Dentro le mura

La difesa della fortezza

Al suo interno la «Fortezza» si organizza per respingere gli invasori. E con i «patti bilaterali» si militarizzano le coste di partenza dei migranti. Si crea così Frontex, agenzia comunitaria a «protezione delle frontiere». Ma i danni «collaterali» sono le vittime dei respingimenti. E le associazioni di volontariato cercano di dare soccorso.

Melilla, spagna
«Era l’ottobre del 2005 – ricorda Giorgio Calarco, di Medici senza frontiere, all’epoca medico attivo sul territorio di Nador, cittadina marocchina cresciuta intorno all’enclave spagnola di Melilla – mi hanno telefonato in piena notte: i militari marocchini stavano deportando oltre 600 persone nel deserto tra Marocco e Algeria, nei pressi di Rachidi. Avevano cercato di scavalcare la rete di Melilla tutti insieme, la polizia ha sparato uccidendo 6 persone, ha arrestato gli altri e li ha caricati su due pullman.
Il giorno seguente siamo partiti per cercarli, abbiamo visto i segni degli pneumatici dei pullman che facevano dietro front nel deserto e li abbiamo trovati. Molti avevano ancora ferite sanguinanti, mal medicate e ormai infette. Ci hanno detto che 13 persone erano morte nella notte. Ma non abbiamo mai trovato i corpi».
Nel gruppo, ricorda Calarco, c’era anche un signore distinto con un completo grigio e le ciabatte ai piedi: era un maliano che, uscito di casa senza portare con se i documenti in regola, era stato arrestato e deportato nel deserto con gli altri.
L’incredibile racconto di Giorgio Calarco testimonia gli «effetti collaterali» dei cosiddetti patti bilaterali realizzati dai paesi europei con paesi non comunitari in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Nel tentativo di fermare i «flussi di migranti» e «preservare lo status quo» dei «propri» cittadini.
La Spagna del socialista Zapatero, è stata tra i primi paesi ad adottare queste politiche: a partire dal 2004 ha promosso il «Sistema integrale di vigilanza esteriore» (Sive), realizzato grazie alla cooperazione poliziesca con le forze dell’ordine marocchine. Il sistema è basato su un accordo di riammissione in Marocco dei migranti entrati illegalmente in Spagna e sulla realizzazione di pattuglie miste ispano marocchine a controllo delle frontiere delle due enclave spagnole, in cambio di ingenti aiuti al «paese emergente». Il Sive, dal punto di vista dei numeri, ha sicuramente dato i suoi frutti.
L’estealizzazione dei controlli sui migranti oltre la frontiera dell’Unione europea (Ue) apparentemente è riuscita a frenare l’ingresso in Europa dal Marocco, impedendo che il paese arabo continuasse ad essere il terminale delle partenze dei subsahariani verso la Spagna e il continente. Ma non sono stati tenuti presenti i possibili effetti «collaterali», che sono risultati essere molto rilevanti. La chiusura della via marocchina ha infatti incrementato le partenze per mare dalla Mauritania, da dove solo nei primi tre mesi del 2006 sono giunti alle isole Canarie circa 3.000 migranti (per la maggior parte senegalesi e maliani). E quando il governo di Madrid ha provveduto a «militarizzare» anche la costa mauritana, le partenze si sono spostate sempre più a Sud, fino ad arrivare al Senegal e ai paesi del Golfo di Guinea. A costo di un numero impressionante di morti annegati. E quando anche questa via è stata «militarizzata», i flussi migratori hanno cambiato rotta, passando da Tunisia e Libia, per arrivare in Europa attraverso l’Italia.
Lampedusa, italia
Il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e la motovedetta della capitaneria attraccano alla banchina del porto di Lampedusa. Sbarcano il loro «carico umano» e lo consegnano alle autorità portuali: 163 migranti salpati dalle coste libiche e soccorsi a 24 miglia marine dall’isola siciliana.
Il tenente della guardia di finanza Rosario Vicedomini, comandante dell’operazione, consegnati i migranti si concede un po’ di tregua: «La costa di Lampedusa è l’avamposto dell’Europa nel Mediterraneo, e appena ci sono due giorni di bel tempo arrivano i barconi di clandestini. L’unico modo per arginare il fenomeno è collaborare con i paesi di partenza, come si è fatto per le coste dell’Adriatico. Grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita, oggi da paesi come l’Albania o il Montenegro il traffico di persone via mare è stato fermato».
Il tenente Vicedomini ricorda come la politica di contrasto all’immigrazione clandestina dai paesi dell’Est Europa degli anni ‘90 sia passata non solo attraverso operazioni di «polizia internazionale», ma anche grazie a politiche di cooperazione allo sviluppo con i paesi d’origine. L’Ue oggi sembra aver intrapreso un’altra strada: la creazione di una cintura realizzata dall’agenzia comunitaria Frontex (vedi box, www.frontex.europa.eu), un vero e proprio esercito, con navi, aerei, uomini, armi, e reparti speciali. Con il compito di tenere fuori «l’altro», di evitare che «lo straniero» arrivi sul territorio comunitario.
Nel mondo oggi è in corso una vera e propria guerra al «diritto di migrare». Una guerra che, come tutte le guerre, ha purtroppo dei danni collaterali. Che sono i morti alle frontiere. I dispersi. I respinti che non riescono ad arrivare in Europa né a tornare indietro. Persone che, secondo il censimento fatto da Gabriele Del Grande sul sito «Fortress Europe» (http://fortresseurope.blogspot.com, vedi box, intervistato su MC dicembre 2009), la fonte più attendibile a livello comunitario, in 10 anni sono almeno 16 mila. Restando a quelle che è stato possibile individuare.
Senza contare poi le migliaia di «stranded», quelle persone che rimangono bloccate in piccole realtà del deserto o grandi città costiere africane, di cui ha raccontato in modo magistrale Fabrizio Gatti nel suo diario di viaggio «Bilal» (Rizzoli 2007), perdendo a poco a poco la capacità di reagire ai soprusi.
Una strage spaventosa sulla quale si esercita sistematicamente la rimozione, sulla quale la scelta collettiva è quella di volgere lo sguardo altrove.
«Non dico sia una situazione nazista – dichiara Luca Rastello, autore di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani (La Terza 2010) – non voglio paragonarla alle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma è un fenomeno che può degenerare, una situazione che, nelle modalità con cui si sta realizzando, ha qualcosa di goebbelsiano».

Patrasso, Grecia
«In Grecia è facile entrare. Il difficile è uscie» dice Hamid, afghano di 14 anni, accampato con altri 500 connazionali nella «forest», come la chiamano loro, un grosso uliveto alla periferia est di Patrasso. Braccato dalle forze dell’ordine, attende il momento di imbarcarsi per l’Italia. Ogni due tre giorni la polizia arriva all’alba, distrugge le baracche di teli e cartoni, arresta quattro o cinque ragazzi e va via. «Non si tratta solo di esecuzione degli ordini, ma di atti di brutalità degli agenti di polizia» denuncia Johannis Lamprous, dell’associazione umanitaria Kinisi. «Picchiano i ragazzi, li insultano, rubano loro soldi e cellulari e spesso orinano sui loro materassi».
Brutalità e negazione dell’accoglienza. Queste le strategie messe in campo da Atene per contrastare l’immigrazione clandestina. Tanto che in Grecia, che con il tasso del 2% di riconoscimento dello status di rifugiato, contro la media Ue del 20%, è il paese meno «accogliente» dell’Unione, nessun immigrato vuole rimanere.
Il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite hanno più volte puntato il dito contro la Grecia accusandola di non essere in grado di garantire protezione a migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Nel mese di aprile 2008 poi, la Finlandia per protesta ha annunciato che avrebbe interrotto i trasferimenti dei migranti non europei provenienti dalla Grecia, mentre la Germania e la Svezia hanno limitato la sospensione dei trasferimenti ai soli minori non accompagnati. Secondo i principi del «Regolamento Dublino II» infatti, i migranti senza documenti richiedenti asilo, devono restare nel paese europeo d’ingresso ad attendere risposta. Senza possibilità di spostarsi in altri paesi membri. Si tratta di un regolamento criticato da più parti. Contro cui ha espresso le sue perplessità anche l’Alto Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani Thomas Hammarberg. Dichiarandosi favorevole alla: «Proposta della  Commissione europea di un meccanismo che sospenda i trasferimenti e che dia sollievo agli Stati sotto elevata pressione. Un sistema simile potrebbe aiutare a garantire i richiedenti asilo e le loro domande».
Si tratta di una richiesta di modifica delle norme su cui insistono in modo particolare i paesi della frontiera meridionale dell’Ue, ovvero Italia, Francia, Spagna e Grecia. Interessati in questi giorni dall’arrivo di migliaia di persone dalla sponda Sud del Mediterraneo. Paesi a cui Bruxelles ha sostanzialmente delegato la «gestione dei flussi dei migranti» verso l’Europa intera. Una delega finalizzata alla creazione di un «cuscinetto» che preservi l’Unione e, in specifico, metta definitivamente «al riparo» gli Stati centrali. Paesi centrali che, in termini di accoglienza, molte volte hanno già dato più dei loro alleati mediterranei. Una delega che, alcune volte, mette purtroppo i paesi dell’Europa meridionale al riparo da possibili «richiami» dell’Unione per la violazione dei diritti giuridici ed umani nei confronti dei migranti. In un meccanismo di do ut des.

Calais, Francia
Sono le sette del mattino, e dagli ingressi di «Casa Africa» di rue Des Scartes, dietro la stazione del treno di Calais, arriva il rumore dei fischietti dei ragazzi di No Border. No Border è un network europeo di persone che si adoperano per l’aiuto agli immigrati clandestini, che in Calais ha un forte nucleo. Il fischio aumenta, la confusione pure, e nel giro di pochi secondi arrivano sette furgoni a sirene spiegate da cui scendono di corsa una ventina di poliziotti. Sudanesi, eritrei, etiopi, somali ed altri ancora salgono sui tetti. Alcuni vengono fermati e caricati sui mezzi. Ci sono uomini in divisa della Polizia locale di Calais, della gendarmeria nazionale, della polizia nazionale e addirittura i «famosi» Crs, gli uomini della Compagnies Républicaines de Sécurité, corpo della Polizia nazionale francese con funzioni antisommossa. Alcuni brandiscono delle scale telescopiche per salire sui tetti. Ma dopo mezzora, improvvisamente, tutti gli uomini in divisa risalgono sui loro mezzi e se ne vanno. In pochi minuti i migranti scendono dai tetti dell’edificio urlando di gioia.
«Gli immigrati clandestini a Calais vivono in condizioni spaventose – spiega Sylvie Copyans, dell’Associazione Salam -, in immobili occupati abusivamente, o nel bosco. Trattati come cani dalla polizia. Vengono percossi e poi arrestati. Le loro baracche vengono distrutte col fuoco. La polizia non può mandarli a casa così rende la loro vita quanto più orribile possibile. È una caccia all’uomo. Conoscete il film “Welcome” di Philippe Lioret? La sceneggiatura l’abbiamo scritta proprio qui, nel tavolino a fianco». Il film, del 2009, aveva suscitato un certo scalpore in Francia e nel resto d’Europa. Raccontando la vita e le peripezie degli immigrati clandestini bloccati a Calais in attesa di passare in Inghilterra. Per realizzarlo regista e sceneggiatore sono stati insieme a Sylvie e agli altri volontari di Salam per più di un anno. In molti pensavano che il film avrebbe avuto la forza di «scuotere le coscienze» della gente e, soprattutto, dei governanti di Parigi. Che la Francia, patria della Liberté, Egalité, Frateité si indignasse e trovasse un rimedio per queste persone in difficoltà. Ma così non è stato. Anzi. La situazione dei migranti che continuano a vivere braccati dalle forze di polizia è peggiorata. Oggi vengono utilizzati come pedine di scambio tra Italia e Francia per la revisione di una fallimentare politica europea sull’immigrazione. Che negli ultimi 10 anni invece di puntare sulla cooperazione internazionale con la società civile dei paesi del Sud del Mediterraneo è scesa a patti con i loro regimi retti da presidenti poco democratici come Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Abdelaziz Bouteflika in Algeria, Mohammed VI  in Marocco o Muammar Gheddafi in Libia.

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




110 anni di missione, fedeli cambiando / Africa

Africa

il nostro passato e il nostro futuro

L’ultima immagine del continente africano che ho davanti agli occhi prima di impaginare questo dossier è quella che fa capolino dalle poche righe che padre Willy ci ha inviato dalla Costa d’Avorio: l’immagine di un paese squassato dalla guerra civile, sull’orlo di un conflitto che potrebbe trascendere in una guerra fra etnie con lo spettro di una crisi umanitaria incontrollabile. Ancora una volta il lavoro del missionario è sostanzialmente quello di garantire una presenza di speranza e rifugio per chi scappa e ha dovuto abbandonare ogni cosa. La consolazione si tocca con mano quando ci si trova di fronte a situazioni come questa, in cui ci si chiede perché i padri, i fratelli, le suore scelgono di restare al proprio posto invece di andarsene da una guerra che in molti casi non appartiene loro per una mera ragione anagrafica. Willy è il superiore dei nostri missionari nel paese dell’Africa Occidentale, una delle ultime aperture (1996) dei missionari della Consolata; nato in Congo, guida un gruppo di confratelli provenienti da tre diversi continenti; sa cosa significa essere in guerra perché il suo stesso paese di origine che fa fatica a trovare la pace dai tempi dell’indipendenza.
Anche da quella nazione i nostri missionari hanno storie di sofferenza e di Vangelo da raccontare.
I conflitti in Africa sono all’ordine del giorno e le tensioni che li generano, siano esse di natura politica, economica, religiosa-culturale o tribale (nella maggior parte dei casi queste situazioni coincidono), richiedono un grande dispendio di energie da parte di chi opera come missionario sul territorio. Come dimenticare, del resto, i missionari e le missionarie della Consolata che proprio in Africa, in Kenya, Mozambico e Somalia, hanno dato la loro vita per le persone che il Signore aveva messo sul loro cammino?
Oggi, evangelizzare in Africa significa essere araldi di un messaggio di riconciliazione, che aiuti comunità intere a ritrovarsi, perdonarsi e ricostruire una convivenza distrutta per le ragioni più svariate e continuamente in pericolo.
L’Africa, in tutta la sua complessità, è però anche altro: è novità, innovazione, creatività, sorpresa, potenzialità; lo è per il mondo e, quindi, anche per il nostro Istituto. Analizzando le statistiche che descrivono la nostra geografia vocazionale, viene spontaneo notare come l’Africa rappresenti non soltanto la radice su cui poggia la storia centenaria del nostro Istituto, ma anche la linfa che sta consentendo ai missionari della Consolata di pensare il proprio futuro. Oggi, su poco più di mille missionari professi (contando quindi anche gli studenti in formazione che hanno già superato l’anno di noviziato), più di un terzo è composto da confratelli provenienti da paesi africani. Se si guarda alla carta
di identità, si nota come questa percentuale di
missionari africani abbassi drasticamente la
nostra età media.
Chiaramente questo fattore non riguarda soltanto la missione dell’Istituto in Africa, ma quella in tutti i continenti dove ci troviamo ad annunciare il Vangelo. Da padre Giacomino Camisassa [1892 – 1979], ex-schiavo liberato nel Golfo di Aden e affidato in Kenya ai nostri missionari e primo sacerdote della Consolata africano (ordinato nel 1927), ai giorni nostri la crescita vocazionale di paesi come Kenya, Tanzania e, in parte, Congo, Etiopia e Mozambico ha subito una brusca accelerazione e pone oggi una doppia sfida culturale alla pianificazione del nostro futuro: una sfida ad intra, che tocca l’interno della nostra vita comunitaria ed una ad extra, che si riguarda soprattutto il nostro stile di fare missione.
La «nostra» Africa
Oggi, i missionari della Consolata lavorano in nove paesi africani: Repubblica democratica del Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Gibuti, Kenya, Mozambico, Sud Africa, Tanzania e Uganda; all’interno di essi, operano in una quantità enorme di contesti culturali, linguistici e sociali differenti. Uno degli sforzi che le nostre riviste nel corso degli anni hanno cercato di fare è stato quello di sfatare il più classico dei luoghi comuni: quello di considerare l’Africa come un corpo unico caratterizzato dal fatto che ci vivono persone dalla pelle evidentemente più scura della nostra. Lungi dalle nostre intenzioni, quindi, il voler banalizzare le tante differenze che identificano i vari contesti e offrono un incredibile bacino di ricchezza esistenziale. Vi sono però alcuni fenomeni che interpellano tutta l’Africa e che richiedono a noi missionari soluzioni comuni.
Nati come missionari in contesto prevalentemente rurale (questa era la realtà prevalente nell’Italia in cui siamo nati e nell’Africa a cui siamo stati mandati nel secolo scorso) oggi constatiamo che la missione deve invece spostarsi verso le grandi città, per accompagnare le migrazioni che lì si dirigono. Il fenomeno della desertificazione, l’incremento demografico e la mancanza di sicurezza a causa dei molti micro e macro conflitti che tormentano il continente, rappresentano tre dei motivi principali che spingono masse di persone a rifugiarsi nelle varie periferie metropolitane. Nairobi, Johannesburg, Kinshasa sono tre dei più grandi centri urbani che vedono tentativi di nuove presenze missionarie all’interno delle aree più disagiate. Chiaramente la missione in città richiede un cambiamento di metodo e mentalità; occorrono missionari con preparazione specifica, capaci di fare scelte pastorali adeguate per comunità che normalmente non hanno più nell’identità familiare, culturale e religiosa il loro punto di coesione.
Ma c’è un altro mondo che richiede rinnovamento e impegno nuovo ai missionari. Un tempo l’azione missionaria si identificava soprattutto con la pastorale parrocchiale classica, con il suo immancabile corollario di attività nel campo educativo e sanitario. Oggi questo tipo di impegno non viene sicuramente meno, ma non basta. Emergono nuovi ambiti missionari, come l’animazione missionaria e vocazionale delle giovani chiese locali, l’impegno per la «giustizia, pace ed integrità del creato» (con speciale attenzione alla formazione dei leader comunitari), e l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale (siano essi i classici libri, riviste e radio, che i nuovi media come internet e social networks).
Queste nuove realtà esigono anche un ripensamento della collaborazione con le forze missionarie dei nostri paesi chiamate non solo ad appoggiare finanziariamente, ma anche ad agire con azioni di sensibilizzazione e denuncia di situazioni di grave ingiustizia che non hanno cause e soluzioni solo locali.
Un esempio significativo al riguardo è sicuramente quello inerente al dramma dell’HIV-Aids. Tanti sono gli sforzi per accompagnare le comunità devastate dal virus a livello locale, con programmi di pastorale e di assistenza sociale e medico sanitaria. Ma grande è anche lo sforzo di dare al problema maggior copertura mediatica, di formazione ed informazione per incidere sulla mentalità e la coscienza della gente e stimolare così una buona prevenzione.
Per andare dove?
Infine, un ultimo contesto da tenere in considerazione e su cui molto si giocherà in ambito missionario nel continente africano è quello del dialogo inter-religioso. L’infiltrazione musulmana (in alcune zone paragonabile a un vero e proprio assalto sistematico), la presenza di innumerevoli sette evangeliche, l’arrivo massiccio di comunità asiatiche (come i cinesi) con il loro millenario bagaglio di cultura religiosa… tutto interpella i missionari ad esporsi a questa sfida che presuppone non solo una solida base spirituale ma anche un’apertura nuova all’altro e  una conoscenza profonda delle sue tradizioni religiose.
La missione nel continente sta ripensando se stessa e i nostri missionari stanno, tra mille fatiche, cercando di renderla sempre più viva e attualizzata alle nuove situazioni di cambiamento. Sicuramente il Capitolo generale sarà chiamato a confrontarsi con le attuali presenze, a valutae la rilevanza e lo stile, per verificare se ancora rispondono al nostro carisma ad gentes specifico o se piuttosto potrebbero essere lentamente affidate al clero diocesano o ad altri operatori pastorali. Sono valutazioni difficili, che toccano la vita di persone e comunità e che non possono essere fatte a cuor leggero, senza ben calcolare strategicamente i vantaggi o le complicazioni che ogni scelta comporta. La fattibilità e la sostenibilità dei nuovi progetti sono criteri che vanno tenuti in considerazione se si vuole garantie anche la continuità sul territorio.
è una valutazione che però va fatta, perché un impegno missionario fedele alla sua ragion d’essere deve ribadire, anche nei luoghi dove siamo presenti da più di cent’anni, che alla radice della nostra scelta missionaria c’è la vocazione di dedicarsi soprattutto alla prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Americhe

Americhe

Dall’animazione alla missione

Nata prima della Seconda Guerra Mondiale come attività di animazione missionaria e vocazionale (Brasile 1937), la missione nel continente americano scoprì e sviluppò in breve tempo la sua vera dimensione ad gentes. I territori sconfinati delle grandi pianure del Nord argentino, della foresta amazzonica e le valli montane della cordigliera si rivelarono infatti “terre di missione” che ben poco avevano da invidiare alla, fino ad allora per noi classica, missione africana.
Oggi, dopo quasi tre quarti di secolo, i nostri missionari sono presenti in Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Ecuador, Stati Uniti, Canada e, di recente, in Messico.
Molteplici sono gli ambiti di missione in cui l’Istituto è impegnato oggi in America. L’animazione missionaria e vocazionale, l’impegno nei mezzi di comunicazione sociale, la formazione e, specialmente in Nord America, la raccolta di fondi a servizio delle missioni, rappresentano attività logistiche di supporto a presenze pastorali e di evangelizzazione diretta sul territorio. Quante volte, sulle pagine di questa rivista, i nostri missionari hanno raccontato la storia della nostra presenza in America, parlando di Cristo e di come, grazie al loro lavoro, si è incarnato negli angoli più sperduti di questo grande territorio. Le nostre macchine fotografiche si sono infilate dappertutto, riportando immagini di popoli indigeni, comunità afro-discendenti, comunità rurali e vite compresse nelle immense baraccopoli metropolitane. Abbiamo documentato storie di guerra, ma anche bellissime iniziative di riconciliazione per ricostruire la pace. Abbiamo anche provato a contestualizzare le nostre vicende leggendole insieme a quelle più grandi e importanti di una chiesa che, nel continente, ha saputo in molti casi essere segno di contraddizione, rottura e liberazione profetica dei più poveri. Una chiesa che, tra le altre cose, ha cercato di darsi, sin dal primo incontro delle sue Conferenze Episcopali (Celam – Rio de Janeiro 1955), una dimensione continentale, poi venuta pian piano maturando con le importanti tappe degli incontri sinodali di Medellin, Puebla, Santo Domingo e Aparecida. Anzi, a partire dall’incontro di Santo Domingo, il cammino si è fatto ancora più interessante e complesso, includendo nel percorso ecclesiale anche le comunità del Nord America. Illuminanti a questo riguardo le parole di papa Giovanni Paolo II contenute nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in America, pubblicata come documento conclusivo dell’incontro di Santo Domingo: «Gli elementi comuni a tutti i popoli dell’America, tra i quali risalta una medesima identità cristiana come pure un’autentica ricerca del consolidamento dei legami di solidarietà e di comunione tra le diverse espressioni del ricco patrimonio culturale del Continente, sono il motivo decisivo per il quale ho chiesto che l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi dedicasse le sue riflessioni all’America come ad una realtà unica. La scelta di usare la parola al singolare voleva esprimere non solo l’unità sotto certi aspetti già esistenti, ma anche quel vincolo più stretto al quale i popoli del Continente aspirano e che la Chiesa desidera favorire, nell’ambito della propria missione, volta a promuovere la comunione di tutti nel Signore» (EA, n. 5).
Senza confini
Questo spirito di collaborazione tra i due emisferi si è riflesso anche nelle attività dell’IMC, con una dimensione continentale nettamente più marcata che in altre parti dell’Istituto. Un segno di questa collaborazione fra le diverse circoscrizioni americane è dato dall’apertura della nuova missione in Messico, a cui ogni gruppo ha contribuito. Altre iniziative sono state prese a livello di pastorale, formazione e animazione missionaria e vocazionale, cercando di condividere i nostri cammini con le suore missionarie della Consolata e il crescente mondo laicale. Ovviamente, il mettere insieme realtà così diverse come quelle rappresentate dai due poli continentali, Nord e Sud, non è stata cosa facile. Per alcuni, anzi, il Nord America presenterebbe tratti distintivi molto più simili a quelli dell’Europa con cui potrebbe relazionarsi più facilmente tanto a livello di tematiche, che di strategie e mezzi. Finora si è preferito insistere nel creare relazioni fra le due Americhe. Si è creduto infatti importante rinsaldare a livello di fede, un legame già esistente a livello politico ed economico.
L’idea soggiacente è quella di abolire le frontiere dove ciò sia possibile. Ad un mondo che tende ad innalzare barriere in nome di un’idea di sicurezza che tutela i ricchi dai più poveri (il vergognoso muro fra Stati Uniti e Messico non è che un esempio, ma lo sono anche le unità abitative di lusso che separano le persone abbienti delle città latinoamericane da quelle che vivono nelle favelas), la testimonianza missionaria oppone l’abolizione della frontiera, strumento di divisione. Il confine, sia esso rappresentato da una strada o da un fiume, diventa semmai spazio ed occasione di incontro. Un pensiero, questo, in linea con la cultura indigena, refrattaria a fare della natura creata per tutti uno spazio lottizzato.
Per questa ragione il continente americano privilegia un’organizzazione secondo ambiti missionari per la quale i problemi comuni di chi si occupa, per esempio, di pastorale indigena, vengono affrontati a livello continentale con la possibilità di formare e gestire personale specializzato in quel tipo di attività.
Anche l’ultimo progetto, tuttora in fase di implementazione, va in questa direzione: si tratta di organizzare una missione in zona amazzonica che coinvolge addirittura tre paesi: la Colombia, l’Ecuador e alcune comunità in territorio peruviano. A voler significare che il Vangelo tende ad unire e non conosce frontiere.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Europa

Europa

Il boomerang missionario
Evangelizzatori da evangelizzare

Hola mami, qué tal? Tutto bene? Come ve la passate a Quito? Ti faccio arrivare questa mail attraverso Pedro, spero che te la stampi e abbia voglia di leggertela. Certo che da quando hanno inventato il computer la distanza tra l’Ecuador e l’Italia si è davvero ridotta. Io sto bene, non ti preoccupare. Lo so che ci siamo sentite da poco, ma volevo mandarti i saluti di una persona che non puoi non ricordare… Non ti immagini neppure chi ho incontrato l’altro giorno: padre Vittorio. Immagino lo stupore negli tuoi occhi: sì, proprio lui, il «nostro» padre Vittorio.
Ti ricordi? Per un po’, dopo che aveva lasciato la nostra parrocchia, avevamo provato a rimanere in contatto, ma sai come succede… ci eravamo persi. Quando sono emigrata in Italia, proprio non sapevo che anche lui fosse qui, credevo che fosse ancora in qualche altra zona dell’Ecuador. Invece no, domenica me lo sono trovato davanti, alla messa della comunità; sostituiva il nostro prete che era via e aveva approfittato del suo passaggio e del fatto che sapesse parlare spagnolo per invitarlo a celebrare la messa al posto suo.
Mi ha guardato in faccia e mi ha riconosciuto subito, nonostante gli anni e il fatto che mi sia presentata davanti a lui con i due bambini. Ieri sera è venuto a cena; volevo che incontrasse anche Carlos e desse una benedizione alla casa e a tutti noi, volevo raccontargli tante cose.
In realtà è stato lui a parlare. Sembrava avesse bisogno di sfogarsi un po’, di vuotare il sacco. Sai com’è da noi, non si fanno troppe cerimonie; siamo mezzi italiani ma dentro casa è come essere in Ecuador.
Padre Vittorio saluta tutti. Vorrebbe tornare a vedere come state e ad abbracciarvi, ma oggi come oggi è stato destinato a lavorare in Italia. Ci ha raccontato un po’ di cosa fa e di ciò che invece vorrebbe fare e non sempre riesce. È animatore missionario del suo Istituto, ovvero, così ci ha detto, dovrebbe andare in giro e raccontare la missione: gruppi giovanili, scuole, gruppi missionari, parrocchie… Il fatto è che si sente sovente un pesce fuor d’acqua. Prima di partire per l’America Latina si era già dedicato per un po’ a questo lavoro, ma erano altri tempi. Allora era più giovane e si sentiva realizzato a fare quel che faceva. Pare anche che i giovani fossero molti di più e più interessati alle attività che proponeva; adesso invece, ha detto proprio così, «andare in giro a parlare di missione è come succhiare un chiodo arrugginito»: nessuno sembra aver più voglia di ascoltare le sue storie. Ha detto che si sente un po’ a disagio, ma nello stesso tempo gli dà fastidio l’idea di rimanere a casa a far nulla.
Avresti dovuto vederlo… è ingrassato, e ti confido che ha perso un po’ di smalto. Ti ricordi la grinta che aveva? Come era sempre propositivo, capace di radunare gente e convincerla a darci dentro, ad impegnarsi? Quante cose abbiamo fatto insieme a lui. Gliel’ho ricordato, ma mi ha risposto che, anche se in Ecuador non erano sempre tutte rose e fiori, lui si sentiva più a suo agio lì nel vivere la vocazione missionaria. Il fatto è che in Italia si sente sì un prete, ma non un missionario. Non so cosa dirti, mi ha fatto un po’ pena vederlo così. Carlos ha provato a tirarlo su di morale e gli ha anche dato due dritte su come forse avrebbe potuto sentirsi il padre Vittorio di sempre se solo avesse continuato a fare quello che aveva fatto da noi a Quito: mettersi in ascolto della gente.
Cara mamma, a volte ti tengo nascoste un po’ di cose per farti stare tranquilla, ma l’Italia non è più il paese dei sogni di cui ti raccontavo in altre lettere, neanche per noi che almeno per un momento l’abbiamo visto e sperimentato come tale. La gente inizia a fare fatica anche qui, il lavoro sicuro non è più per tutti e vi sono persone, parlo di italiani, non di stranieri come noi, che diventando anziani diventano anche poveri. Carlos ha provato a raccontarlo a Vittorio. Sai, facendo il mediatore culturale ne vede certamente più di me, ma anche più del prete. Vittorio continuava a dire: «Sì sì, lo so» e ad annuire con la testa. In realtà sembrava che non lo sapesse veramente. Lo sapeva come qualcuno che lo ascolta nel telegiornale. Carlos lo ha invitato a collaborare al suo centro di incontro e può darsi che Vittorio si smuova e metta a disposizione le sue tante ricchezze, che si senta di nuovo in missione.
Con un po’ di faccia tosta gli abbiamo suggerito che noi vedevamo tanti aspetti del suo paese in cui avrebbe potuto sentirsi davvero missionario. Basta guardarsi intorno. Noi per fortuna abbiamo ancora la nostra comunità e celebriamo con un po’ di gusto la nostra fede, ma la maggior parte delle parrocchie qui in giro sono abbastanza deprimenti. Mancano i giovani, le chiese si svuotano; i nostri stessi figli non hanno mica più voglia di venire con noi a celebrare, ma nello stesso tempo non è che vadano in chiesa con i loro compagni di classe. Qui c’è un sacco di lavoro per un missionario che annunci il Vangelo per davvero, perché molte persone con cui entriamo in contatto quotidianamente non hanno mai sentito parlare di Gesù, della Vergine Maria, di tutte quelle cose che padre Vittorio ci insegnava a catechismo. Se poi in questo paese si stesse davvero bene, uno potrebbe anche cercare di capire, ma qui la solitudine regna sovrana, c’è un sacco di menefreghismo… altro che «ama il tuo prossimo come te stesso». In questi giorni la crisi del Nord Africa ha fatto naufragare sulle spiagge italiane migliaia di disperati, ancora più disperati di come eravamo noi quando siamo arrivati in Italia. E questo non sarebbe un lavoro per padre Vittorio?
Carlos gliel’ha detto in tutti i modi, si risentiranno, speriamo riesca a convincerlo che un uomo come lui è in missione sempre, ovunque sia. Certamente può continuare a pensare ai bambini del nostro quartiere di Quito, che avranno sempre bisogno di una mano; ma mentre è qui, a contatto con la sua gente, il suo essere missionario non può frenarlo e impedirgli di andare incontro a chiunque gli si pari davanti.
Speriamo si consoli presto; la nostra porta è sempre aperta, così come lo sono le case di tanti amici che avrebbero bisogno di consigli e dell’appoggio di un uomo come lui.
Mamma, cosa sono i confini? Lo sai che io sogno di tornare da voi e anche Carlos non vede l’ora in cui potremo finalmente costruirci la casetta della nostra vecchiaia, in quel pezzo di terreno che abbiamo comperato fuori Quito. Ma Marisol e Diego, i tuoi amati nipoti, vedono l’Ecuador come il luogo delle loro vacanze: sono italiani; Carlos, ridendo, sosteneva che fossero persino più italiani di padre Vittorio. Nel palazzo dove viviamo ci sono italiani, rumeni, altre due famiglie latinoamericane e una coppia che viene dal Marocco. Gliel’abbiamo detto a padre Vittorio: forse dovresti venire a vivere qui, ad abitare nel confine che non riesci più ad attraversare.
Chao mamita, mi amor. Un beso grande y un abrazo bien apretado y amplio como el mar.
Tu hija
María Feanda
Europa: «terra di missione»
María Feanda non esiste, e padre Vittorio è un missionario (quasi) fittizio. Queste due figure non sono però totalmente inventate: esprimono entrambi una realtà che tocca il nostro continente.
Oggi, parlare di missione in Europa significa sottolineare un certo disagio nel mondo missionario tradizionale, al quale noi apparteniamo. Formati per mentalità e competenze ad andare in Africa, Asia o America Latina, ci costa dover pensare che la missione si è oggi trasferita anche a casa nostra. Questo fattore richiede un ripensamento integrale delle nostre presenze, una nuova pianificazione e una capacità di inculturarsi su un territorio che pensiamo di conoscere perché vi siamo nati e che invece, di fatto, soprattutto se siamo reduci da lunghi periodi all’estero, sembra non ci appartenga più.
È duro per un missionario ritornare a casa. La parola “avvicendamento”, termine con cui si definisce tecnicamente il rientro, è sempre suonata male alle orecchie dei più, anche a dimostrazione di un attaccamento alla propria comunità e al lavoro che in molti casi si porta avanti per anni.
Un tempo, i ritorni dei missionari all’ovile natio erano caratterizzati dall’attività di animazione missionaria e vocazionale: sensibilizzare e animare le comunità nostrane all’ideale missionario, entusiasmare e formare i giovani alla missione, nonché raccogliere fondi per le iniziative pastorali e di assistenza. Era ed è un’attività fondamentale, che continua e vede il contributo instancabile e generoso di molti benefattori, grazie ai quali seguitiamo a portare avanti la nostra opera di evangelizzazione e promozione umana. Essere missionari in Europa oggi, però, ci spinge ad offrire la nostra esperienza in aree che sono a tutti gli effetti di prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Conclusioni

Piccola introduzione alla missione di domani

Yonas nel cortile

Yonas Ashenafi, nato in Etiopia, ha 33 anni. È, a tutti gli effetti, un missionario giovane e, da un certo punto di vista, anche un missionario simbolo di una missione che sta cambiando e che cerca di adeguarsi a un mondo in continua mutazione. Parlo di lui perché l’ho conosciuto personalmente nel Cauca, in Colombia, dove veniva a fare esperienze pastorali mentre studiava nel seminario di Bogotà. Si arrangiava con lo spagnolo, e con un po’ di altre lingue che aveva appreso negli anni precedenti, anche in Kenya, dove aveva fatto il noviziato. L’ho incontrato nuovamente anni dopo in Italia, mentre si preparava per essere missionario in… Polonia, dove oggi si trova. E domani, dove andrai ad annunciare il Vangelo, Yonas Ashenafi?
Una delle immagini usate per definire il mondo in cui viviamo, e in cui ci troviamo ad operare come missionari, è quella del cortile, spazio – in un passato neppure troppo remoto – condiviso tanto dalla gente di campagna quanto da quella di città. Nel cortile i bambini giocavano, i genitori lavoravano o «se la contavano» tirando tardi nelle sere d’estate. La missione odiea è chiamata a far parte di questo grande cortile dove si riuniscono le persone che credono e quelle che non credono, per vivere, lavorare e condividere valori e tradizioni. Le sfide missionarie superano oggi le barriere locali e richiedono la capacità di formulare nuove risposte che tengano conto di contesti territoriali, sociali e culturali più ampi.
La storia di Yonas rivela anche la grande complessità culturale in cui si dibatte la missione contemporanea. Venendo a contatto con persone e popoli di cultura diversa il missionario, da sempre, sa che deve imparare a interagire con la cultura locale, conoscendola e valorizzandola. Ma oggi c’è un fatto nuovo: la sfida dell’interculturalità è dentro le nostre comunità con confratelli provenienti da diverse nazioni e culture che vivono la stessa missione, bevono alla medesima fonte carismatica, riconoscono il beato Allamano come fondatore e padre. Nati come un gruppo di missionari piemontesi, oggi i missionari della Consolata sono una realtà multietnica e multiculturale.
Il vasto peregrinare di Yonas evidenzia però anche l’esigenza di mettere a punto la nostra organizzazione per adeguarla maggiormente alle sfide del presente. Oggi, l’Istituto dispiega le sue forze su un territorio molto ampio e differenziato, con un personale che, pur mantenendosi da qualche anno numericamente stabile (siamo circa un migliaio), rappresenta pur sempre un drappello molto piccolo di missionari in confronto ad una realtà enorme e complessa. Se vorrà venire in aiuto delle esigenze di Yonas, il Capitolo che i missionari della Consolata stanno celebrando dovrà obbligatoriamente affrontare anche una ri-organizzazione strutturale, possibilmente a base continentale e meno centralizzata, per dare delle risposte più flessibili a situazioni nuove e originali di specifiche aree geografiche.
Sarà questa la missione che ci attende? Ce lo diranno il tempo, le circostanze e, perché no, ce lo potranno anche suggerire gli altri agenti della missione. Oggi, infatti, non si può più fare missione «da soli», in questo mondo globalizzato non c’è spazio per i «lupi solitari». La missione appartiene alla Chiesa intera e occorre «fare rete» con tutti coloro che, a diversi livelli, condividono il nostro carisma, la nostra passione per la salvezza integrale di ogni essere umano.
Innanzi tutto le nostre sorelle, le suore missionarie della Consolata. L’esperienza missionaria in Mongolia e la comunità di vita a Nabasanuka, fra gli indios Warao del Venezuela, sono forse gli esempi più radicali di questa volontà di lavorare insieme, offrendo alla missione due interpretazioni complementari dello stesso carisma.
In questi ultimi anni è cresciuta anche l’esperienza dei Laici missionari della Consolata (Lmc), persone che si sono avvicinate alle nostre case e collaborano con l’Istituto perché si identificano con il nostro carisma missionario, vogliono abbeverarsi alla stessa fonte e incarnare nella loro vita l’ispirazione che viene dal nostro fondatore. Alcuni di essi sono partiti dedicando anni della loro vita ad esperienze missionarie sul campo. Altri non hanno in questo momento la possibilità di partire, ma cercano attraverso scelte spirituali concrete e un impegno nel quotidiano di testimoniare il loro entusiasmo missionario “consolatino”.
Non può però mancare una collaborazione anche con le forze della società apparentemente più lontane, ma con cui si condividono battaglie in favore della promozione della giustizia, della pace e della salvaguardia dell’ambiente. Sono i cosiddetti “uomini di buona volontà”, coloro che a vario titolo e in nome dell’umanità, si impegnano concretamente per dimostrare che un mondo differente, più sobrio, solidale e giusto, è davvero possibile.
Insomma, vai Yonas, che non sei solo. Insieme a noi e a tutti quelli che con noi collaborano c’è sempre il Signore a dirci quella che sarà la missione che ci attende domani.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Introduzione

Capitolo generale dei missionari della Consolata

Introduzione
Carissimi amici, lettori e benefattori,

mentre vi accingete a sfogliare le pagine di questo dossier, una cinquantina di missionari della Consolata sono riuniti a Roma, presso la Casa Generalizia del nostro Istituto, impegnati a dare vita al Capitolo Generale, il 12° della nostra storia. È questo un tempo speciale, opportuno e necessario, di riflessione intorno alla missione che i missionari della Consolata svolgono in 24 paesi di quattro continenti. Il Capitolo raduna i rappresentanti delle varie circoscrizioni in cui l’Istituto è organizzato per valutare il lavoro fatto nei sei anni appena trascorsi e per programmare il futuro. Verrà anche eletta una nuova Direzione Generale, che avrà l’incarico di guidare l’Istituto e portare a compimento le scelte che il Capitolo farà.
Ecco descritto lo «scenario» e le ragioni di questo dossier; avremmo potuto attendere la fine dei lavori per darvi un’immagine più completa di cosa vorremmo fare della nostra vita nei prossimi anni alla luce del Vangelo… e lo faremo anche a Capitolo concluso, raccontandovi come avremo deciso di rispondere alle novità con cui la missione ci provoca e ci sfida. Abbiamo invece preferito coinvolgervi da subito, perché ci sembra bello che, nel leggere questa carrellata a volo d’uccello su chi siamo e cosa facciamo, possiate pensare a noi, unendovi innanzitutto nella preghiera a Colui che è l’unico e vero protagonista della Missione. Gesù, missionario del Padre, è, attraverso il suo Spirito, il primo agente del lavoro di evangelizzazione di cui noi, seguendo il carisma del nostro Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, siamo gli strumenti.
In queste pagine accenneremo soltanto a chi siamo e da dove veniamo, lasciando che gli articoli si concentrino sul presente e sul futuro di una famiglia di missionari che anche oggi, nel contesto particolare della società in cui è immersa, vuole continuare ad offrire un rinnovato messaggio di speranza e consolazione al mondo, un messaggio non suo, ma ricevuto in dono.
Buona lettura e benvenuti nella nostra missione.

                                                                 Ugo Pozzoli     

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Una storia carismatica

Dal passato al futuro

110 anni di cose che non si possono modificare… «Il mondo sta cambiando e ci dobbiamo adeguare». È questo, in sintesi, il ritornello che anima da tempo i nostri dibattiti sulla missione. Cambiare cosa? Cambiare faccia, pelle, anima? Spirito, strumenti?

Il viaggio intorno al nostro Istituto missionario inizia da un viale alberato alla periferia di Torino. Non è una proiezione sul futuro e neppure una finestra aperta sul mondo; è piuttosto un’immagine che rimanda alle radici, come quelle degli alberi che fanno ombra al passeggiare.
È il viale del tramonto? Per alcuni versi forse lo è,
ma non solo.
Due figure vi camminano lentamente, la prima, più bassa, quasi si appoggia all’altra, alta e slanciata, come a un lungo bastone. Quella piccola parla e l’altra ascolta: un borbottio che non si capisce bene da dove venga e cosa voglia dire, suoni confusi.
Il più piccolo vive ad Alpignano (nella casa dei missionari anziani) da alcuni anni, dopo una vita passata in Colombia e in Ecuador; soprattutto in Ecuador, sulla cordigliera. Il suo passo ha lasciato un’impronta grande, fatta di ricordi, affetti e un ospedale dedicato alla Consolata. Testa dura di sardo Doc, è vissuto e ha lavorato là, spesso da solo, alle prese con una salute sempre più precaria, in una valle all’ombra del Chimborazo, la grande montagna che cresce sulla linea dell’equatore, proprio dove la terra ha la pancia più grande, a contatto con la scontrosità naturale di indios che vivono a tremila metri di altezza, con la pelle rovinata dalla fuliggine di vulcani ancora attivi e da secoli di storia dura, passata a dir di sì a chi sempre trova il modo di essere più furbo.
Quello più alto cammina con lui e ascolta. Nato in Marocco da famiglia bergamasca (scherzi padani che non ti aspetti), quattro calci a un pallone con i giovani dell’Atalanta, missionario in Congo, Spagna e Venezuela, qualche anno di servizio nella Direzione Generale… oggi è superiore ed animatore di quella comunità missionaria “in pensione” (sempre che dalla missione ci si possa mai completamente ritirare), fatta di confratelli anziani, quasi sempre ammalati, che, come il piccolo missionario sardo, hanno bisogno di qualcuno cui appoggiarsi per camminare.
Il futuro di un Istituto missionario si costruisce su immagini come questa, storie di vita vissuta rilette alla luce del nostro presente. Le utopie di cui vogliamo alimentare la nostra missione devono fare i conti con un passato e con delle radici forti, se vogliono raggiungere il regno del reale e non perdersi nell’universo del possibile. L’istantanea dei due missionari è una delle tante che potrebbero descrivere cosa è stata ed è la missione per «quelli della Consolata» da 110 anni a questa parte, da quel 29 gennaio 1901 in cui il beato Giuseppe Allamano diede sfogo all’aspirazione missionaria della chiesa torinese con la fondazione dell’Istituto. Non l’esaurisce certamente, ma ne incastona, come gemme, alcune caratteristiche che da sempre fanno parte del nostro carisma: siamo missionari che hanno la consolazione nel cuore, la portiamo nel nome, ed è come se facesse parte del nostro Dna. Il nostro fondatore non ci volle «allamaniani», ma della Consolata, perché fossimo delle estensioni dell’amore silenzioso, umile ma efficace, di Maria. Ci volle presenti a «fare bene il bene», senza squilli di tromba, per essere Buona Notizia nella vita dei più poveri e sofferenti, di coloro che sono più soli e, soprattutto, di coloro che ancora non conoscono Cristo. «Noi siamo per gli infedeli» dice l’Allamano, con il vocabolario proprio del suo tempo. Siamo per i non cristiani, missionari di prima evangelizzazione.
Con coraggio
Da 110 anni, in quattro continenti diversi, proviamo a vivere così. Lo facciamo tra mille difficoltà e contraddizioni, avvertendo il peso di sentirci come vasi di creta sempre più fragili eppure ancora carichi della responsabilità del tesoro che custodiscono. Cerchiamo di vivere questi valori con spirito di famiglia, una famiglia estesa, culturalmente molto diversificata, ma unita da una parola magica a cui costantemente tentiamo di dare significati nuovi: «carisma». Oggi il nostro Istituto (come molte altre congregazioni religiose) vive una duplice sfida interculturale.
I missionari europei sono anziani e in diminuzione, mentre le forze giovani vengono da altri luoghi, soprattutto dall’Africa (e in modo numericamente più significativo dal Kenya, la nostra prima missione); ci troviamo di fronte a un doppio divario culturale: geografico e generazionale. Come trasformare le differenze in ricchezza? Come riscoprire in un presente così complesso, fluido e variabile le condizioni per continuare a vivere il nostro «carisma» di missionari della Consolata? È questa la sfida più grande e urgente che oggi ci attende.
Il lavoro è molto, sicuramente non facile, ma guai a guardare con rassegnazione e paura a ciò che abbiamo davanti. Siamo in tempi di crisi, ma la crisi è anche la condizione necessaria per nuovi cambiamenti: da sempre la storia dell’uomo è andata avanti così. «Avanti in Domino», verrebbe da dire, usando un’espressione cara al nostro Fondatore: «Avanti nel Signore», perché sua è la missione, suo lo Spirito che la anima.
Oggi le nostre diversità possono rivelare la loro ricchezza, dandoci una marcia in più nel fare quello che abbiamo sempre fatto: andare alle genti più diverse. Un tempo esse erano raggiungibili soltanto a prezzo di lunghi e faticosi viaggi, oggi, invece, sono vicinissime, perché mescolate nello spazio di un solo quartiere, sia esso in una delle nostre città che negli slum delle megalopoli del sud del mondo.
Cosa della storia di ieri dovremmo caricarci sulle spalle per poter essere padroni delle nostre storie di domani? La nostra è una storia segnata dal «carisma della missione». Qualcosa di esso è stato scritto sulla carta, ma molto di più è scolpito nelle esistenze di chi ci ha preceduto o vive al nostro fianco, nelle vite di tanti missionari che ancora credono alla vocazione ricevuta e, seppur nella contingenza dell’umana fragilità, ci provano e vanno avanti… in Domino.
I due missionari stanno finendo la loro passeggiata. Ad Alpignano si mangia presto e bisogna rientrare. Uno parla e l’altro ascolta. C’è missione vissuta anche solo in quel semplice stare insieme a testimoniare il senso profondo della comunione, della gratuità, della consolazione. Sullo sfondo appaiono come in dissolvenza altri paesaggi ed altri volti: storie di missione, anche queste, nascoste nel profondo di una foresta, ai margini di un deserto, nella maleodorante periferia di una metropoli o nel profumo di incenso del Santuario della Consolata da cui siamo partiti.
Storie ad gentes, di ieri, di oggi, di domani.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




«Santo subito»

Presentazione Dossier

Lo slogan gridato e scritto su striscioni innalzati da un folto gruppo di fedeli, soprattutto giovani, in Piazza San Pietro l’8 aprile 2005, durante il funerale del papa Giovanni Paolo II, non è stato solo folklore: 20 giorni dopo, in deroga alla legge del 1983, papa Benedetto XVI concedeva la dispensa dai cinque anni di attesa dopo la morte di Karol Wojtyla prima di iniziare il processo di canonizzazione. Il 28 giugno dello stesso anno veniva aperta ufficialmente la causa di beatificazione, conclusa dallo stesso papa il 14 gennaio 2011, fissando la data della celebrazione: dal 1° maggio Karol Wojtyla è il beato Giovanni Paolo II.
«Papa santo» non è l’unica qualifica usata da ammiratori e «papa boys» per descrivere la personalità di Giovanni Paolo II; molti altri titoli, espressioni e aggettivi sono stati usati per sottolineare la ricchezza della sua figura e la complessità dell’esercizio del suo pontificato: Karol il Grande, papa carismatico e mediatico, homo viator, papa pellegrino, parroco del mondo, apostolo della giustizia e della pace, papa operaio, poeta e filosofo; alcuni hanno cercato di ingabbiarlo in definizioni contrastanti, come moderno o nostalgico, conservatore o progressista, anticomunista o anticapitalista, di destra o di sinistra… a seconda del punto di vista ideologico da cui veniva guardato. Tutte queste categorie e dimensioni egli le ha comprese, attraversate e superate, lasciando un’immagine non univoca e una eredità ancora aperta.
C’è tuttavia un denominatore comune che qualifica tutti i 27 anni di pontificato di Giovanni Paolo II, un aspetto non sempre evidenziato dai media, ma che ci sta particolarmente a cuore: la sua missionarietà. «Egli ha fatto del suo servizio alla missione e all’evangelizzazione il fondamento e l’asse portante del suo ministero: il suo infaticabile impegno nell’autentica missionarietà e il suo costante magistero sulla missione hanno contribuito a fare acquistare una nuova comprensione dell’identità missionaria della Chiesa, a suscitare un nuovo slancio nell’azione evangelizzatrice, a chiarire principi e criteri per meglio delineare la missione e l’attività missionaria» (Giuseppe Cavallotto).
In occasione della sua beatificazione, sentiamo il dovere, come missionari, di sottolineare questa dimensione fondamentale del suo ministero pastorale, sottolineando l’eredità di pensiero e il dinamismo impresso alla chiesa in 27 anni di pontificato. Il beato Giovanni Paolo è stato e rimane ancora oggi il papa della Redemptoris missio e dei viaggi in giro per il mondo; il papa che ha dato impulso alla realizzazione di molte intuizioni del Concilio, come l’inculturazione, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, il protagonismo missionario della chiesa locale, la giustizia e la pace, la solidarietà tra i popoli e la salvaguardia del creato… Sono tutte facce della stessa missione, sfide che attendono ancora di essere affrontate e portate a soluzione. In tutti i continenti i problemi ancora aperti sono molti e l’eredità lasciata da Giovanni Paolo è già una strada da seguire, uno stimolo a tutta la Chiesa per pensare e ripensare nuove forme di annuncio e testimonianza della Buona Notizia di Cristo.
Sarebbe illusorio pensare che siamo già arrivati là dove il papa ha voluto condurci. Traghettando la Chiesa nel terzo millennio, Giovanni Paolo II l’ha esortata a prendere il largo (Duc in altum); la sua beatificazione rilancia tale invito ad allargare sempre più gli orizzonti. Arrendersi alla difficoltà, rassegnarsi alla mentalità diffusa che favorisce il disimpegno personale, chiudersi nel passato e vivere di rendita sono atteggiamenti non solo poco evangelici, ma il modo peggiore di onorae la memoria e la santità.
L’ammirazione non basta. Per questo, oltre a rievocare la sua figura e i suoi viaggi apostolici per incontrare e incoraggiare i discepoli di Cristo sparsi in tutto il mondo, vogliamo dare spazio alla sua voce sui temi che riguardano «questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli» (RM 3).
«La missione è ancora agli inizi» afferma Giovanni Paolo II, rimarcandone la sua costante urgenza, sottolineando al tempo stesso i benefici che lo slancio missionario riversa sulla fede e la vita cristiana, nella convinzione che «la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (RM 2).

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Papa planetario

Missione e missionarietà in Giovanni Paolo II

«Papa missionario» è il titolo che meglio definisce personalità e ministero di Giovanni Paolo II; se l’è meritato sul campo, con il ricco magistero missionario e innumerevoli viaggi in tutti i continenti per incoraggiare le comunità cattoliche, dialogare con esponenti delle confessioni cristiane e leaders di altre religioni, lanciare sfide contro la violenza e la guerra e invocare la giustizia e la pace tra tutti i popoli.

Piazza San Pietro, 22 ottobre 1978. Gladioli rossi e bianchi circondano l’altare sul quale Giovanni Paolo II celebra la messa inaugurale del suo ministero di Pastore Universale; durante l’omelia, davanti a più di 300 mila partecipanti e a milioni di persone che seguono il rito dalla Tv, il papa fa risuonare forte e incisivo il suo grido missionario: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». Lo stesso invito accorato, qualche anno dopo, risuona nella sua enciclica missionaria, Redemptoris missio: «Popoli tutti, aprite le porte a Cristo!» (RM 3 e 39).
Dal primo giorno del suo pontificato, quindi, Giovanni Paolo II rivela il suo slancio missionario e traccia anche gli ambiti in cui vuole esercitare il suo ministero di evangelizzazione, invitando ad aprire a Cristo e «alla sua potenza salvatrice i confini degli Stati, i sistemi economici e politici, i vasti campi della cultura, della civiltà e del progresso. Non temete. Cristo sa che cosa c’è nell’uomo. Egli solo lo sa… Vi chiedo, vi prego con umiltà e fiducia, lasciate che Cristo parli all’uomo. Egli solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Per aprire le porte a Cristo papa Wojtyla ha calzato i sandali di Pietro e si è fatto missionario itinerante, maestro di fede, testimone del Vangelo.
missionario itinerante
Dopo solo tre mesi dall’inizio del suo ministero, eccolo proiettare la sua missione universale ai quattro punti cardinali: verso il Sud del mondo con il viaggio in Messico (25 gennaio – 1° febbraio 1979), verso Est con il trionfale «ritorno in patria» (2-10 giugno), verso il Nord e l’Ovest con la missione congiunta in Irlanda e negli Usa (29 settembre – 8 ottobre). Appena compiuto un anno di pontificato, già inizia il suo primo viaggio ecumenico: in Turchia (28-30 novembre 1979) incontra il presidente del paese musulmano e il patriarca ortodosso Demetrio I, lanciando così i primi approcci al mondo dell’ortodossia e a quello dell’islam, che tanto spazio occuperanno nello sviluppo del suo pontificato.
Sono «viaggi di fede», come spiega ai giornalisti prima di partire per il Messico: «Il papa va in alcune zone del Nuovo Mondo come messaggero del Vangelo per milioni di fratelli e di sorelle che credono in Cristo; li vuole conoscere, abbracciare tutti e dire a tutti – bambini, giovani, uomini, donne, operai, contadini, professionisti – che Dio li ama, che la Chiesa li ama». «Fin dal giorno dell’elezione a vescovo di Roma, il 16 ottobre 1978 – confessa nell’allocuzione per celebrare il centesimo viaggio (13-6-2003) – è risuonato nel mio intimo con particolare intensità e urgenza il comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”. Mi sono sentito in dovere di imitare l’apostolo Pietro che “andava a far visita a tutti”, per confermare e consolidare la vitalità della Chiesa nella fedeltà alla Parola e nel servizio della verità; per dire a tutti che Dio li ama, che la Chiesa li ama, che il Papa li ama; e per ricevere, altresì, da essi l’incoraggiamento e l’esempio della loro bontà, della loro fede».
«Il papa non può rimanere prigioniero del Vaticano -confida in uno dei primi viaggi ai giornalisti che lo accompagnano -. Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dove essi pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati… dappertutto… vorrei oltrepassare la soglia di tutte le case».
«Già dall’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria» scriverà nella sua enciclica missionaria. Il continuo viaggiare, anche quando gli diviene faticoso, è certamente l’aspetto più vistoso e originale del pontificato di Giovanni Paolo II, un pontificato missionario, con forte proiezione planetaria, messianica e apocalittica, come rivela nel suo viaggio in Canada nel 1984. Egli si scaglia con furore profetico contro un mondo segnato dal male, sganciato da Dio, gonfio di presunzione e orgoglio, pieno di adoratori del potere e del denaro. «La spaccatura tra il Vangelo e la cultura è il dramma della nostra epoca» afferma a Winnipeg. A Montreal papa Wojtyla rivela inconsciamente le ragioni del suo pontificato itinerante, identificandosi con la missione di Mosè: «Dio si rivela a Mosè per affidargli una missione. Deve far uscire Israele dalla schiavitù dei faraoni d’Egitto»; anch’egli, sommo pontefice e rappresentante di Dio, deve percorrere in lungo e in largo questa terra, «possesso di Dio» e quindi «terra santa», per richiamarla alla salvezza, per richiamare l’umanità sulle strade del cielo, per traghettare la Chiesa e il mondo in una nuova epoca, nel «nuovo» millennio.
Per rispondere alla sua triplice responsabilità di vescovo di Roma, primate d’Italia e pastore universale, papa Wojtyla si propone di visitare tutte le parrocchie dell’urbe, tutte le diocesi italiane e tutte le nazioni della terra. Scherzosamente afferma che non gli basta essere Pietro, ma vuole essere anche Paolo, l’apostolo delle genti. Concetto ribadito nel 1980 nel suo primo viaggio in Africa: «In Europa c’è chi pensa che il papa non dovrebbe viaggiare, che dovrebbe stare a Roma, come ha sempre fatto. Così leggo sui giornali e ricevo consigli in proposito. Io dico, invece, che è una grazia di Dio essere venuto tra voi, perché posso conoscervi. Diversamente, come potrei capire chi siete e come vivete? Ciò mi conferma nella convinzione che è giunto il tempo in cui i vescovi di Roma, cioè i papi, non debbano considerarsi solamente i successori di Pietro, ma debbano ritenersi anche eredi di Paolo che, come sappiamo bene, non si è mai fermato, che era sempre in viaggio. E ciò che è vero per il papa vale anche per i suoi collaboratori di Roma».
Una chiesa tutta missionaria
Secondo l’impostazione data nella Redemptoris missio, l’evangelizzazione è fondamentalmente sempre la stessa, ma assume accentuazioni diverse a seconda delle situazioni in cui si svolge: si chiama attività pastorale quando si rivolge a comunità cristiane vive e solide; nuova evangelizzazione o rievangelizzazione quando riguarda ambienti di tradizione cristiana scristianizzati; prima evangelizzazione o attività missionaria in senso specifico quella destinata a popoli che ancora ignorano Cristo (cfr RM 33).
Quest’ultima modalità, la missione ad gentes, nel magistero di Giovanni Paolo II riveste caratteristiche di priorità e urgenza. Dopo due mila anni di evangelizzazione, egli lamenta, «la missione ad gentes è ancora agli inizi». C’è bisogno di un colpo di reni. «Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall’annunzio evangelico o nei quali la chiesa è scarsamente presente, sono tanto ampi da richiedere l’unità di tutte le sue forze… Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente, come per l’intera chiesa, la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio» (cfr RM 86). Guidando la Chiesa nel terzo millennio, papa Wojtyla vuole che essa sia animata dallo «stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora… Il nostro passo, all’inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo» (Novo Millennio Ineunte 58).
Egli è convinto che l’attività ad gentes è la cartina al tornasole delle altre due dimensioni missionarie, cura pastorale e nuova evangelizzazione, via obbligata per superare i sintomi di crisi che percorre la Chiesa tutta. «La missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento… Difficoltà intee ed estee hanno indebolito lo slancio della Chiesa verso i non cristiani… La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (RM 2). Slogan che è tutto un programma.
Il suo entusiasmo missionario lo trasfonde con foga, quasi gridando, come nella Giornata mondiale della gioventù, a Manila nel 1995: «A ciascuno di voi Cristo dice: “Io mando voi… Vi mando nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie, nei vostri movimenti e associazioni, nei vostri Paesi, nelle antiche culture e nella civiltà modea, affinché proclamiate la dignità di ogni essere umano, come è stata rivelata da me, il Figlio dell’uomo”» (vedi riquadro pag. 35).
La stessa trasfusione di entusiasmo è destinata alle «giovani chiese», per le quali Giovanni Paolo II scrive: «Siete voi, oggi, la speranza di questa nostra chiesa, che ha duemila anni: essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo… E sarete anche fermento di spirito missionario per le chiese più antiche» (RM 91).
Antiche e giovani chiese, in tutti i continenti, devono partecipare alla stessa missione ad gentes, fuori dei propri confini. «La chiesa in America» esorta papa Wojtyla, deve «rimanere aperta alla missione ad gentes… non può limitarsi a rivitalizzare la fede dei credenti abitudinari, ma deve cercare anche di annunciare Cristo negli ambienti nei quali è sconosciuto… estendere lo slancio evangelizzatore oltre le frontiere continentali… Sarebbe un errore non favorire un’attività evangelizzatrice fuori del Continente con il pretesto che c’è ancora molto da fare in America o nell’attesa di giungere prima a una situazione, in fondo utopica, di piena realizzazione della chiesa in America» (Ecclesia in America 74).
La stessa esortazione è rivolta alle giovani chiese nel continente asiatico. «Nel contesto della comunione della Chiesa universale, non posso non invitare la chiesa in Asia a inviare missionari, anche se essa stessa ha bisogno di operai nella vigna. Sono lieto di constatare che sono stati recentemente fondati istituti missionari di vita apostolica in diversi paesi dell’Asia come riconoscimento del carattere missionario della chiesa e della responsabilità delle chiese particolari in Asia di annunciare il Vangelo in tutto il mondo» (Ecclesia in Asia 44).
«Guardare e andare al largo»
A metà degli anni ‘80, Giovanni Paolo II intraprende una serie d’iniziative ispirate, allo scopo di allargare sempre più gli orizzonti della sua missione alle genti, come scrive nell’enciclica Dominum et vivificantem: «Nella prospettiva del terzo millennio, dobbiamo anche guardare più ampiamente e andare al largo, sapendo che il vento soffia dove vuole» (53).
Alcuni gesti sono eclatanti, come la visita alla sinagoga di Roma nell’aprile 1986 e la giornata di preghiera e di digiuno per la pace che si tiene ad Assisi nell’ottobre 1986, con la partecipazione di tutte le principali religioni del mondo. Ricordando quell’evento, 13 anni dopo, ne sottolinea il significato: «Il memorabile incontro ad Assisi, la città di san Francesco, il 27 ottobre 1986, tra la Chiesa cattolica e i rappresentanti delle altre religioni mondiali dimostra che gli uomini e le donne di religione, senza abbandonare le rispettive tradizioni, possono tuttavia impegnarsi nella preghiera e operare per la pace e il bene dell’umanità» (Ecclesia in Asia 31).
«Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» scrive nella Redemptoris missio (55); egli è fermamente convinto che la Chiesa è istituita per stabilire non solo la «comunione tra Dio e l’umanità, ma anche tra tutti gli esseri umani»; essa è chiamata a promuovere l’unità e la concordia tra tutti i popoli e tale «spirito di unità e di comunione» si rafforza con «il dialogo di vita e cuore» con tutte le religioni (Ecclesia in Asia 13.31).
L’invito a guardare lontano e navigare al largo non si limita alle parole, ma è accompagnato da gesti audaci, come l’abbraccio con l’ebraismo culminato nel suo pellegrinaggio in Terra Santa (2000) e la solidarietà con l’«islam autentico», culminata nella visita, per la prima volta, a una moschea a Damasco (2001).
Riportando il suo pellegrinaggio in Terra Santa, un settimanale inglese definisce Giovanni Paolo II «un Papa per tutti i popoli, capace di portare messaggi distinti alla Terra Santa per i suoi inquieti ascoltatori ebrei, musulmani e cristiani e tutti sono stati lieti di ascoltarlo» (The Economist 25/3/2000).
Sulla stessa lunghezza d’onda è il concerto organizzato in Vaticano il 17 gennaio 2004, dedicato alla «Riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani»; un incontro, come spiega il Papa stesso «per dare concreta espressione a questo impegno di riconciliazione, affidandolo all’universale messaggio della musica… Non possiamo accettare che la terra sia afflitta dall’odio» (Osservatore Romano 18/1/2004).
Una spinta verso il largo è pure l’invito alla purificazione evangelica della memoria che il papa Wojtyla ha rivolto a tutti i cristiani in preparazione del Giubileo del 2000. Il percorso è culminato con il celebre «mea culpa» pronunciato in San Pietro il 12 marzo del 2000, con le 7 richieste di perdono per gli errori compiuti da cristiani e da uomini di chiesa anche rappresentativi, nella persecuzione degli eretici, nei rapporti con gli ebrei, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del genere umano, contro i diritti fondamentali della persona. È noto come non tutti i suoi collaboratori fossero d’accordo con un simile gesto, quasi che fare atto di pentimento significasse «dare ragione agli avversari della religione». Ma Giovanni Paolo II ha proseguito tenacemente lungo la via imboccata, nella convinzione che la purificazione della memoria è indispensabile per rendere credibile l’annuncio del Vangelo e proseguire il cammino di unità nella Chiesa e di pace tra i popoli.
dialogo ecumenico
L’«andare al largo» comprende naturalmente anche un nuovo slancio ecumenico. Poiché la divisione tra i cristiani è un ostacolo all’evangelizzazione, il dialogo ecumenico «è una sfida e una chiamata alla conversione per tutta la Chiesa» (Ecclesia in Asia 30) e deve caratterizzarsi come «andare insieme verso Cristo… il procedere l’uno verso l’altro e il procedere insieme da cristiani» (RM 55).
Primo sogno ecumenico di papa Wojtyla è la riconciliazione tra la chiesa cattolica e quella ortodossa, che formano «i due polmoni dell’Europa». In occasione delle celebrazioni del millennio del battesimo della Russia (giugno 1988) papa Wojtyla invia come suoi rappresentanti 10 cardinali, insieme a una lettera indirizzata a tutti i cristiani della Russia, che termina con queste parole: «La comunità cattolica, invia alla millenaria chiesa sorella, mediante il vescovo di Roma, il bacio di pace, come manifestazione dell’ardente desiderio di quella perfetta comunione che è voluta da Cristo». Nella stessa occasione, il card. Casaroli realizza un capolavoro diplomatico: prepara la venuta di Gorbaciov a Roma e ottiene dal Cremlino l’invito per il Papa a visitare l’Urss. Paradossalmente la visita di Giovanni Paolo II a Mosca incappa nel veto della «chiesa sorella».
Altro gesto coraggioso, nel 1989, è la sua uscita verso le chiese luterane della Scandinavia. Purtroppo tanto slancio ecumenico non trova rispondenza nei fatti, né a Oriente né a Occidente. Contrariamente alle sue speranze, la caduta del comunismo non facilita l’incontro con le chiese dell’ortodossia; anzi diventa più difficile per la ripresa dei nazionalismi. Altre difficoltà raffreddano il dialogo in Occidente, come l’ordinazione delle donne nelle chiese anglicane.
Sconfitte ecumeniche e ansia apostolica inducono papa Wojtyla a fare passi inauditi, come mettere in questione il primato petrino, pur di raggiungere «la comunione piena e visibile di tutte le comunità»; egli auspica di «trovare una forma di esercizio del primato che, senza danneggiare la sua missione, sia aperta a situazioni nuove», ispirandosi all’unità dei cristiani del primo millennio, che chiedevano l’intervento della «sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina» (cfr Ut unum sint 95).
costruttore di pace
«Giovanni Paolo II: grande apostolo della giustizia e della pace»; la definizione è di Pax Christi Inteational. Nessun papa ha mai predicato la pace con tanta forza né si è opposto alla guerra con inflessibile fermezza come papa Wojtyla. Costruire la pace è una priorità della sua missione e un’urgenza per tutti, non solo per quelli che hanno responsabilità politiche mondiali; per questo egli sprona tutti a compiere «gesti di pace» e ne dà l’esempio, come quando perdona e visita in carcere il suo attentatore, Mahmet Ali Agca.
Magistero dottrinale e azione pratica sono le due dimensioni dei suoi interventi per risolvere i conflitti e promuovere la pace. Il primo aspetto, il magistero del papa, è immenso e multiforme, espresso soprattutto nei 27 messaggi per la Giornata mondiale della pace e negli annuali discorsi al corpo diplomatico presso la Santa Sede. Nei messaggi il papa svolge i grandi temi legati alla costruzione della pace (giustizia, libertà, verità, coscienza, diritti umani, persona, minoranze etniche…); quello del 2002 è «rivoluzionario»: «Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono». Ai due filoni del magistero e interventi diretti, si aggiungono i moniti e appelli alla pace disseminati nelle encicliche e nei discorsi pronunciati durante i suoi viaggi, specie nei luoghi di conflitto, come nel 1979 durante le visita in Irlanda: «Rivolgo un appello ai giovani appartenenti a organizzazioni che fanno ricorso alla violenza. Non ascoltate le voci che parlano la lingua dell’odio, della vendetta, della rappresaglia».
Nell’intero anno 1991 interviene ben 37 volte nella crisi iugoslava, definendo «inutile catastrofe» un eventuale scontro etnico. Il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo (17 gennaio 1991) ammonisce: «In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai». Lo stesso concetto ripeterà ai diplomatici il 13 gennaio 2003, prima della guerra in Iraq: «No alla guerra! La guerra non è sempre inevitabile. È sempre una sconfitta per l’umanità. La guerra non è mai semplicemente un’opzione tra le altre cui far ricorso per risolvere una controversia tra le nazioni». Lo stesso anno, condanna «ogni atto terrorista» in Medio Oriente e afferma con forza che «non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti».
In seguito alle guerre del Golfo e del Kosovo (1991 e 1999) papa Wojtyla matura alcune novità in proposito: egli rafforza la condanna della guerra «totale» (già contenuta nella Gaudium et spes) e la estende alla guerra convenzionale; nella sua dottrina non esiste nessuna «guerra giusta»; parla invece di «ingerenza umanitaria», cioè del dovere della comunità internazionale di fermare le guerre in atto disarmando l’aggressore; ingerenza decisa da «un’autorità superiore» (non da singoli stati), in base a «regole inteazionali certe», «nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e interi gruppi etnici» (cfr Messaggio GMP 2000).
Oltre ai gravi focolai di guerra in Terra Santa, Balcani, Africa centrale, Iraq, durante i 27 anni di pontificato di Giovanni Paolo II sono scoppiati una ventina di conflitti preoccupanti nei vari continenti, che noi e altre riviste cattoliche abbiamo presentato come «guerre dimenticate»; dimenticate dall’opinione pubblica, ma non da papa Wojtyla, che ha continuato a proporre a tutti «la civiltà dell’amore» per sconfiggere lo «scontro di civiltà».
gesù cristo al centro
L’asse attorno al quale ruota tutta l’attività e magistero di papa Wojtyla è Gesù Cristo. Egli parla di Lui non in modo distaccato, quasi fosse una dottrina da trasmettere, ma come di una persona viva che egli ha incontrato e di cui si è profondamente innamorato. Come missionario itinerante, egli ama paragonarsi spesso a san Paolo, che diceva: «L’amore di Cristo ci spinge»; non è tanto, spiegano i biblisti, l’amore di Paolo per Cristo, quanto l’amore di Cristo in Paolo a spingerlo. Questo amore è il fuoco, il motore di papa Wojtyla: «L’amore è più forte» grida spesso come un ritornello.
Le sue convinzioni non ammettono dubbi o compromessi: «Cristo è l’unico salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio… Per tutti… la salvezza non può venire che da Gesù Cristo… Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini… altre mediazioni partecipate di vario tipo e ordine non sono escluse, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (RM 5). Da questa convinzione scaturiscono il grido iniziale del suo pontificato («Aprite, spalancate le porte a Cristo!») e i suoi messaggi di fede e gli appelli alla conversione, come quello lanciato a Parigi nel 1980: «Uomini, pentitevi dei vostri peccati e convertitevi a Gesù Cristo». Tali messaggi non sono puramente «spirituali», richiami all’intimismo, ma spinte a trasformare dall’interno persone, famiglie, società, nazioni, per realizzare un modello di sviluppo più umano per tutti.
Nel 1979, il presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca, gli dice: «Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni… L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici, avere di più anziché essere di più, ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi». E l’insospettabile New York Times scrive: «Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo fosse tornato fra noi». Non c’è elogio più bello per il successore di Pietro. Tale identificazione con Cristo caratterizza tutto il suo pontificato, fino all’estremo della resistenza fisica, fino all’ultimo respiro.
Negli ultimi anni, la salute del papa Wojtyla registra una lunga serie di sofferenze, non solo per l’avanzare dell’età, ma per una patologia già rilevata nel 1997 come «malattia neurologica, di tipo parkinsoniano», morbo che avanza vistosamente. Spesso i media inquadrano cinicamente insopportabili dettagli: mani tremanti all’elevazione, labbra con un filo di bava, volto contratto. A quanti gli consigliano di ritirarsi, argomentando che la Chiesa ha bisogno di un capo in buona salute, Giovanni Paolo II risponde che è disposto a «servire la Chiesa quanto a lungo Cristo vorrà»; la motivazione è chiara e disarmante: «Gesù è forse sceso dalla croce?».

Benedetto Bellesi

I NUMERI DI UNA MISSIONE:
146    visite pastorali in Italia (come vescovo di Roma, 317 visite a 333 parrocchie romane attualmente esistenti)
104    viaggi apostolici in 129 differenti paesi e territori e 620 località diverse
1.247.613 km percorsi in tutto (3,24 volte la distanza tra la terra e la luna)
822    giorni (più di due anni) passati fuori dal Vaticano
20.000 e più discorsi e saluti pronunciati
100 e più documenti principali, di cui: 14 encicliche, 15 esortazioni apostoliche, 11 costituzioni apostoliche e 44 lettere apostoliche
147    cerimonie di beatificazione celebrate, dichiarando 1.338 beati
51    canonizzazioni per un totale di 482 santi
9    concistori con 231 cardinali creati (più uno in pectore, noto solo al papa)
6    riunioni plenarie dei cardinali presiedute
15    assemblee del Sinodo dei vescovi convocate
17,6    milioni di pellegrini incontrati in oltre 1.160 udienze del mercoledì a Roma
8 milioni di pellegrini incontrati nel Giubileo del 2000
737    udienze o incontri con capi di stato
245    udienze e incontri con primi ministri

Wojtyla e i giovani
Tra i vari titoli dati a Giovanni Paolo II vi è pure quello di «papa dei giovani». Fin dal 23 novembre 1978, in una delle sue prime udienze nella Basilica vaticana, egli stabilì un rapporto speciale con i giovani, parlando a braccio: «Quanto chiasso! Mi date la parola? – li rimbrottò scherzosamente -. Quando sento questo chiasso penso a San Pietro che sta qui sotto: mi chiedo se sarà contento; ma penso proprio di sì».
Le immagini più spettacolari del suo pontificato, se non le più belle, vengono dagli incontri con i giovani che hanno ritmato non solo i suoi viaggi inteazionali, ma anche la sua vita in Vaticano, le uscite domenicali nelle parrocchie romane, le visite alle diocesi italiane. «Mi piace sempre incontrare i giovani… i giovani mi ringiovaniscono» confessava sinceramente a Catania nel 1994. E ai parroci romani nel 1995 diceva: «Si deve puntare sui giovani. Io lo penso sempre. A loro appartiene il Terzo Millennio. E il nostro compito è di prepararli a questa prospettiva».
È in tale prospettiva che la domenica delle Palme del 1984 Giovanni Paolo II lanciò la Giornata mondiale della gioventù (Gmg), incontro con cadenza biennale tra il Papa e i giovani cattolici di tutto il mondo; l’iniziativa si rivelò un successo straordinario, oltre ogni aspettativa, fino a raggiungere la cifra record di 4 milioni di persone a Manila, nelle Filippine, nel gennaio 1995. 
Se i giovani accorrevano numerosi ed entusiasti, non è certo perché papa Wojtyla li blandisse; egli non ha mai   pronunciato discorsi facili, accomodanti. Tutt’altro. Ha proposto loro traguardi alti, comportamenti controcorrente, impegni coraggiosi e militanti, come ai due milioni di giovani della Gmg 2000 a Tor Vergata, Roma: «Voi difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti».
In ogni viaggio piazze, stadi, ippodromi… si riempivano di giovani, che lo acclamavano come star, soprattutto quelli ben presto chiamati «Wojtyla boys & girls»; e Lui stava al gioco: un passo di danza accennato a Sidney, l’acclamazione di «campeon del mundo» a Caracas e «atleta di Dio» al velodromo di Parigi; il mondo sud americano, appassionato di calcio, lo proclamava «Goleador de la Iglesia», «Maradona de la fé», «Trotamundo de la paz»; il mondo nordamericano hollyvudianamente lo definiva «Wojtyla superstar», «Wojtyla superman». Indimenticabile è il botta-e-risposta a Manila: «We kiss you», «Anch’io vi bacio, tutti! Niente gelosie!». Così pure gli scherzi intrecciati con i giovani a Trento nel 1995: «Giovani, oggi bagnati; domani, forse raffreddati… chissà se i padri del Concilio di Trento sapevano sciare».
Un amore reciproco coltivato fino all’ultimo respiro. Con ogni probabilità, le ultime parole di Giovanni Paolo II, pronunciate con gran fatica, sono rivolte ai ragazzi che vegliavano in piazza sotto le sue finestre: «Vi ho cercato, adesso voi siete venuti da me e per questo vi ringrazio».

Benedetto Bellesi




Una Chiesa a due polmoni

L’ecumenismo nel ministero di Giovanni Paolo II

«L’impegno della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico è irreversibile… è una delle priorità pastorali» del suo pontificato: lo ha detto spesso Giovanni Paolo II e lo ha realizzato concretamente con l’attività magisteriale, pastorale, spirituale.

Tra i milioni di persone accorse a Roma per dare l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II (2-8 aprile 2005) c’erano anche migliaia di persone di varie confessioni cristiane e capi di differenti fedi religiose: non c’è dubbio che, agli occhi del mondo, in papa Wojtyla era scomparso un uomo che aveva speso la sua vita per promuovere l’unità e la pace.
Se il suo messaggio di unità era evidente al momento della morte, non era stato altrettanto compreso mentre il papa era ancora vivo. In realtà, Giovanni Paolo II era guardato con opposti sentimenti in fatto di ecumenismo, cioè l’impegno per portare tutte le chiese cristiane all’unità piena e visibile. Alcuni considerano negativamente i suoi 27 anni di cammino ecumenico, caratterizzato, secondo loro da crisi, ritardi, lentezze e immobilità.
Da parte sua, conoscendo bene la critica di coloro che, forse troppo ingenui, si aspettavano una facile riunificazione mediante compromessi, Giovanni Paolo II parlava di fiducia, pazienza, perseveranza, dialogo e speranza che devono caratterizzare il movimento ecumenico. Queste sono le parole chiave della sua enciclica Ut unum sint, destinata a mantenere salda la Chiesa cattolica nel suo cammino e nel suo impegno verso l’unità piena e visibile con le altre chiese cristiane. In tale enciclica egli insegna con chiarezza: «Il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche “appendice”, che s’aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo» (Uus 20).
Contributi all’ecumenismo
Giovanni Paolo II riprese gli impegni ecumenici da dove li aveva lasciati Paolo VI e li sviluppò ulteriormente. Nella costituzione apostolica Pastor bonus (28 giugno 1988), papa Wojtyla cambiò il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani (stabilito da Paolo VI subito dopo il Concilio) in Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Pcpuc), conferendogli maggiore stabilità e responsabilità, entrato in vigore il 1° marzo del 1989.
Nelle sue intenzioni, il Pontificio consiglio doveva avere un duplice ruolo: prima di tutto il compito di promuovere nella Chiesa cattolica un autentico spirito ecumenico, in linea con il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. A tale scopo era stato pubblicato un Direttorio ecumenico nel 1967-1970; aggiornato nel 1993 col titolo Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo; nel 1995 fu promulgata l’enciclica Ut unum sint per tenere fermamente la Chiesa cattolica sul sentirnero dell’unità cristiana piena e visibile.
In secondo luogo, il Pontifico consiglio, secondo il volere del papa Wojtyla, aveva lo scopo di sviluppare il dialogo e la collaborazione con le altre Chiese cristiane nel mondo. Fin dalla sua creazione, il Pontificio consiglio stabilì anche una cordiale cooperazione con il Consiglio mondiale delle chiese (Cmc), il cui quartiere generale è a Ginevra. Dal 1968, 12 teologi cattolici sono stati membri della Commissione «Fede e ordine», dipartimento teologico del Cmc; così come ci sono membri incaricati di partecipare ufficialmente nelle varie commissioni per il dialogo bilaterale o multilaterale.
Giovanni Paolo II sostenne e incoraggiò dialoghi teologici inteazionali, che continuano con le seguenti chiese e comunioni cristiane mondiali: Chiesa apostolica armena, Chiesa ortodossa, Chiesa ortodossa copta, Chiese malabariche, Comunione anglicana, Federazione luterana mondiale, Alleanza mondiale delle chiese riformate, Consiglio metodista mondiale, Alleanza battista mondiale, Chiesa cristiana Discepoli di Cristo, Alcuni gruppi pentecostali.
I risultati di questi dialoghi sono stati variegati, spaziando dagli accordi dottrinali di vario grado su questioni controverse fino allo stadio finale dell’unione piena e visibile.
Con la Chiesa apostolica armena (che conta circa 3,5 milioni di fedeli), assente al concilio di Calcedonia (451) e per ciò divisa sulla dottrina cristologica, lo sforzo di unificazione è in uno stadio molto avanzato. Il credo cristologico comune è stato professato e sottoscritto; il Papa visitò l’Armenia nel 2001.
Sforzi ufficiali verso l’unità con la Comunione anglicana cominciarono subito dopo il Vaticano II con l’istituzione della Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (Arcic). La prima commissione produsse i testi dell’accordo su Eucaristia e ministero ordinato. Tuttavia ci sono altre aree importanti non ancora sottoposte a studio e discussione. Nel 1982 Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Robert Runcie stabilirono la seconda commissione «per esaminare, specialmente alla luce dei nostri rispettivi giudizi, le rilevanti differenze dottrinali che ancora ci separano» (La dichiarazione comune, Canterbury 29-5-1982).
Dal 1983 in poi l’Arcic 2 lavorò sulle rimanenti questioni riguardanti l’autorità e altri temi di vita ecclesiale, producendo i testi degli accordi su Salvezza e Chiesa (1986), Chiesa come comunione (1990), Vita in Cristo (1993) e Il dono dell’autorità (1998). Tuttavia, il processo verso l’unità piena e visibile con la Comunione anglicana si è scontrato con reali ostacoli, come l’ordinazione delle donne al presbiterato ed episcopato e in seguito di persone con unioni omosessuali.
Intenso fu pure il dialogo con le chiese luterane, sia negli Stati Uniti che in Europa, che produsse testi di vari accordi reciproci. L’ultimo e più importante è la Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999 dalle autorità di entrambe le chiese.
Il dialogo con le chiese ortodosse proseguì con l’aiuto della Commissione internazionale. Nell’ultimo decennio il dialogo continuò a trattare importanti questioni di attualità e produsse nel 1993 a Balamand in Libano il documento: «L’uniatismo, metodo d’unione del passato, e la ricerca attuale della piena comunione». L’uniatismo come via per raggiungere l’unità oggi è stato rigettato, mentre è stata riconosciuta l’esistenza delle Chiese cattoliche orientali come parte della Chiesa cattolica. Papa Wojtyla aveva sperato ardentemente nella piena unità visibile con le Chiese ortodosse per il Giubileo del 2000. Ma non avvenne. Sperava di visitare la Russia, patria della più forte e grande ortodossia, ma neanche questo gli riuscì.
Il dialogo con le chiese riformate è stato particolarmente creativo, in ambiti come la missione, l’ermeneutica, la giustificazione, la riconciliazione della memoria e la revisione storica di certi periodi dolorosi del passato, l’identificazione della Chiesa come sacramento e creatura del mondo. Il frutto del primo dialogo è il documento La presenza di Cristo nella Chiesa e nel mondo (1977); il secondo stadio di tale dialogo ha prodotto la dichiarazione: Verso una comune comprensione della chiesa (1990).
Giovanni Paolo II
apostolo di unità  
Papa Wojtyla è certamente un apostolo dell’unità; cercò e incoraggò l’unità tra le chiese cristiane; la convinzione dell’unità già esistente sia tra i cristiani, in quanto accolgono Cristo come Signore e salvatore, sia tra gli esseri umani, in quanto figli dello stesso Dio creatore, lo spingeva a cercare i leaders di altre religioni nei suoi giri attorno al mondo. In ogni visita pastorale inevitabilmente incontrava i capi religiosi locali. Parlò agli ebrei nel 1986 nella sinagoga di Roma: primo papa a rivolgersi agli ebrei nella loro sinagoga dopo la rottura nel primo secolo; pregò al Muro del pianto a Gerusalemme durante il Giubileo del 2000; visitò la moschea di Damasco nel 2001, spiegando concretamente la comune fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Con questi gesti simbolici ha impresso un chiaro orientamento al cammino ecumenico. L’unità che cerchiamo come cattolici non è un’unione superficiale o semplicemente di lavoro a spese della verità. Infatti, non c’è salvatore all’infuori di Cristo e la pienezza della fede cristiana si trova solo nella chiesa cattolica. Tutto ciò è insegnato è ribadito in modo netto nella dichiarazione Dominus Iesus. L’unità che la chiesa cerca non è un falso «irenismo», ma scaturisce da un onesto desiderio e impegno per la pienezza di fede e verità. Il compromesso, quindi, non è la strada per l’ecumenismo; mentre la ricerca sincera e il dialogo è la via da percorrere.
Il Papa ha evidenziato che l’unità delle Chiese non può essere forzata. I cristiani credono che la piena unità visibile delle Chiese nell’unica Chiesa di Dio è dono di Dio e non può essere imposta solo con sforzi umani. Con tale convinzione, il credente si sente ancorato alla ricchezza spirituale della propria tradizione e, al tempo stesso, sganciato da qualsiasi indebito attaccamento a propri sforzi. Questo ci fa fare maggiore affidamento nella preghiera, così che il dono dell’unità possa essere concesso alle chiese (cf Uus 21-27). Per questo ogni anno a gennaio si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Venerdì 8 aprile 2005, quando il mondo si riunì per seppellire il tanto amato e apprezzato apostolo dell’unità e della pace, assistemmo alla recita di preghiere funebri, dopo la celebrazione eucaristica, da parte dei cardinali cattolici delle chiese orientali. Questo commovente rito come pure la presenza di numerosissimi leaders di altre comunità cristiane mostrò al mondo che l’unità delle Chiese è una possibilità reale.
Forse ciò per cui Giovanni Paolo II aveva tanto sperato, desiderato e pregato – la piena unità visibile delle chiese a Est e a Ovest – diventerà una realtà grazie alle sue benedizioni e preghiere in cielo, così che la Chiesa di Cristo respiri con tutti e due i polmoni, quello orientale e quello occidentale.
Più tardi, secondo i tempi di Dio, la piena unità visibile dell’unica Chiesa sarà resa visibile con l’abbraccio dei cristiani delle comunità della riforma e post-riforma. Intanto, continuiamo a pregare con Gesù «perché siano tutti una sola cosa come tu sei in me e io sono in te» (Gv 17,21), e proseguiamo con «fiducia, pazienza, costanza, dialogo e speranza», parole chiave del nostro cammino ecumenico, lasciateci dal beato Giovanni Paolo II.

George Kocholickal sdb
Professore di ecclesiologia ed ecumenismo
Tangaza College (Nairobi)

George Kocholickal