Anima orientale, ambizioni europee

NON SOLO ORGOGLIO 

Guidata da un partito islamico moderato, la Turchia è un paese in pieno fermento, come dimostra anche il referendum del 12 settembre 2010. Pur aspirando a diventare la nuova guida del mondo islamico, i governanti di Ankara vorrebbero avere rapporti privilegiati con la vicina Europa. Ma le distanze culturali e le diffidenze europee per ora sembrano prevalere.

L’aereo volteggia sul Mare di Marmara. Davanti a noi s’apre una distesa di luci sparse su un lembo di terra tagliata dal Bosforo. Al di là, si estendono le acque del Mar Nero. È Istanbul, la bella. La città dalle splendide moschee e dai mille minareti svettanti contro il cielo. La Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dell’Impero Romano d’Oriente e la Istanbul ottomana: antica capitale ricca di storia e di cultura e da sempre ponte tra Occidente e Oriente.
Aggirarsi per le sue vecchie strade e per le sue piazze affollatissime, osservare le sue case di legno, le sue facciate decadenti ma piene di fascino è come fare un tuffo nel passato, stando, paradossalmente, ben ancorati al futuro.
La città e il resto della Turchia, infatti, sono in pieno fermento culturale, politico, sociale ed economico. Una condizione che le distingue molto dagli altri stati della stanca e asfittica Europa, a crescita zero o sottozero e soffocata da un malessere generalizzato.
Qui si respira un’aria di freschezza: sarà per la presenza di tanti bambini e giovani; sarà per la voglia di cambiamento e la speranza nel futuro, ma una cosa è certa, questa regione del pianeta qualcosa di nuovo ha in serbo per i suoi 76 milioni di abitanti.
Quartieri modeissimi e antichissimi si contendono il vasto territorio su cui è costruita Istanbul: la convivenza di passato e futuro è tra gli aspetti più appariscenti di questa metropoli mediterranea.
Dell’antica grandezza bizantina, e poi ottomana, si scorgono tracce dovunque, anche nella fierezza del popolo che, in questi anni, sta ritrovando il perduto orgoglio di «guida» del vasto mondo islamico, e arabo, dominato da dittatori e monarchi invisi ai propri stessi popoli.
La Turchia è infatti balzata alla ribalta per le posizioni «terzomondiste» e mediorientali, per il sostegno al popolo palestinese, per l’amicizia con l’Iran, con le repubbliche latino-americane, e per aver sottratto il ruolo di mediatore nei conflitti del Vicino e Medio Oriente all’Egitto, Stato arabo la cui immagine è andata ormai distrutta dall’ostentata sudditanza agli Usa e a Israele e dalla trentennale dittatura del clan Mubarak.

L’atipicitÀ DEGLI ISLAMICI turchi E LE PAURE DEGLI EUROPEI
La Turchia musulmana, ben espressa attraverso il partito al potere, Akp  (vedi box), è diventata uno dei punti di riferimento per tutta la vasta regione islamica, in particolare quella sunnita.
Proiezione verso Oriente e slancio verso l’Europa sono aspetti che caratterizzano storicamente il Paese, e non sono solo una novità di questi anni. Già verso la fine dell’Ottocento, gli intellettuali turchi erano scissi interiormente, e politicamente, tra due tendenze, quando non appartenevano proprio alle due fazioni opposte: filo-occidentalismo e filo-islamismo ottomano.
L’ascesa dirompente del secolarismo ebbe inizio nell’ultima fase dell’Impero Ottomano e culminò con le riforme del fondatore della Turchia modea, Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Venti.
Religiosità e laicismo, riformismo e conservatorismo rappresentano ancora oggi le tante facce di questa nazione. Aspetti contraddittori e, allo stesso tempo, complementari, in una società sempre in gran fermento.
Nel bel romanzo, La figlia di Istanbul, di Halide Edip Adivar (vedi box), ambientato negli anni che precedettero la rivoluzione dei Giovani Turchi e la fine dell’Impero, questa «doppia anima» turca emerge in modo chiaro, evidenziandone tutta la potenzialità sia conflittuale sia dialettica.
Il laicismo, che ha i tratti fondamentalisti dei kemalisti, i seguaci delle dottrine del padre della Patria, Atatürk, ancora molto presenti in diversi apparati statali, si scontra con le esigenze di maggiori libertà politiche, religiose, culturali e sindacali di una parte sempre più consistente di popolazione, che si sente più vicina agli ideali e ai progetti dell’Akp. Seppur di «ispirazione islamica», infatti, il partito al governo rappresenta le istanze più innovatrici e riformiste della società turca. E certamente più democratiche e dialettiche rispetto a quelle veicolate per circa ottanta anni dal kemalismo, i cui principi si sono basati su una fedeltà all’esercito e ad un laicismo opprimenti e anti-popolari.
Abbiamo avuto modo di visitare il Paese diverse volte, dal 2007 al 2010. Ebbene, rispetto a tre anni fa, le differenze sono ormai visibili. La presenza massiccia dei militari, per le strade, sembra essersi ridotta. Scene da «regime dittatoriale», come quelle cui assistemmo – ragazzi fermati soltanto perché ostruivano il passaggio di una squadra militare, nelle vie di Taksim, uno dei quartieri più eleganti ed «europei» di Istanbul – probabilmente rimarranno solo un brutto ricordo.
In questo quadro mutato si inseriscono le relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea. Esse sono iniziate negli anni Sessanta, quando la Cee (Comunità economica europea) siglò l’Accordo di Ankara. Recentemente, al fine di rendere possibile l’ingresso della Turchia nella Ue, il primo ministro Recep Tayyip Erdog˘an ha introdotto diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ciò che spaventa tanti europei è l’anima islamica della nuova Turchia: temono che l’ingresso del Paese nell’Unione Europea sbilanci a favore dei musulmani l’equilibrio demografico del Vecchio Continente. Inoltre, l’irrisolta questione kurda, il grande potere che l’esercito turco ha sullo Stato e sulla vita dei cittadini, uniti alle politiche di alleanza con le nazioni arabe e islamiche e a una legislazione che ancora non si attiene ai canoni occidentali del rispetto dei diritti umani, rendono problematico e fonte di infinite discussioni diplomatiche e accademiche l’entrata della Turchia nella Ue.

QUALe TURCHIA DOPO IL REFERENDUM?
Sullo scacchiere turco (ed europeo), tuttavia, è stata compiuta una mossa interessante, che introduce un elemento di novità: l’avallo, emerso dall’esito del referendum popolare del 12 settembre, alla riforma costituzionale che toglie poteri ai militari e garantisce maggiore democrazia agli altri organi dello Stato.
La schiacciante vittoria del «sì» permetterà ai legislatori turchi di modificare 26 articoli della Costituzione.
L’Europa vede in questa fase della vita politica turca un segnale positivo, non solo nel senso di una maggiore democratizzazione intea, ma anche della volontà di aderire alla comunità dei popoli europei.
Gli emendamenti aumentano il numero dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura: essi saranno, inoltre, nominati non più solo dai giudici, ma anche dal Parlamento e dal presidente della Repubblica.
Tra gli altri aspetti della riforma, emerge quello della «discriminazione positiva»: le nuove norme prevedono l’entrata in vigore di misure per «incrementare la presenza delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese». Attualmente, le parlamentari rappresentano il 9,1% del totale.
Inoltre, il capitolo della Costituzione relativo alla «protezione della famiglia» sarà modificato ampliandolo anche ai «diritti dei minori».
Tuttavia, l’opposizione nazionalista teme che queste riforme possano portare a una presenza più massiccia dei religiosi nelle più alte cariche delle istituzioni statali e che la laicità sia posta a rischio.

L’ISLAM E IL SUFISMO
Nonostante la religione ufficiale in Turchia sia quella musulmana, uno degli effetti del laicismo imposto dalla dottrina kemalista è stato la messa al bando del sufismo, una delle manifestazioni mistiche più significative dell’islam. Dai tempi di Atatürk1 e a fasi altee, infatti, esso è considerato una pratica illegale. In realtà, sia a Istanbul sia a Konya  e in altre città, possiamo trovare numerose confrateite sufi, dissimulate in «centri culturali».
Sin dal XIII secolo, il misticismo islamico turco si espresse attraverso l’adesione agli ordini sufi, le cui sedi rappresentavano dei veri e propri luoghi di spiritualità e di attività sociale.
La parola «sufi» deriva dall’arabo suf , lana, ed era usata per indicare gli asceti che indossavano semplici panni di lana rifiutando i beni e gli agi materiali.
Dal XII secolo, i sufi erano organizzati in tariqah, ordini o confrateite (come i monaci cristiani che praticavano l’ascetismo) che seguivano gli insegnamenti di un Maestro, e si riunivano in tekke o dergah (logge).
Una delle più grandi confrateite turche, la Naqshbandiya, risale al XIV secolo. Un’altra, altrettanto importante, la Mawlawiyah o Mevleviya, venne fondata a Konya: dal figlio e dai seguaci del mistico, teologo e poeta persiano Jalal ad Din Mohammad Balkhi, noto come Mawlana o Rumi.
I membri della sua confrateita sono meglio conosciuti come «Dervishi danzanti» (o roteanti)2, a causa del rito estatico, sema’, da loro eseguito attraverso l’ascolto della musica, la recitazione del dhikr (ricordo di Dio) e una danza rotatoria vertiginosa.

L’ESEMPIO DI SANTA SOFIA: EX CATTEDRALE, EX MOSCHEA
La Turchia è anche un luogo dove si possono incontrare elementi di sincretismo e mescolanza appartenenti a fedi e a culture diverse.
E di questa commistione Istanbul è un po’ l’emblema: è un forziere pieno di tesori architettonici e culturali, frutto della capacità umana non solo di distruggere o entrare in conflitto, ma anche, e soprattutto, di integrare, assimilare, mescolare e rielaborare in modelli completamente diversi da quelli originari.
Hagia Sophia (Aya Sofya), Santa Sofia o Santa Sapienza in italiano, nel quartiere di Sultanahmet, nel cuore antico della città affacciato sul Mare di Marmara, ne è uno splendido esempio.
Nei suoi immensi spazi si realizza un incontro, e un’unione, tra cristianità e islam: la bellezza maestosa di questa ex cattedrale cristiana ed ex moschea musulmana, e ora museo, è un «miracolo» di «assimilazione-trasformazione».
Iniziata sotto Costantino, intorno al 300 d.C., fu ultimata nel 330, durante il regno di Costanzo II. Distrutta da un incendio e ricostruita nel 415 da Teodosio II; nuovamente incendiata e riedificata dopo il 532 da Giustiniano I, la nuova cattedrale, al cui progetto avevano lavorato grandi architetti, venne edificata con materiali preziosi, fatti arrivare da tutte le parti dell’Impero bizantino. All’imperatore Giustiniano dovette sembrare un’opera davvero magnifica, per dichiarare, secondo quanto riporta la tradizione: «Ti ho superato, o Salomone!».
Altri incendi, terremoti, crolli, saccheggi e invasioni (Crociate) resero necessarie ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti.
Con la conquista di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dei turchi ottomani, Santa Sofia fu trasformata in moschea: vennero costruiti i minareti, coperti gli affreschi interni che ritraevano Gesù, Maria, i santi e gli angeli, e aggiunte opere artistiche islamiche.
Gli antichi mosaici e stucchi bizantini vennero scoperti nel 1849 (e restaurati successivamente). Da allora, coesistono insieme ai simboli e all’arte sacra musulmana, dando alle imponenti navate e gallerie, e all’abside, un’impronta «multireligiosa», che suscita nel visitatore stupore e ammirazione.
La cupola, enorme, è ricoperta di mosaici, ma nel suo centro spiccano decorazioni calligrafiche islamiche (un versetto del Corano dipinto nel XIX secolo). Sui pennacchi, sotto la cupola, si stagliano quattro serafini (due furono realizzati come mosaico, due come affresco). Emblema di questa sovrapposizione e mescolanza tra cristianesimo e islam è la scena che ci si ritrova di fronte abbassando gli occhi dal soffitto e indirizzandoli a est, verso il centro dell’abside: il mihrab (elemento della moschea che indica la direzione della preghiera) è collocato all’interno, ed è sovrastato da un mosaico bizantino del IX secolo che ritrae la Vergine con il Bambino. Il Dio di Gesù e il Dio di Mohammad si fondono dunque in un unico spazio architettonico da cui i fedeli elevavano al cielo le loro preghiere.
Tale sorprendente vicinanza ha una spiegazione pratica: quando Hagia Sophia era un luogo di culto, sia i cristiani sia i musulmani pregavano verso est. Le chiese cristiane erano tradizionalmente rivolte a oriente, così come la qibla, la direzione della preghiera islamica, volge verso Mecca, che, rispetto a Istanbul, si trova a sud-est.
Altre parti di grande interesse artistico sono gli otto «dischi di legno», con incisioni calligrafiche riferite a Dio, al profeta Muhammad, ai primi quattro Califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) e ai due nipoti di Muhammad (Hasan e Husayn), sospesi alle pareti sotto la cupola, a fianco dell’abside e nella navata. Essi creano un affascinante contrasto con gli elementi decorativi e liturgici cristiani.
Nelle gallerie al piano superiore, che in epoca islamica erano usate per la preghiera delle donne (matroneo), si trovano i mosaici più importanti di Hagia Sophia: il più famoso è quello che ritrae Cristo pantocratore, sovrano e trionfante, vicino a Maria e a Giovanni Battista.
Per oltre 900 anni Santa Sofia fu la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli e dei concili ecclesiastici: rimase cristiana fino al 29 maggio del 1453, quando il Sultano Mehmet il Conquistatore entrò trionfante nella città bizantina e trasformò la bellissima basilica in una moschea. Tale rimase per altri 500 anni, divenendo un modello architettonico e artistico per le moschee imperiali di Istanbul, tra cui la stupenda Moschea Blu e quella di Suleyman.
Fu tra il 1847 e il 1849, durante i lavori di restauro commissionati dal Sultano Abdülmecid II a due architetti svizzeri, i fratelli Fossati, che vennero scoperti i mosaici, riportati poi alla luce nel secolo successivo, anche grazie all’Unesco.
Santa Sofia fu trasformata nel museo di Ayasofya nel 1934, durante la presidenza di Kemal Atatürk.
Da allora, almeno all’interno della maestosa e bellissima Santa Sapienza, Occidente cristiano e Oriente musulmano possono convivere in pace e in armonia.

Angela Lano



Angela Lano




Parola di sufi

L’intervista

Elvio Arancio, artista e ceramista torinese, nato nella medina di Tunisi, è un musulmano sufi. Sposato, con tre figli, impegnato nel dialogo interreligioso, in questa intervista ci spiega cos’è il sufismo e le ragioni della sua conversione all’islam, in particolare, alla sua corrente mistica.

Elvio Arancio, come descriverebbe il sufismo?
«Il sufismo, tasawwuf, in arabo, è la pratica di ricerca mistica specifica della cultura islamica.
È la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, e anche se ingloba in sé influssi ellenici, induisti e buddisti, l’essenza del sufismo è prettamente islamica.
Potremmo definirlo un metodo islamico di perfezionamento interiore, di ricerca dell’equilibrio, di fervore profondamente vissuto e che gradualmente vuole ascendere all’oggetto d’amore: Dio.
Possiamo affermare che le componenti della dottrina sufi sono l’amore totale per Dio; la gnosi, che superando la conoscenza intellettuale imperfetta e incompleta unisce direttamente il sufi al divino, certi della Sua esistenza e consapevoli dell’impossibilità di capirLo con le sole forze umane; il raggiungimento della conoscenza intuitiva; l’ascesa mistica attraverso una serie di stati spirituali e stazioni del percorso evolutivo, integrati dalla recitazione, o ricordo, dei nomi di Dio (dikhr, in arabo), e dall’estasi».

Che differenza c’è tra asceta, adoratore e sufi?
«L’asceta è colui che si allontana dai beni del mondo e dalle sue cose piacevoli; il sufi non rifugge dall’esperienza matrimoniale e quindi dalla sessualità.
L’adoratore è colui che pone attenzione nell’osservare gli atti di adorazione – alzarsi di notte per pregare, compiere le preghiere canoniche (as-salat), e così via. Il sufi, dunque, è sia un asceta che un adoratore. Niente può distrarlo da Dio. Egli è anche un adoratore per il suo costante rivolgersi a Dio e il suo legame d’amore con Lui. Adoriamo Dio perché Dio è “adorabile”, non per desiderio, né per paura.
La santa sufi Rabi’ah al-‘Adawiya diceva: “Oh Dio, se io Ti adoro per paura del Tuo fuoco infeale, gettami dentro. E se Ti adoro per il desiderio del Tuo paradiso, impediscimi di entrarvi. E se Ti adoro per amore del Tuo nobile volto, non proibirmi di vederTi”».

Quando è diventato musulmano e sufi?
«Appartengo all’ordine sufi della Jerrahi-Halveti d’Istanbul dal 1999. Poiché il nostro maestro Tugrul Inancer Efendi è anche un maestro della Mevleviya (in Occidente sono chiamati “Dervisci roteanti”), i nostri rapporti con questa importante confrateita, fondata dal grande poeta mistico Jalal al-Din Rumi, sono intensi e frequenti.
Sono sempre stato interessato alla letteratura mistica, da quella cristiana a quella dell’Oriente Zen, finché sono arrivato ai libri sufi.
Un giorno, leggendo un testo del grande teologo Ibn Arabi mi colpirono questi versi:
“Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma / è un pascolo per le gazzelle, / un convento per i monaci cristiani / è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino / è le tavole della Torah,
è il libro del Sacro Corano. / Io seguo la Religione dell’amore, / quale mai sia la strada/ che prende la sua carovana: / questo è il mio credo e la mia fede”.
È stata una folgorazione: ho cominciato ad approfondire la conoscenza del sufismo e a cercare i sufi, e… sono arrivato in Turchia».

Che organizzazioni sufi ci sono in Turchia e cosa fanno?
«Il sufismo permea profondamente il mondo turco e mi riferisco non solo allo Stato, ma a tutta la vastissima area asiatica turcofona che va dall’Anatolia alla Cina occidentale. Infatti, le confrateite sufi, sin dall’800 d.C., praticamente dai primi secoli della diffusione dell’Islam, hanno diffuso la fede musulmana alle tribù nomadi e ai clan guerrieri delle steppe asiatiche.
Furono le confrateite sufi ad integrare poi nel grande Impero ottomano, che si espandeva per tutta l’Eurasia, le tante etnie e le diverse provenienze religiose dei popoli che ne facevano parte. Ad esempio, i corpi militari furono quasi tutti affiliati all’ordine sufi Bekhtashiya, gli intellettuali e gli studiosi in genere alla Mevleviya e alla Jerrahi-Halveti, altri alla Naqshbandiya, e questo solo per citare gli esempi più conosciuti.
È negli ordini sufi che nasce la letteratura turca; è sulle pagine dei maestri delle confrateite che si forgia la sensibilità di questo popolo/nazione».

Perché adesso ai sufi è vietato di dichiararsi tali in pubblico?
«Nel 1925, Atatürk soppresse gli ordini religiosi sufi. Da allora essi sono vietati, o meglio, non autorizzati, ma non per questo sono meno presenti e attivi.
Tuttavia, mi sembra che sia in corso un cambiamento e auspico una riapertura imminente ufficiale degli Ordini: un ritorno alla luce del sole.
È infatti difficile conoscere la Turchia senza conoscere le confrateite religiose che ne hanno formato e alimentato il tessuto sociale, e alle cui fonti ancora si rivolgono intellettuali, donne e uomini di ogni ceto sociale».

Cosa pensa della Turchia attuale e del presidente Erdogan?
«Ritengo che il governo guidato da Erdog˘an sia una delle realtà più interessanti del panorama internazionale, e questo per varie ragioni: il Paese è passato da una rovinosa crisi economica all’attuale fase di sviluppo; è in atto un confronto tra il partito di governo, l’Akp, e il potere militare, sul tema della laicità dello Stato; lo spostamento delle alleanze nel Vicino e Medio Oriente: sostegno alla causa palestinese e presa di distanza dalle politiche d’Israele.
Vale la pena ricordare la nomina del nuovo Ambasciatore turco Kenan Gürsoy presso la Santa Sede: si tratta di un personaggio di notevole cultura, un grande accademico e profondo conoscitore del sufismo, ed egli stesso discendente di una famiglia di tradizione sufi. Ritengo che la scelta del governo turco di assegnargli l’importante carica sia espressione di un desiderio di dialogo aperto e costruttivo nei confronti della Chiesa cattolica, anche in considerazione dell’amicizia che legava da molti anni il neo-ambasciatore a monsignor Padovese, il prelato ucciso a giugno in Turchia».
Cosa pensa del referendum costituzionale che si è svolto il 12 settembre?
«Sono profondamente convinto che il peso dei militari in Turchia andasse ridimensionato: un esercito che non dipende dal governo, da un ministero della Difesa, che con la scusa della tutela della laicità dello Stato condiziona la vita democratica della nazione, è inaccettabile. La nascita della repubblica turca di Kemal Atatürk comportò l’emergere di due miti: in primo luogo, quello dello stesso “laicissimo” presidente, nei cui confronti si espresse una dogmatica e incondizionata devozione che potremmo assimilare, paradossalmente, ad un vero e proprio culto religioso, e poi, quello dell’esercito. Da allora, fino ad oggi, l’apparato militare è sempre stato visto come “un’istituzione sacra che protegge i sacri valori dei Turchi”. Tale legittimazione ha permesso ad esso di intervenire ripetutamente nelle vicende politiche del Paese.
Credo che la scelta del popolo turco rappresenti una svolta democratica, importante quanto necessaria.
Inoltre, Erdog˘an esce dalla consultazione referendaria estremamente rafforzato, soprattutto in vista delle elezioni politiche del luglio 2011, alle quali, non dimentichiamoci, faranno seguito, l’anno successivo, le prime elezioni presidenziali dirette nella storia turca».

Angela Lano

Angela Lano




Alla ricerca di un perché

Reportage da Trabzon

Siamo andati a Trebisonda (Trabzon) per vedere com’è la situazione dopo l’omicidio di don Andrea Santoro cui è seguita – in altra zona del paese –  l’uccisione di mons. Luigi Padovese. Nella Turchia che si dice tollerante come si spiegano due omicidi di preti cattolici in meno di 4 anni? Chi è contro il dialogo interreligioso?

La piazza centrale di Trebisonda, Trabzon in turco, pullula di uomini impegnati a godersi i piaceri del dolce far nulla. È una visione comune della Turchia, e racconta stili di vita meno ossessivi di quello occidentale.
Così un gruppetto radunato intorno a tazze di tè non si lascia scappare l’occasione per attaccare bottone: mi chiamano al loro tavolino. Un giro di bicchierini bollenti è gentilmente offerto e subito si instaura un simpatico scambio di battute in lingue inesistenti composte soprattutto da gesti. Ma i discorsi velocemente passano dal solito schema «calcio-Berlusconi» ad argomenti decisamente più pesanti: i guerriglieri del Pkk ed il rapporto tra cristianesimo e islam in questa città.

TRABZON, porta sul mar nero
e sul kurdistan turco

Il primo è il vero piatto forte della regione che da anni si dibatte dentro drammi che costellano la vita di milioni di persone. Una guerra civile infinita (sebbene nessuno utilizzi queste parole), che recentemente sembra aver perso cruenza, anche se talvolta erompe in maniera violenta. Il Kurdistan è la zona est della Turchia e Trebisonda è la porta che si affaccia su questo territorio. Un tempo città strategica per i traffici marittimi sul Mar Nero (da qui il detto italiano «perdere la Trebisonda»), oggi è una città industriale e trafficata.
Gli abitanti (qui la comunità kurda è una minoranza) sostengono che avventurarsi per la zona est della Turchia è pericoloso. I piazzisti di una compagnia di trasporti, che battono la stazione degli autobus, ripetono ai viaggiatori che gli spostamenti diui sono soggetti ad attacchi a colpi di mitragliatrice da parte dei guerriglieri kurdi. La notte invece sarebbe tutto più tranquillo.
Una volta in viaggio nel Kurdistan turco la situazione invece apparirà molto tranquilla. Le esagerazioni sono molto amate dai turchi, anche se affettivamente le zone montane non sono scevre da combattimenti, di norma taciuti dai media principali.
Città come Van, Erzrum, Diyarbakir sono centri vitali e pacifici, popolati da Kurdi che non ne vogliono più sapere né della repressione militare né dei metodi violenti degli insorti.
Così, una volta terminata la discussione sui «terroristi kurdi», trascinatasi in maniera abbastanza stanca per mancanza di argomenti, è tempo di
discutere dei rapporti interreligiosi in città e nel paese. E qui i toni si fanno seri. Perché a differenza delle chiacchiere sul Pkk, dominate da eccessi verbali e fragorose risate, quelle relative alle recenti tragedie che hanno riguardato questa ed altre
zone, sono percepite più pesantemente.
Dopo poco un ragazzo ci chiede se vogliamo visitare l’unica chiesa ancora «operativa» di Trebisonda. È la chiesa tristemente famosa per l’omicidio di un prete italiano, don Andrea Santoro,  avvenuto nel febbraio del 2006. Il sacerdote ucciso era un missionario della congregazione di Charles de Foucauld. Apparteneva alla diocesi di Roma ed era un sacerdote fidei donum missionario in Turchia da qualche anno. Il suo lavoro (grazie anche all’aiuto di alcuni laici) era centrato sul mantenimento in vita della presenza cristiana, esigua al tempo dell’omicidio ed ora a rischio estinzione. Chi lo conosceva racconta che era un acceso sostenitore del dialogo islamo-cristiano e forse è esattamente questa la ragione che ha armato la mano di chi poi lo ha ucciso proprio dentro la chiesa dove stiamo per entrare.
Sono passati quattro anni da allora, ma il ricordo è ancora molto vivo. Il nostro amico accompagnatore, musulmano praticante, ricorda bene quel prete: «Era una presenza molto discreta e chi l’ha colpito a mio avviso l’ha fatto perché mosso dalla pazzia e non da odio religioso».
Probabile, anche se poi le indagini hanno portato in carcere un giovane di appena diciassette anni che, al momento di sparare, pare abbia pronunciato la frase «Allah è il più grande».

NICOLAE, il diacono (rumeno)
che lavora da prete

Ci arrampichiamo per le vie del centro seguendo i passi del nostro amico. Trebisonda è una città che ha perso i fasti del passato e si aggrappa ad uno sviluppo caotico, dominato dal cemento e dai traffici un po’ loschi che vanno e vengono dalla vicina Russia.
Da soli difficilmente saremmo riusciti a trovare la chiesa, perché non segnalata. L’esterno è arioso ed un cartello invita i cristiani e gli stranieri ad entrare dentro, perché tutti sono benvenuti. È scritto in inglese ed in turco (vedere foto). Suoniamo il campanello.
La chiesa sembra deserta. Dopo pochi minuti siamo però accolti da un uomo di circa trent’anni a cui siamo introdotti, in turco, dalla nostra guida. È gentile, ma sospettoso. Si rivolge a noi in francese ma, dopo poche frasi di circostanza, passa all’italiano. È rumeno e non è il prete della chiesa. È un diacono che manda avanti tutta la baracca tra sforzi immensi. È solo da tre anni, perché un nuovo sacerdote, dopo l’omicidio di Andrea Santoro, non è mai stato nominato. Racconta del clima che si respira nella città che maggiori problemi di convivenza dà alla Turchia.
Nicolae, così si chiama il padrone di casa, racconta di paura, ma anche di speranza. La paura è dovuta al secondo omicidio:  monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell’Anatolia, è stato assassinato il 3 giugno 2010 nel giardino della sua casa sul mare a Karagaac, vicino a Iskenderun, sulla costa del Mediterraneo. Il suo autista Murat Altun, probabilmente a causa dei gravi scompensi psichici di cui soffre, l’ha colpito con diversi fendenti, uccidendolo.
Le voci di odio religioso, figlio del fanatismo islamico, si sono allargate a macchia d’olio, ma nessuno osa confermarle. Anzi, gli uomini della piazza di Trebisonda, come i pochi cattolici che si incontrano, negano che il clima sia questo.
La speranza è comunque viva: «Noi siamo una comunità molto piccola, poche centinaia di persone – spiega Nicolae – . La nostra chiesa è sempre aperta. E questa mattina è accaduta una cosa che mi ha dato fiducia ed aperto il cuore. Ho visto entrare quattro ragazze islamiche. Giravano e commentavano. Le ho sentito dire frasi sulla bellezza della chiesa e soprattutto sulla follia del conflitto religioso…». A pochi metri da dove chiacchieriamo c’è ancora il foro di uno dei proiettili.
Nicolae è un diacono che svolge un po’ tutti i servizi fra mille difficoltà, economiche e non. È sposato e vive con la moglie a pochi passi dalla chiesa.
«Il problema – racconta – sono le ostie consacrate. La mancanza di un prete le rende difficilmente disponibili. Così capita che, quando un sacerdote passa da queste parti, io ne approfitto per fae consacrare un po’ e poi le custodisco. Ma non è facile, dato che trascorrono mesi e mesi senza che passi alcuno. La soluzione migliore sarebbe la nomina di un prete ma, dopo la uccisione del vescovo Padovese, sarà ancora più difficile».
La chiesa è deserta, pulita, sembra quasi un museo.
«Questi sono gli aspetti più difficili della situazione. In compenso è molto bello portare la parola di Dio in un posto difficile come Trebisonda. È vero che gli esaltati non mancano, ma la Turchia rimane un paese laico in cui la libertà di culto è preservata. Comunque, questi sono discorsi politici che interessano relativamente chi si trova in trincea come me. Qui io mi occupo di tutto: dallo spazzare il pavimento alla celebrazione delle messe. E lo faccio per due soldi. I vertici della Chiesa dovrebbero ricordarsi maggiormente di chi porta la parola di Dio in posti di frontiera come questo».
Sono solo un centinaio i cattolici che vivono a Trebisonda. Altri sessanta circa sono presenti a Mardin, bella città che ricorda un po’ Gerusalemme, nel centro del Kurdistan.  Il resto è deserto. In ogni senso.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




12.01.2010 HAITI (ORA) ESISTE

Quel che resta di Boukman

«Haiti n’existe pas», Haiti non esiste, è il titolo di un libro dell’esperto Christophe Wargny, dedicato al bicentenario dell’indipendenza di Haiti (1804-2004). Ebbene, questo era vero fino al 12 gennaio scorso. Nessuno conosceva neppure l’esistenza di questo piccolo paese dalla storia tanto originale e travagliata. Molti italiani lo confondevano con Thaiti, atollo del Pacifico.
Oggi, per lo meno si sa che esiste e più o meno che si trova nelle Americhe. È stato pure scritto che è il più povero …
Peccato, però, che l’informazione  – di massa – che si è avuta su Haiti nei giorni e nelle settimane successive al terribile evento, sia stata sovente molto parziale, superficiale e fatto più grave, viziata dal punto di vista italiano (vedi sparate di Bertolaso e battibecco con Hillary Clinton e trionfalismo per l’intervento – minimo e fuori luogo – delle autorità del nostro paese).  
Tanto di cappello per i colleghi inviati che hanno raggiunto Port-au-Prince pochi giorni dopo il sisma. Sapersi muovere in quella situazione, non essendo mai stati nel paese era impresa non facile. Peccato che, come spesso accade in questi casi, ma soprattutto per la «sconosciuta» Haiti, ci sia stata scarsità di conoscenza del paese, della sua storia, della sua cultura. La lettura della realtà, nuda e cruda come si vedeva. Ma dando poco, o nulla, la parola agli haitiani.

Siamo tornati ad Haiti. Ci siamo tornati anche per raccontarvi cosa sta succedendo adesso, quando nessuno ne parla più e gli italiani credono che sia tutto finito. Per portarvi le speranze e i sogni degli haitiani sul loro futuro, ma anche per mettere in luce i meccanismi e gli intrecci che si stanno giocando sulla pelle di questo popolo. Un popolo ricco di umanità, ma sfortunato. Perché anche qui, sul terremoto, qualcuno ci sta guadagnando.

Marco Bello

Marco Bello




Ritorno a Port-au-Prince

Alla riscoperta della capitale caraibica

Sono passati alcuni mesi dalla grande tragedia del 12 gennaio. La stagione delle piogge è arrivata e dopo di lei quella degli uragani. Port-au-Prince, con i suoi quasi 3 milioni d’abitanti è una città ferita. Case distrutte e tendopoli si sono aggiunti al caos quotidiano, al caldo, all’umidità e agli odori forti. Ma la dignità è grande e una nuova solidarietà sembra nata.

L’aereo che ci porta a Port-au-Prince atterra sotto una pioggia battente. È buio pesto perché è sera inoltrata. Non pensavo che la pista della capitale avesse le luci. Il bus interno ci recupera e ci lascia ad un hangar poco lontano. È qui che sono stati allestiti gli arrivi dell’aeroporto Toussaint Louverture, danneggiato durante il sisma del 12 gennaio. Una poliziotta gentile ci timbra il passaporto e poco dopo una doganiera assonnata ci indica di uscire. Tutto è tranquillo e normale. La stagione delle piogge è cominciata e con lei gli allagamenti di strade, cortili, terreni.

Per le strade della capitale

Il mattino Port-au-Prince ci accoglie con il suo solito caos. Con i tap-tap smarmittati carichi di gente, e i giganteschi camion americani «Mack» che non guardano in faccia a nessuno prendendosi la strada come e quando vogliono. Le lunghe file di mezzi di ogni tipo a passo d’uomo lungo le arterie principali. Sotto un sole caldo e un’umidità che induce una traspirazione continua. Se si prende un appuntamento bisogna contare più di un’ora per un qualsiasi trasferimento: il tempo è aleatorio, non è una variabile di nostro dominio. Ma il traffico congestionato, i blokis, come si dice in creolo, sono una costante di questa città, almeno negli ultimi 15 anni. Non è certo una scoperta del terremoto.
Ci rinfranca vedere che la capitale non è distrutta. Molte case sono crollate, ma molte hanno resistito. È strano notare come sia successo a «scacchiera»: un edificio in perfette condizioni a fianco di un altro ridotto a un mucchio di macerie, o ancora a una casa molto danneggiata. La distruzione è avvenuta di più in certi quartieri piuttosto che in altri. La città bassa, ba lavil, il centro nevralgico, è il più colpito e con lei molti edifici pubblici e simbolici. Dal palazzo presidenziale a diversi ministeri e uffici governativi. La cattedrale, la chiesa del Sacro Cuore. Alcuni hotel rinomati. Molte le scuole crollate o danneggiate, così come gli immobili dell’università.
E il traffico vuol dire movimento, commercio, lavoro, vita. Sì, Port-au-Prince è viva, vitale, molto più di quello che ci si possa aspettare dopo il dramma che l’ha colpita e dopo le immagini che abbiamo visto attraverso i mass media. Già dal mattino presto il formicaio umano si attiva. Uomini e donne con il vestito «buono» cercano di infilarsi su uno degli innumerevoli tap-tap per recarsi in ufficio. Mamme e papà zig-zagando nel traffico, accompagnano per mano il figlioletto a scuola, vestito con l’impeccabile uniforme. Gli operai si accalcano per attraversare il cancello del Parc Industriel Métropolitain (ampia area recintata e controllata nella periferia Nord), dove faticheranno tutta la giornata per poco più di un dollaro, in una delle tante fabbriche manifatturiere. Le madam sara – donne commercianti al dettaglio di ogni cosa, dal sale alla verdura, dai quadei ai prodotti di bellezza – sono già appostate con i loro grandi cappelli di paglia nelle vie di mercato. Segni di quotidianità. Di voglia di vivere. «La gente ha subito reagito – ci racconta l’amico giornalista Gotson Pierre – il giorno stesso. Non si è fermata un istante. Se si fossero fermati sarebbe stato peggio, avrebbero avuto più difficoltà a riprendersi. Invece hanno cominciato subito: a soccorrere i feriti, a togliere macerie».
E una grande solidarietà umana, da tempo perduta in questa città caotica e violenta, sembra rinata, come ci spiega Suzy Castor, nota storica e politica haitiana: «La solidarietà interhaitiana è venuta fuori fin dal primo giorno. Ci si lamentava molto della mancanza di questo valore, ma con il terremoto è stata spontanea. Si vedevano delle cose straordinarie che rasentavano l’eroismo». E continua: «Il terremoto è stato duro, terribilmente. Ma due o tre giorni dopo la vita è ricominciata. Per me è straordinario questo dinamismo di cui ha fatto prova il popolo haitiano. Questa forza nella disavventura, è una grande fortuna che abbiamo».

Città nella città

Ma il paesaggio urbano di Port-au-Prince non è cambiato solo per le case distrutte. E i mucchi di macerie lungo le strade fatti da chi, faticosamente, toglie pezzo per pezzo quello che resta della propria casa e lo ammucchia in strada, nella speranza che un giorno qualcuno porti via tutto. Ovunque in capitale, come nella vicina Petion-Ville (comune adiacente dalla parte montagnosa, abitato dalla classe media) e a Léogane, epicentro del sisma, sono comparse tende di ogni specie e forma. Qualsiasi spazio aperto, piazza, campo sportivo, cortile è diventato una tendopoli. Lo sono i Champs de Mars, giardini di fronte al palazzo presidenziale, lo è la piacevole piazza Saint Pierre, nel centro di Petion-Ville. Ci sono zone dove al posto delle tende si trovano ancora i ripari di fortuna, fatti da lenzuoli, stuoie e teli colorati. Altrove sono i teloni blu degli aiuti umanitari che hanno avuto la meglio.
Anche a Canapé Vert, bel quartiere residenziale che si arrampica sulla collina, come a Pacot, a Tourgeau, a Bois Patate, file di tende a igloo, dalla due posti alla famigliare sono allineate sui bordi delle strade rendendo difficile il passaggio.
Sulla route Nazionale 2, in uscita dalla capitale verso la città satellite Carrefour, i ripari di fortuna si trovano addirittura nell’isola tra le due carreggiate.
Camp Fierté è una tendopoli o «centro di accoglienza» come sono anche chiamati, nel cuore di Cité Soleil, una delle più grandi e tristemente conosciute (anche prima del terremoto) bidonville di Port-au-Prince. Qui è difficile lavorare, la tensione è sempre palpabile, proprio per la popolazione che abita questo quartiere e la sua storia. Il campo è assistito da Medici senza frontiere e dall’Ong italiana Avsi. Sotto alcune grosse tende si è ricreata una scuola e un ambulatorio per consultazioni e prime cure dove si avvicendano medici italiani, sempre con un progetto di Avsi. «Ieri è arrivato un tizio con una grossa ferita da arma da taglio – ci racconta uno dei medici sul posto – lo abbiamo suturato in fretta e poi abbiamo capito che c’era più tensione del solito. Per questo abbiamo finito le consultazioni molto presto». «Questo bambino è un “meno quattro”, non ne avevo ancora visti qui» dice un’altra dottoressa con in braccio un frugoletto che pare avere pochi mesi. In gergo vuole dire che pesa quattro chili in meno di quanto dovrebbe: «È in uno stato avanzato di malnutrizione».
Marino Contiero, cornoperante dell’Avsi, lavora qui ogni giorno. Organizza distribuzioni di cibo e di acqua. Ci accompagna in giro tra le grosse e pesanti tende della Protezione civile italiana e quelle più leggere di Medici senza frontiere. «Il clima in generale non è buono e nei campi la situazione si fa dura ed è sempre più difficile lavorare. Anche nei quartieri di Cité Soleil (ci sono ampie zone di baracche non crollate, ndr.) si verificano continui scontri tra le bande e le sparatorie sono giornaliere». Ci racconta che anche in altre zone, come Martissant, quartiere popolare all’uscita Sud della capitale, le gang sono tornate attive e a volte impediscono le distribuzioni alimentari (si veda su questo fenomeno MC gennaio 2007).
Nel campo vediamo soprattutto donne e bambini, ma anche ragazzi. Gli uomini sembrano non esserci. Ci chiediamo quali saranno i tempi per il ritorno alla «normalità» o piuttosto a una casa decente per tutte queste persone. Molte tende non sono fatte per resistere mesi sotto il forte sole dei Caraibi e si stanno deteriorando. Le piogge iniziate a maggio sono torrenziali, e creano fiumi di fango. A giugno è anche iniziata la stagione degli uragani e questi ripari possono facilmente prendere il volo.
Marino: «Spero di terminare presto con le distribuzioni e incominciare a fare qualche cosa di concreto per aiutare le famiglie a tornare a casa loro». Questo è infatti previsto dal programma. Le distribuzioni non sono fatte a caso: «Noi di-
stribuiamo solo a donne e bambini e abbiamo delle liste ben verificate. Non diamo più teloni come all’inizio e il cibo è dosato con grande precisione. Occorre fare di tutto affinché non si inneschi la spirale della dipendenza». In effetti questo è un rischio enorme. Esistono già i campi «fantasmi» dove la gente viene di giorno solo perché una qualche Ong internazionale distribuisce cibo. Poi la notte rientra nei propri quartieri. «Ma allo stato attuale distribuire acqua e cibo in alcune zone è necessario perché ci sono molti casi di malnutrizione, anche grave, nei bambini» conclude Marino.
Le stime ufficiali parlano di 1,3 milioni di senza tetto a causa del terremoto e circa 500.000 sarebbero quelli che ancora vivono in tenda.

Il trauma che non si vede

Ma c’è qualcosa più difficile da vedere, se si guarda solo in superficie. Qualcosa di molto importante, che si percepisce parlando con la gente. «La popolazione è rimasta traumatizzata. Ad esempio i nostri seminaristi che hanno visto morire i loro compagni». Chi parla è padre Crescenzo Mazzella, camilliano, da oltre dieci anni nel paese. Il crollo del centro di formazione della Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha causato molte vittime. «I nostri seminaristi erano in macchina e stavano per partire. A fianco, nel parcheggio, la macchina di un gruppo di loro compagni era già accesa. La scossa li ha sepolti, mentre i nostri sono rimasti indenni. Ma scioccati. Ora è molto più difficile lavorare con loro». Il sisma, qui come altrove, ha deciso per la vita o la morte di qualcuno secondo un criterio che non ci è dato conoscere. «Dopo questi drammi occorre ricostruire la persona, prima ancora di ricostruire le infrastrutture» afferma padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata e psicologo. Dopo il sisma ha già compiuto due viaggia ad Haiti, su richiesta del nunzio apostolico, Monsignor Beardito Auza, proprio per lavorare con religiosi e seminaristi sulla «gestione e rimozione del trauma». «Occorre aiutare le persone a gestire il trauma, e motivarle per riprendere la vita normale con un impegno in prima persona nella ricostruzione – ci racconta padre Enzo -. Abbiamo lavorato con terapie individuali e di gruppo, per togliere il senso di “distruzione totale” che porta alla non azione» (vedi box).
L’appoggio psicologico è dunque altrettanto importante quanto quello materiale, anche se meno visibile e forse meno praticato.
Tutti, a Port-au-Prince, parlano della «grande scossa» che deve ancora arrivare. Molti, dopo mesi, pur avendo la casa in buone condizioni e usandola durante il giorno, preferiscono dormire nella tendina piantata in cortile o in strada. Ed è forse anche per questo che il governo (nel momento in cui scriviamo) non ha ancora dato il permesso di ricostruire le scuole e gli altri edifici in muratura, ma solo in materiali provvisori: legno, lamiere, tende. Le Ong e gli enti privati hanno costruito in questo modo le scuole crollate, e così – fatto molto importante – i bambini e i ragazzi hanno potuto riprendere le lezioni.
Come al College Saint Martial un’antica scuola della capitale, fondata dai padri dello Spirito Santo (Spiritani). Dall’asilo al liceo, la scuola è sempre stata un riferimento per gli abitanti di Port-au-Prince. Situato nella città bassa, alla fine di rue de Miracles, il College ha subito danni gravissimi. I due grossi edifici con le aule scolastiche sono crollati e la casa dei padri, seriamente danneggiata, è da radere al suolo. La Bibliothèque Haitienne, collezione unica di volumi, giornali, documenti originali e fotografie sulla storia di Haiti si trovava al secondo piano. «Siamo riusciti a salvare quasi tutto, e a metterlo al sicuro nella cappella – ci racconta padre Paulin Innocent, superiore regionale degli Spiritani – in attesa di rifare la biblioteca in un nuovo edificio. Per smantellare il palazzo rimasto in piedi ci hanno chiesto 100 mila dollari!».
Ma gli oltre 1.000 allievi di Saint Martial hanno potuto riprendere i corsi a marzo. Tutti, nelle loro uniformi pulite, dai piccoli dell’asilo, in una tendona dell’Unicef, all’ultimo anno del liceo, in aule fabbricate in materiale leggero. Il tutto dipinto in verde-giallo, da sempre i colori della scuola. Sono segni importanti per un ritorno alla normalità.

Marco Bello

Marco Bello




Due volte vittime

Chi gestisce il futuro del Paese

Dopo il terremoto la comunità internazionale si mobilita. Gli Usa inviano 20.000 marines e prendono in mano la situazione. Il governo haitiano si affida a esperti stranieri per il piano di ricostruzione nazionale. Quando avrebbe dovuto mobilitare le «forze vive» della nazione. Ma società civile e partiti politici non ci stanno. Intanto si profila all’orizzonte la scadenza elettorale.  E la commissione per la ricostruzione è cornordinata da una vecchia conoscenza: Bill Clinton.

«Il terremoto rappresenta una nuova tappa per Haiti. In un certo senso niente può essere come prima. I 35 secondi del sisma hanno avuto un impatto di ampiezza straordinaria, che si prolungherà per molto tempo ancora». Suzy Castor parla nel suo ufficio nel Cresfed  (Centro di ricerca e di formazione economica e sociale per lo sviluppo), situato nel quartiere di Canapé Vert. Struttura che, nonostante le vistose crepe, è sopravvissuta al sisma. «Questo è valido sia che si tratti di distruzione fisica materiale sia di perdita di vite. Perché 300 mila morti sono anche 300 mila risorse che abbiamo perso». La storica haitiana è anche militante politica (partito Opl, Organizzazione del popolo in lotta): «Per questo io credo, non sia un’opportunità, ma l’occasione per potere ricostruire, non solo fisicamente, ma anche materialmente. Noi parliamo di “rifondazione”. C’è stata la fondazione nazionale con il primo gennaio 1804, l’indipendenza di Haiti, la libertà, i molti sogni. Penso che questa rifondazione debba farsi, in modo naturale. Tutti ne parlano adesso».
Un’opportunità importante, che però sta inesorabilmente scivolando via dalle mani degli haitiani. E non è la prima volta nella storia del paese.

Aiuti, marines e piani di sviluppo

Dopo il sisma che crea un vero disastro, la comunità internazionale si attiva. La solidarietà dai popoli di mezzo mondo è commovente, ma anche gli interessi di alcuni stati sono evidenti. Gli Usa mandano nel paese 20.000 marines.
Il 31 marzo si tiene a New York la conferenza per la ricostruzione di Haiti. Vi partecipano i paesi donatori e le Nazioni Unite.
Il governo haitiano deve preparare un piano di sviluppo per il paese. Per farlo, anziché coinvolgere i diversi settori della nazione, utilizza un altro documento il Post disaster needs assessments, un modello (anglosassone) di valutazione dei bisogni dopo i disastri, realizzata, in questo caso, in gran parte da esperti stranieri. è così che il governo partorisce il «Piano d’azione per il sollevamento e lo sviluppo di Haiti» con l’obiettivo di fare «di Haiti un paese emergente da oggi al 2030».
Ma i movimenti sociali e i partiti politici haitiani non ci stanno e contestano duramente il documento. Nei contenuti e soprattutto nel metodo. «A livello della società civile, le organizzazioni hanno denunciato l’assenza di partecipazione. Di fatto non riconoscono il piano del governo perché loro non hanno potuto partecipare» ci spiega il giornalista Gotson Pierre. «Il piano non collega le richieste che potevano venire dal paese rurale, dalle donne, dai quartieri popolari, dai campi di sfollati, etc. Non è veramente articolato sulle aspirazioni dei settori sociali di Haiti».  E continua: «Lo stato da solo non può risolvere questa situazione. Da qui la necessità di cercare di mobilitare l’insieme della società haitiana per far affrontare la situazione: questo è il ruolo dello stato». Ma tutto ciò non è successo. Gotson Pierre: «Non si sente questa capacità di mobilitazione dei settori della società per far fronte a questa situazione». Anche gli aiuti della comunità internazionale vanno cornordinati: «Bisogna creare questa sinergia tra la volontà della comunità internazionale, la possibilità dello stato di cornordinare lui stesso questo sforzo e la società haitiana, altrimenti non arriviamo da nessuna parte».

Groviglio politico interno …

Ma non basta. Il 15 aprile il governo riesce a far votare al Parlamento il prolungamento di 18 mesi della «Legge sullo stato di emergenza», legge che di fatto trasferisce tutti i poteri all’esecutivo. Il 10 maggio la camera dei deputati e un terzo del senato scadono (ad Haiti il senato è rinnovato un terzo alla volta per sei anni). In effetti le elezioni generali (amministrative, legislative e presidenziali) dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – tenersi a fine novembre, in modo che il nuovo presidente della Repubblica (René Préval non può ricandidarsi) possa assumere la carica alla scadenza costituzionale: il 7 febbraio.
Il senatore Jean-William Jeanty fa parte di un gruppo di 10 parlamentari che hanno votato contro la legge d’emergenza e si definiscono «resistenti»: «Abbiamo denunciato questa legge e abbiamo pubblicato una lettera, protestando contro la sua incostituzionalità».
Un’altra mossa del presidente è stata far votare un emendamento della legge elettorale che rende possibile prolungare il mandato presidenziale «qualora non fosse possibile tenere le elezioni nella data costituzionale». Continua l’onorevole Jeanty: «Abbiamo poi scritto una lettera contro la legge che corregge il mandato del presidente. Noi siamo in “resistenza” completa rispetto a quello che si fa attualmente nel paese».

… e affari inteazionali

E con la legge di emergenza riaffiora anche un vecchio «adagio» della geopolitica dell’area. Continua il senatore Jeanty: «La legge sullo stato di emergenza delega i poteri non solo all’esecutivo ma anche all’internazionale, perché in essa è definita la creazione della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), di cui Bill Clinton sarà il cornordinatore principale». La Cirh ha preso ufficialmente forma il 17 giugno scorso ed è composta per la metà di rappresentanti di istituzioni e paesi donatori (Usa, Francia, Canada, Spagna, Brasile, Unione europea, Onu, Banca mondiale, ecc.), e per l’altra metà di rappresentanti haitiani «istituzionali», parlamento, governo, giudiziario e (poco) collettività locali. È co-presieduta dal primo ministro Jean-Max Bellerive e da Bill Clinton. Quest’ultimo non è estraneo alla storia di Haiti, in quanto fu lui (insieme a 20.000 marines) a «riportare in patria» il presidente Jean-Bertrand Aristide, dopo i tre anni di sanguinoso regime di Raul Cédras (1991-94). Un Aristide molto vicino ai democratici statunitensi, ormai edulcorato e «venduto» agli interessi dello zio Sam.
«In questa legge si dice chiaramente che la Cirh deve assicurare la “messa in esecuzione del programma di sviluppo” di Haiti. Questo vuol dire che i poteri della commissione sono superiori a quelli dell’esecutivo» continua Jeanty. Una vera ingerenza degli stranieri negli affari interni del paese.
La società civile e i partiti politici, tenuti totalmente al di fuori del processo, temono che non solo la ricostruzione del paese ma anche la visione del futuro di Haiti sia gestito dai paesi stranieri, in particolare dagli Stati Uniti.
Ribadisce Suzy Castor: «Nella storia non conosciamo alcun caso in cui il salvataggio viene dall’estero solamente. Non dico che non si deve contare sull’appoggio dell’esterno, ma se non è il popolo che prende in mano il suo destino, non c’è futuro».
Mettere nelle mani della comunità internazionale gli orientamenti per lo sviluppo di una nazione è, certo, fatto anomalo e premessa a nuove forme di controllo geopolitico. Continua Suzy Castor: «Per questo dico, il primo responsabile di questo orientamento deve essere il governo haitiano, insieme alla popolazione. La cooperazione può continuare a essere quello che è con i risultati che conosciamo, oppure, approfittando di questa esperienza, fare un passo che può essere benefico alla nazione. Ma questa cooperazione rischia di trasformarsi in nuove forme di tutela per il XXI secolo».
Tutela che gli Usa cercano da oltre un secolo (riuscirono ad occupare il paese dal 1915 al ’34). Haiti interessa non solo perché è nel “cortile di casa”, nell’area geopolitica a totale (o quasi) controllo nordamericano. È da vent’anni il principale snodo per il traffico della cocaina dal Sud al Nord America, pratica incoraggiata da governi corrotti e putchisti o dalla mancanza dello stato. È all’origine delle migliaia di boat people, che a ondate successive hanno tentato (e tentano) di raggiungere la Florida. È inoltre molto vicino a Cuba: le due isole sono separate solo dagli 80 Km del Passe du Vent, nel Nord Ovest. Zona dove, già da molti anni si dice, gli Usa volessero trasferire la base di Guantanamo. Per gli Usa Haiti è anche un mercato, del riso in particolare, alimento base della dieta haitiana. Secondo una strategia ben pianificata l’american rice invade da oltre 15 anni i piatti degli haitiani a scapito dei produttori locali. E dopo il sisma l’immissione di riso Usa è stata straordinaria. Perché dunque, in prospettiva, non fare di Haiti una nuova Porto Rico?

Verso improbabili elezioni

Secondo il senatore Jeanty il governo non ha offerto alcun margine di negoziato. Per questo il movimento tende a radicalizzarsi e la situazione potrebbe scaldarsi.
Fino dal 10 maggio si moltiplicano le manifestazioni in capitale e nei capoluoghi dei dipartimenti. Mobilitazioni contro il presidente René Garcia Préval e contro la legge di emergenza. Sono organizzate dai movimenti della società civile e dai partiti politici. Alcuni settori chiedono le dimissioni del presidente e la creazione di un governo di transizione, altri vogliono che si tengano le elezioni nei tempi stabiliti. Tutti sono contrari al prolungamento –  fuori costituzione – del mandato. «Per me è essenziale che si metta in piedi un potere di transizione che identifichi i bisogni di questo momento e formi le strutture che permettano di farci uscire da questa situazione creatasi a gennaio e per poter andare avanti» spiega Jeanty.
Il 24 giugno nuova mossa del presidente: il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), presieduto da Gaillont Dorsainvil ottiene il mandato per organizzare le elezioni del 28 novembre. Ma il Cep è un altro nodo duramente contestato da opposizione e società civile. Dorsainvil aveva la stessa carica durante le passate elezioni, che hanno visto la vittoria di Préval ed è accusato di essere vicino al presidente. L’attuale Cep è poi stato coinvolto in diversi scandali. La richiesta popolare è invece quella di un Consiglio nominato secondo i criteri dettati dalla costituzione del 1987, con maggiore partecipazione di tutti i settori della società haitiana. «E inoltre c’è la volontà di Préval: lui vuole organizzare le sue proprie elezioni, in maniera da portare la sua ombra al palazzo presidenziale dopo di lui» sostiene il senatore.

Ricostruzione: «this is business»

Un segnale evidente dell’interesse Usa e Canadese è l’impegno che questi due stati si sono presi per ricostruire rispettivamente 47.000 e 16.500 edifici. Impegno che in realtà è il grosso business della ricostruzione edilizia. Il primo ministro canadese è volato ad Haiti per assicurarsi che le imprese canadesi vi partecipino. C’è un negoziato politico in appoggio all’imprenditoria. Da sottolineare che la legge sullo stato di emergenza rende molto semplificate le procedure per l’assegnazione degli appalti.
Nella conferenza di New York del 31 marzo i paesi donatori hanno promesso 9,9 miliardi di dollari su 5-10 anni per la ricostruzione di Haiti. Cifra in parte confermata (7,8 milioni) all’incontro internazionale del 2 giugno a Punta Cana (Repubblica Domenicana). Di fatto, però, a cinque mesi dal sisma, solo 150 milioni di dollari erano stati sbloccati da Brasile e Venezuela. Quest’ultimo ha anche cancellato un debito petrolifero di 395 milioni.
È chiaro che questa montagna di soldi “promessi” solletichi la cupidigia di molti. Si pensi, inoltre, che nel 2006 Haiti era il paese più corrotto del mondo secondo la classifica di Transparency Inteational (vedi MC gennaio 2007). Forse per questo Préval e la sua équipe hanno difficoltà a mettersi da parte.
René Préval, già primo ministro e delfino di Aristide (’95), è poi diventato presidente della Repubblica in un primo mandato (’96-2001) durante il quale subiva la pesante influenza del predecessore. È di nuovo eletto presidente nel 2006, dopo il periodo di transizione del primo ministro Gérard Latortue (vedi intervista su MC marzo 2005). Ma durante i suoi due mandati non ha mai fatto nulla di concreto e ha pesanti responsabilità sullo stato in cui versa oggi il paese.
Camille Chalmers, direttore esecutivo del Papda (piattaforma di organizzazioni della società civile haitiana), mette in luce il doppio dramma del popolo haitiano.
«Oggi per la maggior parte degli attori potenti sul terreno, lo spazio di ricostruzione è uno spazio di riconquista e ri-colonizzazione, per approfittare della terribile crisi post sisma e spingere su una serie di riforme economiche, che vanno nel senso di un controllo diretto delle risorse strategiche da parte delle multinazionali».
I movimenti della società civile haitiana, nati agli inizi degli anni ’80 per cacciare Duvalier, hanno vissuto periodi storici altei di effervescenza e appiattimento. Oggi, rivitalizzanti da questa nuova solidarietà interhaitiana, stanno cercando di creare un fronte unico e fornire proposte alternative. Vogliono una rottura rispetto allo stato della dipendenza, dell’esclusione e del dominio oligarchico. Chalmers: «Secondo noi pensare oggi a delle risposte alla crisi post sisma vuol dire pensare delle risposte alla crisi strutturale haitiana che data molto prima il 12 gennaio e attraversa tutto il XX secolo». Ma come?
«Uno degli strumenti che stiamo cercando di mettere in piedi è quello che chiamiamo l’Assemblea dei movimenti sociali di fronte alla crisi haitiana. Sarà uno spazio di incontro di tutti i movimenti sociali di Haiti, nel quale vorremmo arrivare a definire l’opzione di sviluppo, ovvero una visione di sviluppo economico e sociale, per avere un minimo di accordo sui grandi orientamenti da prendere rispetto al futuro».
Ma la strada è ancora lunga e, soprattutto, il cammino intrapreso dal governo dopo il sisma va nella direzione opposta.

Marco Bello

Marco Bello




«Ricostruire» la persona

La parola allo psicologo (missionario)

Padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata, psicologo, è docente all’Università Cattolica di Milano. È al suo secondo viaggio ad Haiti (dopo il sisma) per lavorare sulla «rimozione del trauma» con seminaristi, preti e religiosi. Lo abbiamo incontrato a Lilavois, periferia di Port-au-Prince, dai missionari Scalabriniani.
«Si parla di disturbo post traumatico da stress. Il rischio maggiore è la non azione, l’incapacità di riattivarsi, restare a contemplare le macerie e non fare nulla. Poi ci sono reazioni tipo la disperazione o la negazione, per cui non vedi la situazione reale. Senza contare le varie conseguenze che si portano avanti nel tempo, come allucinazioni, ansie improvvise, difficoltà di rimanere in posti chiusi, fino a problemi fisici, come tremiti del corpo, ecc. Il fatto è che questi disturbi diventano cronici alcuni mesi dopo l’evento. Per questo l’intervento dovrebbe essere fatto all’inizio».
Lui e la sua équipe sono intervenuti a diversi livelli.
«Si parte dai dati scientifici che descrivono la realtà. Per questo abbiamo fatto interventi su cos’è il terremoto, come ci si può salvare, come gestire l’emergenza.
Dopo si fanno esempi concreti per dare loro il senso che si può ricostruire partendo dalle piccole cose. Se prendo un mattone un giorno e domani ne prendo un altro e lo metto sopra, dopo due giorni sarà ancora lì. Perché il senso che ti rimane è quello dell’inutilità di ricostruire, in quanto poi tutto sarà distrutto».
Poi si passa a terapie individuali e di gruppo.
«Questo consiste soprattutto nel far raccontare alla persona quello che ha vissuto, nei particolari. C’è bisogno di ricordare. Tra le conseguenze ci sono anche le amnesie. La gente non ricorda per negazione. Ha bisogno del racconto personale e l’ascolto del racconto degli altri, per questo i racconti si fanno in gruppo. Ha bisogno di ricollegare, rimettere insieme i pezzi di una situazione che è stata molto traumatica.
Chi subisce un trauma di questo genere, quando inizia a raccontare poi va avanti e fa uscire quello che ha dentro. Però non basta. L’intervento non si deve fermare al solo racconto ma si passa alla ricostruzione, quindi alla rimotivazione».
Dentro chi ha vissuto il terremoto nascono molte domande. Come mai io ero qui, mi sono salvato e la persona che era a cinque metri da me io l’ho vista morire? Come i seminaristi dei padri Camilliani, salvi nel parcheggio mentre i loro colleghi, già in macchina, venivano sepolti dalle macerie. E tantissimi altri casi.
«A queste domande si risponde in modo pericoloso, come: chi meritava di vivere o di morire … Di fronte a un’esperienza estrema come questa dove, come dice il Vangelo “uno viene preso e l’altro viene lasciato” occorre lavorare sul senso e sul significato di quello che è successo non solo a livello fisico ma di motivazione e senso della vita».
«Qui ad Haiti c’è stata la questione di chi ha mandato il terremoto. Dall’inizio l’interpretazione più frequente è legata al vudù. Oppure a Dio che “ci ha puniti un’altra volta per i nostri peccati”. L’immagine di Dio contro questo popolo sempre molto martoriato. L’intervento sui significati io l’ho fatto da prete, con celebrazioni, messe. Ho parlato della bontà del Padre che non è lì a decidere di fare il terremoto sui cattivi o sui buoni».
L’analisi di padre Enzo si spinge a scovare alcuni aspetti «positivi, se possibile» del terribile evento.
«Ci sono due o tre esperienze che la gente ha fatto, soprattutto i giovani.
Primo: si sono resi conto che il mondo li ha riconosciuti come popolo. Si sono meravigliati su come tutto il mondo si sia accorto di loro. Pensavano di non esistere.
Secondo: hanno capito che gran parte della distruzione è causa di come loro avevano costruito e urbanizzato la città.
Terzo: c’è la voglia di provare a ricostruire la società su basi diverse. è positivo il fatto di dire: “tutto è distrutto, possiamo riprovarci”. Altra cosa: all’inizio c’era una solidarietà tra di loro che non c’era mai stata. Questo è importante. Un’esperienza che non avevano mai fatto». Padre Enzo è ad Haiti anche per un altro progetto. Verificare la possibilità di una collaborazione tra l’Università cattolica di Haiti e quella di Milano: «È un’idea della Conferenza episcopale haitiana e ne abbiamo parlato con monsignor Louis Kebrau, vescovo di Cap Haitien, l’attuale presidente. Chiedono l’appoggio a nuovi leader in ambito amministrativo e politico» racconta padre Enzo. «Si potrebbe realizzare una convenzione tra università e poi organizzare diverse iniziative, iniziando ad esempio con un master in comune».

Marco Bello

Marco Bello




Una strada in salita

L’adozione, un terreno delicato

Vengono dal cielo

Avvicinarsi al mondo delle adozioni, anche solo per capire qualcosa in più, è molto coinvolgente a livello personale. Si toccano aspetti di profonda umanità, ed è inevitabile entrare nell’intimità dell’altro, nella sua sfera dei sentimenti, pur tentando di farlo in punta di piedi.
Le storie sono tante, tutte importanti, alcune bellissime, altre molto tristi. Ma ci si rende subito conto, che in questo campo, non esiste la mediocrità.
Abbiamo cercato di affrontare il tema con umiltà, senza accusare (troppo) e ascoltando molto. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, ma vorremmo dare al lettore alcune possibili piste di lettura e delle pennellate di storie umane. Per non allargare ulteriormente il campo d’azione si è deciso di non estendere il dossier all’adozione nazionale.
Dedichiamo questo lavoro a tutti i bambini haitiani che hanno perso la famiglia il 12 gennaio 2010.

Marco Bello

L’Italia è uno dei primi paesi al mondo come numero di adozioni inteazionali. Ma avere un bambino in adozione è tutt’altro che facile.
E i tempi di attesa sono in media di due anni. Dal 1998 la procedura è allineata con la convenzione dell’Aja. Ma la situazione si fa più «scivolosa» in certi paesi di origine.

«Erano passate 24 ore dal nostro arrivo a Phnom Penh capitale della Cambogia. Ci avevano portato in un orfanotrofio fuori città. Non era male, pulito, perfino profumato. Entriamo in una stanza e da un’altra porta arriva una donna con in braccio un piccolo di 14 mesi. La maman ci sporge il fagotto, poi ci fanno firmare alcune carte. E via, pochi minuti dopo, di ritorno verso la città sul taxi scassato. Il bimbo irrigidito, impaurito, di vedere noi “visi pallidi”, di sentire noi con un odore diverso». È il racconto di un incontro tra genitori e figlio: un trauma, quasi una seconda nascita, che ha dato origine a una seconda vita.

Boom di adozioni

In Italia arrivano ogni anno poco meno di quattromila bambini stranieri (3.964 nel 2009) per inserirsi in circa tremila famiglie adottive. I maggiori paesi di provenienza sono stabili: Russia, Ucraina, Colombia, Etiopia e Brasile, insieme coprono quasi il 60% delle adozioni inteazionali nel nostro paese.
Questi alcuni dati «freddi» del rapporto annuale della Commissione adozioni inteazionali (Cai), l’autorità centrale per le adozioni inteazionali. Dati importanti per capire le tendenze italiane e dei paesi che foiscono bambini in stato di adattabilità.
Dati dietro i quali si nascondono migliaia di storie personali e di famiglie.
L’adozione internazionale è cambiata radicalmente nel 1998, quando l’Italia ratifica la convenzione dell’Aja del ’93. La convenzione, firmata da paesi di origine e di accoglienza, regolamenta l’adozione internazionale e impone nuove modalità e procedure.

Percorso ad ostacoli

L’iter per diventare genitori adottivi è un percorso ad ostacoli. Innanzitutto si presenta domanda al Tribunale dei minorenni di propria competenza. Si devono quindi affrontare accertamenti di tipo sanitario e innumerevoli colloqui con l’équipe adozioni del proprio territorio. Questa è composta da assistente sociale e psicologo e da essa dipenderà in larga misura l’idoneità o meno della coppia ad accogliere un bambino in adozione.
Alla fine dei colloqui, l’équipe invia al Tribunale per i minorenni una relazione che descrive la situazione personale, relazionale e ambientale degli aspiranti genitori adottivi. Sarà il giudice, in base a questa relazione a emanare il tanto agognato «decreto di idoneità» che permette di affrontare il passo successivo.
A questo punto la coppia è obbligata a scegliere uno degli enti autorizzati, associazioni senza fini di lucro (precisarlo è d’obbligo), che dovrà accompagnarla in tutte le fasi successive.
«L’adozione è cambiata in meglio sotto certi punti di vista» racconta Elio Biasi, papà adottivo di due figli brasiliani, ora maggiorenni. «Prima ci voleva più tempo per avere il decreto di idoneità e meno per avere l’adozione. Per questa seconda fase c’era più la strada del “fai da te”». Esistevano già degli enti specializzati, alcuni dei quali operano tuttora e sono quelli oggi indicati come «storici».
«Ci si muoveva tramite l’aiuto, il passaparola. Con tutti i pericoli che poteva comportare. Anche io ne ho aiutati molti, tramite missionari, in Brasile. Ma erano percorsi consolidati, di cui eravamo certi», continua Elio che, si può dire abbia dedicato la sua vita all’adozione, in quanto da 28 anni investe tempo ed energie in un’associazione di aiuto alle coppie (vedi articolo).
«Da quando ci sono gli enti, è più veloce il tribunale, poi ci si arena. Inoltre, la maggior parte degli enti non ti fanno scegliere il paese in cui andare. Ma devi dare la disponibilità multipla. Uno potrebbe invece avere motivazioni particolari verso un dato paese».
E rincara la dose: «Loro (gli enti, ndr) tendono a spingere i paesi dove hanno più possibilità di riuscita, hanno referenti più attivi. Agli enti, secondo me, non interessa darti il bambino, ma chiudere la pratica il più in fretta possibile, perché comunque porta a casa soldi. Non pensano alle sofferenze della coppia, ma al lavoro che devono fare. Si va dai due a tre anni dopo il decreto, per avere il figlio».
E come districarsi nella scelta dell’ente? «Oggi c’è molta domanda. Hanno molte coppie. Qualsiasi ente a cui telefoni per avere informazioni ti fa aspettare 4-5 mesi prima di darti un primo appuntamento.
Non si riesce a capire perché si debba aspettare così tanto. In due o tre anni può succedere di tutto. Dopo l’abbinamento (quando la coppia è associata a un bambino in stato di adattabilità, ndr) aspetti ancora alcuni mesi. Loro danno la colpa alle burocrazie dei paesi. Ma io non sono così convinto che non si possano eliminare questi percorsi».

Procedure non troppo chiare

Gli enti sono tenuti ad avere dei «referenti» nei paesi, ovvero dei loro incaricati che devono sbrigare le procedure burocratiche, accogliere le coppie quando arrivano, e accompagnarle in tutti i momenti della loro permanenza nel paese.
Con il lemma «il fine giustifica i mezzi» molti enti hanno comportamenti a dir poco dubbi in alcuni paesi. «L’associazione per la quale lavoravo puntava ad ottenere l’adozione il più in fretta possibile» racconta una ex referente che ha lavorato per un ente italiano in Africa dell’Ovest.
Ma i tempi erano molto lunghi: «Molto spesso ci si rendeva conto che bisognava pagare qualcosa sottobanco per fare andare avanti le pratiche. Io non ero d’accordo con questo metodo, mentre l’ente non aveva problemi. Per loro l’importante era velocizzare il processo». Per questa incompatibilità, dopo cinque mesi la referente decide di dimettersi.
Di casi di corruzione se ne sentono svariati, a vari livelli, in diversi paesi, soprattutto africani.
Un altro aspetto delicato è quello della facilità con cui i bambini, in alcuni casi, diventano adottabili: «Mi rendevo conto a volte che sarebbe bastato appoggiare la famiglia magari con un progetto di sviluppo, e questa avrebbe potuto e voluto tenere il bambino. Il problema è che non si creava l’alternativa per questa mamma» continua la referente. In questo modo si nega il principio di sussidiarietà sancito dalla convenzione dell’Aja, che prevede come priorità quella di creare le condizioni affinché i bambini trovino una famiglia nel loro paese. «Non riuscivamo a comunicare direttamente con i genitori, perché usavamo l’interprete. Questi, portati davanti al notaio, firmavano per l’adottabilità del proprio figlio». 
Non si vuole qui attaccare il lavoro dei molti enti italiani estremamente seri. Ne sono un esempio quelli che lasciarono il Vietnam, quando nel settembre 2009, furono condannate 16 persone per falsificazione di documenti per rendere adottabili 250 neonati.

Non tutti gli enti, vengono per nuocere

E dal punto di vista delle coppie?
«Le esperienze con gli enti sono sempre soggettive, dipende se ti è andata bene oppure no. Io non accuso mai un ente, ma mi permetto di dare giudizi generali in base a quello che sento. Moltiplico sempre, quantifico e mi rendo conto dei soldi che circolano», continua Elio Biasi.
In effetti un’adozione internazionale costa cara, anche se ci sono delle tabelle della Cai che le regolamentano. «Un’adozione va dai 10 mila euro di un paese africano ai 30 mila di un paese dell’Est Europa. A parte ci sono le spese di permanenza, viaggio nel paese» ci ricorda Elio.
I costi sono suddivisi in spese in Italia e in spese da fare nel paese straniero. Queste, a volte, raggiungono delle cifre anche molto alte.
«In Italia l’ente ha esperti e professionisti: giuristi, assistenti sociali, psicologi. Questi devono aiutare la coppia a predisporre il fascicolo capire dove depositarlo, fornire una formazione sul paese, … poi ci sono enti che dicono di fare queste cose ma non le fanno» ci svela un’addetta ai lavori. E si aggiungono tutte le spese fatte in Italia per la struttura.
«Gli enti hanno spese che si aggirano sui 3.000 – 4.000 euro in Italia. Ma alcuni hanno aumentato e ne chiedono 5.000 – 6.000. In questo caso è la Cai che dovrebbe fare un controllo per verificare innanzi tutto se i servizi vengono resi, e secondo quanto costano effettivamente all’ente». Continua l’operatrice. Poi ci sono i servizi all’estero che differiscono dai paesi: preparazione documenti, traduzioni e legalizzazioni. Spese di procedure. Il Brasile ad esempio ha procedure gratuite, altri chiedono un contributo per il mantenimento del minore che ha già vissuto in una struttura per anni. C’è il referente da pagare, talvolta l’avvocato. E ancora i follow up obbligatori: le relazioni che le coppie devono redigere insieme all’ente da mandare allo stato straniero ogni anno (o ogni semestre), in alcuni casi fino a 18 anni del figlio adottivo.Ma gli enti, essendo Onlus, organizzazioni senza fini di lucro, devono solo rientrare nei costi e non fare profitti. «Un’adozione che con un ente costa in tutto 13.000 euro, nello stesso paese altri enti la fanno pagare 25.000» conclude l’operatrice.
Mentre Elio si chiede: «Perché ci sono enti che fanno 10 adozioni in un paese e altri che ne fanno 200? Io non do giudizi, faccio solo le moltiplicazioni».

di Marco Bello

Marco Bello




Guardare al futuro

Anna Maria Colella, direttore Arai

I bambini vanno aiutati a crescere nella propria famiglia e nel proprio paese. Ma talvolta questo non è possibile. Il confine tra lo stato di indigenza e l’abbandono non è sempre netto. Ecco il punto di vista della dottoressa Colella, fondatrice del primo (e unico) ente pubblico per le adozioni inteazionali.

Anna Maria Colella è un funzionario della Regione Piemonte che si occupa da anni della promozione e della tutela dei minori. Annovera tra i tanti incarichi quello di esperta per le politiche minorili presso l’Ufficio di gabinetto dell’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco. Inoltre, è stata componente della Commissione adozioni inteazionali e anche dell’Osservatorio nazionale minori.
Nel 2001 ha promosso la nascita del primo (e unico) ente pubblico italiano per le adozioni inteazionali, l’Agenzia regionale per le adozioni inteazionali (Arai) di cui è direttore.

Come è cambiata l’adozione internazionale negli ultimi anni?
«Lo scenario dell’adozione internazionale è cambiato molto. Occorre partire dalla Convenzione de L’Aja per poter parlare di adozioni inteazionali a tutto campo. Nel ‘93 a L’Aja è stato siglato un accordo, tra paesi di origine e paesi di accoglienza, dove si individuava come principio basilare la «sussidiarietà delle adozioni inteazionali»: le adozioni sono possibili, ma solo nel momento in cui il paese di origine non riesca a dare una risposta di famiglia al bambino in abbandono. Si tratta di un principio molto importante, riconfermato con la legge italiana di ratifica della Convenzione de L’Aja (legge n. 476 del 1998).
Lo stato italiano peraltro prevede in tale legge che anche gli enti che si occupano di adozione debbano sviluppare, nei paesi nei quali operano, progetti a sostegno dell’infanzia. Viene ribadito in tal modo un aspetto molto importante: la tutela dei diritti dei bambini passa soprattutto attraverso l’attenzione degli stati di origine, in quanto ciascun bambino deve essere aiutato e sostenuto innanzi tutto nel suo paese».

Il che sembra in contraddizione con l’adozione?

«Questo principio è stato al centro dell’attenzione di tutti (stato, regioni, enti locali) ed è un riferimento per le coppie che vanno ad adottare all’estero. In passato le famiglie avevano l’idea di adottare con facilità in un paese straniero, un bambino molto piccolo e sano. Questo era il desiderio di tanti e spesso lo è ancora.
La trasformazione di questi anni è passata anche attraverso la diffusione di una diversa cultura dell’adozione, promossa sia dai servizi sia dagli enti che si occupano di adozioni. L’enorme cambiamento riguarda soprattutto la maturazione, da parte delle coppie aspiranti all’adozione, di una maggiore consapevolezza delle caratteristiche dei minori in stato di abbandono: sono spesso bimbi in età scolare, con difficili storie famigliari alle spalle e con disabilità, appartenenti a gruppi di fratelli in adozione. Si è cercato sempre più di far capire la differenza tra il bambino desiderato e il bambino reale».

Pensa che questa consapevolezza sia stata raggiunta?
«Le coppie italiane che desiderano avere un figlio adottivo hanno ben compreso questa realtà. Ci sono coppie che si preparano ad accogliere gruppi di fratelli, bambini grandi, a volte con difficoltà sanitarie.
Abbiamo accompagnato diverse famiglie all’adozione di bambini di etnia rom di 8 – 9 anni:  sono casi complessi, per nulla facilitati dal dibattito italiano su integrazione e interculturalità, che rende più difficile l’accoglienza di bambini con differenze somatiche e il loro inserimento nella rete sociale allargata. Un altro principio da tener presente è quello per cui le coppie italiane non possono realizzare adozioni “fai-da-te”, ma devono essere accompagnate da enti autorizzati, iscritti in un Albo presso la Commissione per le adozioni inteazionali (Cai) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una volta che si ottiene il decreto di idoneità all’adozione internazionale, rilasciato dal Tribunale per i minorenni, bisogna conferire l’incarico a un ente autorizzato, che, tra i vari compiti, annovera anche la preparazione delle coppie all’intero percorso adottivo. Nel panorama italiano ci sono circa 70 enti privati e un solo ente pubblico: l’Arai».

Ci sono ancora le coppie che vogliono un bimbo «piccolo, subito e sano»?

«Dipende molto sia dalla professionalità dei servizi socio-assistenziali e sanitari del territorio, sia dalla capacità dell’ente di preparare e accompagnare la coppia: l’accompagnamento è un percorso di crescita e consapevolezza.
Certi paesi d’origine chiedono alle coppie requisiti particolari e disponibilità specifiche. Se la relazione sociale, elaborata dall’équipe adozioni del territorio di residenza, riporta che la coppia non se la sente di adottare un bambino di colore o di etnia diversa, è difficile che quella coppia venga accompagnata ad adottare in un paese i cui bambini presentano differenze somatiche evidenti. Noi, però, dobbiamo sostenere le coppie e farle crescere nella loro disponibilità e nella consapevolezza che la realtà dei bambini dichiarati adottabili è complessa.
Ci sono enti che realizzano adozioni in paesi che presentano situazioni giuridiche, sociali e politiche in cui è molto difficile lavorare. Ne è un esempio il Vietnam, dove, di recente, sono emerse delle irregolarità nello svolgimento delle procedure adottive, che hanno portato all’arresto di alcuni cittadini vietnamiti incaricati della gestione di orfanotrofi collegati all’adozione».

In alcuni paesi, genitori in stato di indigenza acconsentono a «dare» i figli in adozione.

«Tutto dipende dalla capacità del paese di origine di controllare le proprie strutture e verificare che i bambini siano effettivamente in stato di abbandono. Alcuni, per esempio, prevedono che venga firmato un consenso all’adozione da parte della famiglia di origine; in tal caso è compito dei paesi d’origine controllare che il consenso non sia stato estorto alla madre per problemi di povertà o indigenza. In base alla nostra legislazione, infatti, un bambino può essere adottato se ne viene dichiarato lo stato di abbandono e di adottabilità.
Se si opera in stati dove la povertà è tale per cui maggiori sono le difficoltà legate all’ottenimento dei provvedimenti di abbandono, bisogna lavorare con cautela. Problemi di questo tipo non riguardano generalmente quei paesi dotati di strutture giuridiche e amministrative consolidate, come il Brasile e la Russia».

In casi di grande povertà il confine tra abbandono e impossibilità di occuparsi dei figli non è netto.

«Sono situazioni difficili da decifrare: alcuni bambini sono in abbandono solo a causa della povertà della famiglia d’origine? Fino a che punto la povertà stessa incide sull’incapacità educativa?
Una mamma molto povera, che vuole bene al suo bambino e lo vuole tenere, va aiutata; se, al contrario, non dimostra l’amore e l’attenzione necessari ad educare il figlio e a crescerlo, bisogna chiedersi se è più importante la mamma o il futuro del bambino.
È pur vero che bisogna avere delle alternative positive da offrire, come strutture adatte a sostenere le famiglie e i loro bambini e investire risorse nella cooperazione internazionale, nel sostegno alla mateità e all’infanzia. È estremamente importante che tutti, lo stato, le regioni, gli enti locali, gli istituti religiosi, le Ong, facciano la loro parte.
All’inizio della mia esperienza professionale nel settore non appoggiavo di buon grado le adozioni inteazionali, ritenendo che ciascun bambino dovesse essere aiutato nel proprio paese d’origine».

Qual è stata per lei la svolta?
«Nel 1998 sono andata in Brasile e ho visto per la prima volta bambini che crescevano negli istituti. Di fronte a questa situazione ci dobbiamo chiedere con che diritto diciamo no alle adozioni inteazionali, se queste possono essere uno strumento per dare una famiglia a un bambino. Se non ci sono legami affettivi e giuridici che tengono quel bambino nella sua terra, un altro paese può dargli gli affetti che non ha trovato. È fondamentale però avere e mantenere il rispetto per questi bambini, per la loro cultura, il loro passato, la loro lingua, la loro storia. Adottando un bambino dal Sud America o dall’Africa bisogna fare in modo che non perda le sue origini: la cultura del paese d’accoglienza va ad aggiungersi alla sua, quale risorsa in più.
Noi, come servizio pubblico che si occupa di progetti di cooperazione internazionale e di adozioni,  cerchiamo di preparare il più possibile le coppie a questo passaggio, a non tagliare i legami con il paese d’origine del loro bambino. Per questo riteniamo che soggioare nel paese di provenienza del minore per un certo periodo di tempo sia utile per capire e conoscere meglio la sua cultura. Concordo in ciò con le autorità sudamericane, che richiedono una permanenza minima delle coppie di 40 – 50 giorni.
L’adozione internazionale è una sfida da vincere verso il futuro e rispetto a un mondo sempre più multietnico, caratterizzato dalla convivenza di culture diverse. Noi operatori del settore, occupandoci di bambini, dobbiamo per forza guardare al futuro. Grazie all’adozione internazionale si stringono legami anche tra paesi: una famiglia con figli di origini diverse può rappresentare un modello per migliorare la convivenza e l’integrazione nella scuola e nelle istituzioni».

Perché un’agenzia regionale?
«Questo servizio pubblico è nato per dare un’opportunità in più alle coppie piemontesi aspiranti all’adozione internazionale. Il fatto che possiamo prendere in carico solo coppie della regione è una positività, ma è anche un vincolo: siamo più vicini alla coppia, ma, allo stesso tempo, abbiamo il limite di non poter prendere in carico coppie di altre regioni, che magari hanno decreti di idoneità più ampi. A seguito di una Convenzione con le amministrazioni di Liguria e Val d’Aosta, dal 2010 anche le coppie residenti nelle due regioni possono avvalersi di questo ente pubblico».

Verso un ente nazionale?
«Ci sono altre regioni italiane che vedono positivamente la possibilità di poter istituire un servizio pubblico regionale nelle adozioni inteazionali. Se, da un lato, bisogna valorizzare gli enti privati già esistenti, considerato che alcuni di questi lavorano con molta competenza e professionalità, dall’altro lato sarebbe auspicabile che altre  regioni diano vita a dei servizi pubblici in questo settore».

A cura di Marco Bello

Marco Bello




Un gruppo per crescere

Un’associazione dalla parte delle coppie

Creare uno spazio dove si possa parlare di adozione. Perché parlare di certe cose non è facile. Nel gruppo le famiglie possono ascoltare le emozioni di gente che ha già vissuto una problematica. E si possono preparare ad ogni evenienza.

Elio Biasi, corporatura robusta, parla deciso, mai fuori luogo. Soprattutto: sa di cosa parla. È il promotore dell’associazione Gruppi volontari per l’affidamento e l’adozione, che opera a Torino e provincia.
Il gruppo nasce nel 1982 come gruppo di sensibilizzazione e promozione all’affidamento. Poi nel 1987 passa ad occuparsi di adozione perché «il comune ha preso in mano l’affidamento» e diventa associazione.
«Abbiamo voluto far nascere un gruppo per aiutare le coppie in difficoltà, sia prima, quando occorre seguire tutto l’iter, sia nel dopo».
L’adozione implica problematiche forti: discriminazione razziale, riuscita scolastica, problemi sanitari, paura del rifiuto, eccetera. «C’era, e c’è tuttora, questa esigenza: molte famiglie non sanno a chi chiedere e sono timorose su certe cose».
Il metodo: raccontare le proprie esperienze. Elio lo chiama: «automutuoaiuto», ovvero condividere il proprio vissuto su certe tematiche con gli altri, in una dinamica di gruppo.
«Certe questioni meno importanti quando i figli sono piccoli, poi con la crescita vengono fuori. A posteriori ci diciamo: se avessimo lavorato meglio su alcune cose, che non abbiamo valutato, probabilmente potevano risolversi in una maniera migliore. Sono quelle cose che nessuno ti ha detto. Ci ha sempre animato questa grossa voglia di trasmettere agli altri e di creare dei luoghi dove si potesse parlare di adozione».
In seguito l’associazione crea due gruppi, uno per le famiglie che devono adottare e l’altro per chi affronta la post adozione.
«L’importante è che le famiglie ascoltino le emozioni da gente che ha già il vissuto e in questo modo si prepari a quanto può accadere».

Farsi una «corazza» protettiva

«Ad esempio – continua Elio – cerchiamo di dare un sostegno per affrontare tutte le traversie per ottenere l’idoneità. E cerchiamo di preparare la gente anche al caso di esito negativo. Noi non vogliamo fare gli psicologi e gli assistenti sociali. Ma è molto importante avvisare la coppia che potrebbe esserci questa eventualità».
Fondamentale è il concetto di gruppo: «Secondo me la famiglia va guidata, occorre aprirle gli occhi, darle tutte le possibili informazioni sui disagi che ci sono sul cammino. Il gruppo ti sostiene quando tu hai problemi a relazionarti con il bambino. Se non c’è un gruppo alle spalle come fai?
Le capacità e l’esperienza di gestire il gruppo è tirare fuori il problema al momento giusto. Riuscire a portare chi ha vissuto un problema a parlarne con gli altri».
I loro incontri sono seguiti da 10 -15 coppie, che si avvicendano. Dal gruppo principale, negli anni, ne sono nati altri che si incontrano regolarmente: «L’idea è non avere tanta gente. Ma avere più gruppi sparsi nel territorio». Così hanno preso vita i gruppi di Collegno, Rivalta, Bibiana e Aosta. Ogni incontro è gestito da uno o due volontari: «Persone che hanno seguito il mio gruppo e poi hanno sentito la spinta per creae un altro»
Sono nati anche gruppi legati ad altre associazioni. E anche le équipe dei servizi sociali hanno capito l’importanza di questo accompagnamento: «Importante è che gli psicologi delle Asl si stanno ispirando al nostro lavoro e organizzano riunioni con le coppie adottive che hanno selezionato nella loro zona e che poi hanno avuto il figlio. Questa è la cosa più bella per noi». Gli incontri (uno al mese per gruppo) hanno un calendario annuale sulle tematiche. «Prima svisceriamo le problematiche e poi invitiamo dei tecnici: psicologo, fisioterapista, assistente sociale, operatore dell’ente autorizzato, ecc.» prosegue Elio.
«L’obiettivo è anche di mettere le famiglie a conoscenza dei loro diritti, di quello che possono fare in caso di …, da chi possono andare.
Raccontiamo le nostre storie, più che dare consigli. Gioie e dolori. Serve anche per creare uno scudo per loro, ma grazie a quello che abbiamo fatto noi».

Verso il futuro

L’associazione è conosciuta, i servizi sanno che esiste e nei corsi preparatori della Regione la citano. Però la frequentazione è cambiata negli anni: «Ultimamente c’è più gente presuntuosa, o non preparata all’adozione, che vuole prendere e non dare. Vengono due o tre volte. Poi spariscono».
A Elio non piacciono molto gli enti autorizzati (vedi altri articoli), almeno quelli privati: «Penso che la cosa più importante da fare sia creare enti pubblici che possano collaborare con il governo dei paesi di origine dei bambini, tramite i loro specialisti: assistenti sociali, psicologi. Per semplificare il tutto, senza passare attraverso agli enti privati».
Elio Biasi è un fiume in piena, trasmette una grande carica umana. E pensa al futuro: «Una delle cose che voglio fare adesso che sono in pensione è portare l’adozione e l’affidamento nei corsi prematrimoniali. È importante far conoscere alle coppie che, tra le diverse possibilità di avere figli, ci sono anche queste».
Ma anche portare avanti le relazioni con il tribunale. Far capire l’utilità dei gruppi: «Vorrei parlare loro dei malfunzionamenti, come la disparità di selezione da un servizio sociale all’altro. Qualcuno fa cose fuori ruolo, mettono in crisi la coppia, sembra quasi che debbano martellarli per vedere se sono in grado o meno. Ma non sempre è il modo migliore».

Di Marco Bello

Marco Bello