Meru (3) «You are heroes», voi siete eroi

Antologia

Così disse dei missionari del Meru mons. Arthur Hinsley nel 1928.
è incredibile avventura di un manipolo di missionari in un ambiente difficile, isolato e certo non favorevole che, cent’anni fa, pur con pochissimi mezzi e quasi ignorati in quelle aree remote, riuscirono nell’impresa di conoscere a fondo il popolo dei Meru, farsi accettare e mettere le basi di una cristianità oggi viva e rigogliosa.
A loro sono dedicate questi brani antologici che raccontano di uomini e donne, protagonisti di una storia che comincia ufficialmente il 13 dicembre 1911.
Queste pagine, tratte da pubblicazioni dei missionari della Consolata (scelte in modo totalmente arbitrario), coprono un arco di tempo volutamente limitato tra il 1911 e il 1940 (quando i missionari furono inteati dagli inglesi e spediti in Sudafrica), con alcune statistiche che arrivano fino al 1950.
Rimandiamo ad un futuro appuntamento l’aggioamento sulla situazione attuale della diocesi di Meru.
A.L.

ESPANSIONE AL MERU
Da Igino Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo – La sua vita – La sua opera, Vol. III, Torino 1982, pp. 735-738

Al vicariato del Kenya, affidato ai missionari della Consolata, appartenevano anche i due distretti di Embu e di Meru. Embu è la regione a sud del monte Kenya, compresa nella grande ansa del fiume Tana. Il Meru invece è la regione sulle falde del monte Kenya ad est.
La regione di Embu poteva dirsi persa per i cattolici, per il fatto che appena il paese fu occupato militarmente vi si recarono i missionari protestanti, – quasi un compenso per essere stati prevenuti dai missionari cattolici nel Kikuyu. Il Meru era stato occupato militarmente dagli inglesi tra il 1905 e il 1908; nell’Imenti, in una località chiamata precisamente Meru, era stato eretto un fortino (Fort Meru); il paese era ricchissimo di foreste, di torrenti, molto fertile; solo nella parte bassa regnava la malaria.
La popolazione – i Meru – è una tribù affine ai Kikuyu, con una certa somiglianza anche nella lingua e nei costumi. In questa regione e tra questa gente mons. Perlo pensa di fondare qualche missione e nel 1910 invia in perlustrazione i pp. Gays e Bertagna. La difficoltà per aprire delle missioni nel Meru erano più che altro burocratiche col governo inglese. Ecco come il Camisassa (il canonico Giacomo Camisassa, cofondatore dell’Istituto che visitò il Kenya dall’8 febbraio 1909 al 26 aprile 1912, ndr.) scrivendo all’Allamano il 4 agosto 1911 presenta la situazione:
«[ … ] Dal Goveatore precedente e dallo stesso Dr. Hinde, era stato adottato il principio che noi [cattolici] dovessimo stare a destra del Sagana, e la sinistra (Embu, Meru, ecc.) fosse pei protestanti. Questo Goveatore, [attualmente in carica] – nelle colonie i Goveatori sono affatto dispotici – non volle sapere di quella divisione tra destra e sinistra del Sagana, e volle adottare il principio che cattolici e protestanti potevano mescolarsi in tutta la Provincia del Kenya (come fan nell’Uganda) a patto di stare distanti 3 ore gli uni dagli altri. Questo ci fu favorevole, ché a Meru, pur essendovi già due applicazioni dei Protestanti (Presbiteriani e Metodisti, ndr.), ci restava posto (nei luoghi più popolati) per due missioni almeno, e sono queste due che avrebbero ora concesso a noi […]. Però, come ho detto, questo Goveatore ha il chiodo fisso delle 3 ore di distanza, e ciò praticamente ci chiude Embu, che con tre missioni protestanti distanti sei ore una dall’altra lo occupano nominalmente tutto».
Fu l’intraprendente mons. Filippo Perlo (dal 1909 vicario apostolico del Nyeri e primo vescovo residenziale del Kenya, ndr.) a spuntarla anche in questo caso. Ottenuta la licenza del governo per due missioni, il Camisassa comunicò immediatamente la notizia all’Allamano.

«Fattoria (del Mathari, Nyeri) 16 giugno 1911
Amat.mo Sig. Rettore,
«A soli tre giorni di distanza le scrivo nuovamente: 1° per darle la fausta notizia che è venuto finalmente il permesso di impianto di una Missione a Meru… La Consolata ha voluto pagarci la festa prima ancora del 20! E Deo gratias proprio di cuore. […] A giorni vi andrà Mons. e due missionari (non so ancora quali) a sceglier il posto e iniziar l’impianto. Non so ancora se v’andrò subito io, o se solo più tardi, come vorrebbe Mons. per timore che i disagi dei primi tempi di una Missione, quando si deve viver sotto la tenda, mi possano nuocere. Vedremo. Meru è perfettamente a nord del Kenya, con 93 mila capanne paganti tassa (mezzo milione di anime – stima esagerata, vedi la «Breve storia» qui sotto, ndr.), popolazione meno sveglia di quella di Nyere, ma buona e semplice, e molto agiata, perché il paese è fertilissimo, intensamente coltivato, ed i nostri PP. Cagliero e Saroglia, tornati ieri di là col bestiame sono concordi nel definirlo un Paradisus Domini venientibus in Segor [cf. Gen 13,10: «come il giardino del Signore, venendo da Seor/Segor», ndr.] molto più bello che il Kikuyu. Negli otto giorni che passarono colà furono festeggiatissimi dai molti lavoratori di Meru stati già qui alla Fattoria… che li riconobbero ed erano fieri di presentarli a tout le monde». […]
A fine giugno mons. Perlo, certamente non da solo, si recò nel Meru in perlustrazione, allo scopo di scegliere le due località. Vi rimase quasi tutto il mese di luglio. Il 25 luglio il Camisassa scrive all’Allamano:
«Finalmente Mons. è arrivato cinque giorni fa da Meru dopo quasi un mese di permanenza colà. E sì che non perdette tempo, avendo sempre girato ad esplorare il paese, accompagnato dallo stesso comandante del forte, col quale finì per indicare due posti ove vorrebbe stabilirsi [Keja, divenuta poi Imenti, ed Egogi, ndr.]. […]: ora Monsignore presentò regolare domanda del terreno su cui impiantarci, e spero fra 15 [giorni] aver (da Nairobi) risposta affermativa e definitiva. Solo allora si potrà essere certi che la cosa potrà effettuarsi… Così credo potrà far anche lei quando avrà ricevuto tale annuncio con altra mia lettera».
Per recarsi da Nyeri o da Fort Hall alle due progettate missioni occorrevano rispettivamente sei o cinque giorni di marcia. […]
Le pratiche però s’incepparono a Nairobi. Ne dà notizia il Camisassa da Fort Hall (Murang’a) all’Allamano con lettera del 30 ottobre 1911:
«Vorrei poterle dire che le due Missioni del Meru sono un fatto compiuto, ma pur troppo non lo sono ancora. […]; all’insistenza di Mons. [presso il Goveo], che reclamava l’osservanza dei patti, risposero chiedendo che ritornasse loro tutto l’incarto per esaminarlo for inspection!! E dire che di tale incarto debbono aver essi tutto il duplicato [ … ]. Col Goveo le cose son sempre un po’ rotte, ma ci dev’essere della vera persecuzione in parte del basso personale… di burocrazia. Non c’è che da pregar sempre la SS. Consolata che ci aiuti Lei».
Tutto dev’essersi appianato ai primi di dicembre. Il diario della stazione di Imenti (Keja – pronunciato Kegia, ndr.) inizia:
«Inviati da S. E. Mons. Filippo Perlo, Vic. Ap. di Nyeri, i due Rev. PP. Balbo Giovanni ed Olivero Luigi, provenienti dal Gekoyo, giungevano in questa località il giorno 13 Dicembre 1911. La carovana di 32 portatori agekoyo e dei due Padri sopranominati sostò e piantò le tende a Keja presso il Capo M. Kerundu; e la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. […]. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».
Nell’altra località Egoji, furono destinati i pp. Giovanni Toselli e Giuseppe Aimo-Boot. Il Camisassa ne dà notizia all’Allamano il 18 dicembre 1911. Ma già il 5 dicembre da Torino l’Allamano aveva scritto al Camisassa:
«Le ripeto, che sarebbe anche buona cosa una visita a Meru e nell’Uganda, se Monsignore potrà accompagnarla».
Al 2 gennaio 1912 il Camisassa scrive che partirà fra breve per il Meru. Il diario della missione di Imenti al 22 febbraio 1912 annota:
«Giunge alla missione il Rev. Vice-rettore Can. G. Camisassa, Sua Ecc.za Mons. Perlo, accompagnati dal Cd. Anselmo e dalle Rev. Suore Vincenzine, Sr. Carola e Sr. Anania. Gli Eccellentissimi visitatori possono constatare i disagi e le fatiche del missionario all’inizio di una nuova missione fra queste popolazioni non ancora tocche dall’ombra di alcuna civiltà».
E il 4 marzo 1912 il Camisassa scrive all’Allamano da Nyeri:
«Da due giorni son giunto dalla visita alle missioni di Meru, un giro completo attorno al Kenya, con un percorso di 450 kílom., viaggiando in media da 30 a 35 kilom. al giorno» […].
«Le popolazioni sono evidentemente affini agli Akikuiu, come ne è quasi identica la lingua: quei di Keja appaiono molto più semplici e bonari che gli Akikuiu – quei di Igogi più svegliati, robusti e ben piantati» […].
«I nostri missionari, tanto a Keja e che a Igocci [sic] furono accolti molto cordialmente – assai più che non ai primi tempi nel Kikuiu – senza mostrar diffidenza e sospetti… sicché tutti i Padri ne sono entusiasmati, e più soddisfatti che quando erano nel Kikuiu. […] Non le dico altro di questo viaggio, che mi fu veramente faticoso, ma grazie a Dio non ne soffersi».

INCIDENTI DI MISSIONE
Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27

Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, addetto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante.
[Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il missionario scrive al canonico Allamano dalla prima missione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile.]

Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specialissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Iddio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è proprio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo.
In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione densissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi malaticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo.
Cammin facendo pensavo appunto al come avrei potuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’occhio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzialmente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rimproveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non conoscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentirnero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configurazione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti monticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfettamente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarciatura che costituisce appunto una piccola valle. Lascio ai geologi di studiae le origini e m’accontento di indicare il fatto.
Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido assai noto dello mbu, corrispondente al nostro allarme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’elefante! -.  A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gravità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo.
Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il catechista ha un brivido, e facendomisi più dappresso, me le mostra col dito teso e gli occhi sbarrati. Anch’io però come lui ho già compreso il grave pericolo scampato: se fossimo stati un tre minuti più avanti saremmo caduti senza dubbio vittime sotto i piedi di quel bestione […].
Passato quel momento di emozione, acceleriamo nuovamente il passo e ci portiamo su di un piccolo poggio dominante la valletta. Vi troviamo affollati molti indigeni, specialmente donne e fanciulli, che avevano abbandonato inconsideratamente i villaggi ed erano saliti su quell’altura per essere più al sicuro, non pensando che all’elefante era tanto facile la salita lassù, come ad un cavallo la corsa per una via piana. […] La maggior parte di quegli indigeni si aggruppava attorno ad un uomo, il quale, tutto tremante per lo sbigottimento e con i fianchi ammaccati, raccontava ai presenti la sua avventura. Non appena aveva sentito dietro a sé l’iroso barrito dell’elefante e il pesante calpestio delle poderose zampe, era corso al primo albero che aveva veduto, vi si era aggrappato e aveva cominciato ad arrampicarvisi, quando l’elefante lo raggiunse e cercò colla proboscide di afferrarlo a metà vita. Fortunatamente un colpo di coltello, di cui i neri son sempre muniti, ben diretto e menato con la forza della disperazione, ebbe per effetto di far ritirare per un istante la proboscide all’animale, cosicché il pover uomo poté finire di arrampicarsi e mettersi in salvo.
Intanto al suono del corno da più parti accorrono i cacciatori, fra cui alcuni Wakamba specialisti in queste cacce e che appunto per cacciare erano venuti a passare un po’ di tempo qui a Ihembe. Chi palleggia la lancia, chi brandisce il coltellaccio, chi agita lo ngiogoma (clava), chi semplicemente urla a più non posso: tutti cercano di far ritornare 1’elefante alla piana, per poterlo colà uccidere senza contravvenire al divieto di caccia posto dal governo inglese su questi altipiani. L’animale però non ne volle sapere; che anzi, uscito dalla bananiera ove erasi rifugiato, barrendo furiosamente, si diresse verso di noi, e ad un trecento metri, raggiunta una donna la quale fuggiva, esasperato dall’inseguimento, l’assalì, l’infilzò colle zanne, lanciandola a terra semiviva a parecchi passi di distanza, e, come soddisfatto da questa vendetta, ritoò indietro, mentre un grido di orrore usciva dalla bocca di noi tutti. Ma non era tempo di lamentarsi, bensì di agire; ed ero io che dovevo agire ad ogni costo, affrontando qualsiasi pericolo. Non si trattava della salvezza di un’anima? Invocando la Consolata e l’angelo custode vado di corsa verso l’infelice per soccorrerla, mentre i circostanti si dicono a vicenda: «Il Patri va a risuscitarla».
La poveretta che riconosco subito per la Ghecioe, una tra le più assidue ai catechismi domenicali, giaceva a terra immersa nel proprio sangue, giacché le zanne dell’elefante, data la violenza dell’assalto, le avevano squarciato il ventre. Constatai però che viveva ancora, e subito tolsi di tasca l’acquasantino per battezzarla, ma nella fretta esso mi sfugge di mano e l’acqua si versa. Corro allora nel villaggio poco distante, cerco in tutte le zucche e in tutti i recipienti in cui m’incontro, e finalmente trovo al fondo di uno un po’ d’acqua, quanto è sufficiente per il sacramento: la raccolgo, ritorno presso alla moribonda, e mentre ella volge verso di me gli occhi quasi spenti, come a pregarmi con quello sguardo insistente e pieno di dolore di ridonarle la vita che le sfugge, io verso sulla sua fronte, anch’essa intrisa di sangue, l’acqua battesimale e pronunzio commosso le parole sacramentali. La pupilla già vitrea dell’infelice pare in questo istante rianimarsi come vivificata da un raggio di luce soprannaturale, poi nuovamente si spegne; il suo volto si contrae, il suo corpo ha un leggero sussulto, ed essa spira, ridonando a Dio l’anima bella e santificata.
Mi alzo e rifaccio la strada, portando ai presenti la notizia di quella morte. Un urlo di indignazione fa eco alle mie parole e tutti, inaspriti da questa vittima umana, gridano: «Bisogna uccidere l’elefante, bisogna ucciderlo anche se l’uffiziale del Forte ci impiccasse tutti!». E la caccia alla belva ricomincia. I cacciatori, armati tutti di archi e di frecce avvelenate, si radunano, si intendono, si dispongono, ed avanzando cautamente cercano di accerchiare l’animale. Questo, sempre più furioso, tenta la fuga da una parte, ma un nugolo di frecce, alcune delle quali gli si conficcano nelle cai, lo arresta suo malgrado; egli scrolla come in un brivido violento la grande carcassa, barrisce spaventosamente e si volge dalla parte opposta; ma anche da questa parte lo accoglie un buon numero di frecce ben dirette. Disperato, alzando minacciosamente la proboscide, ansando, grondando sangue, si aggira su se stesso per tentar un’altra via, si arresta, riprende la corsa, ma oramai il veleno inoculatogli dalle frecce produce il suo effetto; i suoi movimenti si fanno sempre più lenti, i suoi barriti sempre più fievoli, si ferma, si piega, e tutta quella gran massa con un sordo rumore si rovescia pesantemente a terra. Gli altri indigeni, che dal poggio avevano seguito con ansia lo svolgersi dell’impressionante caccia, alla caduta della belva emettono grida di gioia, e i più arditi corrono in un coi [insieme ai] cacciatori a vedere l’elefante ucciso. Era ancor giovane; le zanne misuravano solo m. 1,20; era alto m. 2,30; lungo m. 3. Squartato lì sul momento dai cacciatori, tutte le donne con le loro bisacce andavano a gara nel portar via la carne, lasciando le ossa alle iene e agli sciacalli. Le zanne furono portate all’uffiziale del Forte.
Per quel giorno, vedendo la gente così impressionata dell’accaduto, non credetti più opportuno proseguire la visita ai villaggi, ma ritornai alla Missione ringraziando il Signore e Maria SS. Consolata. Ero scampato da un grave pericolo, ed avevo salvato un’anima!
P. Olivero M. d. C.

L’IMPIANTO DI UNA SEGHERIA nella foresta degli elefanti a Meru
Di Fratel Benedetto Falda da «La Consolata», 10/1922, pp. 156-159

[Dopo dieci anni dall’inizio delle missioni nel Meru, padri e suore vivevano ancora in case di fango e di tronchi costruite alla spartana. Passata la bufera della guerra e ritornati tutti i missionari al loro ministero, era finalmente ora di dare anche alle nuove missioni delle strutture decenti. Nel Nyeri tutte le case venivano prefabbricate alla «stazione industriale» di Tuthu e in pochi giorni portate alle loro destinazioni dove venivano assemblate. Ma il Meru era troppo distante. Si decise quindi di installare una segheria provvisoria in loco, in una foresta assegnata dal governo coloniale inglese. Dell’impresa fu incaricato il provetto fr. Benedetto Falda con l’aiuto di un altro fratello e due padri. Dopo un’accurata preparazione, trasportò tutto il materiale  su «quattro carri vagoni, 80 buoi e la macchina a vapore». Il viaggio durò quindici giorni per coprire oltre 150 km. Dovevano costruire «6 case per i padri, 6 per le suore, 6 scuole, mobilia per case e per scuole, ecc.». Il 15 maggio 1921 il fratello scrisse un lungo resoconto la cui prima parte fu pubblicata sull’antenata di questa rivista nell’agosto 1922. Qui vi presentiamo la seconda puntata.]

Come un bolide fra i scimioni
Se la salita era stata penosa, la discesa del versante di Meru, dove eravamo diretti, ci si presentò difficile per le numerose pietre che ingombravano la strada e che cagionavano ai pesanti carri continui scivolamenti, colpi, balzi e rimbalzi. Finalmente la via si fece più pianeggiante, scomparirono le pinete e ci trovammo in piane un po’ ondulate, con pasture di erba finissima, e, all’orizzonte, la linea di montagne che forma la frontiera abissina di Moiale.
Piegammo a destra, costeggiando sempre il Kenya, e peottammo nella piana dei famosi Maasai, i greggi dei quali erano pascolati da giovani selvaggiamente fieri, armati di lunga lancia. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio, che ora si compiva tranquillamente; la strada si estendeva in quei piani che parevano senza fine; ma non ci fu dato di veder selvaggina sino alla sera, quando facemmo una vera distruzione di galline faraone grosse come tacchini, che, ai colpi di fucile, rimanevano intontite, senza saper darsene ragione, finché cadevano colpite.
Non sto a dilungarmi nel racconto di tutti gli altri incidenti; solo vi dico che, il dì seguente, arrivammo nelle foreste di cedro, dove cominciammo ad avere comunicazione cogli abitanti. Il forte governativo distava ancora una giornata di cammino. Passammo alcune ore a pulire la macchina e suoi accessori, come si farebbe per una persona; ed invero ci era troppo cara, ed ogni sua piccola parte era vitale anche per noi, perché costituiva, per la nostra futura segheria, il cuore pulsante.
Il giorno dopo, i due Padri rimasero all’accampamento; io invece colla bicicletta, che avevo portato sui carri, partii alla volta del forte e poi verso la Missione di Maria Ausiliatrice (Tigania), per vedere se i ponti, che dicevano numerosi, erano resistenti; e nello stesso tempo cercare il punto della foresta adatta al nostro scopo. L’altro mio confratello, accompagnato dai neri del paese, doveva esplorare un’altra strada, o meglio dire sentirnero indigeno, e veder se si sarebbe potuto passare colla macchina nella brughiera, nel caso che i ponti fossero stati troppo deboli. Dirvi quel che provai in quel viaggio, tutto solo in paese sconosciuto, non è facile.
La strada era aperta in una magnifica foresta di cedri e altissimi mogani, che guardavo con una voglia matta di fae tante vittime per la erigenda segheria, ma forse quel luogo era ancor troppo distante dal punto dove ci saremmo impiantati. Dopo un’ora e mezzo di magnifiche volate, rallentate qualche volta con trepidanza dove scorgevansi i segni evidenti del passaggio degli elefanti, arrivai dove la foresta, aprendosi, lascia scorgere tutto il Meru. Che meraviglia! Là in basso, fra la verdura, erano le case del forte che, dipinte in bianco e rosso, facevano un magnifico contrasto col selvaggio panorama del paese.
Il primo saluto, quando ancora mi trovavo lontano dall’abitato, lo ricevetti da una lunga processione di scimie rosse, dal muso di cane e che come questi ab-baiavano. Potete immaginarvi come rimasi, quando, venendo giù da una discesa a passo di volata, mi trovai di fronte a un centinaio di questi scimioni! Non, ebbi il tempo di levarmi il fucile da tracolla e sparare per impaurirli – che, quanto a ferirli, me ne sarei guardato, perché allora diventano terribili – che entrai in quelle file come un bolide, suonando a distesa il campanello ed emettendo grida da ossesso. Se aveste visto che corse! Quella massa in un baleno si divise, si smembrò, ed eccoli tutti sugli alberi fiancheggianti la strada, emettendo essi pure grida indiavolate: un vero pandemonio! Ad ogni modo mi liberai bene, e pensando poi chi avesse avuto più paura, io o loro, conclusi che tutti assieme eravamo contenti di essere… fuggiti!

La scelta della foresta
Mezz’ora dopo ero al forte, consistente in due case: una per la posta e per gli ascari; l’altra per il comandante. Scritte e spedite alcune cartoline per informare i miei Superiori del felice arrivo, ripresi la via per strade ancor più piane e magnificamente tenute, facendo la conoscenza cogli indigeni Wameru. Il loro parlare è così musicale che il saluto pare una carezza; sono molto più socievoli e gentili degli aghekoio, e tutti per strada salutano. Gli uomini sono bei tipi di guerrieri, colle lunghe lance, ma non hanno, come i Maasai, la ferocia di assassinare facilmente i viandanti forestieri. Portano i capelli lunghi, fermati a treccia dentro uno straccio ornato all’esterno di perline; il corpo unto di olio e ocra. Così pure le donne portano molti oamenti che dan loro un aspetto gioviale. Ebbi l’impressione di arrivare in un paese in festa.
Contai 18 ponti solo tra il forte e la missione, ma tutti abbastanza buoni; e passai anche la foresta dove più tardi avremmo deciso di impiantare la segheria. Vicino ad un torrente, alcuni neri intenti a guardare qualcosa come impauriti, mi fecero segno di fermarmi. Scesi e vidi subito un enorme pitone sul ciglio della brughiera, gli sparai un colpo di fucile che lo fece attorcigliare come una salsiccia, ma occorsero due altri colpi per finirlo. Nella sua agonia si stese per lungo, occupando tutta la strada: era lungo circa cinque metri. Peccato che, essendo io solo, e i neri non avendo voluto toccarlo, dovetti lasciarlo preda alla iena, mentre sarebbe stato un bel esemplare per il nostro museo di Torino.
Arrivai alla stazione Maria Ausiliatrice [Tigania] accolto festevolmente dalle suore, che da un anno si trovano colà a far del bene, e dal padre che mi fu largo di gentilezze. All’indomani cercammo un punto adatto della foresta, e, dopo molto aggirarci di qua e di là, concludemmo col scegliere un tratto di foresta a tre ore dalla missione, quello appunto per cui ero passato in bicicletta e che mi era parso il migliore per qualità di alberi. Il giorno dopo, lasciata la bicicletta alla missione, ritornai all’accampamento per un sentirnero indigeno, per meglio osservare le foreste, e vi arrivai alla sera, stanco morto. Il mattino seguente ricaricammo tutto sui carri e partimmo per la meta che avevamo scelta.

L’incontro cogli elefanti
Il mio confratello coadiutore ed io ci davamo il cambio a guidare la locomobile; e mentre uno guidava la macchina che camminava adagio, l’altro badava alla carovana dei carri che precedeva. Mi trovavo appunto addetto a questo secondo ufficio, quando uno dei nostri carrettieri viene di corsa e tutto trafelato a chiamarmi e dirmi di arrestare la carovana perché un gruppo di elefanti stava sulla strada per cui dovevamo passare. Too indietro ad assicurarmi ed armarmi, se del caso, e trovo radunati alcuni indigeni del paese che concitatamente indicano colla mano, in lontananza, dove la strada costeggia un pendio, nella brughiera non folta, grosse macchie rossastre che si muovono e si rincorrono. Contro il parere degli indigeni, che ci volevano dissuadere, decidemmo di avanzare cautamente, essendo abbastanza sicuri sui nostri grandi carri. Raccomandai solo ai neri di non parlare, che, se assaliti, allora tutti insieme avremmo fatto il più grande baccano possibile. Ero contento di vedere così da vicino tanti elefanti.
Così, io sul primo carro, gli altri carrettieri sul proprio, avanziamo. Quando stiamo per oltrepassare il punto dove si trovano le bestie, e quasi pensiamo che già siano fuggite, un barrito, che par emesso da una cornetta, ci fa dare un più rapido giro al sangue. In una mano tengo il fucile e nell’altra una trombetta, pronto, se assaliti, a far rumore ed anche a sparare. Dopo il barrito, di nuovo silenzio. I neri stanno accovacciati sui rispettivi carri, e i buoi, per nulla intimoriti (cosa che io temevo), avanzano adagio e tranquilli; i carri su queste strade molli non producono il più leggero scricchiolio, e così, ritto sul carro, posso godermi uno spettacolo indimenticabile. In un pianoro, a destra della strada, dolcemente in declivio, stanno scherzando tranquillamente dieci enormi elefanti, che, visti così da vicino, paiono bestie antidiluviane. Alcuni si rincorrono, altri pascolano e mangiano foglie di alberelli che curvano con la loro tromba. Paiono sacchi enormi di carne.
Non sembrano avvedersi per nulla del nostro passaggio, cosicché possiamo contemplare, a nostro bel agio, quello splendido giardino zoologico. Ma non appena tutti i carri sono passati e si odono i primi rumori della locomobile avanzante pesantemente, i bestioni si ristanno come sorpresi, volgono dalla nostra parte i loro occhi sproporzionatamente piccoli, tendono in ascolto le enormi orecchie prima penzoloni, e… meditano il colpo. Non diamo loro il tempo. Ad uno squillo della mia cornetta comincia un sì assordante pandemonio, che i pachidermi, impauriti, si danno alla fuga. La locomobile fischia disperatamente e ininterrottamente; i carrettieri, ora ritti sui carri, si scalmanano a batter chi i tamburi e chi le latte di petrolio; altri soffiano dentro a coi speciali per trae suoni inqualificabili; altri, non sapendo a che appigliarsi, gridano a squarciagola agitando le lunghe fruste. E il pandemonio dura finché gli elefanti scompaiono nella foresta.
Poche ore dopo raggiungevamo la mèta sani e salvi, e con il macchinario in buone condizioni, nonostante il lungo e difficile viaggio. Ringraziammo assieme e di cuore il Signore e Maria Vergine Consolata, poi ci mettemmo all’opera, incominciando il disboscamento del tratto di foresta dove la nuova segheria doveva essere impiantata.

Il lavoro compiuto
Da una lettera successiva dello stesso coadiutore Benedetto Falda, apprendiamo alcune notizie sui primi lavori compiuti dalla nuova segheria nella foresta degli elefanti.
Foresta degli elefanti, Meru, 23 aprile, 1922.
Piantammo il laboratorio vicino ad un fiume per aver abbondanza d’acqua per la macchina a vapore, e in un pianoro per facilità di trasporto. La macchina a vapore fa funzionare la grande sega circolare, la piallatrice, la mortasatrice, un piccolo mulino e un’altra sega circolare. In nove mesi, essendo noi tre coadiutori e due padri, tagliammo 476 alberi dei quali molti hanno il diametro di un metro; poi 2.500 stepponi; preparammo il materiale per 18 case con pavimenti, soffitti, parti estee ed intee; ed ancora una riserva di legname per altre tre case complete. Inoltre si fecero 36 letti, 26 tavole, 60 porte, 40 battenti doppi per finestre, 52 vasestas per finestre. S. E. Mons. Perlo ci scrive di incominciare i trasporti colla macchina a vapore, e, a questo fine, ci mandò lo splendido tamagnone Tolotti che, in un coi due grandi tamagnoni (nome in piemontese italianizzato di grandi carri agricoli) fatti da noi, ci aiuterà a trasportare in pochi mesi le 300 tonnellate di materiale.
Noi qui ci troviamo benissimo. Gli indigeni impiegati al lavoro, mentre da principio erano affatto incapaci e scappavano ogni volta che mettevo in moto la sega, adesso si sono assai bene abilitati. Il grande frastuono della macchina è per noi come un inno di gloria a quel Signore che ci diede la vocazione all’apostolato e ci fece membri di questa schiera di pionieri del Vangelo, che si ripromettono di condurre a Gesù milioni di anime.
Coad. Benedetto Falda M. d. C.

MEKINDORI
Da Ottavio Sestero, I fioretti di padre Cencio, pp. 61-63, EMI Bologna 1992

La missione di Mekindori era allora solo un segno topografico segnato sulla carta geografica privata di mons. Perlo. In realtà non esisteva ancora nulla, eccetto la brughiera e le iene che l’abitavano.

Prima notte
[Questo capitoletto è tratto da Ottavio Sestero, Il Nibbio e altri racconti, pp. 117-118, EMC – Torino 1959]
Il padre Dolza, di felice memoria, se ne arrivò a Mekindoli, a prender possesso della nuova missione, la sera del 20 ottobre 1922. La missione non era che un tratto di brughiera con un mucchio di tavole per la futura costruzione.
I portatori dei pochi bagagli, ricevuta la mercede, si squagliarono in cerca di qualche capanna ospitale per passarvi la notte. Il padre, rimasto solo col suo cagnolino, si affrettò a piantare una vecchia tenda sdruscita. Consumò la sua magra cena, dividendola cameratescamente col suo botolo fedele, che con gli occhi fissi sulla bocca del padrone contava i bocconi, aspettando impaziente e supplice che di quando in quando venisse il suo tuo. Poi il padre Dolza, recitate le orazioni, stese due tavole nella tenda, si avvolse in una coperta e vi si coricò come in un morbido letto.
Si era nella stagione delle piogge. Il cielo appariva carico di nuvoloni pesanti e l’oscurità profonda. Allegra esperienza, trovarsi in un angolo sperduto dell’Africa, lontano le diecine di miglia dal primo centro civile, solo, di notte, in una tenda precaria, con un uragano imminente e numerose iene affamate vaganti all’intorno!
E l’uragano venne più violento e più rabbioso che mai, con un ventaccio sì furioso che pareva che tutti i diavoli del Jombene soffiassero su quella povera tenda. Il padre Dolza conosceva l’Africa e sapeva che il terreno rammollito dalla pioggia rallentava la sua presa sui piuoli; perciò stimò prudente alzarsi e aggrapparsi tenacemente al palo centrale della tenda, la quale già dava segni di collasso. Fatica inutile! Un colpo di vento furibondo investì la tenda; il palo bagnato gli scivolò dalle mani e la tenda scomparve nel buio; la fioca lampada da campo, rovesciata, diede un guizzo e si spense.
La pioggia veniva giù come una doccia a tutta pressione e in pochi minuti il povero missionario fu bagnato fino all’osso. Brancicando nel buio, cercò affannosamente la cassetta dell’altarino portatile, e, trovatala, vi si sedette sopra per salvare dal diluvio le ostie e gli indumenti sacri. Così raggomitolato e assiderato, la pioggia lo flagellava senza pietà. Il cagnolino gemeva pietosamente e invano cercava un riparo sotto le ginocchia del padrone. Tutt’intorno si sentivano i grugniti soppressi, i singulti e le sghignazzate beffarde delle iene. A tratti, lividi lampi squarciavano l’oscurità. Il padre Dolza non era un pusillanime, e tanto meno un novellino d’Africa, eppure confessò che in quella notte molte lacrime si mescolarono con la pioggia. Quanto durò questa tortura? Durò fino a quando una pallida luce annunziò il nuovo giorno. Allora, malgrado fosse rotto e fradicio, dovette muoversi per non morire assiderato. La pioggia cessò a poco a poco con l’inoltrarsi del giorno e il missionario si accinse a preparare l’altarino e a celebrare la prima messa nella nuova missione.
Così ebbe inizio la sua vita di missione vera e propria.

La casa e la malaria
Nel frattempo il fratel Benedetto Falda lavorava con ritmo accelerato e febbrile, ed un bel giorno arrivò a Mekindori una carovana che portava il necessario per fabbricare una casetta decente e solida. Ma fratel Davide, incaricato di questa costruzione, era impegnato altrove e per alcuni mesi non sarebbe stato disponibile.
Il padre Dolza fece accatastare tutto quel legname avendo cura di lasciarvi un buco nel mezzo, un antro buio e scomodo per dimorarvi, che però aveva il vantaggio di non venire asportato, come la tenda, nelle notti di tempesta.
Nel frattempo, con l’aiuto della gente del luogo, provvide a far fabbricare una capanna per ospitare il fratello che doveva venire a costruire, ed intanto cominciava a farsi una cerchia di amici fra gli abitanti dei dintorni.
Ma lasciato a se stesso e propenso com’era a far penitenze e digiuni per vincere, come diceva lui, i diavoli del Jombene, e più ancora fiaccato da violenti attacchi di malaria, in breve venne ridotto a tal punto di esaurimento che i padri delle missioni limitrofe ne rimasero seriamente preoccupati.
Un giorno il padre Calandri, residente a Ighembe, si incontrò col padre Manfredi, che veniva da Toro, e discutendo sul caso, gli disse: «Se rimane ancora qualche tempo in quella tana, da solo, un giorno o l’altro lo troveremo stecchito… o pazzo!».
I due missionari decisero quindi di andare in suo soccorso; si recarono assieme a Mekindori per portarselo ad Ighembe finché si fosse ristabilito. Arrivati a Mekindori, il padre Dolza non si vedeva.
Un nero accennò loro la catasta di legname. Bussarono alla barricata della tana; silenzio di tomba.
Gridarono forte: «Padre Vincenzo, apra! Siamo noi!».
Nessuno rispose. Certamente qualcosa non andava.
Puntarono le spalle e sfondarono l’uscio posticcio. Il padre Dolza era là, coricato sulle tavole, non ancora morto, ma neppure molto vivo.
Lo svegliarono dal suo dormiveglia affannoso e incosciente; gli somministrarono una bevanda tonificante che a buon conto avevano portato e gli dissero: «Padre, siamo venuti per portarla a Ighembe».
«A Ighembe?», mormorò con voce flebile. «Che ci vado a fare? Lasciatemi qui. è la mia missione… e voglio morire qui».
«Suvvia, Padre, non dica sciocchezze! Chi parla di morire? Bisogna lavorare, altro che morire! E deve venir via di qua».
«No, no. Ho deciso. Io non mi muovo. Morirò qui. Scavatemi solo una fossa, che io non ce la faccio più».
Vedendo la sua testardaggine, i due ricorsero ad una bugia strategica e il padre Calandri gli disse in tono severo: «Finiamola con queste storie. Ordine del vescovo: lei deve recarsi a Ighembe». «Ordine del vescovo?» fece eco il padre Dolza rianimandosi. «Dov’è quest’ordine?».
Il padre Calandri frugò nelle tasche, fingendo di cercare una lettera che naturalmente non c’era. Il padre Manfredi gli venne in aiuto dicendogli in tono di rimprovero: «Al solito! L’ha dimenticata a casa quella benedetta lettera del vescovo». «Oh, vero! L’ho dimenticata sul tavolo! È seccante!», e poi, rivolto al padre Dolza, aggiunse: «Ma non importa, la lettera c’è e lei deve venire».
«Se è così», mormorò il padre Dolza rassegnato, «verrò, forse domani. Oggi non riesco a stare in piedi».
«Così va bene», disse il padre Calandri, e aggiunse: «Gli ordini dei superiori vanno eseguiti».
In quella tana non c’era assolutamente posto per altri. I due samaritani somministrarono al malato una buona dose di chinino e ritornarono alla loro missione.
Padre Dolza ci pensò seriamente nella notte e decise di obbedire a qualunque costo, anche se ciò fosse costato quattro ore di marcia su gambe incerte e tremanti.
Il mattino seguente, quando i due amici arrivarono per aiutarlo, la tana era vuota e l’usciolo ben chiuso. Si guardarono sorpresi: «Acciderba, che fegato! Come avrà fatto a partire da solo in quelle condizioni?».
P. Manfredi si gettò subito all’inseguimento temendo di trovarlo svenuto sul ciglio del sentirnero, ma per quanto trottasse non riuscì a raggiungerlo per via. Lo trovò a Ighembe che si era buttato, senza forze, su un pagliericcio per smaltire la dura maratona.
(Ottavio Sestero)

Autori vari




Meru (4) Le sette sorelle

1. IMENTI (o MUJWA)
Fu fondata nel 1911. Il primo cristiano fu battezzato il 17 sett. 1916. Nel 1926, alla creazione della prefettura, i Cristiani erano appena 72. Al 31 dicembre 1950 sono 3.932 [nel 2005 sono 34.900, senza contare Mitunguu e Nkubu]. Le 18 out-schools (scuole cappelle) contano un 2.000 allievi. [Al 1950] vi è un catecumenato presso ogni scuola.
Altre opere della stazione: asilo infantile; famulato per le ragazze sposande, opera questa che scioglie tante difficoltà e che prepara le ragazze al matrimonio cristiano; una efficiente scuola industriale diretta dal fr. Serafino; un laboratorio fornito delle macchine più modee, diretto dal fr. Cesare Balagna; una scuola di scalpellini in pietra, creata e diretta dal fr. Virgilio e che ha già fornito statue e altari e oamenti alla nuova Cattedrale e forma l’ammirazione di quanti ne vedono le opere.
Non vanno dimenticate le numerose squadre di calcio, quasi una per scuola, e due presidi della Legione di Maria.

2. EGOJI
Fondata nel 1911. I primi cristiani furono battezzati il 14 maggio 1916. Nel 1926 [Egoji o Igoji] contava 148 Cristiani e a fine 1950 il numero era di 2.602 [35.738 nel 2005, senza contare quelli delle out-schools diventate parrocchie].
Qui lavorò molto il p. A. Bellani, profondo, linguista ed etnologo che alzò il prestigio della missione non solo tra i pagani, ma anche tra i protestanti e presso il governo. Fu il primo a riconoscere la necessità delle scuole a Meru, e personalmente stampò con una piccola macchina tipografica i primi libri usciti in lingua Kemeru. Anima zelante dell’espansione missionaria non risparmiò fatiche e preparò, con la sua opera e tattica di muta comprensione con la popolazione, quel grande sviluppo che prese la missione in seguito.
[Nel 1950] C’è un buon dispensario, una scuola primaria con oltre 400 allievi, e 17 out-schools con un complesso di 2.360 allievi, di cui 892 sono ragazze; tre prayer houses; una scuola secondaria femminile, la St. Mary’s Girls’ Boarding School con una sessantina di ragazze; annessa a questa una scuola magistrale femminile che prepara maestre diplomate per la prefettura; una scuola domenicale per donne, unica nel suo genere, ove sr. Carmelina impartisce la prima  istruzione letteraria e conferenze appropriate alle donne; il circolo festivo San Karolo Lwanga per i bambini; il circolo festivo Sant’Agnese per le bambine; quattro truppe di Boy Scouts e numerose squadre di calcio.

3. TIGANIA
Fondata nel 1913, il primo battesimo si ebbe il 7 ottobre 1917. All’erezione in Prefettura nel 1926 contava 50 cristiani, e al 1950 ben 768 Cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma anche questa missione è stata divisa in più parrocchie].
Due belle figure di missionari che ne hanno dissodato il terreno spirituale sono il serafico p. Aimo e l’ascetico p. Rosso, veri pionieri della Chiesa, i cui sacrifizi e vita austerissima solo Dio conosce.
Nel diario della missione [anno 1936] si trova scritto: “Il terreno di Tigania è pietroso e arido e a stento vengono su i raccolti. Altrettanto si può dire dei cristiani: ogni anno si aggiunge qualche nuovo convertito, ma la massa si conserva restia. Solo il missionario sa quanto costa un solo cristiano nel Jombene”. Ma ora [1950] i tempi vanno decisamente cambiando. Il catecumenato è fiorentissimo. La scuola centrale conta 126 allievi. Vi è un buon dispensario, un asilo infantile che è una grazia, un gruppo di azione cattolica che compie un lavoro di apostolato impagabile. Le tre out-schools contano 236 allievi.

4. IGEMBE (o AMUNG’ENTI)
Fondata nel 1913, il primo Cristiano si ebbe solo dopo sette anni, nel 1920. [Nel 1926] i Cristiani erano 33; a fine 1950 sono 227 [mancano dati per il 2005].
Egembe con Toro [Tuuru] sono il vero centro del paganesimo del Meru e, pare, anche la culla della società degli Njoli, che regolano tutta la vita del Meru sulle basi tradizionali pagane. Tuttavia anche qui come a Tigania ci sono i segni di un buon risveglio.
I catecumeni sono 80; la scuola centrale con lo standard V [classe V] conta già ben 192 allievi, e le quattro out-schools hanno già 326 allievi.
La missione di Egembe è ancora ora impregnata del ricordo del p. Vincenzo Dolza, che si faceva chiamare «padre Cencio», che rese questa missione una delle più belle, con viali e vaghi giardini dai mille fiori, tra cui primeggiano numerosi i rosai. Il padre li piantava in onore di santa Teresina («Agli altri, diceva, la Santina manda le rose, a padre Cencio solo le spine delle rose»).
Non è possibile che le preghiere, i lavori, i sacrifizi di tanti padri e suore che hanno seminato nel dolore rimangano sterili. A suo tempo i rosai di p. Dolza non daranno più solo, spine, ma sbocceranno in quella pioggia di rose predetta dalla Santa.

5. MEKINDULI
Fondata nel 1923. I primi cristiani furono 10 Jaluo [Luo provenienti dalle zone attorno al Lago Vittoria] che lavoravano nella missione, battezzati ne 1927, cui l’anno seguente si aggiunsero due indigeni del luogo, e poi fino al 1936, non si hanno più cristiani. Ora [1950] ne conta 807 [33.217 nel 2005, senza contare quelli delle parrocchie da essa generate].
La missione di Mekinduli [oggi chiamata Mikinduri, pronuncia Mekindori] ha una storia interessantissima e meriterebbe di essere scritta più diffusamente. Il primo sito della missione era su un poggio, un vero santuario del paganesimo, luogo di balli e circoncisioni. La popolazione vide mai di buon occhio questa profanazione e in conseguenza ostacolò la missione fino alla sua rimozione. La missione era hopeless [senza speranza], e nel febbraio 1929 venne [temporaneamente] chiusa. Riaprì verso la fine dello stesso anno, ma le difficoltà continuarono a ostacolare ogni apostolato, tanto che a differenza delle altre stazioni, solo nel marzo 1930 poterono essere inviate le prime Suore Consolatine, sr. Orsola e sr. Eliana.
Nel 1932 [in accordo col governo la missione viene spostata] a circa mezzo miglio di distanza. Il fr. Davide Balbiano inizia i lavori: casa padre, casa suore, chiesa, scuola, fabbricati omogenei nello stile, eleganti e adatti allo scopo. Verso la fine dello stesso anno, si [occupa] la nuova missione, abbandonando l’antica. La nuova Mekindoli è adagiata sul fianco della collina Njoro, mentre di fronte si apre a spiraglio la meravigliosa veduta della pianura di Tharaka e Ikamba.
Nel 1936, il p. Umberto Bessone viene nominato superiore e la missione comincia a risvegliarsi dal letargo secolare. Viene aperto un colleggino che fiorisce fino all’inizio della grande guerra, durante la quale la missione viene quasi abbandonata.
Terminata la grande guerra, p. Giulio Peirani ne prende possesso con tre suore. Nei primi due anni, risveglio lento, ma progressivo.

6. TORO
Fondata nel 1923, primi battesimi nel 1930, conta ora [1950] 216 cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma Toro – o Tuuru – è la madre delle floride parrocchie di Maua, Mutuati e Kangeta]. In questa missione per molti mesi dell’anno si hanno nebbie fittissime, fattore questo che concorre a rendere quella popolazione indolente, molle, senza iniziative, contenti di vivere nella loro miseria fisica e morale, che li rende apatici a tutto, specie a quello che importa innovazioni. Pagani fino al midollo e refrattari a qualunque sforzo. I Protestanti in questa zona hanno ottenuto molto meno di noi, e lo stesso Goveo, nonostante le multe, la prigione e gli askari (soldati), trova difficoltà a eseguire i suoi piani di miglioramento del paese.
Nonostante tutte queste difficoltà, cui bisogna aggiungere quella degli Njoli, i nostri bravi missionari che vi hanno lavorato, hanno ottenuto in quei 216 cristiani un vero successo. Un profano potrebbe meravigliarsi: un successo 216 Cristiani in 27 anni? Noi che conosciamo il luogo e le sue difficoltà e la popolazione ripetiamo che è un vero successo.
Ora [1950] la Missione ha un centinaio di catecumeni, una scuola centrale ben avviata, due out-schools con oltre 100 allievi, un buon dispensario, un collegino di 20 ragazze e persino una squadra di calcio.
La Missione fu dedicata a Santa Teresa del Bambino Gesù dal p. G. Airaldi che vi lavorò per ben sei anni, apparentemente senza risultato come il suo predecessore p. E. Manfredi. Ma il movimento che comincia a manifestarsi ora è frutto del loro apostolato silenzioso di preghiera e sacrificio.

7. CHUKA
Fondata nel 1933 da mons. Carlo Re, era fino allora una out-schools dipendente da Kyeni [nell’Embu]. I primi 24 cristiani di Chuka furono battezzati a Kyeni nel 1932. Ora la missione conta 2.721 cristiani, la seconda della prefettura per numero [36.608 nel 2005].
Primo superiore fu p. F. Comoglio, che rese popolare la missione anche tra i Protestanti e riuscì a stabilire parecchie scuole, alcune delle quali staccatesi in massa dalla missione protestante. Se si considera il carattere della popolazione di Chuka, molle, effeminato, privo d’iniziative, molto dedito al vino, viene da meravigliarsi come mai in così poco tempo abbia raggiunto tali progressi, da imporsi a pagani e protestanti. Specialmente la località Kamachuku e Mothambe sono fra le più progredite del distretto.
Durante la guerra fu visitata periodicamente dal Padre risiedente a Egoji. Mentre la missione di Chuka estendeva i suoi tentacoli nelle out-schools il centro e residenza rimaneva per lungo tempo un deserto. Solo nel periodo postbellico, con l’arrivo dei Padri nella Prefettura, cominciò un periodo che può chiamarsi di splendore.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (5) Breve Storia

Adattato da una relazione di p. Valentino Ghilardi

Questa storia sintetica dei primi anni delle missioni del Meru fu scritta nel 1950 da p. Valentino Ghilardi (1905-1961). Lo sviluppo delle missioni del Meru è avvenuto alla chetichella, pagato con tanta sofferenza e dedizione e ha trovato la sua completezza nella creazione della Diocesi di Meru (1953). Da allora la dozzina di missioni che costituivano la nuova diocesi, ha fatto un balzo gigantesco raggiungendo in pochi anni e occupando praticamente a raggiera tutto il Meru, con 45 parrocchie e 730.000 cristiani (dati del 2005).

Da notare come in questa relazione p. Ghilardi usi un linguaggio e termini tipici del suo tempo e scriva i nomi locali secondo lo stile italiano proprio dei missionari prima che gli inglesi imponessero la loro sillabazione. Essi scrivevano come si pronunciava secondo la fonetica latina. In più la sillabazione corretta dei nomi era complicata dal fatto che la lingua locale non era scritta ma solo orale e soggetta a grosse variazioni da clan a clan, da collina a collina.
I dati del 2005 sono dal «Kenya Catholic Directory 2006», Nairobi 2006.

1911, gli inizi
Fu a questo paese, selvaggio e assai basso nell’ordine morale, che giunsero nel dicembre del 1911 quattro padri missionari della Consolata, lo zelo dei quali aveva fatto superare tutte le difficoltà e paure, ché i Meru eran descritti come i più selvaggi e crudeli di tutta l’Africa.
In un primo tempo si fermarono a Thigga nel Mwembe, ove pensavano di aprire una missione. Invece abbandonarono il luogo, forse perché trovarono molta malaria o per mancanza di acqua, e si divisero in due gruppi: p. Luigi Olivero e p. Giovanni Balbo proseguirono il loro cammino, mentre p. Toselli senior e p. Giuseppe Aimo salirono sull’altipiano e si fermarono a Egoji, ove, dopo difficoltà non poche e molto parlamentare, poterono intendersi coi notabili del paese per stabilirvi una stazione di missione.
P. Balbo e p. Olivero giunsero a Keeja nel basso Imenti ove trovarono quanto faceva per loro.
I quattro pionieri eran partiti da Nyere il giorno dell’Immacolata, e il giorno di Natale ebbero la gioia di celebrare, sia pure sotto una tenda, la prima messa nel luogo delle due erigende missioni.
Si posero con lena al lavoro, tant’è che solo dopo poche settimane era pronta l’abitazione dei Padri e una minuscola chiesa. Nel febbraio seguente il vicario apostolico mons. Filippo Perlo [il Vicario apostolico di Nyeri da cui dipendeva tutta l’area attorno al Monte Kenya] e il cofondatore Can. Giacomo Camisassa, accompagnati da sr. Carola e sr. Anania delle Suore Vicenzine, visitarono le due missioni che furono trovate adatte [vedi storia e foto in queste stesse pagine].

Metodo
Metodo di apostolato [era il] solito, quello cioè già adottato nel Kikuyu i primi tempi: visite ai villaggi con istruzioni spicciole, cure degli ammalati, mentre pure non si trascuravano le costruzioni in casa.

1913, Espansione
Ma lo zelo, come il fuoco, non rimane stazionario: o si spegne o si dilata. Ed è quindi con meraviglia, dato lo stato selvaggio del paese, che noi vediamo i nostri cercare nuova espansione nell’ancora più selvaggio Jombene. Nel febbraio 1913, p. Toselli d’accordo con S.E. Mons. Vicario, fissa il luogo della nuova missione di Tigania e nell’agosto 1913, la prima casa è fatta.
P. Aimo e p. Rosso non stettero inoperosi e non risparmiarono la fatica. Essi stessi cominciarono a squadrare le durissime pietre vulcaniche che pavimentano gran parte della regione e a mano preparare assi nella vicina foresta del monte Jombene. Il materiale era pronto: pietra su pietra cementate di fango, asse vicino a asse, fatiche giornaliere iniziate all’alba e terminate solo per l’oscurità; ma la chiesina venne su bella e massiccia come la montagna del Jombene. Nella notte santa del 1914, scrisse p. Aimo, «l’Onnipotente fattosi povero fanciullo scende per la prima volta nella povera chiesetta di Tigania». Nel dicembre 1913 pp. Olivero e Domenico Vignoli fondano la nuova missione di Egembe (ora chiamata Amung’enti [scritto anche Igembe o Ighembe]) proprio sul piazzale del ballo degli Nthaka sulla riva destra del fiumicello Mboone e abbracciante due clan.
Abbiamo così le prime quattro missioni del Meru, quattro roccheforti avanzate proprio nel cuore del paganesimo, che i  nostri chiamarono trappe, certo menandovi vita da trappista: preghiera, lavoro, visite ai villaggi, soli per la maggior parte dell’anno. Se i monti e le rocce e i fiumi e i sentirneri potessero parlare quante belle e meravigliose cose ci direbbero di Frate Ilarione (p. Rosso), di Frate Beardo (p. Aimo), di Frate Ginepro (p. Albertone), di Frate Pacomio (p. Bellani), e di tutti gli altri, come tante belle cose ha cantato il serafico p. Aimo nelle sue innamorate odi del Jombene.

1915, le suore
Nel 1915, il paese parve abbastanza sicuro, cosicché mons. Perlo permise alle Suore Vincenzine di stabilirsi a Imenti che nel frattempo (1913) aveva soppiantato la missione primitiva di Keeja malsana e senza acqua [Le autorità, sotto l’influsso dei protestanti ostili all’insediamento dei cattolici, avevano assegnato un terreno che durante le piogge si allagava facilmente. Dopo le giuste lamentele, fu permesso di scegliere un posto più sano nel giro di un’ora di cammino. Mandato dal vescovo, P. Giovanni Chiomio, proverbiale per la precisione dei suoi passi e la sua resistenza, percorse esattamente in un’ora di distanza che lo separava da Mojwa, posta in un luogo sano e ricco di acque].
Sr. Dolores, sr. Agnesina e sr. Antonia vi arrivarono dopo lunghi giorni di lenta carovana il 15 luglio 1915, e più o meno lo stesso tempo ricevono le suore anche Egoji e Tigania, e l’anno seguente 1916 anche Igembe.
Si iniziano asili, si sviluppano i dispensari, si aprono i tanto necessari brefotrofi che salvano centinaia di innocenti vite, si usano mille industrie per attirare la popolazione che oramai ama i missionari, li rispetta, ne approfitta per i malati e per mille altre cose e lavori, ma in quanto a religione: nessuna breccia nel millenario paganesimo.

1916, Progresso lento
Bisognerà attendere fino al 14 maggio 1916 per avere un primo battesimo a Egoji, fino al 17 luglio 1916 a Imenti, fino al 1917 a Tigania, e fino al 1920 a Igembe.
Guardate il quadro progressivo annuale dei cristiani dall’inizio delle missioni al 12 Dicembre 1950 e non vi sfuggirà certo la lentezza del progresso [vedi i box «Sette Sorelle»] in qualche stazione, nonostante il lavoro immenso compiutovi. Alla vostra domanda sottintesa rispondo: «Quanti scalpelli si consumano prima che abbian intaccato la roccia granitica?». Il paganesimo di questa gente è molto più duro a sfondare, guardato com’è dalle organizzazioni degli Njoli [sono gli Njuuri di cui si parla più sopra] che tengono tenacemente il paese in mano, e in molti luoghi impediscono ogni innovazione che mina alla sua base stessa il paganesimo. Le difficoltà di apostolato incontrate a Tigania e a Egembe non impedirono l’espansione ai nostri pionieri.

1922, quota sei
Salendo su da Tigania verso Kangeta, non sfugge in lontananza sui profili dei contrafforti del Jombene la visione di qualcosa che sembra un castello, una fortezza: è la missione di Toro [oggi chiamata Tuuru] fondata da p. Aimo e Calandri nell’agosto 1922, vera sentinella avanzata, posta quasi sui confini del Jombene, proprio sulle vie carovaniere dei Borana e Turkana, in mezzo a una popolazione fittissima. Nell’ottobre 1922, p. Balbo fonda la stazione di Mekindoli [Mikinduri, – in realtà lui fece solo i primi contatti, la fondazione vera e propria si deve a p. Dolza Vincenzo come raccontato più avanti], luogo già visitato dal p. Giuseppe Maletto qualche tempo prima, il quale lasciò scritto nel diario: «Il primo a dir messa a Mekindoli fui io, sotto la tenda, con i fratelli Benedetto Falda e Bartolomeo Liberini a servirla, e ciò il 2 luglio 1922». Poche missioni hanno incontrato tanta difficoltà come Mekindoli nel loro primo sviluppo. Basti dire che per ben dieci anni ebbe solo sempre dodici cristiani. Ma nelle difficoltà si temprano anche le missioni, ed è per questo che oggigiorno Mekindoli è quella più avanzata e più promettente fra le missioni del Jombene.

1923, le consolatine
Nel 1923, settembre, arrivano a Imenti le prime due suore Consolatine, la compianta sr. Giacinta e sr. Enrichetta. Con lo svilupparsi dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata, altre ne arrivano, cosicché nel 1925 le suore Consolatine hanno già occupato le missioni del Meru, ad eccezione di Mekindoli, e le suore del Cottolengo possono rimpatriare.

1926, LA PREFETTURA APOSTOLICA
Abbiamo finora parlato delle sei stazioni di missione del distretto di Meru, che era parte del vicariato apostolico di Nyere. Nel 1926, succede un avvenimento d’importanza capitale per la storia della Chiesa nel Kenya. Precisamente il 10 Marzo 1926, una bolla da Roma erige la Prefettura Apostolica di Meru, staccando il distretto di Meru e parte di Embu dal vicariato di Nyere, piccola isola di 9-10.000 Km quadrati entro il vicariato, e una popolazione attuale (1950) di 400.000 (nel 1926 non raggiungeva i 200.000 [notare qui come la stima di 93mila capanne fatta nel 1910 fosse decisamente esagerata]). Primo Prefetto Apostolico è il venerato mons. Giovanni Balbo, nato a Torino il 22 ottobre 1884, e ordinato sacerdote il 29 giugno 1907, tempra d’apostolo antico stampo rotto a tutte le fatiche del pioniere. La nomina lo trovò in trincea, superiore della missione di Imenti, che reggeva, eccetto brevi periodi di interruzione, dalla sua fondazione. Tempi duri, quelli, per la nuova prefettura, in cui tutto era da organizzare, staccata da un vicariato che navigava bene [la disparità di risorse tra il vicariato di Nyeri e la prefettura del Meru, fu una delle questioni che più amareggiò i missionari].
Mons. G. Balbo non si perse d’animo. Le sette missioni della prefettura (nella divisione acquistò pure la missione di Kyeni iniziata nel 1923), nonostante la miseria, è la parola [giusta da usare], in cui si trovavano, cominciarono una nuova vita di sviluppo. Per prima cosa importò macchine per un laboratorio che avrebbe dovuto fornire il materiale per la costruzione di tutte le stazioni, i cui fabbricati erano ancor quelli all’indigena dei primi tempi, le mobilia per le abitazioni e le scuole che qua e là cominciavano a fiorire. E tutte le missioni avvantaggiarono di questo laboratorio.

1928, Tempi duri
Ma i tempi erano durissimi, e solo la tempra adamantina dei sette missionari, che formavano tutto il personale della prefettura di Meru, poté affrontare e superare quelle difficoltà che provenivano dall’interno del paese e dall’esterno.
«Siete eroi», disse mons. Arthur Hinsley (poi Cardinale di Westminster) ai missionari nella sua visita apostolica nel novembre 1928, visita che portò qualche benefizio materiale alla prefettura, e di cui mons. Balbo subito approfittò per costruire le abitazioni dei padri e delle suore della missione di Kyeni [non era stata una visita di cortesia, perché il monsignore, allora non ancora vescovo, era stato mandato da Roma per risolvere alcuni problemi, soprattutto economici, pendenti tra il vicariato di Nyeri e la nuova prefettura].
La visita di mons. Pasetto nel Giugno 1929 portò nuovi miglioramenti amministrativi alla prefettura. Ma la fibra forte di mons. Balbo non poté resistere alle crescenti difficoltà della Prefettura. La sua salute ne fu scossa, e verso la fine del 1929 rassegnò le dimissioni. Gli succedette come pro-prefetto, mons. Carlo Re, carica che tenne fino al 1936. Durante questo periodo mons. Re rifece i fabbricati di parecchie missioni e aprì la stazione di Chuka. Nuovo sviluppo presero pure le scuole sia alla centrale che nelle out-schools.

1936, mons. Nepote
Finalmente nel 1936, la prefettura ebbe il suo nuovo prefetto apostolico nella persona di mons. Giuseppe Nepote. Scriveva il «Da casa madre» [il bollettino interno dell’Istituto] del novembre 1936: «L’Angelo della Chiesa di Meru: ce l’ha portato la Madonna del Rosario come dono della sua festa: un dono materno quindi, prezioso e bello come i frutti di questa ottima raccolta autunnale. La lunga attesa della Chiesa di Meru non poteva certo sperare un premio più gradito e munifico di questa illuminata scelta».
Il periodo di mons. Nepote segna lo stabilizzarsi della vita cristiana nelle Missioni. Catecumenati fiorenti, scuole, cristianità in aumento in ogni luogo. [Ma l’idillio durò poco].

LA II GRANDE GUERRA
La grande guerra risparmiò nessuno, nemmeno il prefetto apostolico, il quale in un primo tempo fu inteato in un campo di Kabete, e in seguito confinato in una missione del Tanganika . Eventi successivi del dopo guerra portarono alle dimissioni di mons. Nepote nel novembre del 1946. E la chiesa di Meru [rimasta priva del suo pastore fu] retta dall’amministratore apostolico mons. Carlo Cavallera, vicario apostolico di Nyeri.
Durante l’inteamento di tutti i missionari [nel campo di Koffiefontein in Sudafrica] e suore, la prefettura venne temporaneamente affidata a quattro padri della Congregazione dello Spirito Santo, troppo pochi per il grande lavoro della prefettura, cosicché parecchie missioni furono chiuse e visitate solo periodicamente.
Con il ritorno globale dei padri e suore nell’agosto 1944, tutte le missioni presero nuovo sviluppo: catecumenati, cristianità, dispensari, ospedale, scuole primarie e secondarie, con un ritmo che ha del prodigioso.

A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Fuori le mura

Cosa pensa chi tenta di entrare

Introduzione

«Fortezza Europa»

Esistono alcuni luoghi ai confini dell’Europa mediterranea diventati ormai un simbolo nell’immaginario delle persone. A Nord come a Sud. Nel bene e nel male. Sono «terra promessa» e «barriera all’invasione». Sono «speranza di vita» e «difesa dello status quo». Sono «porta d’ingresso» e «portone sbarrato».

Si tratta di Patrasso, Lampedusa, Calais e Melilla. Quattro luoghi di paesi mediterranei: Grecia, Italia, Francia e Spagna. Sono nomi che corrono di bocca in bocca da Kinshasa a Abidjan, da Khartoum a Asmara, da Baghdad a Kabul. Alimentando leggende e sogni. Nomi sui quali si investono denaro e, spesso, la stessa vita. Ma anche luoghi in cui i paesi europei tentano di mettere in atto le loro direttive in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Concentrano forze di polizia per bloccare l’ingresso alle popolazioni dal Sud del mondo. Sono luoghi diventati, loro malgrado, il simbolo dei gendarmi dell’Europa.

Si tratta di due immagini contrapposte di uno stesso luogo geografico. Una vista dal Sud e una dal Nord del mondo. Sono luoghi in cui vengono alla luce in maniera netta due letture del mondo. Località dove le differenze e le ingiustizie che, all’inizio del terzo millennio continuano ad aumentare, vengono esasperate. Da una parte un «Nord ricco» e dall’altra un «Sud povero» del pianeta.
Due punti di vista che vanno raccontati attraverso le testimonianze delle persone raccolte in questi luoghi simbolo. Migranti, forze di polizia, operatori sociali, medici, volontari delle Ong, residenti. Per capire davvero di cosa si parla quando si dice «Fortezza Europa».

Fuori le mura

Le rotte dei flussi migratori sono dinamiche, variano a seconda degli eventi e del clima. È come un fluido che tenta di entrare non appena si apre una falla. E i gendarmi europei corrono a chiudere il buco. Ma subito si forma un’altra breccia.

Melilla, spagna
«Fratello, questa è una guerra. Soltanto Dio sa come andrà a finire. Ho tentato di scavalcare la valla (rete posta a protezione della frontiera spagnola di Melilla) tre volte. Mi hanno sempre preso. Mi hanno picchiato e riportato alla frontiera con l’Algeria. Qui dal Marocco è sempre più difficile passare». Ibrahim, camerunese di 25 anni, ha lo sguardo basso sulla terra brulla della foresta di Oujda, città marocchina al confine con l’Algeria. È in Marocco ormai da 2 anni e mezzo, e la doppia recinzione di rete e filo spinato alta 6 metri che circonda i 12 chilometri quadrati della cittadina di Melilla, enclave spagnola in terra d’Africa, è diventata la sua ossessione. «Per passare la rete bisogna avere dei jeans, un giubbotto a maniche lunghe e dei guanti di cuoio – spiega Sibo Kamara, ivoriano trentenne seduto a fianco a Ibrahim – altrimenti il filo spinato in cima alla barriera ti strappa la pelle. Si scavalca la prima rete con una scala e se ne lancia un’altra per scavalcare la seconda. Ho provato già tante volte ma non sono mai riuscito. Quest’inverno un compagno avanti a me è riuscito a passare. Ma per me non c’è stato nulla da fare».
Mukete, altro ragazzo camerunese, alto e magro, è rimasto «prigioniero della foresta» con Ibrahim e decine di altri immigrati subsahariani clandestini: provengono dal Camerun, Costa d’Avorio, Liberia, Guinea-Bissau, Guinea Conakry, Sierra Leone, Ghana, Nigeria, Gabon e vivono alla giornata, braccati dai militari marocchini e costretti a dormire sotto gli alberi. «Il nostro mondo finisce sul limite della foresta – spiega – sono quasi due anni che vivo nascosto tra questi alberi. Se esco e mi prendono i militari mi portano a morire nel deserto dell’Algeria. Sto aspettando il momento migliore per mettermi in marcia per Melilla o Ceuta». Come i suoi compagni Mukete è convinto che si tratti solo di tempo, perché «non è possibile che ci fermino – continua – mi hanno detto che stanno costruendo una terza rete intorno a Melilla. Ma non riusciranno a fermarci. Ho lasciato il mio paese in cui non avevo nulla, sono entrato in Nigeria, ho attraversato il Niger, poi il Mali, l’Algeria e infine sono arrivato qui in Marocco. Ora non è giusto che ci impediscano di andare verso una vita migliore, non abbiamo fatto niente di male».

Le rotte
Sono lontani i periodi in cui dalle frontiere europee di Ceuta e Melilla passavano centinaia di persone in fuga dai paesi africani. Oggi le «rotte» per l’Europa sono altre. Da qui non si passa più. Da Ceuta e Melilla i flussi si sono spostati verso le coste che si affacciano sulle Canarie: Marocco del Sud, poi territori Saharawi, Mauritania e fino in Senegal. Ma presto anche lì i «gendarmi europei» hanno cercato di bloccare la via. Allora i flussi si sono spostati dalle coste tunisine e libiche verso l’Italia. Poi dalla Turchia in Grecia. Ora, dopo gli ultimi accadimenti nei paesi maghrebini, nuovamente da Libia e Tunisia. Ma alcuni attendono ancora qui in Marocco, nella speranza che «cambi nuovamente il vento». E che la via spagnola all’Europa si riapra. Altri invece sono semplicemente «insabbiati». Dopo anni di tentativi non hanno più le forze per rimettersi in viaggio.
«Le spinte migratorie sono come l’acqua: seguono una legge fisica di alta e bassa pressione. Se creo una barriera per fermare il flusso, questo pian piano la aggirerà trovando sempre nuove strade». Padre Joseph Lepine è un attento osservatore dei processi migratori. È un prete cattolico settantenne, che da oltre 30 anni vive nella chiesa cattolica marocchina di Oujda, edificata proprio a fianco alla moschea cittadina, per accudire i numerosi giovani cattolici che vengono a studiare nell’università. «Sono oltre 10 anni che vediamo arrivare gente disperata dai paesi subsahariani diretta in Spagna – racconta -. Ma, da circa tre, la situazione è precipitata». Centinaia di persone giungono dall’Algeria e si installano nella foresta adiacente l’università: uomini, donne e bambini.
Il campus universitario, il secondo per importanza nel paese, è una sorta di rifugio per gli immigrati clandestini subsahariani. Verso le cinque di sera, quando gli studenti finiscono le lezioni e tornano ai loro alloggiamenti, gli immigrati entrano nel campus per attingere acqua potabile, lavarsi e rilassarsi qualche ora. All’interno della struttura universitaria infatti, secondo una storica usanza marocchina, la polizia non può entrare senza il permesso di studenti e rettore.
«La situazione in città è di assoluta emergenza – spiega il professor El Arbi Mrabet, preside della Facoltà di diritto dell’Università di Oujda – e in tutto il Marocco non esiste un solo centro di accoglienza per clandestini. Ed è solo per questo motivo che permettiamo agli immigrati di entrare nel campus la sera. Ma resta il fatto che la nostra struttura è finalizzata allo studio e non all’accoglienza».
I migranti clandestini per l’enclave spagnola di Melilla sono da sempre un fiorente business. «Il problema degli immigrati clandestini subsahariani – spiega José Palazon, presidente dell’Ong Prodein di Melilla – continua ad essere strumentalizzato per richiamare l’attenzione internazionale su Melilla e chiedere più risorse economiche». E ancora oggi, benché dalla valla non si passi quasi più, nel Ceti (Centro temporal de imigración) «lavorano tutta una serie di società private e Ong che percepiscono un mucchio di soldi – continua Palazon -. E solo la costruzione della terza valla a Melilla e Ceuta è costata quasi 40 milioni di euro». Si tratta di una ulteriore rete costruita qualche anno fa in mezzo alle due già esistenti: una barriera inviolabile, con tanto di labirinto di cavi d’acciaio e irroratori di liquido al peperoncino urticante.

Lampedusa, italia
Sono passate da poco le nove di sera quando il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e una motovedetta della capitaneria fanno ingresso nel porto di Lampedusa. A bordo, rispettivamente, 76 e 87 migranti: 163 persone salpate dalle coste libiche e soccorse dopo oltre dodici ore di navigazione su un barcone lungo 17 metri, a circa 24 miglia marine dall’isola siciliana. Sono maghrebini e subsahariani in fuga dai paesi nordafricani in rivolta. Tra loro anche 13 donne e 2 bambini, di sei e dieci anni. Un fenomeno che si ripete tristemente uguale tutti i giorni. L’ennesimo sbarco di clandestini sull’isola.
Sulla banchina attendono tutte le divise possibili e immaginabili: poliziotti, carabinieri, finanzieri, marinai. Poi il personale delle Ong pronto a prestare i primi soccorsi. Infine gli operatori dei media in cerca di notizie.
La piccola isola siciliana da mesi è chiamata ad affrontare l’accoglienza di migliaia di immigrati provenienti da Sud. Una vera e propria «pressione umana» che, solo recentemente, le altre regioni italiane stanno cercando di alleviare, accettando di accogliere alcuni migranti in fuga. È il caso di Kochri, giovane tunisino non ancora venticinquenne scappato dal suo paese in rivolta, sbarcato a Lampedusa e trasferito in Calabria.

Centri di «accoglienza»
Seduto di fronte ai container del centro d’accoglienza Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, nel Crotonese, la struttura d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa, il giovane non crede ai suoi occhi. «Sono arrivato una settimana fa a Lampedusa – racconta il migrante tunisino – e ora sono stato trasferito in questo centro su un aereo della guardia di finanza, insieme ad altri 100 compagni».
È aprile di quest’anno. L’isola siciliana, avamposto europeo in mare africano, è al collasso. Con migranti lasciati per le strade e strutture di accoglienza stipate. «Quando mi hanno detto che ci trasferivano ero felice – continua -, credevo fosse la seconda tappa verso una nuova vita nel vostro paese. Poi la sistemazione in brandine a terra, senza coperte. La delusione. Questa è una prigione fatta di gabbie per animali, senza rispetto né dignità. Perché? Non siamo ancora in Europa qui?».
La struttura calabrese di Isola di Capo Rizzuto è formata da una tendopoli più un campo di 162 container, di pochi metri di ampiezza ciascuno, in cui vengono stipati 12 – 15 e forse più migranti. E la capacità ricettiva complessiva non ha eguali in Europa: 1.300 posti. Si tratta di una delle numerose strutture allestite in fretta e furia dal governo italiano all’indomani della crisi dei paesi del Nord Africa. Quando gli sbarchi sull’isola di Lampedusa sono aumentati in maniera esponenziale.
Ma la situazione di emergenza nella piccola isola siciliana è endemica. Non è mai cessata. A partire dall’inizio degli anni 2000, quando il vecchio Cpa (Centro di prima accoglienza) di Lampedusa ricordava le carceri militari afghane o irachene: una cinta di rete sormontata da rotoli di filo spinato, cancelli con inferriate e abbondanti fari di illuminazione. Situato proprio a ridosso dell’aeroporto, con mezzi militari e uomini armati all’esterno che pattugliavano il perimetro 24 ore su 24. All’interno una serie di container metallici ospitavano i dormitori e i servizi. «Il centro ha una capienza di 190 persone – spiegava nel 2004 Claudio Scalia, della Misericordia di Palermo, allora responsabile del Cpa -. Ma a causa dei ripetuti sbarchi ci siamo già trovati a ospitare anche 1.100 persone, tutte insieme». In seguito, nel 2007, il Centro di prima accoglienza è stato trasformato in Centro di soccorso e prima accoglienza e trasferito in una ex caserma dell’esercito sull’isola, che nell’ottobre del 2009 è stato chiuso, in quanto, dichiarava una nota del ministero: «Non ci sono più immigrati da ospitare per effetto della politica dei respingimenti adottata dal governo».
Il ministro Roberto Maroni infatti, pochi mesi prima aveva dichiarato: «Il 2009 sarà l’anno della fine dell’emergenza, così come il 2008 è stato un anno record sul fronte sbarchi. Due giorni fa – spiegava il titolare del Viminale – ho incontrato l’ambasciatore libico ed entro gennaio spero che i pattugliamenti possano partire. Ciò ci consentirà di chiudere con il fenomeno degli sbarchi prima della stagione turistica».
Poi la situazione dei paesi Nord africani è precipitata. E 10 anni di impegni in patti bilaterali della politica italiana in materia di immigrazione sono andati in fumo. «Lampedusa continua ad essere una realtà offshore – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), membro della Rete antirazzista siciliana e docente di Diritto privato all’Università di Palermo – un’isola de-territorializzata, dove non funzionano le normali regole di un paese democratico. Per legge, gli immigrati che arrivano sul nostro territorio dovrebbero avere una procedura davanti al magistrato entro 48 ore. Ma non succede, perché da Agrigento i giudici si recano sull’isola, se va bene, una volta a settimana. Evidentemente l’articolo 13 della Costituzione qui non esiste».
Patrasso, Grecia
Afghani, sudanesi, somali, eritrei, kurdi, iracheni e palestinesi, in tutto un migliaio di persone, vivono accampati nei pressi del porto d’imbarco per l’Italia. Sono organizzati in campi abusivi, chi all’aperto, chi sotto i vagoni dei treni, chi in case abbandonate, divisi per area di provenienza. Senza assistenza, né acqua né luce, con servizi igienici di fortuna.
In città solo l’associazione umanitaria Kinisi si prende cura di loro, ma la situazione è totalmente fuori controllo. E Patrasso è solo la punta dell’iceberg di un sistema d’immigrazione clandestina che parte da Kabul come da Karthoum o dalla Cisgiordania, per entrare in Europa attraverso il confine tra Turchia e Grecia. Storie di fatiche, ingiustizie, soprusi, violazioni, a volte morte. Tutto per arrivare nell’avamposto europeo del mar Egeo, nell’enclave ellenica, da dove i migranti clandestini, in attesa di permesso di soggiorno o richiedenti asilo, tentano di entrare in Italia, nascosti nei container o attaccati sotto i rimorchi dei tir in attesa di imbarcarsi sui traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Per rimanerci o per potersi spostare «liberamente» in altri paesi europei confinanti.
Il giovane Abdullah, 18enne leader di un gruppetto di otto ragazzi giunti dallo stesso villaggio, racconta la sua epopea: «Ho impiegato più di due mesi ad arrivare qui. Sono partito dal mio villaggio, a Nord di Kabul, per Kandahar. Da lì sono passato in Pakistan, per proseguire verso l’Iran. Sono arrivato al confine tra Iran e Turchia con passaggi in auto, e accompagnato da guide locali lungo le montagne sono entrato in Turchia. Van, Ankara, poi Istanbul, Smie e infine il centro di Paganì, sull’isola di Lesbo. Ora sono a Patrasso da 6 mesi in attesa di andare in Italia, perché voglio entrare davvero in Europa…».
Mohammud invece, 50enne ingegnere minerario del Sudan, racconta: «Sono arrivato ad Ankara in aereo dal Cairo. Sono scappato da Karthoum lasciando moglie e quattro figli perché ero sulla lista nera del governo». Una volta ad Ankara, Mohammud ha contattato un «passeur», un trafficante di uomini, per entrare in Europa. Come? «Con il cellulare naturalmente, chiamando un numero avuto da un connazionale incontrato al Cairo». Detto fatto, per la modica cifra di 600 dollari Usa, molto meno del passaggio dalla Libia all’Italia, o dal Marocco alla Spagna, Mohammud è stato imbarcato su un gommone che dal porto di Smie, sulla costa turca, lo ha portato nell’isola greca di Samos.
Dopo due mesi di fermo è stato rilasciato con un permesso bimestrale in attesa di risposta per la domanda di asilo. «È da sei mesi che sono in Grecia e ancora non mi hanno comunicato niente», dice l’ingegnere. Che è costretto a dormire da clandestino insieme a 200 tra connazionali, somali, eritrei, sotto alcuni vagoni dismessi presso la stazione a Ovest di Patrasso.
«Ormai l’unica strada per entrare in Europa è la Turchia», sosteneva Bawa Hissen Folase, giovane sudanese, nella primavera del 2010. «Dal Marocco non si passa più perché i militari sparano. E le Canarie, Ceuta e Melilla sono completamente bloccate dalla polizia spagnola. Dalla Libia verso l’Italia nemmeno, respingono le barche». «Io ci sono stato: ho lavorato tre anni a Tripoli per pagarmi il passaggio verso Lampedusa. Poi la polizia italiana ci ha fatto tornare indietro. Eravamo 18, nella traversata i più deboli sono morti».
Amir, iracheno sulla ventina, è arrivato a Patrasso con un colpo di arma da fuoco in corpo. Cosa che, conferma Johannis Lamprous dell’associazione Kinisi, accade spesso. Ora è guarito e, con una decina di ragazzi afghani, attende che un tir si fermi al semaforo per balzare sotto il rimorchio. Con il rischio di essere arrestato dalla polizia.
«Il modo per andare in Italia ci sarebbe» dice Magal, giovane afghano. «Basta avere i soldi e un passaggio si trova». Lo prova il recente ritrovamento da parte della polizia portuale di Patrasso di un camion con 25 immigrati nascosti in un doppiofondo. «Questi traffici sono organizzati direttamente da Atene, da lì arrivano i camion carichi di clandestini diretti nei porti di Venezia, Ancona o Bari» spiega Mihalis Sidiropoulos, studente di legge attivista di Kinisi. Il costo del «passaggio» è variabile, può arrivare a 2.000 euro.
Nel frattempo, per i clandestini senza soldi, anche la strada dell’imbarco dal porto di Patrasso si sta chiudendo. Negli ultimi mesi solo poche decine di ragazzi sono riusciti a partire. E ancora meno a superare i controlli italiani nel porto di destinazione. Una nuova via sembrava essersi definita attraverso la Turchia, verso le frontiere con la Repubblica di Macedonia. Poi Serbia, Ungheria e Austria. Ma con l’esplosione delle rivolte in Tunisia, Algeria e con l’intervento Nato in Libia, tutto è nuovamente cambiato. E si è riaperta d’improvviso la via di Lampedusa.
«Ieri mi ha chiamato un amico che dormiva con noi, qui nella “forest” – racconta Hassan, giovane afghano -. Lui ce l’ha fatta. Era appena arrivato a Calais, in Francia. E tra pochi giorni finalmente arriverà in Inghilterra». Meta di molti migranti provenienti da paesi anglofoni.
Calais, Francia
Scende la notte sul porto di Calais, affacciato sullo stretto della Manica, nel Nord della Francia. Le luci a giorno rischiarano il piazzale asfaltato, cinto da una rete alta tre metri, dove stazionano i camion in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra. È praticamente territorio inglese, nel senso che uomini e merci arrivano dopo aver passato la dogana. Fatta di controlli rigorosi: controllo delle bolle di carico, apertura dei container, inserimento di pertiche di ferro nei passa ruota e sotto la scocca dei camion, rilevazione attraverso apparecchi elettronici di eventuale anidride carbonica emessa da «clandestini» nascosti nel carico.
Yasir, l’amico di Hassan di Patrasso, percorre rue de Moscov, passa il ponte Ventillard che divide la città vecchia dal porto, cammina lungo il perimetro della rete e all’improvviso, con agile mossa, entra. Immediatamente scatta un allarme e arriva un’auto della polizia inglese. Yasir viene bloccato, si siede sul bordo del marciapiede insieme a due poliziotti e si fa offrire una sigaretta. Questa sera è la terza volta che tenta di scavalcare la rete. La polizia ormai lo conosce, ma non sa cosa fare per fermarlo. Gli inglesi attendono i colleghi francesi, che arrivano, caricano Yasir in auto e lo portano fuori dal porto, verso il centro di Calais. Pont Ventillard, rue de Moscov, e il ragazzo afghano viene rilasciato per strada.
«Vengo da un paese a nord di Kabul – spiega Yasir in un inglese stentato – e sono partito da casa ormai da tre anni». Aveva 12 anni, primo di quattro fratelli e una sorella, quando perse il padre ucciso in una sparatoria. Decise di partire per raggiungere l’Inghilterra, dove alcuni amici dei suoi parenti erano riusciti a costruirsi una nuova vita. Come i suoi conterranei ancora bloccati a Patrasso è entrato in Iran attraverso le montagne per poi andare in Turchia. Da lì si è introdotto illegalmente in Europa attraverso la Grecia. «Sono stato bloccato per due anni a Patrasso – racconta sorridendo -. Poi dopo tantissimi tentativi, finalmente sono riuscito a passare nascosto in un camion che è sbarcato a Venezia». In treno, attraverso il Col di Tenda, è arrivato a Parigi. E via fino a Calais, dove lo aspetta l’ultimo sforzo che lo divide dalla sua meta.
Simone, il fotografo che mi accompagna in questo viaggio, mostra le foto fatte a Patrasso, nel campo degli afghani. Yasir riconosce immediatamente Hassan e gli altri suoi amici.
«Tra tre o quattro giorni avrà fatto il salto dall’altra parte, in Inghilterra. Come tutti». Spiega Sylvie Copyans. Cinquantadue anni, ex impiegata di banca, Sylvie è uno dei soci fondatori di Salam, associazione di Calais che fornisce aiuto umanitario a migranti clandestini. Seduta ad un tavolino del café brasserie «La Tour» della centrale Place d’Arme offre una Coca Cola al giovane afghano. «Qui in Francia non possono fermarlo – continua la donna -. Ha 15 anni, è minorenne, e dovrebbe essere a scuola». Invece vive accampato come tanti altri suoi connazionali tra quello che resta della «Forest», un bosco ai margini della zona industriale di Calais, e i bungalow occupati abusivamente sulla spiaggia. Spiaggia dalla quale, ironia della sorte, si vedono le bianche scogliere di Dover dall’altra parte dello stretto della Manica.
Casa Africa
«Pochi mesi fa Casa Africa era un’altra cosa – racconta Adam, sudanese del Darfur che vive nello squat Casa Africa di Calais da quattro mesi -. Poi la polizia un giorno è arrivata con le ruspe e ha spianato tutto quello che c’era all’interno dei capannoni». Compresi gli effetti personali di chi vi abitava. E i cumuli di macerie agli angoli degli stanzoni vuoti, con materassi a terra e fuochi accesi per scaldarsi e cucinare, testimoniano ancora l’operazione. Unica oasi ordinata: un’area di tappeti di una decina di metri quadrati, circondata da un bordo di legno, nella quale pregano a tuo i musulmani. «Sono scappato dal mio villaggio nel Sud Ovest del Sudan – racconta Adam uscendo dalla zona di preghiera – inseguito dall’esercito che voleva arruolarmi». I militari sono arrivati a cavallo nella notte, hanno portato tutti fuori dalle case e le hanno incendiate.
«Mi ricordo le frustate che schioccavano nell’aria – continua Adam -. Sono subito scappato il più lontano possibile». Adam è stato successivamente inteato in un campo profughi. E non ha mai più saputo nulla dei suoi fratelli e dei suoi genitori. «Sono arrivato a Lampedusa nel 2009 – racconta il sudanese – ed ho chiesto asilo a Roma. Ho anche chiesto che mi aiutassero a rintracciare la mia famiglia, ma nessuno è riuscito a saper nulla. Ora aspetto il momento giusto per passare in Inghilterra. Nella speranza che non mi scoprano, altrimenti mi rispediscono a Roma. Dove hanno le mie impronte digitali».
Poco distante da Casa Africa, in rue de Moscov, nel centro storico di Calais, c’è un grande piazzale asfaltato dove all’ora dei pasti si accalcano centinaia di persone in attesa. È il centro di distribuzione del cibo messo a disposizione dal Comune alle associazioni che si occupano dei migranti. Si danno il tuo tra associazione Salam, La Belle Etornile, Secours Catholique e l’Auberge des Migrantes. Garantendo la distribuzione di colazione alle 10, pranzo alle 12 e cena alle 18.
«Sono arrivato da due settimane a Calais» racconta Hassan con la faccia sconvolta, in un italiano fluente. Dormiva nello squat chiamato «Casa Palestina» quando sono arrivati i poliziotti. L’hanno arrestato e tenuto tutta la notte in centrale con le manette. È stato appena rilasciato e mostra i segni rossi ai polsi. «Sono arrivato a Lampedusa dalla Libia e ho vissuto sette anni in Italia, a Vigevano. Facevo l’idraulico e stavo bene. Avevo la casa, l’automobile, andavo in discoteca con gli amici. Ma ora in Italia c’è la crisi, la mia ditta ha chiuso ed io ho perso il permesso di soggiorno, come tanti miei amici stranieri. Ma qui in Francia è terribile. Non si può vivere così. Provo ancora una settimana a passare in Inghilterra. Se non ci riesco too in Italia. Se solo avessi i soldi per passare…».
E sì, perché anche qui chi ha tra i 500 e i 1.000 euro a disposizione per pagare il passeur, arriva in Inghilterra senza problemi. Attende direttamente a Parigi, per essere poi nascosto in un camion che attraversa la Manica nell’Eurotunnel o su un traghetto del porto di Calais. Ma chi non ha soldi può solo tentare la fortuna. Sperando di passare indenne i controlli. Magari con un sacchetto di plastica in testa per non rilasciare anidride carbonica che potrebbe essere rilevata dagli apparecchi della polizia.

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Dentro le mura

La difesa della fortezza

Al suo interno la «Fortezza» si organizza per respingere gli invasori. E con i «patti bilaterali» si militarizzano le coste di partenza dei migranti. Si crea così Frontex, agenzia comunitaria a «protezione delle frontiere». Ma i danni «collaterali» sono le vittime dei respingimenti. E le associazioni di volontariato cercano di dare soccorso.

Melilla, spagna
«Era l’ottobre del 2005 – ricorda Giorgio Calarco, di Medici senza frontiere, all’epoca medico attivo sul territorio di Nador, cittadina marocchina cresciuta intorno all’enclave spagnola di Melilla – mi hanno telefonato in piena notte: i militari marocchini stavano deportando oltre 600 persone nel deserto tra Marocco e Algeria, nei pressi di Rachidi. Avevano cercato di scavalcare la rete di Melilla tutti insieme, la polizia ha sparato uccidendo 6 persone, ha arrestato gli altri e li ha caricati su due pullman.
Il giorno seguente siamo partiti per cercarli, abbiamo visto i segni degli pneumatici dei pullman che facevano dietro front nel deserto e li abbiamo trovati. Molti avevano ancora ferite sanguinanti, mal medicate e ormai infette. Ci hanno detto che 13 persone erano morte nella notte. Ma non abbiamo mai trovato i corpi».
Nel gruppo, ricorda Calarco, c’era anche un signore distinto con un completo grigio e le ciabatte ai piedi: era un maliano che, uscito di casa senza portare con se i documenti in regola, era stato arrestato e deportato nel deserto con gli altri.
L’incredibile racconto di Giorgio Calarco testimonia gli «effetti collaterali» dei cosiddetti patti bilaterali realizzati dai paesi europei con paesi non comunitari in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Nel tentativo di fermare i «flussi di migranti» e «preservare lo status quo» dei «propri» cittadini.
La Spagna del socialista Zapatero, è stata tra i primi paesi ad adottare queste politiche: a partire dal 2004 ha promosso il «Sistema integrale di vigilanza esteriore» (Sive), realizzato grazie alla cooperazione poliziesca con le forze dell’ordine marocchine. Il sistema è basato su un accordo di riammissione in Marocco dei migranti entrati illegalmente in Spagna e sulla realizzazione di pattuglie miste ispano marocchine a controllo delle frontiere delle due enclave spagnole, in cambio di ingenti aiuti al «paese emergente». Il Sive, dal punto di vista dei numeri, ha sicuramente dato i suoi frutti.
L’estealizzazione dei controlli sui migranti oltre la frontiera dell’Unione europea (Ue) apparentemente è riuscita a frenare l’ingresso in Europa dal Marocco, impedendo che il paese arabo continuasse ad essere il terminale delle partenze dei subsahariani verso la Spagna e il continente. Ma non sono stati tenuti presenti i possibili effetti «collaterali», che sono risultati essere molto rilevanti. La chiusura della via marocchina ha infatti incrementato le partenze per mare dalla Mauritania, da dove solo nei primi tre mesi del 2006 sono giunti alle isole Canarie circa 3.000 migranti (per la maggior parte senegalesi e maliani). E quando il governo di Madrid ha provveduto a «militarizzare» anche la costa mauritana, le partenze si sono spostate sempre più a Sud, fino ad arrivare al Senegal e ai paesi del Golfo di Guinea. A costo di un numero impressionante di morti annegati. E quando anche questa via è stata «militarizzata», i flussi migratori hanno cambiato rotta, passando da Tunisia e Libia, per arrivare in Europa attraverso l’Italia.
Lampedusa, italia
Il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e la motovedetta della capitaneria attraccano alla banchina del porto di Lampedusa. Sbarcano il loro «carico umano» e lo consegnano alle autorità portuali: 163 migranti salpati dalle coste libiche e soccorsi a 24 miglia marine dall’isola siciliana.
Il tenente della guardia di finanza Rosario Vicedomini, comandante dell’operazione, consegnati i migranti si concede un po’ di tregua: «La costa di Lampedusa è l’avamposto dell’Europa nel Mediterraneo, e appena ci sono due giorni di bel tempo arrivano i barconi di clandestini. L’unico modo per arginare il fenomeno è collaborare con i paesi di partenza, come si è fatto per le coste dell’Adriatico. Grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita, oggi da paesi come l’Albania o il Montenegro il traffico di persone via mare è stato fermato».
Il tenente Vicedomini ricorda come la politica di contrasto all’immigrazione clandestina dai paesi dell’Est Europa degli anni ‘90 sia passata non solo attraverso operazioni di «polizia internazionale», ma anche grazie a politiche di cooperazione allo sviluppo con i paesi d’origine. L’Ue oggi sembra aver intrapreso un’altra strada: la creazione di una cintura realizzata dall’agenzia comunitaria Frontex (vedi box, www.frontex.europa.eu), un vero e proprio esercito, con navi, aerei, uomini, armi, e reparti speciali. Con il compito di tenere fuori «l’altro», di evitare che «lo straniero» arrivi sul territorio comunitario.
Nel mondo oggi è in corso una vera e propria guerra al «diritto di migrare». Una guerra che, come tutte le guerre, ha purtroppo dei danni collaterali. Che sono i morti alle frontiere. I dispersi. I respinti che non riescono ad arrivare in Europa né a tornare indietro. Persone che, secondo il censimento fatto da Gabriele Del Grande sul sito «Fortress Europe» (http://fortresseurope.blogspot.com, vedi box, intervistato su MC dicembre 2009), la fonte più attendibile a livello comunitario, in 10 anni sono almeno 16 mila. Restando a quelle che è stato possibile individuare.
Senza contare poi le migliaia di «stranded», quelle persone che rimangono bloccate in piccole realtà del deserto o grandi città costiere africane, di cui ha raccontato in modo magistrale Fabrizio Gatti nel suo diario di viaggio «Bilal» (Rizzoli 2007), perdendo a poco a poco la capacità di reagire ai soprusi.
Una strage spaventosa sulla quale si esercita sistematicamente la rimozione, sulla quale la scelta collettiva è quella di volgere lo sguardo altrove.
«Non dico sia una situazione nazista – dichiara Luca Rastello, autore di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani (La Terza 2010) – non voglio paragonarla alle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma è un fenomeno che può degenerare, una situazione che, nelle modalità con cui si sta realizzando, ha qualcosa di goebbelsiano».

Patrasso, Grecia
«In Grecia è facile entrare. Il difficile è uscie» dice Hamid, afghano di 14 anni, accampato con altri 500 connazionali nella «forest», come la chiamano loro, un grosso uliveto alla periferia est di Patrasso. Braccato dalle forze dell’ordine, attende il momento di imbarcarsi per l’Italia. Ogni due tre giorni la polizia arriva all’alba, distrugge le baracche di teli e cartoni, arresta quattro o cinque ragazzi e va via. «Non si tratta solo di esecuzione degli ordini, ma di atti di brutalità degli agenti di polizia» denuncia Johannis Lamprous, dell’associazione umanitaria Kinisi. «Picchiano i ragazzi, li insultano, rubano loro soldi e cellulari e spesso orinano sui loro materassi».
Brutalità e negazione dell’accoglienza. Queste le strategie messe in campo da Atene per contrastare l’immigrazione clandestina. Tanto che in Grecia, che con il tasso del 2% di riconoscimento dello status di rifugiato, contro la media Ue del 20%, è il paese meno «accogliente» dell’Unione, nessun immigrato vuole rimanere.
Il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite hanno più volte puntato il dito contro la Grecia accusandola di non essere in grado di garantire protezione a migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Nel mese di aprile 2008 poi, la Finlandia per protesta ha annunciato che avrebbe interrotto i trasferimenti dei migranti non europei provenienti dalla Grecia, mentre la Germania e la Svezia hanno limitato la sospensione dei trasferimenti ai soli minori non accompagnati. Secondo i principi del «Regolamento Dublino II» infatti, i migranti senza documenti richiedenti asilo, devono restare nel paese europeo d’ingresso ad attendere risposta. Senza possibilità di spostarsi in altri paesi membri. Si tratta di un regolamento criticato da più parti. Contro cui ha espresso le sue perplessità anche l’Alto Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani Thomas Hammarberg. Dichiarandosi favorevole alla: «Proposta della  Commissione europea di un meccanismo che sospenda i trasferimenti e che dia sollievo agli Stati sotto elevata pressione. Un sistema simile potrebbe aiutare a garantire i richiedenti asilo e le loro domande».
Si tratta di una richiesta di modifica delle norme su cui insistono in modo particolare i paesi della frontiera meridionale dell’Ue, ovvero Italia, Francia, Spagna e Grecia. Interessati in questi giorni dall’arrivo di migliaia di persone dalla sponda Sud del Mediterraneo. Paesi a cui Bruxelles ha sostanzialmente delegato la «gestione dei flussi dei migranti» verso l’Europa intera. Una delega finalizzata alla creazione di un «cuscinetto» che preservi l’Unione e, in specifico, metta definitivamente «al riparo» gli Stati centrali. Paesi centrali che, in termini di accoglienza, molte volte hanno già dato più dei loro alleati mediterranei. Una delega che, alcune volte, mette purtroppo i paesi dell’Europa meridionale al riparo da possibili «richiami» dell’Unione per la violazione dei diritti giuridici ed umani nei confronti dei migranti. In un meccanismo di do ut des.

Calais, Francia
Sono le sette del mattino, e dagli ingressi di «Casa Africa» di rue Des Scartes, dietro la stazione del treno di Calais, arriva il rumore dei fischietti dei ragazzi di No Border. No Border è un network europeo di persone che si adoperano per l’aiuto agli immigrati clandestini, che in Calais ha un forte nucleo. Il fischio aumenta, la confusione pure, e nel giro di pochi secondi arrivano sette furgoni a sirene spiegate da cui scendono di corsa una ventina di poliziotti. Sudanesi, eritrei, etiopi, somali ed altri ancora salgono sui tetti. Alcuni vengono fermati e caricati sui mezzi. Ci sono uomini in divisa della Polizia locale di Calais, della gendarmeria nazionale, della polizia nazionale e addirittura i «famosi» Crs, gli uomini della Compagnies Républicaines de Sécurité, corpo della Polizia nazionale francese con funzioni antisommossa. Alcuni brandiscono delle scale telescopiche per salire sui tetti. Ma dopo mezzora, improvvisamente, tutti gli uomini in divisa risalgono sui loro mezzi e se ne vanno. In pochi minuti i migranti scendono dai tetti dell’edificio urlando di gioia.
«Gli immigrati clandestini a Calais vivono in condizioni spaventose – spiega Sylvie Copyans, dell’Associazione Salam -, in immobili occupati abusivamente, o nel bosco. Trattati come cani dalla polizia. Vengono percossi e poi arrestati. Le loro baracche vengono distrutte col fuoco. La polizia non può mandarli a casa così rende la loro vita quanto più orribile possibile. È una caccia all’uomo. Conoscete il film “Welcome” di Philippe Lioret? La sceneggiatura l’abbiamo scritta proprio qui, nel tavolino a fianco». Il film, del 2009, aveva suscitato un certo scalpore in Francia e nel resto d’Europa. Raccontando la vita e le peripezie degli immigrati clandestini bloccati a Calais in attesa di passare in Inghilterra. Per realizzarlo regista e sceneggiatore sono stati insieme a Sylvie e agli altri volontari di Salam per più di un anno. In molti pensavano che il film avrebbe avuto la forza di «scuotere le coscienze» della gente e, soprattutto, dei governanti di Parigi. Che la Francia, patria della Liberté, Egalité, Frateité si indignasse e trovasse un rimedio per queste persone in difficoltà. Ma così non è stato. Anzi. La situazione dei migranti che continuano a vivere braccati dalle forze di polizia è peggiorata. Oggi vengono utilizzati come pedine di scambio tra Italia e Francia per la revisione di una fallimentare politica europea sull’immigrazione. Che negli ultimi 10 anni invece di puntare sulla cooperazione internazionale con la società civile dei paesi del Sud del Mediterraneo è scesa a patti con i loro regimi retti da presidenti poco democratici come Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Abdelaziz Bouteflika in Algeria, Mohammed VI  in Marocco o Muammar Gheddafi in Libia.

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




110 anni di missione, fedeli cambiando / Introduzione

Capitolo generale dei missionari della Consolata

Introduzione
Carissimi amici, lettori e benefattori,

mentre vi accingete a sfogliare le pagine di questo dossier, una cinquantina di missionari della Consolata sono riuniti a Roma, presso la Casa Generalizia del nostro Istituto, impegnati a dare vita al Capitolo Generale, il 12° della nostra storia. È questo un tempo speciale, opportuno e necessario, di riflessione intorno alla missione che i missionari della Consolata svolgono in 24 paesi di quattro continenti. Il Capitolo raduna i rappresentanti delle varie circoscrizioni in cui l’Istituto è organizzato per valutare il lavoro fatto nei sei anni appena trascorsi e per programmare il futuro. Verrà anche eletta una nuova Direzione Generale, che avrà l’incarico di guidare l’Istituto e portare a compimento le scelte che il Capitolo farà.
Ecco descritto lo «scenario» e le ragioni di questo dossier; avremmo potuto attendere la fine dei lavori per darvi un’immagine più completa di cosa vorremmo fare della nostra vita nei prossimi anni alla luce del Vangelo… e lo faremo anche a Capitolo concluso, raccontandovi come avremo deciso di rispondere alle novità con cui la missione ci provoca e ci sfida. Abbiamo invece preferito coinvolgervi da subito, perché ci sembra bello che, nel leggere questa carrellata a volo d’uccello su chi siamo e cosa facciamo, possiate pensare a noi, unendovi innanzitutto nella preghiera a Colui che è l’unico e vero protagonista della Missione. Gesù, missionario del Padre, è, attraverso il suo Spirito, il primo agente del lavoro di evangelizzazione di cui noi, seguendo il carisma del nostro Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, siamo gli strumenti.
In queste pagine accenneremo soltanto a chi siamo e da dove veniamo, lasciando che gli articoli si concentrino sul presente e sul futuro di una famiglia di missionari che anche oggi, nel contesto particolare della società in cui è immersa, vuole continuare ad offrire un rinnovato messaggio di speranza e consolazione al mondo, un messaggio non suo, ma ricevuto in dono.
Buona lettura e benvenuti nella nostra missione.

                                                                 Ugo Pozzoli     

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Una storia carismatica

Dal passato al futuro

110 anni di cose che non si possono modificare… «Il mondo sta cambiando e ci dobbiamo adeguare». È questo, in sintesi, il ritornello che anima da tempo i nostri dibattiti sulla missione. Cambiare cosa? Cambiare faccia, pelle, anima? Spirito, strumenti?

Il viaggio intorno al nostro Istituto missionario inizia da un viale alberato alla periferia di Torino. Non è una proiezione sul futuro e neppure una finestra aperta sul mondo; è piuttosto un’immagine che rimanda alle radici, come quelle degli alberi che fanno ombra al passeggiare.
È il viale del tramonto? Per alcuni versi forse lo è,
ma non solo.
Due figure vi camminano lentamente, la prima, più bassa, quasi si appoggia all’altra, alta e slanciata, come a un lungo bastone. Quella piccola parla e l’altra ascolta: un borbottio che non si capisce bene da dove venga e cosa voglia dire, suoni confusi.
Il più piccolo vive ad Alpignano (nella casa dei missionari anziani) da alcuni anni, dopo una vita passata in Colombia e in Ecuador; soprattutto in Ecuador, sulla cordigliera. Il suo passo ha lasciato un’impronta grande, fatta di ricordi, affetti e un ospedale dedicato alla Consolata. Testa dura di sardo Doc, è vissuto e ha lavorato là, spesso da solo, alle prese con una salute sempre più precaria, in una valle all’ombra del Chimborazo, la grande montagna che cresce sulla linea dell’equatore, proprio dove la terra ha la pancia più grande, a contatto con la scontrosità naturale di indios che vivono a tremila metri di altezza, con la pelle rovinata dalla fuliggine di vulcani ancora attivi e da secoli di storia dura, passata a dir di sì a chi sempre trova il modo di essere più furbo.
Quello più alto cammina con lui e ascolta. Nato in Marocco da famiglia bergamasca (scherzi padani che non ti aspetti), quattro calci a un pallone con i giovani dell’Atalanta, missionario in Congo, Spagna e Venezuela, qualche anno di servizio nella Direzione Generale… oggi è superiore ed animatore di quella comunità missionaria “in pensione” (sempre che dalla missione ci si possa mai completamente ritirare), fatta di confratelli anziani, quasi sempre ammalati, che, come il piccolo missionario sardo, hanno bisogno di qualcuno cui appoggiarsi per camminare.
Il futuro di un Istituto missionario si costruisce su immagini come questa, storie di vita vissuta rilette alla luce del nostro presente. Le utopie di cui vogliamo alimentare la nostra missione devono fare i conti con un passato e con delle radici forti, se vogliono raggiungere il regno del reale e non perdersi nell’universo del possibile. L’istantanea dei due missionari è una delle tante che potrebbero descrivere cosa è stata ed è la missione per «quelli della Consolata» da 110 anni a questa parte, da quel 29 gennaio 1901 in cui il beato Giuseppe Allamano diede sfogo all’aspirazione missionaria della chiesa torinese con la fondazione dell’Istituto. Non l’esaurisce certamente, ma ne incastona, come gemme, alcune caratteristiche che da sempre fanno parte del nostro carisma: siamo missionari che hanno la consolazione nel cuore, la portiamo nel nome, ed è come se facesse parte del nostro Dna. Il nostro fondatore non ci volle «allamaniani», ma della Consolata, perché fossimo delle estensioni dell’amore silenzioso, umile ma efficace, di Maria. Ci volle presenti a «fare bene il bene», senza squilli di tromba, per essere Buona Notizia nella vita dei più poveri e sofferenti, di coloro che sono più soli e, soprattutto, di coloro che ancora non conoscono Cristo. «Noi siamo per gli infedeli» dice l’Allamano, con il vocabolario proprio del suo tempo. Siamo per i non cristiani, missionari di prima evangelizzazione.
Con coraggio
Da 110 anni, in quattro continenti diversi, proviamo a vivere così. Lo facciamo tra mille difficoltà e contraddizioni, avvertendo il peso di sentirci come vasi di creta sempre più fragili eppure ancora carichi della responsabilità del tesoro che custodiscono. Cerchiamo di vivere questi valori con spirito di famiglia, una famiglia estesa, culturalmente molto diversificata, ma unita da una parola magica a cui costantemente tentiamo di dare significati nuovi: «carisma». Oggi il nostro Istituto (come molte altre congregazioni religiose) vive una duplice sfida interculturale.
I missionari europei sono anziani e in diminuzione, mentre le forze giovani vengono da altri luoghi, soprattutto dall’Africa (e in modo numericamente più significativo dal Kenya, la nostra prima missione); ci troviamo di fronte a un doppio divario culturale: geografico e generazionale. Come trasformare le differenze in ricchezza? Come riscoprire in un presente così complesso, fluido e variabile le condizioni per continuare a vivere il nostro «carisma» di missionari della Consolata? È questa la sfida più grande e urgente che oggi ci attende.
Il lavoro è molto, sicuramente non facile, ma guai a guardare con rassegnazione e paura a ciò che abbiamo davanti. Siamo in tempi di crisi, ma la crisi è anche la condizione necessaria per nuovi cambiamenti: da sempre la storia dell’uomo è andata avanti così. «Avanti in Domino», verrebbe da dire, usando un’espressione cara al nostro Fondatore: «Avanti nel Signore», perché sua è la missione, suo lo Spirito che la anima.
Oggi le nostre diversità possono rivelare la loro ricchezza, dandoci una marcia in più nel fare quello che abbiamo sempre fatto: andare alle genti più diverse. Un tempo esse erano raggiungibili soltanto a prezzo di lunghi e faticosi viaggi, oggi, invece, sono vicinissime, perché mescolate nello spazio di un solo quartiere, sia esso in una delle nostre città che negli slum delle megalopoli del sud del mondo.
Cosa della storia di ieri dovremmo caricarci sulle spalle per poter essere padroni delle nostre storie di domani? La nostra è una storia segnata dal «carisma della missione». Qualcosa di esso è stato scritto sulla carta, ma molto di più è scolpito nelle esistenze di chi ci ha preceduto o vive al nostro fianco, nelle vite di tanti missionari che ancora credono alla vocazione ricevuta e, seppur nella contingenza dell’umana fragilità, ci provano e vanno avanti… in Domino.
I due missionari stanno finendo la loro passeggiata. Ad Alpignano si mangia presto e bisogna rientrare. Uno parla e l’altro ascolta. C’è missione vissuta anche solo in quel semplice stare insieme a testimoniare il senso profondo della comunione, della gratuità, della consolazione. Sullo sfondo appaiono come in dissolvenza altri paesaggi ed altri volti: storie di missione, anche queste, nascoste nel profondo di una foresta, ai margini di un deserto, nella maleodorante periferia di una metropoli o nel profumo di incenso del Santuario della Consolata da cui siamo partiti.
Storie ad gentes, di ieri, di oggi, di domani.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Africa

Africa

il nostro passato e il nostro futuro

L’ultima immagine del continente africano che ho davanti agli occhi prima di impaginare questo dossier è quella che fa capolino dalle poche righe che padre Willy ci ha inviato dalla Costa d’Avorio: l’immagine di un paese squassato dalla guerra civile, sull’orlo di un conflitto che potrebbe trascendere in una guerra fra etnie con lo spettro di una crisi umanitaria incontrollabile. Ancora una volta il lavoro del missionario è sostanzialmente quello di garantire una presenza di speranza e rifugio per chi scappa e ha dovuto abbandonare ogni cosa. La consolazione si tocca con mano quando ci si trova di fronte a situazioni come questa, in cui ci si chiede perché i padri, i fratelli, le suore scelgono di restare al proprio posto invece di andarsene da una guerra che in molti casi non appartiene loro per una mera ragione anagrafica. Willy è il superiore dei nostri missionari nel paese dell’Africa Occidentale, una delle ultime aperture (1996) dei missionari della Consolata; nato in Congo, guida un gruppo di confratelli provenienti da tre diversi continenti; sa cosa significa essere in guerra perché il suo stesso paese di origine che fa fatica a trovare la pace dai tempi dell’indipendenza.
Anche da quella nazione i nostri missionari hanno storie di sofferenza e di Vangelo da raccontare.
I conflitti in Africa sono all’ordine del giorno e le tensioni che li generano, siano esse di natura politica, economica, religiosa-culturale o tribale (nella maggior parte dei casi queste situazioni coincidono), richiedono un grande dispendio di energie da parte di chi opera come missionario sul territorio. Come dimenticare, del resto, i missionari e le missionarie della Consolata che proprio in Africa, in Kenya, Mozambico e Somalia, hanno dato la loro vita per le persone che il Signore aveva messo sul loro cammino?
Oggi, evangelizzare in Africa significa essere araldi di un messaggio di riconciliazione, che aiuti comunità intere a ritrovarsi, perdonarsi e ricostruire una convivenza distrutta per le ragioni più svariate e continuamente in pericolo.
L’Africa, in tutta la sua complessità, è però anche altro: è novità, innovazione, creatività, sorpresa, potenzialità; lo è per il mondo e, quindi, anche per il nostro Istituto. Analizzando le statistiche che descrivono la nostra geografia vocazionale, viene spontaneo notare come l’Africa rappresenti non soltanto la radice su cui poggia la storia centenaria del nostro Istituto, ma anche la linfa che sta consentendo ai missionari della Consolata di pensare il proprio futuro. Oggi, su poco più di mille missionari professi (contando quindi anche gli studenti in formazione che hanno già superato l’anno di noviziato), più di un terzo è composto da confratelli provenienti da paesi africani. Se si guarda alla carta
di identità, si nota come questa percentuale di
missionari africani abbassi drasticamente la
nostra età media.
Chiaramente questo fattore non riguarda soltanto la missione dell’Istituto in Africa, ma quella in tutti i continenti dove ci troviamo ad annunciare il Vangelo. Da padre Giacomino Camisassa [1892 – 1979], ex-schiavo liberato nel Golfo di Aden e affidato in Kenya ai nostri missionari e primo sacerdote della Consolata africano (ordinato nel 1927), ai giorni nostri la crescita vocazionale di paesi come Kenya, Tanzania e, in parte, Congo, Etiopia e Mozambico ha subito una brusca accelerazione e pone oggi una doppia sfida culturale alla pianificazione del nostro futuro: una sfida ad intra, che tocca l’interno della nostra vita comunitaria ed una ad extra, che si riguarda soprattutto il nostro stile di fare missione.
La «nostra» Africa
Oggi, i missionari della Consolata lavorano in nove paesi africani: Repubblica democratica del Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Gibuti, Kenya, Mozambico, Sud Africa, Tanzania e Uganda; all’interno di essi, operano in una quantità enorme di contesti culturali, linguistici e sociali differenti. Uno degli sforzi che le nostre riviste nel corso degli anni hanno cercato di fare è stato quello di sfatare il più classico dei luoghi comuni: quello di considerare l’Africa come un corpo unico caratterizzato dal fatto che ci vivono persone dalla pelle evidentemente più scura della nostra. Lungi dalle nostre intenzioni, quindi, il voler banalizzare le tante differenze che identificano i vari contesti e offrono un incredibile bacino di ricchezza esistenziale. Vi sono però alcuni fenomeni che interpellano tutta l’Africa e che richiedono a noi missionari soluzioni comuni.
Nati come missionari in contesto prevalentemente rurale (questa era la realtà prevalente nell’Italia in cui siamo nati e nell’Africa a cui siamo stati mandati nel secolo scorso) oggi constatiamo che la missione deve invece spostarsi verso le grandi città, per accompagnare le migrazioni che lì si dirigono. Il fenomeno della desertificazione, l’incremento demografico e la mancanza di sicurezza a causa dei molti micro e macro conflitti che tormentano il continente, rappresentano tre dei motivi principali che spingono masse di persone a rifugiarsi nelle varie periferie metropolitane. Nairobi, Johannesburg, Kinshasa sono tre dei più grandi centri urbani che vedono tentativi di nuove presenze missionarie all’interno delle aree più disagiate. Chiaramente la missione in città richiede un cambiamento di metodo e mentalità; occorrono missionari con preparazione specifica, capaci di fare scelte pastorali adeguate per comunità che normalmente non hanno più nell’identità familiare, culturale e religiosa il loro punto di coesione.
Ma c’è un altro mondo che richiede rinnovamento e impegno nuovo ai missionari. Un tempo l’azione missionaria si identificava soprattutto con la pastorale parrocchiale classica, con il suo immancabile corollario di attività nel campo educativo e sanitario. Oggi questo tipo di impegno non viene sicuramente meno, ma non basta. Emergono nuovi ambiti missionari, come l’animazione missionaria e vocazionale delle giovani chiese locali, l’impegno per la «giustizia, pace ed integrità del creato» (con speciale attenzione alla formazione dei leader comunitari), e l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale (siano essi i classici libri, riviste e radio, che i nuovi media come internet e social networks).
Queste nuove realtà esigono anche un ripensamento della collaborazione con le forze missionarie dei nostri paesi chiamate non solo ad appoggiare finanziariamente, ma anche ad agire con azioni di sensibilizzazione e denuncia di situazioni di grave ingiustizia che non hanno cause e soluzioni solo locali.
Un esempio significativo al riguardo è sicuramente quello inerente al dramma dell’HIV-Aids. Tanti sono gli sforzi per accompagnare le comunità devastate dal virus a livello locale, con programmi di pastorale e di assistenza sociale e medico sanitaria. Ma grande è anche lo sforzo di dare al problema maggior copertura mediatica, di formazione ed informazione per incidere sulla mentalità e la coscienza della gente e stimolare così una buona prevenzione.
Per andare dove?
Infine, un ultimo contesto da tenere in considerazione e su cui molto si giocherà in ambito missionario nel continente africano è quello del dialogo inter-religioso. L’infiltrazione musulmana (in alcune zone paragonabile a un vero e proprio assalto sistematico), la presenza di innumerevoli sette evangeliche, l’arrivo massiccio di comunità asiatiche (come i cinesi) con il loro millenario bagaglio di cultura religiosa… tutto interpella i missionari ad esporsi a questa sfida che presuppone non solo una solida base spirituale ma anche un’apertura nuova all’altro e  una conoscenza profonda delle sue tradizioni religiose.
La missione nel continente sta ripensando se stessa e i nostri missionari stanno, tra mille fatiche, cercando di renderla sempre più viva e attualizzata alle nuove situazioni di cambiamento. Sicuramente il Capitolo generale sarà chiamato a confrontarsi con le attuali presenze, a valutae la rilevanza e lo stile, per verificare se ancora rispondono al nostro carisma ad gentes specifico o se piuttosto potrebbero essere lentamente affidate al clero diocesano o ad altri operatori pastorali. Sono valutazioni difficili, che toccano la vita di persone e comunità e che non possono essere fatte a cuor leggero, senza ben calcolare strategicamente i vantaggi o le complicazioni che ogni scelta comporta. La fattibilità e la sostenibilità dei nuovi progetti sono criteri che vanno tenuti in considerazione se si vuole garantie anche la continuità sul territorio.
è una valutazione che però va fatta, perché un impegno missionario fedele alla sua ragion d’essere deve ribadire, anche nei luoghi dove siamo presenti da più di cent’anni, che alla radice della nostra scelta missionaria c’è la vocazione di dedicarsi soprattutto alla prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Americhe

Americhe

Dall’animazione alla missione

Nata prima della Seconda Guerra Mondiale come attività di animazione missionaria e vocazionale (Brasile 1937), la missione nel continente americano scoprì e sviluppò in breve tempo la sua vera dimensione ad gentes. I territori sconfinati delle grandi pianure del Nord argentino, della foresta amazzonica e le valli montane della cordigliera si rivelarono infatti “terre di missione” che ben poco avevano da invidiare alla, fino ad allora per noi classica, missione africana.
Oggi, dopo quasi tre quarti di secolo, i nostri missionari sono presenti in Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Ecuador, Stati Uniti, Canada e, di recente, in Messico.
Molteplici sono gli ambiti di missione in cui l’Istituto è impegnato oggi in America. L’animazione missionaria e vocazionale, l’impegno nei mezzi di comunicazione sociale, la formazione e, specialmente in Nord America, la raccolta di fondi a servizio delle missioni, rappresentano attività logistiche di supporto a presenze pastorali e di evangelizzazione diretta sul territorio. Quante volte, sulle pagine di questa rivista, i nostri missionari hanno raccontato la storia della nostra presenza in America, parlando di Cristo e di come, grazie al loro lavoro, si è incarnato negli angoli più sperduti di questo grande territorio. Le nostre macchine fotografiche si sono infilate dappertutto, riportando immagini di popoli indigeni, comunità afro-discendenti, comunità rurali e vite compresse nelle immense baraccopoli metropolitane. Abbiamo documentato storie di guerra, ma anche bellissime iniziative di riconciliazione per ricostruire la pace. Abbiamo anche provato a contestualizzare le nostre vicende leggendole insieme a quelle più grandi e importanti di una chiesa che, nel continente, ha saputo in molti casi essere segno di contraddizione, rottura e liberazione profetica dei più poveri. Una chiesa che, tra le altre cose, ha cercato di darsi, sin dal primo incontro delle sue Conferenze Episcopali (Celam – Rio de Janeiro 1955), una dimensione continentale, poi venuta pian piano maturando con le importanti tappe degli incontri sinodali di Medellin, Puebla, Santo Domingo e Aparecida. Anzi, a partire dall’incontro di Santo Domingo, il cammino si è fatto ancora più interessante e complesso, includendo nel percorso ecclesiale anche le comunità del Nord America. Illuminanti a questo riguardo le parole di papa Giovanni Paolo II contenute nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in America, pubblicata come documento conclusivo dell’incontro di Santo Domingo: «Gli elementi comuni a tutti i popoli dell’America, tra i quali risalta una medesima identità cristiana come pure un’autentica ricerca del consolidamento dei legami di solidarietà e di comunione tra le diverse espressioni del ricco patrimonio culturale del Continente, sono il motivo decisivo per il quale ho chiesto che l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi dedicasse le sue riflessioni all’America come ad una realtà unica. La scelta di usare la parola al singolare voleva esprimere non solo l’unità sotto certi aspetti già esistenti, ma anche quel vincolo più stretto al quale i popoli del Continente aspirano e che la Chiesa desidera favorire, nell’ambito della propria missione, volta a promuovere la comunione di tutti nel Signore» (EA, n. 5).
Senza confini
Questo spirito di collaborazione tra i due emisferi si è riflesso anche nelle attività dell’IMC, con una dimensione continentale nettamente più marcata che in altre parti dell’Istituto. Un segno di questa collaborazione fra le diverse circoscrizioni americane è dato dall’apertura della nuova missione in Messico, a cui ogni gruppo ha contribuito. Altre iniziative sono state prese a livello di pastorale, formazione e animazione missionaria e vocazionale, cercando di condividere i nostri cammini con le suore missionarie della Consolata e il crescente mondo laicale. Ovviamente, il mettere insieme realtà così diverse come quelle rappresentate dai due poli continentali, Nord e Sud, non è stata cosa facile. Per alcuni, anzi, il Nord America presenterebbe tratti distintivi molto più simili a quelli dell’Europa con cui potrebbe relazionarsi più facilmente tanto a livello di tematiche, che di strategie e mezzi. Finora si è preferito insistere nel creare relazioni fra le due Americhe. Si è creduto infatti importante rinsaldare a livello di fede, un legame già esistente a livello politico ed economico.
L’idea soggiacente è quella di abolire le frontiere dove ciò sia possibile. Ad un mondo che tende ad innalzare barriere in nome di un’idea di sicurezza che tutela i ricchi dai più poveri (il vergognoso muro fra Stati Uniti e Messico non è che un esempio, ma lo sono anche le unità abitative di lusso che separano le persone abbienti delle città latinoamericane da quelle che vivono nelle favelas), la testimonianza missionaria oppone l’abolizione della frontiera, strumento di divisione. Il confine, sia esso rappresentato da una strada o da un fiume, diventa semmai spazio ed occasione di incontro. Un pensiero, questo, in linea con la cultura indigena, refrattaria a fare della natura creata per tutti uno spazio lottizzato.
Per questa ragione il continente americano privilegia un’organizzazione secondo ambiti missionari per la quale i problemi comuni di chi si occupa, per esempio, di pastorale indigena, vengono affrontati a livello continentale con la possibilità di formare e gestire personale specializzato in quel tipo di attività.
Anche l’ultimo progetto, tuttora in fase di implementazione, va in questa direzione: si tratta di organizzare una missione in zona amazzonica che coinvolge addirittura tre paesi: la Colombia, l’Ecuador e alcune comunità in territorio peruviano. A voler significare che il Vangelo tende ad unire e non conosce frontiere.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Europa

Europa

Il boomerang missionario
Evangelizzatori da evangelizzare

Hola mami, qué tal? Tutto bene? Come ve la passate a Quito? Ti faccio arrivare questa mail attraverso Pedro, spero che te la stampi e abbia voglia di leggertela. Certo che da quando hanno inventato il computer la distanza tra l’Ecuador e l’Italia si è davvero ridotta. Io sto bene, non ti preoccupare. Lo so che ci siamo sentite da poco, ma volevo mandarti i saluti di una persona che non puoi non ricordare… Non ti immagini neppure chi ho incontrato l’altro giorno: padre Vittorio. Immagino lo stupore negli tuoi occhi: sì, proprio lui, il «nostro» padre Vittorio.
Ti ricordi? Per un po’, dopo che aveva lasciato la nostra parrocchia, avevamo provato a rimanere in contatto, ma sai come succede… ci eravamo persi. Quando sono emigrata in Italia, proprio non sapevo che anche lui fosse qui, credevo che fosse ancora in qualche altra zona dell’Ecuador. Invece no, domenica me lo sono trovato davanti, alla messa della comunità; sostituiva il nostro prete che era via e aveva approfittato del suo passaggio e del fatto che sapesse parlare spagnolo per invitarlo a celebrare la messa al posto suo.
Mi ha guardato in faccia e mi ha riconosciuto subito, nonostante gli anni e il fatto che mi sia presentata davanti a lui con i due bambini. Ieri sera è venuto a cena; volevo che incontrasse anche Carlos e desse una benedizione alla casa e a tutti noi, volevo raccontargli tante cose.
In realtà è stato lui a parlare. Sembrava avesse bisogno di sfogarsi un po’, di vuotare il sacco. Sai com’è da noi, non si fanno troppe cerimonie; siamo mezzi italiani ma dentro casa è come essere in Ecuador.
Padre Vittorio saluta tutti. Vorrebbe tornare a vedere come state e ad abbracciarvi, ma oggi come oggi è stato destinato a lavorare in Italia. Ci ha raccontato un po’ di cosa fa e di ciò che invece vorrebbe fare e non sempre riesce. È animatore missionario del suo Istituto, ovvero, così ci ha detto, dovrebbe andare in giro e raccontare la missione: gruppi giovanili, scuole, gruppi missionari, parrocchie… Il fatto è che si sente sovente un pesce fuor d’acqua. Prima di partire per l’America Latina si era già dedicato per un po’ a questo lavoro, ma erano altri tempi. Allora era più giovane e si sentiva realizzato a fare quel che faceva. Pare anche che i giovani fossero molti di più e più interessati alle attività che proponeva; adesso invece, ha detto proprio così, «andare in giro a parlare di missione è come succhiare un chiodo arrugginito»: nessuno sembra aver più voglia di ascoltare le sue storie. Ha detto che si sente un po’ a disagio, ma nello stesso tempo gli dà fastidio l’idea di rimanere a casa a far nulla.
Avresti dovuto vederlo… è ingrassato, e ti confido che ha perso un po’ di smalto. Ti ricordi la grinta che aveva? Come era sempre propositivo, capace di radunare gente e convincerla a darci dentro, ad impegnarsi? Quante cose abbiamo fatto insieme a lui. Gliel’ho ricordato, ma mi ha risposto che, anche se in Ecuador non erano sempre tutte rose e fiori, lui si sentiva più a suo agio lì nel vivere la vocazione missionaria. Il fatto è che in Italia si sente sì un prete, ma non un missionario. Non so cosa dirti, mi ha fatto un po’ pena vederlo così. Carlos ha provato a tirarlo su di morale e gli ha anche dato due dritte su come forse avrebbe potuto sentirsi il padre Vittorio di sempre se solo avesse continuato a fare quello che aveva fatto da noi a Quito: mettersi in ascolto della gente.
Cara mamma, a volte ti tengo nascoste un po’ di cose per farti stare tranquilla, ma l’Italia non è più il paese dei sogni di cui ti raccontavo in altre lettere, neanche per noi che almeno per un momento l’abbiamo visto e sperimentato come tale. La gente inizia a fare fatica anche qui, il lavoro sicuro non è più per tutti e vi sono persone, parlo di italiani, non di stranieri come noi, che diventando anziani diventano anche poveri. Carlos ha provato a raccontarlo a Vittorio. Sai, facendo il mediatore culturale ne vede certamente più di me, ma anche più del prete. Vittorio continuava a dire: «Sì sì, lo so» e ad annuire con la testa. In realtà sembrava che non lo sapesse veramente. Lo sapeva come qualcuno che lo ascolta nel telegiornale. Carlos lo ha invitato a collaborare al suo centro di incontro e può darsi che Vittorio si smuova e metta a disposizione le sue tante ricchezze, che si senta di nuovo in missione.
Con un po’ di faccia tosta gli abbiamo suggerito che noi vedevamo tanti aspetti del suo paese in cui avrebbe potuto sentirsi davvero missionario. Basta guardarsi intorno. Noi per fortuna abbiamo ancora la nostra comunità e celebriamo con un po’ di gusto la nostra fede, ma la maggior parte delle parrocchie qui in giro sono abbastanza deprimenti. Mancano i giovani, le chiese si svuotano; i nostri stessi figli non hanno mica più voglia di venire con noi a celebrare, ma nello stesso tempo non è che vadano in chiesa con i loro compagni di classe. Qui c’è un sacco di lavoro per un missionario che annunci il Vangelo per davvero, perché molte persone con cui entriamo in contatto quotidianamente non hanno mai sentito parlare di Gesù, della Vergine Maria, di tutte quelle cose che padre Vittorio ci insegnava a catechismo. Se poi in questo paese si stesse davvero bene, uno potrebbe anche cercare di capire, ma qui la solitudine regna sovrana, c’è un sacco di menefreghismo… altro che «ama il tuo prossimo come te stesso». In questi giorni la crisi del Nord Africa ha fatto naufragare sulle spiagge italiane migliaia di disperati, ancora più disperati di come eravamo noi quando siamo arrivati in Italia. E questo non sarebbe un lavoro per padre Vittorio?
Carlos gliel’ha detto in tutti i modi, si risentiranno, speriamo riesca a convincerlo che un uomo come lui è in missione sempre, ovunque sia. Certamente può continuare a pensare ai bambini del nostro quartiere di Quito, che avranno sempre bisogno di una mano; ma mentre è qui, a contatto con la sua gente, il suo essere missionario non può frenarlo e impedirgli di andare incontro a chiunque gli si pari davanti.
Speriamo si consoli presto; la nostra porta è sempre aperta, così come lo sono le case di tanti amici che avrebbero bisogno di consigli e dell’appoggio di un uomo come lui.
Mamma, cosa sono i confini? Lo sai che io sogno di tornare da voi e anche Carlos non vede l’ora in cui potremo finalmente costruirci la casetta della nostra vecchiaia, in quel pezzo di terreno che abbiamo comperato fuori Quito. Ma Marisol e Diego, i tuoi amati nipoti, vedono l’Ecuador come il luogo delle loro vacanze: sono italiani; Carlos, ridendo, sosteneva che fossero persino più italiani di padre Vittorio. Nel palazzo dove viviamo ci sono italiani, rumeni, altre due famiglie latinoamericane e una coppia che viene dal Marocco. Gliel’abbiamo detto a padre Vittorio: forse dovresti venire a vivere qui, ad abitare nel confine che non riesci più ad attraversare.
Chao mamita, mi amor. Un beso grande y un abrazo bien apretado y amplio como el mar.
Tu hija
María Feanda
Europa: «terra di missione»
María Feanda non esiste, e padre Vittorio è un missionario (quasi) fittizio. Queste due figure non sono però totalmente inventate: esprimono entrambi una realtà che tocca il nostro continente.
Oggi, parlare di missione in Europa significa sottolineare un certo disagio nel mondo missionario tradizionale, al quale noi apparteniamo. Formati per mentalità e competenze ad andare in Africa, Asia o America Latina, ci costa dover pensare che la missione si è oggi trasferita anche a casa nostra. Questo fattore richiede un ripensamento integrale delle nostre presenze, una nuova pianificazione e una capacità di inculturarsi su un territorio che pensiamo di conoscere perché vi siamo nati e che invece, di fatto, soprattutto se siamo reduci da lunghi periodi all’estero, sembra non ci appartenga più.
È duro per un missionario ritornare a casa. La parola “avvicendamento”, termine con cui si definisce tecnicamente il rientro, è sempre suonata male alle orecchie dei più, anche a dimostrazione di un attaccamento alla propria comunità e al lavoro che in molti casi si porta avanti per anni.
Un tempo, i ritorni dei missionari all’ovile natio erano caratterizzati dall’attività di animazione missionaria e vocazionale: sensibilizzare e animare le comunità nostrane all’ideale missionario, entusiasmare e formare i giovani alla missione, nonché raccogliere fondi per le iniziative pastorali e di assistenza. Era ed è un’attività fondamentale, che continua e vede il contributo instancabile e generoso di molti benefattori, grazie ai quali seguitiamo a portare avanti la nostra opera di evangelizzazione e promozione umana. Essere missionari in Europa oggi, però, ci spinge ad offrire la nostra esperienza in aree che sono a tutti gli effetti di prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli