L’assistenza non è uguale per tutti

Storie di cittadini di serie B

Aricla è una delle tre assistenti sociali del municipio di Kombinat; nel suo lavoro incontra situazioni a volte disperate, soprattutto tra le famiglie ultime arrivate nel quartiere, vittime di discriminazione e burocrazia.

Tutti gli uffici del municipio di Kombinat sono situati al piano terra di un vecchio stabile; l’ingresso è buio e affollato. Subito dopo l’ufficio tecnico-urbanistico (il più ampio e luminoso dell’intera sede, costituita da altre tre stanze e un bagno) vi è l’ufficio dell’Assistenza sociale: uno sgabuzzino dove trovano posto un armadio, un piccolo tavolo con computer e due sedie; le assistenti sociali del comune sono tre, che si avvicendano o si ammassano nello sgabuzzino. Proseguendo vi è il bagno alla turca dove sono anche allocati gli attrezzi per la pulizia e un grande bidone di plastica pieno d’acqua che sopperisce all’assenza dello sciacquone. Le dimensioni del bagno sono uguali a quelle dell’ufficio dell’Assistenza sociale. Accanto al bagno si apre un piccolo corridoio, al fondo del quale sulla sinistra si trova l’ufficio del Sindaco (una donna), modesto e solo un poco più spazioso degli altri; attaccato alla porta dell’ufficio del Sindaco, c’è un piccolo tavolo con l’usciera. Al capo opposto del corridoio c’è l’ufficio del personale e all’ingresso un box adibito a ufficio informazioni. È questa la postazione politico-amministrativa di un quartiere che ufficialmente conta circa 60.000 abitanti, ma che secondo le stime dell’Ong Col’or, supera i 90.000.
Aricla, capelli scuri, lunghi e folti, statura media e robusta è una delle assistenti sociali e sta lavorando. Nell’ufficio non c’è una luce diretta, solo delle vetrate in alto permettono l’ingresso della luce dal vicino ufficio tecnico che a sua volta si affaccia sulla strada. Le condizioni di quest’ufficio costituiscono una metafora adeguata dello stato della pubblica amministrazione e del servizio sociale nel quartiere di Kombinat. L’assistente sociale è cordiale e vivace come la maggior parte della gente di qui. Vive da molto tempo nel quartiere e lavora in quest’ufficio dal 2001, dopo essersi laureata.
Dal 2005 l’unico servizio che assicurano alle famiglie è l’aiuto di tipo economico («non abbiamo nessun altro servizio perché non ci sono i fondi») ed è una legge dello Stato che stabilisce quali tipologie di persone possono fruire di questo aiuto.
Vi è una curiosa differenza di denominazione tra coloro che provengono da altre parti dell’Albania e chi risiede a Kombinat da molti anni: i primi sono denominati árdhur, «nuovo venuto», mentre i secondi sono chiamati «cittadini»; questa differenza nominale è sintomatica della diseguaglianza nella fruizione dell’assistenza.
Eppure la maggior parte delle richieste proviene dai nuovi arrivati, poiché i vecchi residenti sanno quali sono le prassi da seguire per accedere agli aiuti, mentre i nuovi non conoscono come funziona la procedura. Questi ultimi, anche se vivono in condizioni più gravi, non possono ricevere nessun tipo d’aiuto.
«Ci sono casi di famiglie disperate che non possiamo aiutare perché non hanno portato i documenti entro il mese previsto per legge. Noi dobbiamo attenerci alla legge altrimenti possiamo avere dei guai con il ministero del lavoro».
Per accedere all’assistenza economica bisogna dimostrare di essere disoccupati, esibendo il certificato di disoccupazione rilasciato dall’ufficio di collocamento al lavoro; la somma erogata varia secondo le condizioni della famiglia: al capofamiglia spettano 2.600 lekë, ai membri già abili al lavoro 600 lekë e ai figli 700 lekë al mese; una famiglia di tre componenti può giungere a 3.900 lekë al mese (circa 30 euro).
Per intervenire sul grave fenomeno della disoccupazione l’unità municipale di Kombinat in collaborazione con il municipio di Tirana ha realizzato, tra il 2005 e il 2008, un progetto per coloro che erano titolari di assistenza economica ed erano in grado di lavorare. Il progetto prevedeva il loro impiego nella manutenzione e pulizia dell’ambiente; essi ricevevamo una somma di danaro aggiuntiva a quella che percepivano per l’assistenza, che comunque non poteva superare la paga minima di 1.400 lekë (circa 10 euro), e questo intervento veniva denominato «reddito minimo».
L’amministrazione dell’unità municipale non prevede praticamente alcuna forma di assistenza a favore dei minori. L’assistente sociale si limita solo a verificare che una famiglia non può accudire i figli e sulla base della documentazione i minori possono essere inseriti nei centri di accoglienza dello stato. A Kombinat ci sono solo centri diui, gestiti da Ong, e solo a Tirana vi è un centro residenziale.
Anche per l’«evasione scolastica» possono solo registrae l’esistenza: l’autorità scolastica segnala i vari casi, si fanno le verifiche delle situazioni solo presso le famiglie in assistenza o chiedendo informazioni ai parenti o al vicinato, poi tutto finisce lì. Sono soprattutto i bambini rom e quelli molto poveri che non vanno a scuola. Di conseguenza è diffuso il lavoro minorile; essendo il cimitero di Tirana vicino a Kombinat, molti bambini vendono i fiori per i defunti o fanno la pulizia delle tombe.
Secondo Aricla il problema sociale più rilevante nel quartiere è la disoccupazione sempre più grave, che provoca aumento della povertà; con la povertà cresce la violenza in famiglia, soprattutto contro le donne e i bambini; ma anche gli uomini sono vittime di violenza e per loro la situazione è ancora più grave perché hanno più difficoltà a parlarne; e a Kombinat non c’è nessun centro antiviolenza.
Il senso di frustrazione e impotenza di Aricla è evidente e dichiara che, se lei potesse realizzare un sogno da professionista del sociale, innanzitutto cambierebbe la legge sull’assistenza, togliendola alle famiglie che possono lavorare e aiutando quelle che hanno più bisogno, indipendentemente dal loro essere vecchi o nuovi residenti; avvierebbe poi progetti per offrire un lavoro solo a chi ne ha veramente bisogno e infine: «Farei un grande negozio di alimentari sovvenzionato dallo stato dove la gente povera possa prendere il cibo».

Paolo Rossi

Storia di Erion: tassista abusivo
La famiglia di Erion, tassista abusivo, è arrivata a Tirana nel 1947, quando dal nord e dal sud dell’Albania tanti arrivavano in questa città per lavorare nelle fabbriche di Kombinat.
Suo padre, durante l’occupazione italiana, faceva l’agricoltore; poi lavorò per una ditta italiana che stava costruendo l’acquedotto per Kavaja; successivamente fece il vigile del fuoco a Kombinat. Gli ha lasciato in eredità una proprietà a Fier, comprata prima della guerra, ma di cui ancora non è riuscito a entrare in possesso.
Erion ci tiene a dire che ai tempi di Enver Hoxa non c’era disoccupazione e ricorda che i tecnici russi erano molto amabili; sulla situazione attuale di Kombinat, invece, ha un’opinione molto negativa. «Per certi versi la vita era molto più bella prima: c’era tanta amicizia; ora invece la vita è diventata molto più aggressiva, perfino tra fratelli – afferma Erion -. Tutta colpa di quelli venuti dal nord, che hanno portato qui certe loro usanze, come le “vendette del sangue”; a volte si uccidono per una parolaccia, per una piccola contraddizione. Quelli sono molto più selvaggi, noi siamo più dolci; quando li vedo io dico loro: perché andate a sfondare delle porte che non vi portano da nessuna parte?».
Nella sua critica a quelli del nord, Erion continua: «Sono arrivati soprattutto tra il ’90 e il ’97 e hanno occupato metà delle fabbriche di Kombinat, facendone case e casupole; quelli venuti da altre parti, invece, non sono andati a vivere nell’area delle fabbriche, ma hanno comprato casa o hanno trovato altre sistemazioni. Nessuno li emargina, sono loro che si tengono in disparte».
Se deve portare qualcuno a sud di notte ci va volentieri, ma prima di andare al nord ci pensa due volte. E sottolinea ancora la differenza tra sé e i nuovi arrivati: «Questi katundar (dispregiativo per indicare gente di campagna ndr) sono venuti qui e hanno comprato del terreno ma non lo lavorano. Dopo 30 anni di lavoro io non ho la pensione e non mi hanno ancora restituito i terreni, per cui devo fare il tassista pirata».
Secondo lui, a Kombinat la situazione non è allarmante: la notte si può uscire tranquilli; ma al tempo del regime bastavano tre poliziotti per «tenere in pugno Kombinat»; ora di poliziotti ce ne sono tanti, ma non c’è ordine.

Paolo Rossi




Ben tornata, Arabia felix

Premessa

Fino a 40 anni fa la costa araba che si affacciava sul Golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comune denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 kmq di deserto che per 1.318 km si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore.
Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi; così, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, sarebbero potute sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai, Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti; Ras al-Khaymah decise di unirsi al progetto l’anno seguente. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada.
Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile, soprattutto dopo il conflitto dello Yom Kippur, quando gli stati arabi decisero di utilizzare il petrolio come arma contro i paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato «l’oro nero», i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari.
Identico fenomeno è avvenuto nel resto della penisola arabica. In grandissima parte desertica, con una popolazione composta in maggioranza da tribù beduine nomadi o semi-nomadi e con una struttura sociale di tipo tribale e feudale, questa regione era rimasta per secoli ai margini della scena mondiale, fino a una cinquantina di anni fa, quando in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del petrolio è ritornata ad essere l’Arabia Felix di cui favoleggiavano gli antichi romani. Da sola, l’Arabia Saudita possiede il 24% delle riserve petrolifere mondiali; estrae ogni giorno 35 milioni di barili di petrolio, esporta greggio per migliaia di miliardi di dollari, con un surplus finanziario di centinaia di miliardi da investire in patria e all’estero.
In un paio di generazioni, la Penisola è passata dalla tenda al grattacielo: oggi, più del 95% della popolazione è sedentarizzato; ma sotto l’aspetto sociale mantiene un piede nel Medio Evo e con l’altro cerca uno stabile appoggio nel XXI secolo.
Il boom petrolifero sta cambiando la vita di queste popolazioni sia sotto l’aspetto economico che sociale, promuovendo fermenti di democratizzazione, riforme del sistema scolastico e perfino la ricerca di riforme costituzionali. Per spingere nell’era modea il piede rimasto indietro, re, emiri, sultani dei paesi che costituiscono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati, Qatar e Oman) moltiplicano le infrastrutture in settori economici e sociali: raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, strade, telecomunicazioni, scuole, università, edilizia, turismo, finanza… a volte con progetti avveniristici e spettacolari nelle città capitali. Perfino il deserto sta fiorendo, almeno nelle città.
Tali progetti, insieme a quelli specifici dell’industria petrolifera, hanno obbligato questi paesi a importare cervelli e manodopera dall’estero: sono migliaia di contractor stranieri e milioni di lavoratori provenienti dall’Asia, da altri paesi arabi, alcuni dall’Africa.
Si calcola che tra questi immigrati ci siano oltre 4 milioni di cristiani, 3 dei quali cattolici. «È curioso che, mentre in Europa arrivano immigrati musulmani, nella penisola arabica, culla dell’islam, dopo secoli di assenza sono tornati tanti cristiani, più numerosi che nel resto del Medio Oriente» afferma mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale.

Il cristianesimo arrivò nella penisola arabica cinque secoli prima dell’islam, quando i missionari persiani cominciarono a spargere il seme del vangelo lungo la costa del Golfo Persico, fondando le prime comunità cristiane nel Kuwait; in seguito l’evangelizzazione avanzò sempre più verso sud, come testimoniano resti di chiese in vari luoghi delle coste del Golfo. Già nel III secolo esisteva un’eparchia (diocesi) nelle isole Barhein; a partire dal IV secolo tutta l’area appariva come centro principale della Chiesa orientale, la cui influenza si estendeva fino alle coste più meridionali e alle numerose isole del Golfo.
Con la nascita, l’espansione e la dominazione dell’islam, il cristianesimo fu praticamente spazzato via da tutta la penisola, per ritornare timidamente 12 secoli dopo Maometto, nel 1841, quando i Servi di Maria aprirono una missione ad Aden e, superate molte difficoltà iniziali, estesero la loro azione nello Yemen e nel Somaliland. Nel 1888 la missione fu staccata dal vicariato apostolico dei Galla (Etiopia) per ricavae il vicariato apostolico di Aden, ribattezzato l’anno seguente come vicariato apostolico d’Arabia, che fu poi affidato ai cappuccini di Firenze (1916). Nel 1973 la sede del vicariato fu trasferita dallo Yemen ad Abu Dabi negli Emirati Arabi. Nel 1953 una porzione dell’immenso territorio fu staccato per creare la prefettura apostolica del Kuwait, elevata l’anno seguente a vicariato.
Per equilibrare l’estensione tra i due vicariati, un decreto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in vigore dal 31 maggio 2011, ha stabilito una nuova organizzazione territoriale e la modifica dei titoli: la giurisdizione su Bahrein, Qatar e Arabia Saudita è passata al vicariato del Kuwait, che ha preso il nome di «Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale», sotto la guida del vescovo comboniano mons. Camillo Ballin; Emirati Arabi, Oman e Yemen sono diventati «Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale», sotto la giurisdizione del cappuccino svizzero mons. Paul Hinder. Entrambi i vicariati sono stati affidati all’ordine dei frati minori cappuccini.

    Piergiorgio Pescali e  Benedetto Bellesi     

Piergiorgio Pescali e Benedetto Bellesi




La chiesa cresce nella culla dell’islam

Discepoli di Cristo nella terra di Maometto

Mentre in Medio Oriente si assiste all’esodo dei cristiani, nella Penisola Arabica il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta, formando una chiesa giovane, vivace, ma «pellegrina», povera di strutture e soprattutto a libertà vigilata.

«Quando nel 2003 fui nominato vicario apostolico d’Arabia, che allora copriva 6 paesi (Emirati Arabi, Oman, Yemen, Arabia Saudita, Bahrein e Qatar), il vescovo di Münster in Germania, mio amico, mi scrisse una lettera di congratulazioni, aggiungendo: “Ma non so cosa vai a fare in Arabia, perché non ci sono cristiani”. Gli risposi subito che avevo forse più cattolici di lui». Inizia così, sorridendo, mons. Paul Hinder, alla richiesta di tracciare un quadro generale della chiesa cattolica nella Penisola arabica. «Non esistono cifre ufficiali, ma dalle stime fatte sulla base delle indicazioni delle ambasciate in loco, si calcola che nei due vicariati ci sono oltre 4 milioni di cristiani, tre quarti dei quali cattolici».

Puramente pellegrina
Facciamo i calcoli, anche se rimangono approssimativi. Con circa 1 milione e 400 mila immigrati filippini, per l’85% cattolici, e altrettanti indiani, è plausibile che in Arabia Saudita il numero dei soli cattolici si avvicini a due milioni. Negli Emirati Arabi, secondo gli ultimi dati, ci sono circa 6 milioni di abitanti, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di tali immigrati professa l’islam (circa 3,2 milioni), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero di cristiani è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e proviene da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Analoga situazione si riscontra in Kuwait, la cui popolazione è formata da un milione di cittadini e due milioni di stranieri; di questi immigrati circa 500 mila sono i cristiani, tra i quali i cattolici sono 350 mila (320 mila di rito latino e 30 mila di rito orientale).
«Prima di tutto la nostra è una chiesa puramente pellegrina – continua mons. Hinder -. Siamo tutti stranieri; non ci sono cittadini cristiani, salvo qualche sparuta eccezione in Yemen e Kuwait. Siamo tutti a tempo: anche noi, vescovi, preti e suore, tutti dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno, che non sarà mai un permesso permanente».
Si può dire che la prosperità dei paesi del Golfo è resa possibile dagli stranieri, gente molto attiva, ma a volte molto povera: moltissime donne e moltissimi uomini vivono con il minimo, spesso trattati come schiavi. Le condizioni per la loro presenza in questi paesi sono molto chiare: devono avere un visto debitamente ottenuto, che sarà sempre temporaneo; nessuno straniero può accedere alla cittadinanza araba, né possedere terre o immobili; nessuno sciopero è permesso né reclamare in pubblico; non esiste alcuna sicurezza sociale né tutte le facilitazioni per salute, studio, abitazione… godute dai cittadini arabi. Ogni infrazione legale causa l’espulsione immediata. Gli immigrati sono utilizzati secondo le necessità del paese. «I nostri fedeli – spiega mons. Camillo Ballin, vescovo del Kuwait e ora vicario apostolico dell’Arabia settentrionale – sanno che nessun paese del Golfo sarà la loro nuova patria; vi possono restare finché́ hanno un visto di lavoro; quando il lavoro verrà a mancare o arriverà l’età della pensione, dovranno tornare al proprio paese o cercarsi un’altra nazione, di solito gli Stati Uniti». 

Evviva… la babele
Quella d’Arabia è una Chiesa molto viva, formata a volte da realtà piccolissime e in situazioni d’insicurezza, come quelle presenti nello Yemen, altre volte da parrocchie mastodontiche, come quella di Saint Mary a Dubai, con 200 mila fedeli, dove ogni settimana si distribuiscono più di 50 mila comunioni. Ad Abu Dabi dal venerdì alla domenica si susseguono decine di migliaia di fedeli in una dozzina di messe.
La pratica per molti cattolici rimane difficile, prima di tutto a causa delle distanze; ma anche dove ci sono luoghi di culto, essa si riduce spesso a Natale e Pasqua, perché in molti casi i padroni musulmani non danno il permesso di recarsi in chiesa in modo regolare, specialmente se si tratta di domestiche.
«Se tutti venissero in chiesa non sapremmo come accoglierli  – spiega mons. Ballin -. Il problema dello spazio è enorme in tutti gli stati del Golfo. In Kuwait abbiamo solo due chiese e due cappelle per oltre 300 mila fedeli. La cattedrale è stata costruita 50 anni fa per 700 persone, ma ad ogni messa ne abbiamo almeno mille. Una situazione che molti parroci europei, le cui chiese sono spesso semi vuote, invidierebbero; ci vorrebbe il miracolo di Loreto: un volo di qualche cattedrale europea dalle parti del Golfo» conclude il vescovo sorridendo.
«Siamo una realtà piccola, ma molto variegata, che, nonostante la sua piccolezza, riflette tutta la ricchezza spirituale della Chiesa cattolica» continua mons. Ballin. I fedeli sono diversi per nazionalità e cultura: indiani, filippini, bengalesi, singalesi, pakistani, coreani, egiziani, etiopi, arabi mediorientali, europei, americani… Alle differenze nazionali si aggiunge la diversità dei riti e delle lingue: rito latino,̀ celebrato in inglese, konkani, tagallog, tamil, singalese, bengali, oltre a francese, italiano, polacco e arabo; riti siro-malabarico e siro-malankara, officiati in lingua malayalam; riti maronita e copto celebrati in arabo, con parti rispettivamente in siriaco e in copto.
Si possono immaginare le difficoltà provocate da una babele del genere, soprattutto quando si tratta di programmare le varie cerimonie e fissare spazi e tempi in cui le differenti comunità possono riunirsi. Ne è un esempio la veglia pasquale in Kuwait: alle 19 comincia la celebrazione in lingua konkani; alle 21 inizia la veglia in inglese presieduta dal vescovo, che deve finire entro le 23, per dare spazio alla veglia in arabo, che a sua volta deve terminare entro le 24.30, quando comincia quella di rito maronita. E sono tutte affollatissime con migliaia di persone.
«Dal punto di vista logistico il problema di far quadrare il cerchio si presenta anche durante l’anno – continua mons. Ballin -. Ma i miei preti sono abilissimi al riguardo». Per accontentare tutti, per quanto è possibile, le celebrazioni domenicali si fanno in contemporanea: cioè,̀ mentre un sacerdote celebra in cattedrale, altri preti celebrano in altre lingue o riti nei grandi saloni al pianterreno, nel sotterraneo e al primo piano. In certi periodi, come Natale, Settimana Santa, Pasqua, primo e ultimo giorno dell’anno e alcune feste della Madonna, è del tutto normale celebrare una ventina di messe al giorno. Un altro esempio è la veglia nottua tenuta ogni terzo giovedì del mese, dalle 10 di sera alle 6 del mattino seguente: vi partecipano sempre oltre mille persone, dall’inizio alla fine.
«Abbiamo fedeli ferventi e molto praticanti, che sono una grande consolazione per noi pastori – conclude il vescovo Ballin -. Non hanno altri appoggi se non nel Signore. Molti di loro sono soli: per portare la famiglia devono avere un salario mensile di almeno mille dollari. Tale solitudine è̀ molto sentita soprattutto nelle grandi feste».

Libertà… vigilata
La maggior parte dei fedeli che compongono la chiesa d’Arabia sono giovani, animati quindi di entusiasmo e voglia di impegnarsi tipica della loro età; ma deve fare i conti con una libertà religiosa molto limitata. La libertà di coscienza non esiste affatto o è a senso unico, cioè, un cristiano può farsi musulmano, ma un musulmano non può farsi cristiano.
Sulla libertà di culto bisogna fare notevoli distinzioni, a cominciare dai luoghi di culto. Re e sceicchi dei paesi del Golfo (Arabia Saudita esclusa) si sono dimostrati comprensivi nel permettere edifici per il culto, almeno uno in ogni loro stato; ma non più di una per città, come avviene negli Emirati Arabi. Non esiste alcun contratto stabile sulla proprietà e sull’uso degli edifici, scuole e chiese: tutto funziona finché persiste il benvolere del monarca. Poiché lo straniero non può possedere niente in questi paesi, anche il suolo dove si trovano le chiese è dato in affitto dal governo, che può richiederlo indietro in qualsiasi momento per costruirvi una strada, una piazza o altra struttura di comune vantaggio.
Generalmente non è permesso alcun segno esterno che possa far notare la presenza cristiana, come croci e campanili, suono di campane o altoparlanti; ogni chiesa è spesso affiancata da una o più moschee dalle dimensioni imponenti e con vistosi e altisonanti mezzi di presenza, anche quando i praticanti sono scarsi.
All’interno dei luoghi concessi alla chiesa c’è totale libertà di culto; si possono svolgere tutti i riti e cerimonie che si vogliono; ma tutto deve rimanere dentro le mura di cinta del complesso parrocchiale; nulla deve apparire all’esterno. La polizia vigila; ma lascia fare. Generalmente non si ha l’impressione di essere controllati. «Anche nelle mie prediche sono libero – afferma mons. Hinder -. Sono più libero del mio vicino imam, che il venerdì deve usare il testo ufficiale fornito dal ministero degli affari religiosi o un suo testo sottoposto all’approvazione dello stesso ministero. A me e ai nostri preti ciò non è richiesto. Abbiamo quindi una certa libertà negli Emirati, sultanato di Oman, Qatar e Bahrein».
«Forse il nostro lavoro sembra ristretto al ruolo liturgico – continua mons. Ballin -. Non ci è possibile avere alcun ruolo sociale, tanto meno prendere posizioni o fare dichiarazioni in difesa dei diritti negati a qualsiasi cattolico. Ma non ci accontentiamo delle grandi folle; pensiamo anche a quelli che per vari motivi e condizioni non possono venire a celebrare con gli altri o credono di non avee bisogno e cerchiamo di aiutarli a essere veramente cristiani nel mare magnum musulmano».
E questa è un’altra sfida della Chiesa in terra arabica: molti cattolici confessano di sentirsi più cristiani di quanto non lo fossero in patria; vivere immersi nel mondo islamico li rende autenticamente testimoni di Cristo e responsabili nel dimostrare che il cristianesimo non si identifica con lo stile di vita che va per la maggiore in Occidente.

Nella culla di Maometto
L’Arabia Saudita «in fatto di libertà è molto in ritardo a causa del sistema politico-religioso dello stato – spiega benignamente mons. Hinder -. Il re attuale, il quasi novantenne Abdallah Ibn Abd el Aziz, è impegnato a introdurre lentamente certe riforme, ma non sappiamo se continuerà su questa strada, sia per le enormi resistenze della società saudita, sia per l’incertezza della sua successione. Ma non entro nei dettagli, poiché si tratta di un argomento delicato e non voglio mettere a rischio quel poco che possiamo fare. Spero che passo passo, con discrezione, possiamo migliorare la situazione».
Non è un mistero per alcuno che nel regno saudita i diritti umani sono calpestati, quello della libertà religiosa e di coscienza non esiste affatto. L’unica religione ammessa è l’islam, nella sua versione giuridico-teologica del fondamentalismo wahhabita. In base a una rigorosa prescrizione coranica, la patria di Maometto è suolo sacro e non può esservi tollerato alcun altro culto all’infuori dell’islam. Agli inizi tale sacralità era ristretta alla Mecca e Medina; ma il secondo califfo (634-644) la estese a tutta la penisola.
In base a tale principio è proibito qualsiasi esercizio e segno religioso, chiesa o luogo di culto anche per le cosiddette religioni del libro, ebraismo e cristianesimo, tollerate nel resto del mondo musulmano. È vietato a tutti, anche a visitatori, avere con sé libri religiosi e bibbie, indossare o esporre simboli religiosi, come crocifissi e rosari. Non parliamo di conversione dall’islam al cristianesimo, considerata apostasia, punita con la morte, anche se da tempo non si hanno notizie di esecuzioni per tale reato.
In barba a tale proibizione, nella culla dell’islam, il numero dei cristiani, e quindi dei cattolici, è più alto che in tutto il Medio Oriente. Sono gruppi diversi per riti, lingua e nazione, provenienti dall’Asia, ma anche dall’Africa, Etiopia ed Eritrea soprattutto, che si organizzano anche clandestinamente.
Il governo tollera la loro presenza, finché rimane discreta e occulta. Una tolleranza ufficiosa che permette ai cristiani stranieri di praticare la propria fede «in privato», ma «senza disturbare gli altri». Ma poiché non è ben definito cosa significhi «in privato»,  negli anni più recenti si sono avuti non pochi soprusi da parte della muttawa, la polizia religiosa, che ha potere di perquisire le abitazioni dei cristiani, requisire crocifissi, bibbie, icone, rosari o altri oggetti e simboli religiosi, fino ad arrestare i cristiani sorpresi a pregare.
È pur vero che da quando sul trono saudita siede Abdallah Ibn Abd el Aziz (2005), è diminuito il numero di arresti di cristiani: il sovrano ha limitato i poteri della muttawa. Anzi, il monarca sembra diventato un campione di dialogo interreligioso, promuovendo incontri interconfessionali e interreligiosi. Il 7 novembre 2007 ha fatto visita al papa Benedetto XVI: l’incontro tra il monarca saudita, «custode delle due sante moschee» (Mecca e Medina), e il capo dei cattolici di tutto il mondo è stato definito «storico» dalla stampa araba e ha acceso la speranza di qualche spiraglio di libertà religiosa nel regno saudita, ma per ora ogni speranza rimane nel cassetto. 

Una protesta non fa primavera
La cosiddetta «primavera araba», l’ondata di proteste scoppiata nel Nord Africa, ha portato lo Yemen sull’orlo di una guerra civile, sconvolto il Bahrein e lambito altri paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Oman, che si sono affrettati a promettere qualche riforma politica, economica e sociale; il resto della penisola è rimasta molto calma. Tuttavia il vento della rivolta araba ha provocato tra i cristiani del Golfo «grande preoccupazione per il loro futuro – afferma mons. Ballin -. Temono di perdere il lavoro e di essere rimpatriati nei paesi di provenienza. L’instabilità politica li spaventa e in nessun modo hanno preso parte alle proteste».
«Non sono profeta – sorride mons. Hinder – ma credo che anche nel mondo arabo-musulmano del Vicino Oriente si stiano facendo passi avanti. Tuttavia dobbiamo sempre tenere presente che in ambito di libertà e diritti umani lo sviluppo non sarà lineare, si possono avere due passi avanti e uno indietro; a volte uno avanti e due indietro».
Nulla di nuovo in vista per quanto riguarda la libertà religiosa. I rapporti tra gerarchia cattolica e governanti, a parte l’Arabia Saudita, sono sempre cordiali. Il problema sorge nel passaggio ai fatti: quando si chiede un nuovo spazio o permessi per costruire, per aprire una nuova scuola o rinnovae una già esistente… ai livelli superiori di governo dicono di sì, ma a quelli più bassi gli ostacoli si moltiplicano e sono insuperabili, sia perché le amministrazioni sono spesso in mano a fondamentalisti, sia perché di fronte a qualsiasi evento, anche piccolo, sorgono subito sospetti di proselitismo, anche se nessuno dei preti cattolici si sogna di convertire un musulmano, col rischio di espulsione o chiusura delle loro opere. Al contrario, quando qualcuno, cristiano o di altra religione, si converte all’islam la notizia viene sbandierata con tutti i mezzi di comunicazione.
E tutto questo in barba alla reciprocità invocata in Occidente, quando, concedendo permessi di costruire moschee si chiede che anche nelle regioni a maggioranza islamica sia possibile costruire chiese o comunque sia garantita la libertà di cambiare religione. «È bene che ne parlino i capi di stato quando vengono in visita nei paesi cristiani – afferma mons. Hinder -; ma più che parlare di reciprocità, è importante insistere sul rispetto della libertà di culto e di religione. Inoltre è importante il modo con cui si dicono le cose, si pongono i problemi, senza umiliare i paesi arabi, i nostri interlocutori. E questo vale per tutti gli ambiti: ci troviamo di fronte a persone che sono orgogliose, che non vogliono essere accusate, che non ammettono di essere umiliate».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Paradiso «artificiale»

Reportage da Dubai: grattacieli nel deserto

Dalla pesca e coltivazione di perle al boom del petrolio, Dubai è uno specchio della penisola Arabica: un miscuglio di ambizioni e contraddizioni, megalomanie e sfruttamento umano, tradizionalismo islamico e modeità, tolleranza religiosa e umori di rivolta… ma affari e finanza mettono tutto e tutti d’accordo.

Fu il veneziano Gaspero Balbi, nel 1580, il primo a nominare nel suo diario l’industria perlifera che fioriva lungo le coste di Dubai. Nei mercati di Venezia le perle di Dibei erano tra le mercanzie più ambite dalla nobiltà e le piccole sferette di madreperla rimasero l’unica risorsa del porto arabo fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’industria delle perle artificiali indusse il governatore del regno, lo sceicco Saeed bin Hasher al Maktoum e in particolare il suo successore Rashid bin Saeed al Maktoum, a cercare altre forme di sviluppo.
Dapprima fu l’ampliamento del porto di Dubai, nel 1963, ad attirare i primi investimenti. Grazie alla favorevole posizione geografica, a pochi chilometri dalle coste iraniane, e alla presenza di numerosi commercianti indiani, la città diventò il principale centro di scambio dell’oro nel Medio Oriente. «Ancora oggi il Gold Souk è una delle attrazioni turistiche e commerciali più visitate di Dubai, ma pochi sanno che proprio da queste stradine si è costruita l’immensa ricchezza della metropoli» spiega Praful Soni, proprietario della Shyam Jewellers, una delle più antiche oreficerie della città.

Risorse diversificate
Ma gli ambiziosi piani della famiglia Maktoum non avrebbero potuto realizzarsi senza lo sfruttamento di quello che è stato il vero propellente dello sviluppo del piccolo regno arabo: il petrolio. La scoperta alla metà degli anni Sessanta dei primi giacimenti, ha permesso lo sviluppo di una fiorente industria, consentendo a Dubai di prevalere sull’eterna rivale Abu Dhabi, capitale politica degli Emirati Arabi Uniti.
Una prosperità che sarebbe effimera, quella di Dubai, visto che gli esperti prevedono che già nel 2025 le viscere dello sceiccato si prosciugheranno. «La ricchezza petrolifera degli Emirati è sempre stata monopolizzata da Abu Dhabi – mi dice Hisham Abdullah Al Shirawi, vice presidente della Camera di commercio di Dubai – ma Dubai ha saputo diversificare in tempo le proprie risorse, mantenendo una supremazia economica e culturale riconosciuta da tutto il mondo».
L’attuale governatore di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, ha saputo anticipare gli eventi sino a ridurre al 6% i ricavi economici derivanti dall’export petrolifero (contro il 25% dell’intera nazione) trasformando la città in una sorta di calamita per gli investimenti stranieri. Chi arriva qui, aspettandosi di trovare pozzi petroliferi, raffinerie e le tipiche fiamme che illuminano la notte delle desolate lande del deserto, rimane deluso. Dubai si è trasformata in un centro finanziario mondiale e la città è il punto nevralgico non solo della nazione, ma dell’intero Medio Oriente. Nel suo immenso aeroporto, il quarto del pianeta, transitano 60 milioni di passeggeri all’anno trasportati da 150 compagnie che collegano 220 destinazioni, mentre nelle 49 banchine del porto di Dubai i 30.000 lavoratori smistano annualmente 12 milioni di Teu (l’unità di misura standard nel trasporto dei container; un container da 6,1 metri corrisponde a 1 Teu, ndr). Il Pil, pari a 50 miliardi di euro, è garantito per il 22,6% dagli investimenti immobiliari, per il 16% dal commercio e per l’11% dai servizi finanziari.

Crisi e sorpasso di Abu dhabi
Ma Dubai è ancora febbricitante: il ricordo della crisi che ha colpito la finanza, ma ancora più duramente l’orgoglio di tutti gli Emirati, è una ferita ancora aperta. Già, la «crisi del debito di Dubai». Così è stata chiamata dal mondo finanziario la più grave congiuntura che ha colpito la monarchia islamica in tutta la sua storia, rischiando di far crollare l’impero creato dalla famiglia Al Maktoum.
Il 29 novembre 2009 il colosso Dubai World, il principale conglomerato imprenditoriale dell’Emirato controllato dalla casa regnante, aveva annunciato di non essere in grado di far fronte al pagamento di 26 miliardi di dollari di debiti, di cui 4 miliardi di sukuk, i bond islamici, i più importanti di tutto il mondo musulmano. Senza finanziamenti, il giorniello del Dubai, il Dubai Burj (torre), il più alto grattacielo al mondo, oramai quasi ultimato, avrebbe rischiato di rimanere un immenso cantiere aperto, e la sua guglia incompiuta a 828 metri di altezza si sarebbe trasformata in un chiodo arrugginito piantato nel centro della città a simboleggiare il fallimento della sua economia.
A soccorrere Dubai è intervenuta però l’eterna rivale Abu Dhabi, con un prestito di 10 miliardi di dollari che ha permesso di terminare la costruzione del Dubai Burj, stranamente (ma non troppo) ribattezzato, a pochi giorni dall’inaugurazione (4-1-2010), Burj al-Khalifa (Torre del Califfo), un omaggio, neppure troppo celato, a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, presidente degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e sceicco di Abu Dhabi. Insomma, uno schiaffo alla famiglia Al Maktoum che molti analisti hanno interpretato come una volontà di ridistribuzione di poteri all’interno dell’Emirato. Abu Dhabi, infatti, pur essendo la capitale politica dello stato, è sempre stata economicamente in secondo piano rispetto a Dubai. Christopher Davidson, professore di politica del Medio Oriente alla Durham University, asserisce che «la crisi del 2009 ha fatto perdere a Dubai l’autonomia che, de facto, aveva da 170 anni. Ora è Abu Dhabi l’emirato emergente ed è chiaro che la capitale degli Eau sta cercando di dare un’impronta più centralizzata e meno autonomista all’intera nazione».
Approfittando della crisi finanziaria, Abu Dhabi ha iniziato la sua ascesa economica in competizione con Dubai. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi, la Etihad, sta togliendo importanti fette di mercato alla Emirates Airlines; la capitale si è aggiudicata lo svolgimento del Gran Premio di Formula 1 ed ha costruito il Ferrari World, l’unico parco a tema al mondo dedicato alla scuderia di Maranello. Nei prossimi anni verranno inaugurati musei come il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim, mentre l’aeroporto, che oggi ospita 12 milioni di passeggeri all’anno, sta per essere ampliato in modo da garantie il transito di 40 milioni. Infine, dulcis in fundo, durante la visita della regina Elisabetta d’Inghilterra nel novembre 2010, lo sceicco di Abu Dhabi ha ufficialmente varato il suo programma nucleare che vede accordi con Stati Uniti, Corea del sud, Francia e Gran Bretagna e la costruzione di 4 reattori entro il 2020.

Uno stop alla megalomania
Insomma, viene da chiedersi se la prospettiva proposta nel 2007 da Sheikh Mohammad bin Rashid Al Maktoum, di trasformare Dubai in «una città araba di importanza globale che rivaleggi storicamente con Cordoba e Baghdad» si sia arenata.
«Non è facile rispondere a questa domanda» afferma Stephanie Fisher, consulente dell’American Business Council di Dubai; «governo e ditte private non rilasciano dichiarazioni facilmente ed è quindi obiettivamente difficile capire come stia andando l’economia dell’Emirato».
Comunque è chiaro che la megalomania araba si è alquanto ridimensionata. Basta andare a fare un giro con la sofisticata linea della metropolitana, costata più di 4 miliardi di dollari, per accorgersi che numerosi cantieri sono ancora fermi e che tra una zona e l’altra, vi sono chilometri di «nulla»: aree di sabbia da anni precettate dai conglomerati finanziari e su cui, in attesa di tempi migliori, sorgeranno futuristici parchi, campi da golf, hotel, parchi tematici, grattacieli, centri commerciali. «Sulla carta ci sono progetti per quasi 500 miliardi di dollari, ma molti sono stati sospesi per mancanza di liquidità» mi dice Ahmad Othman, dell’Ufficio Comunicazioni della Hsbc, una delle maggiori agenzie finanziarie e bancarie del mondo.
Delle famose isole artificiali, tutte progettate e costruite dalla Nakheel, appartenente, manco a dirlo, alla famiglia reale, solo una, The Palm Jumeirah, è stata quasi ultimata. Gli altri progetti, compresi i tanto reclamizzati The World Islands, The Universe, Palm Deira e Dubai Waterfront, sono stati interrotti o la data di completamento procrastinata sine die.
Naturalmente i grandi gruppi finanziari e i governanti ostentano fiducia: «Dopo la grande crisi che ci ha colpito nel 2009 e nel 2010, il Pil di Dubai crescerà del 4,6% nel 2011, dimostrando a tutto il mondo la solidità della nostra economia e l’abilità dei nostri governanti» sentenzia Hamad Buamin, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Dubai.

Gli immigrati
Il suo ottimismo, però, crolla di fronte alle critiche di Saabir, immigrato pakistano che abita nel quartiere di Deira: «È naturale che il Pil di Dubai aumenterà del 4,6% nel 2011, visto che il governo ha aumentato del 15% acqua ed elettricità, del 33% la benzina e del 40% i biglietti dei servizi pubblici! Come sempre, l’emirato si arricchisce a spese degli immigrati!».
Saabir ha il dente avvelenato nei confronti degli arabi. E non a torto. Dei 2,3 milioni di abitanti di Dubai, solo il 17% sono cittadini dell’Emirato, il restante 83% sono immigrati, la maggioranza dei quali svolge lavori di manovalanza. Il 42% sono indiani, il 13% pakistani, l’8% bengalesi, il 2,5% filippini. Gli immigrati «di lusso», europei e nordamericani, sono solo 1,2% della popolazione cittadina, ma, assieme agli arabi, detengono tutti i posti di comando della finanza e dell’economia. Sono loro che vivono nella fantasmagorica Dubai, quella dei grattacieli, alberghi mozzafiato, centri commerciali più grandi al mondo.
Nell’albergo dove alloggio, il Movenpick Jumeirah, il personale si dice soddisfatto del trattamento: «La direzione e il management sono attenti alle nostre esigenze e la paga è estremamente alta, se comparata con quella dei nostri colleghi in Europa» spiega una ragazza della reception. La stessa soddisfazione la riscontro tra le cameriere della sala della colazione.
Ma so che questa è solo una fortunata minoranza: la maggioranza degli altri stranieri vive in condizioni di semischiavitù. Orari di lavoro impossibili, stipendi inadeguati, ammortizzatori sociali inesistenti, case fatiscenti sono facili micce per proteste. Le più eclatanti sono state quelle che hanno interessato la convulsa costruzione del Burj Khalifa quando, nel marzo 2006 e novembre 2007, 2.500 lavoratori protestarono chiedendo condizioni di vita migliori e paghe più adeguate. Il Ministero del Lavoro rispose facendo intervenire la polizia e minacciando i manifestanti di deportazioni in massa nei loro paesi d’origine.
Samer Muscati, ricercatore dell’Human Rights Watch (Hrw), mi descrive una situazione disastrosa: «I lavoratori stranieri impiegati in ditte edili vengono pagati tra i 100 e i 250 euro al mese per lavorare 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Molto spesso le compagnie che assoldano gli operai sequestrano loro i passaporti per ricattarli, obbligandoli a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza. I sindacati sono inesistenti; chi solo cerca di organizzare un’associazione che tuteli i diritti dei lavoratori viene immediatamente espulso».
Fuori dal Burj Khalifa, incontro Ravi, un lavoratore indiano. È la sua pausa pranzo e ci sediamo all’ombra dei luccicanti vetri che ricoprono la facciata del grattacielo: «L’Arabtec, la ditta che ha costruito il Burj Khalifa, ci alloggiava in una cinquantina di campi lavoro sparsi attorno a Dubai, lontano dagli occhi dei turisti. A loro si deve far vedere il paradiso». Vedere questa povertà assoluta, infatti, rischierebbe di smantellare il mito di Dubai come una sorta di Disneyland araba.
Eppure lo sceiccato di Dubai è stato il primo nella storia a denunciare la tratta degli schiavi nel 1820, quando con il governo di Sua Maestà siglò il «General Maritime Peace Treaty».

il paradiso che non c’è
Con un gruppo della Caritas visito uno di questi quartieri e mi ritrovo in una fogna a cielo aperto: sporcizia ovunque, case fatiscenti dove in pochi metri quadrati alloggiano anche 20 persone in un’atmosfera di promiscuità assoluta. Le latrine sono perennemente intasate e d’estate, con 50 gradi, l’odore è nauseabondo; una sorta di cappa infeale che rende la vita impossibile. L’acqua, bene prezioso per una città come Dubai, viene spesso razionata per permettere il continuo rifoimento negli alberghi e nelle zone commerciali. Il solo sistema di condizionamento del Burj Khalifa equivale allo scioglimento di 12.500 tonnellate di ghiaccio; mantenere il green del campo da golf Tiger Woods richiede 18 milioni di litri di acqua al giorno, nel centro commerciale Mall of the Emirates c’è una pista da sci da 500 metri con impianti di risalita, uno chalet svizzero e una temperatura costantemente mantenuta tra i 4 e i 10 gradi sotto lo zero, mentre il grandioso e lussuoso complesso Atlantis, oltre ad avere un parco acquatico con 40 milioni di litri di acqua, vanta un hotel letteralmente immerso in un acquario, dove gli ospiti hanno l’impressione di dormire, mangiare e farsi la tornilette tra squali, ceie, murene. Il paradiso descritto da Ravi. Ma non c’è posto per tutti in questo paradiso e Ravi, come molti altri suoi colleghi, che questo paradiso lo hanno costruito, sono costretti a vivere nell’inferno.
La condizione delle collaboratrici domestiche è ancora peggiore: segregate nelle lussuose ville dei loro padroni, sono spesso oggetto di abusi sessuali. Un sondaggio condotto dall’Hrw nel gennaio 2010, ha evidenziato il terrore della componente femminile nel denunciare eventuali soprusi commessi a loro danno. Il 55% delle donne, infatti, ha ammesso che non contesterebbe alcun abuso sessuale per paura di ritorsioni delle famiglie ospitanti. Del resto non c’è da stupirsi di tanta omertà, visto che la corte di giustizia è sottomessa alla famiglia reale, tanto da assolvere dall’accusa di tortura Sheikh Issa bin Zayed al Nahyan, figlio del precedente presidente degli Emirati, nonostante un video lo inchiodasse. Il motivo dell’assoluzione? Lo sceicco sarebbe stato vittima di una cospirazione.

Islam differente
Passeggiando lungo la Jumeirah Beach, la spiaggia pubblica all’ombra del Burj Al Arab, davanti all’hotel più lussuoso del mondo, dove il costo di una stanza va da mille a 28 mila dollari a notte, vedo giovani arabi d’ambo i sessi bagnarsi nelle stesse acque e prendere il sole in bikini. «Ciò accade solo a Dubai – mi avverte mons. Paul Hinder, vicario apostolico del Sud Arabia -. Ad Abu Dhabi, ad esempio, le spiagge sono ancora separate secondo l’usanza islamica».
A Dubai incontro un islam completamente differente da quello conosciuto in altri paesi. «Questo è il vero islam» mi dice Nasif Kayed, direttore del Centro per la comprensione culturale (Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding, Smccu), rinnegando quanti si arrogano il diritto di affermare nel mondo altre componenti musulmane: dai taleban agli ayatollah, dagli hezbollah ai fratelli musulmani.
Qui tradizione e modeità hanno saputo armonizzarsi tra loro sino a convivere e a trasformarsi a vicenda, per cui l’islam che si respira è assai diverso da quello di altre culture musulmane. Non potrebbe essere altrimenti, in una città che ha fatto della globalizzazione spinta, la sua bandiera. Una islamizzazione radicale avrebbe potuto allontanare imprenditori e finanziatori. Tutti sanno che Dubai è sempre stata la lavanderia dei soldi destinati alla jihad. La famiglia Bin Laden ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la famiglia regnante e lo stesso Osama bin Laden, negli anni passati è stato ricoverato negli attrezzatissimi ospedali dell’Emirato. Il governo degli Eau, del resto, è stato l’unico al mondo, assieme a quelli del Pakistan e Arabia Saudita, a riconoscere l’Afghanistan dei taleban, ma è anche uno dei paesi arabi che mantiene strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti, sino a garantire alle forze statunitensi due basi militari sul suo territorio.
Anche se la costituzione garantisce all’islam il ruolo di religione di stato, a Dubai esistono chiese cristiane, templi hinduisti e sikh, gli hotel inteazionali possono servire alcolici e carne suina.
Ma se l’islam «di stato» può essere tollerante, molti immigrati non accettano questo «inquinamento» di valori: «Dubai si è venduto all’Occidente e ha perso la via indicata dal profeta – mi spiega Khurram, un pakistano di Quetta da cinque mesi arrivato a Dubai -. Noi musulmani non possiamo neppure andare in spiaggia senza vedere donne nude o uomini che bevono birra o alcolici. Dubai non è l’islam e non è un luogo dove vorrei vivere».
Gli fa eco Shamil, anche lui pakistano: «L’islam predica l’unità dei fedeli per combattere gli infedeli, ma qui a Dubai sembra che i nostri fratelli si siano alleati con gli infedeli per combattere i fedeli. Una jihad al contrario».
A Khurram e Shamil risponde senza mezzi termini Nasif Kayed: «Se la pensano così, allora perché vanno in spiaggia? Se non vuoi vedere questa “promiscuità” o gente bere alcolici, non andare in spiaggia né ai bar: sai benissimo che se vai in questi luoghi, troverai queste situazioni».
La sfida religiosa di Dubai è proprio quella di restare in equilibrio su un filo sospeso nel baratro della rivolta religiosa. Da una parte il governo di Al Maktoum deve soddisfare le aperture richieste dall’Occidente, dall’altro non può negare a chi mantiene il «paradiso» la propria religiosità. E allora ecco che una richiesta per una scuola cattolica, rimane ferma da quattro anni sulla scrivania di un ministero.
Il motto del Smccu è «Open doors. Open minds», aprire le porte, aprire le menti, ma è obiettivamente difficile applicare questa massima a una città che fa della finanza e della crescita economica l’unico senso della sua esistenza.
Ma, forse, è proprio questa sfida che Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, principe di Dubai, vuole vincere, come ha scritto in una sua poesia:
«Le notti buie e i difficili giorni;
li accogliamo come ci vengono dati
e non abbiamo timore del futuro.
Camminiamo lungo un sentirnero non ancora battuto
e se la via è difficile, mi diverto maggiormente».

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Amare la patria, amare la chiesa

Premessa

Iniziata con l’espulsione di tutti i missionari stranieri, continuata con la costrizione dei cattolici a formare una chiesa nazionale e con la persecuzione di quelli rimasti fedeli al papa, la storia della Chiesa cattolica in Cina negli ultimi 60 anni è stata segnata dal martirio. All’insegna dello slogan «aiguo; aijiao» (amare la patria o amare la chiesa) i cattolici erano costretti a scegliere: aderire alla Chiesa ufficiale o patriottica oppure entrare in clandestinità per rimanere fedeli alla Chiesa di Roma. Tale storia non è ancora finita, anche se negli ultimi decenni sono avvenuti molti cambiamenti sostanziali nei rapporti tra Cina popolare e Santa Sede.
Il comunismo capitalistico attuale non è più il comunismo di Mao; il Vaticano non è più considerato un «imperialista, nemico della rivoluzione», anche se certi cliché propagandistici sono ancora forti, soprattutto tra gli amministratori più periferici e di vecchio stampo. Nonostante le tante aperture e modeizzazioni del regime negli ultimi decenni, la Cina segna il passo in fatto di diritti umani, di libertà religiosa e di coscienza. Arresti e vessazioni contro clero e fedeli cattolici continuano in vari luoghi e occasioni.
Anche il Vaticano è passato dalla scomunica del comunismo alla Ostpolitik e sta tentando tutte le vie possibili per riallacciare le relazioni diplomatiche con Pechino, fino a chiedere perdono di eventuali errori storici e del colonialismo, come ha fatto Giovanni Paolo II. Ma neppure a Roma mancano contrasti e resistenze tra i fautori del dialogo e i sostenitori della linea dura contro il regime cinese e i suoi emissari.

Più delle persecuzioni estee, a preoccupare il Vaticano è la persistente lacerazione all’interno dei cattolici cinesi. Nonostante tutto, dal punto di vista dottrinale la Chiesa in Cina rimane un’unica Chiesa: fede, tradizione, liturgia sono rimaste intatte in ambo le parti. Propaganda ufficiale a parte, i fedeli non sentono più l’alternativa tra l’amore per la patria e per la Chiesa e il papa, ma vogliono partecipare alla vita e modeizzazione del paese come tutti gli altri cinesi, senza rinunciae alla comunione con il successore di Pietro.
A livello di unità vissuta, invece, le ferite tra cattolici ufficiali e clandestini sono ancora aperte, rancori e risentimenti sono molto vivi, nonostante gli appelli al perdono e alla riconciliazione. In più di cinquanta occasioni Giovanni Paolo II ha espresso pubblicamente il suo affetto nei confronti dei cattolici cinesi. Benedetto XVI il 27 maggio 2007 ha inviato una lettera ampia, precisa e affettuosa, in cui manifesta la sua stima per tutto il popolo cinese e incoraggia i cattolici a perseverare nella fede e a percorrere la strada evangelica della riconciliazione.
Punctum dolens da oltre 60 anni e ostacolo più ingombrante nel cammino dell’unità ecclesiale e della normalizzazione dei rapporti tra Roma e Pechino, inoltre, rimane il problema delle nomine e ordinazioni episcopali, alle quali il Vaticano non può rinunciare, poiché nella teologia cattolica fanno parte della natura della Chiesa, e Pechino non vuole rinunciare, poiché sono uno strumento essenziale per mantenere il controllo sociale sulle attività ecclesiali.
Da alcuni anni si sono avute varie ordinazioni episcopali concordate tra Pechino e Santa Sede. Da parte cinese non si tratta di una «conversione» dei quadri del partito, ma di mero opportunismo: il governo ha constatato che i vescovi eletti e ordinati senza il mandato apostolico rimangono isolati e non hanno autorevolezza sui fedeli, che disertano le chiese da loro guidate e si rifiutano di ricevere i sacramenti dalle loro mani. Molti nuovi vescovi, all’inizio e alla fine della loro consacrazione, ci tengono a sventolare in pubblico la lettera di nomina papale.

Da novembre 2010, purtroppo, sono riprese le ordinazioni di vescovi senza mandato papale, con grande delusione e proteste vaticane, allargando il fossato di ignoranza e diffidenza reciproca e rendendo più ardua la strada del dialogo, di cui entrambi gli interlocutori sentono stringente bisogno.
Per superare tale fossato ed entrare nella Cina, bisogna passare per la porta del cuore e dell’amicizia. La Cina di oggi è diventata «poco comunista», ma continua ad essere «molto cinese», come era quattro secoli fa, ai tempi di Matteo Ricci (1552-1610), il grande missionario gesuita entrato nella corte imperiale grazie al suo delizioso «Trattato sull’amicizia».

Benedetto Bellesi 

Benedetto Bellesi




Mani tese e pugni chiusi

Rapporti tra Santa sede e Cina

Negli ultimi 60 anni, i rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese hanno avuto fasi varie e complesse: ai pronunciamenti critici vaticani verso il costituirsi della Chiesa patriottica, il regime ha risposto con le persecuzioni; ai momenti di mano tesa sono succeduti periodi di irrigidimento e tensione. Continua anche oggi l’altalena di aperture e incomprensioni, rispetto e ripicche, interrogativi e speranze, che rendono sempre più incomprensibile il mondo cinese e la sua politica.

La Chiesa cattolica in Cina era in piena fioritura quando scoppiò la rivoluzione comunista e nacque la Repubblica popolare (1949). Da soli tre anni Pio XII aveva costituito la gerarchia cattolica: circa 3,3 milioni di fedeli erano sparsi in 20 arcidiocesi, 79 diocesi, 38 prefetture apostoliche e una missione sui juris; dei 139 vescovi, 113 erano stranieri e 26 autoctoni, tra cui il card. Tian Gengxin; c’erano 2.700 preti locali e 6.475 missionari stranieri, 2.500 suore straniere e quasi 4 mila indigene. Mons. Antonio Riberi fu il primo a guidare la Nunziatura apostolica a Nanchino, istituita nel 1947.
Erano passati 10 anni da quando Propaganda Fide aveva riconosciuto degni di stima i «riti cinesi» (1939); i cattolici potevano finalmente sentirsi veri cristiani e pienamente cinesi. Non la pensavano allo stesso modo gli esponenti del nuovo regime; la Chiesa appariva loro come una minaccia per la rivoluzione e iniziarono subito a paralizzae l’attività, ricorrendo per 20 anni ai più svariati metodi di repressione: calunnie, intimidazioni, processi popolari, espulsioni, imprigionamento, lavori forzati e anche esecuzioni. E tutto questo a dispetto della conclamata libertà di culto per tutte le confessioni religiose, sancita dal Programma politico comune del 1949 e riaffermata nella Costituzione del 1954. Una vera libertà, secondo gli esponenti del regime, poteva darsi solo in una Chiesa senza legami con organizzazioni straniere e sottomessa al potere dello stato.

Caccia allo straniero
Fin da subito il nuovo regime tronca ogni relazione diplomatica con il Vaticano e lancia una campagna diffamatoria che dipinge i missionari come nemici del popolo e del nuovo corso cinese, chiede ai cittadini cattolici di cessare ogni relazione con «imperialisti» e «reazionari», espressamente indicati nel papa e missionari stranieri, nei sacerdoti e religiosi cinesi che non vogliono rompere con il Vaticano. Nel giro di tre anni i missionari stranieri scendono a 537, mentre da 200 a 300 preti cinesi risultano imprigionati. Al tempo stesso il governo lancia il movimento della «Triplice autonomia»: la Chiesa cinese ha il diritto di essere autonoma da Roma in materia finanziaria, amministrativa e apostolica (evangelizzazione). Al movimento aderisce subito, insieme a vari preti e suore e poche centinaia di fedeli, Li Wei-guang, vicario generale della diocesi di Nanchino. Per questo viene scomunicato nel 1952, ma il provvedimento sarà reso pubblico solo nel 1955, nella speranza di un ravvedimento. Mons. Riberi, nunzio apostolico in Cina, pubblica opuscoli e lettere per difendere la Chiesa dall’accusa di imperialismo, dare ai vescovi istruzioni sul governo delle diocesi e mettere in guardia sull’idea delle tre autonomie. Ma poiché la Santa Sede non riconosce la Repubblica popolare, mons. Riberi è considerato uno straniero qualsiasi, senza alcuna rappresentanza diplomatica; dichiarato «persona non grata», incarcerato (1951) e poi espulso dalla Cina, «con l’accusa di spionaggio e incitamento alla ribellione», il nunzio trasferisce la sede diplomatica a Hong Kong e poi a Taipei (Taiwan), capitale della Cina nazionalista.
Nel 1952 Pio XII invia una lettera apostolica (Cupimus imprimis) in cui esprime la sua ammirazione per il popolo cinese e la sua tristezza nel vedere che la Chiesa viene considerata nemica del popolo; il papa rassicura le autorità che vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose in Cina cercano solo il bene della gente, mediante scuole, ospedali, ospizi, orfanotrofi.
Tutto inutile. L’anno seguente (1953) l’Ufficio affari religiosi in Cina raduna a Nanchino un gruppo di preti per un congresso (presieduto da Li Wei-guang da poco eletto «deputato cattolico» all’Assemblea nazionale) dove viene firmato un documento in cui si intende dare vita a un «movimento antimperialista per amare la patria e la Chiesa».
Nell’ottobre 1954, con l’enciclica Ad Sinarum gentem il papa loda i fedeli che perseverano nell’unità della fede, confuta le «tre autonomie» o altri principi simili, concludendo che la costituzione di una chiesa «nazionale» non sarebbe più «cattolica». 

Nasce la chiesa patriottica
Le autorità cinesi sono sempre più determinate nel portare la Chiesa sotto il controllo statale, moltiplicando persecuzioni e carcerazioni delle principali personalità cattoliche, sostituite da «rappresentanti del popolo» imposti dal governo; molti vescovi e preti entrano in clandestinità, ma una campagna su scala nazionale mobilita la popolazione per scoprire tali «controrivoluzionari».
Nel 1956-57, anno del «Movimento dei cento fiori», in due congressi a Pechino, 241 delegati di tutte le diocesi della Cina si costituiscono in «Associazione patriottica dei cattolici cinesi» (Apcc) approvata ufficialmente il 2 agosto 1957 e celebrata con solenni feste e riti religiosi, discorsi roboanti e attacchi al Vaticano, per dimostrare l’unanimità dei cattolici in tale evento storico. Ma a Roma arrivano notizie differenti: molti delegati sono stati costretti a partecipare e portati sotto scorta; i testi già redatti da dirigenti del partito non sono stati affatto votati all’unanimità.
Di fatto la reazione del regime contro i cattolici contrari è furibonda: la Chiesa cattolica apostolica romana viene ufficialmente bandita dalla Cina; diversi preti e vescovi vengono arrestati, altri si danno alla macchia.
L’Ufficio affari religiosi cerca di inserirsi sempre più nella vita della Chiesa, rivendicando il diritto e dovere di controllare la formazione nei seminari, le nomine dei sacerdoti, le elezioni «democratiche» dei vescovi, per sostituire quelli incarcerati, espulsi o morti. Nel 1958, ben 120 su 144 diocesi non hanno più la guida spirituale; si procede, quindi, all’ordinazione dei primi due vescovi, chiedendo telegraficamente a Roma il mandato papale, che viene rifiutato. Il 20 giugno dello stesso anno Pio XII pubblica l’enciclica Ad Apostolorum Principis, in cui critica duramente l’Associazione Patriottica, condanna le elezioni «democratiche» e relative ordinazioni, ricorda le sanzioni canoniche («la scomunica riservata in modo specialissimo alla sede apostolica») in cui incorrono ordinati e ordinanti. Al tempo stesso il papa si dimostra ben informato e denuncia i «metodi di violenza e di oppressione: propaganda tenace e rumorosa a mezzo stampa, congressi e convegni ai quali si è costretti a partecipare con lusinghe, minacce, inganni… corsi di indottrinamento a cui sono costretti sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, fedeli di ogni età e ceto… umilianti sessioni di processi popolari, confessioni forzate di errori e crimini, campi di rieducazione ideologica» e altre forme di pressioni e torture fisiche e psicologiche.

Dal grande inverno al disgelo
Tra Associazione patriottica e Santa Sede il fossato si allarga sempre più: nel 1959 in un discorso ufficiale Giovanni XXIII parla di «funesto scisma» per la prima volta; ma sarà anche l’ultima. I vescovi esuli o espulsi dalla Cina spiegano come la situazione cinese sia molto complessa e scongiurano di evitare tale termine, anche se di fatto si è creata una situazione scismatica: da una parte la maggioranza dei cattolici cinesi e una cinquantina di vescovi fedeli a Roma; dall’altra i cattolici aderenti alla Chiesa patriottica, guidati da vescovi validamente ordinati prima del 1953 e altri illegittimi: il loro numero sale a 48 nel 1962.
Alle soglie del concilio Vaticano II si discute se invitare anche i vescovi legittimi che hanno consacrato altri vescovi senza mandato apostolico. Si interpellano 100 vescovi ordinari della Cina: alcuni chiedono che il concilio condanni apertamente il comunismo e i vescovi illegittimamente consacrati; altri si mostrano più flessibili e, specie i vescovi esuli cinesi, richiamano a una maggiore informazione e mettono in guardia da condanne troppo severe. Alla fine del Concilio si registra una crescente comprensione e simpatia per la Chiesa cinese e inizia una nuova fase di atteggiamenti verso i paesi comunisti.
In Cina, però, nel 1966 esplode la «rivoluzione culturale»: per 10 anni le «guardie rosse» scatenano la persecuzione religiosa più intensa e intollerante mai sperimentata in Cina; distruggono tutto ciò che ha attinenza al sacro; reprimono le organizzazioni di ogni fede e credo, compresa l’Associazione patriottica: anche i vescovi «patriotti» sono attaccati, diffidati dall’esercizio del loro ministero, processati e incarcerati. Unica chiesa che rimane aperta in tutta la Cina è la cattedrale di Nan Tang a Pechino, a uso degli stranieri.
Con la morte di Mao e l’arresto della «banda dei quattro» (1976) finisce la rivoluzione culturale; il nuovo leader Deng Xiaoping, con svolta epocale, apre il popolo cinese al mondo esterno, offrendo ai cittadini nuovi spazi di libertà. È l’inizio del disgelo verso le religioni: vescovi patriottici possono tornare alle loro diocesi; fedeli, sacerdoti e vescovi della chiesa clandestina sono scarcerati, alcuni riabilitati, altri in libertà vigilata; tra i vescovi, liberati dopo decenni di lavori forzati, i più famosi sono Ignazio Kung Pinmei di Shanghai, Domenico Tang Yiming di Guangzhou, Giuseppe Fan Xueyan di Baoding (vedi riquadro a pag. 33).
Il clima di tolleranza religiosa degli anni ‘80 permette di riaprire chiese, seminari, istituti di formazione, case religiose; lentamente la liturgia viene rinnovata in linea con la Chiesa universale; in una decina d’anni vengono ordinati circa 200 nuovi preti. Vescovi, preti, religiosi di paesi stranieri ottengono il permesso (o sono invitati) di visitare la Cina. Particolare interesse suscita la visita dei cardinali Roger Etchegaray, arcivescovo di Marsiglia, e Franz Köning, arcivescovo di Vienna e presidente del segretariato per i non credenti, su invito dell’Associazione del popolo cinese e per l’amicizia con lo straniero.
Nel 1981 il prefetto di Propaganda Fide concede ai vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» «facoltà specialissime», compresa quella di ordinare vescovi, se necessario anche senza previa intesa con Roma. Nel giro di una decina di anni una cinquantina di vescovi vengono consacrati segretamente. Alcuni abusi di tali «facoltà» acuiscono la contrapposizione tra cattolici «ufficiali» e «clandestini», irritando il governo e causando confusione anche in Vaticano. 

Relazioni altalenanti
Nonostante le loro aperture, partito e governo non allentano il controllo sugli affari religiosi: la nuova Costituzione del 1982 sottolinea il diritto di credere o non credere, ma un comma dell’articolo 36 ribadisce che «nessuna realtà religiosa in Cina può essere controllata dall’estero».
Nel 1985 la Congregazione per la dottrina della fede riconosce la piena validità dell’ordinazione dei vescovi illecitamente consacrati e dei sacramenti da loro amministrati. Molti di essi chiedono e ottengono di ritornare alla comunione con la Santa Sede. Ma la pratica della «doppia fedeltà», al regime di Pechino e alla Sede di Pietro, non è accettata da tutti i membri della Chiesa sotterranea, la quale in un documento del 1987 taccia di peccatore chi riceve i sacramenti dai preti patriottici. Tale ambiguità contagia anche il Vaticano: un documento di Propaganda fide afferma che la validità dei sacramenti amministrati da preti ordinati da vescovi illegittimi è solo «presunta», per cui va evitata ogni communio in sacris, con vescovi e clero dell’Associazione patriottica.
Confusione e ambiguità regnano anche a livello di governo cinese, che nel 1988 fa circolare voci di una imminente apertura al dialogo con il Vaticano per allacciare relazioni diplomatiche tra Roma e Pechino; per preparare la grande svolta, nel mese di dicembre vengono convocati a Pechino 22 vescovi ufficili; pochi giorni dopo, Partito comunista e Consiglio di Stato emanano direttive segrete per eliminare una volta per sempre la Chiesa clandestina e intensificare la formazione ideologica del clero e dei fedeli. 
Nel 1989, anno degli studenti di piazza Tienanmen, un gruppetto di vescovi, sacerdoti e laici della Chiesa clandestina decidono di costituire una Conferenza episcopale esplicitamente fedele al papa: buona parte dei promotori finisce in prigione; l’iniziativa, dichiarata «inopportuna» ancora prima di nascere, non riceve l’approvazione dal Vaticano, anche per non esasperare la contrapposizione.
Intanto a coloro che da Roma seguono la «questione cinese» appare sempre più chiaro che la stragrande maggioranza di vescovi, preti e seminaristi della Chiesa patriottica conserva intatta la fedeltà al depositum fidei. Anche «l’autarchia», salvo rari casi, non è affatto seguita e nelle strutture ecclesiali create dal governo molti sono i vescovi «legittimati», in piena comunione con Roma.
Continuano tuttavia i sospetti tra l’apparato burocratico cinese, allarmato da tale evoluzione, e il Vaticano, preoccupato del «pieno allineamento dei cattolici sulla politica del Partito». Nei sacri palazzi affiora l’ipotesi di passare a una linea più dura, chiamando i vescovi a dichiarare la propria fedeltà al Papa e a rompere la sudditanza all’Associazione patriottica, a dimettersi dal Collegio episcopale patriottico; da più parti, invece, si chiede più «flessibilità», tra cui mons. Feando Filoni, espressamente incaricato di seguire da Hong Kong le vicende della Chiesa in Cina: «Nello sforzo di ricostruire passo dopo passo le relazioni tra la Chiesa cinese e quella universale, bisogna compiere gesti di accoglienza più che di separazione».
Nel 1993, in un summit tenuto in Vaticano si stabilisce che d’ora in poi ogni elezione episcopale, sia nella chiesa patriottica che in quella clandestina, per essere considerata legittima dovrà ricevere l’assenso previo della Sede apostolica; le facoltà speciali concesse nel 1981 vengono di fatto sospese. Sarà questa disposizione a segnare d’ora in poi gli alti e bassi nelle relazioni tra Vaticano e Pechino.
Nel 1996 il cardinale Claudio Celli incontra alcuni rappresentanti del governo cinese, nel tentativo di sbloccare la situazione della chiesa in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche. Il papa Giovanni Paolo II, per ricordare il 70° anniversario dell’istituzione della gerarchia in Cina e l’ordinazione dei primi sei vescovi cinesi invia un messaggio alla Chiesa che è in Cina, rivolgendo un forte appello alla riconciliazione di tutti, pastori e fedeli, esprimendo tutta la sua fiducia e simpatia verso la Cina e verso i cattolici cinesi, insieme al desiderio di poterli incontrare personalmente.
Il papa invita personalmente al Sinodo episcopale per l’Asia, il vescovo di Wanxian, mons. Matthias Duan Yinming, e il suo ausiliare, mons. Joseph Xu Zhixuan, entrambi appartenenti all’Associazione patriottica, ma stimati e ritenuti legittimi anche dai cattolici della clandestinità (mons. Duan fu ordinato nel 1949 prima della rottura e passò all’Associazione patriottica nel 1957).
In una lettera in latino, letta all’apertura del Sinodo, mons. Duan si rammarica di non poter partecipare «per motivi politici». Espressione eloquente per dire che la sua assenza non è dovuta a motivi dottrinali, ma all’opposizione di Pechino.
Le relazioni diplomatiche sono ancora lontane dalla normalizzazione, anche perché la Santa Sede è uno dei 25 stati che riconosce la legittimità della Repubblica di Cina di Taiwan e non quella della Repubblica popolare cinese. Ma dopo la sostituzione all’Onu dei rappresentanti della Cina di Taiwan con quelli della Repubblica popolare (1971), il Vaticano ha smesso di parlare di due Cine, ha degradato i nunzi per la Cina a semplici «incaricati d’affari» e ha espresso la disponibilità a stabilire la nunziatura a Pechino qualora il governo cinese lo permetta. Ma la sua sede resta sempre a Taipei: la Cina rifiuta ogni normalizzazione di rapporti diplomatici finché il Vaticano non rompe formalmente le relazioni con l’isola.
Il problema più spinoso, però, è quello della nomina dei vescovi. Negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, alcune ordinazioni di nuovi vescovi vengono celebrate con la convergenza sia del governo di Pechino che della Santa Sede. L’evento non viene enfatizzato, ma è una svolta epocale.

Passato che non vuol passare
In pratica i rapporti «ufficiosi» fra Cina e Vaticano non si sono mai interrotti completamente, anche se continuano sempre altalenanti. Nel gennaio 2000 cinque vescovi vengono ordinati senza il consenso del papa. Lo stesso anno però il card. Etchegaray va a Pechino per partecipare a un simposio su «Religioni e pace» e ha contatti con personaggi della Chiesa patriottica; al suo ritorno, il 25 settembre, afferma alla radio Vaticana che in Cina esiste una sola Chiesa cattolica e che le frontiere tra patriottici e clandestini stanno diventando sempre più porose. Il primo ottobre, festa della Repubblica popolare, vengono canonizzati 120 martiri cinesi, vittime della rivoluzione dei boxers (nazionalisti) nel 1900: Pechino reagisce in modo furente, addirittura accusando alcuni dei nuovi santi di «crimini enormi».
Nel 2004 giungono a Roma notizie di arresti di alcuni vescovi e preti della chiesa sotterranea; il Vaticano protesta, ma il dialogo continua: altri tre vescovi vengono consacrati, eletti secondo le procedure legali cinesi e approvati dalla Santa Sede. Papa Benedetto XVI invita al Sinodo dei vescovi del 2005 alcuni prelati cinesi (tra cui uno eletto secondo le procedure legali cinesi) ma il governo impedisce la loro partecipazione.  Nel 2006 il vescovo emerito di Hong Kong, mons. Giuseppe Zen, è nominato cardinale, nomina per nulla digerita da Pechino. Due vescovi della chiesa patriottica sono ordinati senza il gradimento della Santa Sede; uno di essi è Giuseppe Ma Yinglin, vescovo di Kunming: la sua elezione, avvenuta «sotto pressioni, minacce e, sembra, anche inganni», «distruggerà la fiducia reciproca fra Santa Sede e Pechino» predice il card. Zen.
Dopo un incontro in Vaticano con i vescovi di Hong Kong, Macao e Taiwan, nel gennaio 2007, un comunicato ufficiale afferma che in Cina «oggi la quasi totalità dei vescovi e sacerdoti è in comunione con il Sommo Pontefice», vanificando così l’opera dell’Associazione patriottica nella costruzione di una chiesa staccata da Roma. Sono meno di una dozzina i vescovi cinesi che continuano a nutrire avversione viscerale contro Roma. Il comunicato ribadisce «la volontà di proseguire il cammino di un dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità governative, per superare le incomprensioni del passato. Si auspica, inoltre, di pervenire a una normalizzazione dei rapporti ai vari livelli, al fine di consentire la pacifica e fruttuosa vita della fede nella Chiesa e di lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo». Le stesse idee, pochi mesi dopo, vengono espresse nella storica lettera che il papa Benedetto XVI invia al clero e al popolo cinese.
Il governo risponde con un silenzio imbarazzato, mentre l’Associazione patriottica impedisce la diffusione della lettera in varie province. Ma il dialogo continua: altri 7 vescovi vengono consacrati con l’approvazione sia del governo che della Santa Sede. Per Pechino è ormai una necessità se vuole controllare la Chiesa: i vescovi illegittimi non sono più rispettati né seguiti da moltissimi fedeli.

Cambio di strategia
Qualora si giungesse a regolari e stabili rapporti diplomatici, questi sarebbero gestiti direttamente dal governo e un rappresentante del papa; così il ruolo del Consiglio dei vescovi cattolici (una specie di conferenza episcopale non riconosciuta dalla Santa Sede) duventerebbe marginale e i grandi interessi e privilegi dell’Associazione patriottica sarebbero a richio. Per questo molti remano contro e boicottano le relazioni sino-vaticane, come è avvenuto alla fine del 2010, con la celebrazione dell’Ottava Assemblea dei rappresentanti dei cattolici cinesi, preceduta da un’ordinazione episcopale senza mandato pontificio. L’Assemblea elegge i leader dei due organismi, molti dei quali illegittimi, tra cui il presidente del Consiglio dei vescovi Giuseppe Ma Yinglin, vescovo ufficile che Roma non intende legittimare, perché ritenuto persona ambiziosa e piena di livore contro il Vaticano. A manovrare il tutto ci pensa il vecchio Liu Bainian, vicesegretario «onorario» dell’Associazione patriottica, soprannominato «il papa della Cina» per la sua pretesa di guidare tutta la Chiesa cinese. 
Ma più laceranti sono le ultime ordinazioni episcopali senza mandato apostolico, tre in nove mesi: Giuseppe Guo Jincai vescovo di Chengde, Hebei (20 novembre 2010), Paolo Lei Shiyin vescovo di Leshan (29 giugno 2011) e Joseph Huang Binzhuang vescovo di Shantou (14 luglio 2011). Per tutte e tre le ordinazioni il Vaticano ha fatto sentire la sua ferma reazione, denunciando la «grave violazione della disciplina cattolica e della libertà religiosa e di coscienza» e ricordando le sanzioni canoniche (canone 1382 del Codice di Diritto Canonico), prima tra tutte la scomunica automatica (latae sententiae) per ordinati e ordinanti. «Ciascuno di loro conosce in cuor suo il grado del personale coinvolgimento e la retta coscienza indicherà a ognuno se è incorso in una pena latae sententiae» afferma il comunicato seguito all’ordinazione di Guo Jincai, riconoscendo attenuanti per i vescovi consacranti, quasi sempre costretti con la forza e le minacce. Dalla scomunica non hanno scampo gli altri due vescovi: Lei Shiyin «era stato informato da tempo» della contrarietà vaticana alla sua nomina «a causa di motivi comprovati e molto gravi», tra cui due figli; pure Huang Binzhuang era stato avvertito più volte che la sua ordinazione non era autorizzata, anche perché nella diocesi di Shantou c’era già mons. Zhuang Jianjian, ordinato clandestinamente nel 2005 e mai riconosciuto da Pechino.
A quasi 50 anni dall’ultima pubblica scomunica, le due comminate di recente sono per tutti una sorpresa. Dalla Cina si attribuisce tale cambiamento di strategia al card. Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, che non ha peli sulla lingua; ne è un esempio l’appello da lui rivolto al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao, per chiedere loro di fermare i «funzionari canaglia» e la «feccia della chiesa» dal procedere all’ordinazione illecita del vescovo di Shantou. «All’arroganza dei burocrati politici e religiosi della chiesa patriottica non si risponde con carezze, ma con pesci in faccia, come fanno loro» afferma il presule, criticando la diplomazia vaticana fatta di troppi compromessi. Funzionerà?

Benedetto Bellesi




Ritratti emblematici

MICHELE FU TIESHAN: antipapista

Nato nel dicembre del 1931, nel distretto di Qing Yuan (Hebei), entrato a 10 anni nel seminario minore di Xishiku, completata la formazione teologica nel seminario maggiore dell’arcidiocesi di Pechino (vicino alla tomba di Matteo Ricci, ora requisito dal governo per fae una scuola del Partito), Fu Tieshan fu ordinato prete nel 1956 e svolse il ministero sacerdotale nelle parrocchie di Beitang e Nantang. Dal 1963 al 1966 studiò e si laureò all’università Hong Qi (Bandiera Rossa), mentre doveva anche lavorare per guadagnarsi da vivere.
Ufficialmente insediato dalle autorità comuniste come vescovo di Pechino, fu consacrato senza l’approvazione papale il 21 dicembre 1979. Unico tra i vescovi cinesi della seconda metà del secolo scorso non passò mai in un carcere o in un campo di rieducazione; anzi, la sua vita fu un crescendo di cariche importanti ecclesiastiche e politiche: vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo (parlamento cinese), vicepresidente e segretario generale del Consiglio del vescovi cinesi (una specie di conferenza episcopale, non riconosciuta da Roma), presidente dell’Associazione patriottica (organismo che controlla la Chiesa ufficiale). Una carriera caratterizzata da umiliante servilismo verso il regime: fu l’unico personaggio religioso a difendere alla televisione di stato il massacro di Piazza Tiananmen (1989); difese a spada tratta le repressioni in Cina; si associò alla campagna internazionale contro il movimento taoista-buddista Falun Gong (1999); durante il Millennium Summit (2000) a New York, vituperò aspramente il Dalai Lama e si scagliò contro i paesi che «col pretesto dei diritti umani» si intromettono nella «sovranità» di altre nazioni.
Non si riconciliò mai con Roma. Anzi, si segnalò come accanito antipapista, intralciando i tentativi di dialogo tra Pechino e Santa Sede: criticò aspramente Giovanni Paolo II per «aver osato» canonizzare 120 martiri cinesi e missionari stranieri, «strumenti del colonialismo» (2000); lo stesso anno imbastì un’ordinazione di vescovi senza il permesso della Santa Sede; alla cerimonia non vollero partecipare né fedeli, né seminaristi.
Colpito gravemente da tumore ai polmoni nel 2005, morì il 20 aprile 2007, dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi e la visita del presidente Hu Jintao. Un comunicato ufficiale l’ha esaltato come «leader religioso patriottico, attivista sociale e grande amico del partito comunista cinese».
Gli è succeduto Giuseppe Li Shan, consacrato vescovo il 21 settembre 2007, all’età di 42 anni, con la previa approvazione pontificia.

Giuseppe Zen Ze-kiun: antidiplomatico

Nato a Shanghai il 13 gennaio 1932, da famiglia numerosa (10 figli) e profondamente cattolica, Giuseppe Zen Ze-kiun compì gli studi in una scuola gestita da religiosi durante l’occupazione giapponese. Nel 1948, per scappare dal potere dei maoisti, fuggì a Hong Kong per coltivare la sua vocazione sacerdotale. Entrato nella famiglia salesiana, dopo il noviziato fu mandato in Italia, dove ottenne la licenza in teologia e fu ordinato sacerdote a Torino nel 1961.
Conseguito il dottorato in filosofia all’Università salesiana di Roma (1964), rientrò a Hong Kong e si dedicò all’insegnamento nell’istituto salesiano e, nel 1971, iniziò a insegnare filosofia al seminario diocesano. Dal 1978 al 1983 fu superiore provinciale dei salesiani (provincia che include Cina, Hong Kong, Macau e Taiwan).
Approfittando delle graduali aperture e modeizzazioni in Cina, Zen riuscì a tornare a Shanghai e nel 1989 ottenne il permesso di insegnare nel seminario di Sheshan, dove mancava qualsiasi opera di riferimento fondamentale, perfino la Bibbia. Ovviamente si trattava di un seminario gestito dalla Chiesa patriottica, controllata dagli addetti all’Ufficio affari religiosi del regime. Tale esperienza gli costò non poche critiche e sospetti da chi vedeva in lui una sorta di arrendevole «collaborazionista» del regime, anche se visse sulla propria pelle tensioni, speranze e incognite di una Chiesa che provava a risorgere dalla grande persecuzione maoista. Grazie alla conoscenza diretta di quanto avveniva nella Cina continentale, il card. Zen potè battersi (e continua ancora) contro le manipolazioni politiche messe in atto dal regime, che da oltre dieci anni cerca di controllare la gente di Hong Kong, come fa già con i 12 milioni di cattolici presenti in Cina.
Nel 1996 fu nominato vescovo coadiutore di Hong Kong, con diritto di successione. Resse la diocesi dal 2002 al 2009. Nel concistoro del 24 marzo 2006 Benedetto XVI lo nominò cardinale, inserendolo nella Commissione vaticana sulla Cina.
Durante tutto il suo episcopato il card. Zen si è distinto per il suo coraggio nel denunciare le pretese del regime di Pechino e nel movimentare le masse in difesa dei diritti umani, della libertà politica e religiosa. La sua voce è diventata scomoda anche in seno alla Chiesa cattolica: egli critica la Segreteria di Stato vaticana per i suoi compromessi con le autorità cinesi, nel tentativo di riallacciare le relazioni diplomatiche. Significativo il titolo di un libro-intervista in cui racconta la sua vita: «Senza diplomazia».
Alcune personalità conservatrici all’interno della Chiesa cattolica pensano che le relazioni tra Pechino e Vaticano sarebbero più rilassate senza le prese di posizioni del card. Zen. Dal 2009 è vescovo emerito e gli è succeduto l’ausiliare mons. John Tong Hon.

GIUSEPPE ZhENG CHANG CHENG:
sovversivo

Nato nel 1912 in una povera famiglia di falegnami, entrato in seminario nel 1926 a Fuzhou, poi a Shanghai nel 1930 e infine al seminario Holy Spirit di Hong Kong, Giuseppe Zheng fu ordinato sacerdote il 27 gennaio 1937. Laureato in storia e letteratura cinese all’Università cattolica di Pechino, insegnò nel seminario di Fuzhou e, nel 1951, divenne amministratore della stessa diocesi.
Nello stesso anno si rifiutò di firmare le accuse contro il nunzio Riberi. Nel 1955, interrogato per 25 giorni, rifiutò di rinnegare la fede cristiana e l’obbedienza alla sede di Pietro: accusato di essere un sovversivo e di nascondere in chiesa i fucili per i controrivoluzionari, fu mandato nei campi di rieducazione, dove rimase per 28 anni e ottenne alcune conversioni grazie alla sua testimonianza.
Liberato nel 1983, si dedicò a ridare vita alla Chiesa: fu anche rettore del seminario dal 1988 al 1992. Il 24 gennaio 1991, all’età di 79 anni, fu insediato dalle autorità politiche alla guida della diocesi di Fuzhou. Ma subito, tramite intermediari di Hong Kong, cercò di mettersi in contatto con Roma per regolarizzare la sua posizione. Nei 16 anni di episcopato restaurò più di 30 chiese e costruì il santuario diocesano «Rosa Mistica», situato a 30 chilometri da Fuzhou, diventato meta di frequenti pellegrinaggi. Per le sue numerose opere di carità, fu insignito di un riconoscimento da parte delle autorità.
Ma a Fuzhou c’era anche un altro vescovo, Giovanni Yang, clandestino e in comunione con Roma. Tra le due comunità i rapporti erano pessimi; una buona parte dei preti della diocesi non lo riconobbero come loro vescovo; alcuni lo accusarono addirittura di infedeltà al papa e alla chiesa. Egli provò più volte la via della riconciliazione, disposto anche a farsi da parte se il vescovo clandestino fosse venuto allo scoperto e avesse assunto la guida della diocesi.
Tutta la vita spesa per Cristo, devotissimo della Madonna, negli ultimi anni fu colpito da cancro alla gola: offrì la sua vita per vedere la piena riconciliazione fra le due comunità cattoliche della diocesi. Ma non ebbe tale consolazione. In compenso ebbe da Roma importanti segni di riconoscimento della sua fedeltà: tramite il vescovo di Hong Kong ricevette l’anello vescovile e mediante il cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, la benedizione di Benedetto XVI. Si spense il 18 dicembre 2006, all’età di 94 anni.

GIUSEPPE WEI JINGYI: ecumenico

Vescovo clandestino di Qiqihar, (diocesi nell’estremo nord della Cina), Giuseppe Wei Jingyi era fra i quattro vescovi della Cina popolare invitati al Sinodo sull’Eucaristia nell’ottobre 2005. A tutti e quattro fu negato il permesso di lasciare la Cina per giungere a Roma, benché gli altri tre fossero ufficialmente riconosciuti dal governo di Pechino.
Era clandestino anche il suo predecessore, Paolo Guo Wenzhi, morto il 29 giugno 2006 all’età di 84 anni. Mons. Wei ne celebrò i funerali e lo seppellì in un luogo segreto, sfidando le autorità politiche, che gli avevano proibito di officiare le esequie e ordinato la cremazione. Altra sfida al regime fu la lettura in tutte le chiese di una lettera pastorale in cui spiegava come applicare le indicazioni espresse dal papa nella lettera inviata nel 2007 a tutti i cattolici cinesi. In essa mons. Wei espresse la volontà di riconciliarsi con alcuni sacerdoti della diocesi che gli avevano rifiutato obbedienza poiché lo ritenevano troppo cedevole al regime comunista; invitò pure tutti i fedeli a partecipare ai sacramenti amministrati da vescovi e sacerdoti ufficiali, purché in comunione con Roma. Inoltre, avviò un dialogo con la chiesa russo-ortodossa presente nella sua diocesi.
Ordinato a 48 anni, abita in un piccolo villaggio, il solo luogo dove le autorità politiche gli consentono di esercitare il suo ministero, insieme a una ventina di preti entusiasti e quasi tutti più giovani di lui. Tale situazione è specchio del vuoto di preti tra i 45 e i 70 anni di età, causato dalla rivoluzione culturale. L’enorme divario tra la generazione eroica di vescovi anziani che stanno scomparendo e i loro successori, tutti attorno ai 40 anni, costituisce un fenomeno senza eguali nella Chiesa mondiale.

ANTONIO LI DUAN: riconciliatore

Nato nel 1927, per 20 anni in campi di detenzione (1954-57, 1958-60, 1966-79), vescovo di Xian (Shaanxi) dal 1987 per volere delle autorità comuniste e tacitamente riconosciuto dal Vaticano, mons. Li non si sottomise mai all’Associazione patriottica, ma difese strenuamente la libertà della Chiesa: nel gennaio del 2000 si nascose per non prendere parte all’ordinazione di 5 nuovi vescovi non riconosciuti da Roma.
Personalità stimata da intellettuali e politici anche non cristiani, ricostruì e rivitalizzò la Chiesa di Xian dopo i disastri della Rivoluzione culturale e si adoperò per riconciliare la Chiesa ufficiale e quella sotterranea; amato dai cattolici di entrambi gli schieramenti, fu spesso soggetto a controlli e interrogatori.
Membro della Chiesa ufficiale, ma sostenitore e amico dei pontefici, si adoperò per la riconciliazione tra Cina e Vaticano, riallacciandone i rapporti diplomatici. Mons. Li fu verosimilmente il cardinale in pectore creato da Giovanni Paolo II nel 2003 e mai rivelato; fu uno dei quattro vescovi cinesi invitati dal papa al Sinodo sull’Eucaristia dell’ottobre 2005.
Da due anni malato di cancro al fegato, morì il 25 maggio 2006, all’età di 79 anni. La sua tomba è meta di pellegrinaggi, come quella di un santo.

GIUSEPPE XING WENZHI:
successore di Fan e Jin

Originario di Shan Dung, entrato nel seminario di Shanghai nel 1983, prete dal 1990, Giuseppe Xing Wenzhi è stato ordinato ausiliare di Shanghai il 28 giugno 2005, all’età di 42 anni: è il primo vescovo ad essere nominato congiuntamente e pubblicamente dal governo di Pechino e dalla Santa Sede. Sarà successore di due vescovi ultranovantenni e malati: Luigi Jin Luxian, vescovo ufficiale, e Giuseppe Fan Zhongliang, vescovo clandestino.
Entrambi gesuiti, stretti collaboratori di mons. Ignazio Gong Pinmei, furono arrestati assieme al loro vescovo nel 1955, mentre tutti e tre salivano al santuario mariano di Sheshan per giurare che non avrebbero mai tradito la loro fede. Liberati dopo più di 25 anni di prigione e campi di rieducazione, presero strade diverse: Jin optò per la Chiesa patriottica e nel 1985 fu creato vescovo ufficiale della diocesi di Shanghai senza il mandato apostolico; mentre Fan scelse la clandestinità e, lo stesso anno fu ordinato clandestinamente e riconosciuto da Roma come unico successore dell’irriducibile Gong Pinmei, rimasto in libertà vigilata e poi costretto all’esilio negli Stati Uniti.
Mons. Jin è riconosciuto dal governo e, ultimamente anche in comunione con Roma; mons. Fan è riconosciuto da Roma e appena «tollerato» da Pechino; entrambi ultra novantenni e gravemente malati (Fan è malato d’alzheimer): per il successore Xing non ci sono problemi né da Roma, né da Pechino.

GIUSEPPE LIU XINHONG: illegittimo

Nel 2006 in Cina sono stati ordinati tre nuovi vescovi contro la volontà della Santa Sede, delle comunità locali e persino dei vescovi ordinati e ordinanti: uno di essi è Giuseppe Liu Xinhong consacrato il 3 maggio a Wuhu, nella provincia orientale dell’Anhui. Gli altri due sono: Giuseppe Ma Yinglin per la diocesi di Kunming (30 aprile) e Wang Renlei a Xuzhou (30 novembre). Due comunicati diramati dalla sala stampa Vaticana il 4 maggio e il 3 dicembre, hanno espresso «il dolore del Papa per questi atti che stravolgono un momento essenziale della vita ecclesiale», provocano «una grave ferita all’unità della Chiesa» e prevedono «severe sanzioni canoniche».
Mons. Liu ha chiesto l’approvazione di Roma, ma non l’ha ottenuta: era considerato l’uomo forte dell’Associazione patriottica, di cui fu vice presidente. La sanzione evocata è la scomunica latae sententiae, che scatta automaticamente qualora l’ordinazione sia stata data e ricevuta liberamente. Il Vaticano, però, ha implicitamente scusato gli autori dell’atto supponendo che l’abbiano compiuto sotto costrizione. Ma qualora l’Associazione patriottica organizzasse in futuro altre ordinazioni illegittime (Pechino avrebbe già pronti i suoi candidati) si prevede che la reazione di Roma sarà più dura. Esigerà dai nuovi vescovi illegittimamente ordinati di non esercitare il loro ministero.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Quando a marcia… segna il passo

Futuro sempre più incerto

La mossa con cui Pechino ha deciso di trasferire nella provincia dell’Hebei l’ex segretario del Partito comunista in Tibet potrebbe significare un cambio di priorità nella dirigenza cinese. Abbandonate le vette dell’Himalaya, il «mastino» Zhang Qingli, fautore di una linea d’intransigenza contro le aspirazioni autonomiste dei tibetani, che definì il Dalai Lama «un lupo con la veste monacale», dovrà ora amministrare la culla del cattolicesimo cinese.
È nell’Hebei, provincia settentrionale che circonda le municipalità di Pechino e Tianjin, che vive un quarto dei circa 12 milioni di cinesi fedeli alla Santa Romana Chiesa. Il nuovo incarico darà pertanto a Zhang un ruolo di primo piano nello scontro che negli ultimi mesi ha visto opposta la Repubblica popolare al Vaticano. «È un atto simbolico. Pechino ha il pieno controllo e la situazione è già di per sé molto dura. Nella provincia vescovi e sacerdoti della Chiesa sotterranea sono scomparsi o sono stati rinchiusi nei laogai, condannati ad anni di lavori forzati» afferma padre Beardo Cervellera, direttore dell’agenzia d’informazione missionaria Asia News.
Neppure le scomuniche hanno persuaso il vertice della Chiesa ufficiale cinese a desistere dalle tre ordinazioni episcopali senza mandato papale che negli ultimi dieci mesi hanno allargato il solco tra Pechino e Roma. Atti «in contrasto con la Chiesa universale», aveva commentato a luglio il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi.  
La divisione risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la Cina comunista e la Santa Sede ruppero le relazioni diplomatiche con l’espulsione del nunzio apostolico, Antonio Riberi, e con l’inizio della pratica delle ordinazioni autogestite durante il periodo maoista. Da allora i rapporti dello Stato cinese con i fedeli sono gestiti dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Ccpa), cui sono affiliati circa 5 milioni di fedeli secondo i dati foiti dalla stessa organizzazione, e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica, approvate dal governo. Entrambe riconoscono l’autorità spirituale del Papa, ma non il suo potere a nominare i vescovi. Ed entrambe sono opposte alla Chiesa clandestina che riconosce il primato di Roma.
Studiosi e analisti ritengono tuttavia che le pratiche della Chiesa ufficiale siano un rebus per gli stessi cattolici cinesi. In un editoriale intitolato La Chiesa non può servire due padroni, pubblicato sull’agenzia cattolica UCANews, il direttore del dipartimento degli Studi sul Cristianesimo dell’Accademia cinese delle Scienze Sociali, Ren Yanli, ha sottolineato alcune delle contraddizioni in seno alla pretesa autonomia da Roma. Ad esempio, dichiararsi «indipendente» e allo stesso tempo «in comunione con il successore di Pietro». L’articolo si apre con l’auspicio che i cattolici siano allo stesso tempo buoni cittadini, rispettosi delle leggi dello Stato e buoni cristiani fedeli ai dettami della Chiesa. Le ordinazioni irregolari, scrive lo studioso, rischiano tuttavia di danneggiare la tanto agognata «società armoniosa», propagandata dal presidente, Hu Jintao, e dal primo ministro, Wen Jiabao. Possono rientrare nel novero dei cosiddetti «incidenti di massa», le manifestazioni di un centinaio di seminaristi che tra novembre e dicembre dell’anno scorso protestarono davanti all’ufficio della Commissione per gli Affari etnici e religiosi proprio dell’Hebei, contro la nomina di un rappresentante del governo a vicerettore dell’istituto dove studiavano. «Nella scelta non sono coinvolti sacerdoti o vescovi», dissero allora i manifestanti contattati da Asia News, temendo che con la scelta dei funzionari i valori spirituali fossero messi in secondo piano rispetto alla politica. Alla fine la protesta ebbe la meglio e Tang Zhaojun fu rimosso dall’incarico.

Negli ultimi mesi il clima è andato però deteriorandosi. Restrizioni sono state imposte a missionari europei che da Hong Kong hanno cercato di entrare nella Repubblica popolare. Un viaggio finora senza grossi problemi, prima che la strada fosse sbarrata a padre Bruno Lepeu, superiore dei Mep (Missions Etrangères de Paris) nell’ex colonia britannica; così come a padre Franco Mella del Pime (Pontificio istituto per le missioni estere), 62 anni, un «pendolare» fra Hong Kong e il continente, cui a fine luglio funzionari dell’immigrazione a Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong, hanno negato il visto per la prima volta in 20 anni.
Dalle colonne del Quotidiano del popolo, voce ufficiale del Partito comunista, invece è partita una dura reprimenda contro il Vaticano, in un pezzo di commento dal titolo Il Cattolicesimo si deve adattare alle condizioni locali. «Sebbene il potere temporale della Chiesa sia ora concentrato nei 44 chilometri quadrati della Città del Vaticano – si legge – esso continua a esercitare un’influenza sproporzionata rispetto alla sua piccola stazza. Nomina cardinali in altri paesi, i suoi preti più importanti all’estero godono dell’immunità diplomatica e possono interferire negli affari di stati sovrani». E ancora alla Chiesa è chiesto di «adattarsi e capire la potenza di una nazione come la Cina e le sue differenze culturali», per non correre il rischio di essere considerata più interessata a «mantenere il proprio potere temporale che a far fronte alle necessità spirituali dei suoi fedeli cinesi».
«Tutti tentativi per dividere i cattolici ufficiali e sotterranei, che negli anni, prima papa Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, hanno contribuito a riavvicinare» ha commentato padre Cervellera. Un’unità simboleggiata dalla Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina in coincidenza con la festa e il pellegrinaggio al santuario della Madonna di Sheshan, vicino a Shanghai, il 24 maggio. Una Giornata indetta dallo stesso Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici cinesi del 2007, cui il governo ha risposto aumentando le misure di sicurezza e le pattuglie attorno al santuario e impedendo anche a molti cattolici ufficiali di recarvisi in pellegrinaggio.

Un cablogramma del consolato statunitense a Chengdu, nel Sichuan, tra gli oltre 250mila documenti riservati della diplomazia Usa diffusi da WikiLeaks, dà un’idea di come operi la Chiesa ufficiale. Si descrive la situazione a Yibin, diocesi con 140 anni di storia e 40mila fedeli, all’epoca dell’invio del cablo presieduta dal vescovo Chen Shizhong, riconosciuto, si sottolinea, sia da Pechino che da Roma. L’interlocutore parla di un clima religioso «armonioso», in cui convivono cristiani, taoisti e buddisti. Lamenta tuttavia la mancanza di preti, molti dei quali costretti a gestire più di una parrocchia, ma enfatizza più volte la libertà di religione di cui dice gode la diocesi. Una cautela, commenta il diplomatico, che non si capisce bene se derivi da una reale convinzione o dalla presenza durante l’incontro di un funzionario dell’Ufficio locale per gli Affari esteri. Il documento continua con una serie di precisazioni che sembrano contraddire la totale libertà di cui sembrerebbero godere i fedeli. Prima di prendere i voti, chi vuole farsi prete deve infatti passare un esame pubblico. Inoltre il governo non permette che si istituiscano parrocchie troppo piccole perché, a detta della fonte, difficili da gestire e a rischio «disordini». Nel documento si accenna anche al sostegno economico del governo per la costruzione o la ristrutturazione della curia vescovile. Sottolineando inoltre un investimento di oltre 20 milioni di yuan (2 milioni di euro) dell’amministrazione provinciale del Sichuan, fatto tra il 2004 e il 2005 per la ristrutturazione del Sichuan’s Catholic Theological College, dove chiunque volesse seguire la vocazione deve studiare.
Altro cablo altra provincia. In un documento datato febbraio 2007, si parla del Guizhou, e in particolar modo di Guiyang. Qui, spiega la fonte, i fedeli alla Chiesa sotterranea sono pochi, mentre è obiettivo delle gerarchie ufficiali spingere all’unità tra i due gruppi senza fare troppe distinzioni. «Se veramente credono in Dio, speriamo nell’unità» spiega, e sottolinea di non essere a conoscenza di sacerdoti o credenti agli arresti, ma ammette ostacoli alla libertà di movimento. La sfida più difficile per la Chiesa è, secondo l’interlocutore, intercettare l’interesse dei più giovani. I fedeli sono per la maggior parte anziani e per avvicinare anche i ragazzi alla religione nella provincia sono state organizzate «letture di gruppo» (in cinese du shu hui) incentrate sugli insegnamenti della Bibbia.

Le stesse preoccupazioni per lo scarso interesse delle nuove generazioni emergono anche dalla conversazione con una suora che lamenta inoltre le difficoltà per la Chiesa nel recuperare terre e proprietà espropriate negli anni Sessanta e Settanta, durante la Rivoluzione Culturale. Dispute che spesso i governi locali risolvono con la forza e la coercizione, come nel caso di una suora cattolica e un sacerdote picchiati mentre cercavano di reclamare due proprietà un tempo appartenute alla Chiesa di Kungding, sempre nel Sichuan. Sebbene negli anni il governo centrale ha più volte rimarcato i diritti dei legittimi proprietari, l’Associazione patriottica e il ministero degli Affari Religiosi mettono ostacoli sulla strada di chi cerca di riottenerle.
Spostando l’attenzione a nordest, nel resoconto di una cena al consolato a Shanghai a Pasqua del 2009, le condizioni per i cattolici sono definite buone, sebbene sullo sfondo si staglino le difficili relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Pechino. Anche in questo caso la maggiore preoccupazione è formare una nuova leva di giovani religiosi, mentre l’età media dei più alti prelati supera gli ottanta. «È quindi fondamentale concentrarsi sull’educazione dei ragazzi -sottolinea un vescovo presente all’incontro -. Se la Chiesa non riuscirà a farsi capire da chi ha sei o sette anni, allora in futuro mancherà chi ritiene la fede più importante dei soldi».

Andrea Pira

Andrea Pira




Meru (1) Quasi un’antologia

Cent’anni fa il Meru accoglieva la Consolata

Il 13 dicembre 1911 è la data dell’inizio ufficiale dell’evangelizzazione del Meru, una vastissima area allora quasi inesplorata a nord-est del Monte Kenya. Quel giorno i padri Balbo Giovanni e Olivero Luigi piantarono «le tende a Keja presso il capo Kerundu; la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».

Sono passati cent’anni da quel giorno. Da quella prima missione, piccolo seme alle falde del Monte Kenya, è cresciuto non solo un albero maestoso ma una foresta rigogliosa. Alla prima missione di Keja (o Kiija, chiamata poi Imenti e ora Mojwa o Mujwa) si aggiunse presto la missione di Egoji e altre ancora. Diventata Prefettura Apostolica del Meru nel 1926, raggiunse lo stato di diocesi nel 1953. Da essa furono poi create la diocesi di Garissa nel 1984 (da cui venne ricavata la diocesi di Malindi nel 2000), la diocesi di Embu nel 1986 e il Vicariato Apostolico di Isiolo nel 1995. Là oggi ci sono quasi un milione e mezzo di cattolici su una popolazione di oltre tre milioni di abitanti.
Queste pagine sono dedicate ai pionieri di questa grande avventura, quasi un’antologia dei loro pensieri e della loro vita.
Siamo andati a spulciare i vecchi numeri di questa rivista, i diari, le relazioni, le testimonianze di quel glorioso e sofferto periodo in cui un manipolo di missionari generosissimi, con pochi mezzi, cuore grande e tanta fantasia, furono capaci di piantare il seme del Vangelo in una terra nella quale «dietro ad ogni foglia si nascondeva un diavolo», come scrisse p. Vincenzo Dolza da Mekinduri. E le foglie non mancavano di certo sui fertili pendii e profonde valli ai piedi della grande montagna sacra.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (2) I Meru: «Selvaggi» pieni di sorprese

Un incontro a dir poco complicato

Cento anni non sono pochi anche visti con gli occhi di oggi. Se – per un colpo di magia – potessimo trasportarci a cento anni orsono ed osservare con l’occhio satellitare la regione che attornia il monte Kenya, vedremmo una gran macchia verde scura circondare un largo anello di verde chiaro che abbraccia un’enorme montagna tutta roccia con una punta bianca e lucente al centro: il monte Kerenyaga (= montagna splendente, oggi Monte Kenya). Attoo al monte c’era allora un’enorme distesa di foreste impenetrabili di alberi secolari e di bambù, macchiata qua e là dal verde più chiaro di pochi prati, che di colpo cedeva alle immense savane digradanti, verso nord ed est, nello spoglio color sabbia rosso-nera di vaste zone semi-desertiche. Sono passati cento anni e quell’immenso mare di verde si è ristretto assai, eroso dalla continua espansione delle aree coltivate.

Cento anni orsono la regione che oggi chiamiamo Meru, sul versante nord-est del grande monte (il versante sud-ovest essendo occupato dai Kikuyu e quello sud-est dai Kamba), nascondeva nelle sue foreste e nelle piane semidesertiche che facevano da sponda a quel mare di verde, poco più di 40 mila africani (altre stime dicono addirittura 400mila, 93mila capanne). Inutile cercare strade, ponti, costruzioni e città come oggi siamo abituati. I volenterosi che si erano spinti in quel verde erano tornati con notizie di popoli che abitavano nelle foreste ai piedi della grande montagna sacra. Tra di essi un popolo, che non molti secoli prima aveva sfidato l’ignoto giungendo dal mare, per nascondersi e poi stabilirsi in quei luoghi.

Un popolo venuto da lontano
Quanto tempo prima? Forse appena trecento anni. Una leggenda di questo popolo, i Meru (o Ameru al plurale), racconta così.
«Tanto tempo fa il popolo Meru abitava al di là della grande acqua. Erano schiavi di un re potente che non lesinava angherie ai suoi sudditi. Sorse un giorno tra questo popolo un uomo che aveva parlato con Dio. Avendo visto l’afflizione della sua gente, si presentò al re nel nome del suo Dio, e implorò la libertà per sé e per il suo popolo. Il re rise divertito a questa richiesta. Poi, tanto per togliersi dai piedi quell’impiccione, rispose: “Bene, ti darò la libertà e lascerò andare la tua gente se tu riuscirai a portarmi un grosso elefante che faccia sterco bianco”. Oltre al prodigioso elefante il re volle altri meravigliosi quanto impossibili portenti (in alcuni racconti l’elefante diventa solo una mucca, si parla anche di cani con le coa, di una lancia tanto lunga da arrivare al cielo, e così via, le storie si abbelliscono secondo la fantasia dei narratori e secondo le tradizioni dei vari gruppi).
L’uomo non disarmò, toò a parlare con Dio sulla montagna e Dio l’aiutò a scovare l’elefante e a preparare tutti gli altri prodigi. La meraviglia del re fu grande e, pur non credendo ai suoi occhi, dovette a malincuore acconsentire alla richiesta e lasciar libero lui e tutta la sua gente. Il popolo tutto, seguendo questo grande uomo di Dio chiamato Mogwe, dopo il sacrificio di tre giovani chiamati Gaita, Kiuma e Muthetu (questi sono ancora oggi i nomi dei tre clan principali della tribù da cui deriverebbero tutti gli altri clan o mierega), passò la grande acqua. Per dividere e fermare le acque il Mogwe si servì di una magica lancia. I primi fuggiaschi attraversarono il mattino presto quando era ancora buio e si chiamarono Njiru (neri); i secondi attraversarono all’alba e si chiamarono Ntune (rossi); gli ultimi attraversarono in pieno giorno e si chiamarono Njaru (bianchi).
Dopo un lungo peregrinare arrivarono ai piedi della grande montagna sacra dalla quale scaturiva acqua buona e abbondante. E da quel giorno il popolo Meru abita nella terra che Dio gli ha donato, ancora fedele agli insegnamenti di quelli che hanno continuato l’eredità del “grande Mogwe”».

Solo leggenda?
A corroborare questa leggenda vi è (meglio dire “c’era una volta”, visto che parliamo di circa 50 anni fa) una curiosa usanza che io stesso ho osservato nel lontano 1965.
Quando un anziano stautiva, pronunciava con forza una di queste espressioni: «Antu ba ntune», «antu ba njaru», «antu ba njiru». Con questo voleva dire: «Sono del gruppo che è passato attraverso l’acqua verso l’alba» (ntune = rosso, riferito al colore del tramonto), oppure «sono del gruppo passato durante la notte» (njiru = nero) o ancora «sono del gruppo passato al chiaro del mattino» (njaru = lucente, bianco). E così ricordava agli astanti la propria provenienza e il gruppo clanico da cui derivava. Inoltre è interessante ricordare che all’inizio del secolo scorso, alcuni maestri protestanti tentarono di mettere insieme una specie di ‘dramma teatrale’ in cui ricordare le origini del loro popolo, ma la cosa non fu per niente gradita agli anziani i quali anzi ne imposero l’abolizione, timorosi che la storia potesse arrivare agli orecchi della nuova autorità coloniale inglese e la spingesse a ricacciare i Meru verso il luogo da cui erano giunti, «al di là della grande acqua».
Secondo gli studi più recenti questa «grande acqua» potrebbe essere il fiume Tana che scende dal Monte Kenya e verso la foce ha vaste paludi stagionali dove cresce abbondante il papiro. In queste paludi trovarono rifugio gli antichi Meru che erano fuggiti dall’isola di Mbwaa (o Mbwa – all’italiana Mbua – forse l’isola di Manda, nell’arcipelago di cui fa parte l’isola di Lamu) attorno al 1722. In quest’isola gli antenati dei Meru erano stati resi schiavi da «uomini (dai vestiti) rossi», probabilmente schiavisti arabi provenienti dall’Oman o dallo Yemen che proprio in quei tempi (1698) avevano completamente cacciato i portoghesi da Mombasa. Seguendo il fiume alcune bande di Meru arrivarono alle pendici del Monte Kenya e ne occuparono progressivamente i pendii cacciando gruppi preesistenti. Entro la metà del XVIII secolo, i vari gruppi Meru si erano stabiliti attorno al monte, nonostante un continuo guerreggiare con i pastori Maasai (cf. Fadiman, Jeffrey A., When we began, there were withmen: an oral history from Mount Kenya. Berkeley: University of Califoia Press, 1993).
Il racconto sopra riferito ha subito evidenti influenze ebraico-cristiane di non facile spiegazione. Un’ipotesi è che gli antichi Meru dell’isola di Mbwaa avessero già avuto contatto con i missionari Agostiniani che da Mombasa visitavano regolarmente le isole lungo la costa del Kenya e avevano stabilito una parrocchia nell’isola di Lamu; l’altra è che abbiano subito l’influsso di tradizioni islamiche di origine arabo-yemenita.

L’incontro con i Maasai
Le prime nove generazioni (Nthuke) di Meru salirono verso la grande cima bianca (del Kenya) penetrando nelle foreste vergini e disboscando per far spazio ai loro villaggetti. Un disboscamento estremamente contenuto. In molti luoghi lasciarono – su suggerimento di un grande keroria (profeta) – dei ciuffi di foresta diventati in seguito i famosi “boschetti sacri” che ancor oggi ammiriamo nel panorama.
Non era conosciuta una vera agricoltura, che si concentrava su alcune specie indigene di cereali e fagioli. Mais, pomodori, né tantomeno il frumento e il caffè erano ancora conosciuti. La vita girava intorno agli animali domestici – mucche, pecore e capre soprattutto – portati dalla famosa regione “oltre la grande acqua” (il fiume Tana).
Su queste pendici fecero conoscenza con una fiera tribù: quella dei Maasai. E, si capisce, l’incontro con questi agguerriti pastori nomadi non fu dei più pacifici. Sebbene all’inizio (1810-1820 circa) per paura e per non sbilanciarsi oltre il necessario, la coesistenza non fosse da nemici, ben presto le cose divennero difficili e le ruberie da ambo le parti fecero le prime vittime. Strano a pensarsi, ad avere la peggio furono i temuti Maasai, che pur quasi sconfitti continuarono le loro razzie di bestiame per molto tempo fino a quando la generazione Mbarata (circa 150 anni fa) mise fine alla storia. Molti dei Maasai sconfitti non trovarono altra soluzione che quella di passare ai Meru e così diventare quello che oggi conosciamo come gruppo Tigania. Ciò spiegherebbe perché tante famiglie abbiano dei nomi che non sono meru, ma maasai. Di più: se guardiamo anche la cartina geografica notiamo come il gruppo dei Tigania sia quello che si spinge verso il nord più degli altri gruppi. E il nord era tradizionalmente il regno dei nomadi Maasai.
Gli anni trascorsero senza particolari eventi, se non quelli delle carestie, delle invasioni di locuste, delle razzie e di qualche periodo di tranquillità.
Nel 1908 il governo inglese prese possesso della terra dei Meru dichiarandola terra della corona (crown land) e assoggettandola a forza parte alla neo colonia del Kenya. Da questa data in poi entriamo nelal storia documentata.

Lo smarrimento dei missionari
L’origine di questo popolo di ceppo Bantu è quindi incerta. Certo è invece che i primi missionari della Consolata, conoscendo poco o niente di questa tribù e non avendo accesso ai segreti gelosamente custoditi dagli anziani, trinciarono anche dei giudizi a dir poco pesanti. Cito qui la testimonianza di uno dei nostri primi missionari, che oggi certo sembra alquanto sbrigativa, irrispettosa e anche un po’ razzista. Scriveva:
«[È un] Popolo senza storia né scritta né orale, senza una civiltà anche solo primitiva. Il popolo Meru, prima dell’arrivo degli inglesi, era di un grado appena superiore agli animali del loro deserto e delle loro foreste: riprodursi, lottare per l’esistenza e per la preda; morire e, come le carcasse animali, esser divorati da altri animali; questo è il compendio senza eccezione della vita di ogni Meru, per cui non si doveva parlare assolutamente di un livello morale. Stando così le cose, non è a stupire se non hanno una storia, nemmeno orale. La loro origine si perde nella notte dei tempi e dell’oblio, e il loro ricordo non sale oltre la generazione che li ha preceduti. E anche i fatti, i fasti e le gesta dei predecessori che ogni nazione, con un minimo di civiltà, ha cura di tramandare ai posteri e che formano l’orgoglio nazionale, nel Meru sono passati e trapassati in modo tale da perdee persino il ricordo e le tracce».
Mons. Filippo Perlo, il primo vescovo di Nyeri sotto la cui giurisdizione era il Meru e che aveva organizzato le prime spedizioni dei missionari in quel territorio, nel 1922 scrisse: «E’ strano fino a qual punto questa popolazione difetti di storia, e se fosse vero l’aforismo che felice è quel popolo che non ha storia, questo dovrebbe essere arcifelicissimo. Basti dire che nessun ricordo antecedente alla presente generazione vi è conservato in alcun modo: nessun monumento storico esiste sotto qualsiasi forma, e invano ricerchereste per tutto il paese, su terra e sottoterra, pur traccia di ruderi, che possano risalire a una decina di anni addietro, ché è pur ben poco nella storia.
«A spiegare quest’assenza assoluta di quanto ha relazione col passato, credo valgano due ragioni l’una morale e materiale l’altra, la prima ha il suo motivo nella superstizione universale dominante, per cui chi è morto, è talmente morto, che neppur il suo nome, per quanto in vita riverito e stimato, può più essere ripetuto, né fuori né tantomeno nella casa e nella stessa famiglia che fu sua. A vedere quant’evitino, non dico di parlare di coloro che furono, ma pur anche di fae un qualsiasi accenno, sembrerebbe che in realtà evitino persino di pensarvi…
«La ragione materiale, a parer mio, starebbe in questo: che usando essi costruire ogni lor abitazione con pareti di ramoscelli intrecciati, rinforzati di malta e coperti di tetto di paglia, né all’infuori di questa capanna familiare, altre costruzioni esistendo nel Paese: – che gli edifici pubblici per le adunanze e l’amministrazione della giustizia sono suppliti da spiazzati erbosi, o annosi alberi dalla folta chioma -, ne risulta per le lor case una durata effimera quanto il materiale di cui sono formate… cioè al massimo quattro o cinque anni. Quindi è facile arguire che neanche gli atti di valore compiuti dagli eroi nazionali, o le successioni nobiliari, o alcuna delle più memorabili gesta collettive possono perpetuarsi nel ricordo di un popolo: non usandosi materiale in alcun monumento che ne conservi la storia, e la tradizione orale rifuggendo per partito preso dall’occuparsi di quelli che passarono, e tanto più di quanto operarono. In conclusione se c’è paese in cui si visse letteralmente alla giornata era questo, con esclusione assoluta d’ogni ricordo del passato, d’ogni preoccupazione per l’avvenire».

Una cultura senza passato?
Quelle riportate sopra possono sembrare cose di altri secoli, ma personalmente – nella missione in cui lavorai come principiante – questa «memoria proibita» di quanti erano stati gli antenati poteva ancora trovare riscontri negli atteggiamenti di persone sia totalmente illetterate come di persone istruite, compresi i maestri. Due o tre esempi.
Dovevo compilare le schede dei battezzandi. «Come ti chiami?» «Njogu» (= elefante). Strabuzzai gli occhi. Il catechista fu veloce a spiegarmi che suo fratello era morto da piccolo e suo padre gli aveva messo il nome di un animale grande e potente perché impaurisse lo spirito del male impedendogli di prendere anche questo nuovo figlio. Va bene. Scrissi: «Elefante».
Arrivò una ragazza. «Il tuo nome?» «Nterietwa» (tradotto letteralmente: non ho nome!). Pensai che la battezzanda non avesse ancora scelto il nome cristiano da prendere per la funzione ed insistetti. Fu ancora il catechista che mi venne in aiuto: «Vedi padre, questa figlia ha avuto due fratellini prima di lei, morti in tenera età. Allora i suoi genitori le hanno messo il nome Nterietwa proprio per confondere lo spirito che così non troverà più una nuova vittima».
Aggiungo a queste due curiosità un’altra di qualche giorno prima, quando chiesi ad un candidato maestro il nome di suo padre. Non me lo volle dire. E mi spiegarono che su queste cose è meglio non insistere: chi è morto va lasciato in pace. Neppure nominarlo o ricordarlo! Così si possono a volte spiegare tante cose della storia… che non fa più storia!

Le classi di età
Ritorniamo alla storia o almeno ad alcuni elementi che possono darci una mano a ricostruire la storia del popolo Meru e capie la struttura sociale. Un elemento fondamentale è la comprensione della formazione e sviluppo delle loro classi di età (age set).
Noi missionari abbiamo imparato presto a considerare l’età e il tempo un po’ diversamente da come dice il vocabolario, sia che si prenda come base il tempo solare che quello lunare (più facile da contare  per via delle varie fasi lunari). Tra i Meru (e in genere tutti i popoli Bantu, e non solo) l’età di una persona era valutata non secondo la data di nascita ma secondo la classe di appartenenza, la cosiddetta classe di età (oggi, con le nuove regole imposte dal governo centrale, i bambini vanno registrati alal nascita e i nomi vengono perpetuati nei computer).
Più che fornire spiegazioni tecniche o antropologiche, mi permetto di usare un paragone prosastico ma efficace…
Anzitutto attenzione al numero sette. Sappiamo che tra i popoli orientali questo numero sin dall’antichità riveste un carattere sacro o quasi (basti pensare al settimo giorno della Bibbia). Su che cosa si fondi è difficile dirlo (anche se le fasi lunari – 4 fasi di 7 giorni ciascuna – sembrano essee l’origine per tutti i popoli del mondo). Il numero sette è importante anche per i Meru.
Chi ha osservato l’andamento delle stagioni in alcune regioni del Kenya ha scoperto che nel giro di sette anni (o quasi… uno più o uno meno) c’è una variazione regolare del ciclo delle piogge. Nella Rift Valley c’è addirittura un fiore, una liliacea, che sboccia ogni sette anni, e i Kipsigis (sud-nilotici del Kenya) attendono questo fenomeno per segnare l’inizio dei riti di iniziazione. Anche i Meru celebrano i riti d’iniziazione ogni sette anni. Durante questi riti, si celebra un vero passaggio di età, lasciando la classe precedente per entrare in una nuova. Un paragone può chiarire meglio.
Supponiamo che tutta una tribù sia stipata su un treno. Nella prima carrozza ci sono gli anziani (età dai 40… ai cento, per chi ci arriva). Nella seguente ci sono quelli di un’età compresa tra i 35 e gli …anta, che sono gli anziani minori, adulti che non hanno ancora un figlio circonciso. Un’altra carrozza raccoglie quelli che hanno dai 28 a 35 anni, i guerrieri maggiori e tira da quella di chi ha tra i 21 e i 28 anni: i guerrieri minori. C’è poi quella della nuova riika (guppo di età) o dell’ultima circoncisione (tra i 14 e i 21) e infine l’ultima carrozza dei fanciulli incirconcisi. Le donne hanno un’organizzazione sociale diversa essendo praticamente divise in due categorie di circoncise (sposate) e incirconcise (bambine).
Ogni sette anni (ci possono essere degli spostamenti se, contro tutte le previsioni, il settimo anno è un anno di siccità: non si può far festa quando non c’è cibo per gli uomini e il bestiame) il treno si ferma: tutti scendono, fanno una grande festa celebrando l’iniziazione alla vita adulta degli adolescenti, e poi risalgono sul treno cambiando posto ed avanzando di una carrozza.
Quanto agli anziani: o ci ha già pensato il Padreterno o vengono relegati a compiti di onore e non più di servizio, eccetto i grandi sacerdoti, gli stregoni e i capi. I nuovi anziani lasciano il posto ai guerrieri maggiori, questi a quelli minori e così via fino ai marmocchi che salgono nel carrozzone dei neo circoncisi.
A questi “carrozzoni” – sempre per stare nell’allegoria – i Meru hanno dato il nome Nthuke (che significa più o meno generazione, gruppo di età: neo-circoncisi, guerrieri, anziani…).

Un nome dinamico
Il nome è importante, ma non è un fattore permanente che accompagni una persona dalla nascita alla morte, come avviene nella nostra società. Nella cultura Bantu il nome cambia col crescere della persona. Può così succedere che un individuo cambi il nome anche una decina di volte nella vita, per la gioia di chi deve compilare l’anagrafe o tenere un registro parrocchiale. Ogni persona inizia con il primo nome datogle dai genitori (oggigiorno succede anche che ne sceglie un altro quando entra nella scuola e lo cambia se deve ripetere l’anno scolastico per via di bocciature), ne riceve uno nuovo al momento dell’iniziazione e poi magari ci penseranno gli stessi coetanei ad affibbiargli un nuovo nome per distinguerlo meglio, per onorarlo, per riconoscere una sua dote (ad es. Mto-Mugambi = il parlatore… l’avvocato) e così via. Quante volte è successo e succede ancora che anche ai missionari venga cambiato il nome! «La madre della misericordia», il «padre che ci vuol bene», il «silenzioso» (Mukiri), Mwereria (= il vagabondo per la buona causa…; anche se non è vero che proprio tutti i missionari abbiano ricevuto nomi così elogiativi). Un nome così esprime davvero la persona che lo porta. Il cardinal Otunga ricevette dai Meru dell’Igembe il nome di Mto-Baikiao (l’uomo della bontà). Un nunzio apostolico era chiamato Mzee Mwenda (l’anziano che è amato).
Così il missionario che voglia un po’ di ordine nei registri, deve spesso arrampicarsi sui vetri! In più c’è la complicazione dell’età. Un tempo non si insisteva sull’età, perché nessuno era in grado di “tradurre” nel gergo dei bianchi il numero degli anni che aveva sul groppone. Nemmeno il governo insisteva più di tanto ed è davvero recente la legge che obbliga i genitori a registrare i bambini alla nascita. Così sulle carte d’identità vi è un dato che a noi suona strano: età «sopra i diciotto». Oltre a tutto questo va ricordato – per complicare la faccenda – che contare portava sfortuna. Come nessuno contava i capi di bestiame che aveva, le mogli che possedeva, i figli generati, così non contava gli anni. Se era vecchio diceva: «tanti».

Organizzazione sociale
Chi oggi prende un manuale di antropologia può subito scoprire come la grande etnia dei Meru non sia una realtà omogenea. A livello locale ci sono molte  diversità di lingua, usi, costumi e tradizioni, perché la tribù è in realtà costituita da sette gruppi simili, che occupano le sette zome principali del territorio del meru. Eccoli: Chuka, Muthambi, Igoji, Imenti, Tharaka, Tigania, Igembe.
Difficile dichiarare quale di questi gruppi è il vero rappresentante dei Meru! E non è detto che tutti siano contenti della denominazione ormai classificata! Nel censimento del 1989, ad esempio, successe che il gruppo dei Tharaka optò per essere denominato Meru e stop. Ma poi ci ripensò e nel censimento del 1999 toò con fierezza a definirsi Tharaka. Perché? La risposta è meglio cercarla nelle promesse a iosa fatte dai politicanti di quei giorni! Poco mancò che anche i Chuka e i Muthambi optassero per essere chiamati Kikuyu. Il motivo? La loro lingua è per una buona metà Kikuyu.
All’interno di questi gruppi ci sono i clan o mwerega. Il nome mwerega indica anche una serie di costoni e creste collinose ai piedi della grande montagna del Kenya, essendo i vari costoni divisi da fiumi che scendono precipitosi dalla montagna scavando profonde valli. La mwerega è allora un’organizzazione politico militare localizzata sul crinale dei lunghi collinoni che scendono dalla montagna. Il sistema dei clan ha permesso ai Meru di organizzare una efficace difesa contro i nemici, evitando l’annientamento in un ambiente tutt’altro che facile. I vari clan formano i gruppi, i gruppi la tribù. Ogni clan trae la sua origine da un capostipite – troppe volte dimenticato per via del tabù di cui ho parlato sopra. Questi clan sono esogamici: un individuo non può sposarsi entro il proprio clan, né in quello materno. L’individuo – per sé – conta poco nel proprio clan. È il clan a dar forza e valore nell’organizzazione della tribù. Vi sono tuttavia individui che per vari motivi assurgono a gradini sociali altissimi. Ne parlerò più avanti. Per i Meru non è possibile parlare di re e regine. Il governo della tribù è nelle mani delle Nthuke (generazioni) che cominciano il loro periodo di governo con una speciale cerimonia d’iniziazione chiamata Ntweko. Al termine del periodo di governo, l’autorità passerà automaticamente alla generazione seguente. Qualcuno parla di un vero e proprio sistema di governo realmente democratico.

Gli Njuuri
Sopra tutte queste “generazioni” vi è da secoli un sistema gerontocratico caratteristico dei Meru: i cosiddetti Njuuri (scritto anche Njori o Njuri). E la parola Njuuri mi porta ad un discorso un poco più particolareggiato poiché come missionari abbiamo dovuto per tanto tempo lottare, pazientare, rispettare ma a volte anche soffrire di tasca nostra… specialmente quando all’inizio dell’evangelizzazione ci furono episodi assai tragici.
Gli anziani della tribù erano e sono divisi in tre gradini: il primo era costituito dagli Areki (sing. Mwareki) ed era un onore sia per uomini come per donne, essere annoverati in questo rango. Il secondo gradino era formato dagli Njuuri Nceke ed il terzo dagli Njuuri Mpingiri. Gli anziani che formavano gli ultimi due ranghi erano selezionati con cura: meglio dire segregati dal resto della tribù. Per poter essere eletti Njuuri, i candidati dovevano pagare una forte tassa, in genere un gran numero di animali da sacrificare e mangiare durante una grande festa.
Ciascun Njuuri, e questo continua ancor oggi nelle remote regioni dell’Igembe, aveva la sua particolare maschera dipinta sulla faccia, specialmente durante cerimonie e riti e raduni solenni. Segni distintivi dello Njuuri erano (e sono): il Morai o bastone nodoso ricavato da un ramo di legno nero (in genere ebano); la Ncea o corona di conchiglie sulla testa; il Meu o scopino fatto di peli di coda di animale (si tratta in genere di peli della coda di mucca o anche giraffa) e lo sgabello a tre gambe scolpito da un unico pezzo di tronco. Alcuni Njuuri aggiungono il copricapo di pelle di scimmia guereza (per esempio gli Njuuri facenti funzione di capi, gli agwe, gli stregoni…) ed una specie di manto di pelle di montone o anche di scimmia.
Quando vi erano questioni gravi da dirimere questi anziani si radunavano in un prato presso Tigania, vicino alla foresta d’Uringo, e «sedevano e sedevano sull’erba» (sedere sull’erba è un modo eufemistico per dire: discutere, giudicare; la reiterazione del verbo indica la lunghezza del raduno). Questo prato, tempo addietro, era il più sacro e famoso luogo di convegno degli Njuuri. Vi giungevano da tutte le parti del Meru. A ricordo, negli anni Settanta, venne eretto un santuario a forma di capanna, ma non fu mai più usato come punto d’incontro.
Gli Njuuri sono ancor oggi un autorità tribale riconosciuta dal governo del Kenya e godono di rispetto indiscusso. Un giovane missionario africano che nel 2008 si permise di pubblicare affermazioni ritenute irrispettose nei loro confronti, dovette essere prontamente trasferito in un’altra zona del paese.
Parlando degli Njuuri non posso – a questo punto – non ricordare la figura di un nostro missionario, il p. Franco Soldati ribattezzato Mwereria (vagabondo per buona causa) il quale – con il beneplacito del vescovo mons. Lorenzo Bessone – fu accettato tra gli Njuuri Ncheke. È curioso il dialogo di Mwereria con il vescovo. «P. Soldati , mi fido di lei: se vede che la faccenda brucia, si tiri subito indietro!». «Monsignore, con l’aiuto di Dio cercherò di non lasciarmi bruciare!» (vedi un profilo di p. Franco in MC 10-11/2002, pag. 79).
P. Mwereria ha affidato questa esperienza a un interessante diario in cui descrive quanto ha scoperto degli Njuuri e quanto essi hanno scoperto in lui… cose belle e meno belle, ma soprattutto è riuscito a sfatare quella che i nostri primi missionari avevano definito tout-court «massoneria nera».

La Kagita, il tribunale degli Njuuri
La Kagita (tribunale indigeno) aveva potere sopra tutti gli Njuuri e la tribù; era costituita dalla cerchia degli Njuuri più rinomati, il Mogwe (lo sciamano-guaritore e sacerdote-sacrificatore) che descrivo più avanti) e il capo. Si radunava in una capanna particolare detta nyumba ya kagita. Era quella la capanna più temuta nella regione. Vi erano giudicati soltanto i casi criminali più gravi contro la comunità. E in genere, l’accusato, criminale o meno, una volta giudicato dalla Kagita, pagava con la vita. I giudici dovevano trovare assolutamente un responsabile.
Il modo di procedere era il seguente: i membri della Kagita insieme al presunto colpevole entravano per la porta principale della capanna. In pompa magna e seduti sullo scranno a tre piedi tabaccando abbondantemente, ognuno iniziava a parlare e ripetere o commentare il caso giudiziario. Nel mezzo del cerchio deglii anziani, accanto all’accusato, vi era una grossa zucca, ripiena di vino di canna. Non tutto il contenuto però era vino; una buona dose di veleno era stata previamente versata nella bevanda. Siccome il veleno era più pesante del vino, si depositava sul fondo della zucca. La sentenza contro il supposto criminale una volta entrato nella Kagita era sempre quella capitale. Ma doveva essere provata, con la prova del veleno. Il primo degli Njuuri, usando una zucchetta come mestolo, attingeva un po’ di vino, attento a non toccare il fondo del contenitore. Beveva dicendo: «Bevo di questo vino e rallegro il mio ventre, perché sono innocente…». Seguiva il secondo giudice, il terzo, il quarto e così via fino all’ultimo. Finalmente era la volta del condannato. A lui l’ultimo giudice offriva il vino dopo averlo attinto dal fondo della zucca. «Bevi di questo vino – scandiva – e vediamo se anche per te dimostrerà che sei innocente!». Il veleno agiva in meno di un quarto d’ora. Il disgraziato, ormai rigido nello spasmo degli ultimi attimi di vita, veniva spinto con dei bastoni fuori dalla capanna attraverso un buco nelal parete opposta all’entrata principale. Il buco veniva subito mimetizzato così che lo spirito cattivo non potesse più trovare la strada e raggiungere il “traditore”. Questo era uno dei tanti modi di amministrare la giustizia; molti altri erano lasciati alla fantasia dei giudici, come la “prova del fuoco” e la “prova dei funghi”.

Qual era la loro religione?
All’indizio del Novecento i nostri missionari trovarono grande difficoltà a districarsi nel sottobosco religioso di questo popolo. L’egemonia – o direzione suprema – degli Njuuri sia nel ramo maschile che femminile non lasciava troppe porte aperte per sbirciare fin dentro a ciò che accadeva nella tribù in modo particolare nei gruppi dell’Igembe, Tigania e Mikinduri, le zone più soggette al comando degli anziani.
Ci vollero cinquant’anni perché si potesse far breccia in questo monolito religioso. E dobbiamo dire davvero grazie al coraggio di p. Soldati – Mwereria – se tante cose si sono capite meglio e si sono sfatati tanti pregiudizi.
Nei pochi brevi diari dei missionari della prima metà del secolo (1910-1950) vi sono cenni e storie inficiati spesso da giudizi superficiali. Mwereria ha avuto il coraggio non solo di mettere  il naso in questo affare, ma di diventar lui stesso uno degli Njuuri, fino alla classe degli Njuuri Ncheke (magri), la classe ristretta che ancor oggi onora gli anziani più eminenti. Mwereria fece tante scoperte in quelle capanne dove nessuno che non fosse Meru era mai entrato.
È interessante leggere la descrizione che Mwereria fa di se stesso quando entrò nella capanna più riservata degli Njuuri. Per l’occasione aveva dovuto accettare di farsi dipingere sulla faccia i segni caratteristici dello Njuuri. Aveva anche dovuto pagare la sua bella tassa di un grosso bue… Quando lo invitai ad alzare il velo sull’organizzazione tribale dei Meru delI’Igembe, Mwereria mi diede un piccolo studio, dove narrava come fosse riuscito a penetrare nella “kiama kia Lamalle” (una delle classi di età degli adulti) e a “legare la chiesa” (uso un termine di Mwereria stesso) con gli Njuuri. Mi permetto di citare un brano del diario di Mwereria. Va ricordato che P. Soldati quando parla di Mwereria usa la terza persona come si trattasse di un’altra persona e non di stesso.
«Nel passato, Mwereria ha parlato di Njuuri ed Areki, affrontando problemi che coinvolgevano cristianesimo e tradizioni tribali. Non si era mai pronunciato sulla Kiama kia Lamalle. Ma ora la storia si ripete. I cristiani furono sempre sconsigliati a fare parte di quella kiama (gruppo, aggregazione, associazione, ndr.), se non addirittura esclusi dai sacramenti, come castigo alla loro adesione. Parecchie volte successe anche che giovani cristiani che si rifiutarono di fare questa iniziazione, fossero costretti fisicamente e magari portati di peso volenti o nolenti nelle varie capanne di iniziazione. Il missionario in questi casi cercava di aiutarli come poteva, magari nascondendoli per qualche tempo alla Missione. Ma era giusto? Perché rifiutare per partito preso tutto ciò che riguardava tradizioni africane? Perché questo muro di diffidenza tra chiesa e tribù? Ed allora perché meravigliarsi, se le varie chiese cristiane erano considerate come i peggiori nemici dell’africano? Se erano sopportate, il merito non era da attribuirsi solo alle opere innegabili di carità e di civiltà che queste chiese lasciavano abbondantemente al loro passaggio, ma anche all’influsso e al potere di un governo europeo dalla tinta cristiana. Indirettamente questa civiltà cristiana-europea aveva scalfito tutti i pilastri sui quali poggiava una tradizione secolare, ma la differenza rimaneva tra quelli che ancora cercavano di puntellare come potevano questi pilastri e coloro che invece volevano abbatterli completamente».
Questo fu sempre l’interrogativo di Mwereria: come conciliare la morale della Chiesa e la tradizione africana. Si domandava se fosse vero o falso che tutto ciò che conceeva le tradizioni era contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa. Scoprì poco alla volta che certi riti non erano esattamente santi, tuttavia la loro sostanza non era marcia: si trattava solo di regolae gli eccessi.

Ngai-Murungu: il nome di Dio
Come si può allora descrivere la religione tradizionale dei Meru? Cito anche qui un picciolo studio di un vecchio missionario dei primi tempi.
«La religione dei Meru è molto primitiva. Hanno due nomi per indicare Dio: Ngai (nome copiato probailmente dai Maasai, che hanno la dizione EnKai, o dai Kikuyu che hanno Ngai, che confondono spesso con fenomeni naturali), e Murungu (molto simile al nome Mungu, swahili per Dio). Questo Dio è personale, ma non gli prestano un vero culto, per quanto poi lo si senta invocare usando espressioni come «Murungu are o» (Dio c’è, specie nei pericoli o calamità pubbliche e private), oppure «Murungu ni Munene» (Dio è grande – frase presa forse dall’islam), «Kethera Murungu akwenda» (se Dio vuole – anche questa di sapore islamico). In rare circostanze i Meru fanno sacrifici direttamente a Dio, in caso cioè di carestia, di moria di uomini e animali, d’invasioni di locuste. Non è un individuo privato a compiere il sacrificio ma sempre una persona pubblica».
Fin qui le affermazioni di quel missionario. Ma ai suoi tempi era ancora sconosciuto – o forse semplicemente confuso nella cerchia non ben definita degli stregoni – un personaggio particolare di cui più tardi si venne a conoscenza e solo dopo uno studio approfondito sulla sua attività fu possibile valutae l’importanza: il Mogwe (plurale Agwe).

Gli Agwe
Con l’aiuto di P. Franco Soldati, da anni stabilito nella missione di Tuuru, l’antropologo Beardo Beardi riuscì a contattare i quattro Agwe della regione del Njombeni e ne scrisse in un libro intitolato «The Mogwe, a failing prophet», vita, autorità, pregi ecc.. Forse, esagerando un poco l’autorità di questo personaggio poteremmo accostarlo alle figure dei grandi sacerdoti del popolo d’Israele (magari addirittura a Melkisedek). Il compito del mogwe nella società Meru è quello di liberare dal male, dalle maledizioni e dalle influenze nefaste causate dallo stregone, il murogi (o urogi).
Personalmente ho conosciuto il mogwe di Amungenti che ricevette il battesimo dopo un lungo catecumenato ad opera di P. Emilio Canova (+ 2007) e P. Antonio Giustetto (+2002). Con il battesimo prese il nome di Giovanni MtoMugambi. Questo mogwe non lasciò a nessuno dei suoi figli la sua eredità spirituale e con lui si concluse la storia del Mogwe dell’Igembe. Osservando la condotta e l’ufficio tribale di questo personaggio, non mi è sfuggito il suo particolare stato di vicinanza a Dio, il rispetto che la gente aveva per lui, la scelta della sua persona per particolari sacrifici. Tant’è che non trovando altre parole più significative nella traduzione di certe preghiere e culti, noi missionari abbiamo usato il nome di Mogwe applicandolo a Gesù Cristo “Tu sei il Mogwe, il nostro sacrificatore”. La gente ha apprezzato e capito.

Il culto-timore degli spiriti
Ritorniano alla testimonianza già iniziata sopra. «Portano – i nostri Meru – invece un grande culto, forse per timore, agli Nkoma (spiriti e anime dei trapassati) il cui scopo sarebbe solo quello di tribolare l’umanità. La relazione dei viventi con questi Nkoma è solo tra parenti. Si ha cura allora di sacrificare qualche volta delle capre ed offrire vino di canna da zucchero (nchobi) per tenere quieti questi Nkoma ai quali viene attribuita in genere ogni malattia o accidente. Non hanno una classe sacerdotale, lo stregone (Moga) sarebbe un intermediario tra gli uomini e gli Nkoma».
Quest’ultima affermazione riflette la scarsa conoscenza che allora i missionari avevano della figura e ruolo del mogwe (scritto anche moga o muga all’inglese) con non è più possibile confondere con lo stregone vero e proprio, chiamato murogi.
Lo scopo di quete pagine è limitato, ma certamente la figura dello stregone e la loro occulta ingerenza nella storia delle missioni del Meru (ci sarebbe materiale per scrivere un vero thriller!) meriterebbe uno studio più approfondito.

Molto da scoprire
A questo punto, visto l’argomento, vorrei sollevare un poco il velo di mistero sotto il quale come missionari abbiamo sempre coperto alcuni aspetti di storia e di usanze occulte tra i Meru. Nel 1964 – come pivello missionario – mi trovai a sostituire per alcuni giorni il parroco di Tigania. A farmi compagnia c’era un nostro conosciutissimo (a quei tempi) missionario: p. Ottavio Sestero. Lo osservai a lungo mentre su uno sgualcito quaderno scriveva appunti. P. Sestero era un poco il “reporter particolare” delle nostre missioni del Kenya per la rivista Missioni Consolata.
Mi feci coraggio e gli chiesi alcune delucidazioni su quanto aveva scritto nel passato. Pochi anni prima aveva mandato alle stampe un romanzetto thriller intitolato «Il sacrificio del settimo anno», dove raccontava di un episodio avvenuto proprio nell’incipiente missione di Tigania. Tante cose a me sembravano inventate o quasi. Mi rispose, tra una pipatina e l’altra: «Non è un frutto di fantasia. Sono cose avvenute ma di cui nessuno parla e che ai nostri giorni nessuno o quasi più conosce. Io ho solo messo insieme a mo’ di romanzo tutta la faccenda… Se crede, potrei anche farle visitare i luoghi descritti nel romanzo a cominciare dalle cavee in cui uno dei protagonisti dovette nascondersi».
La località era Muthara, vicino a Tigania. In quella regione vi era un’usanza singolare chiamata da noi «il sacrificio del settimo anno», in parole povere un sacrificio umano. Durante la cerimonia settennale della circoncisione generale, il primo ragazzo che si presentava per la circoncisione era di fatto sacrificato con il veleno spalmato sul coltello usato per circoncidere. La cosa era tenuta nascosta al malcapitato e sovente offriva l’occasione per disfarsi di individui non voluti o inutili per la tribù, oppure per vendette trasversali. E così, veniva placato lo spirito. A scoprire questa usanza fu uno dei primi missionari di Tigania il quale vide – questo è narrato nel romanzo – portar via il figlio della prima famiglia cristiana che era venuta da Mojwa.
La relazione del mio vecchio informatore termina così: «I Meru hanno un numero infinito di pratiche che regolano tutta la loro vita, molte delle quali superstiziose, altre addirittura immorali, che per loro hanno forza di legge e che solo il cristianesimo, potrà poco per volta distruggere o modificare».
Queste cose sono state scritte prima della seconda guerra mondiale. Durante la guerra 1940-1945 tutti i missionari furono imprigionati e portati in Sudafrica nei campi di concentramento e le missioni abbandonate. In molte missioni – specialmente del Meru – la foresta si ripresa il suo dominio. Trovare cristiani fedeli nelle missioni del Meru era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Per di più – per via di un ordine tassativo del governo coloniale inglese – il ritorno dei missionari (ottenuto dopo lunghissime trattative tra Goveo e Chiesa Cattolica) fu concesso ad un patto: i vecchi missionari del Meru non potevano più rientrare nella regione, ma dovevano effettuare uno scambio con quelli provenienti dalle zone Kikuyu. Prendere o lasciare. I missionari non ebbero scelta: presero! Impararono un’altra lingua, si scontrarono con un dedalo di pratiche religiose e non religiose che spesso non capivano e ripresero a seminare nei vecchi solchi
Come, o quasi, era successo nel lontano l911….

Giuseppe Quattrocchio