri quartieri. «Ma allo stato attuale distribuire acqua e cibo in alcune zone è necessario perché ci sono molti casi di malnutrizione, anche grave, nei bambini» conclude Marino.
Le stime ufficiali parlano di 1,3 milioni di senza tetto a causa del terremoto e circa 500.000 sarebbero quelli che ancora vivono in tenda.
Il trauma che non si vede
Ma c’è qualcosa più difficile da vedere, se si guarda solo in superficie. Qualcosa di molto importante, che si percepisce parlando con la gente. «La popolazione è rimasta traumatizzata. Ad esempio i nostri seminaristi che hanno visto morire i loro compagni». Chi parla è padre Crescenzo Mazzella, camilliano, da oltre dieci anni nel paese. Il crollo del centro di formazione della Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha causato molte vittime. «I nostri seminaristi erano in macchina e stavano per partire. A fianco, nel parcheggio, la macchina di un gruppo di loro compagni era già accesa. La scossa li ha sepolti, mentre i nostri sono rimasti indenni. Ma scioccati. Ora è molto più difficile lavorare con loro». Il sisma, qui come altrove, ha deciso per la vita o la morte di qualcuno secondo un criterio che non ci è dato conoscere. «Dopo questi drammi occorre ricostruire la persona, prima ancora di ricostruire le infrastrutture» afferma padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata e psicologo. Dopo il sisma ha già compiuto due viaggia ad Haiti, su richiesta del nunzio apostolico, Monsignor Beardito Auza, proprio per lavorare con religiosi e seminaristi sulla «gestione e rimozione del trauma». «Occorre aiutare le persone a gestire il trauma, e motivarle per riprendere la vita normale con un impegno in prima persona nella ricostruzione – ci racconta padre Enzo -. Abbiamo lavorato con terapie individuali e di gruppo, per togliere il senso di “distruzione totale” che porta alla non azione» (vedi box).
L’appoggio psicologico è dunque altrettanto importante quanto quello materiale, anche se meno visibile e forse meno praticato.
Tutti, a Port-au-Prince, parlano della «grande scossa» che deve ancora arrivare. Molti, dopo mesi, pur avendo la casa in buone condizioni e usandola durante il giorno, preferiscono dormire nella tendina piantata in cortile o in strada. Ed è forse anche per questo che il governo (nel momento in cui scriviamo) non ha ancora dato il permesso di ricostruire le scuole e gli altri edifici in muratura, ma solo in materiali provvisori: legno, lamiere, tende. Le Ong e gli enti privati hanno costruito in questo modo le scuole crollate, e così – fatto molto importante – i bambini e i ragazzi hanno potuto riprendere le lezioni.
Come al College Saint Martial un’antica scuola della capitale, fondata dai padri dello Spirito Santo (Spiritani). Dall’asilo al liceo, la scuola è sempre stata un riferimento per gli abitanti di Port-au-Prince. Situato nella città bassa, alla fine di rue de Miracles, il College ha subito danni gravissimi. I due grossi edifici con le aule scolastiche sono crollati e la casa dei padri, seriamente danneggiata, è da radere al suolo. La Bibliothèque Haitienne, collezione unica di volumi, giornali, documenti originali e fotografie sulla storia di Haiti si trovava al secondo piano. «Siamo riusciti a salvare quasi tutto, e a metterlo al sicuro nella cappella – ci racconta padre Paulin Innocent, superiore regionale degli Spiritani – in attesa di rifare la biblioteca in un nuovo edificio. Per smantellare il palazzo rimasto in piedi ci hanno chiesto 100 mila dollari!».
Ma gli oltre 1.000 allievi di Saint Martial hanno potuto riprendere i corsi a marzo. Tutti, nelle loro uniformi pulite, dai piccoli dell’asilo, in una tendona dell’Unicef, all’ultimo anno del liceo, in aule fabbricate in materiale leggero. Il tutto dipinto in verde-giallo, da sempre i colori della scuola. Sono segni importanti per un ritorno alla normalità.
Marco Bello
Marco Bello