«A Sud delle nuvole»

Lo Yunnan, cuore della multiculturalità

Schiacciato tra le montagne tibetane ed i confini con gli stati del sud-est asiatico, lo Yunnan è terra di frontiera, di scambi culturali e commistioni etniche. Pechino vi ha imposto uno sviluppo turistico rapidissimo, con effetti devastanti sulla regione e sulle minoranze.

Se una volta, in aree di confine come questa, occorreva spargere molto sangue (in guerre senza l’obiettivo della pulizia etnica, ma tendenti all’annessione o sottomissione del potere locale), oggi, senza necessità di violenza fisica, la maggioranza etnica han è riuscita ad imporre la propria supremazia non solo numerica, ma anche culturale. A suon di denaro e mattoni. Ce ne accorgiamo appena scesi dall’autobus notturno Kunming – Zhongdian, quando la foschia dell’alba ci accoglie nella contea di Xianggelila, il nuovo nome esotico che il governo cinese ha affibbiato al distretto montuoso sul confine tibetano, adottando e cinesizzando il nome Shangri-La, che James Hilton negli anni Trenta aveva utilizzato nel suo «Orizzonte perduto» per descrivere la mitica e mistica regione montuosa del Kunlun, retta dai lama tibetani.
In realtà, i territori descritti da Hilton corrispondono oggi alla parte settentrionale dell’altopiano tibetano, estesi fino all’attuale provincia del Gansu, ma nel 2001 le autorità di Pechino hanno deciso di dare a Zhongdian e dintorni questo nome a forte carica evocativa mistica, iniziando con l’inganno un processo di modeizzazione ed imposizione del progresso su larga scala.
Zhongdian – chissà com’era dieci anni fa – nel 2010 è una città snaturata: camminando dalla stazione degli autobus al centro storico si rincorrono desolanti costruzioni squadrate ed austere, tipiche dell’espansionismo demografico cinese, hotel a sei o sette piani illuminati come discobar anche in pieno giorno, negozi di chincaglieria assortita, lavori in corso in ogni angolo, centri per la telefonia mobile e negozi di souvenir. Appena varcata la soglia immaginaria che divide la città vecchia dalla periferia, l’inganno assume delle fattezze disneyane.
La città vecchia, completamente ricostruita nel 2004, è un parco a tema plasmato intorno all’ideale tibetano prêt-à-porter: signore agghindate nei vestiti tradizionali gestiscono i negozietti di souvenir, che compongono almeno l’80% dell’intera città vecchia, dove si trova di tutto, dall’oggettistica del sacro ai pupazzetti celebrativi dell’Expo di Shanghai, passando per pashmine tibetane, scarpe tibetane, maglie tibetane, cappelli tibetani, occhiali tibetani, coltelli tibetani, nella perversione che qualsiasi cosa vendano i negozi di Zhongdian, oltre 3.000 m di altezza, debba per forza essere «tibetana». Gli spazi rimanenti, che si snodano tra le vie ciottolate del centro, sono tutti popolati da guesthouse o ristoranti per tasche occidentali o per cinesi dalle tasche occidentali, ricostruiti secondo i presunti canoni architettonici tibetani.

PER MILLE YUAN AL MESE:
Storia di John, il tibetano

In uno di questi alberghi finto-autentici, convinco un giovane cameriere a raccontarmi la sua storia, alternando il suo inglese approssimativo al mio cinese stentato.
Si fa chiamare John, ha 20 anni ed è di etnia tibetana. Proviene da un villaggio lontano da Zhongdian, e come molti coetanei ha deciso di spostarsi in città per tentare la fortuna. Dopo una serie di lavori come manovale, riesce a farsi assumere in un hotel fuori dalla città vecchia – lussuosi e costosi, come piacciono ai turisti cinesi – dove ricopre una quantità indefinita di mansioni. Il suo ruolo è il tuttofare, la paga è buona, oltre 1.000 yuan al mese. John vuole imparare l’inglese, che considera il lasciapassare per una vita migliore. Vuole essere «open to the world» (aperto al mondo, ndr), lo ripete spesso durante la nostra chiacchierata. Il giovane tibetano racconta che, dopo aver messo da parte i soldi necessari, si è licenziato dal lavoro ed è partito per Canton, una meta per nulla casuale. A Canton infatti si tengono dei corsi d’inglese full immersion di una settimana chiamati «Crazy English», delle lezioni comuni a gruppi di centinaia di giovani cinesi tenute dal celeberrimo Li Yang, il guru dell’apprendimento dell’inglese in Cina. Tariffa giornaliera 1.000 yuan, che per una settimana fanno 7.000 yuan, ovvero sette mesi di lavoro pieni, senza contare le spese per la sopravvivenza ed il trasporto. Dopo l’esperienza cantonese, John ha fatto ritorno a Zhongdian ed ha trovato lo stesso lavoro di prima, ma in una guesthouse della città vecchia, a 800 yuan al mese.
Nonostante abbia dilapidato presumibilmente un anno di lavoro per una settimana di english full immersion, il risultato è stato oggettivamente abbastanza deludente: John si è ritrovato di nuovo impantanato nel mercato dei lavoretti stagionali, gli unici ai quali hanno accesso le fasce della minoranza etnica tibetana di Zhongdian e dintorni.
Come mi confida un gentilissimo cameriere tibetano la sera seguente, il grosso del business lo muovono imprenditori non autoctoni. Dal 2004, tutte le vecchie case tradizionali del centro sono state comprate da uomini d’affari provenienti dal sud dello Yunnan, dallo Zhejiang e dal Guandong. Dopo averle ristrutturate, portato la corrente elettrica in pianta stabile – nonostante i numerosissimi black out – ed il collegamento ad Inteet, gli affaristi han hanno affidato a persone di fiducia la gestione delle loro nuove proprietà, escludendo di fatto la popolazione locale, relegata ai banchi del mercato coperto o all’artigianato. Molti di loro si reinventano guide turistiche, ripetendo sistematicamente il nuovo mantra «Do you need a car?» (Ha bisogno di un’auto?, ndr) non appena intravedono un turista occidentale.
Solo la sera, nella piazza principale della città vecchia, i tibetani della zona si riuniscono a ballare sulle note delle musiche tradizionali, diffuse da potenti amplificatori posizionati sul perimetro dello spiazzo: di fronte a turisti occidentali e cinesi entusiasti, la popolazione locale mantiene vivi, apparentemente in modo naturale, i brandelli della propria cultura inevitabilmente destinata all’estinzione, di fronte al progresso veicolato dalle infrastrutture per le telecomunicazioni ed il turismo sponsorizzate dal governo centrale di Pechino. La strada a due corsie che collega Zhongdian a Deqin, località più remota della provincia di Shangri-La, apre infatti un flusso turistico interno tanto inedito quanto devastante, fatto di lussuosi hotel a quattro stelle e souvenir a buon mercato; un fenomeno che trae dall’esperienza di Lijiang la propria ispirazione.

IL DESTINO DEI NAXI

Lijiang, a metà strada tra Zhongdian e la capitale della provincia Kunming, nel 1997 è stata iscritta nel registro dei patrimoni mondiali dell’Unesco: con alle spalle una storia di oltre 800 anni, è stata la capitale di un regno indipendente, inglobato alla fine del XIII secolo dall’Impero cinese sotto la dinastia Yuan, popolato dalla minoranza etnica dei naxi. Perfettamente conservata, la città vecchia di Lijiang è un giorniello architettonico che ha mantenuto pressoché immutati i caratteri distintivi dell’antico borgo cinese: strade di ciottoli, tetti di pietra decorati, canali e lantee hanno valso a Lijiang il titolo di patrimonio dell’umanità, un riconoscimento che automaticamente ha messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Dal 1997, il governo ha preso il controllo della zona, premendo l’acceleratore sullo sviluppo turistico che, con la sua assenza, aveva preservato la bellezza del luogo. Pur mantenendo in alcune parti dei tratti di autentica pace, dove la sera si passeggia sentendo l’eco dei propri passi, oggi la città vecchia di Lijiang è in larga parte un contenitore per turisti, una tappa dei pacchetti vacanze «Lo Yunnan in una settimana». La città vive in uno stato di sovreccitazione perenne, scandito dagli orari di apertura e chiusura di ostelli, hotel, negozi di souvenir e ristoranti. La minoranza etnica dei naxi, tradizionalmente matrilineare, come nel caso di Zhongdian, si è ritagliata la sopravvivenza grazie all’artigianato locale, abitando prevalentemente i villaggi circostanti. A testimonianza vivente di resistenza perpetua, le anziane donne naxi vestono ancora gli abiti tradizionali, caratterizzati dalle vesti a manica larga colorate di un blu acceso, abbinate al coprispalla di pelle di pecora; il dongba, la lingua dei naxi, secondo l’ultimo censimento cinese del 2000 è parlato da 310.000 persone, 110.000 delle quali non conoscono nessun altro idioma, mentre il sistema di scrittura a pittogrammi sta lottando contro l’estinzione grazie ai programmi specifici di insegnamento scolastico, promossi lodevolmente dal governo locale fin dal 1996.
Il destino dei naxi e della loro cultura, seppur meglio preservati rispetto alla minoranza tibetana di Shangri-La, si scontra con le conseguenze del miracolo economico cinese. Un miracolo che ha creato una classe media con un potere d’acquisto tale da nutrire un turismo interno dalle conseguenze devastanti: turisti cinesi arrivano letteralmente a migliaia da tutta la Repubblica popolare, in un adattamento contemporaneo dell’esercito imperiale. A cavallo di pullman con condizionatore interno, armati di carta di credito e macchine fotografiche, l’orda han si riversa euforicamente e rumorosamente nei luoghi diventati simbolo della grandezza della Cina nel mondo, portando con sé gli strumenti del benessere e dello svago tipici delle grandi metropoli: i karaoke, i fast food occidentali, i centri commerciali, i negozi di moda.

I MOSUO, DOVE IL MATRIMONIO È (era)  BANDITO

Fino agli anni Ottanta, il lago Lugu, al confine tra Yunnan e Sichuan, si poteva raggiungere solo dopo una settimana di cammino. Negli anni Novanta fu costruita la prima strada e furono portati elettricità, scuole e beni di consumo. Oggi, considerando solo Lijiang, una decina di autobus al giorno percorrono le strade tortuose e mozzafiato strappate ai clivi delle montagne, raggiungendo il lago in sei ore di tragitto (salvo il rischio frane, particolarmente alto nella stagione piovosa estiva).
Al riparo dalla Storia, felicemente isolati dal resto del mondo, i mosuo (47.000 secondo l’ultimo censimento nazionale del 2000) hanno abitato i dintorni del lago Lugu tramandando una società basata sulla sussistenza e sul sistema matrilineare. Le donne si occupavano della gestione del denaro, delle cerimonie religiose – i mosuo praticano il buddismo tibetano, la religione tibetana tradizionale del Bon e lo sciamanesimo – e dell’allevamento degli animali; ignorando completamente il concetto del matrimonio, nella società mosuo le donne vivono da sole, ospitando di notte in notte i loro amanti, che devono tassativamente fare ritorno nella propria casa matea prima che faccia giorno. I figli nati da questi walking marriages sono riconosciuti solo dalla madre, che passa loro il cognome, e cresciuti dalla famiglia matea. Il padre, quando sia possibile determinae l’identità, è tenuto a prendersi cura del figlio solamente per la durata della relazione con la madre, slegata da vincoli contrattuali.
Con la Rivoluzione culturale però le cose dovettero cambiare: disprezzando il sistema sociale mosuo, definendoli come «animali», i comunisti imposero il rito del matrimonio. Quando la frenesia delle Guardie rosse venne sedata, i mosuo in massa decisero di divorziare legalmente e tornare alle loro usanze.
Oggi, il lago Lugu è diventato una sorta di parco naturale protetto, con biglietto d’entrata di 75 yuan. Grazie alla strada impervia ed alla carenza di alberghi di lusso, le sponde del lago godono ancora di una pace quasi irreale; ma gli scheletri di cemento a dieci piani che spuntano qua e là lungo la strada costiera, in aggiunta alla costruzione già avviata di un aeroporto ad hoc nella provincia del Sichuan, lasciano presagire un futuro sulla scia della «commercializzazione etnica» di Shangri-La e Lijiang. I superstiti mosuo stanno progressivamente abbandonando le loro abitazioni tradizionali in riva al lago, spingendosi nell’entroterra montagnoso dove ancora sono in grado di mantenere in vita le loro tradizioni, ricreando un microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio lontano dagli effetti collaterali dell’apertura al mondo. La tradizione dei walking marriages, declinata ad amore libero, ha alimentato il turismo sessuale interno: spacciandosi per mosuo, molte donne si sono stabilite nella zona in veri e propri distretti a luci rosse, mascherando la prostituzione come esercizio per il mantenimento della tradizione.

I COSTI DEL «PROGRESSO»

Senza dubbio, l’espansione economica cinese degli ultimi anni ha progressivamente arricchito molti strati del tessuto sociale, specie la classe media, migliorando le condizioni di vita su larga scala e proiettando il grande paese asiatico verso il gruppo dei paesi sviluppati. Gli evidenti progressi portati dal capitalismo, in Cina come nel mondo occidentale a suo tempo, non si sono fermati davanti all’ambiente o davanti alle peculiarità etniche e culturali a rischio sopravvivenza. Solo di recente, una maggiore consapevolezza ambientalista e multiculturale sta iniziando a penetrare nel sentito comune cinese, ed il governo si sta timidamente affacciando a politiche di salvaguardia delle diversità – come l’iniziativa per l’insegnamento del dongba a Lijiang – e di «sviluppo sostenibile».
Ma i nuovi benestanti cinesi, equiparabili agli yuppies della «Milano da bere», vogliono tutto e lo vogliono subito: la comodità, il lusso, le vacanze ed il consumo non sono più beni accessori fruibili da una stretta minoranza elitaria, ma sono lì a portata di portafogli, santificati dalla nuova Cina ricca e capitalista.
In mezzo a queste tempeste epocali, la fragilità delle minoranze etniche può preservarsi solo se difesa dal potere decisionale cinese. Il governo deve tracciare un limite oltre il quale, rinunciando a profitti immediati, la locomotiva economica cinese non deve avventurarsi: solo in questo modo l’inestimabile varietà etnica e culturale che la Cina vanta potrà sopravvivere, evitando al popolo cinese rimpianti fuori tempo massimo.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi




Luoghi santi visti dall’«alto»

Presentazione Dossier

«Il dato principale di questo sinodo – afferma il segretario generale mons. Nikola Eterovic – è il fatto che il sinodo ci sia stato. Non era scontato!». A lanciare l’idea di convocare un sinodo sulla situazione delle minoranze cristiane mediorientali fu l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, nel gennaio 2009, durante la visita ad limina dei vescovi dell’Iraq. Il Papa rispose subito che era una buona idea: durante il pellegrinaggio in Terra Santa (8-15 maggio 2009) accolse la petizione firmata da vescovi e patriarchi e il 19 settembre 2009 indisse ufficialmente l’assise sinodale, annunciandone anche il tema: La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4.32).
L’iter preparatorio si svolse in tempo da record. Formato subito il consiglio presinodale (7 patriarchi, 2 presidenti di conferenze episcopali, 4 capi di dicasteri vaticani), in tre incontri di due giorni ciascuno fu redatto il testo dei Lineamenta e le relative domande. Fu pubblicato l’8 dicembre 2009 in 4 lingue (arabo, francese, inglese e italiano) e inviato alle chiese in Oriente e nella diaspora; furono raccolte le risposte nell’aprile 2010 e integrate nell’Instrumentum laboris, testo base per la discussione sinodale, reso pubblico dal Papa nel corso della sua visita apostolica a Cipro nel mese di giugno 2010.
Tempo-record anche nell’esecuzione. La più breve assemblea mai celebrata finora: solo 14 giorni, dal 10 al 24 ottobre 2010, a differenza dei precedenti durati almeno tre settimane.
Inoltre, nei sinodi tenuti nel passato, su temi riguardanti la chiesa universale o uno specifico continente, la maggioranza dei vescovi appartenevano alla chiesa occidentale e la presenza degli orientali era definita «minoranza qualificata». Quello attuale riguarda, per la prima volta, questa «minoranza», disseminata in un territorio che possiamo definire «transcontinentale», che abbraccia 16 paesi, dall’Egitto all’Iran, ma soprattutto riunisce, oltre alla chiesa latina, altre 6 chiese cattoliche, ciascuna con un patriarca o vescovo leader, i cui fedeli sono presenti nei paesi mediorientali solo in parte: buona parte i essi vivono nella diaspora in Europa, nelle Americhe e in Australia.

Un sinodo ben diverso da quelli continentali del passato anche per le cifre. I partecipanti a questa assise sono stati circa 330: 173 padri sinodali, di cui 159 ex officio e 17 di nomina pontificia, 36 esperti e 34 uditori, 13 «delegati fratei» di altre confessioni cristiane, numerosi assistenti, traduttori e personale tecnico impegnati nei servizi richiesti dallo svolgimento del sinodo.
Vi sono state 14 congregazioni generali, con 125 interventi di padri sinodali di 5 minuti ciascuno, più 5 consegnati per iscritto e oltre 100 interventi liberi. Sono stati ascoltati anche 12 delegati fratei, un rappresentante ebreo e due musulmani, un sunnita e uno sciita. Più articolati sono stati gli interventi nei cosiddetti «circoli minori», gruppi di lavoro divisi nelle quattro lingue ufficiali del sinodo: arabo, inglese, francese, italiano.
A parte i numeri, l’importanza dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente vanta altri primati. La maggioranza dei partecipanti erano di cultura e lingua araba e lo hanno dimostrato nei loro interventi in aula (primo ed unico sinodo dove l’arabo è stato, insieme al francese, la lingua franca dei vescovi), come nelle pause e momenti liberi, conversazioni e discussioni fuori dell’aula sinodale. Tutto questo ha ricordato che «l’arabo è una lingua cristiana e che “arabo” non si identifica con musulmano» afferma l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir.
Inoltre questo è stato il primo sinodo realmente «ecumenico», perché ha coinvolto i leader delle principali comunità ecclesiali attive nell’area mediorientale e perché i problemi trattati e le decisioni prese non interessavano solo i cattolici, ma riguardavano anche le sorti delle Chiese ortodosse. Anzi, questo Sinodo, forse più degli altri, è stato importante per la Chiesa universale.

I cristiani del Medio Oriente sono una minoranza esigua nel grande oceano dell’islamismo. I cattolici sono una minoranza della minoranza. Per questo forse sono poco conosciuti o addirittura dimenticati. Eppure non è azzardato affermare che il Medio Oriente è una sorta di «concentrato» dei problemi della Chiesa universale. Già nei documenti preparatori, Lineamenta e Instrumentum laboris, sono messe sul tappeto questioni ecclesiologiche (giurisdizione tra patriarcati, Chiese e riti diversi), interreligiose (i rapporti con le fedi abramitiche) e socio-politiche (diritti delle minoranze e conflitti).
Nell’attuale situazione di globalizzazione, molti degli interrogativi e delle sfide delle chiese mediorientali sono comuni anche all’Occidente: come dialogare con il mondo islamico? Come superare l’integralismo religioso? Come sconfiggere il terrorismo? Come frenare l’emorragia dell’emigrazione? Come costruire pace e sicurezza per i popoli afflitti da endemiche tensioni e conflitti? Le risposte che i padri sinodali suggeriscono servono non solo alle popolazioni del Medio Oriente, ma vanno a vantaggio anche del mondo occidentale.
Portando alla ribalta la pluralità di cultura e tradizioni dei cristiani del Medio Oriente, la loro resistenza nella fede in una storia millenaria segnata da ostilità e persecuzioni, il sinodo offre alla Chiesa universale un esempio su cui specchiarsi. Al tempo stesso l’assemblea sinodale ha usato ogni mezzo per renderla consapevole della vita, difficoltà e sofferenze, ma pure della vocazione unica e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, al fine di promuovere una maggiore solidarietà con questi fedeli e le rispettive Chiese.

Cosa sarebbe un Medio Oriente senza cristiani? Non è una domanda retorica: la fuga dei cristiani dai paesi di origine continua e sembra inarrestabile di fronte al crescere della situazione d’instabilità generale e del clima d’insicurezza che regnano ormai da vari anni nell’area. L’allarme è risuonato spesso nell’aula sinodale: la culla del cristianesimo rischia di rimanere senza cristiani. Tale perdita non danneggerebbe solo le regioni interessate, ma impoverirebbe tutta la Chiesa, privandola della memoria e del vero senso della fede, delle radici e del destino finale della vita cristiana.
Dall’Egitto, terra di Mosè, alla Turchia, terra delle prime comunità cristiane, si estende una regione a cui dobbiamo guardare con fede, afferma il papa nell’omelia di apertura del sinodo: «Dio la vede da una prospettiva diversa, si direbbe “dall’alto”: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, è vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo. E noi pure, come credenti, guardiamo al Medio Oriente con questo sguardo, nella prospettiva della storia della salvezza… Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la “culla” di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta».
I luoghi santi non costituiscono una preoccupazione tra le tante, ma una priorità per la Chiesa cattolica e per i cristiani. Essi non solo racchiudono la culla della nostra fede, ma contengono il simbolo del nostro destino e dell’intera umanità. «Chiedete pace per Gerusalemme, perché tutti là siamo nati» (cfr Sal 87). «Sion, altura stupenda, gloria di tutta la terra» (Sal 48,3), è «il monte santo», «la casa di tutti i popoli», luogo in cui sono convocati «insieme tutti i popoli e nazioni» (cfr Is 25,6; 43,9; 56,7). Tale convocazione conserva intatto tutto il suo fascino: l’intera umanità guarda a quella città santa, avvertendo di avere con essa profondi legami. Per un misterioso disegno divino, quando ci sarà «pace nelle sue mura», ci sarà pace per tutti i popoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Viva la differenza!

Diversità, divisioni e ritorni all’Unità

«Il Medio Oriente ha visto sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, nonostante vicende spesso difficili e tormentate, la continuità della presenza dei cristiani. In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari delle 6 venerande Chiese orientali cattoliche sui iuris, come pure nella Tradizione latina» (Benedetto XVI, Omelia di apertura del Sinodo).

arlando di «Chiesa cattolica», noi occidentali pensiamo al singolare, alla comunità dei credenti sparsi in tutto il mondo. I cristiani mediorientali, invece, pensano al plurale, alle differenti «chiese cattoliche» che riconoscono il primato ministeriale del papa di Roma, ma hanno caratteristiche dottrinali, liturgiche e giuridiche proprie. Vengono dette anche «Chiese particolari» o «Chiese sui juris», cioè con diritto proprio, tecnicamente espresso nel Codice dei canoni delle chiese orientali.
Le Chiese sui juris sono 23, in maggioranza appartenenti ai Paesi dell’Europa centro-orientale; quelle orientali coinvolte direttamente nel Sinodo sono sei: chiesa greco-melchita, chiesa siriaca, chiesa maronita, chiesa caldea, chiesa copta, chiesa armena. Per ragioni storiche in Medio Oriente si è strutturata anche una presenza della chiesa occidentale latina. Queste chiese spesso si definiscono e si distinguono in base al «rito»: termine che non indica semplicemente azioni e gesti sacramentali, ma tutto un patrimonio teologico, liturgico, spirituale, disciplinare, culturale, artistico e storico, con cui ogni Chiesa esprime la propria fede (vedi riquadro).
Tale ricchezza e molteplicità è incomprensibile se non si tiene presente l’evoluzione storica, con cui esse si sono distinte nel corso del primo millennio cristiano dalle Chiese greca e latina.
Al principio la diversità
La diversità è iniziata al momento della nascita, il giorno di Pentecoste. Fra i tremila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua: parti, medi, elamìti, abitanti della Mesopotamia, Giudea, Cappadòcia, Ponto, Asia, Frìgia, Panfìlia, Egitto, Libia, romani, cretesi e arabi (cfr At 2,8-11).
Dalla città santa apostoli e discepoli di Cristo portarono la Buona Notizia ai popoli delle regioni affacciate sul Mediterraneo, dall’Egitto, evangelizzato da san Marco, alla Persia e ad altri popoli oltre i confini orientali dell’Impero romano per opera dell’apostolo Tommaso. Non per nulla le chiese del Medio Oriente sono orgogliose di essere chiese apostoliche.
La predicazione degli apostoli diede origine a comunità composte da cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo, ma distinte nella pluralità di modi d’intenderla e di esprimerla. La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la crescita e organizzazione delle comunità cristiane attorno ai vescovi, successori degli apostoli, e nelle città più importanti in campo politico e culturale. 
Mentre in Occidente c’era solo Roma, come città di profonda cultura, in Oriente, ben prima del cristianesimo, c’erano centri importantissimi come Alessandria, Edessa, Gerusalemme, Antiochia. Alle più importanti Chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità, cinque in particolare, chiamate patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), che si affermarono come centri di espansione missionaria e punti di riferimento attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di là dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
E così, mentre in Occidente unificazione e uniformità erano un fatto scontato, in Oriente si svilupparono sei varietà di tradizioni liturgiche, culturali, spirituali, disciplinari e teologiche. Dogmaticamente c’era unità, teologicamente c’era una grande ricchezza e varietà di posizioni. Nell’esegesi e interpretazione della Bibbia, per esempio, fecero scuola due grandi correnti: quella di Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del II secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.
unità strappata
Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e l’unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie.
I decreti dei primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano), furono accettati da tutte le chiese. Non così quelli dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). A Efeso fu condannato il nestorianesimo, dottrina che sosteneva l’immutabilità di Dio e l’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, rifiutando a Maria l’appellativo di «Madre di Dio» (Theotókos), attribuendole semplicemente il titolo di Christotókos, genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Questo concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu stabilito che in Cristo esistono due nature dopo l’incarnazione in una sola persona, condannando così la dottrina di Eutiche, che affermava in Cristo la sola natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena. In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
La chiesa bizantina rimase in comunione con la chiesa di Roma (o latina) fino al 1054, quando, dopo un progressivo e reciproco estraniamento, per motivi più politici che teologici, si consumò il grande scisma d’Oriente tra le chiese di Bisanzio e di Roma, trascinando nella rottura anche le chiese dell’Europa orientale, dando origine a una ventina di Chiese ortodosse autocefale e indipendenti.
Ritoo all’ovile
Per ricucire gli strappi furono organizzati vari concili ecumenici, con risultati non sempre incoraggianti. In alcuni casi, il fatto che alle radici delle scissioni ci fossero ragioni politiche e culturali più che dogmatiche ha favorito il ritorno spontaneo alla comunione con Roma di alcuni settori delle chiese orientali. In molti paesi dell’Oriente, poi, l’invio di missionari riuscì a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma. Nacquero così le «chiese cattoliche orientali», dette in passato anche chiese «Uniate», termine non più in uso per il suo senso dispregiativo in ambito ortodosso.
Nelle chiese ortodosse, infatti, la presenza di missionari cattolici fu sentita come fumo negli occhi, la loro attività come proselitismo e i cristiani tornati alla comunione con Roma furono oggetto di disprezzo e talora anche di persecuzione. E le polemiche non sono ancora finite.
In ambito cattolico non mancarono le diffidenze nei riguardi dell’opera di riunificazione e i tentativi di latinizzare le nuove comunità, intendendo la restaurazione della comunione ecclesiale come ritorno all’«ovile» di Pietro. Di fatto i cattolici orientali rimasero sotto la giurisdizione della congregazione de Propaganda fide fino al 1917, quando fu resa autonoma la Congregazione per le Chiese Orientali.
Con il decreto Orientalium Ecclesiarum, il Concilio Vaticano II riconosce ufficialmente l’uguaglianza delle Chiese cattoliche orientali con quella latina, le invita a riscoprire le loro autentiche tradizioni e afferma la loro speciale vocazione nel promuovere le relazioni ecumeniche con gli Ortodossi. La loro vita ecclesiastica è regolata in base al Codice di canoni delle Chiese orientali, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1990 ed entrato in vigore il 1° ottobre dell’anno seguente. Secondo il nuovo Codice esse sono suddivise in quattro categorie: Chiese patriarcali (Caldea, Armena, Copta, Siriaca, Maronita, Melchita), Arcivescovili maggiori (Ucraina, Romena, Siromalabarese, Siromalankarese), Metropolitane sui juris (Etiopica, Ruteniana americana, Slovacca), Chiese sui juris (Albanese, Bielorussa, Bulgara, Croata, Greca, Italo-albanese, Macedone, Ungherese, Russa).
Pericoloso contarsi
La regione che nell’uso comune viene indicata con l’espressione Medio Oriente abbraccia ben 16 paesi, che vanno dall’Egitto all’Iran, passando per Israele e Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Cipro, Turchia, Siria, Iraq e Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar, Yemen) e copre una superficie di oltre 7 milioni di kmq, con una popolazione di circa 370 milioni di abitanti, in grande maggioranza musulmani; in questo oceano islamico il numero dei cristiani delle differenti confessioni (ortodossa, cattolica, protestante) oscilla tra i 13 e i 16 milioni. Si tratta quindi di una minoranza, 3-4% circa dell’intera popolazione mediorientale, distribuita in maniera molto dissimile da paese a paese, da un meno 1% in Iran al circa 40% in Libano.
I cattolici del Medio Oriente coinvolti nel Sinodo contano circa 4-5 milioni di fedeli: una minoranza nella minoranza. Essi appartengono a sette chiese di tradizione o rito differenti: i sei Patriarcati orientali, a cui si aggiunge, per ragioni storiche, il patriarcato di Gerusalemme dei latini, di tradizione e rito latino (vedi riquadro).
Per varie ragioni, il numero dei cristiani mediorientali (cattolici compresi) è soggetto a variabilità e indeterminazione. Nei censimenti ufficiali di diversi stati (Libano, Siria, Iraq), non viene rilevata l’appartenenza religiosa e le stime ufficiose proposte sono spesso adattate e manipolate per mostrare rapporti di maggioranza o minoranza rilevanti nella vita sociale e politica del paese. In società fortemente tribali come nel Medio Oriente, il clan o la comunità vale e conta in proporzione del numero dei suoi membri. Per questo in Libano, per esempio, da molti decenni non si tiene un censimento, per paura che la disparità demografica tra i vari gruppi religiosi possa compromettere l’equilibrio sociale e politico sempre in bilico. Istruttivo è pure il caso dell’Egitto: secondo il governo, i cristiani copti sarebbero 6 milioni, mentre la Chiesa copta ne conta 12 milioni.
Ma anche i dati foiti dalle stesse chiese locali non sono sempre affidabili, sia per mancanza di censimenti scientifici, sia perché vengono gonfiati per motivi apologetici o per richiedere diritti e privilegi, sia perché vengono ridotti al minimo per evitare di assumere oneri e responsabilità.
La varietà e indeterminatezza statistiche sono dovute anche all’emigrazione (o fuga) dei cristiani, ortodossi e cattolici, dalle zone di presenza storica in Medio Oriente, specie dai paesi in preda a guerre, violenze e intolleranze religiose, in cui si paventa la loro totale scomparsa.
Il fenomeno non è nuovo: nella prima metà del secolo scorso, lo sterminio degli armeni e poi la cacciata dei greci dalla Turchia, ad esempio, furono di proporzioni colossali. Oggi, però, esso sta aumentando, fino a produrre un esito inatteso: molte diocesi create nella diaspora dagli emigranti dal Medio Oriente sono più ricche e popolose delle chiese madri. I cristiani armeni, ad esempio, sono da decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine, mentre i maroniti libanesi hanno diocesi di emigrati negli Stati Uniti, Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. Le «statistiche» ufficiose calcolano che 12 milioni di cristiani, di diverse confessioni, risiedono nei territori patriarcali, mentre più di 7 milioni sono nella diaspora.
una chiesa pellegrina
Negli ultimi decenni un fenomeno nuovo sembra tamponare l’emorragia: flussi migratori stanno vacendo lievitare la presenza cristiana proprio in quelle regioni che fino a oggi appaiono le più impermeabili al cristianesimo, come i paesi del Golfo.
Il boom petrolifero, la costruzione di infrastrutture, gli investimenti in edilizia hanno richiamato in Arabia Saudita e nel resto della penisola arabica oltre 13 milioni di lavoratori migranti, provenienti dall’estremo oriente (indiani, filippini, singalesi, vietnamiti…), dall’Africa (etiopi, sudanesi…), dal Sud America, nonché dai vicini Libano, Siria, Iraq, Palestina. Il fenomeno è in continuo aumento.
Tra questi migranti, circa tre milioni sono cattolici. In Arabia Saudita, su una popolazione di 28,5 milioni di abitanti (8 milioni di immigrati) i cattolici sarebbero quasi due milioni. Negli Emirati Arabi dove gli immigrati superano ormai la popolazione locale (sei milioni), i cristiani sarebbero un milione, metà dei quali cattolici. Analoghe proporzioni si riscontrano in Barhein, Oman, Qatar, Kuwait.
È vero che non si tratta di autoctoni convertiti, ma di semplici lavoratori che puntano a guadagnare abbastanza per poi ritornare nei paesi di origine, di comunità instabili per natura, di una «chiesa pellegrina», come si esprimono i padri sinodali, ma non per questo priva di semi di speranze, capaci di modificare gli scenari religiosi del futuro, nonostante le difficoltà e le limitazioni con cui si scontra la pratica della fede delle comunità cristiane e cattoliche.
Il paese più repressivo è ancora l’Arabia Saudita, teocratica e influenzata dal wahabismo; gli altri paesi del Golfo sembrano lasciare maggiori spazi alla libertà religiosa; negli Emirati sono sorte alcune parrocchie; nel Qatar è stata costruita una chiesa capace di accogliere fino a 5 mila fedeli.
nuova pentecoste
Un nuovo e significativo fenomeno interessa il cristianesimo del Medio Oriente: la chiesa giudeo-cristiana, scomparsa dopo i primi secoli, sta rinascendo oggi in Israele, grazie soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. I cristiani di lingua ebraica non sono molti, ma è già un segno incoraggiante (vedi riquadro).
I padri sinodali hanno parlato di «nuova Pentecoste», non solo per lo Spirito Santo che li ha animati, ma anche per la varietà di lingue, popoli e culture che sono la ricchezza dell’unica Chiesa di Cristo. I popoli menzionati in quell’evento profetico ci sono tutti… e di più: cristiani autoctoni di antica origine, risalenti ai primi secoli del cristianesimo (ebrei, arabi o arabofoni, turchi, iraniani, greci…), e cristiani delle ultime generazioni di tutti i continenti, di ogni colore e razza.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Vocazione e privilegio

Sfide, attese, speranze

Due documenti finali, il Messaggio al popolo di Dio e le 44 Proposizioni, contengono i temi cruciali dibattuti al Sinodo: rinnovamento, comunione, ecumenismo, dialogo interreligioso, migrazione, pace… insieme alle attese e alle speranze di fronte alle sfide intee ed estee alle Chiese del Medio Oriente.

Eredi di civiltà prestigiose, fiere del proprio passato anche precristiano, le Chiese mediorientali costituiscono una grande ricchezza per la loro varietà. Ognuna ha mantenuto la propria identità, nonostante difficoltà e persecuzioni subite in due millenni di storia, che le ha viste ridursi progressivamente a esigue minoranze, sperdute nell’oceano islamico. Preoccupate di conservare la propria identità culturale e cultuale, si sono chiuse a riccio, impoverendosi spiritualmente, scivolando nel confessionalismo, nazionalismo o divisioni intee e diventando socialmente irrilevanti.
Con il frazionamento politico del Medio Oriente seguito alle due guerre mondiali e la nascita di nuovi stati nazionali segnati da nuovi confini, i cristiani si sono ritrovati ancora più dislocati, isolati, profughi, e spesso usati come capri espiatori per le sconfitte delle popolazioni islamiche, perché accomunati ai cristiani occidentali. La situazione attuale è più drammatica che mai: tensioni, violenze e guerre insanguinano vari paesi del Medio Oriente. Ma proprio la drammaticità del momento è uno stimolo a una maggiore coesione e comunione. Le varie chiese hanno sempre più capito che la loro forza e la loro sopravvivenza sta nell’unità.
rinnovamento e Identità missionaria
«Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale» scrivono i vescovi nel loro Messaggio al popolo di Dio, a conclusione del Sinodo per il Medio Oriente. Priorità sottolineata già dai documenti preparatori del Sinodo, per «confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità mediante la Parola di Dio e i sacramenti» (Instrumentum laboris 3).
«I nostri fedeli hanno grande sete della Parola di Dio e non trovandola da noi, vanno spesso a dissetarsi altrove… Abbiamo bisogno che la Parola di Dio sia il fondamento di qualsiasi educazione e formazione nelle nostre famiglie, chiese, scuole, soprattutto nella nostra condizione di minoranze in società a maggioranza non cristiana»; così la prima relazione degli interventi sinodali letta dal card. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti.
«Abbiamo testi datati secoli che non riescono più a parlare all’uomo di oggi – spiega mons. Louis Sako -. I nostri riti devono aiutare a pregare e non essere degli show. I fedeli vogliono capire e la pastorale deve essere modulata per i giovani, per i bambini, gli adulti, con linguaggi adeguati».
Catechesi e liturgia, formazione del clero e di operatori pastorali, cura della famiglia e preparazione matrimoniale, educazione dei bambini e attenzione ai giovani, promozione della donna e sua valorizzazione nella chiesa e nella società… sono temi risuonato spesso nell’aula sinodale e poi confluiti nei paragrafi delle Proposizioni e del Messaggio al popolo di Dio. 
Tale rinnovamento passa attraverso la riscoperta della propria identità missionaria. «In Oriente è nata la prima comunità cristiana; di là partirono gli apostoli per evangelizzare il mondo intero, là i primi martiri hanno irrorato di sangue la Chiesa nascente… dalle nostre Chiese partirono… i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo. Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future» (Messaggio 2).
COMUNIONE E TESTIMONIANZA
Per riaccendere la tensione missionaria e testimoniare ai fedeli delle altre religioni i valori evangelici occorre essere «un cuor solo e un’anima sola». «Oggi siamo di fronte a numerose sfide. La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese. Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita. Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione… La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri Paesi e dal pluralismo religioso» (Messaggio 3.1-2) e non si può affrontare da soli.
«Siamo sulla stessa strada – affermano i vescovi rivolgendosi alle chiese sorelle, ortodosse ed evangeliche locali -. Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso. Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo. Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre chiese» (Messaggio 7).
«In Oriente, saremo cristiani uniti o non saremo affatto», scrivevano i patriarchi in una lettera pastorale del 1991. Come dire: se si vive, si vive insieme; se si muore, si muore insieme. La comunione nella carità tra le Chiese è l’asse attorno a cui possono essere abbordate tutte le altre questioni e da cui dipendono la soluzione dei problemi e delle sfide, senza affatto minimizzarle.
Dialogo interreligioso
Nel presentare esigenze e proposte pastorali, i padri sinodali non hanno potuto evitare valutazioni di stampo politico, ricordando la complessa situazione sociale e denunciando senza sconti le condizioni di violenze e ingiustizie in cui vivono i cristiani. Hanno condannato l’occupazione israeliana nei Territori palestinesi, sottolineando al tempo stesso la «sofferenza e insicurezza in cui vivono i cittadini d’Israele»; hanno stigmatizzato qualsiasi estremismo o terrorismo, antisemitismo e antigiudaismo; hanno invitato a distinguere tra religione e politica e a non strumentalizzare il discorso religioso, tanto meno a usare la Bibbia per scopi politici (chiara allusione a chi, in Israele, si serve di suggestioni scritturistiche per giustificare nuovi insediamenti nella West Bank); hanno richiamato al rispetto della sovranità del Libano, fino a definire apertamente «guerra assassina» quella in Iraq, che ha causato «sofferenze cruente» per il popolo iracheno e uccisioni, espulsioni, dispersione dei cristiani.
Al di là di queste e altre denunce, i padri sinodali hanno ribadito l’impegno del dialogo con ebrei e musulmani come unica via percorribile per raggiungere una soluzione credibile ai conflitti in corso nel Medio Oriente. Le Proposizioni 40-42 in modo particolare dettano le linee del dialogo. Cristiani e interlocutori sono invitati «alla purificazione della memoria, al perdono reciproco del passato e alla ricerca di un avvenire comune migliore»; a cercare «nella vita di ogni giorno l’accettazione mutua malgrado le differenze» e ad operare «per edificare una società nuova, dove il pluralismo religioso è rispettato e dove il fanatismo e l’estremismo saranno esclusi».
«Le iniziative di dialogo e di cooperazione con gli ebrei sono da incoraggiarsi per approfondire i valori umani e religiosi, la libertà, la giustizia, la pace e la frateità. La lettura dell’Antico Testamento e l’approfondimento delle tradizioni del giudaismo aiutano a conoscere meglio la religione ebraica». Il richiamo alla lettura dell’Antico Testamento non è una pia esortazione, ma un chiaro monito per ricordare, a quei cristiani che rifiutano di leggerlo perché si parla di Israele, che le radici ebraiche sono fondamentali per la fede cristiana.
Riportando le parole del papa pronunciate a Colonia nel 2005, si ribadisce che «il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani… è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro avvenire… I cristiani del Medio Oriente sono chiamati a continuare il fecondo dialogo di vita con i musulmani» (42). Scuole, cliniche, ospedali e altre opere sociali e umanitarie, di cui usufruiscono in maggioranza i musulmani, sono la testimonianza più concreta del «dialogo della vita»; ma non è facile, come afferma il patriarca Naguib nella Relazione pronunciata il primo giorno del Sinodo: «A partire dagli anni ‘70 constatiamo l’avanzata dell’islam politico, che comprende diverse correnti religiose. Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo; vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza; costituisce dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste».
libertà di coscienza
«Nel Medio Oriente i cristiani condividono con i musulmani la stessa vita e lo stesso destino. Edificano insieme la società. È importante promuovere la nozione di cittadinanza, la dignità della persona umana, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri e la libertà religiosa comprensiva della libertà di culto e della libertà di coscienza» (42). Queste espressioni sono la sintesi delle riflessioni tenute in aula sui concetti di «laicità positiva» e «piena cittadinanza», due locuzioni per spiegare la distinzione tra il religioso e il politico, evitando il termine «laicità», parola sconosciuta in arabo fino all’800, tradotta con ‘almaniyyah (secolarizzazione), concetto che per i musulmani equivale ad ateismo.
I musulmani dicono che l’islam è tollerante. Per secoli cristiani ed ebrei sono stati «tollerati» e «protetti» (dhimmi) nell’impero musulmano: protezione pagata con tasse, sottomissione, discriminazione come cittadini di serie B. I cristiani oggi non chiedono di essere tollerati o ben trattati, ma di essere riconosciuti come cittadini, con gli stessi diritti, punto e basta!
Base di tutti i diritti è la libertà religiosa totale: i padri sinodali chiedono agli stati mediorientali non solo la libertà di culto, ma reclamano anche la libertà di coscienza, cioè il diritto uguale per tutti di cambiare religione e il diritto di testimoniare e proclamare apertamente la propria fede.
L’annuncio del vangelo è un obbligo per i cristiani, come per i musulmani annunciare l’islam. Ma in quasi tutti i paesi, anche in quelli che si definiscono «laici» (come Turchia e Tunisia) lo stato mette a disposizione tutti i mezzi la propaganda islamica, mentre ai cristiani è proibito proclamare apertamente la propria fede, col rischio di essere accusati di fare proselitismo. Chi si converte al cristianesimo rischia il rifiuto della società e perfino l’uccisione. In tutti i paesi arabi, eccetto il Libano, il convertito non ha pace.
Di fronte a questa situazione, alcuni padri sinodali hanno rimarcato l’aspetto intollerante e di chiusura dell’islam, citando i versetti coranici del caso. Anzi, padre Raymond Moussalli, vicario generale di Babilonia dei Caldei in Giordania, ha denunciato l’esistenza di «una deliberata campagna per cacciare i cristiani. Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq, ma in tutto il Medio Oriente».
La maggioranza dei vescovi, tuttavia, ha insistito sull’esistenza di un islam tollerante e moderato e di molti musulmani desiderosi di vivere in pace con i cristiani.
Due leader musulmani moderati sono stati invitati a parlare all’assemblea sinodale, lo shiita ayatollah Mohaghegh Ahmadabadi e l’imam sunnita Al-Sammak. Sono stati ascoltati con attenzione, convenendo che teologi del genere devono essere aiutati per influire sulla base dei loro credenti. Qualcuno non ha nascosto il proprio scetticismo: «Se riuscissero a convincere i loro seguaci che i cristiani non sono kaffir, “infedeli”, sarebbe già un grosso risultato, un inizio, un primo segnale di cambiamento». «Ogni giorno i cristiani si sentono dire dagli altoparlanti, televisione, giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda serie» aggiunge mons. Thomas Meram, vescovo caldeo di Urmia, in Iran.
Privilegio scomodo
Guerre, estremismi, persecuzioni, povertà… sono le principali cause della fuga dei cristiani dal Medio Oriente: il rischio di uno spopolamento di cristiani si prospetta più reale che ipotetico, se la situazione non cambierà radicalmente. Tale fuga non è solo una perdita per la Chiesa universale, ma anche un impoverimento, anzi «una catastrofe per l’islam di tutto il mondo» afferma Muhammad al-Sammak, consigliere politico del Mufti della Repubblica del Libano, invitato a parlare ai padri sinodali (vedi riquadro). Sono soprattutto cristiani laureati e professionisti a lasciare il propio paese perché, come capita nei territori palestinesi, non vedono un futuro per realizzare le loro qualità professionali.
Per consolidare la presenza dei cristiani in Medio Oriente, i padri sinodali esortano le loro Chiese a creare «un ufficio o una commissione per lo studio del fenomeno migratorio e le sue motivazioni per trovare i mezzi di contrastarlo» e a promuovere «progetti di sviluppo per limitare il fenomeno migratorio» (10). Soprattutto i cristiani sono scongiurati affinché non vendano le loro proprietà: «Visto che l’attaccamento alla terra natale è un elemento essenziale dell’identità di persone e popoli e uno spazio di libertà, esortiamo i nostri fedeli e comunità ecclesiali a non cedere alla tentazione di vendere le loro proprietà immobiliari. Per aiutare i cristiani a conservare le loro terre o acquisie di nuove, in situazioni economiche difficili, proponiamo ad esempio la creazione di progetti che si facciano carico di farle fruttificare per permettere ai proprietari di restare dignitosamente nei loro paesi. Questo sforzo deve accompagnarsi a una profonda riflessione sul senso della presenza e vocazione cristiana nel Medio Oriente» (6).
Vocazione e missione sottolineate anche dal Santo Padre nell’omelia di apertura del Sinodo: «I cristiani sono chiamati a ravvivare la coscienza di essere pietre vive della Chiesa in Medio Oriente, presso i Luoghi santi della nostra salvezza»; una vocazione da «vivere con gioia», considerata lungo i secoli «un grande privilegio». Una vocazione scomoda; bisogna vederla «dall’alto», come esorta il papa, dalla prospettiva di Dio che guida la storia: restare in questa regione non è una fatalità, ma fa parte del piano divino; è una missione d’amore: far scoprire alle popolazioni locali la bellezza del vangelo di Cristo, messaggio straordinario per salvare la vita dell’essere umano e liberarlo da ogni paura. Non è questione di proselitismo, ma un fatto di giustizia: anche i musulmani hanno diritto a conoscere il vangelo, come i cristiani hanno diritto a conoscere il Corano.
Essere cristiani oggi nei paesi del Medio Oriente richiede grande fede e molto coraggio. I padri sinodali lo ricordano senza illusioni: «Pur denunciando come ogni uomo la persecuzione e la violenza, il cristiano ricorda che essere cristiano comporta la condivisione della Croce di Cristo. Il discepolo non è più del Maestro (cf. Mt 10, 24). Il cristiano si ricorda la beatitudine dei perseguitati a causa della giustizia che avranno in eredità il Regno (cf. Mt 5,10)» (5).
APPELLO INTERNAZIONALE
«La persecuzione tuttavia deve destare la coscienza dei cristiani nel mondo a una più grande solidarietà – continua la Proposizione 5 -. Essa deve suscitare parimenti l’impegno a reclamare e a sostenere il diritto internazionale e il rispetto di tutte le persone e di tutti i popoli. Occorrerà attirare l’attenzione del mondo intero sulla situazione drammatica di certe comunità cristiane nel Medio Oriente, le quali soffrono ogni tipo di difficoltà, giungendo talvolta fino al martirio».
A nome dei loro fedeli e di tutti i cittadini mediorientali, i padri sinodali hanno concluso il Messaggio al popolo di Dio con un appello alla «comunità internazionale, in particolare l’Onu, perché lavori sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’occupazione dei differenti territori arabi. Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo stato d’Israele potrà godere pace e sicurezza all’interno delle frontiere inteazionalmente riconosciute. La città santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana… L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali. Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche».
Il Messaggio riconferma la condanna contro ogni forma di «violenza e terrorismo, qualsiasi estremismo religioso, ogni forma di razzismo, antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia». In seno all’Onu c’è un giusto allarme per l’aumento dell’islamofobia, è ora che ci si preoccupi anche della crescente cristianofobia.

Benedetto Bellesi

     PER SAPERNE DI PIU’

• Cattolici di rito orientale e Chiesa latina in Medio Oriente, Pier Giorgio Gianazza, EDB 2010.
• Breve storia  delle chiese cattoliche orientali, in Medio Oriente, Alberto Elli, ETS, Milano 2010
• Cristiani a Gerusalemme, duemila anni di coraggio, Lawrence M.F. Sudbury, EMI 2010.
• Dalla terra dei due fiumi Iraq-Iran, cristiani tra l’integralismo e la guerra, Francesco Strazzari, EDB 2010.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Popoli e chiese dell’Oriente cristiano, a cura di Aldo Ferrari, Edizioni Lvoro 2008.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Gerusalemme città della speranza, Leslaw Daniel Chrupcala, Edizioni Terra Santa 2009.

Benedetto Bellesi




«Attento uomo bianco, la Terra si ribellerà»

L’epopea degli U’wa

In questo mese si è svolto – a Cancun, in Messico – un nuovo vertice sul clima. Risuonano di nuovo gli allarmi – ipersfruttamento, insostenibilità -, ma nessuno si muove con atti concreti. Paesi ricchi e paesi in via di sviluppo non sembrano rendersi conto della situazione. La consapevolezza pare maggiore in popolazioni marginali, come quelle indigene. Come gli u’wa della Colombia.
A 10 anni da un nostro dossier, Missioni Consolata torna ad occuparsi di questo popolo: poche migliaia di individui la cui sopravvivenza è – simbioticamente – legata alla Terra. Storia di una piccola grande lotta dall’alto valore simbolico.

In molti luoghi della Terra sono evidenti i disastri connessi al «cambio climatico» ed il messaggio è chiaro: il Pianeta non regge più. Fino ad oggi in cima alla piramide è stata seduta Sua maestà il petrolio, reggente di un sistema economico mondiale, che si trascina dietro una scia di sangue, distruzione ambientale e militarismo. La Colombia ne è un esempio lampante.
Nonostante questo, invece di «cambiare il sistema, non il clima» (secondo lo slogan dei movimenti civili per il Forum di Cancun), si continua ad alimentare il pericoloso e perverso meccanismo attuale.
L’imbarazzante mancanza di volontà da parte delle potenze economiche di fronte all’aggravarsi del problema climatico si evidenzia nei fallimenti plateali dei grandi Vertici sul clima: il Cop 15 di Copenhagen, finito a scazzottate fuori e dentro i palazzi di vetro; il vertice di Cancun – Cop 16 (29 novembre- 10 dicembre 2010) – verso cui le zero aspettative sono più delle auspicate «zero emissioni». Tuttavia, mentre gli indici ambientali e di povertà mostrano l’insostenibilità del modello di sviluppo tuttora imperante, dalla martoriata Colombia ci arrivano insegnamenti ed esempi da imitare.
QUELLE STORIE CHE FANNO LA STORIA
Dieci anni fa si parlò molto – lo fece anche un dossier di Missioni Consolata – di un pugno di indigeni colombiani che a costo di suicidarsi collettivamente, aveva cercato di bloccare le trivellazioni petrolifere nel loro territorio.
Erano il popolo u’wa: 6.000 individui per 17 comunità, distribuite in un lembo di terra al confine col Venezuela, fra la Cordillera Orientale delle Ande ed Arauca.
Il territorio è per questi indigeni come un organismo vivente. Perforarlo è come violare il corpo della propria madre, un attentato alla sopravvivenza loro e del loro universo.
Minacciando di uccidersi tutti – e sostenuti da una campagna mediatica internazionale – erano riusciti a fermare, almeno momentaneamente, la costruzione di altri pozzi, dando uno schiaffo all’impresa petrolifera, la statunitense Occidental Petroleum Inc, ed una lezione al governo colombiano, restio ad applicare la Costituzione del ’91, che legiferava sui diritti delle popolazioni indigene e sulla salvaguardia dei loro territori ancestrali.
Gli u’wa avevano dimostrato per la prima volta che si poteva mettere in discussione un sistema. Con la loro battaglia estrema, avevano infiammato, dieci anni fa, il nostro immaginario.
Sono storie che fanno la Storia. Gesti che diventano simbolo, voce, coraggio. Ma disegnano anche soluzioni possibili.
Il lato «epico» di questa vicenda ha un’altra faccia più complessa e a tratti torbida, fatta di annunci, smentite, menzogne, e che ha tirato in ballo – in una lotta impari – avvocati, giuristi, ministeri, fino alla «Commissione interamericana dei Diritti umani», che già nel lontano ‘97 dava ragione agli u’wa. Una faccia che ha indiscutibilmente segnato un’epoca e che ha cambiato le prospettive delle popolazioni indigene latinoamericane, che pure continuano a versare in condizioni drammatiche. Una storia emblematica quella degli u’wa, perché dice basta ad un sistema irrazionale ed inumano che, assassinando le popolazioni originarie, distrugge la nostra memoria e, con essa, la nostra speranza.

IL DILEMMA DEL RAPPORTO UOMO-NATURA
Gli indigeni u’wa, la «gente che sa pensare», come decine di popolazioni originarie colombiane, hanno rischiato di sparire dalla faccia della Terra molte volte: prima per i conquistadores spagnoli; poi, per la evangelizzazione forzata che – negli anni ’50 – strappava i bambini alle famiglie indigene, e li obbligava alla rinuncia del proprio patrimonio culturale, condannandoli ad una vita spuria «né da indigeno, né da bianco»; infine, con l’arrivo delle multinazionali del petrolio, che in meno di vent’anni – fra gli anni Sessanta ed Ottanta – si sono appropriate dell’83% delle terre indigene colombiane. 
«Oxy no, u’wa sì!» era il motto delle manifestazioni della campagna internazionale «las culturas con principios no tienen precio» (le culture con principi non hanno prezzo) che dalla Colombia aveva raggiunto Stati Uniti, Canada, Europa, fino all’Italia. Negli anni, tale campagna è stata minimizzata in tutti i modi dagli organi governativi colombiani. Ma, come era stato in Bolivia con la guerra dell’acqua di Cochabamba nell’aprile del 2000, la lotta degli u’wa contro la Occidental Petroleum Inc. metteva apertamente in discussione un modello fino ad allora indiscutibile. Aveva creato piccole crepe da cui però era riuscita finalmente a filtrare una luce: quella di un’alternativa, di un nuovo mondo possibile.
Il caso del popolo u’wa, ben prima che a livello internazionale si parlasse di cambio climatico, aveva imposto agli occhi di chi vuole vedere il dilemma del rapporto uomo-natura: da una parte uno Stato violento, disposto a spazzare via un popolo pacifico per qualche mese in più di rifoimento petrolifero agli Stati Uniti; dall’altra, gli u’wa, che si immolavano, pur di salvare il loro territorio ancestrale.
Berito Kuwaria, sciamano u’wa premiato più volte per aver capeggiato la battaglia del suo popolo, continua a ripetere ovunque i suoi piedi scalzi e i suoi occhi ridenti lo riescano a portare: «Attento riowa: la Terra sta soffrendo e si ribellerà. La Madrecita (la piccola madre, ndr) inizierà a  sanguinare».
Sono passati dieci anni e gli u’wa –  dopo un ragionato silenzio – sono tornati a parlare: nuovi megaprogetti (si legga alle pagine 38-39) minacciano l’integrità loro e del loro territorio ancestrale. La campagna «le culture con principi non hanno prezzo» è stata riattivata, perché loro sono Kajkrasaq Ruyina, i «guardiani della Terra».
IL «SANGUE DELLA TERRA»
È il 28 aprile del 1995 quando il giornale colombiano El Nuevo Siglo titola: «Cinquemila indigeni minacciano di suicidarsi», e completa la notizia con la storia della rocca «del orgullo tunebo» o «de los Muertos». Si racconta che durante la colonizzazione spagnola, los tunebos – altro nome degli u’wa – si fossero buttati a migliaia da un precipizio, pur di non finire nelle mani dei conquistadores. Compresi i bambini piccoli, messi in recipienti di ceramica e gettati dall’alto, ed ovviamente il cacique, il capo del popolo, che ultimo a buttarsi, coronò una montagna di cadaveri tanto grande da cambiare anche il corso del fiume sottostante.
Che il Nuevo Siglo, giornale a tiratura nazionale, sia arrivato a parlare del popolo u’wa e dell’atto estremo che minacciava, vuole dire che il testa a testa fra indigeni, industrie del petrolio e governo colombiano è giunto ad un nodo cruciale.
La storia era iniziata nel ’92 quando la multinazionale Occidental Petroleum Inc. – conosciuta come Oxy – ottiene di affondare i denti nel territorio indigeno u’wa. La compagnia statunitense con sede a San Francisco da quasi dieci anni gode assieme alla British Petroleum della grande ricchezza petrolifera dei territori intatti della Colombia. A est del territorio u’wa, la Oxy dall’85 succhia oro nero dal grande bacino chiamato Caño Limon. Dagli u’wa arriva assieme alla anglo-olandese Shell: con quote azionarie del 37.5%, entrambe entrano in Ecopetrol, società pubblica appartenente al governo colombiano. La prospettiva è l’estrazione di un miliardo e mezzo di barili di petrolio. Il luogo individuato è il «Bloque Samoré».  Gli u’wa insorgono disperati: il petrolio è per loro «ruiria», sangue della terra, estrarlo sarebbe come sgozzare una creatura e condannarla ad una morte atroce: «Tagliereste mai la vena del collo a vostra madre?», chiedevano increduli i werkajà, i saggi del popolo che vivono ritirati nella foresta.  Samorè è poi un luogo adibito ai rituali.
Il governo colombiano convoca la prevista consulta previa, così come da articolo 330 della Costituzione: «Le popolazioni indigene hanno diritto a partecipare nelle decisioni di sfruttamento delle risorse naturali nei loro territori». Di fatto, è un escamotage utilizzato per raggirare gli indigeni, ed estorcere loro accordi.
Il 10 gennaio del ’95 una delegazione composta da rappresentanti del governo colombiano (la direttrice generale dell’assessorato agli affari indigeni, alcuni assessori e membri del ministero dell’ambiente e di quello dell’energia) e della Occidental Petroleum Corporation, incontra ufficialmente una delegazione u’wa.

UOMINI ANALFABETI E VESTITI DI STRACCI
L’incontro, secondo gli atti riportati anche dalla antropologa Margarita Serje, si svolge ad Arauca.
Ci piace immaginare la scena. Un manipolo di funzionari, eleganti e visibilmente accaldati sotto il sole cocente delle pianure, arrivano con le loro Jeep presso gli uffici municipali. Li attendono 44 indigeni, vestiti di stracci ma con il portamento fiero e le corone degli incontri importanti sulla testa. Tra loro i «werjayas», le massime autorità tradizionali, appoggiati ai loro bastoni. Stanno tutti in silenzio.
La consulta previa si svolge come previsto. C’è il presidente della Occidental Petroleum, Guimer Domínguez, che dice:  «Troveremo velocemente il modo di uscire da questa situazione». La sua impresa ha sedi in Colombia, Russia e Pakistan.
Si sbaglia: analfabeti ma tutt’altro che sprovveduti, i 44 rappresentanti aborigeni  rifiutano di firmare qualsiasi accordo. Non si fidano delle parole dell’uomo bianco: quasi sempre menzognere. Fra il ‘93 ed il ’94, la Oxy si era preoccupata – vista la rigida Costituzione colombiana – di organizzare 33 incontri «previ», ma con singole persone u’wa. Con spregio delle autorità tradizionali religiose e dell’apparato politico con cui sono organizzate le comunità.
Gli u’wa, consci delle possibilità infime di poter vincere un simile confronto, passano all’azione. Con molta dignità, minacciano il suicidio: «Fino a che un ultimo u’wa vivrà, combatterà per la salvezza della Madre Terra», dicono. Avvocati amici, attivisti si schierarono apertamente al loro fianco. Parte una campagna internazionale che agglomera rabbia e speranza di tanti. Assieme, inizia la causa per frode che vede gli u’wa contro la Oxy. E succede il miracolo: la Corte costituzionale colombiana dà ragione agli u’wa. Che si appellano alla «Commissione interamericana per i Diritti umani». Inizia un balletto di carte, sentenze, ammissioni e ritrattazioni. Le multinazionali lasciano il Blocco Samorè. Ma non è finita.

ELICOTTERI, LACRIMOGENI,
CINGOLI DI METALLO E SCARPONI MILITARI
Nel 2000 il Dipartimento di stato statunitense stanzia 1,6 milioni di dollari per armare le forze dell’ordine, che addestreranno quelle colombiane. La mattina del 19 gennaio, il governo colombiano entra con l’esercito nel territorio u’wa. Qualche giorno dopo, sferra l’attacco: 5.000 soldati sono mandati a fronteggiare 5.000 indigeni seminudi e disarmati, mentre la Occidental avanza con le sue ruspe verso il Gibraltar 1, un pozzo fatto scavare a poche centinaia di metri dai confini del territorio u’wa. È un macello. Una bambina di quattro mesi muore asfissiata dai gas lacrimogeni, 3 ragazzini annegano nel Rio Cubucòn mentre fuggono da un attacco stile Apocalyps Now, con elicotteri e lacrimogeni. Undici guahibos, indigeni giunti in appoggio alla causa degli u’wa, spariscono nel nulla, così come una neonata, strappata dalle mani della giovane madre mentre viene arrestata. L’esercito circonda i villaggi e sequestra i werjayà portandoli via con gli elicotteri: «O fate passare i macchinari per le trivellazioni, o non rivedrete più i vostri sacerdoti». Il cordone umano di uomini e donne – soprattutto donne – che si era formato per bloccare la strada alle trivelle, deve aprirsi. Cala il silenzio. Solo il suono della Natura mortificata sotto i cingoli di metallo e gli scarponi militari.
Le donne non piangono. Fissano i soldati negli occhi. Una di quelle donne è Daris Maria Cristancho.

Francesca Caprini

Francesca Caprini




«Minacciati, criminalizzati, censurati»

Danilo Rueda (Commissione giustizia e pace)

Nella spirale della guerra: popolazioni native, campesinos, sindacalisti, organizzazioni dei diritti umani.

«In Colombia è sempre grave la situazione dei diritti umani. In questo panorama, la Comisión de Justicia y Paz lavora da anni per la verità, la giustizia, la ricostruzione e la memoria. Accompagnando comunità rurali in varie zone della Colombia, permette la difesa  della vita, dei diritti umani e dell’ambiente, attraverso la creazione di zone umanitarie e per la biodiversità, assieme alle comunità locali. Secondo una fonte, contro i membri della Commissione Giustizia e Pace è in atto un piano di attacco su due fronti: uno giudiziario e mediatico ed un altro persecutorio, con la complicità di agenti dello stato. Coloro che traggono vantaggio dalla violenza paramilitare per ottenere i noti benefici provenienti dal commercio della palma, dall’allevamento intensivo e dalla coltivazione dei banani, si occupano anche di screditare il lavoro di coloro che difendono i diritti delle comunità, sfollate e danneggiate proprio da queste stesse imprese. Ancora una volta, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani è vittima di un attacco. Questa situazione in Colombia non è eccezionale. Coloro che vorrebbero continuare ad agire nella totale impunità si vedono “minacciati” dal lavoro delle organizzazioni della società civile. Per questo, sempre di più, i difensori dei diritti umani e dell’ambiente sono minacciati, criminalizzati o censurati, per ostacolare il loro lavoro».
Questo è parte di un comunicato del settembre scorso, che denunciava apertamente le minacce subite da membri della Commissione Interecclesiastica Justicia y Paz (CIJYP).  Da più di dieci anni questa associazione si occupa dell’accompagnamento delle comunità indigene e contadine «desplazadas», nei territori dai quali sono state allontanate con la violenza dalle organizzazioni paramilitari.
Come molte associazioni per i diritti umani in Colombia, Justicia y Paz vive in uno stato di assedio. In media, in Colombia viene ucciso un attivista al mese. Amnesty Inteacional calcola che ogni anno circa 1.500  civili rimangano uccisi nel conflitto armato che insanguina il Paese da oltre mezzo secolo. Quasi 200 sono le vittime di sparizioni forzate, soprattutto nel sud del Paese, particolarmente colpito a causa dei combattimenti in corso tra le forze di sicurezza, paramilitari e i gruppi della guerriglia. Gli sfollati a causa del conflitto hanno dovuto affrontare condizioni di profonda e radicata discriminazione ed emarginazione, che hanno reso ancor più difficile per loro accedere a servizi di base come sanità e istruzione. I gruppi della guerriglia e paramilitari reclutano forzatamente bambini. Anche le forze di sicurezza utilizzano bambini come informatori, contravvenendo alla Direttiva del 2007 emessa dal ministero della Difesa che proibiva l’impiego di bambini per scopi di intelligence. Ogni anno, altre 300 persone sono vittime di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza. I paramilitari al soldo delle imprese straniere che operano in Colombia per petrolio, agrocombustibili, attività di estrazione mineraria, commercio di banane e di zucchero, e naturalmente per il narcotraffico, continuano a uccidere civili e a commettere altre violazioni dei diritti umani, a volte con il supporto o l’acquiescenza delle forze di sicurezza. Si calcolano fra i 400 ed i 500 morti ammazzati ogni anno per mano loro.
Nel 2009, oltre 180 uccisioni di civili sono state attribuite ai gruppi della guerriglia. Almeno 46 sindacalisti sono stati uccisi nel corso dell’anno passato, 20.000 le sparizioni forzate ed un numero di sfollati in costante crescita (oltre 4 milioni): solo nell’anno scorso,  i nuovi sfollati sono stati oltre 286.000. Tra i maggiormente colpiti sono risultati i popoli nativi, gli afro-americani e i campesinos (contadini).  Il governo si è rifiutato di appoggiare un progetto di legge sulle vittime del conflitto, che avrebbe garantito loro dei risarcimenti.
In particolare, sono le popolazioni indigene – ridotte a meno del 2% della popolazione colombiana – a soffrire delle violenze e dell’impunità di chi le compie. Nel corso della sua visita in Colombia, il Relatore speciale delle Nazioni Unite ha descritto la situazione dei diritti umani che le popolazioni native si trovavano ad affrontare in Colombia come «un grave, critico e profondo motivo di preoccupazione».
Durante l’anno sono stati uccisi 114 tra uomini, donne e bambini nativi. E sono solo i dati ufficiali.
Questo è il desolante scenario in cui i difensori dei diritti umani devono operare. Ma, a sentire loro, ne vale la pena. Come racconta Danilo Rueda, che lavora per la Comisión de Justicia y Paz.

«L’accompagnamento ai desplazados, gli sfollati a causa della guerra, che noi operiamo, è diretto e permanente e si realizza attraverso un gruppo di lavoro che garantisce la propria presenza nella zona di conflitto: noi viviamo e condividiamo la vita con le comunità che assistiamo. Questo ha permesso ai componenti della Commissione una conoscenza profonda delle realtà di ogni comunità, delle famiglie che la compongono e delle necessità di ognuna di loro. E quindi anche di denunciare e visibilizzare le violazioni dei diritti umani perpetrati in queste zone al fine di creare uno scudo, umano e mediatico, in difesa delle comunità. Lavoriamo per il miglioramento del benessere comunitario attraverso la sicurezza alimentare, la costruzione di infrastrutture comunitarie e familiari, l’appoggio psicosociale, la difesa del territorio: per questo costruiamo abitazioni e scuole, acquedotti comunitari, sistemi igienico sanitari, orti comunitari per il recupero e la valorizzazione delle sementi autoctone. Inoltre sono stati avviati processi comunitari di protezione ambientale, conservazione del territorio, della cultura e della memoria».
Danilo Rueda non sta passando un periodo facile. Qualche tempo fa era in moto ad un semaforo. È stato raggiunto ed affiancato da una serie di motociclisti che semplicemente gli hanno detto: «Smetti di occuparti di quello che stai seguendo. O sei morto». Era vicino a casa sua. Ha preso moglie e i due figli e ha cambiato, di nuovo, abitazione.
«Non ti ci abitui mai. La paura è tanta. Ma è il nostro lavoro – racconta Danilo -. Ma quando poi un solo uomo, una sola donna, un solo bambino che noi proteggiamo, ti dimostra che hanno capito cos’è la dignità, sai che ne vale la pena».  
Gli chiediamo di raccontarci della Colombia con il nuovo presidente, Manuel Santos: «Gli ultimi 8 anni sono stati una sintesi del modello di repressione colombiano. La militarizzazione della maggior parte dei territori attraverso il programma di “sicurezza democratica” portato avanti dall’ex presidente Uribe, ha provocato la frammentazione delle popolazioni e ha abusato della cornoptazione dei falsi testimoni. Difatti, la commissione JyP si sta esponendo molto proprio perché sta riuscendo a documentare con elementi probatori e giuridici le violazioni ai diritti umani delle multinazionali. Nelle carceri ci sono 8.500 persone detenute illegalmente. Con Santos pare esserci più dialogo, ma di fatto la linea politica segue nel solco del predecessore e la pressione militare continua: assistiamo ad una implementazione del paramilitarismo – in particolare nel Chocò – e ad una sua istituzionalizzazione per un maggiore controllo sociale e militare dei territori. Aumenta la violenza sociopolitica, col pretesto della lotta alla guerriglia. In verità, è tutto in nome della sicurezza per gli investitori stranieri, mentre il 20% dei colombiani sono poveri, 8 milioni sono in condizione di miseria, l’accesso all’acqua potabile è un lusso».

La politica economica dell’Unione Europea, l’accettazione del TLC (Trattato di libero Commercio), quanto incide nella situazione dei diritti umani colombiani e sulla difesa delle zone di biodiversità?
«La crisi energetica dell’Europa ha oggi un motto: “consumiamo verde”. Che in Colombia si trasforma in “produciamo verde”, nel senso della coltivazione di biodiesel ed agrocombustibili come l’olio di palma. Questo significa sfollamenti forzati, confisca delle terre alle popolazioni originarie, paramilitarismo. Oltre che la distruzione di aree d’interesse forestale e di biodiversità».

Quali sono le vostre vittorie?
«Le zone umanitarie funzionano (zone che JyP fa riconoscere e struttura perché siano prive di militarizzazione, ndr), e stiamo riuscendo a fare ottenere la consulta previa a molte comunità indigene.
E la gente ha voglia di lottare, non molla. Due milioni di contadini stanno affrontando un processo per ottenere la restituzione delle loro terre. Su quello abbiamo meno speranza: la politica estrattivista delle società minerarie, sostenuta dal governo, non guarda in faccia nessuno».

Che chiedete e che sperate?
«Per noi non può esserci soluzione militare al conflitto colombiano. E noi non perdiamo la speranza. Quando ci minacciano, penso ai miei figli. Ma poi penso che sto facendo questo anche per loro. È il rischio di lottare per la democrazia. E per un sistema e per un mondo che così, non possono andare avanti».

                                    Francesca Caprini

Francesca Caprini




Cosmogonia e resistenza

L’oggi

Daris e Berito sono leader u’wa conosciuti anche all’estero. La nostra collaboratrice, ospite del resguardo, racconta la sua coinvolgente esperienza con la comunità. Una comunità in cui la Terra è la madre che dà tutto. Per questo essa va rispettata e difesa, soprattutto quando il nemico è quell’«uomo bianco» che non sa e non capisce. La distruzione del territorio significherebbe la morte certa del popolo u’wa, ma anche una nuova ipoteca sul futuro dell’umanità tutta.

«L’hortigo è la nostra carne», dice Daris, mentre strappa con sapienza una pianta simile alle nostre ortiche, ma con le foglie molto più larghe e caose. La scova in mezzo ad un groviglio di tante altre: «Gli u’wa che vivono vicino alle montagne sono quasi vegetariani e cacciano poco. Kakina è lo spirito degli animali e si arrabbia. Per questo, bisogna digiunare per tre giorni prima di cacciare».
Probabilmente i lettori non avranno idea di quale intrinseca soddisfazione possa provare una riowa, una bianca, straniera e vegetariana, nel trovare un posto (almeno uno in America Latina), dove invece di ridere o guardarti con stupore quando spieghi che «no, la carne no», ti dicono: «Capiamo perché non mangi carne. Con tutta la violenza che i vostri poveri animali devono subire in Europa. È come mangiare la loro sofferenza», e te lo dicono allungandoti una tazza di zuppa con piante e tuberi sconosciuti, calda e gustosa e, a quanto pare, molto nutriente.
Daris Cristancho è della comunità u’wa di Bachira, una delle più integre perché meno contaminate dal mondo esterno. Quando va a trovare i suoi, Daris cammina quattro giorni da Cubarà, attraverso vallate e risalendo montagne, fino ad arrivare a 4.000 metri, dove le pendici del ghiacciaio Cocuy cominciano ad essere imbiancate dalle nevi perenni lasciandosi indietro i paramos1 gonfi d’acqua e di leggende. Là vive la sua famiglia. Daris è quella che si dice una leader: impegnata per il suo popolo e per i diritti delle donne indigene. Assieme a Berito Kuwaria, il viso inteazionalmente riconosciuto della lotta degli u’wa e premio Goldman2 nel ’98,  cura i rapporti inteazionali. Gira il mondo, partecipa a conferenze, ma poi torna sempre qui, nel Resguardo unido, nella sua terra e dai suoi cinque figli, e nella scuola indigena dove è insegnante.
«Mia nonna quando ero piccola mi ha detto che avrei difeso il mio popolo – ci racconta – e questo è stato e sarà il mio destino». Camminiamo lungo il sentirnero che ci porta verso la comunità di Fatima, una delle prime comunità u’wa che s’incontrano all’interno del territorio ancestrale. La gente si sta preparando ad un rituale che durerà tutta la notte e mentre camminiamo chiacchierando, frotte di bimbi eccitati ci superano correndo.
Con Daris era qualche anno che non ci si vedeva. Abbiamo deciso di metterci in viaggio per el Planeta Azul (il pianeta azzurro, altro nome del territorio ancestrale), rispondendo ad una chiamata delle autorità u’wa: il popolo è pronto ad un nuovo levantamiento. Ovvero, si sta preparando per altre battaglie. L’appello era arrivato a gennaio 2010. In maggio siamo partiti.

Finalmente… la foresta
La pressione della politica estrattivista dell’ex presidente Alvaro Uribe – raccolta e portata avanti nel segno della continuità dal nuovo primer mandatario, Manuel Santos – si è fatta insostenibile. E la tensione militare che alberga in ogni angolo del Paese, qui è doppia. La scia del quasi decennale programma di «sicurezza democratica» di Uribe, che ha sdoganato eserciti paramilitari come le Autodefensas Unidas de Colombia; la militarizzazione dei territori sotto l’egida del Plan Colombia3 statunitense: le condizioni favorevoli alle multinazionali che mirano al saccheggio dei sottosuoli più ricchi del mondo. «Come volpi – ci dice Ramiro, un giovane u’wa che fa parte del cabildo mayor – hanno atteso che l’attenzione internazionale sulla vicenda del mio popolo scemasse. Ora si preparano ad azzannare».
Per incontrare l’antico popolo u’wa bisogna aspettare il responso dei werjayà, i saggi che vivono sulle montagne. E poi quello del cabildo mayor, la massima autorità politica. Entrare nel territorio sagrado (sacro), vuol dire contaminarlo, e ci sono delle procedure da seguire. Prima di entrare nel territorio u’wa, per qualche giorno ci dobbiamo fermare a Cubarà, una cittadina appena fuori dal resguardo. Pattuglie di militari la percorrono ininterrottamente, e ad ogni ora del giorno e della notte. A Cubarà non veniamo mai lasciati soli. I werkajà hanno raccomandato prudenza e i nostri amici u’wa non prendono sottogamba simili avvertimenti e ci accompagnano in ogni nostro minimo spostamento. Gli eserciti guerriglieri – le fitte foreste che ci circondano sono habitat ideale per l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) e per le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) – pattugliano i dintorni. È ancora fresco il ricordo dei 3 volontari ammazzati dalle Farc nel ‘99, fra cui Terence Freitas, cornordinatore della campagna «La cultura con principios no tiene precio» in difesa del popolo u’wa. Cubarà è inoltre un punto strategico per l’esercito colombiano. Ovunque, nella cittadina polverosa che nulla offre se non una piccola scuola e l’essere un crocevia di merci, ci sono occhi che, per una ragione o l’altra, non ci perdono di vista.
Quando finalmente riusciamo ad entrare nel Resguardo unido u’wa, tiriamo un respiro di sollievo. Benché sia solo calma apparente quella che si vive nelle foreste, stare a contatto con questo popolo regala immediata serenità.
Daris è come sempre sicura di sé e sorridente. In 10 anni – tanti sono passati da quando, con la figlia più piccola fra le braccia, affrontava l’inferno che il suo governo aveva scagliato contro il suo popolo per l’occupazione del pozzo Gibraltar 1 –  non è cambiata: noi l’avevamo conosciuta qualche anno dopo . È sempre bella. E riflette la spontanea meraviglia della sua stessa terra, che mescola fiori e foreste impenetrabili, montagne innevate e piante pluviali. E la sensazione di essere ai primordi del mondo, assieme alla consapevolezza di essere in un avamposto di resistenza.
Qui la natura è potente perché libera ed incontaminata. Le scimmie araguaro urlano d’amore fra gli alberi mentre noi camminiamo all’imbrunire lungo i torrenti che scendono dalla Cordillera andina. Se è vero che il Kajka Ika è per gli u’wa il cuore del mondo, questo cuore pulsa forte. Mai ci siamo trovati in una terra così bella e intatta. Ad oggi, il resguardo è poco meno del 20% di quello che una volta fu il territorio ancestrale u’wa. Si estende per 225.000 ettari circa, e comprende quattro fasce climatiche. Questi pisos termici, così come qui vengono chiamati (letteralmente, piani termici) sono fondamentali per la vita e la cosmogonia della popolazione, che sigla ogni momento della vita comunitaria con rituali e digiuni che devono essere ripetuti in ogni fascia climatica.

STORIA DI DARIS, LA DONNA CHE SA PARLARE  A TUTTI 
La storia di Daris è delicata e complessa. Lei è figlia di un abuso subito dalla madre ad opera di un bianco. Suo padre era uno dei tanti che, durante la guerra civile colombiana, negli anni ’50, si nascosero nei territori degli u’wa, creando scompiglio e seminando violenza. Daris è dunque una «meticcia». Per questo – perché «contaminata» – fu allontanata come un pericolo dalla sua comunità d’origine quando era molto piccola. Verso i 7 anni, venne però richiamata per ordine delle autorità religiose, che la sognano defensora del pueblo. Quando ritorna fra la sua gente, non sa una parola di u’wa. Ha paura di tutto. Ma la madre e la nonna – una curandera molto capace –  le danno la forza che le serve per farsi accettare. Daris cresce con una certezza: lei si sarebbe dovuta battere per la salvezza dei suoi. Studia, si laurea, elabora quella capacità istintiva che ha di parlare alla gente. E il suo essere «meticcia» la predispone al dialogo con gli riowa.
Chissà se è per la forza che le donne della sua famiglia le hanno trasmesso. Ma Daris capisce bene che la salvezza del suo popolo passa per il rafforzamento delle donne u’wa. Crea una fondazione al femminile che si chiama Ambaya (le api). Vuole fornire gli strumenti alle donne u’wa per diventare «leaders», per poter studiare. E per poter continuare a vivere come loro vogliono: nel territorio sacro, in pace, con una natura che proteggono, cantano e amano come una madre. E continuando a sviluppare il proprio artigianato – connesso anch’esso al mondo cosmogonico. «Il popolo indigeno u’wa gestisce il proprio territorio attraverso politiche fondate su principi ancestrali», racconta, mentre mi porta ad incontrare le rappresentanti delle donne delle 17 comunità che compongono il popolo u’wa. Spiega come valori di rispetto e di armonia con la natura compenetrano i differenti settori del tessuto sociale: il territorio, l’autonomia, la salute, l’educazione, i nuclei abitativi, l’educazione ambientale. Identità culturale che si riflette nell’elaborazione e nella realizzazione dei prodotti artigianali. A causa degli invasivi processi di colonizzazione ed evangelizzazione che ha sofferto il popolo u’wa, gran parte delle pratiche culturali e artigianali rischiano di scomparire nella maggior parte delle comunità che compongono il territorio u’wa. La fondazione Ambaya vuole da una parte rafforzare il ruolo delle donne e dall’altra, difendere i valori, i principi e i significati ancestrali della cultura u’wa trasmettendoli alle nuove generazioni. «Per noi i bambini sono un dono e il nostro futuro: noi donne abbiamo il ruolo fondamentale di trasmettere i saperi, le conoscenze che fino ad oggi ci hanno permesso di difendere il nostro mundo–centro (centro del mondo, il territorio u’wa) e difenderlo», dice ancora Daris, dimostrando, col suo progetto e la sua determinazione, il grande coraggio che possiede.
Le donne u’wa riunite nella Casa de la sabiduria («Casa dei saperi») sono almeno un centinaio, alcune venute a piedi da comunità lontane tre giorni di cammino. Si distinguono fra loro le differenti tribù: kuwar’uwa, tigria’s, aguablanca come nuclei principali. La grande capanna che ci riunisce è fresca ed accogliente, e negli angoli, intimiditi, i bambini filano il fique per fare le chacaras4  con la testa bassa, lanciandoci ogni tanto uno sguardo divertito.
Daris ci illustra le attività e ci fa vedere la piccola sartoria che permette ad alcune donne u’wa di farsi dei vestiti per poter andare al mercato a barattare oggetti artigianali per qualche alimento, sale e frutta per lo più.

La «MADRE TERRA» E LA LUNGIMIRANZA                                                DEGLi u’wa
«Se voi siete qui fate parte del nostro pensiero – ci dice -. Sono più di sessant’anni che noi u’wa combattiamo per difendere la nostra cultura e più di 500 per la nostra sopravvivenza. La Madre Terra ci dà tutto, ci dà da mangiare, ci dà la vita. E noi dobbiamo difenderla. Noi siamo i “guardiani della Terra”». Il discorso che Daris fa davanti alle sue compagne è appassionato. Bisogna tradurlo tre volte, in spagnolo e nei due principali dialetti u’wa. «Vi chiedo: cosa stiamo pensando di lasciare ai nostri figli? Io non vivo fuori dal mondo, so che il denaro serve. Ma quando la terra non darà più frutti, l’acqua sarà troppo contaminata, le sementi troppo stanche per crescere, che pensiamo di fare? Qual è il nostro progetto? Questa è la grande tristezza che noi proviamo. Per questo noi cantiamo molto per la Madre Terra, per cercare di lenire il suo dolore, che in questo tempo è grande. Noi u’wa siamo stati incaricati di proteggere  la terra, l’aria, l’acqua. Per questo, siamo in un processo di lotta e resistenza».
Ecco dunque che il «progetto» u’wa si mostra in tutta la sua lungimiranza. Viene descritto con il loro linguaggio, che è colori ed immagini. Ma la proposta politica è molto chiara: bisogna smetterla di alimentare questo sistema economico irrazionale ed iniquo. Bisogna smetterla di martoriare la Terra.
Il discorso di Daris spinge le donne ad aprirsi e a perdere la naturale timidezza che le contraddistingue. Ci chiedono di visitare le loro abitazioni nascoste nella fitta foresta pluviale, le case dove fanno i digiuni – capanne basse con il tetto spiovente fatto di foglie dove per almeno cinque volte l’anno si intraprendono lunghi ayunos (digiuni) purificatori; i piccoli campi coltivati a fagioli, yucca, patate.
Andiamo con loro ed andiamo in un paradiso. Ogni microclima dei quattro che caratterizzano il territorio ancestrale u’wa, ha le proprie piantagioni utili all’alimentazione e per le cerimonie religiose. I rituali hanno una funzione stabilizzatrice, nella ricerca di un costante equilibrio. Gli u’wa coltivano poco e a rotazione. Non vogliono stancare la terra. Per trovare i loro campi, dobbiamo seguire la fila colorata di donne coi bambini legati dietro la schiena con una fettuccia fissata sulla testa. «Quest’acqua si può bere, questa no», e indicano questo o quel ruscello. «Qui ci sono i pesci!» grida Claudia, una giovane con gli occhi grandi e le collane azzurre che vogliono augurare fertilità. Con l’acqua alle ginocchia e un po’ di pazienza ci dimostra come si prendono i pesci con le mani. Ogni piccolo pesce che prende, lo mette in bocca dalla parte della testa. Poi l’infila uno con l’altro con una pagliuzza e se li mette al collo per trasportarli. Ingrid – ognuna ha anche un nome u’wa, ma il primo è per forza in lingua spagnola – ci fa vedere più avanti il campetto di piante di coca che usano per i riti. Jolanda ci mostra come col machete e la corteccia di un albero si fanno le pentole. Ascoltiamo gli uccelli, perché portano messaggi. Stiamo in silenzio quando attraversiamo certi luoghi. In altri, cantiamo.
Ridono, le donne u’wa, con la frangetta e gli occhi asiatici. Camminano a piedi scalzi con tale leggerezza che paiono non piegare l’erba. «Hai visto? Questi sono i nostri dollares!». Compare nel fogliame lo sciamano Berito: «Questi sono i nostri soldi: i bambini, gli alberi. E l’allegria». Tira fuori la maracas dei suoi canti, e racconta: l’universo era diviso in due, un mondo di sopra, luminoso e secco, e un mondo di sotto, buio ed umido, il primo bianco, il secondo rosso. Dopo «il grande movimento» si formò un mondo di mezzo, e assieme ad esso, il giallo e l’azzurro. «Noi siamo i guardiani che curano questo mondo. Se il mundo– centro degli u’wa sparisce, muore l’universo».  Per gli u’wa, la magia ed il soprannaturale non sono realtà distinte dalla vita quotidiana e sociale. Le malattie, la morte, i conflitti, irrompono quando l’equilibrio è alterato. Gli alimenti devono essere puri e consumati nei giusti momenti dell’anno. I digiuni e le purificazioni sono parte fondamentale della vita rituale.
Può questo paradiso perfetto resistere? Può sopportare una mentalità guerrafondaia, violenta e distruttrice? Eppure qui ci si sente tranquilli e forti. E sinceramente, proprio non viene da rispondere di no.

LA DISTRUZIONE AVANZA:
GASDOTTI, AUTOSTRADE, FUNIVIE
«Nuove battaglie ci aspettano. Guarda le montagne, non si vedono: questa nebbia perenne le copre. È el micero del gas che brucia notte e giorno. E il cielo da mesi non è più lo stesso». Daris è preoccupata, e molto. «Ecco perché il cabildo mayor è sul piede di guerra: il gasdotto brucia la nostra aria. Cambia il nostro clima. Non piove più».
Con una grande marcia – una minga –  lo scorso anno in ottobre oltre 2.000 u’wa hanno manifestato contro lo sfruttamento delle risorse naturali nel loro territorio. Sotto un sole cocente hanno percorso la lunga strada che da Arauca arriva fino alle province di Santander e Norte di Santander cantando: «Gli u’wa davanti a Dio e al Mondo marciano per la vita. Gli indigeni d’America di fronte all’invasione: resistenza, resistenza, resistenza!».
I megaprogetti che minacciano immediatamente la sopravvivenza di questa popolazione, che con i suoi 6.000 abitanti è una delle decine  a rischio d’estinzione della Colombia, sono principalmente tre, ed in cima a tutto, ancora, c’è il petrolio.
La statale Ecopetrol – che dal 27 agosto del 2007 ha cominciato ad essere venduta ai privati, e di «statale» è rimasto ben poco – non ha mai interrotto le attività estrattive in territorio u’wa. La Oxy ritirandosi ha ceduto le azioni alla compagnia colombiana, che ha continuato – con argomenti inaccettabili –  a promuovere attività estrattive intense. Uno di questi argomenti era che le aree di perforazione non fossero «territorio abituale degli u’wa». Pur sfiorando il resguardo – a 400 metri vive un nucleo di famiglie indigene –  vi entra di sbieco sotterraneamente. D’altronde, è la stessa Agenzia nazionale degli idrocarburi che afferma come questi pozzi siano «di interesse nazionale». Dopo i Gibraltar 1, in barba alla stessa legge statale sono stati scavati il 2 e il 3, senza che la comunità fosse mai consultata. Il «Gibraltar 3» si è portato dietro un miniplotone di militari, che stazionano stabilmente nel territorio. La Ecopetrol manda regolarmente emissari che cercano di dividere con regali e promesse, le piccole comunità più esposte e ricattabili. La giostra ha ricominciato a girare. In verità non si era mai fermata.
Il secondo progetto è la costruzione di un’autostrada che dovrebbe segare in due il territorio u’wa: è la carretera binacional fra Venezuela e Colombia, che passerebbe esattamente sopra tutti i luoghi per i rituali. Infine, il Parco nazionale del Cucuy. La montagna sacra, il punto più intoccabile, il ghiacciaio che è il mundo-blanco: un progetto di «ecoturismo» prevede un ampliamento del Parco nazionale del Cocuy  nel territorio u’wa. Secondo il governo, ci si dovrà costruire una funivia. La «Unidad de Parques nacionales naturales», assieme al ministero degli Intei e a quello di Giustizia, da tre anni cerca di portare avanti il processo della consulta per modificare il decreto 622/77. Ma gli u’wa hanno sempre rifiutato un incontro che per loro è basato fin dalle fondamenta sulla menzogna: «Durante la Settimana santa passano nel Parco nazionale oltre 1.000 turisti a settimana. Sotto il Cocuy è poi nota la presenza di una riserva immensa di oro, rame, ed acqua. Ma a chi la vogliono raccontare? E ci vengono a dire che è per il bene della montagna, perché noi non la sapremmo tenere bene. Il Cocuy è la nostra montagna. E noi la proteggeremo», raccontano quelli dell’AsoUwa, associazione che rappresenta politicamente la maggioranza delle comunità u’wa.
 
«IL PROGRESSO È vivere in armonia
con la terra»
 «Con la scusa di questi progetti, ci militarizzano. Uomini armati attraversano continuamente il nostro territorio con i loro pensieri di morte» spiega Daris. «Ma noi andiamo avanti sicuri del nostro compito nel mondo, anche se loro ci danno già per scomparsi, per finiti. Solo perché vogliamo andare avanti seguendo i dettami e la filosofia che da sempre ci ha contraddistinto: vivere in armonia con la Terra, con gli elementi della natura, rispettandoli. Questo per noi è il progresso. So che per voi è difficile pensare che esistano persone, popolazioni, che vivono come migliaia di anni fa. Tra di noi u’wa c’è chi non ha mai visto un’automobile e non sa cosa sia una lampadina. Ma è una nostra consapevole scelta. Io sono la prima donna u’wa ad uscire dal territorio e viaggiare. Ma vivo gran parte della mia esistenza nelle comunità u’wa, perché la memoria del proprio popolo va protetta e mai dimenticata. Il mio sogno è che ogni donna u’wa possa pensare di poter essere una leader, e parlare, lottare, viaggiare, partecipare ad incontri inteazionali in appoggio al nostro popolo. Dieci anni fa ci scontrammo con una grande multinazionale del petrolio, la statunitense Occidental Petroleum Inc. Le donne marciarono e si opposero con forza a tanta violenza. Da allora, io lotto perché la forza di quelle donne sia riconosciuta e valorizzata all’interno del “popolo che sa parlare”». Ci fissa con i suoi occhi neri e ci assicura: «Anche per questo so che sopravviveremo. Gli u’wa camminano lenti, ma sicuri».
Fa impressione pensare che il mondo degli u’wa potrebbe venire distrutto per dare quattro mesi in più di petrolio agli Usa (tanto è quantificato il giacimento individuato sotto il mundo–centro). Secondo quanto diffuso dal ministero dell’Energia, in Colombia hanno non più di tre anni di rifoimenti petroliferi. Poi dovranno importare. La politica petrolifera colombiana si sta così rendendo flessibile per creare uno scenario proficuo agli investimenti stranieri. Questo, fra le altre cose, vuol dire incentivare le perforazioni «per l’interesse nazionale». Con le buone o con le cattive. Poco importa se gli u’wa continuano a dare lezioni di vita, insegnando che la loro lotta non è contro la Oxy o la Ecopetrol, ma contro un modello economico che vuole la loro morte e quella dell’equilibrio naturale. Poco importa se gli u’wa sanno che essere «guardiani della Terra» non significa difendere il territorio per se stessi, ma per l’umanità intera, che ha nelle popolazioni indigene la sua ultima speranza. E non per folklore. Ma perché davvero, la loro lucida proposta politica – è necessario vivere tutti e con meno, nel rispetto dello stesso mondo che ci dà i suoi frutti, appunto «cambiando il modello, non il clima»  – è l’unica percorribile.
Noi siamo già con loro. Siamo nel mundo-centro. Con Daris, le donne, Berito che canta, i suoi dollares – i bambini -, che ci corrono attorno. Ci avviamo verso la grande capanna di legno per il rito atavico che durerà tutta la notte. Noi saremo battezzati come nuovi u’wa, io riceverò il nome di Abouswia, «madre delle acque». Il rito serve per ringraziare la Madre Terra dopo la semina. Il nome, per sentirci u’wa anche noi. Ed avere speranza.

Francesca Caprini

 
NOTE

(1) Paramo: ecosistema tipico delle Ande. Di fondamentale importanza per la conservazione dei meccanismi idrogeologici. Si sviluppa alla fine dei boschi e all’inizio delle nevi perenni.
(2) Premio internazionale concesso ai difensori dell’ambiente: www.goldmanprize.org.
(3) Nel 2000 viene varato il Plan Colombia. Ufficialmente un accordo tra Stati Uniti (amministrazione Clinton) e Colombia che prevede l’invio di consulenti civili, militari e finanziamenti per combattere la produzione di droga nel paese. Per molti, la longa manu militare degli Usa in Colombia.
(4) Tipica borsa tessuta con i filamenti della pianta del fique intrecciati. Serve per trasportare ciò che serve per i riti. È un lavoro destinato ai bambini maschi.

Francesca Caprini




Anima orientale, ambizioni europee

NON SOLO ORGOGLIO 

Guidata da un partito islamico moderato, la Turchia è un paese in pieno fermento, come dimostra anche il referendum del 12 settembre 2010. Pur aspirando a diventare la nuova guida del mondo islamico, i governanti di Ankara vorrebbero avere rapporti privilegiati con la vicina Europa. Ma le distanze culturali e le diffidenze europee per ora sembrano prevalere.

L’aereo volteggia sul Mare di Marmara. Davanti a noi s’apre una distesa di luci sparse su un lembo di terra tagliata dal Bosforo. Al di là, si estendono le acque del Mar Nero. È Istanbul, la bella. La città dalle splendide moschee e dai mille minareti svettanti contro il cielo. La Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dell’Impero Romano d’Oriente e la Istanbul ottomana: antica capitale ricca di storia e di cultura e da sempre ponte tra Occidente e Oriente.
Aggirarsi per le sue vecchie strade e per le sue piazze affollatissime, osservare le sue case di legno, le sue facciate decadenti ma piene di fascino è come fare un tuffo nel passato, stando, paradossalmente, ben ancorati al futuro.
La città e il resto della Turchia, infatti, sono in pieno fermento culturale, politico, sociale ed economico. Una condizione che le distingue molto dagli altri stati della stanca e asfittica Europa, a crescita zero o sottozero e soffocata da un malessere generalizzato.
Qui si respira un’aria di freschezza: sarà per la presenza di tanti bambini e giovani; sarà per la voglia di cambiamento e la speranza nel futuro, ma una cosa è certa, questa regione del pianeta qualcosa di nuovo ha in serbo per i suoi 76 milioni di abitanti.
Quartieri modeissimi e antichissimi si contendono il vasto territorio su cui è costruita Istanbul: la convivenza di passato e futuro è tra gli aspetti più appariscenti di questa metropoli mediterranea.
Dell’antica grandezza bizantina, e poi ottomana, si scorgono tracce dovunque, anche nella fierezza del popolo che, in questi anni, sta ritrovando il perduto orgoglio di «guida» del vasto mondo islamico, e arabo, dominato da dittatori e monarchi invisi ai propri stessi popoli.
La Turchia è infatti balzata alla ribalta per le posizioni «terzomondiste» e mediorientali, per il sostegno al popolo palestinese, per l’amicizia con l’Iran, con le repubbliche latino-americane, e per aver sottratto il ruolo di mediatore nei conflitti del Vicino e Medio Oriente all’Egitto, Stato arabo la cui immagine è andata ormai distrutta dall’ostentata sudditanza agli Usa e a Israele e dalla trentennale dittatura del clan Mubarak.

L’atipicitÀ DEGLI ISLAMICI turchi E LE PAURE DEGLI EUROPEI
La Turchia musulmana, ben espressa attraverso il partito al potere, Akp  (vedi box), è diventata uno dei punti di riferimento per tutta la vasta regione islamica, in particolare quella sunnita.
Proiezione verso Oriente e slancio verso l’Europa sono aspetti che caratterizzano storicamente il Paese, e non sono solo una novità di questi anni. Già verso la fine dell’Ottocento, gli intellettuali turchi erano scissi interiormente, e politicamente, tra due tendenze, quando non appartenevano proprio alle due fazioni opposte: filo-occidentalismo e filo-islamismo ottomano.
L’ascesa dirompente del secolarismo ebbe inizio nell’ultima fase dell’Impero Ottomano e culminò con le riforme del fondatore della Turchia modea, Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Venti.
Religiosità e laicismo, riformismo e conservatorismo rappresentano ancora oggi le tante facce di questa nazione. Aspetti contraddittori e, allo stesso tempo, complementari, in una società sempre in gran fermento.
Nel bel romanzo, La figlia di Istanbul, di Halide Edip Adivar (vedi box), ambientato negli anni che precedettero la rivoluzione dei Giovani Turchi e la fine dell’Impero, questa «doppia anima» turca emerge in modo chiaro, evidenziandone tutta la potenzialità sia conflittuale sia dialettica.
Il laicismo, che ha i tratti fondamentalisti dei kemalisti, i seguaci delle dottrine del padre della Patria, Atatürk, ancora molto presenti in diversi apparati statali, si scontra con le esigenze di maggiori libertà politiche, religiose, culturali e sindacali di una parte sempre più consistente di popolazione, che si sente più vicina agli ideali e ai progetti dell’Akp. Seppur di «ispirazione islamica», infatti, il partito al governo rappresenta le istanze più innovatrici e riformiste della società turca. E certamente più democratiche e dialettiche rispetto a quelle veicolate per circa ottanta anni dal kemalismo, i cui principi si sono basati su una fedeltà all’esercito e ad un laicismo opprimenti e anti-popolari.
Abbiamo avuto modo di visitare il Paese diverse volte, dal 2007 al 2010. Ebbene, rispetto a tre anni fa, le differenze sono ormai visibili. La presenza massiccia dei militari, per le strade, sembra essersi ridotta. Scene da «regime dittatoriale», come quelle cui assistemmo – ragazzi fermati soltanto perché ostruivano il passaggio di una squadra militare, nelle vie di Taksim, uno dei quartieri più eleganti ed «europei» di Istanbul – probabilmente rimarranno solo un brutto ricordo.
In questo quadro mutato si inseriscono le relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea. Esse sono iniziate negli anni Sessanta, quando la Cee (Comunità economica europea) siglò l’Accordo di Ankara. Recentemente, al fine di rendere possibile l’ingresso della Turchia nella Ue, il primo ministro Recep Tayyip Erdog˘an ha introdotto diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ciò che spaventa tanti europei è l’anima islamica della nuova Turchia: temono che l’ingresso del Paese nell’Unione Europea sbilanci a favore dei musulmani l’equilibrio demografico del Vecchio Continente. Inoltre, l’irrisolta questione kurda, il grande potere che l’esercito turco ha sullo Stato e sulla vita dei cittadini, uniti alle politiche di alleanza con le nazioni arabe e islamiche e a una legislazione che ancora non si attiene ai canoni occidentali del rispetto dei diritti umani, rendono problematico e fonte di infinite discussioni diplomatiche e accademiche l’entrata della Turchia nella Ue.

QUALe TURCHIA DOPO IL REFERENDUM?
Sullo scacchiere turco (ed europeo), tuttavia, è stata compiuta una mossa interessante, che introduce un elemento di novità: l’avallo, emerso dall’esito del referendum popolare del 12 settembre, alla riforma costituzionale che toglie poteri ai militari e garantisce maggiore democrazia agli altri organi dello Stato.
La schiacciante vittoria del «sì» permetterà ai legislatori turchi di modificare 26 articoli della Costituzione.
L’Europa vede in questa fase della vita politica turca un segnale positivo, non solo nel senso di una maggiore democratizzazione intea, ma anche della volontà di aderire alla comunità dei popoli europei.
Gli emendamenti aumentano il numero dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura: essi saranno, inoltre, nominati non più solo dai giudici, ma anche dal Parlamento e dal presidente della Repubblica.
Tra gli altri aspetti della riforma, emerge quello della «discriminazione positiva»: le nuove norme prevedono l’entrata in vigore di misure per «incrementare la presenza delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese». Attualmente, le parlamentari rappresentano il 9,1% del totale.
Inoltre, il capitolo della Costituzione relativo alla «protezione della famiglia» sarà modificato ampliandolo anche ai «diritti dei minori».
Tuttavia, l’opposizione nazionalista teme che queste riforme possano portare a una presenza più massiccia dei religiosi nelle più alte cariche delle istituzioni statali e che la laicità sia posta a rischio.

L’ISLAM E IL SUFISMO
Nonostante la religione ufficiale in Turchia sia quella musulmana, uno degli effetti del laicismo imposto dalla dottrina kemalista è stato la messa al bando del sufismo, una delle manifestazioni mistiche più significative dell’islam. Dai tempi di Atatürk1 e a fasi altee, infatti, esso è considerato una pratica illegale. In realtà, sia a Istanbul sia a Konya  e in altre città, possiamo trovare numerose confrateite sufi, dissimulate in «centri culturali».
Sin dal XIII secolo, il misticismo islamico turco si espresse attraverso l’adesione agli ordini sufi, le cui sedi rappresentavano dei veri e propri luoghi di spiritualità e di attività sociale.
La parola «sufi» deriva dall’arabo suf , lana, ed era usata per indicare gli asceti che indossavano semplici panni di lana rifiutando i beni e gli agi materiali.
Dal XII secolo, i sufi erano organizzati in tariqah, ordini o confrateite (come i monaci cristiani che praticavano l’ascetismo) che seguivano gli insegnamenti di un Maestro, e si riunivano in tekke o dergah (logge).
Una delle più grandi confrateite turche, la Naqshbandiya, risale al XIV secolo. Un’altra, altrettanto importante, la Mawlawiyah o Mevleviya, venne fondata a Konya: dal figlio e dai seguaci del mistico, teologo e poeta persiano Jalal ad Din Mohammad Balkhi, noto come Mawlana o Rumi.
I membri della sua confrateita sono meglio conosciuti come «Dervishi danzanti» (o roteanti)2, a causa del rito estatico, sema’, da loro eseguito attraverso l’ascolto della musica, la recitazione del dhikr (ricordo di Dio) e una danza rotatoria vertiginosa.

L’ESEMPIO DI SANTA SOFIA: EX CATTEDRALE, EX MOSCHEA
La Turchia è anche un luogo dove si possono incontrare elementi di sincretismo e mescolanza appartenenti a fedi e a culture diverse.
E di questa commistione Istanbul è un po’ l’emblema: è un forziere pieno di tesori architettonici e culturali, frutto della capacità umana non solo di distruggere o entrare in conflitto, ma anche, e soprattutto, di integrare, assimilare, mescolare e rielaborare in modelli completamente diversi da quelli originari.
Hagia Sophia (Aya Sofya), Santa Sofia o Santa Sapienza in italiano, nel quartiere di Sultanahmet, nel cuore antico della città affacciato sul Mare di Marmara, ne è uno splendido esempio.
Nei suoi immensi spazi si realizza un incontro, e un’unione, tra cristianità e islam: la bellezza maestosa di questa ex cattedrale cristiana ed ex moschea musulmana, e ora museo, è un «miracolo» di «assimilazione-trasformazione».
Iniziata sotto Costantino, intorno al 300 d.C., fu ultimata nel 330, durante il regno di Costanzo II. Distrutta da un incendio e ricostruita nel 415 da Teodosio II; nuovamente incendiata e riedificata dopo il 532 da Giustiniano I, la nuova cattedrale, al cui progetto avevano lavorato grandi architetti, venne edificata con materiali preziosi, fatti arrivare da tutte le parti dell’Impero bizantino. All’imperatore Giustiniano dovette sembrare un’opera davvero magnifica, per dichiarare, secondo quanto riporta la tradizione: «Ti ho superato, o Salomone!».
Altri incendi, terremoti, crolli, saccheggi e invasioni (Crociate) resero necessarie ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti.
Con la conquista di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dei turchi ottomani, Santa Sofia fu trasformata in moschea: vennero costruiti i minareti, coperti gli affreschi interni che ritraevano Gesù, Maria, i santi e gli angeli, e aggiunte opere artistiche islamiche.
Gli antichi mosaici e stucchi bizantini vennero scoperti nel 1849 (e restaurati successivamente). Da allora, coesistono insieme ai simboli e all’arte sacra musulmana, dando alle imponenti navate e gallerie, e all’abside, un’impronta «multireligiosa», che suscita nel visitatore stupore e ammirazione.
La cupola, enorme, è ricoperta di mosaici, ma nel suo centro spiccano decorazioni calligrafiche islamiche (un versetto del Corano dipinto nel XIX secolo). Sui pennacchi, sotto la cupola, si stagliano quattro serafini (due furono realizzati come mosaico, due come affresco). Emblema di questa sovrapposizione e mescolanza tra cristianesimo e islam è la scena che ci si ritrova di fronte abbassando gli occhi dal soffitto e indirizzandoli a est, verso il centro dell’abside: il mihrab (elemento della moschea che indica la direzione della preghiera) è collocato all’interno, ed è sovrastato da un mosaico bizantino del IX secolo che ritrae la Vergine con il Bambino. Il Dio di Gesù e il Dio di Mohammad si fondono dunque in un unico spazio architettonico da cui i fedeli elevavano al cielo le loro preghiere.
Tale sorprendente vicinanza ha una spiegazione pratica: quando Hagia Sophia era un luogo di culto, sia i cristiani sia i musulmani pregavano verso est. Le chiese cristiane erano tradizionalmente rivolte a oriente, così come la qibla, la direzione della preghiera islamica, volge verso Mecca, che, rispetto a Istanbul, si trova a sud-est.
Altre parti di grande interesse artistico sono gli otto «dischi di legno», con incisioni calligrafiche riferite a Dio, al profeta Muhammad, ai primi quattro Califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) e ai due nipoti di Muhammad (Hasan e Husayn), sospesi alle pareti sotto la cupola, a fianco dell’abside e nella navata. Essi creano un affascinante contrasto con gli elementi decorativi e liturgici cristiani.
Nelle gallerie al piano superiore, che in epoca islamica erano usate per la preghiera delle donne (matroneo), si trovano i mosaici più importanti di Hagia Sophia: il più famoso è quello che ritrae Cristo pantocratore, sovrano e trionfante, vicino a Maria e a Giovanni Battista.
Per oltre 900 anni Santa Sofia fu la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli e dei concili ecclesiastici: rimase cristiana fino al 29 maggio del 1453, quando il Sultano Mehmet il Conquistatore entrò trionfante nella città bizantina e trasformò la bellissima basilica in una moschea. Tale rimase per altri 500 anni, divenendo un modello architettonico e artistico per le moschee imperiali di Istanbul, tra cui la stupenda Moschea Blu e quella di Suleyman.
Fu tra il 1847 e il 1849, durante i lavori di restauro commissionati dal Sultano Abdülmecid II a due architetti svizzeri, i fratelli Fossati, che vennero scoperti i mosaici, riportati poi alla luce nel secolo successivo, anche grazie all’Unesco.
Santa Sofia fu trasformata nel museo di Ayasofya nel 1934, durante la presidenza di Kemal Atatürk.
Da allora, almeno all’interno della maestosa e bellissima Santa Sapienza, Occidente cristiano e Oriente musulmano possono convivere in pace e in armonia.

Angela Lano



Angela Lano




Parola di sufi

L’intervista

Elvio Arancio, artista e ceramista torinese, nato nella medina di Tunisi, è un musulmano sufi. Sposato, con tre figli, impegnato nel dialogo interreligioso, in questa intervista ci spiega cos’è il sufismo e le ragioni della sua conversione all’islam, in particolare, alla sua corrente mistica.

Elvio Arancio, come descriverebbe il sufismo?
«Il sufismo, tasawwuf, in arabo, è la pratica di ricerca mistica specifica della cultura islamica.
È la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, e anche se ingloba in sé influssi ellenici, induisti e buddisti, l’essenza del sufismo è prettamente islamica.
Potremmo definirlo un metodo islamico di perfezionamento interiore, di ricerca dell’equilibrio, di fervore profondamente vissuto e che gradualmente vuole ascendere all’oggetto d’amore: Dio.
Possiamo affermare che le componenti della dottrina sufi sono l’amore totale per Dio; la gnosi, che superando la conoscenza intellettuale imperfetta e incompleta unisce direttamente il sufi al divino, certi della Sua esistenza e consapevoli dell’impossibilità di capirLo con le sole forze umane; il raggiungimento della conoscenza intuitiva; l’ascesa mistica attraverso una serie di stati spirituali e stazioni del percorso evolutivo, integrati dalla recitazione, o ricordo, dei nomi di Dio (dikhr, in arabo), e dall’estasi».

Che differenza c’è tra asceta, adoratore e sufi?
«L’asceta è colui che si allontana dai beni del mondo e dalle sue cose piacevoli; il sufi non rifugge dall’esperienza matrimoniale e quindi dalla sessualità.
L’adoratore è colui che pone attenzione nell’osservare gli atti di adorazione – alzarsi di notte per pregare, compiere le preghiere canoniche (as-salat), e così via. Il sufi, dunque, è sia un asceta che un adoratore. Niente può distrarlo da Dio. Egli è anche un adoratore per il suo costante rivolgersi a Dio e il suo legame d’amore con Lui. Adoriamo Dio perché Dio è “adorabile”, non per desiderio, né per paura.
La santa sufi Rabi’ah al-‘Adawiya diceva: “Oh Dio, se io Ti adoro per paura del Tuo fuoco infeale, gettami dentro. E se Ti adoro per il desiderio del Tuo paradiso, impediscimi di entrarvi. E se Ti adoro per amore del Tuo nobile volto, non proibirmi di vederTi”».

Quando è diventato musulmano e sufi?
«Appartengo all’ordine sufi della Jerrahi-Halveti d’Istanbul dal 1999. Poiché il nostro maestro Tugrul Inancer Efendi è anche un maestro della Mevleviya (in Occidente sono chiamati “Dervisci roteanti”), i nostri rapporti con questa importante confrateita, fondata dal grande poeta mistico Jalal al-Din Rumi, sono intensi e frequenti.
Sono sempre stato interessato alla letteratura mistica, da quella cristiana a quella dell’Oriente Zen, finché sono arrivato ai libri sufi.
Un giorno, leggendo un testo del grande teologo Ibn Arabi mi colpirono questi versi:
“Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma / è un pascolo per le gazzelle, / un convento per i monaci cristiani / è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino / è le tavole della Torah,
è il libro del Sacro Corano. / Io seguo la Religione dell’amore, / quale mai sia la strada/ che prende la sua carovana: / questo è il mio credo e la mia fede”.
È stata una folgorazione: ho cominciato ad approfondire la conoscenza del sufismo e a cercare i sufi, e… sono arrivato in Turchia».

Che organizzazioni sufi ci sono in Turchia e cosa fanno?
«Il sufismo permea profondamente il mondo turco e mi riferisco non solo allo Stato, ma a tutta la vastissima area asiatica turcofona che va dall’Anatolia alla Cina occidentale. Infatti, le confrateite sufi, sin dall’800 d.C., praticamente dai primi secoli della diffusione dell’Islam, hanno diffuso la fede musulmana alle tribù nomadi e ai clan guerrieri delle steppe asiatiche.
Furono le confrateite sufi ad integrare poi nel grande Impero ottomano, che si espandeva per tutta l’Eurasia, le tante etnie e le diverse provenienze religiose dei popoli che ne facevano parte. Ad esempio, i corpi militari furono quasi tutti affiliati all’ordine sufi Bekhtashiya, gli intellettuali e gli studiosi in genere alla Mevleviya e alla Jerrahi-Halveti, altri alla Naqshbandiya, e questo solo per citare gli esempi più conosciuti.
È negli ordini sufi che nasce la letteratura turca; è sulle pagine dei maestri delle confrateite che si forgia la sensibilità di questo popolo/nazione».

Perché adesso ai sufi è vietato di dichiararsi tali in pubblico?
«Nel 1925, Atatürk soppresse gli ordini religiosi sufi. Da allora essi sono vietati, o meglio, non autorizzati, ma non per questo sono meno presenti e attivi.
Tuttavia, mi sembra che sia in corso un cambiamento e auspico una riapertura imminente ufficiale degli Ordini: un ritorno alla luce del sole.
È infatti difficile conoscere la Turchia senza conoscere le confrateite religiose che ne hanno formato e alimentato il tessuto sociale, e alle cui fonti ancora si rivolgono intellettuali, donne e uomini di ogni ceto sociale».

Cosa pensa della Turchia attuale e del presidente Erdogan?
«Ritengo che il governo guidato da Erdog˘an sia una delle realtà più interessanti del panorama internazionale, e questo per varie ragioni: il Paese è passato da una rovinosa crisi economica all’attuale fase di sviluppo; è in atto un confronto tra il partito di governo, l’Akp, e il potere militare, sul tema della laicità dello Stato; lo spostamento delle alleanze nel Vicino e Medio Oriente: sostegno alla causa palestinese e presa di distanza dalle politiche d’Israele.
Vale la pena ricordare la nomina del nuovo Ambasciatore turco Kenan Gürsoy presso la Santa Sede: si tratta di un personaggio di notevole cultura, un grande accademico e profondo conoscitore del sufismo, ed egli stesso discendente di una famiglia di tradizione sufi. Ritengo che la scelta del governo turco di assegnargli l’importante carica sia espressione di un desiderio di dialogo aperto e costruttivo nei confronti della Chiesa cattolica, anche in considerazione dell’amicizia che legava da molti anni il neo-ambasciatore a monsignor Padovese, il prelato ucciso a giugno in Turchia».
Cosa pensa del referendum costituzionale che si è svolto il 12 settembre?
«Sono profondamente convinto che il peso dei militari in Turchia andasse ridimensionato: un esercito che non dipende dal governo, da un ministero della Difesa, che con la scusa della tutela della laicità dello Stato condiziona la vita democratica della nazione, è inaccettabile. La nascita della repubblica turca di Kemal Atatürk comportò l’emergere di due miti: in primo luogo, quello dello stesso “laicissimo” presidente, nei cui confronti si espresse una dogmatica e incondizionata devozione che potremmo assimilare, paradossalmente, ad un vero e proprio culto religioso, e poi, quello dell’esercito. Da allora, fino ad oggi, l’apparato militare è sempre stato visto come “un’istituzione sacra che protegge i sacri valori dei Turchi”. Tale legittimazione ha permesso ad esso di intervenire ripetutamente nelle vicende politiche del Paese.
Credo che la scelta del popolo turco rappresenti una svolta democratica, importante quanto necessaria.
Inoltre, Erdog˘an esce dalla consultazione referendaria estremamente rafforzato, soprattutto in vista delle elezioni politiche del luglio 2011, alle quali, non dimentichiamoci, faranno seguito, l’anno successivo, le prime elezioni presidenziali dirette nella storia turca».

Angela Lano

Angela Lano




Alla ricerca di un perché

Reportage da Trabzon

Siamo andati a Trebisonda (Trabzon) per vedere com’è la situazione dopo l’omicidio di don Andrea Santoro cui è seguita – in altra zona del paese –  l’uccisione di mons. Luigi Padovese. Nella Turchia che si dice tollerante come si spiegano due omicidi di preti cattolici in meno di 4 anni? Chi è contro il dialogo interreligioso?

La piazza centrale di Trebisonda, Trabzon in turco, pullula di uomini impegnati a godersi i piaceri del dolce far nulla. È una visione comune della Turchia, e racconta stili di vita meno ossessivi di quello occidentale.
Così un gruppetto radunato intorno a tazze di tè non si lascia scappare l’occasione per attaccare bottone: mi chiamano al loro tavolino. Un giro di bicchierini bollenti è gentilmente offerto e subito si instaura un simpatico scambio di battute in lingue inesistenti composte soprattutto da gesti. Ma i discorsi velocemente passano dal solito schema «calcio-Berlusconi» ad argomenti decisamente più pesanti: i guerriglieri del Pkk ed il rapporto tra cristianesimo e islam in questa città.

TRABZON, porta sul mar nero
e sul kurdistan turco

Il primo è il vero piatto forte della regione che da anni si dibatte dentro drammi che costellano la vita di milioni di persone. Una guerra civile infinita (sebbene nessuno utilizzi queste parole), che recentemente sembra aver perso cruenza, anche se talvolta erompe in maniera violenta. Il Kurdistan è la zona est della Turchia e Trebisonda è la porta che si affaccia su questo territorio. Un tempo città strategica per i traffici marittimi sul Mar Nero (da qui il detto italiano «perdere la Trebisonda»), oggi è una città industriale e trafficata.
Gli abitanti (qui la comunità kurda è una minoranza) sostengono che avventurarsi per la zona est della Turchia è pericoloso. I piazzisti di una compagnia di trasporti, che battono la stazione degli autobus, ripetono ai viaggiatori che gli spostamenti diui sono soggetti ad attacchi a colpi di mitragliatrice da parte dei guerriglieri kurdi. La notte invece sarebbe tutto più tranquillo.
Una volta in viaggio nel Kurdistan turco la situazione invece apparirà molto tranquilla. Le esagerazioni sono molto amate dai turchi, anche se affettivamente le zone montane non sono scevre da combattimenti, di norma taciuti dai media principali.
Città come Van, Erzrum, Diyarbakir sono centri vitali e pacifici, popolati da Kurdi che non ne vogliono più sapere né della repressione militare né dei metodi violenti degli insorti.
Così, una volta terminata la discussione sui «terroristi kurdi», trascinatasi in maniera abbastanza stanca per mancanza di argomenti, è tempo di
discutere dei rapporti interreligiosi in città e nel paese. E qui i toni si fanno seri. Perché a differenza delle chiacchiere sul Pkk, dominate da eccessi verbali e fragorose risate, quelle relative alle recenti tragedie che hanno riguardato questa ed altre
zone, sono percepite più pesantemente.
Dopo poco un ragazzo ci chiede se vogliamo visitare l’unica chiesa ancora «operativa» di Trebisonda. È la chiesa tristemente famosa per l’omicidio di un prete italiano, don Andrea Santoro,  avvenuto nel febbraio del 2006. Il sacerdote ucciso era un missionario della congregazione di Charles de Foucauld. Apparteneva alla diocesi di Roma ed era un sacerdote fidei donum missionario in Turchia da qualche anno. Il suo lavoro (grazie anche all’aiuto di alcuni laici) era centrato sul mantenimento in vita della presenza cristiana, esigua al tempo dell’omicidio ed ora a rischio estinzione. Chi lo conosceva racconta che era un acceso sostenitore del dialogo islamo-cristiano e forse è esattamente questa la ragione che ha armato la mano di chi poi lo ha ucciso proprio dentro la chiesa dove stiamo per entrare.
Sono passati quattro anni da allora, ma il ricordo è ancora molto vivo. Il nostro amico accompagnatore, musulmano praticante, ricorda bene quel prete: «Era una presenza molto discreta e chi l’ha colpito a mio avviso l’ha fatto perché mosso dalla pazzia e non da odio religioso».
Probabile, anche se poi le indagini hanno portato in carcere un giovane di appena diciassette anni che, al momento di sparare, pare abbia pronunciato la frase «Allah è il più grande».

NICOLAE, il diacono (rumeno)
che lavora da prete

Ci arrampichiamo per le vie del centro seguendo i passi del nostro amico. Trebisonda è una città che ha perso i fasti del passato e si aggrappa ad uno sviluppo caotico, dominato dal cemento e dai traffici un po’ loschi che vanno e vengono dalla vicina Russia.
Da soli difficilmente saremmo riusciti a trovare la chiesa, perché non segnalata. L’esterno è arioso ed un cartello invita i cristiani e gli stranieri ad entrare dentro, perché tutti sono benvenuti. È scritto in inglese ed in turco (vedere foto). Suoniamo il campanello.
La chiesa sembra deserta. Dopo pochi minuti siamo però accolti da un uomo di circa trent’anni a cui siamo introdotti, in turco, dalla nostra guida. È gentile, ma sospettoso. Si rivolge a noi in francese ma, dopo poche frasi di circostanza, passa all’italiano. È rumeno e non è il prete della chiesa. È un diacono che manda avanti tutta la baracca tra sforzi immensi. È solo da tre anni, perché un nuovo sacerdote, dopo l’omicidio di Andrea Santoro, non è mai stato nominato. Racconta del clima che si respira nella città che maggiori problemi di convivenza dà alla Turchia.
Nicolae, così si chiama il padrone di casa, racconta di paura, ma anche di speranza. La paura è dovuta al secondo omicidio:  monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell’Anatolia, è stato assassinato il 3 giugno 2010 nel giardino della sua casa sul mare a Karagaac, vicino a Iskenderun, sulla costa del Mediterraneo. Il suo autista Murat Altun, probabilmente a causa dei gravi scompensi psichici di cui soffre, l’ha colpito con diversi fendenti, uccidendolo.
Le voci di odio religioso, figlio del fanatismo islamico, si sono allargate a macchia d’olio, ma nessuno osa confermarle. Anzi, gli uomini della piazza di Trebisonda, come i pochi cattolici che si incontrano, negano che il clima sia questo.
La speranza è comunque viva: «Noi siamo una comunità molto piccola, poche centinaia di persone – spiega Nicolae – . La nostra chiesa è sempre aperta. E questa mattina è accaduta una cosa che mi ha dato fiducia ed aperto il cuore. Ho visto entrare quattro ragazze islamiche. Giravano e commentavano. Le ho sentito dire frasi sulla bellezza della chiesa e soprattutto sulla follia del conflitto religioso…». A pochi metri da dove chiacchieriamo c’è ancora il foro di uno dei proiettili.
Nicolae è un diacono che svolge un po’ tutti i servizi fra mille difficoltà, economiche e non. È sposato e vive con la moglie a pochi passi dalla chiesa.
«Il problema – racconta – sono le ostie consacrate. La mancanza di un prete le rende difficilmente disponibili. Così capita che, quando un sacerdote passa da queste parti, io ne approfitto per fae consacrare un po’ e poi le custodisco. Ma non è facile, dato che trascorrono mesi e mesi senza che passi alcuno. La soluzione migliore sarebbe la nomina di un prete ma, dopo la uccisione del vescovo Padovese, sarà ancora più difficile».
La chiesa è deserta, pulita, sembra quasi un museo.
«Questi sono gli aspetti più difficili della situazione. In compenso è molto bello portare la parola di Dio in un posto difficile come Trebisonda. È vero che gli esaltati non mancano, ma la Turchia rimane un paese laico in cui la libertà di culto è preservata. Comunque, questi sono discorsi politici che interessano relativamente chi si trova in trincea come me. Qui io mi occupo di tutto: dallo spazzare il pavimento alla celebrazione delle messe. E lo faccio per due soldi. I vertici della Chiesa dovrebbero ricordarsi maggiormente di chi porta la parola di Dio in posti di frontiera come questo».
Sono solo un centinaio i cattolici che vivono a Trebisonda. Altri sessanta circa sono presenti a Mardin, bella città che ricorda un po’ Gerusalemme, nel centro del Kurdistan.  Il resto è deserto. In ogni senso.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti