Non solo han

Introduzione

In Cina, il paese più popoloso del mondo (1,4 miliardi di persone), ci sono 56 etnie. Di queste, 55 sono minoranze.

La casa è costruita interamente di legno: è composta da una grande stanza all’interno della quale ci sono un divano, alcune sedie e un poster che raffigura Mao Zedong, Deng Xiaoping e l’attuale presidente cinese, Hu Jintao. Al centro una stufa. Le due contadine che ci ospitano sono impegnate nella preparazione di un pasto: verdure raccolte nella passeggiata precedente, riso da bollire, altre verdure tagliate, crude. C’è anche una bambina, occhi fissi sulla televisione, immancabile, e mano ferma sul telecomando: sembra essere in grado di cambiare un canale al secondo. Fuori, le risaie di Ping’an, sud della Cina, regione del Guangxi, piccolo paese arroccato su colline, circondato da distese di terrazze: la «schiena del Drago», come vengono chiamate, mentre le schiene umane sono curve a lavorare, riparandosi da zanzare e da un sole che picchia e che rende arsa l’aria. All’ombra del legno è fresco, si prepara la tavola e si mangia insieme.
«Noi siamo yao», raccontano in mandarino le due signore, poi parlano tra di loro in dialetto e lo stupore taglia il cono d’ombra quando chiedono il nome delle verdure in mandarino ad un laowai, uno straniero. Loro parlano un’altra lingua, eppure sono cinesi.
Nell’immaginario collettivo i cinesi sono tutti uguali: le tante comunità – le chinatown così esotiche nel nome, ma spesso osteggiate – sparse per il mondo, i loro ristoranti, una stampa talvolta arruffona nel parlare di Cina in termini monolitici, quasi fosse un gigante stralunato appoggiato ai propri recenti successi, non aiutano a distinguerli. Eppure quelli che noi chiamiamo cinesi, sono solo una – la maggioritaria – della 56 etnie di cui è composto il paese, un continente. Ci sono gli han e altre 55 etnie, che rivendicano il proprio essere cinesi e le proprie peculiarità culturali. Chiedono riconoscimento delle proprie tradizioni, della lingua, all’interno dell’unione politica della Madre Cina.
È uno dei nodi della Cina contemporanea: gestire uno sviluppo economico che sappia creare l’armonia sociale: tra cinesi, tra han e le altre etnie, garantendo a tutti, senza differenze  e pregiudizi culturali, i frutti dello sviluppo economico. Una diatriba che a parole trova una sua collocazione nella Costituzione della Repubblica popolare, ma che nei fatti costituisce uno dei tanti dilemmi interni della Cina contemporanea. Uscendo dalle grandi città, Pechino, Shanghai e Canton, si arriva in posti che sembrano persi nei tempi andati della storia millenaria cinese: pertugi storici in cui si ritrova assimilazione, diversità, consumo e tradizione.
In questo dossier, proveremo a guardare al gigante asiatico con uno sguardo sbilenco e nuovo. Perché i cinesi non sono tutti uguali.

Simone Pieranni

Simone Pieranni




Mille volti, un cuore antico

Dall’impero alla Cina comunista

Prima fu l’Impero, poi il confucianesimo, infine la nuova Cina. Secondo l’articolo 4 della Costituzione del 1982: «Le nazionalità della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica, protegge e sviluppa l’uguaglianza, l’unità, l’aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità (…)». la realtà mostra un paese in cui gli han, il gruppo maggioritario (oltre il 90% della popolazione), sono divenuti forza preponderante in ogni regione. E non sempre in modo pacifico, come dimostrano le rivolte in Tibet e Xinjiang.

La Cina è un respiro ovunque diverso, che avvolge paesaggi tra loro distanti migliaia di chilometri. È composta da mille volti e da un cuore antico: il letto di un fiume che fu fonte di civiltà. Oggi il Fiume giallo è uno specchio desolato di acque inquinate e terre aride. Di un canto nostalgico intonato al «xibei», il Nord-Ovest cinese, dove scorre il vecchio fiume anima pulsante delle prime dinastie tra storia e leggenda; il Nord-Ovest delle rotte carovaniere in arrivo dal centro Asia. Oggi, semplicemente, una delle aree più povere della Cina modea. Come ipotesi di partenza, la Cina potrebbe essere un contenitore di popolazioni ed etnie: 56 stando ai gruppi riconosciuti ufficialmente. Non solo han, tibetani e al limite uiguro; ma anche mancesi, mongoli, kazak, yao, bai, yi, miao, zhuang, mosuo… persino coreani e russi. Montagne altissime ad ovest, deserto e prateria a Nord, neve e ghiacci a Nord-Est, le grandi piane al centro, la fascia costiera e le skylines a Sud-Est, i picchi carsici e le risaie a terrazza del Sud, l’aria dei tropici a Sud-Ovest.
La maggior parte delle volte che sentiamo pronunciare la parola «cinese» in realtà si parla di cinesi han. Vale a dire il gruppo maggioritario, con oltre il 90% della popolazione, dislocato su un territorio insufficiente. Oggi le aree autonome (regioni, prefetture e contee) destinate alle minoranze coprono il 64% del territorio, ma negli anni la penetrazione han si è fatta sempre più possente. Si prenda la Regione autonoma della Mongolia intea, dove i mongoli sono ormai solo il 15% della popolazione.
«Cinese» è una parola che, almeno nelle intenzioni, significa anche tibetano o uiguro. La Cina come concetto è una creazione delle correnti riformiste e rivoluzionarie di fine Ottocento, quando il pensiero tradizionale intriso di confucianesimo si aprì all’idea modea di nazione: uno stato unitario, con un territorio, con dei confini. E con un popolo. Non più sudditi del «Figlio del cielo» costretti nell’angusto spazio di riti e gerarchie, ma nazione che partecipa al potere nel nome dei principi di uguaglianza, cittadinanza e rappresentanza. Era questo il nuovo cittadino cinese che emerse dalla cenere della Rivoluzione del 1911 (si legga la cronistoria), membro di uno stato che rivendicò i confini dell’antico Impero, includendo così un groviglio di popolazioni eterogenee, spesso parlanti lingue e persino con sistemi di scrittura diversi.
Nella retorica nazionalista sarebbe divenuta la «Repubblica dei cinque gruppi» (Wu zu gonghe), sottintendendo i cinque principali gruppi etnici: han, mancese, mongolo, hui (i musulmani cinesi) e tibetani. A sostegno della tesi venivano citati millenari processi di scambi e di reciproca assimilazione tra la maggioranza han e le popolazioni minoritarie, tutte dislocate alla periferia del vecchio Impero. L’ideale era quello di una famiglia, il cui ultimo stadio evolutivo sarebbe stato la «Grande armonia» (Da tong), un ideale dal sapore confuciano. Modeità e tradizione. Per capie la convergenza bisogna ripartire dalle dinamiche di una fase storica ben precisa: l’imperialismo. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero cinese fu ridotto ad uno status semi-coloniale, che destinava la gestione delle principali risorse economiche alle Grandi potenze coloniali e lasciava all’imperatore una sovranità nominale, vuota. L’Impero era allo sfascio: tecnicamente arretrato, sfruttato economicamente, umiliato politicamente, militarmente e persino nello spirito, vista la diffusione dell’oppio britannico nei circoli amministrativi, una piaga che mirava dritto al cuore dell’integrità etica professata dal confucianesimo.
Fu allora che venne intrapreso il confronto con la modeità. L’ideale di sviluppo, ancora oggi tanto decantato dalla dirigenza comunista, si impose come mezzo di riscatto per un paese da ricostruire. La decadenza del presente era compensata da un sogno di grandezza da conquistare. Linearismo ed evoluzionismo. Lo strumento per conseguire tutto ciò era la ragione, il razionalismo economico e politico. L’intento di modeizzazione tecnica anticipò quella del pensiero politico, che costituì una rivoluzione ancora più grande, in grado di stravolgere i rapporti tra i cinesi han ed i loro vicini, le minoranze. La questione etnica stava prendendo forma anche in Cina.
Il dogma politico supremo introdotto dal nuovo pensiero fu quello dello stato-nazione moderno, centralizzato, dotato di confini ben definiti e rappresentato da una nazione unitaria. L’essere cinese veniva proposto non solo sul piano politico ma ipotizzato etnicamente, malgrado la varietà culturale. In termini politici, l’autorità centrale fu estesa alle province più lontane dalla capitale come mai era stato rivendicato in epoca imperiale. La maggioranza han, storicamente e quantitativamente dominante, veniva investita dalla retorica nazionalista del ruolo guida in campo politico ed economico. Un fratello maggiore in grado di prendere per mano le arretrate minoranze e rendere grande la madrepatria, queste le parole della propaganda ufficiale. La realtà, inizialmente, fu più complessa: il potere centrale era troppo debole per tradurre nella pratica la sua ambizione nazionalista, ostacolato ad esempio dai signori della guerra disseminati su tutto il territorio cinese. Anche alla periferia della nuova repubblica le istituzioni tradizionali delle minoranze continuavano ad agire in completa autonomia, quando non rivendicavano apertamente l’indipendenza.
Perché la Cina nella sua transizione ad una forma politica modea ha assunto l’aspetto paradossale di un Impero nelle vesti di una nazione? Questione di potere, sete di riscatto dal giogo coloniale, l’obbligo di assimilare le regole del mondo moderno per sopravvivere; ma non solo. Ci fu anche una percezione di sé che, come in tutte le nazioni, ha fatto leva su simboli, miti, storie, valori culturali consolidatisi nel tempo. Una rielaborazione della memoria storica collettiva. Il percorso dell’Impero cinese fu un perfezionamento di una cultura politica secolare, millenaria, capace di guadagnarsi un riconoscimento nello spazio di un continente geografico, dalla Corea al Vietnam; e laddove non fu sempre ben accetta seppe scendere a compromessi con la diversità, dimostrandosi ricettiva e riuscendo a rielaborare «l’altro» in termini familiari.
L’Impero cinese non fu un’unità politica in cui un despota decideva il destino dei suoi sudditi, né il regno di un eroe conquistatore. L’Impero cinese fu equilibrio fra poli distinti: nomadi e contadini, barbari e civilizzati, minoranze e han. Un equilibrio che non escluse guerre e scontri, ma in cui a farla da padrona era una visione in cui ogni soggetto trovava un suo posto; dove ciò che era ritenuto barbaro doveva sì essere civilizzato, ma era comunque parte di un sistema ed accettato al suo interno. È sulla base di questi principi che l’Impero cinese si sviluppò rendendo ufficiale un sistema culturale oggi tradizionalmente associato al confucianesimo. Ma dal punto di vista delle relazioni «geopolitiche» ed inter-etniche si tratta di un qualcosa di più generale rispetto ad un sistema culturale; come un modo di concepire i rapporti con «l’altro» facendo riferimento a valori condivisi.

L’assimilazione delle popolazioni «non han»
È questa una possibile chiave interpretativa per osservare la funzione simbolica della Grande muraglia, che nell’immaginario di un cinese non è una semplice linea di demarcazione tra l’io ed il nemico, ma anche un crocevia e un punto d’incontro, probabilmente inizialmente di scontro, ma che poi permise di includere il diverso e di estendere i limiti della terra, quel «Ciò che è sotto il Cielo» (Tianxia) che rappresentava in epoca imperiale l’idea di Cina. Il mantenimento da parte dell’altro di una certa identità era addirittura funzionale al sistema, poiché visualizzava diversi livelli di penetrazione della civiltà, a seconda della distanza (geografica, culturale) dal Centro, l’Imperatore Figlio del cielo (Tianzi).
Si fa un gran parlare, spesso a ragione, dell’assimilazione cui le popolazioni «non han» furono storicamente sottoposte. Perché l’accettazione del diverso passava per una sua riqualificazione culturale. Gran parte delle minoranze cinesi di oggi mantengono ben poco della loro antica identità etnica. La forza dell’elemento han si manifestò nella riconversione di gruppi più deboli e nella migrazione intensiva dalle piane centrali verso Sud. Ma quelle culture provviste di maggiore personalità poterono coesistere con il sistema ufficiale ed operare all’interno di esso. Si prendano le oasi centrasiatiche dello Xinjiang, le praterie mongole o il Tibet buddhista. Il riconoscimento in realtà era reciproco ed era fondato sulla presenza di una complessa rete di gerarchie sovrapposte, in cui il rito svolgeva una funzione essenziale, evitando che si creassero degli scontri per l’esercizio effettivo tra diverse autorità. Per la storiografia cinese l’imperatore restava il centro politico supremo ed in una certa misura egli poté anche ricevere tale riconoscimento; ciò non toglie che per le altre popolazioni l’autorità imperiale fu soprattutto uno strumento di legittimazione per il proprio potere. Il buddhismo in Tibet non fu solo una religione ma espresse anche un sistema di valori alla base di una distinta cultura politica con un proprio codice simbolico, universalista proprio come l’ordine imperiale. In tempi antichi ci furono guerre tra Tibet ed Impero cinese, ma in ultima analisi si giunse ad un reciproco riconoscimento, in cui l’Imperatore entrò nella simbologia buddhista ed il Dalai Lama, a capo del sistema tradizionale tibetano, divenne parte attiva all’interno del sistema imperiale.
L’idea modea di Cina riprende la condivisione di una cultura politica antica, sottintendendo un contatto – già esistente – tra le popolazioni che componevano l’Impero. Oggi in province come quelle del Sichuan, dello Yunnan, del Guangxi e del Guizhou ci sono regioni dove diverse etnie coesistono ormai da secoli e la cui identità agisce chiaramente su diversi livelli. La memoria dell’epoca imperiale è andata però incontro ad una rielaborazione. Oggi il problema principale in rapporto alla questione etnica è la discriminazione politica, economica, sociale e persino culturale a cui le minoranze economicamente meno sviluppate sono condannate a causa dell’egemonizzazione dell’elemento han. Più che una volontà di sottomissione fu però il risultato di un processo storico: gli han furono il centro della Rivoluzione politica del 1911, nonché gli artefici della modeizzazione tecnica ed economica, il che li pose automaticamente alla guida della nuova Cina, la Cina comunista.

LE MINORANZE NELLE COSTITUZIONI DEL 1954 e del 1982
La Cina comunista ha ricercato la propria legittimità nel riconoscimento ufficiale delle etnie che ne compongono il territorio, attraverso un’opera di catalogazione sul campo durata decenni e che ad oggi ha portato allo scoperto 55 minoranze. I criteri adottati in quest’opera furono tutt’altro che scientifici e spesso l’identificazione etnica di una persona restò un ideale, vuoi per specifici interessi politico-strategici, vuoi per la forza dei processi di integrazione e di assimilazione, che spesso hanno reso difficile la distinzione chiara e netta dell’identità etnica di una persona. L’ultimo conteggio ufficiale (nel 2000) registrava più di 700 mila persone senza etnia, un gruppo di individui spesso unito dalla coscienza di non essere han ma che ignora la propria appartenenza.
La prima Costituzione cinese fu approvata nel 1954. In essa veniva sancito il principio di Stato unitario multietnico (art. 3), garantito attraverso il riconoscimento di uguaglianza tra i gruppi nazionali e dell’autonomia politica per le minoranze. Il riconoscimento della sovranità centrale, cui tutti gli organi amministrativi autonomi erano sottoposti, bilanciava la concessione di autonomia. Lo schema fu ripreso dalla Costituzione del 1982, l’ultima approvata in ordine di tempo, e dalla Legge per l’autonomia regionale nazionale della Repubblica popolare cinese (Rpc) del 1984. Questi due documenti si impegnavano a ribadire la compresenza di un’autorità centrale e di un potere decisionale autonomo nelle zone popolate da minoranze.
È stato osservato che la Costituzione del 1982, complice la svolta politica apportata da Deng Xiaoping, abbia contemplato maggiore apertura nel riconoscimento del particolarismo etnico. Nel dettaglio, veniva assunta una posizione netta contro la discriminazione etnica, si impegnava lo Stato centrale a investire nello sviluppo economico delle zone più arretrate e le minoranze nel mantenimento e nello sviluppo della propria cultura (art. 4). Anche il riconoscimento di autonomia politica andò incontro a una più approfondita formulazione: l’articolo 116 garantiva la libertà di approvare regolamenti locali in base alle esigenze particolari della popolazione o agli orientamenti culturali di una minoranza; gli articoli 117-122 sancivano invece l’autonomia in materia fiscale, culturale, economica, nell’educazione e persino in rapporto all’ordine pubblico locale.
Tuttavia, va notato che la Costituzione ribadiva a più riprese la priorità della funzione del potere centrale, il che avrebbe vanificato qualsiasi provvedimento autonomo se reputato in conflitto con l’interesse nazionale. La precisazione è tanto più evidente oggi: in seguito alle rivolte in Tibet e Xinjiang, la libertà religiosa e culturale è andata incontro a palesi restrizioni, che se giudicabili in parte anti-costituzionali d’altro canto sono ugualmente legittimate dalla Costituzione, che autorizza la limitazione dei poteri di autonomia in caso di minacce all’unità della nazione cinese (art. 4) e sottopone qualunque provvedimento autonomo all’approvazione del Comitato permanente del Congresso nazionale popolare (art. 116).
La politica comunista degli anni Cinquanta si fondò dunque sui principi di autodeterminazione delle etnie (all’interno dei confini politici cinesi) e di uguaglianza tra i gruppi riconosciuti. Ad essi fu concessa la creazione di unità amministrative (regioni, prefetture e contee) autonome su base etnica e regionale. Ma il preconcetto sulle minoranze permase, partendo dalla loro maggiore arretratezza, e l’atteggiamento degli han, che occupavano i maggiori posti al potere, continuò ad essere patealistico e profondamente evoluzionista, scaturendo così nella discriminazione. Oggi il controllo politico ed economico sono problemi reali in quelle regioni, come Tibet e Xinjiang (si legga l’articolo di Tania Di Muzio), dotate di un’identità etnica maggiormente distinta e storicamente autonome dal potere centrale cinese.
Alle tensioni etniche va aggiunta la questione ideologica. In un Paese multietnico come la Cina, l’impostazione marxista della questione nazionale ha avuto notevoli implicazioni pratiche, creando squilibri nelle relazioni tra i vari gruppi etnici. La definizione della società in rapporti di classe e l’ardore rivoluzionario sottovalutarono le profonde radici dei sistemi sociali nelle zone popolate dalle minoranze etniche, malgrado il più delle volte fossero fondati sulla disuguaglianza politica, economica e sociale. All’epoca della guerra civile, la Lunga marcia aveva attraversato molte delle regioni popolate da minoranze, guadagnandosi alcuni consensi grazie alla professione di ideali ugualitaristici. Ma gli iniziali auspici non furono seguiti da un’effettiva compatibilità, e spesso i processi di collettivizzazione vennero percepiti come una deligittimazione di autorità riconosciute dalla popolazione. La situazione fu ancora più tesa in quelle zone, come il Tibet, ove le istituzioni politiche godevano di uguale riconoscimento in ambito religioso. In questo caso la rivoluzione politica e sociale fu anche profanazione e umiliazione del sacro, suscitando le principali resistenze popolari. L’ascesa del radicalismo e la Rivoluzione culturale non fecero che acuire la cesura: la campagna contro i «quattro vecchi» (si jiu: vecchia cultura, vecchio pensiero, vecchie abitudine, vecchie usanze) fu uno degli aspetti principali dei movimenti di massa nelle aree minoritarie e risultò nella distruzione, in molti casi indelebile delle tradizioni culturali locali. Le guardie rosse furono mobilitate per smantellare le «vecchie idee», la «vecchia cultura», i «vecchi costumi» e le «vecchie tradizioni», il che rappresentò una legittimazione della distruzione di un patrimonio incalcolabile nel nome della Rivoluzione, oltre che degli attacchi fisici ad autorità politiche e religiose locali.

COMMERCIALIZZAZIONE DELLE CULTURE 
All’inizio degli anni Ottanta fu introdotta l’epoca della liberalizzazione e della nuova tolleranza culturale, una fase storica della Rpc in cui ci fu un nuovo riconoscimento del pluralismo, se non politico (in particolare soffocato dopo le repressioni di Tian’an men) almeno culturale. L’idea dello sviluppo economico delle minoranze divenne il principale mezzo di legittimazione della nuova dirigenza. Tuttavia non portò i frutti sperati: la rinascita culturale non determinò la rifioritura di un patrimonio seppellito, in gran parte andato perduto, ma somigliò più a una rielaborazione delle tradizioni culturali alla luce di un mondo globalizzato.
Inoltre, l’apertura al turismo ed agli investimenti nazionali ed inteazionali è scaturita spesso nella «commercializzazione delle culture delle minoranze». Il turismo ad esempio ha fatto sì che in molti monasteri tibetani si siano sviluppati dei centri di vendita di oggetti di ispirazione religiosa prodotti su scala industriale e proposti come autentiche reliquie. Nel 2001 la Contea tibetana di Gyalthang (cinese: Zhongdian), allora popolata da 122.000 abitanti, vinse la concorrenza di altre località per assumere il nome di «Shangri-la». Da allora si è tramutata in un groviglio turistico che, negli obiettivi divulgati dall’Ufficio turistico locale, mira a raggiungere nel 2012 un traffico annuo di 5 milioni di turisti (lo spiega l’articolo di Matteo Miavaldi).
Anche lo sviluppo è rimasto per molti versi un ideale: ad un effettivo miglioramento delle infrastrutture fa da contraltare la questione della marginalizzazione: gli han sono spesso all’origine dei progetti di sviluppo nelle regioni minoritarie risultando, di conseguenza, anche i principali beneficiari in termini di ritorno economico, a scapito delle minoranze che sono rimaste legate ai sistemi tradizionali di sussistenza, subendo i processi di urbanizzazione e sviluppo economico.

Mauro Crocenzi

Mauro Crocenzi




L’ultimo bazar (all’ombra della Mezzaluna)

Lo Xinjiang e gli uiguri

Lo Xinjiang è la regione abitata dagli uiguri, cinesi loro malgrado. L’immigrazione han ha ormai conquistato le città ed occupato tutti i posti chiave, ma la popolazione uigura resiste, forte di una diversità che è fisica e culturale. Oggi la loro ultima frontiera è la religione islamica e soprattutto la lingua, da difendere ad ogni costo. Tra mille difficoltà.

La terra che oggi è la Regione autonoma uigura del Xinjiang, la più grande provincia della Repubblica popolare cinese, copre un sesto del suo territorio. Zona dei floridi commerci di un tempo, che si sviluppavano sulla via della seta dal II secolo, è decaduta quando sono state aperte altre rotte di scambio tra Oriente e Occidente. I suoi confini toccano otto paesi: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir controllato dall’India. È gialla, nella sua parte meridionale, arida e secca laddove il deserto del Taklamakan sottrae all’uomo una parte vastissima di terra, o tra gli spettacolari canyon formatisi agli argini del deserto dalle forme e colori più diversi. Verde al Nord, dove montagne di perenni ghiacciai sfiorano il cielo, laghi dai colori cangianti e fiumi impetuosi hanno la forza di portare via ponti e strade e la rendono fertile per i pastori nomadi che in estate occupano le alte praterie. È in questa zona, a 320 km al nord di Urumqi che si trova il punto della terra più distante dal mare.
Le sue genti sono 13 diverse minoranze, di cui la maggiore è quella uigura. La popolazione cinese han oggi ha raggiunto quasi il numero di quest’ultima, facendosi spazio soprattutto nelle cittadine lungo la via centrale, dove anche le infrastrutture sono maggiormente sviluppate.
A Urumqi, capoluogo e centro economico del Xinjiang, per esempio, proprio via del popolo segna la linea divisoria tra le due etnie cinese e uigura. Sul bazar di Urumqi, negli anni Ottanta, Terzani scriveva: «È un museo dell’umanità: ad eccezione di quella nera, tutte le razze vi sono rappresentate». Quel bazar è stato teatro nel 2009 del tragico attacco degli uiguri ai danni dei cinesi e del contro attacco di quest’ultimi. I conflitti sociali di oggi che dividono le città e le persone hanno radici storiche, politiche ed economiche. Non è nostra intenzione parlarne in questa sede, però si sentono chiari sotto il sole cocente, come sono chiari i pregiudizi che crescono nelle due etnie in uguale misura, rafforzati da una propaganda che al posto dell’armonia crea sentimenti di rifiuto,  contrasto e puro campanilismo. La politica ha certamente un ruolo fondamentale in tutto questo. Non è la cultura a dividere, ma oggi, insieme alla religione, diventa un tema tra i più strumentalizzati nelle analisi e nelle reazioni delle due parti e nessuna delle due sembra più disposta a incontrare l’altra. Se non davanti ad un banco di frutta o di carne.
Si deve procedere per zone meno battute al sud, sulla strada che da Kashgar torna verso Oriente o si ramifica fino al Tibet e ai monti Kunlun, per trovare ancora qualche passaggio originale di una melodia tutta uigura. Questa è la zona dove gli uiguri sono ufficialmente ancora la maggioranza.

UIGURI: CINESI, MA TURCHI

L’origine degli uiguri è fatta risalire ad una tribù altaica dell’Asia centrale. Dal lago Baikal, vennero verso sud, nella parte nord del Xinjiang. In seguito ad un’ivasione kirghiza (840 d.C.) si spinsero più a sud, nel bacino del Tarim, dove incontrarono gli unni, popolazioni turche dell’Asia centrale. Alla caduta degli unni, nell’850 d.C., nacque il Turkestan orientale e con esso il primo regno uiguro1.
Possiamo affermare che questa popolazione fu l’anello centrale degli scambi, prima di tutto commerciali, tra Oriente e Occidente. Data la natura di quella terra poi – al Nord adatta a una vita nomade e al Sud a una vita più stanziale -, gli antenati degli uiguri di oggi furono anche il popolo che meglio si adattò a queste condizioni. Riuscirono a svilupparsi grazie all’abilità di mercanti, ma anche a una elasticità nell’amministrazione che contribuiva a mantenere la pace necessaria al commercio. La loro cultura perciò nasce e cresce in quest’ambiente dove coesistevano allo stesso tempo diverse religioni e diversi popoli, e su questo si basa. Foitori della giada ai cinesi da 3500 anni, hanno goduto del favore della dinastia Tang, che li apprezzava come maestri di musica, e della dinastia mongola Yuan, che permise la diffusione dell’islam. Nel XXI secolo sono per lo più  contadini e pastori nei piccoli villaggi intorno alle oasi. Alcuni sono impiegati negli uffici governativi o nelle aziende in città, con uno stile di vita nuovo. Si dichiarano turchi con onore e si riferiscono alla loro terra con il nome di «Turkistan orientale», nel nostalgico intento di continuare ad affermare la loro identità almeno nella propria lingua.
Nelle campagne greggi di pecore e capre pascolano sotto i pali delle centrali eoliche; qui i mezzi sono molto limitati, l’educazione è scadente e le opportunità sono poche. Un conseguente fenomeno è la migrazione verso le città costiere, dove la manodopera è sempre richiesta. Il governo ne è fautore e sono sempre di più gli uiguri, specie le donne, a spostarsi nella Cina centrale per lavorare, partecipando alla mescolanza di genti che avviene massiccia tra Cina centrale e questi territori occidentali. Me lo raccontano in una città singolare sulla via della seta centrale, Kuqa, che sembra ancora oggi un’oasi nel mantenere intatta la sua parte di case di fango basse e bianche affianco alle costruzioni cinesi. Forse perché tra queste case, in passato (dal 200 al 650 ca.), è vissuta un importante cultura, la Qiuzi, il cui carattere buddista è rimasto nelle grandiose grotte dei mille Budda di Kizil o meglio nelle 180 casse di affreschi portate in Europa dall’archeologo tedesco Van le Coq nel 1906 e nel 1913. In punta dei piedi tra i vicoli di Kuqa, intorno a ciò che è rimasto dell’antico regno, ormai muri di fango logorato da vento e acqua, spiando dalle porte aperte, quando il vento alza le tende, si vedono cortili interni coperti da pergole di viti che assicurano la necessaria ombra nelle ore più calde della giornata. Oltre le tende ci sono la vita familiare e le abitudini degli uiguri: grasse matrone su letti di tappeti osservano con sguardo da sfinge il chiasso dei bambini che giocano intorno. Stanno sdraiate, rotolano sui tappeti, si appoggiano su grandi cuscini ricamati a mano. Offrono ricovero allo straniero che passa, una panchetta di legno e un po’ di ombra, del profumatissimo tè alla menta; lamentano la mancanza di lavoro e le ristrettezze economiche in cui vivono. Le donne stanno a casa, gli uomini, se non specializzati, si arrangiano con lavori di consegne o simili.
Verso sud, dopo varie città dove i caratteri cinesi vanno per la maggiore e dopo Atush, dove risiedono gli uiguri ricchi figli del petrolio, finalmente ecco Kashgar.

PER LA NUOVA KASHGAR «RINGRAZIAMO “IL PARTITO”»

«Di fango son le case, di fango son le strade, le moschee, le tombe. Solo Mao è di granito». Quest’altra affascinante descrizione di Terzani, va rettificata. All’arrivo a Kashgar l’emozione  non può che essere ferita dallo spettacolo triste delle demolizioni e dagli occhi ancora più tristi dei suoi abitanti. Patrimonio culturale dell’umanità, la parte protetta dal biglietto d’ingresso è ciò che ne rimarrà. La città è oggi al centro del nuovo piano di sviluppo economico messo a punto per questa parte di Cina. Squadre di operai cinesi e qualche uiguro si danno da fare, giorno e notte, per ricostruire su quello che è già ridiventato polvere: «Costruiamo la nuova Kashgar», «Ringraziamo il Partito per la sua attenzione al popolo del Xinjiang» sottolineano i cartelli in caratteri cinesi intorno alle macerie. I bambini ci giocano sopra, le donne stanno sedute fuori dagli usci delle case ancora in piedi. La terra secca dei muri abbattuti è tanta che, al passarci sopra, schizza come l’acqua pestata in una pozzanghera.
Per «offrire» case più sicure e antisismiche in tutte le città che visito ci sono lavori in corso, demolizioni e avvisi per chi ci vive di prepararsi al ricollocamento entro i prossimi cinque anni. Nelle stesse città, cercare la moschea vuol dire trovare la zona che, nel tempo, è rimasta più intoccata e con lei panorami che mi riportano nella invisibile Eufemia di Calvino2.
Città nascoste dentro la città si fanno scoprire tra i vicoli bassi e stretti dove giocano bambini o chiacchierano le donne affacciate alle finestre. I bambini uiguri sono curiosi, gentili e affettuosi con lo straniero. Lo prendono per mano per guidarlo nei vicoli o si lanciano in un abbraccio che fa tremare chi non se lo aspetta. I sorrisi che aprono i loro occhi, neri o azzurri, fanno pensare quanto questa gente sia aperta verso l’esterno. Mahermut, un bambino di otto anni, mi indica il nome del nonno tra quelli della lista sul muro in lingua uigura. Ci vivono da anni in quel vicolo e si conoscono tutti. Mi guida in un giro tra racconti della scuola cinese che frequenta e domande su quello che sta lontano dal suo mondo ma vicino alla sua immaginazione. Passeggiamo in un sali e scendi tra profumi di pane appena sfornato, spezie macinate dal medico tradizionale per il tè, sangue del montone appena sacrificato ad Allah e vapori dei cibi comuni che si trovano per strada: pecora che bolle da ore nel pentolone con odori e spezie, il soffritto per il risotto, gli spaghetti gialli di grano che si servono freddi con verdure, aceto e salsa di sesamo.

UN COLLANTE DI NOME ISLAM

La città successiva è quella degli artigiani che continuano il mestiere dei loro padri. Balaustre ombreggiate delle case a due piani di inizio secolo danno sulla strada, e balconate coperte da motivi arabi e colori pastello attirano lo sguardo al cielo. C’è chi forgia il ferro creando zappe, lame, falci, picconi, chi batte sulla lamiera per fae casse di ogni dimensione, o i lavandini per i ristoranti e le brocche da giardino, chi fa piatti, teiere o anfore in rame per la casa, chi con il legno modella pioli per i letti e per le culle, o una scacchiera con re, regine, cavalli e pedoni. Abili mani tessono tappeti, altre lavorano l’oro, materiale di cui la zona è abbastanza foita.
Gli uiguri amano l’oro. Le donne portano sulle mani, pitturate di henna, bellissimi anelli intarsiati, intrecci di ricami quasi barocchi. Per le strade o nei mercati le donne sono una delle cose più belle da osservare, nei loro modi, nei gesti eleganti di mani segnate dal lavoro. Occhi scuri di nero kajal, rendono ancora più affascinante lo sguardo di quelle che mi vengono incontro. Amano curarsi, amano i profumi e portano, specie nel sud, il velo. Chi annodato dietro la testa a mo’ di copricapo, chi sotto il mento, chi lascia solo gli occhi allo sguardo altrui. Ce ne sono anche alcune che preferiscono guardare attraverso la rete del burqa. Tutte mi ricambiano con la stessa curiosità.
La figura della donna nella società uigura è centrale e molto particolare, se inserita in un contesto religioso musulmano: gli uiguri già buddisti, hanno adottato l’islam in una pratica molto meno stretta rispetto ai paesi arabi. Se è la donna a stare a casa, questa ha anche la libertà di uscire, studiare, e può scegliere di non portare il velo, come succede spesso tra le più giovani.
Ancora più a Sud, Hotan la descrivono come uno dei posti più duri per i forestieri, in quanto là gli uiguri sarebbero più chiusi nei dogmi religiosi. Al mio arrivo quasi non ne vedo. La statua di Mao e Kurban Tulun, l’eroe uiguro della rivoluzione cinese, governa piazza dell’Unità. È l’unico monumento in tutta la Cina che vede il vecchio Mao in compagnia. Nelle strade passano i taxi, i camion dei supermercati, quelli che portano macchine nuove o petrolio, passano bus enormi, passano camionette blindate della polizia. Tutte superano un carretto, che ben accostato al marciapiede prosegue lento per la sua strada. Lo trascina un mulo guidato da un vecchio uiguro che indossa un copricapo con ricami verdi, tanto popolare tra questa gente. Osservo e mi chiedo dove sia il suo mondo. Sul carro, donne, bambini, ragazzi uiguri che usano questo come taxi, dalle zone più periferiche. Al ritorno dal bazar della giada di Hotan, dove ogni venerdì e domenica, è mercanteggiata giada verde, bianca, nera, rosa, di fiume o di montagna, seduta sui tappeti ben piegati, per cinque mao (pari a cinque centesimi di euro), vedo le strade passare dal lato opposto: la periferia di case basse, ristoranti e lunghi barbecue per arrostire la carne di pecora venduta a tutti gli angoli, gli uomini che fanno la fila dal barbiere, le donne sulle scale di una moschea che offrono il loro acidissimo yogurt. E ancora foi rialzati per cuocere i tanti tipi di pane, sui quali i panettieri si chinano e con un gesto antico millenni mettono dentro l’impasto a forma di pizza con sesamo e cipolla.
Camminando tra la gente per questa terra, ho l’impressione che sia chiusa: le seconda domanda che rivolgono allo straniero in genere è: «Li conoscete gli uiguri al tuo paese? Ce ne sono?», «Beh… ora un po’ di più», la risposta imbarazzata dalla consapevolezza di quanto in Occidente non sappiamo. Perché degli uiguri se ne sente parlare da poco tempo e solo se ci sono rivolte o attentati. Anche in Cina.

ALLA «GUERRA» della lingua

I fatti dell’11 settembre e l’inserimento del «Partito islamico del Turkestan orientale» nella lista nera dei terroristi stranieri da parte del governo statunitense e delle Nazioni Uniti nel 2002, hanno fornito ai cinesi i presupposti formali per campagne antiterroristiche in queste zone. Ma questa è un’altra storia3.
Gli uiguri sono lontani, da Pechino e dal mondo. Dai loro cortili al mondo, si passa comunque per la Cina. D’altronde sono cinesi. Sono però «i cinesi meno cinesi». Loro malgrado.  Lo dice il Dna. Lo dicono i loro capelli ricci e i nasi di falco. Lo dicono la musica, la passione per il ballo, l’espansività dei gesti, dei modi, i rapporti sociali. Lo dicono le preghiere ripetute durante la giornata, quando per le stradine che circondano le moschee di Kashgar come del più remoto villaggio, da un minareto si diffonde la voce piena e possente del muezzin che li chiama a raccolta. Interrompono tutto, per questa pausa di preghiera. Sono di sicuro tra le minoranze meno sinizzate, probabilmente grazie al mantenimento di una lingua propria che, sostenuta dalla religione, porta con sé una identità molto distinta.
E l’uso di questa lingua nella religione è l’unico fattore che fa credere che la lingua uigura non morirà. Ma è la lingua cinese che permette agli uiguri di Cina di avere opportunità di scambio con l’estero, che non sia Turchia. È tramite il cinese che si studia l’inglese e sono cinesi le aziende che offrono lavori migliori. Ne sono sempre più convinti anche tanti genitori uiguri, come dimostrano ricerche cinesi e non sulle politiche linguistiche e sociali adottate4.
L’uiguro appartiene alle lingue turco-altaiche, di qui le similitudini e la passione uigura per la Turchia. La sua scrittura è basata su un alfabeto molto simile a quello arabo. La Costituzione cinese assicura il diritto per le minoranze di studiare nella propria lingua, e l’articolo 49 della Legge sull’autonomia regionale afferma addirittura che «i quadri di nazionalità han dovrebbero imparare a leggere e scrivere le lingue delle minoranze locali»5.  
La storia e la politica a questo proposito è lunga e vede molti cambi di direzione durante gli anni. Con la rivoluzione culturale il «nuovo» per gli uiguri fu l’uso delle lettere latine al posto di quelle uigure, producendo una generazione di analfabeti. Dopo la reintroduzione dell’uiguro scritto, sono state lanciate le scuole miste, a maggioranza cinese o uigura, poi trasformate in tre tipi di scuole: cinesi, uigure e miste. Nel 2004 sono state introdotte classi sperimentali con la doppia lingua.
Per gli uiguri, per la loro identità tali trasformazioni possono portare a cambiamenti culturali senza via di ritorno. E una lingua scritta e parlata è forse più importante dell’identità stessa, perché permette a questa identità di descriversi e di vivere.
Per il governo cinese invece, l’esistenza di quella cultura ma soprattutto di quella religione, può risultare scomoda sotto molti punti di vista. Il suo obiettivo, secondo i documenti ufficiali, è di avere, entro il 2012, l’85% delle scuole matee bilingue, cioè insegnare il cinese alla maggior parte della popolazione fin dai primi anni. E, temono gli uiguri, questo sarà un altro grande passo sulla  strada che – piano piano – porterà alla scomparsa delle scuole e della lingua uigure. Testimoni riportano recenti campagne di confisca di libri uiguri, bruciati perché «colpevoli» di supportare il sentimento separatista6.
Al momento molti denunciano una situazione in genere caotica, che vede studenti uiguri delle scuole a maggioranza cinese non saper scrivere nella lingua madre usata oltre i recinti scolastici, mentre quelli delle scuole a maggioranza uigura notevolmente svantaggiati quando aprono la loro porta sul mondo esterno. Nelle classi sperimentali bilingue invece, vengono insegnate le materie scientifiche in lingua cinese, mentre quelle letterarie e la lingua in uiguro. È del maggio 2002 la decisione del governo di insegnare la maggioranza dei corsi in cinese, come mi conferma Ohelan, insegnante uigura alla scuola media del villaggio di Dunkuotan, vicino Kuqa che, seguendo le politiche governative insegna in cinese e si rende conto di quanto ciò contribuisce a creare un livello bassissimo di educazione per i bambini. Secondo le statistiche il 98,6% degli insegnanti è uiguro; il restante cinese sembra non avere basi linguistiche uigure adeguate all’insegnamento, specie nelle zone più remote. D’altra parte, gli sforzi del governo mirati a bilanciare questa situazione sono molti e quasi tutti in «favore» delle minoranze: oltre alle ricerche per i libri di testo, ci sono i sussidi per i bimbi uiguri che scelgono una scuola matea con classi bilingue, o lo sconto sui crediti per studenti non han in sede d’esame d’accesso all’università, per i quali sono previsti anche esami in lingua madre.
L’Università del Xinjiang offre il corso di studio in «lingue e culture delle minoranze» in uiguro e kazako, ma Wang Lequan, capo del Pcc in Xinjiang dal 1994 affermava, anni fa, che il lavoro educativo e ideologico sarebbe stato una priorità nella battaglia al separatismo. Lui, che introdusse il cinese nelle scuole primarie e vietò agli uiguri impiegati in uffici governativi di portare la barba o il velo e di osservare il ramadan, è stato sostituito con una nuova classe di politici nell’aprile 20107.
Gli uiguri si dicono fiduciosi nel cambio al governo, fiduciosi di persone che sembrano essere più disposte al dialogo e al rispetto degli spazi di una cultura diversa. Nel frattempo, continuano a vivere secondo la loro musica.

Tania Di Muzio

Tania Di Muzio




Un’identità in bilico

Gli hui, i musulmani cinesi

In Cina, su 55 minoranze ufficialmente riconosciute 10 sono musulmane. Una di queste è costituita dagli hui, che si differenziano dagli han soltanto per la religione.

Quella dell’islam in Cina è una vicenda millenaria, le cui prime testimonianze risalgono all’epoca Tang (618-907 d.C.) quando mercanti arabi e persiani, provenienti dalle rotte marittime indiane, iniziarono a stabilirsi in diversi centri del sud. Molti di loro, pur vivendo in quartieri separati dove gli era permesso conservare le proprie usanze ed un proprio sistema di leggi, presero in moglie donne cinesi, contribuendo non solo alla crescita numerica della comunità musulmana, ma gettando di fatto le basi della loro stessa assimilazione etnica. Oggi, nella Rpc (Repubblica popolare cinese), ben 10 delle 55 minoranze nazionali ufficialmente riconosciute sono musulmane, tra cui la comunità hui risulta essere la più numerosa superando i dieci milioni, quasi la metà del totale. Enclave hui sono presenti praticamente in ogni città e – caso unico tra le varie minzu – la religione risulta essere l’unico carattere distintivo della loro identità. Di fatto, a differenza delle altre minoranze musulmane, gli hui sono prossimi agli han da un punto di vista tanto demografico, quanto culturale. Essi non possiedono infatti una propria lingua, un proprio territorio, e spesso si distinguono dagli han solamente per le pratiche alimentari. Proprio questa dispersione sul territorio può essere una delle ragioni dell’estrema polimorfia di pratiche e credenze islamiche oggi rintracciabili all’interno delle varie comunità hui, tra cui spicca una rilevante presenza sufi nel Nord-Ovest. Tutto ciò è viva testimonianza della profonda eterogeneità della comunità nel suo insieme. La stessa identità hui, peraltro, nasce solamente in un periodo recente, grazie alle politiche etniche della Rpc. Il termine «hui», infatti, è stato per secoli un contenitore piuttosto generale all’interno del quale, in Cina, erano definiti i musulmani senza alcuna distinzione etnica. In questo modo «hui» erano non solamente i musulmani cinesi (o che comunque parlavano mandarino), ma anche i turchi uiguri, le varie popolazioni dell’Asia centrale, i «saraceni», e via dicendo. La politica della Rpc, influenzata dall’esperienza sovietica, avrebbe invece portato ad una divisione tra le varie comunità musulmane cinesi, distinguendole secondo quei criteri storici, etnici e linguistici, che Stalin aveva già utilizzato in Asia centrale1.  A partire dagli anni Cinquanta, inoltre, grazie ad una serie di campagne di identificazione nazionale lanciate dallo stato, questi gruppi di musulmani cinesi avrebbero finito per riconoscersi come «hui», invece di definirsi, semplicemente, «musulmani».
L’identità hui rappresenta oggi, all’interno della RPC, un esempio unico di minoranza nazionale priva di legami linguistici o territoriali, basata esclusivamente sul fattore religioso. Nonostante ciò, grazie alle politiche etniche della Rpc, l’aspetto etnico – di per sé, appunto, inesistente – ha finito per giocare un ruolo più importante rispetto a quello religioso, evidenziando ancora una volta le motivazioni politiche sottese all’opera di catalogazione etnografica portata avanti dal partito. Si potrebbe anche sostenere, infine, che questa stessa operazione abbia portato a compimento il percorso millenario di adattamento alle istituzioni cinesi, che i musulmani hanno dovuto affrontare fin dal loro arrivo in Cina. Non più forestieri in una terra straniera dunque, ma hui: «musulmani cinesi». Un ibrido identitario capace, infine, di creare un forte senso di appartenenza ad una comunità che, parafrasando Benedict Anderson, non potrebbe essere più immaginata2.  Una comunità che è pura invenzione, «manufatto culturale», risultato di politiche etniche ben precise, in grado tuttavia di risvegliare tra i suoi membri un profondo senso di identità. Identità fatta di fratellanza ed orgogliosa rivendicazione culturale, per un popolo che da secoli vive un’esistenza forgiata dalle esigenze di due mondi radicalmente diversi: islam e Cina, Occidente e Oriente.

Alessandro Rippa

(1)  L’approccio staliniano alle politiche etniche, seguito poi anche dalla RPC, prevedeva che una nazione – o nazionalità – potesse essere riconosciuta come tale solo nel caso in cui possedesse le cosiddette «quattro comunanze»: lingua comune, territorio comune, vita economica comune e conformazione psichica comune. Come scrive lo stesso Stalin «solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha una nazione»; Stalin, Opere Complete,Vol. II, Edizioni Rinascita, Roma 1951, p. 336.
(2) Benedict Anderson, Comunità Immaginate (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983), Manifestolibri, Roma 1996.

Alessandro Rippa




«A Sud delle nuvole»

Lo Yunnan, cuore della multiculturalità

Schiacciato tra le montagne tibetane ed i confini con gli stati del sud-est asiatico, lo Yunnan è terra di frontiera, di scambi culturali e commistioni etniche. Pechino vi ha imposto uno sviluppo turistico rapidissimo, con effetti devastanti sulla regione e sulle minoranze.

Se una volta, in aree di confine come questa, occorreva spargere molto sangue (in guerre senza l’obiettivo della pulizia etnica, ma tendenti all’annessione o sottomissione del potere locale), oggi, senza necessità di violenza fisica, la maggioranza etnica han è riuscita ad imporre la propria supremazia non solo numerica, ma anche culturale. A suon di denaro e mattoni. Ce ne accorgiamo appena scesi dall’autobus notturno Kunming – Zhongdian, quando la foschia dell’alba ci accoglie nella contea di Xianggelila, il nuovo nome esotico che il governo cinese ha affibbiato al distretto montuoso sul confine tibetano, adottando e cinesizzando il nome Shangri-La, che James Hilton negli anni Trenta aveva utilizzato nel suo «Orizzonte perduto» per descrivere la mitica e mistica regione montuosa del Kunlun, retta dai lama tibetani.
In realtà, i territori descritti da Hilton corrispondono oggi alla parte settentrionale dell’altopiano tibetano, estesi fino all’attuale provincia del Gansu, ma nel 2001 le autorità di Pechino hanno deciso di dare a Zhongdian e dintorni questo nome a forte carica evocativa mistica, iniziando con l’inganno un processo di modeizzazione ed imposizione del progresso su larga scala.
Zhongdian – chissà com’era dieci anni fa – nel 2010 è una città snaturata: camminando dalla stazione degli autobus al centro storico si rincorrono desolanti costruzioni squadrate ed austere, tipiche dell’espansionismo demografico cinese, hotel a sei o sette piani illuminati come discobar anche in pieno giorno, negozi di chincaglieria assortita, lavori in corso in ogni angolo, centri per la telefonia mobile e negozi di souvenir. Appena varcata la soglia immaginaria che divide la città vecchia dalla periferia, l’inganno assume delle fattezze disneyane.
La città vecchia, completamente ricostruita nel 2004, è un parco a tema plasmato intorno all’ideale tibetano prêt-à-porter: signore agghindate nei vestiti tradizionali gestiscono i negozietti di souvenir, che compongono almeno l’80% dell’intera città vecchia, dove si trova di tutto, dall’oggettistica del sacro ai pupazzetti celebrativi dell’Expo di Shanghai, passando per pashmine tibetane, scarpe tibetane, maglie tibetane, cappelli tibetani, occhiali tibetani, coltelli tibetani, nella perversione che qualsiasi cosa vendano i negozi di Zhongdian, oltre 3.000 m di altezza, debba per forza essere «tibetana». Gli spazi rimanenti, che si snodano tra le vie ciottolate del centro, sono tutti popolati da guesthouse o ristoranti per tasche occidentali o per cinesi dalle tasche occidentali, ricostruiti secondo i presunti canoni architettonici tibetani.

PER MILLE YUAN AL MESE:
Storia di John, il tibetano

In uno di questi alberghi finto-autentici, convinco un giovane cameriere a raccontarmi la sua storia, alternando il suo inglese approssimativo al mio cinese stentato.
Si fa chiamare John, ha 20 anni ed è di etnia tibetana. Proviene da un villaggio lontano da Zhongdian, e come molti coetanei ha deciso di spostarsi in città per tentare la fortuna. Dopo una serie di lavori come manovale, riesce a farsi assumere in un hotel fuori dalla città vecchia – lussuosi e costosi, come piacciono ai turisti cinesi – dove ricopre una quantità indefinita di mansioni. Il suo ruolo è il tuttofare, la paga è buona, oltre 1.000 yuan al mese. John vuole imparare l’inglese, che considera il lasciapassare per una vita migliore. Vuole essere «open to the world» (aperto al mondo, ndr), lo ripete spesso durante la nostra chiacchierata. Il giovane tibetano racconta che, dopo aver messo da parte i soldi necessari, si è licenziato dal lavoro ed è partito per Canton, una meta per nulla casuale. A Canton infatti si tengono dei corsi d’inglese full immersion di una settimana chiamati «Crazy English», delle lezioni comuni a gruppi di centinaia di giovani cinesi tenute dal celeberrimo Li Yang, il guru dell’apprendimento dell’inglese in Cina. Tariffa giornaliera 1.000 yuan, che per una settimana fanno 7.000 yuan, ovvero sette mesi di lavoro pieni, senza contare le spese per la sopravvivenza ed il trasporto. Dopo l’esperienza cantonese, John ha fatto ritorno a Zhongdian ed ha trovato lo stesso lavoro di prima, ma in una guesthouse della città vecchia, a 800 yuan al mese.
Nonostante abbia dilapidato presumibilmente un anno di lavoro per una settimana di english full immersion, il risultato è stato oggettivamente abbastanza deludente: John si è ritrovato di nuovo impantanato nel mercato dei lavoretti stagionali, gli unici ai quali hanno accesso le fasce della minoranza etnica tibetana di Zhongdian e dintorni.
Come mi confida un gentilissimo cameriere tibetano la sera seguente, il grosso del business lo muovono imprenditori non autoctoni. Dal 2004, tutte le vecchie case tradizionali del centro sono state comprate da uomini d’affari provenienti dal sud dello Yunnan, dallo Zhejiang e dal Guandong. Dopo averle ristrutturate, portato la corrente elettrica in pianta stabile – nonostante i numerosissimi black out – ed il collegamento ad Inteet, gli affaristi han hanno affidato a persone di fiducia la gestione delle loro nuove proprietà, escludendo di fatto la popolazione locale, relegata ai banchi del mercato coperto o all’artigianato. Molti di loro si reinventano guide turistiche, ripetendo sistematicamente il nuovo mantra «Do you need a car?» (Ha bisogno di un’auto?, ndr) non appena intravedono un turista occidentale.
Solo la sera, nella piazza principale della città vecchia, i tibetani della zona si riuniscono a ballare sulle note delle musiche tradizionali, diffuse da potenti amplificatori posizionati sul perimetro dello spiazzo: di fronte a turisti occidentali e cinesi entusiasti, la popolazione locale mantiene vivi, apparentemente in modo naturale, i brandelli della propria cultura inevitabilmente destinata all’estinzione, di fronte al progresso veicolato dalle infrastrutture per le telecomunicazioni ed il turismo sponsorizzate dal governo centrale di Pechino. La strada a due corsie che collega Zhongdian a Deqin, località più remota della provincia di Shangri-La, apre infatti un flusso turistico interno tanto inedito quanto devastante, fatto di lussuosi hotel a quattro stelle e souvenir a buon mercato; un fenomeno che trae dall’esperienza di Lijiang la propria ispirazione.

IL DESTINO DEI NAXI

Lijiang, a metà strada tra Zhongdian e la capitale della provincia Kunming, nel 1997 è stata iscritta nel registro dei patrimoni mondiali dell’Unesco: con alle spalle una storia di oltre 800 anni, è stata la capitale di un regno indipendente, inglobato alla fine del XIII secolo dall’Impero cinese sotto la dinastia Yuan, popolato dalla minoranza etnica dei naxi. Perfettamente conservata, la città vecchia di Lijiang è un giorniello architettonico che ha mantenuto pressoché immutati i caratteri distintivi dell’antico borgo cinese: strade di ciottoli, tetti di pietra decorati, canali e lantee hanno valso a Lijiang il titolo di patrimonio dell’umanità, un riconoscimento che automaticamente ha messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Dal 1997, il governo ha preso il controllo della zona, premendo l’acceleratore sullo sviluppo turistico che, con la sua assenza, aveva preservato la bellezza del luogo. Pur mantenendo in alcune parti dei tratti di autentica pace, dove la sera si passeggia sentendo l’eco dei propri passi, oggi la città vecchia di Lijiang è in larga parte un contenitore per turisti, una tappa dei pacchetti vacanze «Lo Yunnan in una settimana». La città vive in uno stato di sovreccitazione perenne, scandito dagli orari di apertura e chiusura di ostelli, hotel, negozi di souvenir e ristoranti. La minoranza etnica dei naxi, tradizionalmente matrilineare, come nel caso di Zhongdian, si è ritagliata la sopravvivenza grazie all’artigianato locale, abitando prevalentemente i villaggi circostanti. A testimonianza vivente di resistenza perpetua, le anziane donne naxi vestono ancora gli abiti tradizionali, caratterizzati dalle vesti a manica larga colorate di un blu acceso, abbinate al coprispalla di pelle di pecora; il dongba, la lingua dei naxi, secondo l’ultimo censimento cinese del 2000 è parlato da 310.000 persone, 110.000 delle quali non conoscono nessun altro idioma, mentre il sistema di scrittura a pittogrammi sta lottando contro l’estinzione grazie ai programmi specifici di insegnamento scolastico, promossi lodevolmente dal governo locale fin dal 1996.
Il destino dei naxi e della loro cultura, seppur meglio preservati rispetto alla minoranza tibetana di Shangri-La, si scontra con le conseguenze del miracolo economico cinese. Un miracolo che ha creato una classe media con un potere d’acquisto tale da nutrire un turismo interno dalle conseguenze devastanti: turisti cinesi arrivano letteralmente a migliaia da tutta la Repubblica popolare, in un adattamento contemporaneo dell’esercito imperiale. A cavallo di pullman con condizionatore interno, armati di carta di credito e macchine fotografiche, l’orda han si riversa euforicamente e rumorosamente nei luoghi diventati simbolo della grandezza della Cina nel mondo, portando con sé gli strumenti del benessere e dello svago tipici delle grandi metropoli: i karaoke, i fast food occidentali, i centri commerciali, i negozi di moda.

I MOSUO, DOVE IL MATRIMONIO È (era)  BANDITO

Fino agli anni Ottanta, il lago Lugu, al confine tra Yunnan e Sichuan, si poteva raggiungere solo dopo una settimana di cammino. Negli anni Novanta fu costruita la prima strada e furono portati elettricità, scuole e beni di consumo. Oggi, considerando solo Lijiang, una decina di autobus al giorno percorrono le strade tortuose e mozzafiato strappate ai clivi delle montagne, raggiungendo il lago in sei ore di tragitto (salvo il rischio frane, particolarmente alto nella stagione piovosa estiva).
Al riparo dalla Storia, felicemente isolati dal resto del mondo, i mosuo (47.000 secondo l’ultimo censimento nazionale del 2000) hanno abitato i dintorni del lago Lugu tramandando una società basata sulla sussistenza e sul sistema matrilineare. Le donne si occupavano della gestione del denaro, delle cerimonie religiose – i mosuo praticano il buddismo tibetano, la religione tibetana tradizionale del Bon e lo sciamanesimo – e dell’allevamento degli animali; ignorando completamente il concetto del matrimonio, nella società mosuo le donne vivono da sole, ospitando di notte in notte i loro amanti, che devono tassativamente fare ritorno nella propria casa matea prima che faccia giorno. I figli nati da questi walking marriages sono riconosciuti solo dalla madre, che passa loro il cognome, e cresciuti dalla famiglia matea. Il padre, quando sia possibile determinae l’identità, è tenuto a prendersi cura del figlio solamente per la durata della relazione con la madre, slegata da vincoli contrattuali.
Con la Rivoluzione culturale però le cose dovettero cambiare: disprezzando il sistema sociale mosuo, definendoli come «animali», i comunisti imposero il rito del matrimonio. Quando la frenesia delle Guardie rosse venne sedata, i mosuo in massa decisero di divorziare legalmente e tornare alle loro usanze.
Oggi, il lago Lugu è diventato una sorta di parco naturale protetto, con biglietto d’entrata di 75 yuan. Grazie alla strada impervia ed alla carenza di alberghi di lusso, le sponde del lago godono ancora di una pace quasi irreale; ma gli scheletri di cemento a dieci piani che spuntano qua e là lungo la strada costiera, in aggiunta alla costruzione già avviata di un aeroporto ad hoc nella provincia del Sichuan, lasciano presagire un futuro sulla scia della «commercializzazione etnica» di Shangri-La e Lijiang. I superstiti mosuo stanno progressivamente abbandonando le loro abitazioni tradizionali in riva al lago, spingendosi nell’entroterra montagnoso dove ancora sono in grado di mantenere in vita le loro tradizioni, ricreando un microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio lontano dagli effetti collaterali dell’apertura al mondo. La tradizione dei walking marriages, declinata ad amore libero, ha alimentato il turismo sessuale interno: spacciandosi per mosuo, molte donne si sono stabilite nella zona in veri e propri distretti a luci rosse, mascherando la prostituzione come esercizio per il mantenimento della tradizione.

I COSTI DEL «PROGRESSO»

Senza dubbio, l’espansione economica cinese degli ultimi anni ha progressivamente arricchito molti strati del tessuto sociale, specie la classe media, migliorando le condizioni di vita su larga scala e proiettando il grande paese asiatico verso il gruppo dei paesi sviluppati. Gli evidenti progressi portati dal capitalismo, in Cina come nel mondo occidentale a suo tempo, non si sono fermati davanti all’ambiente o davanti alle peculiarità etniche e culturali a rischio sopravvivenza. Solo di recente, una maggiore consapevolezza ambientalista e multiculturale sta iniziando a penetrare nel sentito comune cinese, ed il governo si sta timidamente affacciando a politiche di salvaguardia delle diversità – come l’iniziativa per l’insegnamento del dongba a Lijiang – e di «sviluppo sostenibile».
Ma i nuovi benestanti cinesi, equiparabili agli yuppies della «Milano da bere», vogliono tutto e lo vogliono subito: la comodità, il lusso, le vacanze ed il consumo non sono più beni accessori fruibili da una stretta minoranza elitaria, ma sono lì a portata di portafogli, santificati dalla nuova Cina ricca e capitalista.
In mezzo a queste tempeste epocali, la fragilità delle minoranze etniche può preservarsi solo se difesa dal potere decisionale cinese. Il governo deve tracciare un limite oltre il quale, rinunciando a profitti immediati, la locomotiva economica cinese non deve avventurarsi: solo in questo modo l’inestimabile varietà etnica e culturale che la Cina vanta potrà sopravvivere, evitando al popolo cinese rimpianti fuori tempo massimo.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi




Luoghi santi visti dall’«alto»

Presentazione Dossier

«Il dato principale di questo sinodo – afferma il segretario generale mons. Nikola Eterovic – è il fatto che il sinodo ci sia stato. Non era scontato!». A lanciare l’idea di convocare un sinodo sulla situazione delle minoranze cristiane mediorientali fu l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, nel gennaio 2009, durante la visita ad limina dei vescovi dell’Iraq. Il Papa rispose subito che era una buona idea: durante il pellegrinaggio in Terra Santa (8-15 maggio 2009) accolse la petizione firmata da vescovi e patriarchi e il 19 settembre 2009 indisse ufficialmente l’assise sinodale, annunciandone anche il tema: La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4.32).
L’iter preparatorio si svolse in tempo da record. Formato subito il consiglio presinodale (7 patriarchi, 2 presidenti di conferenze episcopali, 4 capi di dicasteri vaticani), in tre incontri di due giorni ciascuno fu redatto il testo dei Lineamenta e le relative domande. Fu pubblicato l’8 dicembre 2009 in 4 lingue (arabo, francese, inglese e italiano) e inviato alle chiese in Oriente e nella diaspora; furono raccolte le risposte nell’aprile 2010 e integrate nell’Instrumentum laboris, testo base per la discussione sinodale, reso pubblico dal Papa nel corso della sua visita apostolica a Cipro nel mese di giugno 2010.
Tempo-record anche nell’esecuzione. La più breve assemblea mai celebrata finora: solo 14 giorni, dal 10 al 24 ottobre 2010, a differenza dei precedenti durati almeno tre settimane.
Inoltre, nei sinodi tenuti nel passato, su temi riguardanti la chiesa universale o uno specifico continente, la maggioranza dei vescovi appartenevano alla chiesa occidentale e la presenza degli orientali era definita «minoranza qualificata». Quello attuale riguarda, per la prima volta, questa «minoranza», disseminata in un territorio che possiamo definire «transcontinentale», che abbraccia 16 paesi, dall’Egitto all’Iran, ma soprattutto riunisce, oltre alla chiesa latina, altre 6 chiese cattoliche, ciascuna con un patriarca o vescovo leader, i cui fedeli sono presenti nei paesi mediorientali solo in parte: buona parte i essi vivono nella diaspora in Europa, nelle Americhe e in Australia.

Un sinodo ben diverso da quelli continentali del passato anche per le cifre. I partecipanti a questa assise sono stati circa 330: 173 padri sinodali, di cui 159 ex officio e 17 di nomina pontificia, 36 esperti e 34 uditori, 13 «delegati fratei» di altre confessioni cristiane, numerosi assistenti, traduttori e personale tecnico impegnati nei servizi richiesti dallo svolgimento del sinodo.
Vi sono state 14 congregazioni generali, con 125 interventi di padri sinodali di 5 minuti ciascuno, più 5 consegnati per iscritto e oltre 100 interventi liberi. Sono stati ascoltati anche 12 delegati fratei, un rappresentante ebreo e due musulmani, un sunnita e uno sciita. Più articolati sono stati gli interventi nei cosiddetti «circoli minori», gruppi di lavoro divisi nelle quattro lingue ufficiali del sinodo: arabo, inglese, francese, italiano.
A parte i numeri, l’importanza dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente vanta altri primati. La maggioranza dei partecipanti erano di cultura e lingua araba e lo hanno dimostrato nei loro interventi in aula (primo ed unico sinodo dove l’arabo è stato, insieme al francese, la lingua franca dei vescovi), come nelle pause e momenti liberi, conversazioni e discussioni fuori dell’aula sinodale. Tutto questo ha ricordato che «l’arabo è una lingua cristiana e che “arabo” non si identifica con musulmano» afferma l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir.
Inoltre questo è stato il primo sinodo realmente «ecumenico», perché ha coinvolto i leader delle principali comunità ecclesiali attive nell’area mediorientale e perché i problemi trattati e le decisioni prese non interessavano solo i cattolici, ma riguardavano anche le sorti delle Chiese ortodosse. Anzi, questo Sinodo, forse più degli altri, è stato importante per la Chiesa universale.

I cristiani del Medio Oriente sono una minoranza esigua nel grande oceano dell’islamismo. I cattolici sono una minoranza della minoranza. Per questo forse sono poco conosciuti o addirittura dimenticati. Eppure non è azzardato affermare che il Medio Oriente è una sorta di «concentrato» dei problemi della Chiesa universale. Già nei documenti preparatori, Lineamenta e Instrumentum laboris, sono messe sul tappeto questioni ecclesiologiche (giurisdizione tra patriarcati, Chiese e riti diversi), interreligiose (i rapporti con le fedi abramitiche) e socio-politiche (diritti delle minoranze e conflitti).
Nell’attuale situazione di globalizzazione, molti degli interrogativi e delle sfide delle chiese mediorientali sono comuni anche all’Occidente: come dialogare con il mondo islamico? Come superare l’integralismo religioso? Come sconfiggere il terrorismo? Come frenare l’emorragia dell’emigrazione? Come costruire pace e sicurezza per i popoli afflitti da endemiche tensioni e conflitti? Le risposte che i padri sinodali suggeriscono servono non solo alle popolazioni del Medio Oriente, ma vanno a vantaggio anche del mondo occidentale.
Portando alla ribalta la pluralità di cultura e tradizioni dei cristiani del Medio Oriente, la loro resistenza nella fede in una storia millenaria segnata da ostilità e persecuzioni, il sinodo offre alla Chiesa universale un esempio su cui specchiarsi. Al tempo stesso l’assemblea sinodale ha usato ogni mezzo per renderla consapevole della vita, difficoltà e sofferenze, ma pure della vocazione unica e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, al fine di promuovere una maggiore solidarietà con questi fedeli e le rispettive Chiese.

Cosa sarebbe un Medio Oriente senza cristiani? Non è una domanda retorica: la fuga dei cristiani dai paesi di origine continua e sembra inarrestabile di fronte al crescere della situazione d’instabilità generale e del clima d’insicurezza che regnano ormai da vari anni nell’area. L’allarme è risuonato spesso nell’aula sinodale: la culla del cristianesimo rischia di rimanere senza cristiani. Tale perdita non danneggerebbe solo le regioni interessate, ma impoverirebbe tutta la Chiesa, privandola della memoria e del vero senso della fede, delle radici e del destino finale della vita cristiana.
Dall’Egitto, terra di Mosè, alla Turchia, terra delle prime comunità cristiane, si estende una regione a cui dobbiamo guardare con fede, afferma il papa nell’omelia di apertura del sinodo: «Dio la vede da una prospettiva diversa, si direbbe “dall’alto”: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, è vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo. E noi pure, come credenti, guardiamo al Medio Oriente con questo sguardo, nella prospettiva della storia della salvezza… Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la “culla” di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta».
I luoghi santi non costituiscono una preoccupazione tra le tante, ma una priorità per la Chiesa cattolica e per i cristiani. Essi non solo racchiudono la culla della nostra fede, ma contengono il simbolo del nostro destino e dell’intera umanità. «Chiedete pace per Gerusalemme, perché tutti là siamo nati» (cfr Sal 87). «Sion, altura stupenda, gloria di tutta la terra» (Sal 48,3), è «il monte santo», «la casa di tutti i popoli», luogo in cui sono convocati «insieme tutti i popoli e nazioni» (cfr Is 25,6; 43,9; 56,7). Tale convocazione conserva intatto tutto il suo fascino: l’intera umanità guarda a quella città santa, avvertendo di avere con essa profondi legami. Per un misterioso disegno divino, quando ci sarà «pace nelle sue mura», ci sarà pace per tutti i popoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Viva la differenza!

Diversità, divisioni e ritorni all’Unità

«Il Medio Oriente ha visto sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, nonostante vicende spesso difficili e tormentate, la continuità della presenza dei cristiani. In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari delle 6 venerande Chiese orientali cattoliche sui iuris, come pure nella Tradizione latina» (Benedetto XVI, Omelia di apertura del Sinodo).

arlando di «Chiesa cattolica», noi occidentali pensiamo al singolare, alla comunità dei credenti sparsi in tutto il mondo. I cristiani mediorientali, invece, pensano al plurale, alle differenti «chiese cattoliche» che riconoscono il primato ministeriale del papa di Roma, ma hanno caratteristiche dottrinali, liturgiche e giuridiche proprie. Vengono dette anche «Chiese particolari» o «Chiese sui juris», cioè con diritto proprio, tecnicamente espresso nel Codice dei canoni delle chiese orientali.
Le Chiese sui juris sono 23, in maggioranza appartenenti ai Paesi dell’Europa centro-orientale; quelle orientali coinvolte direttamente nel Sinodo sono sei: chiesa greco-melchita, chiesa siriaca, chiesa maronita, chiesa caldea, chiesa copta, chiesa armena. Per ragioni storiche in Medio Oriente si è strutturata anche una presenza della chiesa occidentale latina. Queste chiese spesso si definiscono e si distinguono in base al «rito»: termine che non indica semplicemente azioni e gesti sacramentali, ma tutto un patrimonio teologico, liturgico, spirituale, disciplinare, culturale, artistico e storico, con cui ogni Chiesa esprime la propria fede (vedi riquadro).
Tale ricchezza e molteplicità è incomprensibile se non si tiene presente l’evoluzione storica, con cui esse si sono distinte nel corso del primo millennio cristiano dalle Chiese greca e latina.
Al principio la diversità
La diversità è iniziata al momento della nascita, il giorno di Pentecoste. Fra i tremila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua: parti, medi, elamìti, abitanti della Mesopotamia, Giudea, Cappadòcia, Ponto, Asia, Frìgia, Panfìlia, Egitto, Libia, romani, cretesi e arabi (cfr At 2,8-11).
Dalla città santa apostoli e discepoli di Cristo portarono la Buona Notizia ai popoli delle regioni affacciate sul Mediterraneo, dall’Egitto, evangelizzato da san Marco, alla Persia e ad altri popoli oltre i confini orientali dell’Impero romano per opera dell’apostolo Tommaso. Non per nulla le chiese del Medio Oriente sono orgogliose di essere chiese apostoliche.
La predicazione degli apostoli diede origine a comunità composte da cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo, ma distinte nella pluralità di modi d’intenderla e di esprimerla. La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la crescita e organizzazione delle comunità cristiane attorno ai vescovi, successori degli apostoli, e nelle città più importanti in campo politico e culturale. 
Mentre in Occidente c’era solo Roma, come città di profonda cultura, in Oriente, ben prima del cristianesimo, c’erano centri importantissimi come Alessandria, Edessa, Gerusalemme, Antiochia. Alle più importanti Chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità, cinque in particolare, chiamate patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), che si affermarono come centri di espansione missionaria e punti di riferimento attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di là dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
E così, mentre in Occidente unificazione e uniformità erano un fatto scontato, in Oriente si svilupparono sei varietà di tradizioni liturgiche, culturali, spirituali, disciplinari e teologiche. Dogmaticamente c’era unità, teologicamente c’era una grande ricchezza e varietà di posizioni. Nell’esegesi e interpretazione della Bibbia, per esempio, fecero scuola due grandi correnti: quella di Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del II secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.
unità strappata
Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e l’unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie.
I decreti dei primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano), furono accettati da tutte le chiese. Non così quelli dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). A Efeso fu condannato il nestorianesimo, dottrina che sosteneva l’immutabilità di Dio e l’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, rifiutando a Maria l’appellativo di «Madre di Dio» (Theotókos), attribuendole semplicemente il titolo di Christotókos, genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Questo concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu stabilito che in Cristo esistono due nature dopo l’incarnazione in una sola persona, condannando così la dottrina di Eutiche, che affermava in Cristo la sola natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena. In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
La chiesa bizantina rimase in comunione con la chiesa di Roma (o latina) fino al 1054, quando, dopo un progressivo e reciproco estraniamento, per motivi più politici che teologici, si consumò il grande scisma d’Oriente tra le chiese di Bisanzio e di Roma, trascinando nella rottura anche le chiese dell’Europa orientale, dando origine a una ventina di Chiese ortodosse autocefale e indipendenti.
Ritoo all’ovile
Per ricucire gli strappi furono organizzati vari concili ecumenici, con risultati non sempre incoraggianti. In alcuni casi, il fatto che alle radici delle scissioni ci fossero ragioni politiche e culturali più che dogmatiche ha favorito il ritorno spontaneo alla comunione con Roma di alcuni settori delle chiese orientali. In molti paesi dell’Oriente, poi, l’invio di missionari riuscì a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma. Nacquero così le «chiese cattoliche orientali», dette in passato anche chiese «Uniate», termine non più in uso per il suo senso dispregiativo in ambito ortodosso.
Nelle chiese ortodosse, infatti, la presenza di missionari cattolici fu sentita come fumo negli occhi, la loro attività come proselitismo e i cristiani tornati alla comunione con Roma furono oggetto di disprezzo e talora anche di persecuzione. E le polemiche non sono ancora finite.
In ambito cattolico non mancarono le diffidenze nei riguardi dell’opera di riunificazione e i tentativi di latinizzare le nuove comunità, intendendo la restaurazione della comunione ecclesiale come ritorno all’«ovile» di Pietro. Di fatto i cattolici orientali rimasero sotto la giurisdizione della congregazione de Propaganda fide fino al 1917, quando fu resa autonoma la Congregazione per le Chiese Orientali.
Con il decreto Orientalium Ecclesiarum, il Concilio Vaticano II riconosce ufficialmente l’uguaglianza delle Chiese cattoliche orientali con quella latina, le invita a riscoprire le loro autentiche tradizioni e afferma la loro speciale vocazione nel promuovere le relazioni ecumeniche con gli Ortodossi. La loro vita ecclesiastica è regolata in base al Codice di canoni delle Chiese orientali, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1990 ed entrato in vigore il 1° ottobre dell’anno seguente. Secondo il nuovo Codice esse sono suddivise in quattro categorie: Chiese patriarcali (Caldea, Armena, Copta, Siriaca, Maronita, Melchita), Arcivescovili maggiori (Ucraina, Romena, Siromalabarese, Siromalankarese), Metropolitane sui juris (Etiopica, Ruteniana americana, Slovacca), Chiese sui juris (Albanese, Bielorussa, Bulgara, Croata, Greca, Italo-albanese, Macedone, Ungherese, Russa).
Pericoloso contarsi
La regione che nell’uso comune viene indicata con l’espressione Medio Oriente abbraccia ben 16 paesi, che vanno dall’Egitto all’Iran, passando per Israele e Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Cipro, Turchia, Siria, Iraq e Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar, Yemen) e copre una superficie di oltre 7 milioni di kmq, con una popolazione di circa 370 milioni di abitanti, in grande maggioranza musulmani; in questo oceano islamico il numero dei cristiani delle differenti confessioni (ortodossa, cattolica, protestante) oscilla tra i 13 e i 16 milioni. Si tratta quindi di una minoranza, 3-4% circa dell’intera popolazione mediorientale, distribuita in maniera molto dissimile da paese a paese, da un meno 1% in Iran al circa 40% in Libano.
I cattolici del Medio Oriente coinvolti nel Sinodo contano circa 4-5 milioni di fedeli: una minoranza nella minoranza. Essi appartengono a sette chiese di tradizione o rito differenti: i sei Patriarcati orientali, a cui si aggiunge, per ragioni storiche, il patriarcato di Gerusalemme dei latini, di tradizione e rito latino (vedi riquadro).
Per varie ragioni, il numero dei cristiani mediorientali (cattolici compresi) è soggetto a variabilità e indeterminazione. Nei censimenti ufficiali di diversi stati (Libano, Siria, Iraq), non viene rilevata l’appartenenza religiosa e le stime ufficiose proposte sono spesso adattate e manipolate per mostrare rapporti di maggioranza o minoranza rilevanti nella vita sociale e politica del paese. In società fortemente tribali come nel Medio Oriente, il clan o la comunità vale e conta in proporzione del numero dei suoi membri. Per questo in Libano, per esempio, da molti decenni non si tiene un censimento, per paura che la disparità demografica tra i vari gruppi religiosi possa compromettere l’equilibrio sociale e politico sempre in bilico. Istruttivo è pure il caso dell’Egitto: secondo il governo, i cristiani copti sarebbero 6 milioni, mentre la Chiesa copta ne conta 12 milioni.
Ma anche i dati foiti dalle stesse chiese locali non sono sempre affidabili, sia per mancanza di censimenti scientifici, sia perché vengono gonfiati per motivi apologetici o per richiedere diritti e privilegi, sia perché vengono ridotti al minimo per evitare di assumere oneri e responsabilità.
La varietà e indeterminatezza statistiche sono dovute anche all’emigrazione (o fuga) dei cristiani, ortodossi e cattolici, dalle zone di presenza storica in Medio Oriente, specie dai paesi in preda a guerre, violenze e intolleranze religiose, in cui si paventa la loro totale scomparsa.
Il fenomeno non è nuovo: nella prima metà del secolo scorso, lo sterminio degli armeni e poi la cacciata dei greci dalla Turchia, ad esempio, furono di proporzioni colossali. Oggi, però, esso sta aumentando, fino a produrre un esito inatteso: molte diocesi create nella diaspora dagli emigranti dal Medio Oriente sono più ricche e popolose delle chiese madri. I cristiani armeni, ad esempio, sono da decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine, mentre i maroniti libanesi hanno diocesi di emigrati negli Stati Uniti, Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. Le «statistiche» ufficiose calcolano che 12 milioni di cristiani, di diverse confessioni, risiedono nei territori patriarcali, mentre più di 7 milioni sono nella diaspora.
una chiesa pellegrina
Negli ultimi decenni un fenomeno nuovo sembra tamponare l’emorragia: flussi migratori stanno vacendo lievitare la presenza cristiana proprio in quelle regioni che fino a oggi appaiono le più impermeabili al cristianesimo, come i paesi del Golfo.
Il boom petrolifero, la costruzione di infrastrutture, gli investimenti in edilizia hanno richiamato in Arabia Saudita e nel resto della penisola arabica oltre 13 milioni di lavoratori migranti, provenienti dall’estremo oriente (indiani, filippini, singalesi, vietnamiti…), dall’Africa (etiopi, sudanesi…), dal Sud America, nonché dai vicini Libano, Siria, Iraq, Palestina. Il fenomeno è in continuo aumento.
Tra questi migranti, circa tre milioni sono cattolici. In Arabia Saudita, su una popolazione di 28,5 milioni di abitanti (8 milioni di immigrati) i cattolici sarebbero quasi due milioni. Negli Emirati Arabi dove gli immigrati superano ormai la popolazione locale (sei milioni), i cristiani sarebbero un milione, metà dei quali cattolici. Analoghe proporzioni si riscontrano in Barhein, Oman, Qatar, Kuwait.
È vero che non si tratta di autoctoni convertiti, ma di semplici lavoratori che puntano a guadagnare abbastanza per poi ritornare nei paesi di origine, di comunità instabili per natura, di una «chiesa pellegrina», come si esprimono i padri sinodali, ma non per questo priva di semi di speranze, capaci di modificare gli scenari religiosi del futuro, nonostante le difficoltà e le limitazioni con cui si scontra la pratica della fede delle comunità cristiane e cattoliche.
Il paese più repressivo è ancora l’Arabia Saudita, teocratica e influenzata dal wahabismo; gli altri paesi del Golfo sembrano lasciare maggiori spazi alla libertà religiosa; negli Emirati sono sorte alcune parrocchie; nel Qatar è stata costruita una chiesa capace di accogliere fino a 5 mila fedeli.
nuova pentecoste
Un nuovo e significativo fenomeno interessa il cristianesimo del Medio Oriente: la chiesa giudeo-cristiana, scomparsa dopo i primi secoli, sta rinascendo oggi in Israele, grazie soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. I cristiani di lingua ebraica non sono molti, ma è già un segno incoraggiante (vedi riquadro).
I padri sinodali hanno parlato di «nuova Pentecoste», non solo per lo Spirito Santo che li ha animati, ma anche per la varietà di lingue, popoli e culture che sono la ricchezza dell’unica Chiesa di Cristo. I popoli menzionati in quell’evento profetico ci sono tutti… e di più: cristiani autoctoni di antica origine, risalenti ai primi secoli del cristianesimo (ebrei, arabi o arabofoni, turchi, iraniani, greci…), e cristiani delle ultime generazioni di tutti i continenti, di ogni colore e razza.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Vocazione e privilegio

Sfide, attese, speranze

Due documenti finali, il Messaggio al popolo di Dio e le 44 Proposizioni, contengono i temi cruciali dibattuti al Sinodo: rinnovamento, comunione, ecumenismo, dialogo interreligioso, migrazione, pace… insieme alle attese e alle speranze di fronte alle sfide intee ed estee alle Chiese del Medio Oriente.

Eredi di civiltà prestigiose, fiere del proprio passato anche precristiano, le Chiese mediorientali costituiscono una grande ricchezza per la loro varietà. Ognuna ha mantenuto la propria identità, nonostante difficoltà e persecuzioni subite in due millenni di storia, che le ha viste ridursi progressivamente a esigue minoranze, sperdute nell’oceano islamico. Preoccupate di conservare la propria identità culturale e cultuale, si sono chiuse a riccio, impoverendosi spiritualmente, scivolando nel confessionalismo, nazionalismo o divisioni intee e diventando socialmente irrilevanti.
Con il frazionamento politico del Medio Oriente seguito alle due guerre mondiali e la nascita di nuovi stati nazionali segnati da nuovi confini, i cristiani si sono ritrovati ancora più dislocati, isolati, profughi, e spesso usati come capri espiatori per le sconfitte delle popolazioni islamiche, perché accomunati ai cristiani occidentali. La situazione attuale è più drammatica che mai: tensioni, violenze e guerre insanguinano vari paesi del Medio Oriente. Ma proprio la drammaticità del momento è uno stimolo a una maggiore coesione e comunione. Le varie chiese hanno sempre più capito che la loro forza e la loro sopravvivenza sta nell’unità.
rinnovamento e Identità missionaria
«Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale» scrivono i vescovi nel loro Messaggio al popolo di Dio, a conclusione del Sinodo per il Medio Oriente. Priorità sottolineata già dai documenti preparatori del Sinodo, per «confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità mediante la Parola di Dio e i sacramenti» (Instrumentum laboris 3).
«I nostri fedeli hanno grande sete della Parola di Dio e non trovandola da noi, vanno spesso a dissetarsi altrove… Abbiamo bisogno che la Parola di Dio sia il fondamento di qualsiasi educazione e formazione nelle nostre famiglie, chiese, scuole, soprattutto nella nostra condizione di minoranze in società a maggioranza non cristiana»; così la prima relazione degli interventi sinodali letta dal card. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti.
«Abbiamo testi datati secoli che non riescono più a parlare all’uomo di oggi – spiega mons. Louis Sako -. I nostri riti devono aiutare a pregare e non essere degli show. I fedeli vogliono capire e la pastorale deve essere modulata per i giovani, per i bambini, gli adulti, con linguaggi adeguati».
Catechesi e liturgia, formazione del clero e di operatori pastorali, cura della famiglia e preparazione matrimoniale, educazione dei bambini e attenzione ai giovani, promozione della donna e sua valorizzazione nella chiesa e nella società… sono temi risuonato spesso nell’aula sinodale e poi confluiti nei paragrafi delle Proposizioni e del Messaggio al popolo di Dio. 
Tale rinnovamento passa attraverso la riscoperta della propria identità missionaria. «In Oriente è nata la prima comunità cristiana; di là partirono gli apostoli per evangelizzare il mondo intero, là i primi martiri hanno irrorato di sangue la Chiesa nascente… dalle nostre Chiese partirono… i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo. Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future» (Messaggio 2).
COMUNIONE E TESTIMONIANZA
Per riaccendere la tensione missionaria e testimoniare ai fedeli delle altre religioni i valori evangelici occorre essere «un cuor solo e un’anima sola». «Oggi siamo di fronte a numerose sfide. La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese. Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita. Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione… La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri Paesi e dal pluralismo religioso» (Messaggio 3.1-2) e non si può affrontare da soli.
«Siamo sulla stessa strada – affermano i vescovi rivolgendosi alle chiese sorelle, ortodosse ed evangeliche locali -. Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso. Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo. Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre chiese» (Messaggio 7).
«In Oriente, saremo cristiani uniti o non saremo affatto», scrivevano i patriarchi in una lettera pastorale del 1991. Come dire: se si vive, si vive insieme; se si muore, si muore insieme. La comunione nella carità tra le Chiese è l’asse attorno a cui possono essere abbordate tutte le altre questioni e da cui dipendono la soluzione dei problemi e delle sfide, senza affatto minimizzarle.
Dialogo interreligioso
Nel presentare esigenze e proposte pastorali, i padri sinodali non hanno potuto evitare valutazioni di stampo politico, ricordando la complessa situazione sociale e denunciando senza sconti le condizioni di violenze e ingiustizie in cui vivono i cristiani. Hanno condannato l’occupazione israeliana nei Territori palestinesi, sottolineando al tempo stesso la «sofferenza e insicurezza in cui vivono i cittadini d’Israele»; hanno stigmatizzato qualsiasi estremismo o terrorismo, antisemitismo e antigiudaismo; hanno invitato a distinguere tra religione e politica e a non strumentalizzare il discorso religioso, tanto meno a usare la Bibbia per scopi politici (chiara allusione a chi, in Israele, si serve di suggestioni scritturistiche per giustificare nuovi insediamenti nella West Bank); hanno richiamato al rispetto della sovranità del Libano, fino a definire apertamente «guerra assassina» quella in Iraq, che ha causato «sofferenze cruente» per il popolo iracheno e uccisioni, espulsioni, dispersione dei cristiani.
Al di là di queste e altre denunce, i padri sinodali hanno ribadito l’impegno del dialogo con ebrei e musulmani come unica via percorribile per raggiungere una soluzione credibile ai conflitti in corso nel Medio Oriente. Le Proposizioni 40-42 in modo particolare dettano le linee del dialogo. Cristiani e interlocutori sono invitati «alla purificazione della memoria, al perdono reciproco del passato e alla ricerca di un avvenire comune migliore»; a cercare «nella vita di ogni giorno l’accettazione mutua malgrado le differenze» e ad operare «per edificare una società nuova, dove il pluralismo religioso è rispettato e dove il fanatismo e l’estremismo saranno esclusi».
«Le iniziative di dialogo e di cooperazione con gli ebrei sono da incoraggiarsi per approfondire i valori umani e religiosi, la libertà, la giustizia, la pace e la frateità. La lettura dell’Antico Testamento e l’approfondimento delle tradizioni del giudaismo aiutano a conoscere meglio la religione ebraica». Il richiamo alla lettura dell’Antico Testamento non è una pia esortazione, ma un chiaro monito per ricordare, a quei cristiani che rifiutano di leggerlo perché si parla di Israele, che le radici ebraiche sono fondamentali per la fede cristiana.
Riportando le parole del papa pronunciate a Colonia nel 2005, si ribadisce che «il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani… è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro avvenire… I cristiani del Medio Oriente sono chiamati a continuare il fecondo dialogo di vita con i musulmani» (42). Scuole, cliniche, ospedali e altre opere sociali e umanitarie, di cui usufruiscono in maggioranza i musulmani, sono la testimonianza più concreta del «dialogo della vita»; ma non è facile, come afferma il patriarca Naguib nella Relazione pronunciata il primo giorno del Sinodo: «A partire dagli anni ‘70 constatiamo l’avanzata dell’islam politico, che comprende diverse correnti religiose. Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo; vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza; costituisce dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste».
libertà di coscienza
«Nel Medio Oriente i cristiani condividono con i musulmani la stessa vita e lo stesso destino. Edificano insieme la società. È importante promuovere la nozione di cittadinanza, la dignità della persona umana, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri e la libertà religiosa comprensiva della libertà di culto e della libertà di coscienza» (42). Queste espressioni sono la sintesi delle riflessioni tenute in aula sui concetti di «laicità positiva» e «piena cittadinanza», due locuzioni per spiegare la distinzione tra il religioso e il politico, evitando il termine «laicità», parola sconosciuta in arabo fino all’800, tradotta con ‘almaniyyah (secolarizzazione), concetto che per i musulmani equivale ad ateismo.
I musulmani dicono che l’islam è tollerante. Per secoli cristiani ed ebrei sono stati «tollerati» e «protetti» (dhimmi) nell’impero musulmano: protezione pagata con tasse, sottomissione, discriminazione come cittadini di serie B. I cristiani oggi non chiedono di essere tollerati o ben trattati, ma di essere riconosciuti come cittadini, con gli stessi diritti, punto e basta!
Base di tutti i diritti è la libertà religiosa totale: i padri sinodali chiedono agli stati mediorientali non solo la libertà di culto, ma reclamano anche la libertà di coscienza, cioè il diritto uguale per tutti di cambiare religione e il diritto di testimoniare e proclamare apertamente la propria fede.
L’annuncio del vangelo è un obbligo per i cristiani, come per i musulmani annunciare l’islam. Ma in quasi tutti i paesi, anche in quelli che si definiscono «laici» (come Turchia e Tunisia) lo stato mette a disposizione tutti i mezzi la propaganda islamica, mentre ai cristiani è proibito proclamare apertamente la propria fede, col rischio di essere accusati di fare proselitismo. Chi si converte al cristianesimo rischia il rifiuto della società e perfino l’uccisione. In tutti i paesi arabi, eccetto il Libano, il convertito non ha pace.
Di fronte a questa situazione, alcuni padri sinodali hanno rimarcato l’aspetto intollerante e di chiusura dell’islam, citando i versetti coranici del caso. Anzi, padre Raymond Moussalli, vicario generale di Babilonia dei Caldei in Giordania, ha denunciato l’esistenza di «una deliberata campagna per cacciare i cristiani. Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq, ma in tutto il Medio Oriente».
La maggioranza dei vescovi, tuttavia, ha insistito sull’esistenza di un islam tollerante e moderato e di molti musulmani desiderosi di vivere in pace con i cristiani.
Due leader musulmani moderati sono stati invitati a parlare all’assemblea sinodale, lo shiita ayatollah Mohaghegh Ahmadabadi e l’imam sunnita Al-Sammak. Sono stati ascoltati con attenzione, convenendo che teologi del genere devono essere aiutati per influire sulla base dei loro credenti. Qualcuno non ha nascosto il proprio scetticismo: «Se riuscissero a convincere i loro seguaci che i cristiani non sono kaffir, “infedeli”, sarebbe già un grosso risultato, un inizio, un primo segnale di cambiamento». «Ogni giorno i cristiani si sentono dire dagli altoparlanti, televisione, giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda serie» aggiunge mons. Thomas Meram, vescovo caldeo di Urmia, in Iran.
Privilegio scomodo
Guerre, estremismi, persecuzioni, povertà… sono le principali cause della fuga dei cristiani dal Medio Oriente: il rischio di uno spopolamento di cristiani si prospetta più reale che ipotetico, se la situazione non cambierà radicalmente. Tale fuga non è solo una perdita per la Chiesa universale, ma anche un impoverimento, anzi «una catastrofe per l’islam di tutto il mondo» afferma Muhammad al-Sammak, consigliere politico del Mufti della Repubblica del Libano, invitato a parlare ai padri sinodali (vedi riquadro). Sono soprattutto cristiani laureati e professionisti a lasciare il propio paese perché, come capita nei territori palestinesi, non vedono un futuro per realizzare le loro qualità professionali.
Per consolidare la presenza dei cristiani in Medio Oriente, i padri sinodali esortano le loro Chiese a creare «un ufficio o una commissione per lo studio del fenomeno migratorio e le sue motivazioni per trovare i mezzi di contrastarlo» e a promuovere «progetti di sviluppo per limitare il fenomeno migratorio» (10). Soprattutto i cristiani sono scongiurati affinché non vendano le loro proprietà: «Visto che l’attaccamento alla terra natale è un elemento essenziale dell’identità di persone e popoli e uno spazio di libertà, esortiamo i nostri fedeli e comunità ecclesiali a non cedere alla tentazione di vendere le loro proprietà immobiliari. Per aiutare i cristiani a conservare le loro terre o acquisie di nuove, in situazioni economiche difficili, proponiamo ad esempio la creazione di progetti che si facciano carico di farle fruttificare per permettere ai proprietari di restare dignitosamente nei loro paesi. Questo sforzo deve accompagnarsi a una profonda riflessione sul senso della presenza e vocazione cristiana nel Medio Oriente» (6).
Vocazione e missione sottolineate anche dal Santo Padre nell’omelia di apertura del Sinodo: «I cristiani sono chiamati a ravvivare la coscienza di essere pietre vive della Chiesa in Medio Oriente, presso i Luoghi santi della nostra salvezza»; una vocazione da «vivere con gioia», considerata lungo i secoli «un grande privilegio». Una vocazione scomoda; bisogna vederla «dall’alto», come esorta il papa, dalla prospettiva di Dio che guida la storia: restare in questa regione non è una fatalità, ma fa parte del piano divino; è una missione d’amore: far scoprire alle popolazioni locali la bellezza del vangelo di Cristo, messaggio straordinario per salvare la vita dell’essere umano e liberarlo da ogni paura. Non è questione di proselitismo, ma un fatto di giustizia: anche i musulmani hanno diritto a conoscere il vangelo, come i cristiani hanno diritto a conoscere il Corano.
Essere cristiani oggi nei paesi del Medio Oriente richiede grande fede e molto coraggio. I padri sinodali lo ricordano senza illusioni: «Pur denunciando come ogni uomo la persecuzione e la violenza, il cristiano ricorda che essere cristiano comporta la condivisione della Croce di Cristo. Il discepolo non è più del Maestro (cf. Mt 10, 24). Il cristiano si ricorda la beatitudine dei perseguitati a causa della giustizia che avranno in eredità il Regno (cf. Mt 5,10)» (5).
APPELLO INTERNAZIONALE
«La persecuzione tuttavia deve destare la coscienza dei cristiani nel mondo a una più grande solidarietà – continua la Proposizione 5 -. Essa deve suscitare parimenti l’impegno a reclamare e a sostenere il diritto internazionale e il rispetto di tutte le persone e di tutti i popoli. Occorrerà attirare l’attenzione del mondo intero sulla situazione drammatica di certe comunità cristiane nel Medio Oriente, le quali soffrono ogni tipo di difficoltà, giungendo talvolta fino al martirio».
A nome dei loro fedeli e di tutti i cittadini mediorientali, i padri sinodali hanno concluso il Messaggio al popolo di Dio con un appello alla «comunità internazionale, in particolare l’Onu, perché lavori sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’occupazione dei differenti territori arabi. Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo stato d’Israele potrà godere pace e sicurezza all’interno delle frontiere inteazionalmente riconosciute. La città santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana… L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali. Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche».
Il Messaggio riconferma la condanna contro ogni forma di «violenza e terrorismo, qualsiasi estremismo religioso, ogni forma di razzismo, antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia». In seno all’Onu c’è un giusto allarme per l’aumento dell’islamofobia, è ora che ci si preoccupi anche della crescente cristianofobia.

Benedetto Bellesi

     PER SAPERNE DI PIU’

• Cattolici di rito orientale e Chiesa latina in Medio Oriente, Pier Giorgio Gianazza, EDB 2010.
• Breve storia  delle chiese cattoliche orientali, in Medio Oriente, Alberto Elli, ETS, Milano 2010
• Cristiani a Gerusalemme, duemila anni di coraggio, Lawrence M.F. Sudbury, EMI 2010.
• Dalla terra dei due fiumi Iraq-Iran, cristiani tra l’integralismo e la guerra, Francesco Strazzari, EDB 2010.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Popoli e chiese dell’Oriente cristiano, a cura di Aldo Ferrari, Edizioni Lvoro 2008.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Gerusalemme città della speranza, Leslaw Daniel Chrupcala, Edizioni Terra Santa 2009.

Benedetto Bellesi




«Attento uomo bianco, la Terra si ribellerà»

L’epopea degli U’wa

In questo mese si è svolto – a Cancun, in Messico – un nuovo vertice sul clima. Risuonano di nuovo gli allarmi – ipersfruttamento, insostenibilità -, ma nessuno si muove con atti concreti. Paesi ricchi e paesi in via di sviluppo non sembrano rendersi conto della situazione. La consapevolezza pare maggiore in popolazioni marginali, come quelle indigene. Come gli u’wa della Colombia.
A 10 anni da un nostro dossier, Missioni Consolata torna ad occuparsi di questo popolo: poche migliaia di individui la cui sopravvivenza è – simbioticamente – legata alla Terra. Storia di una piccola grande lotta dall’alto valore simbolico.

In molti luoghi della Terra sono evidenti i disastri connessi al «cambio climatico» ed il messaggio è chiaro: il Pianeta non regge più. Fino ad oggi in cima alla piramide è stata seduta Sua maestà il petrolio, reggente di un sistema economico mondiale, che si trascina dietro una scia di sangue, distruzione ambientale e militarismo. La Colombia ne è un esempio lampante.
Nonostante questo, invece di «cambiare il sistema, non il clima» (secondo lo slogan dei movimenti civili per il Forum di Cancun), si continua ad alimentare il pericoloso e perverso meccanismo attuale.
L’imbarazzante mancanza di volontà da parte delle potenze economiche di fronte all’aggravarsi del problema climatico si evidenzia nei fallimenti plateali dei grandi Vertici sul clima: il Cop 15 di Copenhagen, finito a scazzottate fuori e dentro i palazzi di vetro; il vertice di Cancun – Cop 16 (29 novembre- 10 dicembre 2010) – verso cui le zero aspettative sono più delle auspicate «zero emissioni». Tuttavia, mentre gli indici ambientali e di povertà mostrano l’insostenibilità del modello di sviluppo tuttora imperante, dalla martoriata Colombia ci arrivano insegnamenti ed esempi da imitare.
QUELLE STORIE CHE FANNO LA STORIA
Dieci anni fa si parlò molto – lo fece anche un dossier di Missioni Consolata – di un pugno di indigeni colombiani che a costo di suicidarsi collettivamente, aveva cercato di bloccare le trivellazioni petrolifere nel loro territorio.
Erano il popolo u’wa: 6.000 individui per 17 comunità, distribuite in un lembo di terra al confine col Venezuela, fra la Cordillera Orientale delle Ande ed Arauca.
Il territorio è per questi indigeni come un organismo vivente. Perforarlo è come violare il corpo della propria madre, un attentato alla sopravvivenza loro e del loro universo.
Minacciando di uccidersi tutti – e sostenuti da una campagna mediatica internazionale – erano riusciti a fermare, almeno momentaneamente, la costruzione di altri pozzi, dando uno schiaffo all’impresa petrolifera, la statunitense Occidental Petroleum Inc, ed una lezione al governo colombiano, restio ad applicare la Costituzione del ’91, che legiferava sui diritti delle popolazioni indigene e sulla salvaguardia dei loro territori ancestrali.
Gli u’wa avevano dimostrato per la prima volta che si poteva mettere in discussione un sistema. Con la loro battaglia estrema, avevano infiammato, dieci anni fa, il nostro immaginario.
Sono storie che fanno la Storia. Gesti che diventano simbolo, voce, coraggio. Ma disegnano anche soluzioni possibili.
Il lato «epico» di questa vicenda ha un’altra faccia più complessa e a tratti torbida, fatta di annunci, smentite, menzogne, e che ha tirato in ballo – in una lotta impari – avvocati, giuristi, ministeri, fino alla «Commissione interamericana dei Diritti umani», che già nel lontano ‘97 dava ragione agli u’wa. Una faccia che ha indiscutibilmente segnato un’epoca e che ha cambiato le prospettive delle popolazioni indigene latinoamericane, che pure continuano a versare in condizioni drammatiche. Una storia emblematica quella degli u’wa, perché dice basta ad un sistema irrazionale ed inumano che, assassinando le popolazioni originarie, distrugge la nostra memoria e, con essa, la nostra speranza.

IL DILEMMA DEL RAPPORTO UOMO-NATURA
Gli indigeni u’wa, la «gente che sa pensare», come decine di popolazioni originarie colombiane, hanno rischiato di sparire dalla faccia della Terra molte volte: prima per i conquistadores spagnoli; poi, per la evangelizzazione forzata che – negli anni ’50 – strappava i bambini alle famiglie indigene, e li obbligava alla rinuncia del proprio patrimonio culturale, condannandoli ad una vita spuria «né da indigeno, né da bianco»; infine, con l’arrivo delle multinazionali del petrolio, che in meno di vent’anni – fra gli anni Sessanta ed Ottanta – si sono appropriate dell’83% delle terre indigene colombiane. 
«Oxy no, u’wa sì!» era il motto delle manifestazioni della campagna internazionale «las culturas con principios no tienen precio» (le culture con principi non hanno prezzo) che dalla Colombia aveva raggiunto Stati Uniti, Canada, Europa, fino all’Italia. Negli anni, tale campagna è stata minimizzata in tutti i modi dagli organi governativi colombiani. Ma, come era stato in Bolivia con la guerra dell’acqua di Cochabamba nell’aprile del 2000, la lotta degli u’wa contro la Occidental Petroleum Inc. metteva apertamente in discussione un modello fino ad allora indiscutibile. Aveva creato piccole crepe da cui però era riuscita finalmente a filtrare una luce: quella di un’alternativa, di un nuovo mondo possibile.
Il caso del popolo u’wa, ben prima che a livello internazionale si parlasse di cambio climatico, aveva imposto agli occhi di chi vuole vedere il dilemma del rapporto uomo-natura: da una parte uno Stato violento, disposto a spazzare via un popolo pacifico per qualche mese in più di rifoimento petrolifero agli Stati Uniti; dall’altra, gli u’wa, che si immolavano, pur di salvare il loro territorio ancestrale.
Berito Kuwaria, sciamano u’wa premiato più volte per aver capeggiato la battaglia del suo popolo, continua a ripetere ovunque i suoi piedi scalzi e i suoi occhi ridenti lo riescano a portare: «Attento riowa: la Terra sta soffrendo e si ribellerà. La Madrecita (la piccola madre, ndr) inizierà a  sanguinare».
Sono passati dieci anni e gli u’wa –  dopo un ragionato silenzio – sono tornati a parlare: nuovi megaprogetti (si legga alle pagine 38-39) minacciano l’integrità loro e del loro territorio ancestrale. La campagna «le culture con principi non hanno prezzo» è stata riattivata, perché loro sono Kajkrasaq Ruyina, i «guardiani della Terra».
IL «SANGUE DELLA TERRA»
È il 28 aprile del 1995 quando il giornale colombiano El Nuevo Siglo titola: «Cinquemila indigeni minacciano di suicidarsi», e completa la notizia con la storia della rocca «del orgullo tunebo» o «de los Muertos». Si racconta che durante la colonizzazione spagnola, los tunebos – altro nome degli u’wa – si fossero buttati a migliaia da un precipizio, pur di non finire nelle mani dei conquistadores. Compresi i bambini piccoli, messi in recipienti di ceramica e gettati dall’alto, ed ovviamente il cacique, il capo del popolo, che ultimo a buttarsi, coronò una montagna di cadaveri tanto grande da cambiare anche il corso del fiume sottostante.
Che il Nuevo Siglo, giornale a tiratura nazionale, sia arrivato a parlare del popolo u’wa e dell’atto estremo che minacciava, vuole dire che il testa a testa fra indigeni, industrie del petrolio e governo colombiano è giunto ad un nodo cruciale.
La storia era iniziata nel ’92 quando la multinazionale Occidental Petroleum Inc. – conosciuta come Oxy – ottiene di affondare i denti nel territorio indigeno u’wa. La compagnia statunitense con sede a San Francisco da quasi dieci anni gode assieme alla British Petroleum della grande ricchezza petrolifera dei territori intatti della Colombia. A est del territorio u’wa, la Oxy dall’85 succhia oro nero dal grande bacino chiamato Caño Limon. Dagli u’wa arriva assieme alla anglo-olandese Shell: con quote azionarie del 37.5%, entrambe entrano in Ecopetrol, società pubblica appartenente al governo colombiano. La prospettiva è l’estrazione di un miliardo e mezzo di barili di petrolio. Il luogo individuato è il «Bloque Samoré».  Gli u’wa insorgono disperati: il petrolio è per loro «ruiria», sangue della terra, estrarlo sarebbe come sgozzare una creatura e condannarla ad una morte atroce: «Tagliereste mai la vena del collo a vostra madre?», chiedevano increduli i werkajà, i saggi del popolo che vivono ritirati nella foresta.  Samorè è poi un luogo adibito ai rituali.
Il governo colombiano convoca la prevista consulta previa, così come da articolo 330 della Costituzione: «Le popolazioni indigene hanno diritto a partecipare nelle decisioni di sfruttamento delle risorse naturali nei loro territori». Di fatto, è un escamotage utilizzato per raggirare gli indigeni, ed estorcere loro accordi.
Il 10 gennaio del ’95 una delegazione composta da rappresentanti del governo colombiano (la direttrice generale dell’assessorato agli affari indigeni, alcuni assessori e membri del ministero dell’ambiente e di quello dell’energia) e della Occidental Petroleum Corporation, incontra ufficialmente una delegazione u’wa.

UOMINI ANALFABETI E VESTITI DI STRACCI
L’incontro, secondo gli atti riportati anche dalla antropologa Margarita Serje, si svolge ad Arauca.
Ci piace immaginare la scena. Un manipolo di funzionari, eleganti e visibilmente accaldati sotto il sole cocente delle pianure, arrivano con le loro Jeep presso gli uffici municipali. Li attendono 44 indigeni, vestiti di stracci ma con il portamento fiero e le corone degli incontri importanti sulla testa. Tra loro i «werjayas», le massime autorità tradizionali, appoggiati ai loro bastoni. Stanno tutti in silenzio.
La consulta previa si svolge come previsto. C’è il presidente della Occidental Petroleum, Guimer Domínguez, che dice:  «Troveremo velocemente il modo di uscire da questa situazione». La sua impresa ha sedi in Colombia, Russia e Pakistan.
Si sbaglia: analfabeti ma tutt’altro che sprovveduti, i 44 rappresentanti aborigeni  rifiutano di firmare qualsiasi accordo. Non si fidano delle parole dell’uomo bianco: quasi sempre menzognere. Fra il ‘93 ed il ’94, la Oxy si era preoccupata – vista la rigida Costituzione colombiana – di organizzare 33 incontri «previ», ma con singole persone u’wa. Con spregio delle autorità tradizionali religiose e dell’apparato politico con cui sono organizzate le comunità.
Gli u’wa, consci delle possibilità infime di poter vincere un simile confronto, passano all’azione. Con molta dignità, minacciano il suicidio: «Fino a che un ultimo u’wa vivrà, combatterà per la salvezza della Madre Terra», dicono. Avvocati amici, attivisti si schierarono apertamente al loro fianco. Parte una campagna internazionale che agglomera rabbia e speranza di tanti. Assieme, inizia la causa per frode che vede gli u’wa contro la Oxy. E succede il miracolo: la Corte costituzionale colombiana dà ragione agli u’wa. Che si appellano alla «Commissione interamericana per i Diritti umani». Inizia un balletto di carte, sentenze, ammissioni e ritrattazioni. Le multinazionali lasciano il Blocco Samorè. Ma non è finita.

ELICOTTERI, LACRIMOGENI,
CINGOLI DI METALLO E SCARPONI MILITARI
Nel 2000 il Dipartimento di stato statunitense stanzia 1,6 milioni di dollari per armare le forze dell’ordine, che addestreranno quelle colombiane. La mattina del 19 gennaio, il governo colombiano entra con l’esercito nel territorio u’wa. Qualche giorno dopo, sferra l’attacco: 5.000 soldati sono mandati a fronteggiare 5.000 indigeni seminudi e disarmati, mentre la Occidental avanza con le sue ruspe verso il Gibraltar 1, un pozzo fatto scavare a poche centinaia di metri dai confini del territorio u’wa. È un macello. Una bambina di quattro mesi muore asfissiata dai gas lacrimogeni, 3 ragazzini annegano nel Rio Cubucòn mentre fuggono da un attacco stile Apocalyps Now, con elicotteri e lacrimogeni. Undici guahibos, indigeni giunti in appoggio alla causa degli u’wa, spariscono nel nulla, così come una neonata, strappata dalle mani della giovane madre mentre viene arrestata. L’esercito circonda i villaggi e sequestra i werjayà portandoli via con gli elicotteri: «O fate passare i macchinari per le trivellazioni, o non rivedrete più i vostri sacerdoti». Il cordone umano di uomini e donne – soprattutto donne – che si era formato per bloccare la strada alle trivelle, deve aprirsi. Cala il silenzio. Solo il suono della Natura mortificata sotto i cingoli di metallo e gli scarponi militari.
Le donne non piangono. Fissano i soldati negli occhi. Una di quelle donne è Daris Maria Cristancho.

Francesca Caprini

Francesca Caprini




«Minacciati, criminalizzati, censurati»

Danilo Rueda (Commissione giustizia e pace)

Nella spirale della guerra: popolazioni native, campesinos, sindacalisti, organizzazioni dei diritti umani.

«In Colombia è sempre grave la situazione dei diritti umani. In questo panorama, la Comisión de Justicia y Paz lavora da anni per la verità, la giustizia, la ricostruzione e la memoria. Accompagnando comunità rurali in varie zone della Colombia, permette la difesa  della vita, dei diritti umani e dell’ambiente, attraverso la creazione di zone umanitarie e per la biodiversità, assieme alle comunità locali. Secondo una fonte, contro i membri della Commissione Giustizia e Pace è in atto un piano di attacco su due fronti: uno giudiziario e mediatico ed un altro persecutorio, con la complicità di agenti dello stato. Coloro che traggono vantaggio dalla violenza paramilitare per ottenere i noti benefici provenienti dal commercio della palma, dall’allevamento intensivo e dalla coltivazione dei banani, si occupano anche di screditare il lavoro di coloro che difendono i diritti delle comunità, sfollate e danneggiate proprio da queste stesse imprese. Ancora una volta, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani è vittima di un attacco. Questa situazione in Colombia non è eccezionale. Coloro che vorrebbero continuare ad agire nella totale impunità si vedono “minacciati” dal lavoro delle organizzazioni della società civile. Per questo, sempre di più, i difensori dei diritti umani e dell’ambiente sono minacciati, criminalizzati o censurati, per ostacolare il loro lavoro».
Questo è parte di un comunicato del settembre scorso, che denunciava apertamente le minacce subite da membri della Commissione Interecclesiastica Justicia y Paz (CIJYP).  Da più di dieci anni questa associazione si occupa dell’accompagnamento delle comunità indigene e contadine «desplazadas», nei territori dai quali sono state allontanate con la violenza dalle organizzazioni paramilitari.
Come molte associazioni per i diritti umani in Colombia, Justicia y Paz vive in uno stato di assedio. In media, in Colombia viene ucciso un attivista al mese. Amnesty Inteacional calcola che ogni anno circa 1.500  civili rimangano uccisi nel conflitto armato che insanguina il Paese da oltre mezzo secolo. Quasi 200 sono le vittime di sparizioni forzate, soprattutto nel sud del Paese, particolarmente colpito a causa dei combattimenti in corso tra le forze di sicurezza, paramilitari e i gruppi della guerriglia. Gli sfollati a causa del conflitto hanno dovuto affrontare condizioni di profonda e radicata discriminazione ed emarginazione, che hanno reso ancor più difficile per loro accedere a servizi di base come sanità e istruzione. I gruppi della guerriglia e paramilitari reclutano forzatamente bambini. Anche le forze di sicurezza utilizzano bambini come informatori, contravvenendo alla Direttiva del 2007 emessa dal ministero della Difesa che proibiva l’impiego di bambini per scopi di intelligence. Ogni anno, altre 300 persone sono vittime di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza. I paramilitari al soldo delle imprese straniere che operano in Colombia per petrolio, agrocombustibili, attività di estrazione mineraria, commercio di banane e di zucchero, e naturalmente per il narcotraffico, continuano a uccidere civili e a commettere altre violazioni dei diritti umani, a volte con il supporto o l’acquiescenza delle forze di sicurezza. Si calcolano fra i 400 ed i 500 morti ammazzati ogni anno per mano loro.
Nel 2009, oltre 180 uccisioni di civili sono state attribuite ai gruppi della guerriglia. Almeno 46 sindacalisti sono stati uccisi nel corso dell’anno passato, 20.000 le sparizioni forzate ed un numero di sfollati in costante crescita (oltre 4 milioni): solo nell’anno scorso,  i nuovi sfollati sono stati oltre 286.000. Tra i maggiormente colpiti sono risultati i popoli nativi, gli afro-americani e i campesinos (contadini).  Il governo si è rifiutato di appoggiare un progetto di legge sulle vittime del conflitto, che avrebbe garantito loro dei risarcimenti.
In particolare, sono le popolazioni indigene – ridotte a meno del 2% della popolazione colombiana – a soffrire delle violenze e dell’impunità di chi le compie. Nel corso della sua visita in Colombia, il Relatore speciale delle Nazioni Unite ha descritto la situazione dei diritti umani che le popolazioni native si trovavano ad affrontare in Colombia come «un grave, critico e profondo motivo di preoccupazione».
Durante l’anno sono stati uccisi 114 tra uomini, donne e bambini nativi. E sono solo i dati ufficiali.
Questo è il desolante scenario in cui i difensori dei diritti umani devono operare. Ma, a sentire loro, ne vale la pena. Come racconta Danilo Rueda, che lavora per la Comisión de Justicia y Paz.

«L’accompagnamento ai desplazados, gli sfollati a causa della guerra, che noi operiamo, è diretto e permanente e si realizza attraverso un gruppo di lavoro che garantisce la propria presenza nella zona di conflitto: noi viviamo e condividiamo la vita con le comunità che assistiamo. Questo ha permesso ai componenti della Commissione una conoscenza profonda delle realtà di ogni comunità, delle famiglie che la compongono e delle necessità di ognuna di loro. E quindi anche di denunciare e visibilizzare le violazioni dei diritti umani perpetrati in queste zone al fine di creare uno scudo, umano e mediatico, in difesa delle comunità. Lavoriamo per il miglioramento del benessere comunitario attraverso la sicurezza alimentare, la costruzione di infrastrutture comunitarie e familiari, l’appoggio psicosociale, la difesa del territorio: per questo costruiamo abitazioni e scuole, acquedotti comunitari, sistemi igienico sanitari, orti comunitari per il recupero e la valorizzazione delle sementi autoctone. Inoltre sono stati avviati processi comunitari di protezione ambientale, conservazione del territorio, della cultura e della memoria».
Danilo Rueda non sta passando un periodo facile. Qualche tempo fa era in moto ad un semaforo. È stato raggiunto ed affiancato da una serie di motociclisti che semplicemente gli hanno detto: «Smetti di occuparti di quello che stai seguendo. O sei morto». Era vicino a casa sua. Ha preso moglie e i due figli e ha cambiato, di nuovo, abitazione.
«Non ti ci abitui mai. La paura è tanta. Ma è il nostro lavoro – racconta Danilo -. Ma quando poi un solo uomo, una sola donna, un solo bambino che noi proteggiamo, ti dimostra che hanno capito cos’è la dignità, sai che ne vale la pena».  
Gli chiediamo di raccontarci della Colombia con il nuovo presidente, Manuel Santos: «Gli ultimi 8 anni sono stati una sintesi del modello di repressione colombiano. La militarizzazione della maggior parte dei territori attraverso il programma di “sicurezza democratica” portato avanti dall’ex presidente Uribe, ha provocato la frammentazione delle popolazioni e ha abusato della cornoptazione dei falsi testimoni. Difatti, la commissione JyP si sta esponendo molto proprio perché sta riuscendo a documentare con elementi probatori e giuridici le violazioni ai diritti umani delle multinazionali. Nelle carceri ci sono 8.500 persone detenute illegalmente. Con Santos pare esserci più dialogo, ma di fatto la linea politica segue nel solco del predecessore e la pressione militare continua: assistiamo ad una implementazione del paramilitarismo – in particolare nel Chocò – e ad una sua istituzionalizzazione per un maggiore controllo sociale e militare dei territori. Aumenta la violenza sociopolitica, col pretesto della lotta alla guerriglia. In verità, è tutto in nome della sicurezza per gli investitori stranieri, mentre il 20% dei colombiani sono poveri, 8 milioni sono in condizione di miseria, l’accesso all’acqua potabile è un lusso».

La politica economica dell’Unione Europea, l’accettazione del TLC (Trattato di libero Commercio), quanto incide nella situazione dei diritti umani colombiani e sulla difesa delle zone di biodiversità?
«La crisi energetica dell’Europa ha oggi un motto: “consumiamo verde”. Che in Colombia si trasforma in “produciamo verde”, nel senso della coltivazione di biodiesel ed agrocombustibili come l’olio di palma. Questo significa sfollamenti forzati, confisca delle terre alle popolazioni originarie, paramilitarismo. Oltre che la distruzione di aree d’interesse forestale e di biodiversità».

Quali sono le vostre vittorie?
«Le zone umanitarie funzionano (zone che JyP fa riconoscere e struttura perché siano prive di militarizzazione, ndr), e stiamo riuscendo a fare ottenere la consulta previa a molte comunità indigene.
E la gente ha voglia di lottare, non molla. Due milioni di contadini stanno affrontando un processo per ottenere la restituzione delle loro terre. Su quello abbiamo meno speranza: la politica estrattivista delle società minerarie, sostenuta dal governo, non guarda in faccia nessuno».

Che chiedete e che sperate?
«Per noi non può esserci soluzione militare al conflitto colombiano. E noi non perdiamo la speranza. Quando ci minacciano, penso ai miei figli. Ma poi penso che sto facendo questo anche per loro. È il rischio di lottare per la democrazia. E per un sistema e per un mondo che così, non possono andare avanti».

                                    Francesca Caprini

Francesca Caprini