Giovanni Paolo l’Africano

Papa Wojtyla e il Continente Nero

Papa Wojtyla ha dedicato all’Africa una grandissima e appassionata attenzione, tanto che il cardinale senegalese Hyacinthe Thiandoum (1921-2004) lo ha definito: «Giovanni Paolo l’Africano». L’appellativo è ripreso da mons. Giovanni Tonucci in questo articolo, scritto per la nostra rivista The Seed, quando era nunzio apostolico per il Kenya e firmato con lo pseudonimo di Mzee Mwenda (l’amato, in kemeru).

I libri di storia parlano di personaggi importanti definiti con titoli corrispondenti alle loro imprese o al modo con cui le hanno realizzate. Ai tempi di Roma uno fu chiamato il «Temporeggiatore» perché era calmo e prudente nel prendere le decisioni; un altro il «Censore» perché criticava la condotta altrui; il generale che conquistò l’Emilia fu detto «l’Emiliano» e un altro generale che vinse un’importante battaglia in Nord Africa, nell’attuale Tunisia, fu soprannominato «l’Africano».
Quest’ultimo titolo mi è venuto in mente riflettendo sulla morte di papa Giovanni Paolo II; egli ha visitato tante volte l’Africa e ha impresso la sua impronta nella chiesa di questo continente: ha aumentato il numero di vescovi e diocesi, così pure quello di cardinali africani; ha incoraggiato l’intera Chiesa africana a ricercare una specifica identità africana.
Naturalmente ogni tipo di definizione è limitata e limitante. Chiamando Giovanni Paolo II «l’Africano» non si intende negare l’importanza del ruolo da lui giocato per la Chiesa nell’America latina o in qualsiasi altro continente o subcontinente. Ma fermiamoci su questo appellativo e guardiamo a papa Wojtyla da una prospettiva africana senza togliere niente alle altre. Lo chiamiamo «Santo Padre» e l’amore di un padre non è limitato dal numero dei figli che condividono tale amore. Anzi, in questo modo esso è aumentato e fatto anche più forte.
Una considerazione mi viene da fare quando studio le statistiche: in 27 anni di pontificato Giovanni Paolo II ha visitato tutti i continenti e moltissime nazioni; ma il primato spetta all’Africa, con 42 stati visitati, cinque dei quali due volte e, altri due, tre volte. Voglio ricordare che Nairobi lo ha accolto tre volte.
In una delle mie prime udienze in Vaticano, dissi al Papa che avevamo fatto alcune riparazioni nella sua casa, la residenza della nunziatura, perché fosse più adatta per riceverlo; e che quindi sarebbe potuto tornare per riposarvi qualche giorno se avesse voluto. Egli sorrise e sollevò lo sguardo come per dire: «Mi piacerebbe, ma solo Dio sa se sarà possibile».
Durante i primi anni del suo pontificato ero a Roma e ricordo bene ciò che avvenne quando toò da un viaggio africano: insieme al piccolo gruppo che lo accompagnava, il Papa si recò nella basilica di San Pietro per pregare sulla tomba del primo apostolo. Tutti gli altri sembravano stanchi ed esausti, lui invece era pieno di energia, il volto abbronzato dal sole africano, ringiovanito come se fosse ritornato da un periodo di riposo.

La realtà è che egli si trovò a suo agio in Africa e con gli africani. Lo si poteva sentire e capire ogni volta che il Papa parlava agli africani o parlava dell’Africa; in essa trovava alcuni dei grandi valori che gli stavano più a cuore: egli seppe capire i valori della cultura e delle tradizioni africane e vedervi la loro apertura al vangelo e riconoscervi l’amore per la vita. «Queste tradizioni – disse nella sua omelia per l’inaugurazione del Sinodo per l’Africa – sono ancora l’eredità della maggioranza degli abitanti dell’Africa. Sono tradizioni aperte al vangelo, aperte alla verità»; e più avanti: «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita».
Questo rispetto sincero per le tradizioni locali era tipico di Giovanni Paolo II e può essere apprezzato a pieno se pensiamo alla sue radici culturali. Era nato e cresciuto in Polonia, in tempi veramente difficili per il suo paese; costretto a fronteggiare le sfide lanciate in molti modi dalle più crudeli e più inumane dittature sperimentate nel secolo scorso: nazismo e comunismo; entrambe imbevute della cultura dell’oppressione e della morte. Proprio perché fedele alle sue radici polacche, papa Wojtyla riuscì a diventare il pastore universale della chiesa universale, totalmente dedicato a proclamare un vangelo universale di salvezza.
Molti cercano di sottolineare il fatto che egli era di nazionalità polacca, come se questo elemento fosse un limite alla sua personalità. Egli era veramente polacco, ma tale aspetto non costituiva un motivo di chiusura ad altre esperienze; anzi, la sua nazionalità fu uno strumento che lo rese capace di aprirsi a differenti culture e tradizioni. L’orgoglio per le sue radici lo fece capace di capire l’importanza vitale delle radici di altre tradizioni.
Proprio questo egli voleva vedere in Africa: apertura all’universalità, ma a partire dalle radici profonde delle secolari tradizioni religiose, che egli giudicò in modo positivo, riconoscendo in esse il «seme della parola di Dio», come afferma il Concilio Vaticano II. E ciò che gli piaceva dell’Africa era «l’amore per la vita», che egli sperimentò in tantissime manifestazioni di gioia e di rispetto, nell’entusiasmo e nell’accoglienza espressi in modo così lontano dall’«egoismo dei ricchi»; un egoismo contagioso, che potrebbe portare l’Africa ad accettare e favorire pratiche ostili alla vita.

Un concetto questo ribadito spesso e riportato anche nella lettera apostolica Ecclesia in Africa: «Io vi lancio una sfida oggi, una sfida che consiste nel rigettare un modo di vivere che non corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della fede cristiana. Molte persone in Africa guardano al di là dell’Africa, verso la cosiddetta “libertà del modo di vivere moderno”. Oggi io vi raccomando caldamente di guardare in voi stessi. Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità» (48).
Verso la fine della sua omelia per l’apertura del Sinodo, il Papa concluse con questa esortazione: «Africa, giornisci nel Signore». Nell’omelia per la chiusura del Sinodo egli menzionò ancora «la gioia del popolo di Dio, che porta freschezza così vivace in ogni celebrazione liturgica», e finì con questa acclamazione: «Africa, l’eterno Padre ti ama; Cristo ti ama! Rimani in questo amore».
Come non riconoscere lo spirito africano in queste frasi? Bisogna essere orgogliosi di essere figli e figlie di questa generosa madre, il continente africano. So che lo siete e so che insieme a voi il Santo Padre è stato orgoglioso e felice di essere «Giovanni Paolo l’Africano».

Mzee Mwenda

Mzee Mwenda




Nel deserto a 50 gradi

Introduzione

Ero già stata in Senegal nel 2007, coinvolta in un progetto di contrasto all’immigrazione clandestina. Avevo girato per le periferie di Dakar, conoscendo amici e realtà africane immaginabili e non. Fui sorpresa nel vedere come l’Africa dell’ovest fosse differente da quella orientale; fin dall’ora compresi come sia sbagliato parlare dell’Africa come di una realtà monolitica: tradizioni, cultura, lingue sono totalmente diverse tra est e ovest.
Reincontro la mia amica Rosalie, che ancora sorride nel ricordare l’espressione che feci quando mi portò in uno dei più noti locali senegalesi in cui mi fu servita carne di montone su un foglio di carta usato al posto del piatto, da mangiare con le sole mani… A me che ero una fervente vegetariana!
Rosalie, cristiana cattolica, in un Senegal al 90% musulmano, mi racconta come sia difficile portare avanti e far accettare alla mamma e ad altri famigliari la sua relazione con un ragazzo cattolico del Togo di cui non conoscono la cultura e la lingua. Rosalie, cresciuta ed educata nelle scuole delle Suore missionarie di Maria, è decisa a sposare un ragazzo cattolico. «Non sai quanto è difficile trovare un ragazzo senegalese cattolico. E io non voglio essere la seconda o terza moglie di qualcuno che magari dall’oggi al domani mi butta fuori di casa senza se e senza ma. Ecco perché, nonostante i miei 35 anni non mi sono ancora sposata. Non voglio accontentarmi di un marito che abbia più mogli. Per non parlare del fatto che gli uomini senegalesi, nonostante si sposino, sono ossessionati dal desiderio di diventare mariti di anziane donne bianche che li mantengano. Questa situazione puoi ben capire come abbia stravolto le aspettative, la cultura e i modi di vivere dei giovani senegalesi».
Mi sembra inconcepibile tutto ciò, in un paese di ferventi musulmani. Mi immergerò in una realtà schizofrenica: dalla città santa dell’islam, Touba, al turismo sessuale senza freni; dall’intervista al «grande marabut», i cui uomini gli siedono ai piedi come cagnolini, alla movida nottua dei locali in cui incontrerò gente di tutte le età e orientamenti.
Ma sto accorciando troppo il mio reportage, direbbe Karen Blixen. Andiamo per ordine. Sono andata in Senegal nel maggio del 2010, per realizzare un libro fotografico per conto dell’associazione «Karibu Insieme Per Crescere», una Onlus di Cervia che da anni opera in Tanzania e in Senegal, costruendo pozzi in luoghi remoti e isolati. Dopo aver visto I Care Tanzania, il mio libro per le missionarie della Consolata, hanno voluto fae uno anche loro per raccogliere fondi e mostrare cosa siano riusciti a realizzare nonostante le esigue risorse.

Arrivo all’aeroporto di Dakar con il presidente dell’associazione Antonio Pescini e sua moglie Patrizia che è già buio. Una ventata di caldo umido mi si appiccica addosso mentre aspetto che l’impiegato si decida a mettere un timbro sul passaporto. Non faccio in tempo a girarmi che già due «guardie del corpo», sorridendomi dall’alto dei loro due metri, afferrano il carrello con i miei bagagli… Li lascio fare. È inutile dire loro che non ne ho bisogno, che non voglio, sarebbe solo l’inizio di un’estenuante trattativa che in quel momento il mio fisico, impegnato a lottare con quell’umidità asfissiante, non potrebbe affrontare. È sempre così quando arrivo in Africa, anche se il caldo del Senegal mi ha messo a dura prova più che in altri paesi.
Ad aspettarci fuori dall’aeroporto c’è Paco, un giovane senegalese dalle mille risorse, che ci accompagnerà nelle prossime settimane. Carichi di valige e borse, entriamo nella sua macchina diretti a Saly, una località costiera, conosciuta dai turisti non solo per il mare. L’indomani, davanti a uno straordinario oceano, non possiamo fare altro che godercelo.
Il giorno seguente partiamo per l’entroterra, per inaugurare tre pozzi e fotografare i progetti realizzati. E inizia l’avventura! Paco ci viene a prendere con un ibrido di Peugeot, una crasi di quattro modelli di macchine diverse, troppo bassa per attraversare strade sterrate e deserto; ma, più che prepararci al divertimento non possiamo fare!
Dopo esserci incastrati nella macchina, prima a vicenda e poi con le valigie, partiamo alla volta di Mbar, nella regione di Kaolack. In queste settimane macineremo chilometri e chilometri attraversando in lungo e in largo le tre regioni di Kaolack, Diourbel e Fatick, nei villaggi dove l’associazione ha realizzato pozzi e un dispensario di ginecologia.

Il deserto ci avvolge a perdita d’occhio. La solitudine del paesaggio viene rotta da concentrazioni di maestosi baobab e di tanto in tanto da villaggi. La temperatura inizia a salire, supera facilmente i 35°, poi i 45° fino ad arrivare a 52° nei giorni successivi. L’umidità è così spessa da rendere il cielo dello stesso colore della sabbia. Polvere, sabbia e ancora sabbia.  
Mi perdo a osservare un deserto ricoperto di buste di plastica, lattine e bottiglie. È impressionante vedere chilometri e chilometri di sabbia nuda, ricoperta di così tanta spazzatura che cerca di sciogliersi. Ma è inutile farsi domande sul perché non si riesca a sviluppare una coscienza ecologica in Africa: è certamente un problema che, fino ad oggi, non è mai interessato a nessun partito politico o associazione presente nel paese.

Romina Remigio

Romina Remigio




Muridismo: «Islam nero»

Incontro con il «gran marabut»

Un ufficiale coloniale francese lo definì «islam nero»: è il muridismo, nato nel cuore del Senegal alla fine del secolo XIX, ispirato agli insegnamenti coranici, ma interpretati in senso mistico; esso consiste in un insieme di pratiche di culto e regole di vita basate sull’amore, la tolleranza, il lavoro e la venerazione del «gran marabut», la guida suprema della confrateita muride. Lo abbiamo incontrato a Touba, la città santa con la sua sfarzosa moschea, una delle più belle d’Africa, ma in stridente contrasto con la circostante situazione che desta più di una perplessità.

Siamo a Touba, la città santa del Senegal, con la sua maestosa moschea: il più grande monumento musulmano dell’Africa nera. È situata nel bel mezzo del deserto senegalese, a 193 km da Dakar, voluta e fondata nel 1887 da Cheikh Ahmadou Bamba, il cui progetto era di realizzare un centro capace di conciliare l’aspetto spirituale e quello temporale in conformità con i dettami del Profeta. La stessa parola Touba significa «il grande bene».

«la mecca» senegalese
Un grande arco dà il benvenuto nella città santa; o meglio, esso separa la libertà di comportamenti dal rispetto rigoroso dei dogmi musulmani. Mi viene subito detto di coprirmi e non solo con un velo, ma con un vestito lungo fino ai piedi. Patrizia e io iniziamo i travestimenti. Riciclo un abito formato extra large che mi avevano gentilmente regalato le donne all’inaugurazione di un pozzo, pensando alla loro stazza e soprattutto altezza. La casacca è talmente larga che la scollatura mi scende sulle spalle; mi copro con un kanga; cerco di legarmene un altro alla vita, fermandolo come meglio posso. La cosa più sconvolgente è che riuscirò a ottenere un’intervista esclusiva con il grande marabut di Touba, presentandomi con tale acconciatura: mi viene da ridere solo a pensarci.  
Scendiamo dall’auto e troviamo subito due guide disposte ad accompagnarci nella moschea. Dobbiamo toglierci le scarpe. Attraversare scalzi i chilometri quadrati di marmo rovente, che ci portano all’entrata della moschea, è già una prova notevole. Sembra che la pelle si sciolga, ma, piuttosto che tornare indietro, riporterò delle ustioni ai piedi che curerò con un uso industriale di crema di aloe.
Sebbene Patrizia e io siamo coperte fino ai piedi, ci è permesso visitare solo alcune parti della moschea. Ma non sono arrivata fin qui per non fare nemmeno una foto; quindi, nonostante le ammonizioni e il borbottare continuo degli uomini palesemente urtati, scatto foto con la complicità della guida, che spera in una lauta offerta.
La costruzione di questo monumento religioso è durata 32 anni, ha richiesto 1.800.000 ore di lavoro, secondo una stima, e 4.800 tonnellate di pietre, di sabbia e d’acciaio. Con i suoi quattro minareti agli angoli alti 66 metri e uno al centro di 86 metri (chiamato Lamp Fall in onore di Cheikh Ibra Fall), sormontata da tre grandi cupole, la moschea offre una vista incantevole già a 10 km di distanza, da qualsiasi direzione si provenga.
Tonnellate e tonnellate di marmo bianco di Carrara e marmo rosa proveniente dall’Egitto rivestono la moschea. Che non abbiano badato a spese è evidente. Dai lampadari ai marmi, agli intarsi delle porte, tutto è straordinariamente maestoso. Mi sorprende, però, il contrasto tra lo sfarzo smisurato di questa costruzione e le case di paglia attorno alla moschea e nei villaggi in periferia della citta santa, che rispecchiano una realtà di povertà diffusa e tanto forte. Ci dicono che ogni sala è stata donata da un paese musulmano e dalle offerte costanti dei senegalesi muridi sparsi nel mondo.

Il muridismo
I muridi sono i seguaci degli insegnamenti di Cheikh Ahmadou Bamba. Il muridismo è un insieme di pratiche di culto e regole di condotta, basate sull’amore e l’imitazione del profeta Muhammad, il cui fine è il perfezionamento spirituale. È una forma di sufismo, che non costituisce un movimento confessionale come il sunnismo o lo sciismo, ma piuttosto uno stile di vita e un insieme di credenze e pratiche di culto che traggono le loro origini dal Profeta.  «Per Cheikh Ahmadou Bamba – spiega la nostra guida – sarebbe illusorio e anche pericoloso gettarsi nel misticismo senza soddisfare certe condizioni. Bisogna prima di tutto istruirsi nella religione e fare propri i principi islamici fondamentali e regolare la propria condotta in base alla shari’a e alla sunna (atti e detti del Profeta). Conformemente allo spirito di pietà e di devozione ad Allah che ha guidato Cheikh Ahmadou Bamba nella fondazione di Touba, il sacro Corano vi è letto, ogni giorno 28 volte».
Nonostante la proclamata volontà di aiuto, sostegno e amore reciproco, secondo il muridismo spiegato dalla nostra guida, nella moschea siamo spesso circondati da bambini di strada che chiedono insistentemente qualche spicciolo per mangiare, venendo redarguiti dalle nostre guide.
Incontriamo anche i famosi bambini del marabut di cui i senegalesi non vogliono parlare: non sono solo ragazzi orfani, abbandonati, di strada a cui il marabut dà un tetto, facendoli in cambio «lavorare» per lui. Sono letteralmente un esercito di piccoli accattoni, vestiti malamente e con una ciotola in mano per chiedere disperatamente l’elemosina per le strade senegalesi.  

venerazione… esagerata
In Senegal non c’è bus, taxi o macchina che non abbia sul cruscotto o appiccicato al vetro la benedizione del marabut di Touba. Non riesco a spiegarmi come mai quasi tutti i senegalesi siano così ossessionati per Touba e il suo marabut.
Paco cerca di azzerare le mie perplessità, dicendo che Touba è il loro Vaticano e il marabut è il loro papa. Accetto la spiegazione; ma è l’ossessione che mi intriga e gli spiego che i cattolici, nonostante le migliaia di pellegrini che quotidianamente visitano il Vaticano, non sono così esagerati, anzi.
Quando un senegalese parla del marabut abbassa anche il tono della voce, perché dice di non essere degno di parlare di lui. «Il marabut può tutto. Lui può permettersi qualsiasi cosa e noi seguiamo alla lettera i suoi comandamenti, in quanto lui è la voce del Profeta» mi sento ripetere da più parti.
Sono sempre più curiosa di conoscere questo marabut, allora comincio a solleticare la curiosità delle guide che ci girano attorno. Mi spaccio per una famosissima giornalista italiana estremamente interessata alla storia di Touba, del muridismo e della sua guida suprema. I nostri amici iniziano a telefonare e ritelefonare, discutere e parlare tra loro. Mi dicono che il marabut è molto malato, quindi sarà difficile vederlo. Insisto che non gli ruberò molto tempo. Alla fine mi dicono che il suo primo figlio, già suo sostituto e destinato a diventare il «grande» marabut di Touba, è disposto a incontrarmi.
La nostra guida è letteralmente fuori di sé dalla gioia. Inizia a baciare il telefono, mi prega di farlo entrare con noi. Siamo tutti un po’ storditi dal fatto di essere riusciti a ottenere un’intervista da quello che sembra essere l’uomo più potente e inavvicinabile del Senegal. Con noi ci sono anche due suore della missione di Mbar che sembrano sorprese più delle guide.
Immediatamente i nostri amici fermano un tassista, che non si fa pagare per il solo fatto di accompagnarli davanti alla casa del marabut; li seguiamo e dopo una decina di minuti arriviamo alla sua villa. Una fila interminabile e ordinata di donne, bambini e anziani aspetta pazientemente il proprio tuo per chiedergli un favore, che ripagheranno con soldi, frutta, pesce secco e addirittura con un proprio figlio.
Arriviamo alla cancellata della villa del marabut e i guardiani, evidentemente già avvertiti, ci fanno segno di seguirli. Entriamo. All’ombra in una zona del giardino, accerchiato da guardie del corpo e una schiera di assistenti, il marabut ascolta una donna.
Ci fanno accomodare in quello che dovrebbe essere un salotto. Un grande tappeto dozzinale riempie la stanza, il cui arredamento è decisamente di cattivo gusto; la stanza trabocca di oggetti di ogni tipo; quadri e condizionatori appoggiati per terra e alle pareti; televisori a schermo piatto ancora nella scatola e tanti divani tutti diversi.
Dopo pochi minuti vediamo dalle immense vetrate della stanza, arrivare il marabut circondato dai suoi collaboratori. Serigne Abdoul Karim Mbacké Fallilou: due metri di altezza con una mole imponente. Un babou (vestito tipico senegalese) bianco e larghissimo lo rende ancora più imponente. Saluta: «Salaam alekum»; e io prontamente: «Alekum salaam». E ci invita a sedere.

a quattr’occhi con il marabut
I suoi collaboratori si siedono sul tappeto ai suoi piedi, come fedelissimi cagnolini, facendoci capire che dovremmo fare altrettanto. Io occupo la prima sedia di fronte al marabut. Sedermi per terra sarebbe un’impresa con quella specie di sacco che mi avvolge; e poi, va bene coprirsi, ma stare ai piedi di un uomo proprio non l’accetto. Quindi con grande sorpresa dei suoi cortigiani, anche le suore e gli altri accompagnatori si siedono sui divani. Lui non ne sembra sorpreso; ci offre prima dell’acqua e poi delle bibite analcoliche, che un suo collaboratore ci porge stando sempre in ginocchio sul tappeto.
Inizio a fare le mie domande, che il mio traduttore pronuncerà in wolof, senza mai guardare il marabut negli occhi. Lui risponde solo dopo aver intervistato me: chi sono, che faccio, se sono sposata, dove lavoro, cosa ci facciamo in Senegal…
Il marabut si mostra soddisfatto del lavoro che sta facendo il dottor Antonio e la sua «Associazione Karibu insieme per crescere» e, pur capendo che io voglio risposte sul suo ruolo, su Touba, sul muridismo e sulla sua vita, lui, come prevedevo, non risponde alle mie domande. Inizia il suo sermone sulla bontà del muridismo, i cui seguaci sono persone che lavorano per Dio e per gli altri. Il suo lavoro è estremamente intenso. Accoglie centinaia e centinaia di persone che vengono a chiedergli aiuto, in cambio di un’offerta. Mi dice che ricevono milioni di franchi sefa ogni giorno, che poi vengono reinvestiti nell’aiuto ai più bisognosi.
Egli non è mai uscito dal Senegal, quindi non mi è difficile solleticare la sua curiosità sull’Italia di cui tanto ha sentito parlare. E mi sorprende il suo apparente imbarazzo nel sostenere il mio sguardo, mentre racconta e mi ascolta. È evidente che non è abituato a guardare negli occhi una donna o essere guardato mentre parla.
Dalla mia intervista viene fuori solo un suo encomio dei musulmani muridi, di Touba, importante non solo come meta di pellegrinaggio, ma anche dal punto di vista sociale. Su tutti i problemi del Senegal, dalla povertà alle squadre di bambini di strada, alla condizione delle donne, di estrema sottomissione agli uomini, Karim Mbacké Fallilou sorvola, rispondendomi che sono argomenti di cui non deve e non può parlare la «seconda» guida suprema di Touba.
Gli racconto (anche se nutro qualche dubbio che il mio interprete stia traducendo esattamente ciò che dico) di come sia rimasta impressionata dalla bellezza della moschea di Touba, ma altrettanto sconcertata nel vedere la precarietà della vita e le difficoltà delle persone visitate nei villaggi nel deserto, dove l’acqua è ancora prerogativa del solo Grande Allah e dove sopravvivere è davvero un miracolo.
Spiego al marabut che stiamo realizzando un libro fotografico sul Senegal e che mi piacerebbe invitarlo in Italia per presentarlo. Solo più tardi mi renderò conto della mia incoscienza nel fare tale invito: la facilità con cui ci ha ricevuto mi ha fatto dimenticare il ruolo e l’importanza di questo personaggio per i senegalesi di tutto il mondo.

quasi onnipotente
Il marabut di Touba ha un potere davvero assoluto in Senegal. Non esiste politico o presidente che possa ostacolarlo. Anzi, questi non possono che assecondarlo, in quanto egli è l’unico in grado di smuovere, convincere o «obbligare» masse di centinaia di migliaia di senegalesi a fare quello che lui crede sia giusto. È l’unico uomo che può vantarsi di decidere in maniera esclusiva e assoluta di vita, carriera, futuro e morte di una persona.
Verrò in seguito a sapere che qualsiasi senegalese che sia uscito o che voglia uscire dal paese in maniera legale o illegale, prima di partire e di iniziare la documentazione per il rilascio del passaporto ha bisogno di una lettera del marabut. Il suo potere assoluto quindi è legale sotto tutti gli effetti.
Non è un segreto, anche se nessun senegalese potrà mai ammetterlo chiaramente a un giornalista, che il primo stipendio di un emigrato andrà al marabut e non alla propria famiglia, per non parlare dei finanziamenti che i senegalesi continueranno a mandare a Touba «spontaneamente». Il marabut decide perfino quando un emigrato debba tornare a casa e quale tipo di attività aprire.
Alcuni amici senegalesi mi hanno raccontato che non è semplice tornare a casa. Prima di tutto bisogna riportare tanti soldi poiché, oltre a parenti e amici, si presenta a casa tutto il villaggio per mangiare tranquillamente e per chiedere ogni sorta di aiuto. «Il problema o, meglio, lo sbaglio della maggior parte dei senegalesi che tornano in patria è che non hanno il coraggio di raccontare le difficoltà, la fatica e i sacrifici fatti per guadagnare e risparmiare i soldi spediti alle proprie famiglie».
«La vita dell’emigrato è dura – continua un altro amico senegalese – ma quella nei nostri nostri villaggi è ancora peggiore, per cui si affrontano tutti i sacrifici richiesti. Ma quando si ritorna, lo si deve fare alla grande: vestiti firmati, cellulari di ultima generazione, lussuosi orologi e occhiali da sole… Si riportano regali per tutti e soldi da distribuire ai parenti. Così si continua a far credere che in Europa tutto sia semplice, che i bianchi sono tutti ricchi… Per cui l’importante è arrivare in Europa; se non si trova lavoro, si spera di trovare qualche donna più o meno anziana che, in cambio di una relazione, darà soldi senza fare storie».

Romina Remigio

Romina Remigio




Turismo «irresponsabile»

Un primato non invidiabile

Da alcuni anni il Senegal è diventato la meta preferita del turismo sessuale femminile: nel paese africano è in continuo aumento il numero di donne europee e americane che scelgono di «divertirsi» con prestanti «accompagnatori» del posto.

Il sermone sulla bontà del muridismo fatto dal «grande marabut» di Touba ha soddisfatto varie mie curiosità, ma non ha fugato affatto alcune mie perplessità sulla società islamica in generale e su quella senegalese in particolare. Mi domando soprattutto come sia ancora possibile tollerare certe pratiche barbare come l’infibulazione, il matrimonio di bambine con vecchi e altre tradizioni che negano i diritti basilari della donna, destinata ad assolvere quattro compiti: servire e assecondare il marito, mettere al mondo e crescere i figli seguendo i dettami del marito.
Ancora più intrigante è il fatto che di fronte all’indottrinamento islamico di massa (non me ne vogliano i musulmani senegalesi), in una realtà così chiusa in se stessa, si possa concepire un turismo sessuale sfrenato come quello che si registra in Senegal!
La situazione del Senegal mi richiama alla mente quella dell’Iran, paese ogni giorno alla ribalta di giornali e telegiornali di tutto il mondo per la negazione dei diritti umani, violenze, soprusi e rigidità di ogni genere; eppure è uno dei paesi dove c’è il più alto tasso di ricostruzione dell’imene, di chirurgia plastica in generale, per non parlare della libertà sessuale, sperimentata solo nelle feste private, di nascosto dai pasdaran, i guardiani del popolo.
Sono convinta che le imposizioni dell’integralismo islamico, che vuole regolare ogni aspetto e comportamento della vita delle persone, non può che portare a realtà schizofreniche. Con ciò non voglio generalizzare: ho amiche di entrambi i paesi, i cui genitori non le hanno sottoposte a certi obblighi o violenze, ma ho potuto constatare quanto sia complicato per esse vivere in tali ambienti.
Ho sperimentato di persona come in Senegal sia impossibile per una donna bianca e sola, girare senza essere soffocata da continue richieste. Nell’Africa occidentale, a differenza che in Africa orientale, ho dovuto sempre trovare qualche persona che girasse insieme a me, non tanto perché fosse pericoloso stare da sola, ma semplicemente perché è impossibile fare il proprio lavoro. Girare per un mercato significa incontrare nugoli di ragazzi che vogliono venderti di tutto, e questo è normale, ma insistono e insistono, ti chiamano, ti bloccano, ti tirano, ti seguono per ore e ore, lamentandosi con esasperante logorrea.
Cerco di giustificare tale comportamento con l’errata concezione del bianco che si sono costruita, come colui che ha sempre tutto o che comunque possiede più di loro; sembra inutile tentare di convincerli del contrario. D’altronde ragazzi che nascono in una società dove devono sempre ubbidire a qualcuno senza se e senza ma, indottrinati da imam o marabut del proprio villaggio, che ascoltano i racconti di senegalesi emigrati e ritornati «ricchi» ai loro occhi, e magari all’età di 18-20 anni si ritrovano a Saly come «accompagnatori» di denarose donne bianche, più e meno vecchie, è normale che ci vedano solo in un certo modo.

Sono stata una settimana a Saly, la più famosa delle stazioni balneari del Senegal. Ho affittato un alloggio sulla spiaggia, proprio per capire come mai il Senegal, tra i paesi dell’Africa nera, sia la meta preferita del turismo sessuale soprattutto delle donne.
Un tipo di turismo ormai presente in varie località dell’Africa. Ne avevo già avuto sentore a Zanzibar alcuni anni fa, dove mi ero recata per godermi un po’ di mare, dopo sei mesi intensi di missione. Nell’albergo in cui alloggiavo, lavorava un ragazzo di nome Robert, che ogni giorno, in maniera molto garbata, mi chiedeva se volessi le fragole, se volessi fare un giro per i vicoli di Zanzibar. All’inizio scambiai la sua estrema cortesia con la gentilezza tipica dei tanzaniani, anche se mi chiedevo come mai, ai tropici, con l’abbondanza di frutta locale, avesse voluto offrirmi proprio le fragole.
Dopo qualche giorno, a colazione, assorta nel contemplare l’oceano, notai una signora americana, mia vicina di stanza, mano nella mano con un giovanissimo tanzaniano: riflettendo su quel particolare, cominciai a rivalutare gli atteggiamenti di Robert. Il Tanzania è così discreto su queste cose che mi sembrava troppo strano. Ma alla fine invitai Robert a sedersi al mio tavolo per fargli delle domande. E lui, imbarazzato, iniziò a rivelarmi che era venuto da Njombe a Zanzibar per lavorare, che l’albergo offriva ai clienti, compreso nel prezzo, anche un particolare extra, ossia un compagno o compagna. Ecco le fragole, mi dissi! Robert non sapeva più come farmi comprendere che lui era lì a mia disposizione e non riusciva a capire come mai una giovane ragazza bianca fosse venuta lì solo per il mare e per il sole. Dalla mia accettazione o meno dipendeva parte del suo stipendio, poiché gli albergatori, convinti che gli inservienti arrotondassero con le turiste, li pagavano pochissimo.  

In Senegal invece quest’attività è molto meno riservata, per non dire spesso ai limiti del ridicolo. A Saly, ogni albergo o spiaggia privata ha una schiera di bagnini che non aspettano altro che arrivi la prima anziana. Paco mi racconta come tantissimi ragazzi siano sposati con delle nonne bianche.
Una mattina scendo in spiaggia sotto casa e mi ritrovo accerchiata da una decina di anziane signore, che con i libri sotto braccio e audacissimi bikini, non danno affatto l’impressione di essere lì per abbronzarsi. Nel giro di pochi minuti ecco l’assalto di frotte di giovani senegalesi altissimi, i corpi cosparsi di olio che evidenzia i loro fisici scultorei.
Cerco di trattenermi dal ridere quando vedo la mia vicina di camera, abbronzatissima e in topless, 60 anni passati da un pezzo, rossetto vermiglio sui denti più che sulle labbra, andare incontro a suo marito, un diciottenne, baciandolo appassionatamente. Una scena davvero imbarazzante.
Altrettanto comico è vedere i ragazzi discutere tra loro per conquistare l’ambita preda. Come trattenersi dal ridere quando li ascolti lanciarsi in frasi del tipo: «Ma che bella pelle; come sei carina; che begli occhi… » e magari la donna ha gli occhiali da sole? E tutto questo indirizzato ad anziane che cercano in tutti modi di vestirsi e muoversi come ragazzine.
La sera, passeggiando per la lunga spiaggia, è un continuo susseguirsi di ragazzi che si avvicinano per chiedermi se voglio compagnia, mentre osservo tante coppie di «nonne e nipoti», mano nella mano.
Parlando seriamente con Paco, vengo a scoprire come la realtà del turismo sessuale sia tutt’altro che comica, soprattutto per i danni che esso provoca nelle nuove generazioni. «Ci si può sposare con donne senegalesi, farsi una famiglia; ma anziché lavorare, ci si fa mantenere da donne che vengono in Senegal a divertirsi per qualche mese e, con un po’ di fortuna, ci si fa mantenere tutto l’anno».
Paco mi racconta che anche lui è stato sposato con una donna svizzera che aveva l’età di sua madre. Si erano conosciuti quando lui era molto giovane. E per qualche anno è stato il suo giocattolo, da usare come e quanto lei voleva. Alla fine la convivenza era diventata impossibile e Paco l’ha lasciata. Lei ha iniziato a tormentarlo, minacciando di suicidarsi, finché Paco è riuscito farle conoscere un suo amico.
La sera facciamo un giro anche per i vari locali di ritrovo e posso constatare come ce ne siano davvero per tutti: locali per omosessuali, locali per uomini in cerca di donne e per donne in cerca di uomini. Osservo quelli che potrebbero essere miei nonni e nonne. E tanti italiani. La chiamano trasgressione semplice. Con pochi dollari fai quello che vuoi. Fuori dai locali molti ragazzini, non avendo soldi per entrare, cercano di imitare i loro «modelli», provando a sedurre chiunque passi.
Generazioni di ragazzi e ragazze crescono seguendo questi modelli come dei valori. «Il Senegal non era così. Non c’è nemmeno voglia di sacrificio, di lavoro – mi spiega Rosalie -. Il pensiero dominante è farsi mantenere da parenti all’estero o da donne e uomini bianchi. Certo, non siamo tutti così, ma credimi, le percentuali sono diventate altissime, soprattutto nelle grandi città. Questa concezione del gigolo senegalese poi, non fa che rafforzare il potere dell’uomo in generale».

Non voglio concludere questa mia esperienza descrivendo solo realtà negative: il Senegal, come l’Africa in generale, è sinonimo di luce, musica, arte, spiagge, isole bellissime, gente cordiale. Tale genere di turismo non è affatto da generalizzare. Sono innumerevoli le organizzazioni e le inziative che promuovono il turismo responsabile in molte parti del Senegal. Iniziative che, unite a politiche e campagne del governo riescono a promuovere lo sviluppo del paese e ad arginare certi drammi come la diffusione dell’aids, diventato una pandemia in altri stati africani.
L’economia progredisce. Grazie alla creazione di infrastrutture, banche inteazionali, autostrada… il Senegal continua ad attirare molti investitori: con l’augurio che non siano tutti cinesi.

Romina Remigio

Romina Remigio




Occhi di bimbi da sognare

Dakar: visita alla pouponniere

«Al servizio della vita in una delle sue forme più amabili, l’accoglienza e l’accompagnamento dei neonati, la Pouponnière delle Francescane Missionarie di Maria si presenta quale risposta a diversi appelli, giunti da famiglie o istituzioni civili del paese. Essa manifesta la stima rivolta all’essere umano sin dalle prime tappe della sua esistenza (Giovanni Paolo II, 22 febbraio 1992).

Arrivo alla Pouponnière dopo aver attraversato gran parte della Medina, il quartiere musulmano di Dakar. Il nostro taxi gira e rigira tra i vicoli stretti e saturi di gente. Sembra di essere in un labirinto, con strade e case tutte uguali, come le persone. Donne coperte fino ai piedi e uomini con il loro tipico babou. Nonostante siano passate le tre pomeridiane il caldo è ancora intenso; l’umidità non ha mai smesso di soffocare i miei polmoni, per non dire dell’effetto sui miei capelli, così increspati che mi sembra di avere un cespuglio in testa.
Il muezzin chiama alla preghiera. Il nostro tassista continua a sostenere di conoscere la strada, ma non facciamo altro che girare e rigirare, immergendoci sempre più nel cuore della Medina. Sono stanca. Stiamo viaggiando dalla mattina presto. Scopro tanti occhi che mi fissano. Sono convinta che non avranno mai visto una bianca con dei capelli così sconvolti in testa! O mi fissano perché le donne senegalesi amano le parrucche! Sembra che non abbiano folte criniere. I miei occhi fotografano ogni angolo, ogni sguardo e ogni attività di questo non troppo agitato quartiere.
C’è tanta gente, ma i movimenti sono lenti. Uomini seduti sotto ombrelloni giocano a dama. Un chiacchiericcio di sottofondo riempie l’aria. Ovunque gruppi che discutono e leggono il corano. Le donne vendono frutta, pesce e chincaglierie varie, sempre chiacchierando. Cerco di immergermi nei loro pensieri e discorsi, pur non capendone la lingua. Si racconteranno della preoccupazione per il futuro dei figli, dei mariti sempre più pesanti nel loro religioso maschilismo.
Inevitabilmente mi tornano alla mente le parole di amici che mi spiegavano come la religione stia diventando incompatibile con la società attuale. Propone e impone comportamenti retrò per un paese che cerca quotidianamente di metabolizzare la globalizzazione.
Dakar è la metafora della schizofrenia del Senegal. Una grande città dove confusione e modeità, povertà e ostentazione, integralismo religioso e comportamenti estrosi si fondono, cercando una dimensione di equilibrio. Ma ho imparato che il concetto di equilibrio ha un significato semantico diverso per gli africani rispetto al mio.

un nido tutto speciale
Finalmente arriviamo davanti al grande cancello della Pouponnière. Ci accoglie un uomo intento a dissetare i fiori e le piante di un giardino arso dal sole e da una temperatura proibitiva anche per una pianta. Operai al lavoro continuano nella costruzione di un’altra casa per gli ospiti. Il compound è grande, ma si nota come gli edifici siano stati aggiunti nel corso degli anni.
La Pouponnière è stata fondata il 5 agosto 1955 dalle suore Francescane Missionarie di Maria e tuttora gestita da loro, sebbene aiutate da una dozzina di mame africane e dipendenti vari. È una sorta di orfanotrofio perché accoglie bambini orfani, abbandonati e malati; vi si respira un clima di calore e affetto.
La Pouponnière è stata creata come struttura parallela agli ospedali per quei servizi che gli stessi ospedali, già sovraccarichi di lavoro, non riuscivano a svolgere. Tra le problematiche maggiori: bambini denutriti o malnutriti che devono seguire per mesi una determinata alimentazione, neonati le cui mamme sono morte di parto e neonati abbandonati perché figli illegittimi o nati fuori dal matrimonio, figli di genitori di etnie diverse e bambini abbandonati per le vie della città.
Dal 1955 a oggi la Pouponnière ha accolto 4.150 bambini, da zero a 12 mesi: 3.496 di essi erano orfani e/o casi sociali, 550 sono stati adottati o stanno seguendo le procedure di adozione e solo 104 non ce l’hanno fatta. Attualmente i bambini sono 87 da zero a 12 mesi. Al secondo piano ci sono i bambini più piccoli da zero a 4 mesi. Attraverso i corridoi ordinati, con lettini, culle, scaffali carichi di vestitini e peluches mandati da ogni parte del mondo.
Mi accolgono mame senegalesi intente nella pulizia degli spazi e dei bambini. Grandi occhi neri spuntano dalle culle. Mi sorridono e tutti vogliono saltarmi in braccio. Osservo le donne correre da una culla all’altra. Nelle stanze vicine c’è quella del bagnetto. Una decina di bambini vengono lavati, profumati e vestiti. Sembra una catena di montaggio! Mani che disinfettano, girano, toccano, premono quei corpicini per accertarsi che vada tutto bene.
Molti bimbi vengono da situazioni davvero estreme. Tanti sono visibilmente denutriti e hanno bisogno di cure continue, sono piccolissimi.

bisognosi di coccole
Nel giro di un quarto d’ora mi ritrovo a dondolare con il mio piede destro, un bimbo urlante in un ovetto, un altro in braccio che mi si aggrappa al collo e un altro che gattonando sta lottando per alzarsi in piedi avvinghiato a un ginocchio. Vedendomi in panne, mi viene incontro una donna; per lei è una situazione normale: le donne africane riescono ad allevare sei, sette bambini insieme. Le vedo gestire una stanza di bambini con movimenti continui ma rilassati. Uno viene dondolato mentre l’altro vuole venire in braccio; nel mentre c’è quello che morde il vicino, il quale inizia a piangere; allora bisogna spostarlo, quello che inizia a gattonare titubante sembra geloso e si aggrappa alle gambe. Se inizia a piangere uno, partono tutti come allarmi impazziti.
Dopo mezz’ora le ragazze se la ridono, guardandomi seduta su una sedia con l’aria sconfortata. Me ne fanno scivolare in braccio uno così piccolo che quasi ho paura a tenerlo. Sembra un bambolotto. Si vedono solo gli occhi grandi e nerissimi, che mi fissano terrorizzati. È indeciso se piangere davanti a questa bianca dai tanti capelli o rilassarsi perché comunque è in braccio. Forse avverte la paura delle mie braccia, allora da solo si posiziona come meglio crede e si rigira senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
Verrò a sapere poi dalla suora che quel bimbo ha appena una settimana ed è stato abbandonato davanti al cancello della Pouponnière; la madre, secondo voci di quartiere, era una ragazzina molto giovane di Gorèe, l’isola di fronte a Dakar. È denutrito e spaventato. Marì mi dice che all’inizio non voleva nemmeno mangiare, piangeva tutto il giorno; poi, piano piano, sono riuscite a tranquillizzarlo. Nella sua tutina troppo lunga sembra ancora più piccolo. Si stende, sbadiglia, mantenendo sempre gli occhi incollati ai miei.
Altri bambini si avvicinano perché sono abituati a vedere volontari che vengono per brevi periodi e che li coccolano esageratamente. Ma non si può fare diversamente. Le stesse mame li sbaciucchiano, li accarezzano! E io giro per la stanza con questo fagottino, che mi si è così raggomitolato stringendosi al collo, che quasi trattengo il respiro per paura di svegliarlo. E quando meno me l’aspetto, si sveglia, si gira ancora traballante e mi fa un sorriso che mi scioglie. Inevitabilmente mi chiedo cosa debba aver provato la mamma ad abbandonarlo. Sarà stata una sua scelta oppure è stata obbligata! E la vita, il futuro di questo piccino come sarà?
Entro nella stanza dei giochi: su un enorme materassino mi trovo davanti a una scena simile alle cartoline di Anne Geddes: una decina di bambini messi in cerchio dormono l’uno accanto all’altro.
impossibili istantanee  
Al secondo piano della Pouponnière invece ci accolgono bambini dai sei ai dodici mesi che gattonano a più non posso. Stessa struttura: lungo i corridoi con culle a destra e a sinistra e i piccoli che si arrampicano e alzano le braccia cercando la mia attenzione.
Entro nella stanza dei giochi. C’è un enorme materassino come al primo piano; qui, però, i bambini non dormono, ma sfrecciano gattonando a una velocità pazzesca. Mi tolgo le scarpe e assisto a una maratona di quattro bimbi che mi corrono incontro quasi scavalcando gli altri pur di arrivare per primi ai miei piedi.
Sul materassino c’è chi dorme, chi infila le dita negli occhi dell’altro, chi si trascina per rubare il pupazzo al vicino: uno spettacolo! Sono tutti curiosi di toccare da vicino quello strano giocattolo che ho al collo: la macchina fotografica. In un baleno me ne trovo uno sulle ginocchia, un altro si aggrappa alle gambe; stendendo il braccio in altezza, cerco di allontanare la macchina fotografica dalle loro vivacissime mani, più veloci anche degli occhi. Sono letteralmente assaltata da questi bellissimi bambini che tra enormi sorrisi, baci e morsi cercano di convincermi a prenderli in braccio, per riuscire nell’intento di toccare il mio giocattolo.
Quando penso che si siano arresi, inizio a fare le foto, piegandomi per meglio sistemare l’inquadratura e subito me ne corrono incontro dieci come cagnolini che nel giro di dieci secondi, alitano, leccano, baciano, toccano me e l’obiettivo, ormai oscurato da così tanto «affetto».
Pur di fermarli per qualche minuto, faccio vedere loro dal monitor della macchina le foto già scattate, provocando un coro di grandi sorrisi, come se capissero le facce curiose delle foto. Hanno solo otto, nove, dieci mesi, ma sembrano bimbi di un paio di anni.

adozioni inteazionali
Qui alla Pouponnière permettono le adozioni inteazionali. Ma prima di affidare un bimbo ad altri, cercano parenti vicini o lontani che se ne possano occupare. Non tutti sono orfani o abbandonati; molti sono semplicemente nella struttura per ristabilirsi da casi di denutrizione o malnutrizione e dopo un anno, quando i bambini stanno bene, vengono reinseriti nelle proprie famiglie.
Mi spiega una suora che il loro fine principale, come quello degli assistenti sociali, è di aiutare i genitori e i bambini in difficoltà, cercando di non sradicarli dalla loro realtà familiare, neppure nei casi di crisi. Infatti i bambini mantengono i contatti con la famiglia che può visitarli di solito la domenica pomeriggio. Anche una volta reintrodotti in famiglia, la Pouponnière continua a sostenere i bambini fino ai due anni, attraverso razioni mensili di cibo e latte.
Nella Pouponnière c’è una casa riservata agli ospiti e ai numerosi volontari. Molte camere sono riservate alle coppie sposate che vengono a Dakar per adottare un bimbo.
Il Senegal non ha ancora ratificato la Convenzione dell’Aia (29-5-1993) sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni inteazionali. Ma è dotato di una legge intea che disciplina la materia attraverso il Codice di famiglia e il Codice di nazionalità; le condizioni per concedere un bambino in adozione sono alquanto rigorose: una di esse richiede ai genitori adottivi la permanenza di almeno tre settimane in Senegal, non solo per conoscere il bimbo da adottivo, ma anche la cultura e tradizioni del paese.

sogno realizzato
Mentre mi preparo un caffè nella cucina in comune, entrano Pedro e Maria salutando gentilissimi; mi basta guardare i loro occhi raggianti per capire: Maria mi dice subito che hanno realizzato il loro sogno; dopo aver fatto tutta la trafila per l’adozione, sono stati finalmente chiamati e da una settimana sono in Senegal. C’è una bambina per loro! Si parlano amorevolmente e si abbracciano continuamente. Hanno 34 anni lui e 32 lei. Stanno insieme da sempre, da quando avevano dodici anni, praticamente sono cresciuti insieme. Sono di un paesino vicino Malaga, in Spagna.
Dico loro che sono una fotogiornalista, interessata alla loro storia e che vorrei raccontarla. Loro sono così felici che non hanno remore a rispondere alle mie domande.
Preparo tre tazzine di caffè e inizio delicatamente ad affrontare l’argomento. Dall’inizio alla fine della nostra chiacchierata essi si terranno per mano, sorridendosi e sostenendosi continuamente anche nei momenti più delicati. Maria ha avuto da giovanissima un tumore da cui è uscita bene, nonostante mesi e mesi di chemioterapia. Ma la conseguenza finale è stata il non poter avere figli. Pedro mi racconta che hanno girato tutta la Spagna, provato vari interventi e anche l’inseminazione artificiale, ma sembra che l’utero di Maria non riesca ad accogliere un bambino.
«Sono stati mesi e anni duri. Tristi! Tutti i nostri amici si facevano una famiglia – racconta Pedro -. Nella nostra cittadina un matrimonio senza bambini non è un matrimonio. Non è vita. Gli anni passavano e la depressione aumentava. Abbiamo scoperto che Maria non riusciva a concepire perché aveva un problema alle ovaie, sembrava una ciste, invece era un tumore. Subito la paura di non poter avere bambini. Eravamo troppo giovani. Ci siamo sposati a vent’anni, perché ci sembrava di perdere tempo. Io volevo diventare padre. Insegnare a mio figlio a pescare, a giocare a calcio o se fosse stata una bimba, farla diventare la principessa di casa. Maria aveva ventidue anni quando l’abbiamo scoperto. Una volta operata ci avevano detto che non era stato toccato l’utero e che, seppure con difficoltà, sarebbe stato possibile avere un bambino. Invece non è stato così. Quanti medici, visite, ospedali, tentativi e, soprattutto, preghiere, ma nostro figlio non è arrivato. Siamo una famiglia di tradizione molto credente e devo assolutamente dire che l’unica cosa che ci ha tenuti insieme e che non ci ha mai fatto perdere la speranza è stata la fede. Sono momenti così difficili che non fai altro che domandarti perché! Perché a me? Perché a noi? Ci siamo fatti seguire dal nostro parroco, un carissimo amico, ma abbiamo seguito anche sedute di psicologi. Alla fine dopo un viaggio in Africa, in una missione, ci siamo detti: perché non aiutare uno di questi straordinari bimbi che potrebbe darci la serenità e la felicità che sogniamo? Una missionaria ci aveva parlato del Senegal e della Pouponnière e, poiché non siamo poi tanto lontani, siamo venuti a informarci».
«Quando siamo entrati in quella stanza – continua Maria – e abbiamo visto così tanti angioletti che ci chiedevano solo di essere felici, è bastato guardarci per convincerci che nostro figlio era lì. Sarebbe stato uno di loro. E così abbiamo iniziato subito tutte le pratiche di adozione e finalmente dopo un anno e mezzo ci hanno chiamato dicendoci di venire per conoscere la nostra bambina. Ha quattro mesi. È stata portata qui dalla polizia, dicendo di averla trovata dietro un albergo. Forse è figlia di qualche ragazza che lavora lì. Quello che ci importa è che sta bene ed è serena. Poi è bellissima!».
Maria interrompe il racconto perché è l’ora in cui possono andare a prendere la bambina. La chiameranno Angela. Quando rientrerò dal mio giro per Dakar, li troverò fuori in terrazzo assorti nell’osservare Angela che si gode tutto il loro affetto. Mi basta guardarli per capire davvero cosa sia la felicità.

Romina Remigio

Romina Remigio




Squali senza pinne

Rientro dei pescatori e crisi del mercato ittico

In Senegal la pesca occupa più di 600 mila persone, di cui 400 mila impegnate nella pesca tradizionale; ma la quantità di pesce è diminuita dell’80% rispetto a dieci anni fa. La crisi è iniziata quando pescherecci europei e asiatici hanno avuto licenza di depredare le acque africane, con sistemi che mettono a rischio la riproduzione ittica.

Il giorno prima di lasciare il Senegal, la mattina, Rosalie mi guida in un giro nel porto di Dakar, il più importante dell’Africa dell’Ovest. Accanto a enormi navi cariche di container in attesa di essere sdoganati, tante piroghe di legno e relitti che ancora escono in mare per la pesca. Coloratissime, slanciate nella loro lunghezza, le piroghe sono in grado di stare in mare per settimane di pesca. Sembrano esili e quasi traballanti, eppure con quelle barchette, mi assicura Rosalie, i pescatori senegalesi si spingono fino nelle acque della Guinea Bissau. Ne vedo arrivare una che sembra scivoli sulle onde e sia sempre in procinto di ribaltarsi: un movimento precario che per i pescatori è normale, ma non per me.
Più tardi, spinta dalla curiosità, chiederò a un pescatore di fare un giro nella sua piroga; ma non usciamo nemmeno dal porto che il mio stomaco in ebollizione e il mio colorito verde costringe il gentile pescatore a fare subito marcia indietro.
I pescherecci, anche quelli più grandi, non hanno sistemi di conservazione del pesce. Caricano le stive di ghiaccio riuscendo a conservare il pesce anche per una settimana. Non cerco nemmeno di spiegarmi come facciano; ormai ho la consapevolezza che quello che per noi sembra impossibile per loro è la normalità.
Incontro il signor Antonio, un armatore italiano in Senegal da quasi 20 anni, pur non parlando una parola di wolof né di francese. È Rosalie che si occupa di tutto per lui. Egli mi racconta come il mercato ittico in Senegal fosse diverso fino a qualche anno fa: «Qui si pescano tonnellate di pesce perché l’oceano è ricco di plancton. Una volta bastava calare le reti e in poco tempo si riempivano. Riempivamo container di pesce e li spedivamo in Italia. Da quando l’Unione europea ha fatto certi accordi bilaterali con il Senegal, la pesca non è più un settore redditizio, poiché barche da tutta l’Europa possono pescare liberamente al largo delle coste senegalesi».
«In cambio del permesso di pesca in acque africane, l’Unione europea offre cifre irrisorie, almeno a parer mio – continua il signor Antonio -. Due anni fa, il Marocco è stato il primo a contestare questa politica europea. Ora anche il Senegal chiede che i negoziati con Bruxelles tengano conto dell’impatto che la pesca tradizionale ha sulla gente, dato che coinvolge direttamente almeno 80 mila senegalesi e indirettamente altri 500 mila. Troppa gente rischia la rovina a causa delle modee pratiche industriali di pesca, ma l’Unione europea sembra preoccuparsi solo di riconfermare la possibilità di pescare in acque senegalesi. Inoltre, la sospensione dell’accordo tra Ue e Marocco non ha fatto altro che aumentare la pressione sulle risorse ittiche senegalesi. L’economia legata alla pesca tradizionale è in forte crisi. Cresce la disoccupazione tra i giovani e i meno giovani che erano già impegnati in questo settore. L’Ue insiste su pratiche di pesca dannose per i fondali: la “pesca pelagica”, cioè quella effettuata con reti lunghe anche un paio di chilometri, che raschiano i fondali e aggrediscono tanti tipi di pesci, impedendone la riproduzione, la pesca “da traino” e la pesca del tonno, tutte tecniche notevolmente invasive per i pesci».

Osservo i pescatori che passano da una barca all’altra parlando e interrogando. Rosalie mi dice che cercano lavoro, per una settimana piuttosto che per un giorno. L’immagine del rientro di centinaia di piroghe dall’oceano, con le donne ansiose sulla riva che aspettano i mariti e i figli, sarà la foto del Senegal che mi porterò dietro.
Arriviamo quando il sole non è più così alto. Iniziamo lo zig zag tra decine e decine di piroghe. Bambini le svuotano dall’acqua accumulata, come pescatori esperti. A destra e a sinistra sedute sulla sabbia, le donne chiacchierano mentre puliscono il pesce e lo preparano per i vari mercati. Una moltitudine di colori impressiona l’esposimetro della mia macchina fotografica che non sa più cosa mettere a fuoco. Bimbetti seguono le mamme intente nella trattativa. Schiere di donne ordinate come in una perfetta fila militare, aspettano i mariti a riva, pronte per scappare a vendere il pesce.
Rosalie mi spiega che la vendita del pesce spetta alle donne. Gli uomini si «limitano» a pescarlo. Saranno le mani esperte e veloci delle donne a sistemarlo esteticamente e a venderlo, seguendo le logiche di un marketing senegalese.
Nelle reti tantissimi piccoli squali sono rimasti impigliati; i pescatori ne tirano fuori a decine e decine dalle reti e li buttano sulla sabbia. Osservandoli per bene, si nota che moltissimi non hanno più le pinne. Sono stati i pescatori cinesi a catturarli, mutilarli, per le loro famose zuppe di «pinne di squalo», e a ributtarli in mare, condannandoli a una morte certa.  
Io sembro una bambina all’acquario. Non ho mai visto così tante specie di pesci. Enormi, colorati e dalle espressioni più strane. Anche i cetacei sono tanti, così pure i molluschi racchiusi in bellissime conchiglie.

Per salutarci, Paco decide di mostrarci come anche gli uomini senegalesi sappiano cucinare. Sarà che l’ho talmente punzecchiato con la storia del turismo sessuale, delle donne che a parer mio, non suo, sono ancora troppo sottomesse, che vuole lasciarmi un ricordo indimenticabile del Senegal e della sua gente. E da che mondo è mondo, come si può sfuggire al piacere della gola? Prenderà del pesce al mercato e ci preparerà dei piatti tipici senegalesi. Dopo un paio di ore di lavoro, è fatta. E il risultato sono piatti squisiti che ci lasceranno la voglia di tornare in Senegal.

Romina Remigio

Romina Remigio




Non solo han

Introduzione

In Cina, il paese più popoloso del mondo (1,4 miliardi di persone), ci sono 56 etnie. Di queste, 55 sono minoranze.

La casa è costruita interamente di legno: è composta da una grande stanza all’interno della quale ci sono un divano, alcune sedie e un poster che raffigura Mao Zedong, Deng Xiaoping e l’attuale presidente cinese, Hu Jintao. Al centro una stufa. Le due contadine che ci ospitano sono impegnate nella preparazione di un pasto: verdure raccolte nella passeggiata precedente, riso da bollire, altre verdure tagliate, crude. C’è anche una bambina, occhi fissi sulla televisione, immancabile, e mano ferma sul telecomando: sembra essere in grado di cambiare un canale al secondo. Fuori, le risaie di Ping’an, sud della Cina, regione del Guangxi, piccolo paese arroccato su colline, circondato da distese di terrazze: la «schiena del Drago», come vengono chiamate, mentre le schiene umane sono curve a lavorare, riparandosi da zanzare e da un sole che picchia e che rende arsa l’aria. All’ombra del legno è fresco, si prepara la tavola e si mangia insieme.
«Noi siamo yao», raccontano in mandarino le due signore, poi parlano tra di loro in dialetto e lo stupore taglia il cono d’ombra quando chiedono il nome delle verdure in mandarino ad un laowai, uno straniero. Loro parlano un’altra lingua, eppure sono cinesi.
Nell’immaginario collettivo i cinesi sono tutti uguali: le tante comunità – le chinatown così esotiche nel nome, ma spesso osteggiate – sparse per il mondo, i loro ristoranti, una stampa talvolta arruffona nel parlare di Cina in termini monolitici, quasi fosse un gigante stralunato appoggiato ai propri recenti successi, non aiutano a distinguerli. Eppure quelli che noi chiamiamo cinesi, sono solo una – la maggioritaria – della 56 etnie di cui è composto il paese, un continente. Ci sono gli han e altre 55 etnie, che rivendicano il proprio essere cinesi e le proprie peculiarità culturali. Chiedono riconoscimento delle proprie tradizioni, della lingua, all’interno dell’unione politica della Madre Cina.
È uno dei nodi della Cina contemporanea: gestire uno sviluppo economico che sappia creare l’armonia sociale: tra cinesi, tra han e le altre etnie, garantendo a tutti, senza differenze  e pregiudizi culturali, i frutti dello sviluppo economico. Una diatriba che a parole trova una sua collocazione nella Costituzione della Repubblica popolare, ma che nei fatti costituisce uno dei tanti dilemmi interni della Cina contemporanea. Uscendo dalle grandi città, Pechino, Shanghai e Canton, si arriva in posti che sembrano persi nei tempi andati della storia millenaria cinese: pertugi storici in cui si ritrova assimilazione, diversità, consumo e tradizione.
In questo dossier, proveremo a guardare al gigante asiatico con uno sguardo sbilenco e nuovo. Perché i cinesi non sono tutti uguali.

Simone Pieranni

Simone Pieranni




Mille volti, un cuore antico

Dall’impero alla Cina comunista

Prima fu l’Impero, poi il confucianesimo, infine la nuova Cina. Secondo l’articolo 4 della Costituzione del 1982: «Le nazionalità della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica, protegge e sviluppa l’uguaglianza, l’unità, l’aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità (…)». la realtà mostra un paese in cui gli han, il gruppo maggioritario (oltre il 90% della popolazione), sono divenuti forza preponderante in ogni regione. E non sempre in modo pacifico, come dimostrano le rivolte in Tibet e Xinjiang.

La Cina è un respiro ovunque diverso, che avvolge paesaggi tra loro distanti migliaia di chilometri. È composta da mille volti e da un cuore antico: il letto di un fiume che fu fonte di civiltà. Oggi il Fiume giallo è uno specchio desolato di acque inquinate e terre aride. Di un canto nostalgico intonato al «xibei», il Nord-Ovest cinese, dove scorre il vecchio fiume anima pulsante delle prime dinastie tra storia e leggenda; il Nord-Ovest delle rotte carovaniere in arrivo dal centro Asia. Oggi, semplicemente, una delle aree più povere della Cina modea. Come ipotesi di partenza, la Cina potrebbe essere un contenitore di popolazioni ed etnie: 56 stando ai gruppi riconosciuti ufficialmente. Non solo han, tibetani e al limite uiguro; ma anche mancesi, mongoli, kazak, yao, bai, yi, miao, zhuang, mosuo… persino coreani e russi. Montagne altissime ad ovest, deserto e prateria a Nord, neve e ghiacci a Nord-Est, le grandi piane al centro, la fascia costiera e le skylines a Sud-Est, i picchi carsici e le risaie a terrazza del Sud, l’aria dei tropici a Sud-Ovest.
La maggior parte delle volte che sentiamo pronunciare la parola «cinese» in realtà si parla di cinesi han. Vale a dire il gruppo maggioritario, con oltre il 90% della popolazione, dislocato su un territorio insufficiente. Oggi le aree autonome (regioni, prefetture e contee) destinate alle minoranze coprono il 64% del territorio, ma negli anni la penetrazione han si è fatta sempre più possente. Si prenda la Regione autonoma della Mongolia intea, dove i mongoli sono ormai solo il 15% della popolazione.
«Cinese» è una parola che, almeno nelle intenzioni, significa anche tibetano o uiguro. La Cina come concetto è una creazione delle correnti riformiste e rivoluzionarie di fine Ottocento, quando il pensiero tradizionale intriso di confucianesimo si aprì all’idea modea di nazione: uno stato unitario, con un territorio, con dei confini. E con un popolo. Non più sudditi del «Figlio del cielo» costretti nell’angusto spazio di riti e gerarchie, ma nazione che partecipa al potere nel nome dei principi di uguaglianza, cittadinanza e rappresentanza. Era questo il nuovo cittadino cinese che emerse dalla cenere della Rivoluzione del 1911 (si legga la cronistoria), membro di uno stato che rivendicò i confini dell’antico Impero, includendo così un groviglio di popolazioni eterogenee, spesso parlanti lingue e persino con sistemi di scrittura diversi.
Nella retorica nazionalista sarebbe divenuta la «Repubblica dei cinque gruppi» (Wu zu gonghe), sottintendendo i cinque principali gruppi etnici: han, mancese, mongolo, hui (i musulmani cinesi) e tibetani. A sostegno della tesi venivano citati millenari processi di scambi e di reciproca assimilazione tra la maggioranza han e le popolazioni minoritarie, tutte dislocate alla periferia del vecchio Impero. L’ideale era quello di una famiglia, il cui ultimo stadio evolutivo sarebbe stato la «Grande armonia» (Da tong), un ideale dal sapore confuciano. Modeità e tradizione. Per capie la convergenza bisogna ripartire dalle dinamiche di una fase storica ben precisa: l’imperialismo. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero cinese fu ridotto ad uno status semi-coloniale, che destinava la gestione delle principali risorse economiche alle Grandi potenze coloniali e lasciava all’imperatore una sovranità nominale, vuota. L’Impero era allo sfascio: tecnicamente arretrato, sfruttato economicamente, umiliato politicamente, militarmente e persino nello spirito, vista la diffusione dell’oppio britannico nei circoli amministrativi, una piaga che mirava dritto al cuore dell’integrità etica professata dal confucianesimo.
Fu allora che venne intrapreso il confronto con la modeità. L’ideale di sviluppo, ancora oggi tanto decantato dalla dirigenza comunista, si impose come mezzo di riscatto per un paese da ricostruire. La decadenza del presente era compensata da un sogno di grandezza da conquistare. Linearismo ed evoluzionismo. Lo strumento per conseguire tutto ciò era la ragione, il razionalismo economico e politico. L’intento di modeizzazione tecnica anticipò quella del pensiero politico, che costituì una rivoluzione ancora più grande, in grado di stravolgere i rapporti tra i cinesi han ed i loro vicini, le minoranze. La questione etnica stava prendendo forma anche in Cina.
Il dogma politico supremo introdotto dal nuovo pensiero fu quello dello stato-nazione moderno, centralizzato, dotato di confini ben definiti e rappresentato da una nazione unitaria. L’essere cinese veniva proposto non solo sul piano politico ma ipotizzato etnicamente, malgrado la varietà culturale. In termini politici, l’autorità centrale fu estesa alle province più lontane dalla capitale come mai era stato rivendicato in epoca imperiale. La maggioranza han, storicamente e quantitativamente dominante, veniva investita dalla retorica nazionalista del ruolo guida in campo politico ed economico. Un fratello maggiore in grado di prendere per mano le arretrate minoranze e rendere grande la madrepatria, queste le parole della propaganda ufficiale. La realtà, inizialmente, fu più complessa: il potere centrale era troppo debole per tradurre nella pratica la sua ambizione nazionalista, ostacolato ad esempio dai signori della guerra disseminati su tutto il territorio cinese. Anche alla periferia della nuova repubblica le istituzioni tradizionali delle minoranze continuavano ad agire in completa autonomia, quando non rivendicavano apertamente l’indipendenza.
Perché la Cina nella sua transizione ad una forma politica modea ha assunto l’aspetto paradossale di un Impero nelle vesti di una nazione? Questione di potere, sete di riscatto dal giogo coloniale, l’obbligo di assimilare le regole del mondo moderno per sopravvivere; ma non solo. Ci fu anche una percezione di sé che, come in tutte le nazioni, ha fatto leva su simboli, miti, storie, valori culturali consolidatisi nel tempo. Una rielaborazione della memoria storica collettiva. Il percorso dell’Impero cinese fu un perfezionamento di una cultura politica secolare, millenaria, capace di guadagnarsi un riconoscimento nello spazio di un continente geografico, dalla Corea al Vietnam; e laddove non fu sempre ben accetta seppe scendere a compromessi con la diversità, dimostrandosi ricettiva e riuscendo a rielaborare «l’altro» in termini familiari.
L’Impero cinese non fu un’unità politica in cui un despota decideva il destino dei suoi sudditi, né il regno di un eroe conquistatore. L’Impero cinese fu equilibrio fra poli distinti: nomadi e contadini, barbari e civilizzati, minoranze e han. Un equilibrio che non escluse guerre e scontri, ma in cui a farla da padrona era una visione in cui ogni soggetto trovava un suo posto; dove ciò che era ritenuto barbaro doveva sì essere civilizzato, ma era comunque parte di un sistema ed accettato al suo interno. È sulla base di questi principi che l’Impero cinese si sviluppò rendendo ufficiale un sistema culturale oggi tradizionalmente associato al confucianesimo. Ma dal punto di vista delle relazioni «geopolitiche» ed inter-etniche si tratta di un qualcosa di più generale rispetto ad un sistema culturale; come un modo di concepire i rapporti con «l’altro» facendo riferimento a valori condivisi.

L’assimilazione delle popolazioni «non han»
È questa una possibile chiave interpretativa per osservare la funzione simbolica della Grande muraglia, che nell’immaginario di un cinese non è una semplice linea di demarcazione tra l’io ed il nemico, ma anche un crocevia e un punto d’incontro, probabilmente inizialmente di scontro, ma che poi permise di includere il diverso e di estendere i limiti della terra, quel «Ciò che è sotto il Cielo» (Tianxia) che rappresentava in epoca imperiale l’idea di Cina. Il mantenimento da parte dell’altro di una certa identità era addirittura funzionale al sistema, poiché visualizzava diversi livelli di penetrazione della civiltà, a seconda della distanza (geografica, culturale) dal Centro, l’Imperatore Figlio del cielo (Tianzi).
Si fa un gran parlare, spesso a ragione, dell’assimilazione cui le popolazioni «non han» furono storicamente sottoposte. Perché l’accettazione del diverso passava per una sua riqualificazione culturale. Gran parte delle minoranze cinesi di oggi mantengono ben poco della loro antica identità etnica. La forza dell’elemento han si manifestò nella riconversione di gruppi più deboli e nella migrazione intensiva dalle piane centrali verso Sud. Ma quelle culture provviste di maggiore personalità poterono coesistere con il sistema ufficiale ed operare all’interno di esso. Si prendano le oasi centrasiatiche dello Xinjiang, le praterie mongole o il Tibet buddhista. Il riconoscimento in realtà era reciproco ed era fondato sulla presenza di una complessa rete di gerarchie sovrapposte, in cui il rito svolgeva una funzione essenziale, evitando che si creassero degli scontri per l’esercizio effettivo tra diverse autorità. Per la storiografia cinese l’imperatore restava il centro politico supremo ed in una certa misura egli poté anche ricevere tale riconoscimento; ciò non toglie che per le altre popolazioni l’autorità imperiale fu soprattutto uno strumento di legittimazione per il proprio potere. Il buddhismo in Tibet non fu solo una religione ma espresse anche un sistema di valori alla base di una distinta cultura politica con un proprio codice simbolico, universalista proprio come l’ordine imperiale. In tempi antichi ci furono guerre tra Tibet ed Impero cinese, ma in ultima analisi si giunse ad un reciproco riconoscimento, in cui l’Imperatore entrò nella simbologia buddhista ed il Dalai Lama, a capo del sistema tradizionale tibetano, divenne parte attiva all’interno del sistema imperiale.
L’idea modea di Cina riprende la condivisione di una cultura politica antica, sottintendendo un contatto – già esistente – tra le popolazioni che componevano l’Impero. Oggi in province come quelle del Sichuan, dello Yunnan, del Guangxi e del Guizhou ci sono regioni dove diverse etnie coesistono ormai da secoli e la cui identità agisce chiaramente su diversi livelli. La memoria dell’epoca imperiale è andata però incontro ad una rielaborazione. Oggi il problema principale in rapporto alla questione etnica è la discriminazione politica, economica, sociale e persino culturale a cui le minoranze economicamente meno sviluppate sono condannate a causa dell’egemonizzazione dell’elemento han. Più che una volontà di sottomissione fu però il risultato di un processo storico: gli han furono il centro della Rivoluzione politica del 1911, nonché gli artefici della modeizzazione tecnica ed economica, il che li pose automaticamente alla guida della nuova Cina, la Cina comunista.

LE MINORANZE NELLE COSTITUZIONI DEL 1954 e del 1982
La Cina comunista ha ricercato la propria legittimità nel riconoscimento ufficiale delle etnie che ne compongono il territorio, attraverso un’opera di catalogazione sul campo durata decenni e che ad oggi ha portato allo scoperto 55 minoranze. I criteri adottati in quest’opera furono tutt’altro che scientifici e spesso l’identificazione etnica di una persona restò un ideale, vuoi per specifici interessi politico-strategici, vuoi per la forza dei processi di integrazione e di assimilazione, che spesso hanno reso difficile la distinzione chiara e netta dell’identità etnica di una persona. L’ultimo conteggio ufficiale (nel 2000) registrava più di 700 mila persone senza etnia, un gruppo di individui spesso unito dalla coscienza di non essere han ma che ignora la propria appartenenza.
La prima Costituzione cinese fu approvata nel 1954. In essa veniva sancito il principio di Stato unitario multietnico (art. 3), garantito attraverso il riconoscimento di uguaglianza tra i gruppi nazionali e dell’autonomia politica per le minoranze. Il riconoscimento della sovranità centrale, cui tutti gli organi amministrativi autonomi erano sottoposti, bilanciava la concessione di autonomia. Lo schema fu ripreso dalla Costituzione del 1982, l’ultima approvata in ordine di tempo, e dalla Legge per l’autonomia regionale nazionale della Repubblica popolare cinese (Rpc) del 1984. Questi due documenti si impegnavano a ribadire la compresenza di un’autorità centrale e di un potere decisionale autonomo nelle zone popolate da minoranze.
È stato osservato che la Costituzione del 1982, complice la svolta politica apportata da Deng Xiaoping, abbia contemplato maggiore apertura nel riconoscimento del particolarismo etnico. Nel dettaglio, veniva assunta una posizione netta contro la discriminazione etnica, si impegnava lo Stato centrale a investire nello sviluppo economico delle zone più arretrate e le minoranze nel mantenimento e nello sviluppo della propria cultura (art. 4). Anche il riconoscimento di autonomia politica andò incontro a una più approfondita formulazione: l’articolo 116 garantiva la libertà di approvare regolamenti locali in base alle esigenze particolari della popolazione o agli orientamenti culturali di una minoranza; gli articoli 117-122 sancivano invece l’autonomia in materia fiscale, culturale, economica, nell’educazione e persino in rapporto all’ordine pubblico locale.
Tuttavia, va notato che la Costituzione ribadiva a più riprese la priorità della funzione del potere centrale, il che avrebbe vanificato qualsiasi provvedimento autonomo se reputato in conflitto con l’interesse nazionale. La precisazione è tanto più evidente oggi: in seguito alle rivolte in Tibet e Xinjiang, la libertà religiosa e culturale è andata incontro a palesi restrizioni, che se giudicabili in parte anti-costituzionali d’altro canto sono ugualmente legittimate dalla Costituzione, che autorizza la limitazione dei poteri di autonomia in caso di minacce all’unità della nazione cinese (art. 4) e sottopone qualunque provvedimento autonomo all’approvazione del Comitato permanente del Congresso nazionale popolare (art. 116).
La politica comunista degli anni Cinquanta si fondò dunque sui principi di autodeterminazione delle etnie (all’interno dei confini politici cinesi) e di uguaglianza tra i gruppi riconosciuti. Ad essi fu concessa la creazione di unità amministrative (regioni, prefetture e contee) autonome su base etnica e regionale. Ma il preconcetto sulle minoranze permase, partendo dalla loro maggiore arretratezza, e l’atteggiamento degli han, che occupavano i maggiori posti al potere, continuò ad essere patealistico e profondamente evoluzionista, scaturendo così nella discriminazione. Oggi il controllo politico ed economico sono problemi reali in quelle regioni, come Tibet e Xinjiang (si legga l’articolo di Tania Di Muzio), dotate di un’identità etnica maggiormente distinta e storicamente autonome dal potere centrale cinese.
Alle tensioni etniche va aggiunta la questione ideologica. In un Paese multietnico come la Cina, l’impostazione marxista della questione nazionale ha avuto notevoli implicazioni pratiche, creando squilibri nelle relazioni tra i vari gruppi etnici. La definizione della società in rapporti di classe e l’ardore rivoluzionario sottovalutarono le profonde radici dei sistemi sociali nelle zone popolate dalle minoranze etniche, malgrado il più delle volte fossero fondati sulla disuguaglianza politica, economica e sociale. All’epoca della guerra civile, la Lunga marcia aveva attraversato molte delle regioni popolate da minoranze, guadagnandosi alcuni consensi grazie alla professione di ideali ugualitaristici. Ma gli iniziali auspici non furono seguiti da un’effettiva compatibilità, e spesso i processi di collettivizzazione vennero percepiti come una deligittimazione di autorità riconosciute dalla popolazione. La situazione fu ancora più tesa in quelle zone, come il Tibet, ove le istituzioni politiche godevano di uguale riconoscimento in ambito religioso. In questo caso la rivoluzione politica e sociale fu anche profanazione e umiliazione del sacro, suscitando le principali resistenze popolari. L’ascesa del radicalismo e la Rivoluzione culturale non fecero che acuire la cesura: la campagna contro i «quattro vecchi» (si jiu: vecchia cultura, vecchio pensiero, vecchie abitudine, vecchie usanze) fu uno degli aspetti principali dei movimenti di massa nelle aree minoritarie e risultò nella distruzione, in molti casi indelebile delle tradizioni culturali locali. Le guardie rosse furono mobilitate per smantellare le «vecchie idee», la «vecchia cultura», i «vecchi costumi» e le «vecchie tradizioni», il che rappresentò una legittimazione della distruzione di un patrimonio incalcolabile nel nome della Rivoluzione, oltre che degli attacchi fisici ad autorità politiche e religiose locali.

COMMERCIALIZZAZIONE DELLE CULTURE 
All’inizio degli anni Ottanta fu introdotta l’epoca della liberalizzazione e della nuova tolleranza culturale, una fase storica della Rpc in cui ci fu un nuovo riconoscimento del pluralismo, se non politico (in particolare soffocato dopo le repressioni di Tian’an men) almeno culturale. L’idea dello sviluppo economico delle minoranze divenne il principale mezzo di legittimazione della nuova dirigenza. Tuttavia non portò i frutti sperati: la rinascita culturale non determinò la rifioritura di un patrimonio seppellito, in gran parte andato perduto, ma somigliò più a una rielaborazione delle tradizioni culturali alla luce di un mondo globalizzato.
Inoltre, l’apertura al turismo ed agli investimenti nazionali ed inteazionali è scaturita spesso nella «commercializzazione delle culture delle minoranze». Il turismo ad esempio ha fatto sì che in molti monasteri tibetani si siano sviluppati dei centri di vendita di oggetti di ispirazione religiosa prodotti su scala industriale e proposti come autentiche reliquie. Nel 2001 la Contea tibetana di Gyalthang (cinese: Zhongdian), allora popolata da 122.000 abitanti, vinse la concorrenza di altre località per assumere il nome di «Shangri-la». Da allora si è tramutata in un groviglio turistico che, negli obiettivi divulgati dall’Ufficio turistico locale, mira a raggiungere nel 2012 un traffico annuo di 5 milioni di turisti (lo spiega l’articolo di Matteo Miavaldi).
Anche lo sviluppo è rimasto per molti versi un ideale: ad un effettivo miglioramento delle infrastrutture fa da contraltare la questione della marginalizzazione: gli han sono spesso all’origine dei progetti di sviluppo nelle regioni minoritarie risultando, di conseguenza, anche i principali beneficiari in termini di ritorno economico, a scapito delle minoranze che sono rimaste legate ai sistemi tradizionali di sussistenza, subendo i processi di urbanizzazione e sviluppo economico.

Mauro Crocenzi

Mauro Crocenzi




L’ultimo bazar (all’ombra della Mezzaluna)

Lo Xinjiang e gli uiguri

Lo Xinjiang è la regione abitata dagli uiguri, cinesi loro malgrado. L’immigrazione han ha ormai conquistato le città ed occupato tutti i posti chiave, ma la popolazione uigura resiste, forte di una diversità che è fisica e culturale. Oggi la loro ultima frontiera è la religione islamica e soprattutto la lingua, da difendere ad ogni costo. Tra mille difficoltà.

La terra che oggi è la Regione autonoma uigura del Xinjiang, la più grande provincia della Repubblica popolare cinese, copre un sesto del suo territorio. Zona dei floridi commerci di un tempo, che si sviluppavano sulla via della seta dal II secolo, è decaduta quando sono state aperte altre rotte di scambio tra Oriente e Occidente. I suoi confini toccano otto paesi: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir controllato dall’India. È gialla, nella sua parte meridionale, arida e secca laddove il deserto del Taklamakan sottrae all’uomo una parte vastissima di terra, o tra gli spettacolari canyon formatisi agli argini del deserto dalle forme e colori più diversi. Verde al Nord, dove montagne di perenni ghiacciai sfiorano il cielo, laghi dai colori cangianti e fiumi impetuosi hanno la forza di portare via ponti e strade e la rendono fertile per i pastori nomadi che in estate occupano le alte praterie. È in questa zona, a 320 km al nord di Urumqi che si trova il punto della terra più distante dal mare.
Le sue genti sono 13 diverse minoranze, di cui la maggiore è quella uigura. La popolazione cinese han oggi ha raggiunto quasi il numero di quest’ultima, facendosi spazio soprattutto nelle cittadine lungo la via centrale, dove anche le infrastrutture sono maggiormente sviluppate.
A Urumqi, capoluogo e centro economico del Xinjiang, per esempio, proprio via del popolo segna la linea divisoria tra le due etnie cinese e uigura. Sul bazar di Urumqi, negli anni Ottanta, Terzani scriveva: «È un museo dell’umanità: ad eccezione di quella nera, tutte le razze vi sono rappresentate». Quel bazar è stato teatro nel 2009 del tragico attacco degli uiguri ai danni dei cinesi e del contro attacco di quest’ultimi. I conflitti sociali di oggi che dividono le città e le persone hanno radici storiche, politiche ed economiche. Non è nostra intenzione parlarne in questa sede, però si sentono chiari sotto il sole cocente, come sono chiari i pregiudizi che crescono nelle due etnie in uguale misura, rafforzati da una propaganda che al posto dell’armonia crea sentimenti di rifiuto,  contrasto e puro campanilismo. La politica ha certamente un ruolo fondamentale in tutto questo. Non è la cultura a dividere, ma oggi, insieme alla religione, diventa un tema tra i più strumentalizzati nelle analisi e nelle reazioni delle due parti e nessuna delle due sembra più disposta a incontrare l’altra. Se non davanti ad un banco di frutta o di carne.
Si deve procedere per zone meno battute al sud, sulla strada che da Kashgar torna verso Oriente o si ramifica fino al Tibet e ai monti Kunlun, per trovare ancora qualche passaggio originale di una melodia tutta uigura. Questa è la zona dove gli uiguri sono ufficialmente ancora la maggioranza.

UIGURI: CINESI, MA TURCHI

L’origine degli uiguri è fatta risalire ad una tribù altaica dell’Asia centrale. Dal lago Baikal, vennero verso sud, nella parte nord del Xinjiang. In seguito ad un’ivasione kirghiza (840 d.C.) si spinsero più a sud, nel bacino del Tarim, dove incontrarono gli unni, popolazioni turche dell’Asia centrale. Alla caduta degli unni, nell’850 d.C., nacque il Turkestan orientale e con esso il primo regno uiguro1.
Possiamo affermare che questa popolazione fu l’anello centrale degli scambi, prima di tutto commerciali, tra Oriente e Occidente. Data la natura di quella terra poi – al Nord adatta a una vita nomade e al Sud a una vita più stanziale -, gli antenati degli uiguri di oggi furono anche il popolo che meglio si adattò a queste condizioni. Riuscirono a svilupparsi grazie all’abilità di mercanti, ma anche a una elasticità nell’amministrazione che contribuiva a mantenere la pace necessaria al commercio. La loro cultura perciò nasce e cresce in quest’ambiente dove coesistevano allo stesso tempo diverse religioni e diversi popoli, e su questo si basa. Foitori della giada ai cinesi da 3500 anni, hanno goduto del favore della dinastia Tang, che li apprezzava come maestri di musica, e della dinastia mongola Yuan, che permise la diffusione dell’islam. Nel XXI secolo sono per lo più  contadini e pastori nei piccoli villaggi intorno alle oasi. Alcuni sono impiegati negli uffici governativi o nelle aziende in città, con uno stile di vita nuovo. Si dichiarano turchi con onore e si riferiscono alla loro terra con il nome di «Turkistan orientale», nel nostalgico intento di continuare ad affermare la loro identità almeno nella propria lingua.
Nelle campagne greggi di pecore e capre pascolano sotto i pali delle centrali eoliche; qui i mezzi sono molto limitati, l’educazione è scadente e le opportunità sono poche. Un conseguente fenomeno è la migrazione verso le città costiere, dove la manodopera è sempre richiesta. Il governo ne è fautore e sono sempre di più gli uiguri, specie le donne, a spostarsi nella Cina centrale per lavorare, partecipando alla mescolanza di genti che avviene massiccia tra Cina centrale e questi territori occidentali. Me lo raccontano in una città singolare sulla via della seta centrale, Kuqa, che sembra ancora oggi un’oasi nel mantenere intatta la sua parte di case di fango basse e bianche affianco alle costruzioni cinesi. Forse perché tra queste case, in passato (dal 200 al 650 ca.), è vissuta un importante cultura, la Qiuzi, il cui carattere buddista è rimasto nelle grandiose grotte dei mille Budda di Kizil o meglio nelle 180 casse di affreschi portate in Europa dall’archeologo tedesco Van le Coq nel 1906 e nel 1913. In punta dei piedi tra i vicoli di Kuqa, intorno a ciò che è rimasto dell’antico regno, ormai muri di fango logorato da vento e acqua, spiando dalle porte aperte, quando il vento alza le tende, si vedono cortili interni coperti da pergole di viti che assicurano la necessaria ombra nelle ore più calde della giornata. Oltre le tende ci sono la vita familiare e le abitudini degli uiguri: grasse matrone su letti di tappeti osservano con sguardo da sfinge il chiasso dei bambini che giocano intorno. Stanno sdraiate, rotolano sui tappeti, si appoggiano su grandi cuscini ricamati a mano. Offrono ricovero allo straniero che passa, una panchetta di legno e un po’ di ombra, del profumatissimo tè alla menta; lamentano la mancanza di lavoro e le ristrettezze economiche in cui vivono. Le donne stanno a casa, gli uomini, se non specializzati, si arrangiano con lavori di consegne o simili.
Verso sud, dopo varie città dove i caratteri cinesi vanno per la maggiore e dopo Atush, dove risiedono gli uiguri ricchi figli del petrolio, finalmente ecco Kashgar.

PER LA NUOVA KASHGAR «RINGRAZIAMO “IL PARTITO”»

«Di fango son le case, di fango son le strade, le moschee, le tombe. Solo Mao è di granito». Quest’altra affascinante descrizione di Terzani, va rettificata. All’arrivo a Kashgar l’emozione  non può che essere ferita dallo spettacolo triste delle demolizioni e dagli occhi ancora più tristi dei suoi abitanti. Patrimonio culturale dell’umanità, la parte protetta dal biglietto d’ingresso è ciò che ne rimarrà. La città è oggi al centro del nuovo piano di sviluppo economico messo a punto per questa parte di Cina. Squadre di operai cinesi e qualche uiguro si danno da fare, giorno e notte, per ricostruire su quello che è già ridiventato polvere: «Costruiamo la nuova Kashgar», «Ringraziamo il Partito per la sua attenzione al popolo del Xinjiang» sottolineano i cartelli in caratteri cinesi intorno alle macerie. I bambini ci giocano sopra, le donne stanno sedute fuori dagli usci delle case ancora in piedi. La terra secca dei muri abbattuti è tanta che, al passarci sopra, schizza come l’acqua pestata in una pozzanghera.
Per «offrire» case più sicure e antisismiche in tutte le città che visito ci sono lavori in corso, demolizioni e avvisi per chi ci vive di prepararsi al ricollocamento entro i prossimi cinque anni. Nelle stesse città, cercare la moschea vuol dire trovare la zona che, nel tempo, è rimasta più intoccata e con lei panorami che mi riportano nella invisibile Eufemia di Calvino2.
Città nascoste dentro la città si fanno scoprire tra i vicoli bassi e stretti dove giocano bambini o chiacchierano le donne affacciate alle finestre. I bambini uiguri sono curiosi, gentili e affettuosi con lo straniero. Lo prendono per mano per guidarlo nei vicoli o si lanciano in un abbraccio che fa tremare chi non se lo aspetta. I sorrisi che aprono i loro occhi, neri o azzurri, fanno pensare quanto questa gente sia aperta verso l’esterno. Mahermut, un bambino di otto anni, mi indica il nome del nonno tra quelli della lista sul muro in lingua uigura. Ci vivono da anni in quel vicolo e si conoscono tutti. Mi guida in un giro tra racconti della scuola cinese che frequenta e domande su quello che sta lontano dal suo mondo ma vicino alla sua immaginazione. Passeggiamo in un sali e scendi tra profumi di pane appena sfornato, spezie macinate dal medico tradizionale per il tè, sangue del montone appena sacrificato ad Allah e vapori dei cibi comuni che si trovano per strada: pecora che bolle da ore nel pentolone con odori e spezie, il soffritto per il risotto, gli spaghetti gialli di grano che si servono freddi con verdure, aceto e salsa di sesamo.

UN COLLANTE DI NOME ISLAM

La città successiva è quella degli artigiani che continuano il mestiere dei loro padri. Balaustre ombreggiate delle case a due piani di inizio secolo danno sulla strada, e balconate coperte da motivi arabi e colori pastello attirano lo sguardo al cielo. C’è chi forgia il ferro creando zappe, lame, falci, picconi, chi batte sulla lamiera per fae casse di ogni dimensione, o i lavandini per i ristoranti e le brocche da giardino, chi fa piatti, teiere o anfore in rame per la casa, chi con il legno modella pioli per i letti e per le culle, o una scacchiera con re, regine, cavalli e pedoni. Abili mani tessono tappeti, altre lavorano l’oro, materiale di cui la zona è abbastanza foita.
Gli uiguri amano l’oro. Le donne portano sulle mani, pitturate di henna, bellissimi anelli intarsiati, intrecci di ricami quasi barocchi. Per le strade o nei mercati le donne sono una delle cose più belle da osservare, nei loro modi, nei gesti eleganti di mani segnate dal lavoro. Occhi scuri di nero kajal, rendono ancora più affascinante lo sguardo di quelle che mi vengono incontro. Amano curarsi, amano i profumi e portano, specie nel sud, il velo. Chi annodato dietro la testa a mo’ di copricapo, chi sotto il mento, chi lascia solo gli occhi allo sguardo altrui. Ce ne sono anche alcune che preferiscono guardare attraverso la rete del burqa. Tutte mi ricambiano con la stessa curiosità.
La figura della donna nella società uigura è centrale e molto particolare, se inserita in un contesto religioso musulmano: gli uiguri già buddisti, hanno adottato l’islam in una pratica molto meno stretta rispetto ai paesi arabi. Se è la donna a stare a casa, questa ha anche la libertà di uscire, studiare, e può scegliere di non portare il velo, come succede spesso tra le più giovani.
Ancora più a Sud, Hotan la descrivono come uno dei posti più duri per i forestieri, in quanto là gli uiguri sarebbero più chiusi nei dogmi religiosi. Al mio arrivo quasi non ne vedo. La statua di Mao e Kurban Tulun, l’eroe uiguro della rivoluzione cinese, governa piazza dell’Unità. È l’unico monumento in tutta la Cina che vede il vecchio Mao in compagnia. Nelle strade passano i taxi, i camion dei supermercati, quelli che portano macchine nuove o petrolio, passano bus enormi, passano camionette blindate della polizia. Tutte superano un carretto, che ben accostato al marciapiede prosegue lento per la sua strada. Lo trascina un mulo guidato da un vecchio uiguro che indossa un copricapo con ricami verdi, tanto popolare tra questa gente. Osservo e mi chiedo dove sia il suo mondo. Sul carro, donne, bambini, ragazzi uiguri che usano questo come taxi, dalle zone più periferiche. Al ritorno dal bazar della giada di Hotan, dove ogni venerdì e domenica, è mercanteggiata giada verde, bianca, nera, rosa, di fiume o di montagna, seduta sui tappeti ben piegati, per cinque mao (pari a cinque centesimi di euro), vedo le strade passare dal lato opposto: la periferia di case basse, ristoranti e lunghi barbecue per arrostire la carne di pecora venduta a tutti gli angoli, gli uomini che fanno la fila dal barbiere, le donne sulle scale di una moschea che offrono il loro acidissimo yogurt. E ancora foi rialzati per cuocere i tanti tipi di pane, sui quali i panettieri si chinano e con un gesto antico millenni mettono dentro l’impasto a forma di pizza con sesamo e cipolla.
Camminando tra la gente per questa terra, ho l’impressione che sia chiusa: le seconda domanda che rivolgono allo straniero in genere è: «Li conoscete gli uiguri al tuo paese? Ce ne sono?», «Beh… ora un po’ di più», la risposta imbarazzata dalla consapevolezza di quanto in Occidente non sappiamo. Perché degli uiguri se ne sente parlare da poco tempo e solo se ci sono rivolte o attentati. Anche in Cina.

ALLA «GUERRA» della lingua

I fatti dell’11 settembre e l’inserimento del «Partito islamico del Turkestan orientale» nella lista nera dei terroristi stranieri da parte del governo statunitense e delle Nazioni Uniti nel 2002, hanno fornito ai cinesi i presupposti formali per campagne antiterroristiche in queste zone. Ma questa è un’altra storia3.
Gli uiguri sono lontani, da Pechino e dal mondo. Dai loro cortili al mondo, si passa comunque per la Cina. D’altronde sono cinesi. Sono però «i cinesi meno cinesi». Loro malgrado.  Lo dice il Dna. Lo dicono i loro capelli ricci e i nasi di falco. Lo dicono la musica, la passione per il ballo, l’espansività dei gesti, dei modi, i rapporti sociali. Lo dicono le preghiere ripetute durante la giornata, quando per le stradine che circondano le moschee di Kashgar come del più remoto villaggio, da un minareto si diffonde la voce piena e possente del muezzin che li chiama a raccolta. Interrompono tutto, per questa pausa di preghiera. Sono di sicuro tra le minoranze meno sinizzate, probabilmente grazie al mantenimento di una lingua propria che, sostenuta dalla religione, porta con sé una identità molto distinta.
E l’uso di questa lingua nella religione è l’unico fattore che fa credere che la lingua uigura non morirà. Ma è la lingua cinese che permette agli uiguri di Cina di avere opportunità di scambio con l’estero, che non sia Turchia. È tramite il cinese che si studia l’inglese e sono cinesi le aziende che offrono lavori migliori. Ne sono sempre più convinti anche tanti genitori uiguri, come dimostrano ricerche cinesi e non sulle politiche linguistiche e sociali adottate4.
L’uiguro appartiene alle lingue turco-altaiche, di qui le similitudini e la passione uigura per la Turchia. La sua scrittura è basata su un alfabeto molto simile a quello arabo. La Costituzione cinese assicura il diritto per le minoranze di studiare nella propria lingua, e l’articolo 49 della Legge sull’autonomia regionale afferma addirittura che «i quadri di nazionalità han dovrebbero imparare a leggere e scrivere le lingue delle minoranze locali»5.  
La storia e la politica a questo proposito è lunga e vede molti cambi di direzione durante gli anni. Con la rivoluzione culturale il «nuovo» per gli uiguri fu l’uso delle lettere latine al posto di quelle uigure, producendo una generazione di analfabeti. Dopo la reintroduzione dell’uiguro scritto, sono state lanciate le scuole miste, a maggioranza cinese o uigura, poi trasformate in tre tipi di scuole: cinesi, uigure e miste. Nel 2004 sono state introdotte classi sperimentali con la doppia lingua.
Per gli uiguri, per la loro identità tali trasformazioni possono portare a cambiamenti culturali senza via di ritorno. E una lingua scritta e parlata è forse più importante dell’identità stessa, perché permette a questa identità di descriversi e di vivere.
Per il governo cinese invece, l’esistenza di quella cultura ma soprattutto di quella religione, può risultare scomoda sotto molti punti di vista. Il suo obiettivo, secondo i documenti ufficiali, è di avere, entro il 2012, l’85% delle scuole matee bilingue, cioè insegnare il cinese alla maggior parte della popolazione fin dai primi anni. E, temono gli uiguri, questo sarà un altro grande passo sulla  strada che – piano piano – porterà alla scomparsa delle scuole e della lingua uigure. Testimoni riportano recenti campagne di confisca di libri uiguri, bruciati perché «colpevoli» di supportare il sentimento separatista6.
Al momento molti denunciano una situazione in genere caotica, che vede studenti uiguri delle scuole a maggioranza cinese non saper scrivere nella lingua madre usata oltre i recinti scolastici, mentre quelli delle scuole a maggioranza uigura notevolmente svantaggiati quando aprono la loro porta sul mondo esterno. Nelle classi sperimentali bilingue invece, vengono insegnate le materie scientifiche in lingua cinese, mentre quelle letterarie e la lingua in uiguro. È del maggio 2002 la decisione del governo di insegnare la maggioranza dei corsi in cinese, come mi conferma Ohelan, insegnante uigura alla scuola media del villaggio di Dunkuotan, vicino Kuqa che, seguendo le politiche governative insegna in cinese e si rende conto di quanto ciò contribuisce a creare un livello bassissimo di educazione per i bambini. Secondo le statistiche il 98,6% degli insegnanti è uiguro; il restante cinese sembra non avere basi linguistiche uigure adeguate all’insegnamento, specie nelle zone più remote. D’altra parte, gli sforzi del governo mirati a bilanciare questa situazione sono molti e quasi tutti in «favore» delle minoranze: oltre alle ricerche per i libri di testo, ci sono i sussidi per i bimbi uiguri che scelgono una scuola matea con classi bilingue, o lo sconto sui crediti per studenti non han in sede d’esame d’accesso all’università, per i quali sono previsti anche esami in lingua madre.
L’Università del Xinjiang offre il corso di studio in «lingue e culture delle minoranze» in uiguro e kazako, ma Wang Lequan, capo del Pcc in Xinjiang dal 1994 affermava, anni fa, che il lavoro educativo e ideologico sarebbe stato una priorità nella battaglia al separatismo. Lui, che introdusse il cinese nelle scuole primarie e vietò agli uiguri impiegati in uffici governativi di portare la barba o il velo e di osservare il ramadan, è stato sostituito con una nuova classe di politici nell’aprile 20107.
Gli uiguri si dicono fiduciosi nel cambio al governo, fiduciosi di persone che sembrano essere più disposte al dialogo e al rispetto degli spazi di una cultura diversa. Nel frattempo, continuano a vivere secondo la loro musica.

Tania Di Muzio

Tania Di Muzio




Un’identità in bilico

Gli hui, i musulmani cinesi

In Cina, su 55 minoranze ufficialmente riconosciute 10 sono musulmane. Una di queste è costituita dagli hui, che si differenziano dagli han soltanto per la religione.

Quella dell’islam in Cina è una vicenda millenaria, le cui prime testimonianze risalgono all’epoca Tang (618-907 d.C.) quando mercanti arabi e persiani, provenienti dalle rotte marittime indiane, iniziarono a stabilirsi in diversi centri del sud. Molti di loro, pur vivendo in quartieri separati dove gli era permesso conservare le proprie usanze ed un proprio sistema di leggi, presero in moglie donne cinesi, contribuendo non solo alla crescita numerica della comunità musulmana, ma gettando di fatto le basi della loro stessa assimilazione etnica. Oggi, nella Rpc (Repubblica popolare cinese), ben 10 delle 55 minoranze nazionali ufficialmente riconosciute sono musulmane, tra cui la comunità hui risulta essere la più numerosa superando i dieci milioni, quasi la metà del totale. Enclave hui sono presenti praticamente in ogni città e – caso unico tra le varie minzu – la religione risulta essere l’unico carattere distintivo della loro identità. Di fatto, a differenza delle altre minoranze musulmane, gli hui sono prossimi agli han da un punto di vista tanto demografico, quanto culturale. Essi non possiedono infatti una propria lingua, un proprio territorio, e spesso si distinguono dagli han solamente per le pratiche alimentari. Proprio questa dispersione sul territorio può essere una delle ragioni dell’estrema polimorfia di pratiche e credenze islamiche oggi rintracciabili all’interno delle varie comunità hui, tra cui spicca una rilevante presenza sufi nel Nord-Ovest. Tutto ciò è viva testimonianza della profonda eterogeneità della comunità nel suo insieme. La stessa identità hui, peraltro, nasce solamente in un periodo recente, grazie alle politiche etniche della Rpc. Il termine «hui», infatti, è stato per secoli un contenitore piuttosto generale all’interno del quale, in Cina, erano definiti i musulmani senza alcuna distinzione etnica. In questo modo «hui» erano non solamente i musulmani cinesi (o che comunque parlavano mandarino), ma anche i turchi uiguri, le varie popolazioni dell’Asia centrale, i «saraceni», e via dicendo. La politica della Rpc, influenzata dall’esperienza sovietica, avrebbe invece portato ad una divisione tra le varie comunità musulmane cinesi, distinguendole secondo quei criteri storici, etnici e linguistici, che Stalin aveva già utilizzato in Asia centrale1.  A partire dagli anni Cinquanta, inoltre, grazie ad una serie di campagne di identificazione nazionale lanciate dallo stato, questi gruppi di musulmani cinesi avrebbero finito per riconoscersi come «hui», invece di definirsi, semplicemente, «musulmani».
L’identità hui rappresenta oggi, all’interno della RPC, un esempio unico di minoranza nazionale priva di legami linguistici o territoriali, basata esclusivamente sul fattore religioso. Nonostante ciò, grazie alle politiche etniche della Rpc, l’aspetto etnico – di per sé, appunto, inesistente – ha finito per giocare un ruolo più importante rispetto a quello religioso, evidenziando ancora una volta le motivazioni politiche sottese all’opera di catalogazione etnografica portata avanti dal partito. Si potrebbe anche sostenere, infine, che questa stessa operazione abbia portato a compimento il percorso millenario di adattamento alle istituzioni cinesi, che i musulmani hanno dovuto affrontare fin dal loro arrivo in Cina. Non più forestieri in una terra straniera dunque, ma hui: «musulmani cinesi». Un ibrido identitario capace, infine, di creare un forte senso di appartenenza ad una comunità che, parafrasando Benedict Anderson, non potrebbe essere più immaginata2.  Una comunità che è pura invenzione, «manufatto culturale», risultato di politiche etniche ben precise, in grado tuttavia di risvegliare tra i suoi membri un profondo senso di identità. Identità fatta di fratellanza ed orgogliosa rivendicazione culturale, per un popolo che da secoli vive un’esistenza forgiata dalle esigenze di due mondi radicalmente diversi: islam e Cina, Occidente e Oriente.

Alessandro Rippa

(1)  L’approccio staliniano alle politiche etniche, seguito poi anche dalla RPC, prevedeva che una nazione – o nazionalità – potesse essere riconosciuta come tale solo nel caso in cui possedesse le cosiddette «quattro comunanze»: lingua comune, territorio comune, vita economica comune e conformazione psichica comune. Come scrive lo stesso Stalin «solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha una nazione»; Stalin, Opere Complete,Vol. II, Edizioni Rinascita, Roma 1951, p. 336.
(2) Benedict Anderson, Comunità Immaginate (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983), Manifestolibri, Roma 1996.

Alessandro Rippa