Amare la patria, amare la chiesa

Premessa

Iniziata con l’espulsione di tutti i missionari stranieri, continuata con la costrizione dei cattolici a formare una chiesa nazionale e con la persecuzione di quelli rimasti fedeli al papa, la storia della Chiesa cattolica in Cina negli ultimi 60 anni è stata segnata dal martirio. All’insegna dello slogan «aiguo; aijiao» (amare la patria o amare la chiesa) i cattolici erano costretti a scegliere: aderire alla Chiesa ufficiale o patriottica oppure entrare in clandestinità per rimanere fedeli alla Chiesa di Roma. Tale storia non è ancora finita, anche se negli ultimi decenni sono avvenuti molti cambiamenti sostanziali nei rapporti tra Cina popolare e Santa Sede.
Il comunismo capitalistico attuale non è più il comunismo di Mao; il Vaticano non è più considerato un «imperialista, nemico della rivoluzione», anche se certi cliché propagandistici sono ancora forti, soprattutto tra gli amministratori più periferici e di vecchio stampo. Nonostante le tante aperture e modeizzazioni del regime negli ultimi decenni, la Cina segna il passo in fatto di diritti umani, di libertà religiosa e di coscienza. Arresti e vessazioni contro clero e fedeli cattolici continuano in vari luoghi e occasioni.
Anche il Vaticano è passato dalla scomunica del comunismo alla Ostpolitik e sta tentando tutte le vie possibili per riallacciare le relazioni diplomatiche con Pechino, fino a chiedere perdono di eventuali errori storici e del colonialismo, come ha fatto Giovanni Paolo II. Ma neppure a Roma mancano contrasti e resistenze tra i fautori del dialogo e i sostenitori della linea dura contro il regime cinese e i suoi emissari.

Più delle persecuzioni estee, a preoccupare il Vaticano è la persistente lacerazione all’interno dei cattolici cinesi. Nonostante tutto, dal punto di vista dottrinale la Chiesa in Cina rimane un’unica Chiesa: fede, tradizione, liturgia sono rimaste intatte in ambo le parti. Propaganda ufficiale a parte, i fedeli non sentono più l’alternativa tra l’amore per la patria e per la Chiesa e il papa, ma vogliono partecipare alla vita e modeizzazione del paese come tutti gli altri cinesi, senza rinunciae alla comunione con il successore di Pietro.
A livello di unità vissuta, invece, le ferite tra cattolici ufficiali e clandestini sono ancora aperte, rancori e risentimenti sono molto vivi, nonostante gli appelli al perdono e alla riconciliazione. In più di cinquanta occasioni Giovanni Paolo II ha espresso pubblicamente il suo affetto nei confronti dei cattolici cinesi. Benedetto XVI il 27 maggio 2007 ha inviato una lettera ampia, precisa e affettuosa, in cui manifesta la sua stima per tutto il popolo cinese e incoraggia i cattolici a perseverare nella fede e a percorrere la strada evangelica della riconciliazione.
Punctum dolens da oltre 60 anni e ostacolo più ingombrante nel cammino dell’unità ecclesiale e della normalizzazione dei rapporti tra Roma e Pechino, inoltre, rimane il problema delle nomine e ordinazioni episcopali, alle quali il Vaticano non può rinunciare, poiché nella teologia cattolica fanno parte della natura della Chiesa, e Pechino non vuole rinunciare, poiché sono uno strumento essenziale per mantenere il controllo sociale sulle attività ecclesiali.
Da alcuni anni si sono avute varie ordinazioni episcopali concordate tra Pechino e Santa Sede. Da parte cinese non si tratta di una «conversione» dei quadri del partito, ma di mero opportunismo: il governo ha constatato che i vescovi eletti e ordinati senza il mandato apostolico rimangono isolati e non hanno autorevolezza sui fedeli, che disertano le chiese da loro guidate e si rifiutano di ricevere i sacramenti dalle loro mani. Molti nuovi vescovi, all’inizio e alla fine della loro consacrazione, ci tengono a sventolare in pubblico la lettera di nomina papale.

Da novembre 2010, purtroppo, sono riprese le ordinazioni di vescovi senza mandato papale, con grande delusione e proteste vaticane, allargando il fossato di ignoranza e diffidenza reciproca e rendendo più ardua la strada del dialogo, di cui entrambi gli interlocutori sentono stringente bisogno.
Per superare tale fossato ed entrare nella Cina, bisogna passare per la porta del cuore e dell’amicizia. La Cina di oggi è diventata «poco comunista», ma continua ad essere «molto cinese», come era quattro secoli fa, ai tempi di Matteo Ricci (1552-1610), il grande missionario gesuita entrato nella corte imperiale grazie al suo delizioso «Trattato sull’amicizia».

Benedetto Bellesi 

Benedetto Bellesi




Mani tese e pugni chiusi

Rapporti tra Santa sede e Cina

Negli ultimi 60 anni, i rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese hanno avuto fasi varie e complesse: ai pronunciamenti critici vaticani verso il costituirsi della Chiesa patriottica, il regime ha risposto con le persecuzioni; ai momenti di mano tesa sono succeduti periodi di irrigidimento e tensione. Continua anche oggi l’altalena di aperture e incomprensioni, rispetto e ripicche, interrogativi e speranze, che rendono sempre più incomprensibile il mondo cinese e la sua politica.

La Chiesa cattolica in Cina era in piena fioritura quando scoppiò la rivoluzione comunista e nacque la Repubblica popolare (1949). Da soli tre anni Pio XII aveva costituito la gerarchia cattolica: circa 3,3 milioni di fedeli erano sparsi in 20 arcidiocesi, 79 diocesi, 38 prefetture apostoliche e una missione sui juris; dei 139 vescovi, 113 erano stranieri e 26 autoctoni, tra cui il card. Tian Gengxin; c’erano 2.700 preti locali e 6.475 missionari stranieri, 2.500 suore straniere e quasi 4 mila indigene. Mons. Antonio Riberi fu il primo a guidare la Nunziatura apostolica a Nanchino, istituita nel 1947.
Erano passati 10 anni da quando Propaganda Fide aveva riconosciuto degni di stima i «riti cinesi» (1939); i cattolici potevano finalmente sentirsi veri cristiani e pienamente cinesi. Non la pensavano allo stesso modo gli esponenti del nuovo regime; la Chiesa appariva loro come una minaccia per la rivoluzione e iniziarono subito a paralizzae l’attività, ricorrendo per 20 anni ai più svariati metodi di repressione: calunnie, intimidazioni, processi popolari, espulsioni, imprigionamento, lavori forzati e anche esecuzioni. E tutto questo a dispetto della conclamata libertà di culto per tutte le confessioni religiose, sancita dal Programma politico comune del 1949 e riaffermata nella Costituzione del 1954. Una vera libertà, secondo gli esponenti del regime, poteva darsi solo in una Chiesa senza legami con organizzazioni straniere e sottomessa al potere dello stato.

Caccia allo straniero
Fin da subito il nuovo regime tronca ogni relazione diplomatica con il Vaticano e lancia una campagna diffamatoria che dipinge i missionari come nemici del popolo e del nuovo corso cinese, chiede ai cittadini cattolici di cessare ogni relazione con «imperialisti» e «reazionari», espressamente indicati nel papa e missionari stranieri, nei sacerdoti e religiosi cinesi che non vogliono rompere con il Vaticano. Nel giro di tre anni i missionari stranieri scendono a 537, mentre da 200 a 300 preti cinesi risultano imprigionati. Al tempo stesso il governo lancia il movimento della «Triplice autonomia»: la Chiesa cinese ha il diritto di essere autonoma da Roma in materia finanziaria, amministrativa e apostolica (evangelizzazione). Al movimento aderisce subito, insieme a vari preti e suore e poche centinaia di fedeli, Li Wei-guang, vicario generale della diocesi di Nanchino. Per questo viene scomunicato nel 1952, ma il provvedimento sarà reso pubblico solo nel 1955, nella speranza di un ravvedimento. Mons. Riberi, nunzio apostolico in Cina, pubblica opuscoli e lettere per difendere la Chiesa dall’accusa di imperialismo, dare ai vescovi istruzioni sul governo delle diocesi e mettere in guardia sull’idea delle tre autonomie. Ma poiché la Santa Sede non riconosce la Repubblica popolare, mons. Riberi è considerato uno straniero qualsiasi, senza alcuna rappresentanza diplomatica; dichiarato «persona non grata», incarcerato (1951) e poi espulso dalla Cina, «con l’accusa di spionaggio e incitamento alla ribellione», il nunzio trasferisce la sede diplomatica a Hong Kong e poi a Taipei (Taiwan), capitale della Cina nazionalista.
Nel 1952 Pio XII invia una lettera apostolica (Cupimus imprimis) in cui esprime la sua ammirazione per il popolo cinese e la sua tristezza nel vedere che la Chiesa viene considerata nemica del popolo; il papa rassicura le autorità che vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose in Cina cercano solo il bene della gente, mediante scuole, ospedali, ospizi, orfanotrofi.
Tutto inutile. L’anno seguente (1953) l’Ufficio affari religiosi in Cina raduna a Nanchino un gruppo di preti per un congresso (presieduto da Li Wei-guang da poco eletto «deputato cattolico» all’Assemblea nazionale) dove viene firmato un documento in cui si intende dare vita a un «movimento antimperialista per amare la patria e la Chiesa».
Nell’ottobre 1954, con l’enciclica Ad Sinarum gentem il papa loda i fedeli che perseverano nell’unità della fede, confuta le «tre autonomie» o altri principi simili, concludendo che la costituzione di una chiesa «nazionale» non sarebbe più «cattolica». 

Nasce la chiesa patriottica
Le autorità cinesi sono sempre più determinate nel portare la Chiesa sotto il controllo statale, moltiplicando persecuzioni e carcerazioni delle principali personalità cattoliche, sostituite da «rappresentanti del popolo» imposti dal governo; molti vescovi e preti entrano in clandestinità, ma una campagna su scala nazionale mobilita la popolazione per scoprire tali «controrivoluzionari».
Nel 1956-57, anno del «Movimento dei cento fiori», in due congressi a Pechino, 241 delegati di tutte le diocesi della Cina si costituiscono in «Associazione patriottica dei cattolici cinesi» (Apcc) approvata ufficialmente il 2 agosto 1957 e celebrata con solenni feste e riti religiosi, discorsi roboanti e attacchi al Vaticano, per dimostrare l’unanimità dei cattolici in tale evento storico. Ma a Roma arrivano notizie differenti: molti delegati sono stati costretti a partecipare e portati sotto scorta; i testi già redatti da dirigenti del partito non sono stati affatto votati all’unanimità.
Di fatto la reazione del regime contro i cattolici contrari è furibonda: la Chiesa cattolica apostolica romana viene ufficialmente bandita dalla Cina; diversi preti e vescovi vengono arrestati, altri si danno alla macchia.
L’Ufficio affari religiosi cerca di inserirsi sempre più nella vita della Chiesa, rivendicando il diritto e dovere di controllare la formazione nei seminari, le nomine dei sacerdoti, le elezioni «democratiche» dei vescovi, per sostituire quelli incarcerati, espulsi o morti. Nel 1958, ben 120 su 144 diocesi non hanno più la guida spirituale; si procede, quindi, all’ordinazione dei primi due vescovi, chiedendo telegraficamente a Roma il mandato papale, che viene rifiutato. Il 20 giugno dello stesso anno Pio XII pubblica l’enciclica Ad Apostolorum Principis, in cui critica duramente l’Associazione Patriottica, condanna le elezioni «democratiche» e relative ordinazioni, ricorda le sanzioni canoniche («la scomunica riservata in modo specialissimo alla sede apostolica») in cui incorrono ordinati e ordinanti. Al tempo stesso il papa si dimostra ben informato e denuncia i «metodi di violenza e di oppressione: propaganda tenace e rumorosa a mezzo stampa, congressi e convegni ai quali si è costretti a partecipare con lusinghe, minacce, inganni… corsi di indottrinamento a cui sono costretti sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, fedeli di ogni età e ceto… umilianti sessioni di processi popolari, confessioni forzate di errori e crimini, campi di rieducazione ideologica» e altre forme di pressioni e torture fisiche e psicologiche.

Dal grande inverno al disgelo
Tra Associazione patriottica e Santa Sede il fossato si allarga sempre più: nel 1959 in un discorso ufficiale Giovanni XXIII parla di «funesto scisma» per la prima volta; ma sarà anche l’ultima. I vescovi esuli o espulsi dalla Cina spiegano come la situazione cinese sia molto complessa e scongiurano di evitare tale termine, anche se di fatto si è creata una situazione scismatica: da una parte la maggioranza dei cattolici cinesi e una cinquantina di vescovi fedeli a Roma; dall’altra i cattolici aderenti alla Chiesa patriottica, guidati da vescovi validamente ordinati prima del 1953 e altri illegittimi: il loro numero sale a 48 nel 1962.
Alle soglie del concilio Vaticano II si discute se invitare anche i vescovi legittimi che hanno consacrato altri vescovi senza mandato apostolico. Si interpellano 100 vescovi ordinari della Cina: alcuni chiedono che il concilio condanni apertamente il comunismo e i vescovi illegittimamente consacrati; altri si mostrano più flessibili e, specie i vescovi esuli cinesi, richiamano a una maggiore informazione e mettono in guardia da condanne troppo severe. Alla fine del Concilio si registra una crescente comprensione e simpatia per la Chiesa cinese e inizia una nuova fase di atteggiamenti verso i paesi comunisti.
In Cina, però, nel 1966 esplode la «rivoluzione culturale»: per 10 anni le «guardie rosse» scatenano la persecuzione religiosa più intensa e intollerante mai sperimentata in Cina; distruggono tutto ciò che ha attinenza al sacro; reprimono le organizzazioni di ogni fede e credo, compresa l’Associazione patriottica: anche i vescovi «patriotti» sono attaccati, diffidati dall’esercizio del loro ministero, processati e incarcerati. Unica chiesa che rimane aperta in tutta la Cina è la cattedrale di Nan Tang a Pechino, a uso degli stranieri.
Con la morte di Mao e l’arresto della «banda dei quattro» (1976) finisce la rivoluzione culturale; il nuovo leader Deng Xiaoping, con svolta epocale, apre il popolo cinese al mondo esterno, offrendo ai cittadini nuovi spazi di libertà. È l’inizio del disgelo verso le religioni: vescovi patriottici possono tornare alle loro diocesi; fedeli, sacerdoti e vescovi della chiesa clandestina sono scarcerati, alcuni riabilitati, altri in libertà vigilata; tra i vescovi, liberati dopo decenni di lavori forzati, i più famosi sono Ignazio Kung Pinmei di Shanghai, Domenico Tang Yiming di Guangzhou, Giuseppe Fan Xueyan di Baoding (vedi riquadro a pag. 33).
Il clima di tolleranza religiosa degli anni ‘80 permette di riaprire chiese, seminari, istituti di formazione, case religiose; lentamente la liturgia viene rinnovata in linea con la Chiesa universale; in una decina d’anni vengono ordinati circa 200 nuovi preti. Vescovi, preti, religiosi di paesi stranieri ottengono il permesso (o sono invitati) di visitare la Cina. Particolare interesse suscita la visita dei cardinali Roger Etchegaray, arcivescovo di Marsiglia, e Franz Köning, arcivescovo di Vienna e presidente del segretariato per i non credenti, su invito dell’Associazione del popolo cinese e per l’amicizia con lo straniero.
Nel 1981 il prefetto di Propaganda Fide concede ai vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» «facoltà specialissime», compresa quella di ordinare vescovi, se necessario anche senza previa intesa con Roma. Nel giro di una decina di anni una cinquantina di vescovi vengono consacrati segretamente. Alcuni abusi di tali «facoltà» acuiscono la contrapposizione tra cattolici «ufficiali» e «clandestini», irritando il governo e causando confusione anche in Vaticano. 

Relazioni altalenanti
Nonostante le loro aperture, partito e governo non allentano il controllo sugli affari religiosi: la nuova Costituzione del 1982 sottolinea il diritto di credere o non credere, ma un comma dell’articolo 36 ribadisce che «nessuna realtà religiosa in Cina può essere controllata dall’estero».
Nel 1985 la Congregazione per la dottrina della fede riconosce la piena validità dell’ordinazione dei vescovi illecitamente consacrati e dei sacramenti da loro amministrati. Molti di essi chiedono e ottengono di ritornare alla comunione con la Santa Sede. Ma la pratica della «doppia fedeltà», al regime di Pechino e alla Sede di Pietro, non è accettata da tutti i membri della Chiesa sotterranea, la quale in un documento del 1987 taccia di peccatore chi riceve i sacramenti dai preti patriottici. Tale ambiguità contagia anche il Vaticano: un documento di Propaganda fide afferma che la validità dei sacramenti amministrati da preti ordinati da vescovi illegittimi è solo «presunta», per cui va evitata ogni communio in sacris, con vescovi e clero dell’Associazione patriottica.
Confusione e ambiguità regnano anche a livello di governo cinese, che nel 1988 fa circolare voci di una imminente apertura al dialogo con il Vaticano per allacciare relazioni diplomatiche tra Roma e Pechino; per preparare la grande svolta, nel mese di dicembre vengono convocati a Pechino 22 vescovi ufficili; pochi giorni dopo, Partito comunista e Consiglio di Stato emanano direttive segrete per eliminare una volta per sempre la Chiesa clandestina e intensificare la formazione ideologica del clero e dei fedeli. 
Nel 1989, anno degli studenti di piazza Tienanmen, un gruppetto di vescovi, sacerdoti e laici della Chiesa clandestina decidono di costituire una Conferenza episcopale esplicitamente fedele al papa: buona parte dei promotori finisce in prigione; l’iniziativa, dichiarata «inopportuna» ancora prima di nascere, non riceve l’approvazione dal Vaticano, anche per non esasperare la contrapposizione.
Intanto a coloro che da Roma seguono la «questione cinese» appare sempre più chiaro che la stragrande maggioranza di vescovi, preti e seminaristi della Chiesa patriottica conserva intatta la fedeltà al depositum fidei. Anche «l’autarchia», salvo rari casi, non è affatto seguita e nelle strutture ecclesiali create dal governo molti sono i vescovi «legittimati», in piena comunione con Roma.
Continuano tuttavia i sospetti tra l’apparato burocratico cinese, allarmato da tale evoluzione, e il Vaticano, preoccupato del «pieno allineamento dei cattolici sulla politica del Partito». Nei sacri palazzi affiora l’ipotesi di passare a una linea più dura, chiamando i vescovi a dichiarare la propria fedeltà al Papa e a rompere la sudditanza all’Associazione patriottica, a dimettersi dal Collegio episcopale patriottico; da più parti, invece, si chiede più «flessibilità», tra cui mons. Feando Filoni, espressamente incaricato di seguire da Hong Kong le vicende della Chiesa in Cina: «Nello sforzo di ricostruire passo dopo passo le relazioni tra la Chiesa cinese e quella universale, bisogna compiere gesti di accoglienza più che di separazione».
Nel 1993, in un summit tenuto in Vaticano si stabilisce che d’ora in poi ogni elezione episcopale, sia nella chiesa patriottica che in quella clandestina, per essere considerata legittima dovrà ricevere l’assenso previo della Sede apostolica; le facoltà speciali concesse nel 1981 vengono di fatto sospese. Sarà questa disposizione a segnare d’ora in poi gli alti e bassi nelle relazioni tra Vaticano e Pechino.
Nel 1996 il cardinale Claudio Celli incontra alcuni rappresentanti del governo cinese, nel tentativo di sbloccare la situazione della chiesa in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche. Il papa Giovanni Paolo II, per ricordare il 70° anniversario dell’istituzione della gerarchia in Cina e l’ordinazione dei primi sei vescovi cinesi invia un messaggio alla Chiesa che è in Cina, rivolgendo un forte appello alla riconciliazione di tutti, pastori e fedeli, esprimendo tutta la sua fiducia e simpatia verso la Cina e verso i cattolici cinesi, insieme al desiderio di poterli incontrare personalmente.
Il papa invita personalmente al Sinodo episcopale per l’Asia, il vescovo di Wanxian, mons. Matthias Duan Yinming, e il suo ausiliare, mons. Joseph Xu Zhixuan, entrambi appartenenti all’Associazione patriottica, ma stimati e ritenuti legittimi anche dai cattolici della clandestinità (mons. Duan fu ordinato nel 1949 prima della rottura e passò all’Associazione patriottica nel 1957).
In una lettera in latino, letta all’apertura del Sinodo, mons. Duan si rammarica di non poter partecipare «per motivi politici». Espressione eloquente per dire che la sua assenza non è dovuta a motivi dottrinali, ma all’opposizione di Pechino.
Le relazioni diplomatiche sono ancora lontane dalla normalizzazione, anche perché la Santa Sede è uno dei 25 stati che riconosce la legittimità della Repubblica di Cina di Taiwan e non quella della Repubblica popolare cinese. Ma dopo la sostituzione all’Onu dei rappresentanti della Cina di Taiwan con quelli della Repubblica popolare (1971), il Vaticano ha smesso di parlare di due Cine, ha degradato i nunzi per la Cina a semplici «incaricati d’affari» e ha espresso la disponibilità a stabilire la nunziatura a Pechino qualora il governo cinese lo permetta. Ma la sua sede resta sempre a Taipei: la Cina rifiuta ogni normalizzazione di rapporti diplomatici finché il Vaticano non rompe formalmente le relazioni con l’isola.
Il problema più spinoso, però, è quello della nomina dei vescovi. Negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, alcune ordinazioni di nuovi vescovi vengono celebrate con la convergenza sia del governo di Pechino che della Santa Sede. L’evento non viene enfatizzato, ma è una svolta epocale.

Passato che non vuol passare
In pratica i rapporti «ufficiosi» fra Cina e Vaticano non si sono mai interrotti completamente, anche se continuano sempre altalenanti. Nel gennaio 2000 cinque vescovi vengono ordinati senza il consenso del papa. Lo stesso anno però il card. Etchegaray va a Pechino per partecipare a un simposio su «Religioni e pace» e ha contatti con personaggi della Chiesa patriottica; al suo ritorno, il 25 settembre, afferma alla radio Vaticana che in Cina esiste una sola Chiesa cattolica e che le frontiere tra patriottici e clandestini stanno diventando sempre più porose. Il primo ottobre, festa della Repubblica popolare, vengono canonizzati 120 martiri cinesi, vittime della rivoluzione dei boxers (nazionalisti) nel 1900: Pechino reagisce in modo furente, addirittura accusando alcuni dei nuovi santi di «crimini enormi».
Nel 2004 giungono a Roma notizie di arresti di alcuni vescovi e preti della chiesa sotterranea; il Vaticano protesta, ma il dialogo continua: altri tre vescovi vengono consacrati, eletti secondo le procedure legali cinesi e approvati dalla Santa Sede. Papa Benedetto XVI invita al Sinodo dei vescovi del 2005 alcuni prelati cinesi (tra cui uno eletto secondo le procedure legali cinesi) ma il governo impedisce la loro partecipazione.  Nel 2006 il vescovo emerito di Hong Kong, mons. Giuseppe Zen, è nominato cardinale, nomina per nulla digerita da Pechino. Due vescovi della chiesa patriottica sono ordinati senza il gradimento della Santa Sede; uno di essi è Giuseppe Ma Yinglin, vescovo di Kunming: la sua elezione, avvenuta «sotto pressioni, minacce e, sembra, anche inganni», «distruggerà la fiducia reciproca fra Santa Sede e Pechino» predice il card. Zen.
Dopo un incontro in Vaticano con i vescovi di Hong Kong, Macao e Taiwan, nel gennaio 2007, un comunicato ufficiale afferma che in Cina «oggi la quasi totalità dei vescovi e sacerdoti è in comunione con il Sommo Pontefice», vanificando così l’opera dell’Associazione patriottica nella costruzione di una chiesa staccata da Roma. Sono meno di una dozzina i vescovi cinesi che continuano a nutrire avversione viscerale contro Roma. Il comunicato ribadisce «la volontà di proseguire il cammino di un dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità governative, per superare le incomprensioni del passato. Si auspica, inoltre, di pervenire a una normalizzazione dei rapporti ai vari livelli, al fine di consentire la pacifica e fruttuosa vita della fede nella Chiesa e di lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo». Le stesse idee, pochi mesi dopo, vengono espresse nella storica lettera che il papa Benedetto XVI invia al clero e al popolo cinese.
Il governo risponde con un silenzio imbarazzato, mentre l’Associazione patriottica impedisce la diffusione della lettera in varie province. Ma il dialogo continua: altri 7 vescovi vengono consacrati con l’approvazione sia del governo che della Santa Sede. Per Pechino è ormai una necessità se vuole controllare la Chiesa: i vescovi illegittimi non sono più rispettati né seguiti da moltissimi fedeli.

Cambio di strategia
Qualora si giungesse a regolari e stabili rapporti diplomatici, questi sarebbero gestiti direttamente dal governo e un rappresentante del papa; così il ruolo del Consiglio dei vescovi cattolici (una specie di conferenza episcopale non riconosciuta dalla Santa Sede) duventerebbe marginale e i grandi interessi e privilegi dell’Associazione patriottica sarebbero a richio. Per questo molti remano contro e boicottano le relazioni sino-vaticane, come è avvenuto alla fine del 2010, con la celebrazione dell’Ottava Assemblea dei rappresentanti dei cattolici cinesi, preceduta da un’ordinazione episcopale senza mandato pontificio. L’Assemblea elegge i leader dei due organismi, molti dei quali illegittimi, tra cui il presidente del Consiglio dei vescovi Giuseppe Ma Yinglin, vescovo ufficile che Roma non intende legittimare, perché ritenuto persona ambiziosa e piena di livore contro il Vaticano. A manovrare il tutto ci pensa il vecchio Liu Bainian, vicesegretario «onorario» dell’Associazione patriottica, soprannominato «il papa della Cina» per la sua pretesa di guidare tutta la Chiesa cinese. 
Ma più laceranti sono le ultime ordinazioni episcopali senza mandato apostolico, tre in nove mesi: Giuseppe Guo Jincai vescovo di Chengde, Hebei (20 novembre 2010), Paolo Lei Shiyin vescovo di Leshan (29 giugno 2011) e Joseph Huang Binzhuang vescovo di Shantou (14 luglio 2011). Per tutte e tre le ordinazioni il Vaticano ha fatto sentire la sua ferma reazione, denunciando la «grave violazione della disciplina cattolica e della libertà religiosa e di coscienza» e ricordando le sanzioni canoniche (canone 1382 del Codice di Diritto Canonico), prima tra tutte la scomunica automatica (latae sententiae) per ordinati e ordinanti. «Ciascuno di loro conosce in cuor suo il grado del personale coinvolgimento e la retta coscienza indicherà a ognuno se è incorso in una pena latae sententiae» afferma il comunicato seguito all’ordinazione di Guo Jincai, riconoscendo attenuanti per i vescovi consacranti, quasi sempre costretti con la forza e le minacce. Dalla scomunica non hanno scampo gli altri due vescovi: Lei Shiyin «era stato informato da tempo» della contrarietà vaticana alla sua nomina «a causa di motivi comprovati e molto gravi», tra cui due figli; pure Huang Binzhuang era stato avvertito più volte che la sua ordinazione non era autorizzata, anche perché nella diocesi di Shantou c’era già mons. Zhuang Jianjian, ordinato clandestinamente nel 2005 e mai riconosciuto da Pechino.
A quasi 50 anni dall’ultima pubblica scomunica, le due comminate di recente sono per tutti una sorpresa. Dalla Cina si attribuisce tale cambiamento di strategia al card. Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, che non ha peli sulla lingua; ne è un esempio l’appello da lui rivolto al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao, per chiedere loro di fermare i «funzionari canaglia» e la «feccia della chiesa» dal procedere all’ordinazione illecita del vescovo di Shantou. «All’arroganza dei burocrati politici e religiosi della chiesa patriottica non si risponde con carezze, ma con pesci in faccia, come fanno loro» afferma il presule, criticando la diplomazia vaticana fatta di troppi compromessi. Funzionerà?

Benedetto Bellesi




Ritratti emblematici

MICHELE FU TIESHAN: antipapista

Nato nel dicembre del 1931, nel distretto di Qing Yuan (Hebei), entrato a 10 anni nel seminario minore di Xishiku, completata la formazione teologica nel seminario maggiore dell’arcidiocesi di Pechino (vicino alla tomba di Matteo Ricci, ora requisito dal governo per fae una scuola del Partito), Fu Tieshan fu ordinato prete nel 1956 e svolse il ministero sacerdotale nelle parrocchie di Beitang e Nantang. Dal 1963 al 1966 studiò e si laureò all’università Hong Qi (Bandiera Rossa), mentre doveva anche lavorare per guadagnarsi da vivere.
Ufficialmente insediato dalle autorità comuniste come vescovo di Pechino, fu consacrato senza l’approvazione papale il 21 dicembre 1979. Unico tra i vescovi cinesi della seconda metà del secolo scorso non passò mai in un carcere o in un campo di rieducazione; anzi, la sua vita fu un crescendo di cariche importanti ecclesiastiche e politiche: vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo (parlamento cinese), vicepresidente e segretario generale del Consiglio del vescovi cinesi (una specie di conferenza episcopale, non riconosciuta da Roma), presidente dell’Associazione patriottica (organismo che controlla la Chiesa ufficiale). Una carriera caratterizzata da umiliante servilismo verso il regime: fu l’unico personaggio religioso a difendere alla televisione di stato il massacro di Piazza Tiananmen (1989); difese a spada tratta le repressioni in Cina; si associò alla campagna internazionale contro il movimento taoista-buddista Falun Gong (1999); durante il Millennium Summit (2000) a New York, vituperò aspramente il Dalai Lama e si scagliò contro i paesi che «col pretesto dei diritti umani» si intromettono nella «sovranità» di altre nazioni.
Non si riconciliò mai con Roma. Anzi, si segnalò come accanito antipapista, intralciando i tentativi di dialogo tra Pechino e Santa Sede: criticò aspramente Giovanni Paolo II per «aver osato» canonizzare 120 martiri cinesi e missionari stranieri, «strumenti del colonialismo» (2000); lo stesso anno imbastì un’ordinazione di vescovi senza il permesso della Santa Sede; alla cerimonia non vollero partecipare né fedeli, né seminaristi.
Colpito gravemente da tumore ai polmoni nel 2005, morì il 20 aprile 2007, dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi e la visita del presidente Hu Jintao. Un comunicato ufficiale l’ha esaltato come «leader religioso patriottico, attivista sociale e grande amico del partito comunista cinese».
Gli è succeduto Giuseppe Li Shan, consacrato vescovo il 21 settembre 2007, all’età di 42 anni, con la previa approvazione pontificia.

Giuseppe Zen Ze-kiun: antidiplomatico

Nato a Shanghai il 13 gennaio 1932, da famiglia numerosa (10 figli) e profondamente cattolica, Giuseppe Zen Ze-kiun compì gli studi in una scuola gestita da religiosi durante l’occupazione giapponese. Nel 1948, per scappare dal potere dei maoisti, fuggì a Hong Kong per coltivare la sua vocazione sacerdotale. Entrato nella famiglia salesiana, dopo il noviziato fu mandato in Italia, dove ottenne la licenza in teologia e fu ordinato sacerdote a Torino nel 1961.
Conseguito il dottorato in filosofia all’Università salesiana di Roma (1964), rientrò a Hong Kong e si dedicò all’insegnamento nell’istituto salesiano e, nel 1971, iniziò a insegnare filosofia al seminario diocesano. Dal 1978 al 1983 fu superiore provinciale dei salesiani (provincia che include Cina, Hong Kong, Macau e Taiwan).
Approfittando delle graduali aperture e modeizzazioni in Cina, Zen riuscì a tornare a Shanghai e nel 1989 ottenne il permesso di insegnare nel seminario di Sheshan, dove mancava qualsiasi opera di riferimento fondamentale, perfino la Bibbia. Ovviamente si trattava di un seminario gestito dalla Chiesa patriottica, controllata dagli addetti all’Ufficio affari religiosi del regime. Tale esperienza gli costò non poche critiche e sospetti da chi vedeva in lui una sorta di arrendevole «collaborazionista» del regime, anche se visse sulla propria pelle tensioni, speranze e incognite di una Chiesa che provava a risorgere dalla grande persecuzione maoista. Grazie alla conoscenza diretta di quanto avveniva nella Cina continentale, il card. Zen potè battersi (e continua ancora) contro le manipolazioni politiche messe in atto dal regime, che da oltre dieci anni cerca di controllare la gente di Hong Kong, come fa già con i 12 milioni di cattolici presenti in Cina.
Nel 1996 fu nominato vescovo coadiutore di Hong Kong, con diritto di successione. Resse la diocesi dal 2002 al 2009. Nel concistoro del 24 marzo 2006 Benedetto XVI lo nominò cardinale, inserendolo nella Commissione vaticana sulla Cina.
Durante tutto il suo episcopato il card. Zen si è distinto per il suo coraggio nel denunciare le pretese del regime di Pechino e nel movimentare le masse in difesa dei diritti umani, della libertà politica e religiosa. La sua voce è diventata scomoda anche in seno alla Chiesa cattolica: egli critica la Segreteria di Stato vaticana per i suoi compromessi con le autorità cinesi, nel tentativo di riallacciare le relazioni diplomatiche. Significativo il titolo di un libro-intervista in cui racconta la sua vita: «Senza diplomazia».
Alcune personalità conservatrici all’interno della Chiesa cattolica pensano che le relazioni tra Pechino e Vaticano sarebbero più rilassate senza le prese di posizioni del card. Zen. Dal 2009 è vescovo emerito e gli è succeduto l’ausiliare mons. John Tong Hon.

GIUSEPPE ZhENG CHANG CHENG:
sovversivo

Nato nel 1912 in una povera famiglia di falegnami, entrato in seminario nel 1926 a Fuzhou, poi a Shanghai nel 1930 e infine al seminario Holy Spirit di Hong Kong, Giuseppe Zheng fu ordinato sacerdote il 27 gennaio 1937. Laureato in storia e letteratura cinese all’Università cattolica di Pechino, insegnò nel seminario di Fuzhou e, nel 1951, divenne amministratore della stessa diocesi.
Nello stesso anno si rifiutò di firmare le accuse contro il nunzio Riberi. Nel 1955, interrogato per 25 giorni, rifiutò di rinnegare la fede cristiana e l’obbedienza alla sede di Pietro: accusato di essere un sovversivo e di nascondere in chiesa i fucili per i controrivoluzionari, fu mandato nei campi di rieducazione, dove rimase per 28 anni e ottenne alcune conversioni grazie alla sua testimonianza.
Liberato nel 1983, si dedicò a ridare vita alla Chiesa: fu anche rettore del seminario dal 1988 al 1992. Il 24 gennaio 1991, all’età di 79 anni, fu insediato dalle autorità politiche alla guida della diocesi di Fuzhou. Ma subito, tramite intermediari di Hong Kong, cercò di mettersi in contatto con Roma per regolarizzare la sua posizione. Nei 16 anni di episcopato restaurò più di 30 chiese e costruì il santuario diocesano «Rosa Mistica», situato a 30 chilometri da Fuzhou, diventato meta di frequenti pellegrinaggi. Per le sue numerose opere di carità, fu insignito di un riconoscimento da parte delle autorità.
Ma a Fuzhou c’era anche un altro vescovo, Giovanni Yang, clandestino e in comunione con Roma. Tra le due comunità i rapporti erano pessimi; una buona parte dei preti della diocesi non lo riconobbero come loro vescovo; alcuni lo accusarono addirittura di infedeltà al papa e alla chiesa. Egli provò più volte la via della riconciliazione, disposto anche a farsi da parte se il vescovo clandestino fosse venuto allo scoperto e avesse assunto la guida della diocesi.
Tutta la vita spesa per Cristo, devotissimo della Madonna, negli ultimi anni fu colpito da cancro alla gola: offrì la sua vita per vedere la piena riconciliazione fra le due comunità cattoliche della diocesi. Ma non ebbe tale consolazione. In compenso ebbe da Roma importanti segni di riconoscimento della sua fedeltà: tramite il vescovo di Hong Kong ricevette l’anello vescovile e mediante il cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, la benedizione di Benedetto XVI. Si spense il 18 dicembre 2006, all’età di 94 anni.

GIUSEPPE WEI JINGYI: ecumenico

Vescovo clandestino di Qiqihar, (diocesi nell’estremo nord della Cina), Giuseppe Wei Jingyi era fra i quattro vescovi della Cina popolare invitati al Sinodo sull’Eucaristia nell’ottobre 2005. A tutti e quattro fu negato il permesso di lasciare la Cina per giungere a Roma, benché gli altri tre fossero ufficialmente riconosciuti dal governo di Pechino.
Era clandestino anche il suo predecessore, Paolo Guo Wenzhi, morto il 29 giugno 2006 all’età di 84 anni. Mons. Wei ne celebrò i funerali e lo seppellì in un luogo segreto, sfidando le autorità politiche, che gli avevano proibito di officiare le esequie e ordinato la cremazione. Altra sfida al regime fu la lettura in tutte le chiese di una lettera pastorale in cui spiegava come applicare le indicazioni espresse dal papa nella lettera inviata nel 2007 a tutti i cattolici cinesi. In essa mons. Wei espresse la volontà di riconciliarsi con alcuni sacerdoti della diocesi che gli avevano rifiutato obbedienza poiché lo ritenevano troppo cedevole al regime comunista; invitò pure tutti i fedeli a partecipare ai sacramenti amministrati da vescovi e sacerdoti ufficiali, purché in comunione con Roma. Inoltre, avviò un dialogo con la chiesa russo-ortodossa presente nella sua diocesi.
Ordinato a 48 anni, abita in un piccolo villaggio, il solo luogo dove le autorità politiche gli consentono di esercitare il suo ministero, insieme a una ventina di preti entusiasti e quasi tutti più giovani di lui. Tale situazione è specchio del vuoto di preti tra i 45 e i 70 anni di età, causato dalla rivoluzione culturale. L’enorme divario tra la generazione eroica di vescovi anziani che stanno scomparendo e i loro successori, tutti attorno ai 40 anni, costituisce un fenomeno senza eguali nella Chiesa mondiale.

ANTONIO LI DUAN: riconciliatore

Nato nel 1927, per 20 anni in campi di detenzione (1954-57, 1958-60, 1966-79), vescovo di Xian (Shaanxi) dal 1987 per volere delle autorità comuniste e tacitamente riconosciuto dal Vaticano, mons. Li non si sottomise mai all’Associazione patriottica, ma difese strenuamente la libertà della Chiesa: nel gennaio del 2000 si nascose per non prendere parte all’ordinazione di 5 nuovi vescovi non riconosciuti da Roma.
Personalità stimata da intellettuali e politici anche non cristiani, ricostruì e rivitalizzò la Chiesa di Xian dopo i disastri della Rivoluzione culturale e si adoperò per riconciliare la Chiesa ufficiale e quella sotterranea; amato dai cattolici di entrambi gli schieramenti, fu spesso soggetto a controlli e interrogatori.
Membro della Chiesa ufficiale, ma sostenitore e amico dei pontefici, si adoperò per la riconciliazione tra Cina e Vaticano, riallacciandone i rapporti diplomatici. Mons. Li fu verosimilmente il cardinale in pectore creato da Giovanni Paolo II nel 2003 e mai rivelato; fu uno dei quattro vescovi cinesi invitati dal papa al Sinodo sull’Eucaristia dell’ottobre 2005.
Da due anni malato di cancro al fegato, morì il 25 maggio 2006, all’età di 79 anni. La sua tomba è meta di pellegrinaggi, come quella di un santo.

GIUSEPPE XING WENZHI:
successore di Fan e Jin

Originario di Shan Dung, entrato nel seminario di Shanghai nel 1983, prete dal 1990, Giuseppe Xing Wenzhi è stato ordinato ausiliare di Shanghai il 28 giugno 2005, all’età di 42 anni: è il primo vescovo ad essere nominato congiuntamente e pubblicamente dal governo di Pechino e dalla Santa Sede. Sarà successore di due vescovi ultranovantenni e malati: Luigi Jin Luxian, vescovo ufficiale, e Giuseppe Fan Zhongliang, vescovo clandestino.
Entrambi gesuiti, stretti collaboratori di mons. Ignazio Gong Pinmei, furono arrestati assieme al loro vescovo nel 1955, mentre tutti e tre salivano al santuario mariano di Sheshan per giurare che non avrebbero mai tradito la loro fede. Liberati dopo più di 25 anni di prigione e campi di rieducazione, presero strade diverse: Jin optò per la Chiesa patriottica e nel 1985 fu creato vescovo ufficiale della diocesi di Shanghai senza il mandato apostolico; mentre Fan scelse la clandestinità e, lo stesso anno fu ordinato clandestinamente e riconosciuto da Roma come unico successore dell’irriducibile Gong Pinmei, rimasto in libertà vigilata e poi costretto all’esilio negli Stati Uniti.
Mons. Jin è riconosciuto dal governo e, ultimamente anche in comunione con Roma; mons. Fan è riconosciuto da Roma e appena «tollerato» da Pechino; entrambi ultra novantenni e gravemente malati (Fan è malato d’alzheimer): per il successore Xing non ci sono problemi né da Roma, né da Pechino.

GIUSEPPE LIU XINHONG: illegittimo

Nel 2006 in Cina sono stati ordinati tre nuovi vescovi contro la volontà della Santa Sede, delle comunità locali e persino dei vescovi ordinati e ordinanti: uno di essi è Giuseppe Liu Xinhong consacrato il 3 maggio a Wuhu, nella provincia orientale dell’Anhui. Gli altri due sono: Giuseppe Ma Yinglin per la diocesi di Kunming (30 aprile) e Wang Renlei a Xuzhou (30 novembre). Due comunicati diramati dalla sala stampa Vaticana il 4 maggio e il 3 dicembre, hanno espresso «il dolore del Papa per questi atti che stravolgono un momento essenziale della vita ecclesiale», provocano «una grave ferita all’unità della Chiesa» e prevedono «severe sanzioni canoniche».
Mons. Liu ha chiesto l’approvazione di Roma, ma non l’ha ottenuta: era considerato l’uomo forte dell’Associazione patriottica, di cui fu vice presidente. La sanzione evocata è la scomunica latae sententiae, che scatta automaticamente qualora l’ordinazione sia stata data e ricevuta liberamente. Il Vaticano, però, ha implicitamente scusato gli autori dell’atto supponendo che l’abbiano compiuto sotto costrizione. Ma qualora l’Associazione patriottica organizzasse in futuro altre ordinazioni illegittime (Pechino avrebbe già pronti i suoi candidati) si prevede che la reazione di Roma sarà più dura. Esigerà dai nuovi vescovi illegittimamente ordinati di non esercitare il loro ministero.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Quando a marcia… segna il passo

Futuro sempre più incerto

La mossa con cui Pechino ha deciso di trasferire nella provincia dell’Hebei l’ex segretario del Partito comunista in Tibet potrebbe significare un cambio di priorità nella dirigenza cinese. Abbandonate le vette dell’Himalaya, il «mastino» Zhang Qingli, fautore di una linea d’intransigenza contro le aspirazioni autonomiste dei tibetani, che definì il Dalai Lama «un lupo con la veste monacale», dovrà ora amministrare la culla del cattolicesimo cinese.
È nell’Hebei, provincia settentrionale che circonda le municipalità di Pechino e Tianjin, che vive un quarto dei circa 12 milioni di cinesi fedeli alla Santa Romana Chiesa. Il nuovo incarico darà pertanto a Zhang un ruolo di primo piano nello scontro che negli ultimi mesi ha visto opposta la Repubblica popolare al Vaticano. «È un atto simbolico. Pechino ha il pieno controllo e la situazione è già di per sé molto dura. Nella provincia vescovi e sacerdoti della Chiesa sotterranea sono scomparsi o sono stati rinchiusi nei laogai, condannati ad anni di lavori forzati» afferma padre Beardo Cervellera, direttore dell’agenzia d’informazione missionaria Asia News.
Neppure le scomuniche hanno persuaso il vertice della Chiesa ufficiale cinese a desistere dalle tre ordinazioni episcopali senza mandato papale che negli ultimi dieci mesi hanno allargato il solco tra Pechino e Roma. Atti «in contrasto con la Chiesa universale», aveva commentato a luglio il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi.  
La divisione risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la Cina comunista e la Santa Sede ruppero le relazioni diplomatiche con l’espulsione del nunzio apostolico, Antonio Riberi, e con l’inizio della pratica delle ordinazioni autogestite durante il periodo maoista. Da allora i rapporti dello Stato cinese con i fedeli sono gestiti dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Ccpa), cui sono affiliati circa 5 milioni di fedeli secondo i dati foiti dalla stessa organizzazione, e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica, approvate dal governo. Entrambe riconoscono l’autorità spirituale del Papa, ma non il suo potere a nominare i vescovi. Ed entrambe sono opposte alla Chiesa clandestina che riconosce il primato di Roma.
Studiosi e analisti ritengono tuttavia che le pratiche della Chiesa ufficiale siano un rebus per gli stessi cattolici cinesi. In un editoriale intitolato La Chiesa non può servire due padroni, pubblicato sull’agenzia cattolica UCANews, il direttore del dipartimento degli Studi sul Cristianesimo dell’Accademia cinese delle Scienze Sociali, Ren Yanli, ha sottolineato alcune delle contraddizioni in seno alla pretesa autonomia da Roma. Ad esempio, dichiararsi «indipendente» e allo stesso tempo «in comunione con il successore di Pietro». L’articolo si apre con l’auspicio che i cattolici siano allo stesso tempo buoni cittadini, rispettosi delle leggi dello Stato e buoni cristiani fedeli ai dettami della Chiesa. Le ordinazioni irregolari, scrive lo studioso, rischiano tuttavia di danneggiare la tanto agognata «società armoniosa», propagandata dal presidente, Hu Jintao, e dal primo ministro, Wen Jiabao. Possono rientrare nel novero dei cosiddetti «incidenti di massa», le manifestazioni di un centinaio di seminaristi che tra novembre e dicembre dell’anno scorso protestarono davanti all’ufficio della Commissione per gli Affari etnici e religiosi proprio dell’Hebei, contro la nomina di un rappresentante del governo a vicerettore dell’istituto dove studiavano. «Nella scelta non sono coinvolti sacerdoti o vescovi», dissero allora i manifestanti contattati da Asia News, temendo che con la scelta dei funzionari i valori spirituali fossero messi in secondo piano rispetto alla politica. Alla fine la protesta ebbe la meglio e Tang Zhaojun fu rimosso dall’incarico.

Negli ultimi mesi il clima è andato però deteriorandosi. Restrizioni sono state imposte a missionari europei che da Hong Kong hanno cercato di entrare nella Repubblica popolare. Un viaggio finora senza grossi problemi, prima che la strada fosse sbarrata a padre Bruno Lepeu, superiore dei Mep (Missions Etrangères de Paris) nell’ex colonia britannica; così come a padre Franco Mella del Pime (Pontificio istituto per le missioni estere), 62 anni, un «pendolare» fra Hong Kong e il continente, cui a fine luglio funzionari dell’immigrazione a Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong, hanno negato il visto per la prima volta in 20 anni.
Dalle colonne del Quotidiano del popolo, voce ufficiale del Partito comunista, invece è partita una dura reprimenda contro il Vaticano, in un pezzo di commento dal titolo Il Cattolicesimo si deve adattare alle condizioni locali. «Sebbene il potere temporale della Chiesa sia ora concentrato nei 44 chilometri quadrati della Città del Vaticano – si legge – esso continua a esercitare un’influenza sproporzionata rispetto alla sua piccola stazza. Nomina cardinali in altri paesi, i suoi preti più importanti all’estero godono dell’immunità diplomatica e possono interferire negli affari di stati sovrani». E ancora alla Chiesa è chiesto di «adattarsi e capire la potenza di una nazione come la Cina e le sue differenze culturali», per non correre il rischio di essere considerata più interessata a «mantenere il proprio potere temporale che a far fronte alle necessità spirituali dei suoi fedeli cinesi».
«Tutti tentativi per dividere i cattolici ufficiali e sotterranei, che negli anni, prima papa Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, hanno contribuito a riavvicinare» ha commentato padre Cervellera. Un’unità simboleggiata dalla Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina in coincidenza con la festa e il pellegrinaggio al santuario della Madonna di Sheshan, vicino a Shanghai, il 24 maggio. Una Giornata indetta dallo stesso Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici cinesi del 2007, cui il governo ha risposto aumentando le misure di sicurezza e le pattuglie attorno al santuario e impedendo anche a molti cattolici ufficiali di recarvisi in pellegrinaggio.

Un cablogramma del consolato statunitense a Chengdu, nel Sichuan, tra gli oltre 250mila documenti riservati della diplomazia Usa diffusi da WikiLeaks, dà un’idea di come operi la Chiesa ufficiale. Si descrive la situazione a Yibin, diocesi con 140 anni di storia e 40mila fedeli, all’epoca dell’invio del cablo presieduta dal vescovo Chen Shizhong, riconosciuto, si sottolinea, sia da Pechino che da Roma. L’interlocutore parla di un clima religioso «armonioso», in cui convivono cristiani, taoisti e buddisti. Lamenta tuttavia la mancanza di preti, molti dei quali costretti a gestire più di una parrocchia, ma enfatizza più volte la libertà di religione di cui dice gode la diocesi. Una cautela, commenta il diplomatico, che non si capisce bene se derivi da una reale convinzione o dalla presenza durante l’incontro di un funzionario dell’Ufficio locale per gli Affari esteri. Il documento continua con una serie di precisazioni che sembrano contraddire la totale libertà di cui sembrerebbero godere i fedeli. Prima di prendere i voti, chi vuole farsi prete deve infatti passare un esame pubblico. Inoltre il governo non permette che si istituiscano parrocchie troppo piccole perché, a detta della fonte, difficili da gestire e a rischio «disordini». Nel documento si accenna anche al sostegno economico del governo per la costruzione o la ristrutturazione della curia vescovile. Sottolineando inoltre un investimento di oltre 20 milioni di yuan (2 milioni di euro) dell’amministrazione provinciale del Sichuan, fatto tra il 2004 e il 2005 per la ristrutturazione del Sichuan’s Catholic Theological College, dove chiunque volesse seguire la vocazione deve studiare.
Altro cablo altra provincia. In un documento datato febbraio 2007, si parla del Guizhou, e in particolar modo di Guiyang. Qui, spiega la fonte, i fedeli alla Chiesa sotterranea sono pochi, mentre è obiettivo delle gerarchie ufficiali spingere all’unità tra i due gruppi senza fare troppe distinzioni. «Se veramente credono in Dio, speriamo nell’unità» spiega, e sottolinea di non essere a conoscenza di sacerdoti o credenti agli arresti, ma ammette ostacoli alla libertà di movimento. La sfida più difficile per la Chiesa è, secondo l’interlocutore, intercettare l’interesse dei più giovani. I fedeli sono per la maggior parte anziani e per avvicinare anche i ragazzi alla religione nella provincia sono state organizzate «letture di gruppo» (in cinese du shu hui) incentrate sugli insegnamenti della Bibbia.

Le stesse preoccupazioni per lo scarso interesse delle nuove generazioni emergono anche dalla conversazione con una suora che lamenta inoltre le difficoltà per la Chiesa nel recuperare terre e proprietà espropriate negli anni Sessanta e Settanta, durante la Rivoluzione Culturale. Dispute che spesso i governi locali risolvono con la forza e la coercizione, come nel caso di una suora cattolica e un sacerdote picchiati mentre cercavano di reclamare due proprietà un tempo appartenute alla Chiesa di Kungding, sempre nel Sichuan. Sebbene negli anni il governo centrale ha più volte rimarcato i diritti dei legittimi proprietari, l’Associazione patriottica e il ministero degli Affari Religiosi mettono ostacoli sulla strada di chi cerca di riottenerle.
Spostando l’attenzione a nordest, nel resoconto di una cena al consolato a Shanghai a Pasqua del 2009, le condizioni per i cattolici sono definite buone, sebbene sullo sfondo si staglino le difficili relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Pechino. Anche in questo caso la maggiore preoccupazione è formare una nuova leva di giovani religiosi, mentre l’età media dei più alti prelati supera gli ottanta. «È quindi fondamentale concentrarsi sull’educazione dei ragazzi -sottolinea un vescovo presente all’incontro -. Se la Chiesa non riuscirà a farsi capire da chi ha sei o sette anni, allora in futuro mancherà chi ritiene la fede più importante dei soldi».

Andrea Pira

Andrea Pira




Meru (2) I Meru: «Selvaggi» pieni di sorprese

Un incontro a dir poco complicato

Cento anni non sono pochi anche visti con gli occhi di oggi. Se – per un colpo di magia – potessimo trasportarci a cento anni orsono ed osservare con l’occhio satellitare la regione che attornia il monte Kenya, vedremmo una gran macchia verde scura circondare un largo anello di verde chiaro che abbraccia un’enorme montagna tutta roccia con una punta bianca e lucente al centro: il monte Kerenyaga (= montagna splendente, oggi Monte Kenya). Attoo al monte c’era allora un’enorme distesa di foreste impenetrabili di alberi secolari e di bambù, macchiata qua e là dal verde più chiaro di pochi prati, che di colpo cedeva alle immense savane digradanti, verso nord ed est, nello spoglio color sabbia rosso-nera di vaste zone semi-desertiche. Sono passati cento anni e quell’immenso mare di verde si è ristretto assai, eroso dalla continua espansione delle aree coltivate.

Cento anni orsono la regione che oggi chiamiamo Meru, sul versante nord-est del grande monte (il versante sud-ovest essendo occupato dai Kikuyu e quello sud-est dai Kamba), nascondeva nelle sue foreste e nelle piane semidesertiche che facevano da sponda a quel mare di verde, poco più di 40 mila africani (altre stime dicono addirittura 400mila, 93mila capanne). Inutile cercare strade, ponti, costruzioni e città come oggi siamo abituati. I volenterosi che si erano spinti in quel verde erano tornati con notizie di popoli che abitavano nelle foreste ai piedi della grande montagna sacra. Tra di essi un popolo, che non molti secoli prima aveva sfidato l’ignoto giungendo dal mare, per nascondersi e poi stabilirsi in quei luoghi.

Un popolo venuto da lontano
Quanto tempo prima? Forse appena trecento anni. Una leggenda di questo popolo, i Meru (o Ameru al plurale), racconta così.
«Tanto tempo fa il popolo Meru abitava al di là della grande acqua. Erano schiavi di un re potente che non lesinava angherie ai suoi sudditi. Sorse un giorno tra questo popolo un uomo che aveva parlato con Dio. Avendo visto l’afflizione della sua gente, si presentò al re nel nome del suo Dio, e implorò la libertà per sé e per il suo popolo. Il re rise divertito a questa richiesta. Poi, tanto per togliersi dai piedi quell’impiccione, rispose: “Bene, ti darò la libertà e lascerò andare la tua gente se tu riuscirai a portarmi un grosso elefante che faccia sterco bianco”. Oltre al prodigioso elefante il re volle altri meravigliosi quanto impossibili portenti (in alcuni racconti l’elefante diventa solo una mucca, si parla anche di cani con le coa, di una lancia tanto lunga da arrivare al cielo, e così via, le storie si abbelliscono secondo la fantasia dei narratori e secondo le tradizioni dei vari gruppi).
L’uomo non disarmò, toò a parlare con Dio sulla montagna e Dio l’aiutò a scovare l’elefante e a preparare tutti gli altri prodigi. La meraviglia del re fu grande e, pur non credendo ai suoi occhi, dovette a malincuore acconsentire alla richiesta e lasciar libero lui e tutta la sua gente. Il popolo tutto, seguendo questo grande uomo di Dio chiamato Mogwe, dopo il sacrificio di tre giovani chiamati Gaita, Kiuma e Muthetu (questi sono ancora oggi i nomi dei tre clan principali della tribù da cui deriverebbero tutti gli altri clan o mierega), passò la grande acqua. Per dividere e fermare le acque il Mogwe si servì di una magica lancia. I primi fuggiaschi attraversarono il mattino presto quando era ancora buio e si chiamarono Njiru (neri); i secondi attraversarono all’alba e si chiamarono Ntune (rossi); gli ultimi attraversarono in pieno giorno e si chiamarono Njaru (bianchi).
Dopo un lungo peregrinare arrivarono ai piedi della grande montagna sacra dalla quale scaturiva acqua buona e abbondante. E da quel giorno il popolo Meru abita nella terra che Dio gli ha donato, ancora fedele agli insegnamenti di quelli che hanno continuato l’eredità del “grande Mogwe”».

Solo leggenda?
A corroborare questa leggenda vi è (meglio dire “c’era una volta”, visto che parliamo di circa 50 anni fa) una curiosa usanza che io stesso ho osservato nel lontano 1965.
Quando un anziano stautiva, pronunciava con forza una di queste espressioni: «Antu ba ntune», «antu ba njaru», «antu ba njiru». Con questo voleva dire: «Sono del gruppo che è passato attraverso l’acqua verso l’alba» (ntune = rosso, riferito al colore del tramonto), oppure «sono del gruppo passato durante la notte» (njiru = nero) o ancora «sono del gruppo passato al chiaro del mattino» (njaru = lucente, bianco). E così ricordava agli astanti la propria provenienza e il gruppo clanico da cui derivava. Inoltre è interessante ricordare che all’inizio del secolo scorso, alcuni maestri protestanti tentarono di mettere insieme una specie di ‘dramma teatrale’ in cui ricordare le origini del loro popolo, ma la cosa non fu per niente gradita agli anziani i quali anzi ne imposero l’abolizione, timorosi che la storia potesse arrivare agli orecchi della nuova autorità coloniale inglese e la spingesse a ricacciare i Meru verso il luogo da cui erano giunti, «al di là della grande acqua».
Secondo gli studi più recenti questa «grande acqua» potrebbe essere il fiume Tana che scende dal Monte Kenya e verso la foce ha vaste paludi stagionali dove cresce abbondante il papiro. In queste paludi trovarono rifugio gli antichi Meru che erano fuggiti dall’isola di Mbwaa (o Mbwa – all’italiana Mbua – forse l’isola di Manda, nell’arcipelago di cui fa parte l’isola di Lamu) attorno al 1722. In quest’isola gli antenati dei Meru erano stati resi schiavi da «uomini (dai vestiti) rossi», probabilmente schiavisti arabi provenienti dall’Oman o dallo Yemen che proprio in quei tempi (1698) avevano completamente cacciato i portoghesi da Mombasa. Seguendo il fiume alcune bande di Meru arrivarono alle pendici del Monte Kenya e ne occuparono progressivamente i pendii cacciando gruppi preesistenti. Entro la metà del XVIII secolo, i vari gruppi Meru si erano stabiliti attorno al monte, nonostante un continuo guerreggiare con i pastori Maasai (cf. Fadiman, Jeffrey A., When we began, there were withmen: an oral history from Mount Kenya. Berkeley: University of Califoia Press, 1993).
Il racconto sopra riferito ha subito evidenti influenze ebraico-cristiane di non facile spiegazione. Un’ipotesi è che gli antichi Meru dell’isola di Mbwaa avessero già avuto contatto con i missionari Agostiniani che da Mombasa visitavano regolarmente le isole lungo la costa del Kenya e avevano stabilito una parrocchia nell’isola di Lamu; l’altra è che abbiano subito l’influsso di tradizioni islamiche di origine arabo-yemenita.

L’incontro con i Maasai
Le prime nove generazioni (Nthuke) di Meru salirono verso la grande cima bianca (del Kenya) penetrando nelle foreste vergini e disboscando per far spazio ai loro villaggetti. Un disboscamento estremamente contenuto. In molti luoghi lasciarono – su suggerimento di un grande keroria (profeta) – dei ciuffi di foresta diventati in seguito i famosi “boschetti sacri” che ancor oggi ammiriamo nel panorama.
Non era conosciuta una vera agricoltura, che si concentrava su alcune specie indigene di cereali e fagioli. Mais, pomodori, né tantomeno il frumento e il caffè erano ancora conosciuti. La vita girava intorno agli animali domestici – mucche, pecore e capre soprattutto – portati dalla famosa regione “oltre la grande acqua” (il fiume Tana).
Su queste pendici fecero conoscenza con una fiera tribù: quella dei Maasai. E, si capisce, l’incontro con questi agguerriti pastori nomadi non fu dei più pacifici. Sebbene all’inizio (1810-1820 circa) per paura e per non sbilanciarsi oltre il necessario, la coesistenza non fosse da nemici, ben presto le cose divennero difficili e le ruberie da ambo le parti fecero le prime vittime. Strano a pensarsi, ad avere la peggio furono i temuti Maasai, che pur quasi sconfitti continuarono le loro razzie di bestiame per molto tempo fino a quando la generazione Mbarata (circa 150 anni fa) mise fine alla storia. Molti dei Maasai sconfitti non trovarono altra soluzione che quella di passare ai Meru e così diventare quello che oggi conosciamo come gruppo Tigania. Ciò spiegherebbe perché tante famiglie abbiano dei nomi che non sono meru, ma maasai. Di più: se guardiamo anche la cartina geografica notiamo come il gruppo dei Tigania sia quello che si spinge verso il nord più degli altri gruppi. E il nord era tradizionalmente il regno dei nomadi Maasai.
Gli anni trascorsero senza particolari eventi, se non quelli delle carestie, delle invasioni di locuste, delle razzie e di qualche periodo di tranquillità.
Nel 1908 il governo inglese prese possesso della terra dei Meru dichiarandola terra della corona (crown land) e assoggettandola a forza parte alla neo colonia del Kenya. Da questa data in poi entriamo nelal storia documentata.

Lo smarrimento dei missionari
L’origine di questo popolo di ceppo Bantu è quindi incerta. Certo è invece che i primi missionari della Consolata, conoscendo poco o niente di questa tribù e non avendo accesso ai segreti gelosamente custoditi dagli anziani, trinciarono anche dei giudizi a dir poco pesanti. Cito qui la testimonianza di uno dei nostri primi missionari, che oggi certo sembra alquanto sbrigativa, irrispettosa e anche un po’ razzista. Scriveva:
«[È un] Popolo senza storia né scritta né orale, senza una civiltà anche solo primitiva. Il popolo Meru, prima dell’arrivo degli inglesi, era di un grado appena superiore agli animali del loro deserto e delle loro foreste: riprodursi, lottare per l’esistenza e per la preda; morire e, come le carcasse animali, esser divorati da altri animali; questo è il compendio senza eccezione della vita di ogni Meru, per cui non si doveva parlare assolutamente di un livello morale. Stando così le cose, non è a stupire se non hanno una storia, nemmeno orale. La loro origine si perde nella notte dei tempi e dell’oblio, e il loro ricordo non sale oltre la generazione che li ha preceduti. E anche i fatti, i fasti e le gesta dei predecessori che ogni nazione, con un minimo di civiltà, ha cura di tramandare ai posteri e che formano l’orgoglio nazionale, nel Meru sono passati e trapassati in modo tale da perdee persino il ricordo e le tracce».
Mons. Filippo Perlo, il primo vescovo di Nyeri sotto la cui giurisdizione era il Meru e che aveva organizzato le prime spedizioni dei missionari in quel territorio, nel 1922 scrisse: «E’ strano fino a qual punto questa popolazione difetti di storia, e se fosse vero l’aforismo che felice è quel popolo che non ha storia, questo dovrebbe essere arcifelicissimo. Basti dire che nessun ricordo antecedente alla presente generazione vi è conservato in alcun modo: nessun monumento storico esiste sotto qualsiasi forma, e invano ricerchereste per tutto il paese, su terra e sottoterra, pur traccia di ruderi, che possano risalire a una decina di anni addietro, ché è pur ben poco nella storia.
«A spiegare quest’assenza assoluta di quanto ha relazione col passato, credo valgano due ragioni l’una morale e materiale l’altra, la prima ha il suo motivo nella superstizione universale dominante, per cui chi è morto, è talmente morto, che neppur il suo nome, per quanto in vita riverito e stimato, può più essere ripetuto, né fuori né tantomeno nella casa e nella stessa famiglia che fu sua. A vedere quant’evitino, non dico di parlare di coloro che furono, ma pur anche di fae un qualsiasi accenno, sembrerebbe che in realtà evitino persino di pensarvi…
«La ragione materiale, a parer mio, starebbe in questo: che usando essi costruire ogni lor abitazione con pareti di ramoscelli intrecciati, rinforzati di malta e coperti di tetto di paglia, né all’infuori di questa capanna familiare, altre costruzioni esistendo nel Paese: – che gli edifici pubblici per le adunanze e l’amministrazione della giustizia sono suppliti da spiazzati erbosi, o annosi alberi dalla folta chioma -, ne risulta per le lor case una durata effimera quanto il materiale di cui sono formate… cioè al massimo quattro o cinque anni. Quindi è facile arguire che neanche gli atti di valore compiuti dagli eroi nazionali, o le successioni nobiliari, o alcuna delle più memorabili gesta collettive possono perpetuarsi nel ricordo di un popolo: non usandosi materiale in alcun monumento che ne conservi la storia, e la tradizione orale rifuggendo per partito preso dall’occuparsi di quelli che passarono, e tanto più di quanto operarono. In conclusione se c’è paese in cui si visse letteralmente alla giornata era questo, con esclusione assoluta d’ogni ricordo del passato, d’ogni preoccupazione per l’avvenire».

Una cultura senza passato?
Quelle riportate sopra possono sembrare cose di altri secoli, ma personalmente – nella missione in cui lavorai come principiante – questa «memoria proibita» di quanti erano stati gli antenati poteva ancora trovare riscontri negli atteggiamenti di persone sia totalmente illetterate come di persone istruite, compresi i maestri. Due o tre esempi.
Dovevo compilare le schede dei battezzandi. «Come ti chiami?» «Njogu» (= elefante). Strabuzzai gli occhi. Il catechista fu veloce a spiegarmi che suo fratello era morto da piccolo e suo padre gli aveva messo il nome di un animale grande e potente perché impaurisse lo spirito del male impedendogli di prendere anche questo nuovo figlio. Va bene. Scrissi: «Elefante».
Arrivò una ragazza. «Il tuo nome?» «Nterietwa» (tradotto letteralmente: non ho nome!). Pensai che la battezzanda non avesse ancora scelto il nome cristiano da prendere per la funzione ed insistetti. Fu ancora il catechista che mi venne in aiuto: «Vedi padre, questa figlia ha avuto due fratellini prima di lei, morti in tenera età. Allora i suoi genitori le hanno messo il nome Nterietwa proprio per confondere lo spirito che così non troverà più una nuova vittima».
Aggiungo a queste due curiosità un’altra di qualche giorno prima, quando chiesi ad un candidato maestro il nome di suo padre. Non me lo volle dire. E mi spiegarono che su queste cose è meglio non insistere: chi è morto va lasciato in pace. Neppure nominarlo o ricordarlo! Così si possono a volte spiegare tante cose della storia… che non fa più storia!

Le classi di età
Ritorniamo alla storia o almeno ad alcuni elementi che possono darci una mano a ricostruire la storia del popolo Meru e capie la struttura sociale. Un elemento fondamentale è la comprensione della formazione e sviluppo delle loro classi di età (age set).
Noi missionari abbiamo imparato presto a considerare l’età e il tempo un po’ diversamente da come dice il vocabolario, sia che si prenda come base il tempo solare che quello lunare (più facile da contare  per via delle varie fasi lunari). Tra i Meru (e in genere tutti i popoli Bantu, e non solo) l’età di una persona era valutata non secondo la data di nascita ma secondo la classe di appartenenza, la cosiddetta classe di età (oggi, con le nuove regole imposte dal governo centrale, i bambini vanno registrati alal nascita e i nomi vengono perpetuati nei computer).
Più che fornire spiegazioni tecniche o antropologiche, mi permetto di usare un paragone prosastico ma efficace…
Anzitutto attenzione al numero sette. Sappiamo che tra i popoli orientali questo numero sin dall’antichità riveste un carattere sacro o quasi (basti pensare al settimo giorno della Bibbia). Su che cosa si fondi è difficile dirlo (anche se le fasi lunari – 4 fasi di 7 giorni ciascuna – sembrano essee l’origine per tutti i popoli del mondo). Il numero sette è importante anche per i Meru.
Chi ha osservato l’andamento delle stagioni in alcune regioni del Kenya ha scoperto che nel giro di sette anni (o quasi… uno più o uno meno) c’è una variazione regolare del ciclo delle piogge. Nella Rift Valley c’è addirittura un fiore, una liliacea, che sboccia ogni sette anni, e i Kipsigis (sud-nilotici del Kenya) attendono questo fenomeno per segnare l’inizio dei riti di iniziazione. Anche i Meru celebrano i riti d’iniziazione ogni sette anni. Durante questi riti, si celebra un vero passaggio di età, lasciando la classe precedente per entrare in una nuova. Un paragone può chiarire meglio.
Supponiamo che tutta una tribù sia stipata su un treno. Nella prima carrozza ci sono gli anziani (età dai 40… ai cento, per chi ci arriva). Nella seguente ci sono quelli di un’età compresa tra i 35 e gli …anta, che sono gli anziani minori, adulti che non hanno ancora un figlio circonciso. Un’altra carrozza raccoglie quelli che hanno dai 28 a 35 anni, i guerrieri maggiori e tira da quella di chi ha tra i 21 e i 28 anni: i guerrieri minori. C’è poi quella della nuova riika (guppo di età) o dell’ultima circoncisione (tra i 14 e i 21) e infine l’ultima carrozza dei fanciulli incirconcisi. Le donne hanno un’organizzazione sociale diversa essendo praticamente divise in due categorie di circoncise (sposate) e incirconcise (bambine).
Ogni sette anni (ci possono essere degli spostamenti se, contro tutte le previsioni, il settimo anno è un anno di siccità: non si può far festa quando non c’è cibo per gli uomini e il bestiame) il treno si ferma: tutti scendono, fanno una grande festa celebrando l’iniziazione alla vita adulta degli adolescenti, e poi risalgono sul treno cambiando posto ed avanzando di una carrozza.
Quanto agli anziani: o ci ha già pensato il Padreterno o vengono relegati a compiti di onore e non più di servizio, eccetto i grandi sacerdoti, gli stregoni e i capi. I nuovi anziani lasciano il posto ai guerrieri maggiori, questi a quelli minori e così via fino ai marmocchi che salgono nel carrozzone dei neo circoncisi.
A questi “carrozzoni” – sempre per stare nell’allegoria – i Meru hanno dato il nome Nthuke (che significa più o meno generazione, gruppo di età: neo-circoncisi, guerrieri, anziani…).

Un nome dinamico
Il nome è importante, ma non è un fattore permanente che accompagni una persona dalla nascita alla morte, come avviene nella nostra società. Nella cultura Bantu il nome cambia col crescere della persona. Può così succedere che un individuo cambi il nome anche una decina di volte nella vita, per la gioia di chi deve compilare l’anagrafe o tenere un registro parrocchiale. Ogni persona inizia con il primo nome datogle dai genitori (oggigiorno succede anche che ne sceglie un altro quando entra nella scuola e lo cambia se deve ripetere l’anno scolastico per via di bocciature), ne riceve uno nuovo al momento dell’iniziazione e poi magari ci penseranno gli stessi coetanei ad affibbiargli un nuovo nome per distinguerlo meglio, per onorarlo, per riconoscere una sua dote (ad es. Mto-Mugambi = il parlatore… l’avvocato) e così via. Quante volte è successo e succede ancora che anche ai missionari venga cambiato il nome! «La madre della misericordia», il «padre che ci vuol bene», il «silenzioso» (Mukiri), Mwereria (= il vagabondo per la buona causa…; anche se non è vero che proprio tutti i missionari abbiano ricevuto nomi così elogiativi). Un nome così esprime davvero la persona che lo porta. Il cardinal Otunga ricevette dai Meru dell’Igembe il nome di Mto-Baikiao (l’uomo della bontà). Un nunzio apostolico era chiamato Mzee Mwenda (l’anziano che è amato).
Così il missionario che voglia un po’ di ordine nei registri, deve spesso arrampicarsi sui vetri! In più c’è la complicazione dell’età. Un tempo non si insisteva sull’età, perché nessuno era in grado di “tradurre” nel gergo dei bianchi il numero degli anni che aveva sul groppone. Nemmeno il governo insisteva più di tanto ed è davvero recente la legge che obbliga i genitori a registrare i bambini alla nascita. Così sulle carte d’identità vi è un dato che a noi suona strano: età «sopra i diciotto». Oltre a tutto questo va ricordato – per complicare la faccenda – che contare portava sfortuna. Come nessuno contava i capi di bestiame che aveva, le mogli che possedeva, i figli generati, così non contava gli anni. Se era vecchio diceva: «tanti».

Organizzazione sociale
Chi oggi prende un manuale di antropologia può subito scoprire come la grande etnia dei Meru non sia una realtà omogenea. A livello locale ci sono molte  diversità di lingua, usi, costumi e tradizioni, perché la tribù è in realtà costituita da sette gruppi simili, che occupano le sette zome principali del territorio del meru. Eccoli: Chuka, Muthambi, Igoji, Imenti, Tharaka, Tigania, Igembe.
Difficile dichiarare quale di questi gruppi è il vero rappresentante dei Meru! E non è detto che tutti siano contenti della denominazione ormai classificata! Nel censimento del 1989, ad esempio, successe che il gruppo dei Tharaka optò per essere denominato Meru e stop. Ma poi ci ripensò e nel censimento del 1999 toò con fierezza a definirsi Tharaka. Perché? La risposta è meglio cercarla nelle promesse a iosa fatte dai politicanti di quei giorni! Poco mancò che anche i Chuka e i Muthambi optassero per essere chiamati Kikuyu. Il motivo? La loro lingua è per una buona metà Kikuyu.
All’interno di questi gruppi ci sono i clan o mwerega. Il nome mwerega indica anche una serie di costoni e creste collinose ai piedi della grande montagna del Kenya, essendo i vari costoni divisi da fiumi che scendono precipitosi dalla montagna scavando profonde valli. La mwerega è allora un’organizzazione politico militare localizzata sul crinale dei lunghi collinoni che scendono dalla montagna. Il sistema dei clan ha permesso ai Meru di organizzare una efficace difesa contro i nemici, evitando l’annientamento in un ambiente tutt’altro che facile. I vari clan formano i gruppi, i gruppi la tribù. Ogni clan trae la sua origine da un capostipite – troppe volte dimenticato per via del tabù di cui ho parlato sopra. Questi clan sono esogamici: un individuo non può sposarsi entro il proprio clan, né in quello materno. L’individuo – per sé – conta poco nel proprio clan. È il clan a dar forza e valore nell’organizzazione della tribù. Vi sono tuttavia individui che per vari motivi assurgono a gradini sociali altissimi. Ne parlerò più avanti. Per i Meru non è possibile parlare di re e regine. Il governo della tribù è nelle mani delle Nthuke (generazioni) che cominciano il loro periodo di governo con una speciale cerimonia d’iniziazione chiamata Ntweko. Al termine del periodo di governo, l’autorità passerà automaticamente alla generazione seguente. Qualcuno parla di un vero e proprio sistema di governo realmente democratico.

Gli Njuuri
Sopra tutte queste “generazioni” vi è da secoli un sistema gerontocratico caratteristico dei Meru: i cosiddetti Njuuri (scritto anche Njori o Njuri). E la parola Njuuri mi porta ad un discorso un poco più particolareggiato poiché come missionari abbiamo dovuto per tanto tempo lottare, pazientare, rispettare ma a volte anche soffrire di tasca nostra… specialmente quando all’inizio dell’evangelizzazione ci furono episodi assai tragici.
Gli anziani della tribù erano e sono divisi in tre gradini: il primo era costituito dagli Areki (sing. Mwareki) ed era un onore sia per uomini come per donne, essere annoverati in questo rango. Il secondo gradino era formato dagli Njuuri Nceke ed il terzo dagli Njuuri Mpingiri. Gli anziani che formavano gli ultimi due ranghi erano selezionati con cura: meglio dire segregati dal resto della tribù. Per poter essere eletti Njuuri, i candidati dovevano pagare una forte tassa, in genere un gran numero di animali da sacrificare e mangiare durante una grande festa.
Ciascun Njuuri, e questo continua ancor oggi nelle remote regioni dell’Igembe, aveva la sua particolare maschera dipinta sulla faccia, specialmente durante cerimonie e riti e raduni solenni. Segni distintivi dello Njuuri erano (e sono): il Morai o bastone nodoso ricavato da un ramo di legno nero (in genere ebano); la Ncea o corona di conchiglie sulla testa; il Meu o scopino fatto di peli di coda di animale (si tratta in genere di peli della coda di mucca o anche giraffa) e lo sgabello a tre gambe scolpito da un unico pezzo di tronco. Alcuni Njuuri aggiungono il copricapo di pelle di scimmia guereza (per esempio gli Njuuri facenti funzione di capi, gli agwe, gli stregoni…) ed una specie di manto di pelle di montone o anche di scimmia.
Quando vi erano questioni gravi da dirimere questi anziani si radunavano in un prato presso Tigania, vicino alla foresta d’Uringo, e «sedevano e sedevano sull’erba» (sedere sull’erba è un modo eufemistico per dire: discutere, giudicare; la reiterazione del verbo indica la lunghezza del raduno). Questo prato, tempo addietro, era il più sacro e famoso luogo di convegno degli Njuuri. Vi giungevano da tutte le parti del Meru. A ricordo, negli anni Settanta, venne eretto un santuario a forma di capanna, ma non fu mai più usato come punto d’incontro.
Gli Njuuri sono ancor oggi un autorità tribale riconosciuta dal governo del Kenya e godono di rispetto indiscusso. Un giovane missionario africano che nel 2008 si permise di pubblicare affermazioni ritenute irrispettose nei loro confronti, dovette essere prontamente trasferito in un’altra zona del paese.
Parlando degli Njuuri non posso – a questo punto – non ricordare la figura di un nostro missionario, il p. Franco Soldati ribattezzato Mwereria (vagabondo per buona causa) il quale – con il beneplacito del vescovo mons. Lorenzo Bessone – fu accettato tra gli Njuuri Ncheke. È curioso il dialogo di Mwereria con il vescovo. «P. Soldati , mi fido di lei: se vede che la faccenda brucia, si tiri subito indietro!». «Monsignore, con l’aiuto di Dio cercherò di non lasciarmi bruciare!» (vedi un profilo di p. Franco in MC 10-11/2002, pag. 79).
P. Mwereria ha affidato questa esperienza a un interessante diario in cui descrive quanto ha scoperto degli Njuuri e quanto essi hanno scoperto in lui… cose belle e meno belle, ma soprattutto è riuscito a sfatare quella che i nostri primi missionari avevano definito tout-court «massoneria nera».

La Kagita, il tribunale degli Njuuri
La Kagita (tribunale indigeno) aveva potere sopra tutti gli Njuuri e la tribù; era costituita dalla cerchia degli Njuuri più rinomati, il Mogwe (lo sciamano-guaritore e sacerdote-sacrificatore) che descrivo più avanti) e il capo. Si radunava in una capanna particolare detta nyumba ya kagita. Era quella la capanna più temuta nella regione. Vi erano giudicati soltanto i casi criminali più gravi contro la comunità. E in genere, l’accusato, criminale o meno, una volta giudicato dalla Kagita, pagava con la vita. I giudici dovevano trovare assolutamente un responsabile.
Il modo di procedere era il seguente: i membri della Kagita insieme al presunto colpevole entravano per la porta principale della capanna. In pompa magna e seduti sullo scranno a tre piedi tabaccando abbondantemente, ognuno iniziava a parlare e ripetere o commentare il caso giudiziario. Nel mezzo del cerchio deglii anziani, accanto all’accusato, vi era una grossa zucca, ripiena di vino di canna. Non tutto il contenuto però era vino; una buona dose di veleno era stata previamente versata nella bevanda. Siccome il veleno era più pesante del vino, si depositava sul fondo della zucca. La sentenza contro il supposto criminale una volta entrato nella Kagita era sempre quella capitale. Ma doveva essere provata, con la prova del veleno. Il primo degli Njuuri, usando una zucchetta come mestolo, attingeva un po’ di vino, attento a non toccare il fondo del contenitore. Beveva dicendo: «Bevo di questo vino e rallegro il mio ventre, perché sono innocente…». Seguiva il secondo giudice, il terzo, il quarto e così via fino all’ultimo. Finalmente era la volta del condannato. A lui l’ultimo giudice offriva il vino dopo averlo attinto dal fondo della zucca. «Bevi di questo vino – scandiva – e vediamo se anche per te dimostrerà che sei innocente!». Il veleno agiva in meno di un quarto d’ora. Il disgraziato, ormai rigido nello spasmo degli ultimi attimi di vita, veniva spinto con dei bastoni fuori dalla capanna attraverso un buco nelal parete opposta all’entrata principale. Il buco veniva subito mimetizzato così che lo spirito cattivo non potesse più trovare la strada e raggiungere il “traditore”. Questo era uno dei tanti modi di amministrare la giustizia; molti altri erano lasciati alla fantasia dei giudici, come la “prova del fuoco” e la “prova dei funghi”.

Qual era la loro religione?
All’indizio del Novecento i nostri missionari trovarono grande difficoltà a districarsi nel sottobosco religioso di questo popolo. L’egemonia – o direzione suprema – degli Njuuri sia nel ramo maschile che femminile non lasciava troppe porte aperte per sbirciare fin dentro a ciò che accadeva nella tribù in modo particolare nei gruppi dell’Igembe, Tigania e Mikinduri, le zone più soggette al comando degli anziani.
Ci vollero cinquant’anni perché si potesse far breccia in questo monolito religioso. E dobbiamo dire davvero grazie al coraggio di p. Soldati – Mwereria – se tante cose si sono capite meglio e si sono sfatati tanti pregiudizi.
Nei pochi brevi diari dei missionari della prima metà del secolo (1910-1950) vi sono cenni e storie inficiati spesso da giudizi superficiali. Mwereria ha avuto il coraggio non solo di mettere  il naso in questo affare, ma di diventar lui stesso uno degli Njuuri, fino alla classe degli Njuuri Ncheke (magri), la classe ristretta che ancor oggi onora gli anziani più eminenti. Mwereria fece tante scoperte in quelle capanne dove nessuno che non fosse Meru era mai entrato.
È interessante leggere la descrizione che Mwereria fa di se stesso quando entrò nella capanna più riservata degli Njuuri. Per l’occasione aveva dovuto accettare di farsi dipingere sulla faccia i segni caratteristici dello Njuuri. Aveva anche dovuto pagare la sua bella tassa di un grosso bue… Quando lo invitai ad alzare il velo sull’organizzazione tribale dei Meru delI’Igembe, Mwereria mi diede un piccolo studio, dove narrava come fosse riuscito a penetrare nella “kiama kia Lamalle” (una delle classi di età degli adulti) e a “legare la chiesa” (uso un termine di Mwereria stesso) con gli Njuuri. Mi permetto di citare un brano del diario di Mwereria. Va ricordato che P. Soldati quando parla di Mwereria usa la terza persona come si trattasse di un’altra persona e non di stesso.
«Nel passato, Mwereria ha parlato di Njuuri ed Areki, affrontando problemi che coinvolgevano cristianesimo e tradizioni tribali. Non si era mai pronunciato sulla Kiama kia Lamalle. Ma ora la storia si ripete. I cristiani furono sempre sconsigliati a fare parte di quella kiama (gruppo, aggregazione, associazione, ndr.), se non addirittura esclusi dai sacramenti, come castigo alla loro adesione. Parecchie volte successe anche che giovani cristiani che si rifiutarono di fare questa iniziazione, fossero costretti fisicamente e magari portati di peso volenti o nolenti nelle varie capanne di iniziazione. Il missionario in questi casi cercava di aiutarli come poteva, magari nascondendoli per qualche tempo alla Missione. Ma era giusto? Perché rifiutare per partito preso tutto ciò che riguardava tradizioni africane? Perché questo muro di diffidenza tra chiesa e tribù? Ed allora perché meravigliarsi, se le varie chiese cristiane erano considerate come i peggiori nemici dell’africano? Se erano sopportate, il merito non era da attribuirsi solo alle opere innegabili di carità e di civiltà che queste chiese lasciavano abbondantemente al loro passaggio, ma anche all’influsso e al potere di un governo europeo dalla tinta cristiana. Indirettamente questa civiltà cristiana-europea aveva scalfito tutti i pilastri sui quali poggiava una tradizione secolare, ma la differenza rimaneva tra quelli che ancora cercavano di puntellare come potevano questi pilastri e coloro che invece volevano abbatterli completamente».
Questo fu sempre l’interrogativo di Mwereria: come conciliare la morale della Chiesa e la tradizione africana. Si domandava se fosse vero o falso che tutto ciò che conceeva le tradizioni era contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa. Scoprì poco alla volta che certi riti non erano esattamente santi, tuttavia la loro sostanza non era marcia: si trattava solo di regolae gli eccessi.

Ngai-Murungu: il nome di Dio
Come si può allora descrivere la religione tradizionale dei Meru? Cito anche qui un picciolo studio di un vecchio missionario dei primi tempi.
«La religione dei Meru è molto primitiva. Hanno due nomi per indicare Dio: Ngai (nome copiato probailmente dai Maasai, che hanno la dizione EnKai, o dai Kikuyu che hanno Ngai, che confondono spesso con fenomeni naturali), e Murungu (molto simile al nome Mungu, swahili per Dio). Questo Dio è personale, ma non gli prestano un vero culto, per quanto poi lo si senta invocare usando espressioni come «Murungu are o» (Dio c’è, specie nei pericoli o calamità pubbliche e private), oppure «Murungu ni Munene» (Dio è grande – frase presa forse dall’islam), «Kethera Murungu akwenda» (se Dio vuole – anche questa di sapore islamico). In rare circostanze i Meru fanno sacrifici direttamente a Dio, in caso cioè di carestia, di moria di uomini e animali, d’invasioni di locuste. Non è un individuo privato a compiere il sacrificio ma sempre una persona pubblica».
Fin qui le affermazioni di quel missionario. Ma ai suoi tempi era ancora sconosciuto – o forse semplicemente confuso nella cerchia non ben definita degli stregoni – un personaggio particolare di cui più tardi si venne a conoscenza e solo dopo uno studio approfondito sulla sua attività fu possibile valutae l’importanza: il Mogwe (plurale Agwe).

Gli Agwe
Con l’aiuto di P. Franco Soldati, da anni stabilito nella missione di Tuuru, l’antropologo Beardo Beardi riuscì a contattare i quattro Agwe della regione del Njombeni e ne scrisse in un libro intitolato «The Mogwe, a failing prophet», vita, autorità, pregi ecc.. Forse, esagerando un poco l’autorità di questo personaggio poteremmo accostarlo alle figure dei grandi sacerdoti del popolo d’Israele (magari addirittura a Melkisedek). Il compito del mogwe nella società Meru è quello di liberare dal male, dalle maledizioni e dalle influenze nefaste causate dallo stregone, il murogi (o urogi).
Personalmente ho conosciuto il mogwe di Amungenti che ricevette il battesimo dopo un lungo catecumenato ad opera di P. Emilio Canova (+ 2007) e P. Antonio Giustetto (+2002). Con il battesimo prese il nome di Giovanni MtoMugambi. Questo mogwe non lasciò a nessuno dei suoi figli la sua eredità spirituale e con lui si concluse la storia del Mogwe dell’Igembe. Osservando la condotta e l’ufficio tribale di questo personaggio, non mi è sfuggito il suo particolare stato di vicinanza a Dio, il rispetto che la gente aveva per lui, la scelta della sua persona per particolari sacrifici. Tant’è che non trovando altre parole più significative nella traduzione di certe preghiere e culti, noi missionari abbiamo usato il nome di Mogwe applicandolo a Gesù Cristo “Tu sei il Mogwe, il nostro sacrificatore”. La gente ha apprezzato e capito.

Il culto-timore degli spiriti
Ritorniano alla testimonianza già iniziata sopra. «Portano – i nostri Meru – invece un grande culto, forse per timore, agli Nkoma (spiriti e anime dei trapassati) il cui scopo sarebbe solo quello di tribolare l’umanità. La relazione dei viventi con questi Nkoma è solo tra parenti. Si ha cura allora di sacrificare qualche volta delle capre ed offrire vino di canna da zucchero (nchobi) per tenere quieti questi Nkoma ai quali viene attribuita in genere ogni malattia o accidente. Non hanno una classe sacerdotale, lo stregone (Moga) sarebbe un intermediario tra gli uomini e gli Nkoma».
Quest’ultima affermazione riflette la scarsa conoscenza che allora i missionari avevano della figura e ruolo del mogwe (scritto anche moga o muga all’inglese) con non è più possibile confondere con lo stregone vero e proprio, chiamato murogi.
Lo scopo di quete pagine è limitato, ma certamente la figura dello stregone e la loro occulta ingerenza nella storia delle missioni del Meru (ci sarebbe materiale per scrivere un vero thriller!) meriterebbe uno studio più approfondito.

Molto da scoprire
A questo punto, visto l’argomento, vorrei sollevare un poco il velo di mistero sotto il quale come missionari abbiamo sempre coperto alcuni aspetti di storia e di usanze occulte tra i Meru. Nel 1964 – come pivello missionario – mi trovai a sostituire per alcuni giorni il parroco di Tigania. A farmi compagnia c’era un nostro conosciutissimo (a quei tempi) missionario: p. Ottavio Sestero. Lo osservai a lungo mentre su uno sgualcito quaderno scriveva appunti. P. Sestero era un poco il “reporter particolare” delle nostre missioni del Kenya per la rivista Missioni Consolata.
Mi feci coraggio e gli chiesi alcune delucidazioni su quanto aveva scritto nel passato. Pochi anni prima aveva mandato alle stampe un romanzetto thriller intitolato «Il sacrificio del settimo anno», dove raccontava di un episodio avvenuto proprio nell’incipiente missione di Tigania. Tante cose a me sembravano inventate o quasi. Mi rispose, tra una pipatina e l’altra: «Non è un frutto di fantasia. Sono cose avvenute ma di cui nessuno parla e che ai nostri giorni nessuno o quasi più conosce. Io ho solo messo insieme a mo’ di romanzo tutta la faccenda… Se crede, potrei anche farle visitare i luoghi descritti nel romanzo a cominciare dalle cavee in cui uno dei protagonisti dovette nascondersi».
La località era Muthara, vicino a Tigania. In quella regione vi era un’usanza singolare chiamata da noi «il sacrificio del settimo anno», in parole povere un sacrificio umano. Durante la cerimonia settennale della circoncisione generale, il primo ragazzo che si presentava per la circoncisione era di fatto sacrificato con il veleno spalmato sul coltello usato per circoncidere. La cosa era tenuta nascosta al malcapitato e sovente offriva l’occasione per disfarsi di individui non voluti o inutili per la tribù, oppure per vendette trasversali. E così, veniva placato lo spirito. A scoprire questa usanza fu uno dei primi missionari di Tigania il quale vide – questo è narrato nel romanzo – portar via il figlio della prima famiglia cristiana che era venuta da Mojwa.
La relazione del mio vecchio informatore termina così: «I Meru hanno un numero infinito di pratiche che regolano tutta la loro vita, molte delle quali superstiziose, altre addirittura immorali, che per loro hanno forza di legge e che solo il cristianesimo, potrà poco per volta distruggere o modificare».
Queste cose sono state scritte prima della seconda guerra mondiale. Durante la guerra 1940-1945 tutti i missionari furono imprigionati e portati in Sudafrica nei campi di concentramento e le missioni abbandonate. In molte missioni – specialmente del Meru – la foresta si ripresa il suo dominio. Trovare cristiani fedeli nelle missioni del Meru era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Per di più – per via di un ordine tassativo del governo coloniale inglese – il ritorno dei missionari (ottenuto dopo lunghissime trattative tra Goveo e Chiesa Cattolica) fu concesso ad un patto: i vecchi missionari del Meru non potevano più rientrare nella regione, ma dovevano effettuare uno scambio con quelli provenienti dalle zone Kikuyu. Prendere o lasciare. I missionari non ebbero scelta: presero! Impararono un’altra lingua, si scontrarono con un dedalo di pratiche religiose e non religiose che spesso non capivano e ripresero a seminare nei vecchi solchi
Come, o quasi, era successo nel lontano l911….

Giuseppe Quattrocchio




Meru (3) «You are heroes», voi siete eroi

Antologia

Così disse dei missionari del Meru mons. Arthur Hinsley nel 1928.
è incredibile avventura di un manipolo di missionari in un ambiente difficile, isolato e certo non favorevole che, cent’anni fa, pur con pochissimi mezzi e quasi ignorati in quelle aree remote, riuscirono nell’impresa di conoscere a fondo il popolo dei Meru, farsi accettare e mettere le basi di una cristianità oggi viva e rigogliosa.
A loro sono dedicate questi brani antologici che raccontano di uomini e donne, protagonisti di una storia che comincia ufficialmente il 13 dicembre 1911.
Queste pagine, tratte da pubblicazioni dei missionari della Consolata (scelte in modo totalmente arbitrario), coprono un arco di tempo volutamente limitato tra il 1911 e il 1940 (quando i missionari furono inteati dagli inglesi e spediti in Sudafrica), con alcune statistiche che arrivano fino al 1950.
Rimandiamo ad un futuro appuntamento l’aggioamento sulla situazione attuale della diocesi di Meru.
A.L.

ESPANSIONE AL MERU
Da Igino Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo – La sua vita – La sua opera, Vol. III, Torino 1982, pp. 735-738

Al vicariato del Kenya, affidato ai missionari della Consolata, appartenevano anche i due distretti di Embu e di Meru. Embu è la regione a sud del monte Kenya, compresa nella grande ansa del fiume Tana. Il Meru invece è la regione sulle falde del monte Kenya ad est.
La regione di Embu poteva dirsi persa per i cattolici, per il fatto che appena il paese fu occupato militarmente vi si recarono i missionari protestanti, – quasi un compenso per essere stati prevenuti dai missionari cattolici nel Kikuyu. Il Meru era stato occupato militarmente dagli inglesi tra il 1905 e il 1908; nell’Imenti, in una località chiamata precisamente Meru, era stato eretto un fortino (Fort Meru); il paese era ricchissimo di foreste, di torrenti, molto fertile; solo nella parte bassa regnava la malaria.
La popolazione – i Meru – è una tribù affine ai Kikuyu, con una certa somiglianza anche nella lingua e nei costumi. In questa regione e tra questa gente mons. Perlo pensa di fondare qualche missione e nel 1910 invia in perlustrazione i pp. Gays e Bertagna. La difficoltà per aprire delle missioni nel Meru erano più che altro burocratiche col governo inglese. Ecco come il Camisassa (il canonico Giacomo Camisassa, cofondatore dell’Istituto che visitò il Kenya dall’8 febbraio 1909 al 26 aprile 1912, ndr.) scrivendo all’Allamano il 4 agosto 1911 presenta la situazione:
«[ … ] Dal Goveatore precedente e dallo stesso Dr. Hinde, era stato adottato il principio che noi [cattolici] dovessimo stare a destra del Sagana, e la sinistra (Embu, Meru, ecc.) fosse pei protestanti. Questo Goveatore, [attualmente in carica] – nelle colonie i Goveatori sono affatto dispotici – non volle sapere di quella divisione tra destra e sinistra del Sagana, e volle adottare il principio che cattolici e protestanti potevano mescolarsi in tutta la Provincia del Kenya (come fan nell’Uganda) a patto di stare distanti 3 ore gli uni dagli altri. Questo ci fu favorevole, ché a Meru, pur essendovi già due applicazioni dei Protestanti (Presbiteriani e Metodisti, ndr.), ci restava posto (nei luoghi più popolati) per due missioni almeno, e sono queste due che avrebbero ora concesso a noi […]. Però, come ho detto, questo Goveatore ha il chiodo fisso delle 3 ore di distanza, e ciò praticamente ci chiude Embu, che con tre missioni protestanti distanti sei ore una dall’altra lo occupano nominalmente tutto».
Fu l’intraprendente mons. Filippo Perlo (dal 1909 vicario apostolico del Nyeri e primo vescovo residenziale del Kenya, ndr.) a spuntarla anche in questo caso. Ottenuta la licenza del governo per due missioni, il Camisassa comunicò immediatamente la notizia all’Allamano.

«Fattoria (del Mathari, Nyeri) 16 giugno 1911
Amat.mo Sig. Rettore,
«A soli tre giorni di distanza le scrivo nuovamente: 1° per darle la fausta notizia che è venuto finalmente il permesso di impianto di una Missione a Meru… La Consolata ha voluto pagarci la festa prima ancora del 20! E Deo gratias proprio di cuore. […] A giorni vi andrà Mons. e due missionari (non so ancora quali) a sceglier il posto e iniziar l’impianto. Non so ancora se v’andrò subito io, o se solo più tardi, come vorrebbe Mons. per timore che i disagi dei primi tempi di una Missione, quando si deve viver sotto la tenda, mi possano nuocere. Vedremo. Meru è perfettamente a nord del Kenya, con 93 mila capanne paganti tassa (mezzo milione di anime – stima esagerata, vedi la «Breve storia» qui sotto, ndr.), popolazione meno sveglia di quella di Nyere, ma buona e semplice, e molto agiata, perché il paese è fertilissimo, intensamente coltivato, ed i nostri PP. Cagliero e Saroglia, tornati ieri di là col bestiame sono concordi nel definirlo un Paradisus Domini venientibus in Segor [cf. Gen 13,10: «come il giardino del Signore, venendo da Seor/Segor», ndr.] molto più bello che il Kikuyu. Negli otto giorni che passarono colà furono festeggiatissimi dai molti lavoratori di Meru stati già qui alla Fattoria… che li riconobbero ed erano fieri di presentarli a tout le monde». […]
A fine giugno mons. Perlo, certamente non da solo, si recò nel Meru in perlustrazione, allo scopo di scegliere le due località. Vi rimase quasi tutto il mese di luglio. Il 25 luglio il Camisassa scrive all’Allamano:
«Finalmente Mons. è arrivato cinque giorni fa da Meru dopo quasi un mese di permanenza colà. E sì che non perdette tempo, avendo sempre girato ad esplorare il paese, accompagnato dallo stesso comandante del forte, col quale finì per indicare due posti ove vorrebbe stabilirsi [Keja, divenuta poi Imenti, ed Egogi, ndr.]. […]: ora Monsignore presentò regolare domanda del terreno su cui impiantarci, e spero fra 15 [giorni] aver (da Nairobi) risposta affermativa e definitiva. Solo allora si potrà essere certi che la cosa potrà effettuarsi… Così credo potrà far anche lei quando avrà ricevuto tale annuncio con altra mia lettera».
Per recarsi da Nyeri o da Fort Hall alle due progettate missioni occorrevano rispettivamente sei o cinque giorni di marcia. […]
Le pratiche però s’incepparono a Nairobi. Ne dà notizia il Camisassa da Fort Hall (Murang’a) all’Allamano con lettera del 30 ottobre 1911:
«Vorrei poterle dire che le due Missioni del Meru sono un fatto compiuto, ma pur troppo non lo sono ancora. […]; all’insistenza di Mons. [presso il Goveo], che reclamava l’osservanza dei patti, risposero chiedendo che ritornasse loro tutto l’incarto per esaminarlo for inspection!! E dire che di tale incarto debbono aver essi tutto il duplicato [ … ]. Col Goveo le cose son sempre un po’ rotte, ma ci dev’essere della vera persecuzione in parte del basso personale… di burocrazia. Non c’è che da pregar sempre la SS. Consolata che ci aiuti Lei».
Tutto dev’essersi appianato ai primi di dicembre. Il diario della stazione di Imenti (Keja – pronunciato Kegia, ndr.) inizia:
«Inviati da S. E. Mons. Filippo Perlo, Vic. Ap. di Nyeri, i due Rev. PP. Balbo Giovanni ed Olivero Luigi, provenienti dal Gekoyo, giungevano in questa località il giorno 13 Dicembre 1911. La carovana di 32 portatori agekoyo e dei due Padri sopranominati sostò e piantò le tende a Keja presso il Capo M. Kerundu; e la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. […]. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».
Nell’altra località Egoji, furono destinati i pp. Giovanni Toselli e Giuseppe Aimo-Boot. Il Camisassa ne dà notizia all’Allamano il 18 dicembre 1911. Ma già il 5 dicembre da Torino l’Allamano aveva scritto al Camisassa:
«Le ripeto, che sarebbe anche buona cosa una visita a Meru e nell’Uganda, se Monsignore potrà accompagnarla».
Al 2 gennaio 1912 il Camisassa scrive che partirà fra breve per il Meru. Il diario della missione di Imenti al 22 febbraio 1912 annota:
«Giunge alla missione il Rev. Vice-rettore Can. G. Camisassa, Sua Ecc.za Mons. Perlo, accompagnati dal Cd. Anselmo e dalle Rev. Suore Vincenzine, Sr. Carola e Sr. Anania. Gli Eccellentissimi visitatori possono constatare i disagi e le fatiche del missionario all’inizio di una nuova missione fra queste popolazioni non ancora tocche dall’ombra di alcuna civiltà».
E il 4 marzo 1912 il Camisassa scrive all’Allamano da Nyeri:
«Da due giorni son giunto dalla visita alle missioni di Meru, un giro completo attorno al Kenya, con un percorso di 450 kílom., viaggiando in media da 30 a 35 kilom. al giorno» […].
«Le popolazioni sono evidentemente affini agli Akikuiu, come ne è quasi identica la lingua: quei di Keja appaiono molto più semplici e bonari che gli Akikuiu – quei di Igogi più svegliati, robusti e ben piantati» […].
«I nostri missionari, tanto a Keja e che a Igocci [sic] furono accolti molto cordialmente – assai più che non ai primi tempi nel Kikuiu – senza mostrar diffidenza e sospetti… sicché tutti i Padri ne sono entusiasmati, e più soddisfatti che quando erano nel Kikuiu. […] Non le dico altro di questo viaggio, che mi fu veramente faticoso, ma grazie a Dio non ne soffersi».

INCIDENTI DI MISSIONE
Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27

Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, addetto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante.
[Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il missionario scrive al canonico Allamano dalla prima missione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile.]

Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specialissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Iddio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è proprio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo.
In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione densissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi malaticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo.
Cammin facendo pensavo appunto al come avrei potuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’occhio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzialmente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rimproveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non conoscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentirnero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configurazione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti monticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfettamente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarciatura che costituisce appunto una piccola valle. Lascio ai geologi di studiae le origini e m’accontento di indicare il fatto.
Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido assai noto dello mbu, corrispondente al nostro allarme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’elefante! -.  A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gravità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo.
Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il catechista ha un brivido, e facendomisi più dappresso, me le mostra col dito teso e gli occhi sbarrati. Anch’io però come lui ho già compreso il grave pericolo scampato: se fossimo stati un tre minuti più avanti saremmo caduti senza dubbio vittime sotto i piedi di quel bestione […].
Passato quel momento di emozione, acceleriamo nuovamente il passo e ci portiamo su di un piccolo poggio dominante la valletta. Vi troviamo affollati molti indigeni, specialmente donne e fanciulli, che avevano abbandonato inconsideratamente i villaggi ed erano saliti su quell’altura per essere più al sicuro, non pensando che all’elefante era tanto facile la salita lassù, come ad un cavallo la corsa per una via piana. […] La maggior parte di quegli indigeni si aggruppava attorno ad un uomo, il quale, tutto tremante per lo sbigottimento e con i fianchi ammaccati, raccontava ai presenti la sua avventura. Non appena aveva sentito dietro a sé l’iroso barrito dell’elefante e il pesante calpestio delle poderose zampe, era corso al primo albero che aveva veduto, vi si era aggrappato e aveva cominciato ad arrampicarvisi, quando l’elefante lo raggiunse e cercò colla proboscide di afferrarlo a metà vita. Fortunatamente un colpo di coltello, di cui i neri son sempre muniti, ben diretto e menato con la forza della disperazione, ebbe per effetto di far ritirare per un istante la proboscide all’animale, cosicché il pover uomo poté finire di arrampicarsi e mettersi in salvo.
Intanto al suono del corno da più parti accorrono i cacciatori, fra cui alcuni Wakamba specialisti in queste cacce e che appunto per cacciare erano venuti a passare un po’ di tempo qui a Ihembe. Chi palleggia la lancia, chi brandisce il coltellaccio, chi agita lo ngiogoma (clava), chi semplicemente urla a più non posso: tutti cercano di far ritornare 1’elefante alla piana, per poterlo colà uccidere senza contravvenire al divieto di caccia posto dal governo inglese su questi altipiani. L’animale però non ne volle sapere; che anzi, uscito dalla bananiera ove erasi rifugiato, barrendo furiosamente, si diresse verso di noi, e ad un trecento metri, raggiunta una donna la quale fuggiva, esasperato dall’inseguimento, l’assalì, l’infilzò colle zanne, lanciandola a terra semiviva a parecchi passi di distanza, e, come soddisfatto da questa vendetta, ritoò indietro, mentre un grido di orrore usciva dalla bocca di noi tutti. Ma non era tempo di lamentarsi, bensì di agire; ed ero io che dovevo agire ad ogni costo, affrontando qualsiasi pericolo. Non si trattava della salvezza di un’anima? Invocando la Consolata e l’angelo custode vado di corsa verso l’infelice per soccorrerla, mentre i circostanti si dicono a vicenda: «Il Patri va a risuscitarla».
La poveretta che riconosco subito per la Ghecioe, una tra le più assidue ai catechismi domenicali, giaceva a terra immersa nel proprio sangue, giacché le zanne dell’elefante, data la violenza dell’assalto, le avevano squarciato il ventre. Constatai però che viveva ancora, e subito tolsi di tasca l’acquasantino per battezzarla, ma nella fretta esso mi sfugge di mano e l’acqua si versa. Corro allora nel villaggio poco distante, cerco in tutte le zucche e in tutti i recipienti in cui m’incontro, e finalmente trovo al fondo di uno un po’ d’acqua, quanto è sufficiente per il sacramento: la raccolgo, ritorno presso alla moribonda, e mentre ella volge verso di me gli occhi quasi spenti, come a pregarmi con quello sguardo insistente e pieno di dolore di ridonarle la vita che le sfugge, io verso sulla sua fronte, anch’essa intrisa di sangue, l’acqua battesimale e pronunzio commosso le parole sacramentali. La pupilla già vitrea dell’infelice pare in questo istante rianimarsi come vivificata da un raggio di luce soprannaturale, poi nuovamente si spegne; il suo volto si contrae, il suo corpo ha un leggero sussulto, ed essa spira, ridonando a Dio l’anima bella e santificata.
Mi alzo e rifaccio la strada, portando ai presenti la notizia di quella morte. Un urlo di indignazione fa eco alle mie parole e tutti, inaspriti da questa vittima umana, gridano: «Bisogna uccidere l’elefante, bisogna ucciderlo anche se l’uffiziale del Forte ci impiccasse tutti!». E la caccia alla belva ricomincia. I cacciatori, armati tutti di archi e di frecce avvelenate, si radunano, si intendono, si dispongono, ed avanzando cautamente cercano di accerchiare l’animale. Questo, sempre più furioso, tenta la fuga da una parte, ma un nugolo di frecce, alcune delle quali gli si conficcano nelle cai, lo arresta suo malgrado; egli scrolla come in un brivido violento la grande carcassa, barrisce spaventosamente e si volge dalla parte opposta; ma anche da questa parte lo accoglie un buon numero di frecce ben dirette. Disperato, alzando minacciosamente la proboscide, ansando, grondando sangue, si aggira su se stesso per tentar un’altra via, si arresta, riprende la corsa, ma oramai il veleno inoculatogli dalle frecce produce il suo effetto; i suoi movimenti si fanno sempre più lenti, i suoi barriti sempre più fievoli, si ferma, si piega, e tutta quella gran massa con un sordo rumore si rovescia pesantemente a terra. Gli altri indigeni, che dal poggio avevano seguito con ansia lo svolgersi dell’impressionante caccia, alla caduta della belva emettono grida di gioia, e i più arditi corrono in un coi [insieme ai] cacciatori a vedere l’elefante ucciso. Era ancor giovane; le zanne misuravano solo m. 1,20; era alto m. 2,30; lungo m. 3. Squartato lì sul momento dai cacciatori, tutte le donne con le loro bisacce andavano a gara nel portar via la carne, lasciando le ossa alle iene e agli sciacalli. Le zanne furono portate all’uffiziale del Forte.
Per quel giorno, vedendo la gente così impressionata dell’accaduto, non credetti più opportuno proseguire la visita ai villaggi, ma ritornai alla Missione ringraziando il Signore e Maria SS. Consolata. Ero scampato da un grave pericolo, ed avevo salvato un’anima!
P. Olivero M. d. C.

L’IMPIANTO DI UNA SEGHERIA nella foresta degli elefanti a Meru
Di Fratel Benedetto Falda da «La Consolata», 10/1922, pp. 156-159

[Dopo dieci anni dall’inizio delle missioni nel Meru, padri e suore vivevano ancora in case di fango e di tronchi costruite alla spartana. Passata la bufera della guerra e ritornati tutti i missionari al loro ministero, era finalmente ora di dare anche alle nuove missioni delle strutture decenti. Nel Nyeri tutte le case venivano prefabbricate alla «stazione industriale» di Tuthu e in pochi giorni portate alle loro destinazioni dove venivano assemblate. Ma il Meru era troppo distante. Si decise quindi di installare una segheria provvisoria in loco, in una foresta assegnata dal governo coloniale inglese. Dell’impresa fu incaricato il provetto fr. Benedetto Falda con l’aiuto di un altro fratello e due padri. Dopo un’accurata preparazione, trasportò tutto il materiale  su «quattro carri vagoni, 80 buoi e la macchina a vapore». Il viaggio durò quindici giorni per coprire oltre 150 km. Dovevano costruire «6 case per i padri, 6 per le suore, 6 scuole, mobilia per case e per scuole, ecc.». Il 15 maggio 1921 il fratello scrisse un lungo resoconto la cui prima parte fu pubblicata sull’antenata di questa rivista nell’agosto 1922. Qui vi presentiamo la seconda puntata.]

Come un bolide fra i scimioni
Se la salita era stata penosa, la discesa del versante di Meru, dove eravamo diretti, ci si presentò difficile per le numerose pietre che ingombravano la strada e che cagionavano ai pesanti carri continui scivolamenti, colpi, balzi e rimbalzi. Finalmente la via si fece più pianeggiante, scomparirono le pinete e ci trovammo in piane un po’ ondulate, con pasture di erba finissima, e, all’orizzonte, la linea di montagne che forma la frontiera abissina di Moiale.
Piegammo a destra, costeggiando sempre il Kenya, e peottammo nella piana dei famosi Maasai, i greggi dei quali erano pascolati da giovani selvaggiamente fieri, armati di lunga lancia. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio, che ora si compiva tranquillamente; la strada si estendeva in quei piani che parevano senza fine; ma non ci fu dato di veder selvaggina sino alla sera, quando facemmo una vera distruzione di galline faraone grosse come tacchini, che, ai colpi di fucile, rimanevano intontite, senza saper darsene ragione, finché cadevano colpite.
Non sto a dilungarmi nel racconto di tutti gli altri incidenti; solo vi dico che, il dì seguente, arrivammo nelle foreste di cedro, dove cominciammo ad avere comunicazione cogli abitanti. Il forte governativo distava ancora una giornata di cammino. Passammo alcune ore a pulire la macchina e suoi accessori, come si farebbe per una persona; ed invero ci era troppo cara, ed ogni sua piccola parte era vitale anche per noi, perché costituiva, per la nostra futura segheria, il cuore pulsante.
Il giorno dopo, i due Padri rimasero all’accampamento; io invece colla bicicletta, che avevo portato sui carri, partii alla volta del forte e poi verso la Missione di Maria Ausiliatrice (Tigania), per vedere se i ponti, che dicevano numerosi, erano resistenti; e nello stesso tempo cercare il punto della foresta adatta al nostro scopo. L’altro mio confratello, accompagnato dai neri del paese, doveva esplorare un’altra strada, o meglio dire sentirnero indigeno, e veder se si sarebbe potuto passare colla macchina nella brughiera, nel caso che i ponti fossero stati troppo deboli. Dirvi quel che provai in quel viaggio, tutto solo in paese sconosciuto, non è facile.
La strada era aperta in una magnifica foresta di cedri e altissimi mogani, che guardavo con una voglia matta di fae tante vittime per la erigenda segheria, ma forse quel luogo era ancor troppo distante dal punto dove ci saremmo impiantati. Dopo un’ora e mezzo di magnifiche volate, rallentate qualche volta con trepidanza dove scorgevansi i segni evidenti del passaggio degli elefanti, arrivai dove la foresta, aprendosi, lascia scorgere tutto il Meru. Che meraviglia! Là in basso, fra la verdura, erano le case del forte che, dipinte in bianco e rosso, facevano un magnifico contrasto col selvaggio panorama del paese.
Il primo saluto, quando ancora mi trovavo lontano dall’abitato, lo ricevetti da una lunga processione di scimie rosse, dal muso di cane e che come questi ab-baiavano. Potete immaginarvi come rimasi, quando, venendo giù da una discesa a passo di volata, mi trovai di fronte a un centinaio di questi scimioni! Non, ebbi il tempo di levarmi il fucile da tracolla e sparare per impaurirli – che, quanto a ferirli, me ne sarei guardato, perché allora diventano terribili – che entrai in quelle file come un bolide, suonando a distesa il campanello ed emettendo grida da ossesso. Se aveste visto che corse! Quella massa in un baleno si divise, si smembrò, ed eccoli tutti sugli alberi fiancheggianti la strada, emettendo essi pure grida indiavolate: un vero pandemonio! Ad ogni modo mi liberai bene, e pensando poi chi avesse avuto più paura, io o loro, conclusi che tutti assieme eravamo contenti di essere… fuggiti!

La scelta della foresta
Mezz’ora dopo ero al forte, consistente in due case: una per la posta e per gli ascari; l’altra per il comandante. Scritte e spedite alcune cartoline per informare i miei Superiori del felice arrivo, ripresi la via per strade ancor più piane e magnificamente tenute, facendo la conoscenza cogli indigeni Wameru. Il loro parlare è così musicale che il saluto pare una carezza; sono molto più socievoli e gentili degli aghekoio, e tutti per strada salutano. Gli uomini sono bei tipi di guerrieri, colle lunghe lance, ma non hanno, come i Maasai, la ferocia di assassinare facilmente i viandanti forestieri. Portano i capelli lunghi, fermati a treccia dentro uno straccio ornato all’esterno di perline; il corpo unto di olio e ocra. Così pure le donne portano molti oamenti che dan loro un aspetto gioviale. Ebbi l’impressione di arrivare in un paese in festa.
Contai 18 ponti solo tra il forte e la missione, ma tutti abbastanza buoni; e passai anche la foresta dove più tardi avremmo deciso di impiantare la segheria. Vicino ad un torrente, alcuni neri intenti a guardare qualcosa come impauriti, mi fecero segno di fermarmi. Scesi e vidi subito un enorme pitone sul ciglio della brughiera, gli sparai un colpo di fucile che lo fece attorcigliare come una salsiccia, ma occorsero due altri colpi per finirlo. Nella sua agonia si stese per lungo, occupando tutta la strada: era lungo circa cinque metri. Peccato che, essendo io solo, e i neri non avendo voluto toccarlo, dovetti lasciarlo preda alla iena, mentre sarebbe stato un bel esemplare per il nostro museo di Torino.
Arrivai alla stazione Maria Ausiliatrice [Tigania] accolto festevolmente dalle suore, che da un anno si trovano colà a far del bene, e dal padre che mi fu largo di gentilezze. All’indomani cercammo un punto adatto della foresta, e, dopo molto aggirarci di qua e di là, concludemmo col scegliere un tratto di foresta a tre ore dalla missione, quello appunto per cui ero passato in bicicletta e che mi era parso il migliore per qualità di alberi. Il giorno dopo, lasciata la bicicletta alla missione, ritornai all’accampamento per un sentirnero indigeno, per meglio osservare le foreste, e vi arrivai alla sera, stanco morto. Il mattino seguente ricaricammo tutto sui carri e partimmo per la meta che avevamo scelta.

L’incontro cogli elefanti
Il mio confratello coadiutore ed io ci davamo il cambio a guidare la locomobile; e mentre uno guidava la macchina che camminava adagio, l’altro badava alla carovana dei carri che precedeva. Mi trovavo appunto addetto a questo secondo ufficio, quando uno dei nostri carrettieri viene di corsa e tutto trafelato a chiamarmi e dirmi di arrestare la carovana perché un gruppo di elefanti stava sulla strada per cui dovevamo passare. Too indietro ad assicurarmi ed armarmi, se del caso, e trovo radunati alcuni indigeni del paese che concitatamente indicano colla mano, in lontananza, dove la strada costeggia un pendio, nella brughiera non folta, grosse macchie rossastre che si muovono e si rincorrono. Contro il parere degli indigeni, che ci volevano dissuadere, decidemmo di avanzare cautamente, essendo abbastanza sicuri sui nostri grandi carri. Raccomandai solo ai neri di non parlare, che, se assaliti, allora tutti insieme avremmo fatto il più grande baccano possibile. Ero contento di vedere così da vicino tanti elefanti.
Così, io sul primo carro, gli altri carrettieri sul proprio, avanziamo. Quando stiamo per oltrepassare il punto dove si trovano le bestie, e quasi pensiamo che già siano fuggite, un barrito, che par emesso da una cornetta, ci fa dare un più rapido giro al sangue. In una mano tengo il fucile e nell’altra una trombetta, pronto, se assaliti, a far rumore ed anche a sparare. Dopo il barrito, di nuovo silenzio. I neri stanno accovacciati sui rispettivi carri, e i buoi, per nulla intimoriti (cosa che io temevo), avanzano adagio e tranquilli; i carri su queste strade molli non producono il più leggero scricchiolio, e così, ritto sul carro, posso godermi uno spettacolo indimenticabile. In un pianoro, a destra della strada, dolcemente in declivio, stanno scherzando tranquillamente dieci enormi elefanti, che, visti così da vicino, paiono bestie antidiluviane. Alcuni si rincorrono, altri pascolano e mangiano foglie di alberelli che curvano con la loro tromba. Paiono sacchi enormi di carne.
Non sembrano avvedersi per nulla del nostro passaggio, cosicché possiamo contemplare, a nostro bel agio, quello splendido giardino zoologico. Ma non appena tutti i carri sono passati e si odono i primi rumori della locomobile avanzante pesantemente, i bestioni si ristanno come sorpresi, volgono dalla nostra parte i loro occhi sproporzionatamente piccoli, tendono in ascolto le enormi orecchie prima penzoloni, e… meditano il colpo. Non diamo loro il tempo. Ad uno squillo della mia cornetta comincia un sì assordante pandemonio, che i pachidermi, impauriti, si danno alla fuga. La locomobile fischia disperatamente e ininterrottamente; i carrettieri, ora ritti sui carri, si scalmanano a batter chi i tamburi e chi le latte di petrolio; altri soffiano dentro a coi speciali per trae suoni inqualificabili; altri, non sapendo a che appigliarsi, gridano a squarciagola agitando le lunghe fruste. E il pandemonio dura finché gli elefanti scompaiono nella foresta.
Poche ore dopo raggiungevamo la mèta sani e salvi, e con il macchinario in buone condizioni, nonostante il lungo e difficile viaggio. Ringraziammo assieme e di cuore il Signore e Maria Vergine Consolata, poi ci mettemmo all’opera, incominciando il disboscamento del tratto di foresta dove la nuova segheria doveva essere impiantata.

Il lavoro compiuto
Da una lettera successiva dello stesso coadiutore Benedetto Falda, apprendiamo alcune notizie sui primi lavori compiuti dalla nuova segheria nella foresta degli elefanti.
Foresta degli elefanti, Meru, 23 aprile, 1922.
Piantammo il laboratorio vicino ad un fiume per aver abbondanza d’acqua per la macchina a vapore, e in un pianoro per facilità di trasporto. La macchina a vapore fa funzionare la grande sega circolare, la piallatrice, la mortasatrice, un piccolo mulino e un’altra sega circolare. In nove mesi, essendo noi tre coadiutori e due padri, tagliammo 476 alberi dei quali molti hanno il diametro di un metro; poi 2.500 stepponi; preparammo il materiale per 18 case con pavimenti, soffitti, parti estee ed intee; ed ancora una riserva di legname per altre tre case complete. Inoltre si fecero 36 letti, 26 tavole, 60 porte, 40 battenti doppi per finestre, 52 vasestas per finestre. S. E. Mons. Perlo ci scrive di incominciare i trasporti colla macchina a vapore, e, a questo fine, ci mandò lo splendido tamagnone Tolotti che, in un coi due grandi tamagnoni (nome in piemontese italianizzato di grandi carri agricoli) fatti da noi, ci aiuterà a trasportare in pochi mesi le 300 tonnellate di materiale.
Noi qui ci troviamo benissimo. Gli indigeni impiegati al lavoro, mentre da principio erano affatto incapaci e scappavano ogni volta che mettevo in moto la sega, adesso si sono assai bene abilitati. Il grande frastuono della macchina è per noi come un inno di gloria a quel Signore che ci diede la vocazione all’apostolato e ci fece membri di questa schiera di pionieri del Vangelo, che si ripromettono di condurre a Gesù milioni di anime.
Coad. Benedetto Falda M. d. C.

MEKINDORI
Da Ottavio Sestero, I fioretti di padre Cencio, pp. 61-63, EMI Bologna 1992

La missione di Mekindori era allora solo un segno topografico segnato sulla carta geografica privata di mons. Perlo. In realtà non esisteva ancora nulla, eccetto la brughiera e le iene che l’abitavano.

Prima notte
[Questo capitoletto è tratto da Ottavio Sestero, Il Nibbio e altri racconti, pp. 117-118, EMC – Torino 1959]
Il padre Dolza, di felice memoria, se ne arrivò a Mekindoli, a prender possesso della nuova missione, la sera del 20 ottobre 1922. La missione non era che un tratto di brughiera con un mucchio di tavole per la futura costruzione.
I portatori dei pochi bagagli, ricevuta la mercede, si squagliarono in cerca di qualche capanna ospitale per passarvi la notte. Il padre, rimasto solo col suo cagnolino, si affrettò a piantare una vecchia tenda sdruscita. Consumò la sua magra cena, dividendola cameratescamente col suo botolo fedele, che con gli occhi fissi sulla bocca del padrone contava i bocconi, aspettando impaziente e supplice che di quando in quando venisse il suo tuo. Poi il padre Dolza, recitate le orazioni, stese due tavole nella tenda, si avvolse in una coperta e vi si coricò come in un morbido letto.
Si era nella stagione delle piogge. Il cielo appariva carico di nuvoloni pesanti e l’oscurità profonda. Allegra esperienza, trovarsi in un angolo sperduto dell’Africa, lontano le diecine di miglia dal primo centro civile, solo, di notte, in una tenda precaria, con un uragano imminente e numerose iene affamate vaganti all’intorno!
E l’uragano venne più violento e più rabbioso che mai, con un ventaccio sì furioso che pareva che tutti i diavoli del Jombene soffiassero su quella povera tenda. Il padre Dolza conosceva l’Africa e sapeva che il terreno rammollito dalla pioggia rallentava la sua presa sui piuoli; perciò stimò prudente alzarsi e aggrapparsi tenacemente al palo centrale della tenda, la quale già dava segni di collasso. Fatica inutile! Un colpo di vento furibondo investì la tenda; il palo bagnato gli scivolò dalle mani e la tenda scomparve nel buio; la fioca lampada da campo, rovesciata, diede un guizzo e si spense.
La pioggia veniva giù come una doccia a tutta pressione e in pochi minuti il povero missionario fu bagnato fino all’osso. Brancicando nel buio, cercò affannosamente la cassetta dell’altarino portatile, e, trovatala, vi si sedette sopra per salvare dal diluvio le ostie e gli indumenti sacri. Così raggomitolato e assiderato, la pioggia lo flagellava senza pietà. Il cagnolino gemeva pietosamente e invano cercava un riparo sotto le ginocchia del padrone. Tutt’intorno si sentivano i grugniti soppressi, i singulti e le sghignazzate beffarde delle iene. A tratti, lividi lampi squarciavano l’oscurità. Il padre Dolza non era un pusillanime, e tanto meno un novellino d’Africa, eppure confessò che in quella notte molte lacrime si mescolarono con la pioggia. Quanto durò questa tortura? Durò fino a quando una pallida luce annunziò il nuovo giorno. Allora, malgrado fosse rotto e fradicio, dovette muoversi per non morire assiderato. La pioggia cessò a poco a poco con l’inoltrarsi del giorno e il missionario si accinse a preparare l’altarino e a celebrare la prima messa nella nuova missione.
Così ebbe inizio la sua vita di missione vera e propria.

La casa e la malaria
Nel frattempo il fratel Benedetto Falda lavorava con ritmo accelerato e febbrile, ed un bel giorno arrivò a Mekindori una carovana che portava il necessario per fabbricare una casetta decente e solida. Ma fratel Davide, incaricato di questa costruzione, era impegnato altrove e per alcuni mesi non sarebbe stato disponibile.
Il padre Dolza fece accatastare tutto quel legname avendo cura di lasciarvi un buco nel mezzo, un antro buio e scomodo per dimorarvi, che però aveva il vantaggio di non venire asportato, come la tenda, nelle notti di tempesta.
Nel frattempo, con l’aiuto della gente del luogo, provvide a far fabbricare una capanna per ospitare il fratello che doveva venire a costruire, ed intanto cominciava a farsi una cerchia di amici fra gli abitanti dei dintorni.
Ma lasciato a se stesso e propenso com’era a far penitenze e digiuni per vincere, come diceva lui, i diavoli del Jombene, e più ancora fiaccato da violenti attacchi di malaria, in breve venne ridotto a tal punto di esaurimento che i padri delle missioni limitrofe ne rimasero seriamente preoccupati.
Un giorno il padre Calandri, residente a Ighembe, si incontrò col padre Manfredi, che veniva da Toro, e discutendo sul caso, gli disse: «Se rimane ancora qualche tempo in quella tana, da solo, un giorno o l’altro lo troveremo stecchito… o pazzo!».
I due missionari decisero quindi di andare in suo soccorso; si recarono assieme a Mekindori per portarselo ad Ighembe finché si fosse ristabilito. Arrivati a Mekindori, il padre Dolza non si vedeva.
Un nero accennò loro la catasta di legname. Bussarono alla barricata della tana; silenzio di tomba.
Gridarono forte: «Padre Vincenzo, apra! Siamo noi!».
Nessuno rispose. Certamente qualcosa non andava.
Puntarono le spalle e sfondarono l’uscio posticcio. Il padre Dolza era là, coricato sulle tavole, non ancora morto, ma neppure molto vivo.
Lo svegliarono dal suo dormiveglia affannoso e incosciente; gli somministrarono una bevanda tonificante che a buon conto avevano portato e gli dissero: «Padre, siamo venuti per portarla a Ighembe».
«A Ighembe?», mormorò con voce flebile. «Che ci vado a fare? Lasciatemi qui. è la mia missione… e voglio morire qui».
«Suvvia, Padre, non dica sciocchezze! Chi parla di morire? Bisogna lavorare, altro che morire! E deve venir via di qua».
«No, no. Ho deciso. Io non mi muovo. Morirò qui. Scavatemi solo una fossa, che io non ce la faccio più».
Vedendo la sua testardaggine, i due ricorsero ad una bugia strategica e il padre Calandri gli disse in tono severo: «Finiamola con queste storie. Ordine del vescovo: lei deve recarsi a Ighembe». «Ordine del vescovo?» fece eco il padre Dolza rianimandosi. «Dov’è quest’ordine?».
Il padre Calandri frugò nelle tasche, fingendo di cercare una lettera che naturalmente non c’era. Il padre Manfredi gli venne in aiuto dicendogli in tono di rimprovero: «Al solito! L’ha dimenticata a casa quella benedetta lettera del vescovo». «Oh, vero! L’ho dimenticata sul tavolo! È seccante!», e poi, rivolto al padre Dolza, aggiunse: «Ma non importa, la lettera c’è e lei deve venire».
«Se è così», mormorò il padre Dolza rassegnato, «verrò, forse domani. Oggi non riesco a stare in piedi».
«Così va bene», disse il padre Calandri, e aggiunse: «Gli ordini dei superiori vanno eseguiti».
In quella tana non c’era assolutamente posto per altri. I due samaritani somministrarono al malato una buona dose di chinino e ritornarono alla loro missione.
Padre Dolza ci pensò seriamente nella notte e decise di obbedire a qualunque costo, anche se ciò fosse costato quattro ore di marcia su gambe incerte e tremanti.
Il mattino seguente, quando i due amici arrivarono per aiutarlo, la tana era vuota e l’usciolo ben chiuso. Si guardarono sorpresi: «Acciderba, che fegato! Come avrà fatto a partire da solo in quelle condizioni?».
P. Manfredi si gettò subito all’inseguimento temendo di trovarlo svenuto sul ciglio del sentirnero, ma per quanto trottasse non riuscì a raggiungerlo per via. Lo trovò a Ighembe che si era buttato, senza forze, su un pagliericcio per smaltire la dura maratona.
(Ottavio Sestero)

Autori vari




Meru (4) Le sette sorelle

1. IMENTI (o MUJWA)
Fu fondata nel 1911. Il primo cristiano fu battezzato il 17 sett. 1916. Nel 1926, alla creazione della prefettura, i Cristiani erano appena 72. Al 31 dicembre 1950 sono 3.932 [nel 2005 sono 34.900, senza contare Mitunguu e Nkubu]. Le 18 out-schools (scuole cappelle) contano un 2.000 allievi. [Al 1950] vi è un catecumenato presso ogni scuola.
Altre opere della stazione: asilo infantile; famulato per le ragazze sposande, opera questa che scioglie tante difficoltà e che prepara le ragazze al matrimonio cristiano; una efficiente scuola industriale diretta dal fr. Serafino; un laboratorio fornito delle macchine più modee, diretto dal fr. Cesare Balagna; una scuola di scalpellini in pietra, creata e diretta dal fr. Virgilio e che ha già fornito statue e altari e oamenti alla nuova Cattedrale e forma l’ammirazione di quanti ne vedono le opere.
Non vanno dimenticate le numerose squadre di calcio, quasi una per scuola, e due presidi della Legione di Maria.

2. EGOJI
Fondata nel 1911. I primi cristiani furono battezzati il 14 maggio 1916. Nel 1926 [Egoji o Igoji] contava 148 Cristiani e a fine 1950 il numero era di 2.602 [35.738 nel 2005, senza contare quelli delle out-schools diventate parrocchie].
Qui lavorò molto il p. A. Bellani, profondo, linguista ed etnologo che alzò il prestigio della missione non solo tra i pagani, ma anche tra i protestanti e presso il governo. Fu il primo a riconoscere la necessità delle scuole a Meru, e personalmente stampò con una piccola macchina tipografica i primi libri usciti in lingua Kemeru. Anima zelante dell’espansione missionaria non risparmiò fatiche e preparò, con la sua opera e tattica di muta comprensione con la popolazione, quel grande sviluppo che prese la missione in seguito.
[Nel 1950] C’è un buon dispensario, una scuola primaria con oltre 400 allievi, e 17 out-schools con un complesso di 2.360 allievi, di cui 892 sono ragazze; tre prayer houses; una scuola secondaria femminile, la St. Mary’s Girls’ Boarding School con una sessantina di ragazze; annessa a questa una scuola magistrale femminile che prepara maestre diplomate per la prefettura; una scuola domenicale per donne, unica nel suo genere, ove sr. Carmelina impartisce la prima  istruzione letteraria e conferenze appropriate alle donne; il circolo festivo San Karolo Lwanga per i bambini; il circolo festivo Sant’Agnese per le bambine; quattro truppe di Boy Scouts e numerose squadre di calcio.

3. TIGANIA
Fondata nel 1913, il primo battesimo si ebbe il 7 ottobre 1917. All’erezione in Prefettura nel 1926 contava 50 cristiani, e al 1950 ben 768 Cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma anche questa missione è stata divisa in più parrocchie].
Due belle figure di missionari che ne hanno dissodato il terreno spirituale sono il serafico p. Aimo e l’ascetico p. Rosso, veri pionieri della Chiesa, i cui sacrifizi e vita austerissima solo Dio conosce.
Nel diario della missione [anno 1936] si trova scritto: “Il terreno di Tigania è pietroso e arido e a stento vengono su i raccolti. Altrettanto si può dire dei cristiani: ogni anno si aggiunge qualche nuovo convertito, ma la massa si conserva restia. Solo il missionario sa quanto costa un solo cristiano nel Jombene”. Ma ora [1950] i tempi vanno decisamente cambiando. Il catecumenato è fiorentissimo. La scuola centrale conta 126 allievi. Vi è un buon dispensario, un asilo infantile che è una grazia, un gruppo di azione cattolica che compie un lavoro di apostolato impagabile. Le tre out-schools contano 236 allievi.

4. IGEMBE (o AMUNG’ENTI)
Fondata nel 1913, il primo Cristiano si ebbe solo dopo sette anni, nel 1920. [Nel 1926] i Cristiani erano 33; a fine 1950 sono 227 [mancano dati per il 2005].
Egembe con Toro [Tuuru] sono il vero centro del paganesimo del Meru e, pare, anche la culla della società degli Njoli, che regolano tutta la vita del Meru sulle basi tradizionali pagane. Tuttavia anche qui come a Tigania ci sono i segni di un buon risveglio.
I catecumeni sono 80; la scuola centrale con lo standard V [classe V] conta già ben 192 allievi, e le quattro out-schools hanno già 326 allievi.
La missione di Egembe è ancora ora impregnata del ricordo del p. Vincenzo Dolza, che si faceva chiamare «padre Cencio», che rese questa missione una delle più belle, con viali e vaghi giardini dai mille fiori, tra cui primeggiano numerosi i rosai. Il padre li piantava in onore di santa Teresina («Agli altri, diceva, la Santina manda le rose, a padre Cencio solo le spine delle rose»).
Non è possibile che le preghiere, i lavori, i sacrifizi di tanti padri e suore che hanno seminato nel dolore rimangano sterili. A suo tempo i rosai di p. Dolza non daranno più solo, spine, ma sbocceranno in quella pioggia di rose predetta dalla Santa.

5. MEKINDULI
Fondata nel 1923. I primi cristiani furono 10 Jaluo [Luo provenienti dalle zone attorno al Lago Vittoria] che lavoravano nella missione, battezzati ne 1927, cui l’anno seguente si aggiunsero due indigeni del luogo, e poi fino al 1936, non si hanno più cristiani. Ora [1950] ne conta 807 [33.217 nel 2005, senza contare quelli delle parrocchie da essa generate].
La missione di Mekinduli [oggi chiamata Mikinduri, pronuncia Mekindori] ha una storia interessantissima e meriterebbe di essere scritta più diffusamente. Il primo sito della missione era su un poggio, un vero santuario del paganesimo, luogo di balli e circoncisioni. La popolazione vide mai di buon occhio questa profanazione e in conseguenza ostacolò la missione fino alla sua rimozione. La missione era hopeless [senza speranza], e nel febbraio 1929 venne [temporaneamente] chiusa. Riaprì verso la fine dello stesso anno, ma le difficoltà continuarono a ostacolare ogni apostolato, tanto che a differenza delle altre stazioni, solo nel marzo 1930 poterono essere inviate le prime Suore Consolatine, sr. Orsola e sr. Eliana.
Nel 1932 [in accordo col governo la missione viene spostata] a circa mezzo miglio di distanza. Il fr. Davide Balbiano inizia i lavori: casa padre, casa suore, chiesa, scuola, fabbricati omogenei nello stile, eleganti e adatti allo scopo. Verso la fine dello stesso anno, si [occupa] la nuova missione, abbandonando l’antica. La nuova Mekindoli è adagiata sul fianco della collina Njoro, mentre di fronte si apre a spiraglio la meravigliosa veduta della pianura di Tharaka e Ikamba.
Nel 1936, il p. Umberto Bessone viene nominato superiore e la missione comincia a risvegliarsi dal letargo secolare. Viene aperto un colleggino che fiorisce fino all’inizio della grande guerra, durante la quale la missione viene quasi abbandonata.
Terminata la grande guerra, p. Giulio Peirani ne prende possesso con tre suore. Nei primi due anni, risveglio lento, ma progressivo.

6. TORO
Fondata nel 1923, primi battesimi nel 1930, conta ora [1950] 216 cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma Toro – o Tuuru – è la madre delle floride parrocchie di Maua, Mutuati e Kangeta]. In questa missione per molti mesi dell’anno si hanno nebbie fittissime, fattore questo che concorre a rendere quella popolazione indolente, molle, senza iniziative, contenti di vivere nella loro miseria fisica e morale, che li rende apatici a tutto, specie a quello che importa innovazioni. Pagani fino al midollo e refrattari a qualunque sforzo. I Protestanti in questa zona hanno ottenuto molto meno di noi, e lo stesso Goveo, nonostante le multe, la prigione e gli askari (soldati), trova difficoltà a eseguire i suoi piani di miglioramento del paese.
Nonostante tutte queste difficoltà, cui bisogna aggiungere quella degli Njoli, i nostri bravi missionari che vi hanno lavorato, hanno ottenuto in quei 216 cristiani un vero successo. Un profano potrebbe meravigliarsi: un successo 216 Cristiani in 27 anni? Noi che conosciamo il luogo e le sue difficoltà e la popolazione ripetiamo che è un vero successo.
Ora [1950] la Missione ha un centinaio di catecumeni, una scuola centrale ben avviata, due out-schools con oltre 100 allievi, un buon dispensario, un collegino di 20 ragazze e persino una squadra di calcio.
La Missione fu dedicata a Santa Teresa del Bambino Gesù dal p. G. Airaldi che vi lavorò per ben sei anni, apparentemente senza risultato come il suo predecessore p. E. Manfredi. Ma il movimento che comincia a manifestarsi ora è frutto del loro apostolato silenzioso di preghiera e sacrificio.

7. CHUKA
Fondata nel 1933 da mons. Carlo Re, era fino allora una out-schools dipendente da Kyeni [nell’Embu]. I primi 24 cristiani di Chuka furono battezzati a Kyeni nel 1932. Ora la missione conta 2.721 cristiani, la seconda della prefettura per numero [36.608 nel 2005].
Primo superiore fu p. F. Comoglio, che rese popolare la missione anche tra i Protestanti e riuscì a stabilire parecchie scuole, alcune delle quali staccatesi in massa dalla missione protestante. Se si considera il carattere della popolazione di Chuka, molle, effeminato, privo d’iniziative, molto dedito al vino, viene da meravigliarsi come mai in così poco tempo abbia raggiunto tali progressi, da imporsi a pagani e protestanti. Specialmente la località Kamachuku e Mothambe sono fra le più progredite del distretto.
Durante la guerra fu visitata periodicamente dal Padre risiedente a Egoji. Mentre la missione di Chuka estendeva i suoi tentacoli nelle out-schools il centro e residenza rimaneva per lungo tempo un deserto. Solo nel periodo postbellico, con l’arrivo dei Padri nella Prefettura, cominciò un periodo che può chiamarsi di splendore.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (5) Breve Storia

Adattato da una relazione di p. Valentino Ghilardi

Questa storia sintetica dei primi anni delle missioni del Meru fu scritta nel 1950 da p. Valentino Ghilardi (1905-1961). Lo sviluppo delle missioni del Meru è avvenuto alla chetichella, pagato con tanta sofferenza e dedizione e ha trovato la sua completezza nella creazione della Diocesi di Meru (1953). Da allora la dozzina di missioni che costituivano la nuova diocesi, ha fatto un balzo gigantesco raggiungendo in pochi anni e occupando praticamente a raggiera tutto il Meru, con 45 parrocchie e 730.000 cristiani (dati del 2005).

Da notare come in questa relazione p. Ghilardi usi un linguaggio e termini tipici del suo tempo e scriva i nomi locali secondo lo stile italiano proprio dei missionari prima che gli inglesi imponessero la loro sillabazione. Essi scrivevano come si pronunciava secondo la fonetica latina. In più la sillabazione corretta dei nomi era complicata dal fatto che la lingua locale non era scritta ma solo orale e soggetta a grosse variazioni da clan a clan, da collina a collina.
I dati del 2005 sono dal «Kenya Catholic Directory 2006», Nairobi 2006.

1911, gli inizi
Fu a questo paese, selvaggio e assai basso nell’ordine morale, che giunsero nel dicembre del 1911 quattro padri missionari della Consolata, lo zelo dei quali aveva fatto superare tutte le difficoltà e paure, ché i Meru eran descritti come i più selvaggi e crudeli di tutta l’Africa.
In un primo tempo si fermarono a Thigga nel Mwembe, ove pensavano di aprire una missione. Invece abbandonarono il luogo, forse perché trovarono molta malaria o per mancanza di acqua, e si divisero in due gruppi: p. Luigi Olivero e p. Giovanni Balbo proseguirono il loro cammino, mentre p. Toselli senior e p. Giuseppe Aimo salirono sull’altipiano e si fermarono a Egoji, ove, dopo difficoltà non poche e molto parlamentare, poterono intendersi coi notabili del paese per stabilirvi una stazione di missione.
P. Balbo e p. Olivero giunsero a Keeja nel basso Imenti ove trovarono quanto faceva per loro.
I quattro pionieri eran partiti da Nyere il giorno dell’Immacolata, e il giorno di Natale ebbero la gioia di celebrare, sia pure sotto una tenda, la prima messa nel luogo delle due erigende missioni.
Si posero con lena al lavoro, tant’è che solo dopo poche settimane era pronta l’abitazione dei Padri e una minuscola chiesa. Nel febbraio seguente il vicario apostolico mons. Filippo Perlo [il Vicario apostolico di Nyeri da cui dipendeva tutta l’area attorno al Monte Kenya] e il cofondatore Can. Giacomo Camisassa, accompagnati da sr. Carola e sr. Anania delle Suore Vicenzine, visitarono le due missioni che furono trovate adatte [vedi storia e foto in queste stesse pagine].

Metodo
Metodo di apostolato [era il] solito, quello cioè già adottato nel Kikuyu i primi tempi: visite ai villaggi con istruzioni spicciole, cure degli ammalati, mentre pure non si trascuravano le costruzioni in casa.

1913, Espansione
Ma lo zelo, come il fuoco, non rimane stazionario: o si spegne o si dilata. Ed è quindi con meraviglia, dato lo stato selvaggio del paese, che noi vediamo i nostri cercare nuova espansione nell’ancora più selvaggio Jombene. Nel febbraio 1913, p. Toselli d’accordo con S.E. Mons. Vicario, fissa il luogo della nuova missione di Tigania e nell’agosto 1913, la prima casa è fatta.
P. Aimo e p. Rosso non stettero inoperosi e non risparmiarono la fatica. Essi stessi cominciarono a squadrare le durissime pietre vulcaniche che pavimentano gran parte della regione e a mano preparare assi nella vicina foresta del monte Jombene. Il materiale era pronto: pietra su pietra cementate di fango, asse vicino a asse, fatiche giornaliere iniziate all’alba e terminate solo per l’oscurità; ma la chiesina venne su bella e massiccia come la montagna del Jombene. Nella notte santa del 1914, scrisse p. Aimo, «l’Onnipotente fattosi povero fanciullo scende per la prima volta nella povera chiesetta di Tigania». Nel dicembre 1913 pp. Olivero e Domenico Vignoli fondano la nuova missione di Egembe (ora chiamata Amung’enti [scritto anche Igembe o Ighembe]) proprio sul piazzale del ballo degli Nthaka sulla riva destra del fiumicello Mboone e abbracciante due clan.
Abbiamo così le prime quattro missioni del Meru, quattro roccheforti avanzate proprio nel cuore del paganesimo, che i  nostri chiamarono trappe, certo menandovi vita da trappista: preghiera, lavoro, visite ai villaggi, soli per la maggior parte dell’anno. Se i monti e le rocce e i fiumi e i sentirneri potessero parlare quante belle e meravigliose cose ci direbbero di Frate Ilarione (p. Rosso), di Frate Beardo (p. Aimo), di Frate Ginepro (p. Albertone), di Frate Pacomio (p. Bellani), e di tutti gli altri, come tante belle cose ha cantato il serafico p. Aimo nelle sue innamorate odi del Jombene.

1915, le suore
Nel 1915, il paese parve abbastanza sicuro, cosicché mons. Perlo permise alle Suore Vincenzine di stabilirsi a Imenti che nel frattempo (1913) aveva soppiantato la missione primitiva di Keeja malsana e senza acqua [Le autorità, sotto l’influsso dei protestanti ostili all’insediamento dei cattolici, avevano assegnato un terreno che durante le piogge si allagava facilmente. Dopo le giuste lamentele, fu permesso di scegliere un posto più sano nel giro di un’ora di cammino. Mandato dal vescovo, P. Giovanni Chiomio, proverbiale per la precisione dei suoi passi e la sua resistenza, percorse esattamente in un’ora di distanza che lo separava da Mojwa, posta in un luogo sano e ricco di acque].
Sr. Dolores, sr. Agnesina e sr. Antonia vi arrivarono dopo lunghi giorni di lenta carovana il 15 luglio 1915, e più o meno lo stesso tempo ricevono le suore anche Egoji e Tigania, e l’anno seguente 1916 anche Igembe.
Si iniziano asili, si sviluppano i dispensari, si aprono i tanto necessari brefotrofi che salvano centinaia di innocenti vite, si usano mille industrie per attirare la popolazione che oramai ama i missionari, li rispetta, ne approfitta per i malati e per mille altre cose e lavori, ma in quanto a religione: nessuna breccia nel millenario paganesimo.

1916, Progresso lento
Bisognerà attendere fino al 14 maggio 1916 per avere un primo battesimo a Egoji, fino al 17 luglio 1916 a Imenti, fino al 1917 a Tigania, e fino al 1920 a Igembe.
Guardate il quadro progressivo annuale dei cristiani dall’inizio delle missioni al 12 Dicembre 1950 e non vi sfuggirà certo la lentezza del progresso [vedi i box «Sette Sorelle»] in qualche stazione, nonostante il lavoro immenso compiutovi. Alla vostra domanda sottintesa rispondo: «Quanti scalpelli si consumano prima che abbian intaccato la roccia granitica?». Il paganesimo di questa gente è molto più duro a sfondare, guardato com’è dalle organizzazioni degli Njoli [sono gli Njuuri di cui si parla più sopra] che tengono tenacemente il paese in mano, e in molti luoghi impediscono ogni innovazione che mina alla sua base stessa il paganesimo. Le difficoltà di apostolato incontrate a Tigania e a Egembe non impedirono l’espansione ai nostri pionieri.

1922, quota sei
Salendo su da Tigania verso Kangeta, non sfugge in lontananza sui profili dei contrafforti del Jombene la visione di qualcosa che sembra un castello, una fortezza: è la missione di Toro [oggi chiamata Tuuru] fondata da p. Aimo e Calandri nell’agosto 1922, vera sentinella avanzata, posta quasi sui confini del Jombene, proprio sulle vie carovaniere dei Borana e Turkana, in mezzo a una popolazione fittissima. Nell’ottobre 1922, p. Balbo fonda la stazione di Mekindoli [Mikinduri, – in realtà lui fece solo i primi contatti, la fondazione vera e propria si deve a p. Dolza Vincenzo come raccontato più avanti], luogo già visitato dal p. Giuseppe Maletto qualche tempo prima, il quale lasciò scritto nel diario: «Il primo a dir messa a Mekindoli fui io, sotto la tenda, con i fratelli Benedetto Falda e Bartolomeo Liberini a servirla, e ciò il 2 luglio 1922». Poche missioni hanno incontrato tanta difficoltà come Mekindoli nel loro primo sviluppo. Basti dire che per ben dieci anni ebbe solo sempre dodici cristiani. Ma nelle difficoltà si temprano anche le missioni, ed è per questo che oggigiorno Mekindoli è quella più avanzata e più promettente fra le missioni del Jombene.

1923, le consolatine
Nel 1923, settembre, arrivano a Imenti le prime due suore Consolatine, la compianta sr. Giacinta e sr. Enrichetta. Con lo svilupparsi dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata, altre ne arrivano, cosicché nel 1925 le suore Consolatine hanno già occupato le missioni del Meru, ad eccezione di Mekindoli, e le suore del Cottolengo possono rimpatriare.

1926, LA PREFETTURA APOSTOLICA
Abbiamo finora parlato delle sei stazioni di missione del distretto di Meru, che era parte del vicariato apostolico di Nyere. Nel 1926, succede un avvenimento d’importanza capitale per la storia della Chiesa nel Kenya. Precisamente il 10 Marzo 1926, una bolla da Roma erige la Prefettura Apostolica di Meru, staccando il distretto di Meru e parte di Embu dal vicariato di Nyere, piccola isola di 9-10.000 Km quadrati entro il vicariato, e una popolazione attuale (1950) di 400.000 (nel 1926 non raggiungeva i 200.000 [notare qui come la stima di 93mila capanne fatta nel 1910 fosse decisamente esagerata]). Primo Prefetto Apostolico è il venerato mons. Giovanni Balbo, nato a Torino il 22 ottobre 1884, e ordinato sacerdote il 29 giugno 1907, tempra d’apostolo antico stampo rotto a tutte le fatiche del pioniere. La nomina lo trovò in trincea, superiore della missione di Imenti, che reggeva, eccetto brevi periodi di interruzione, dalla sua fondazione. Tempi duri, quelli, per la nuova prefettura, in cui tutto era da organizzare, staccata da un vicariato che navigava bene [la disparità di risorse tra il vicariato di Nyeri e la prefettura del Meru, fu una delle questioni che più amareggiò i missionari].
Mons. G. Balbo non si perse d’animo. Le sette missioni della prefettura (nella divisione acquistò pure la missione di Kyeni iniziata nel 1923), nonostante la miseria, è la parola [giusta da usare], in cui si trovavano, cominciarono una nuova vita di sviluppo. Per prima cosa importò macchine per un laboratorio che avrebbe dovuto fornire il materiale per la costruzione di tutte le stazioni, i cui fabbricati erano ancor quelli all’indigena dei primi tempi, le mobilia per le abitazioni e le scuole che qua e là cominciavano a fiorire. E tutte le missioni avvantaggiarono di questo laboratorio.

1928, Tempi duri
Ma i tempi erano durissimi, e solo la tempra adamantina dei sette missionari, che formavano tutto il personale della prefettura di Meru, poté affrontare e superare quelle difficoltà che provenivano dall’interno del paese e dall’esterno.
«Siete eroi», disse mons. Arthur Hinsley (poi Cardinale di Westminster) ai missionari nella sua visita apostolica nel novembre 1928, visita che portò qualche benefizio materiale alla prefettura, e di cui mons. Balbo subito approfittò per costruire le abitazioni dei padri e delle suore della missione di Kyeni [non era stata una visita di cortesia, perché il monsignore, allora non ancora vescovo, era stato mandato da Roma per risolvere alcuni problemi, soprattutto economici, pendenti tra il vicariato di Nyeri e la nuova prefettura].
La visita di mons. Pasetto nel Giugno 1929 portò nuovi miglioramenti amministrativi alla prefettura. Ma la fibra forte di mons. Balbo non poté resistere alle crescenti difficoltà della Prefettura. La sua salute ne fu scossa, e verso la fine del 1929 rassegnò le dimissioni. Gli succedette come pro-prefetto, mons. Carlo Re, carica che tenne fino al 1936. Durante questo periodo mons. Re rifece i fabbricati di parecchie missioni e aprì la stazione di Chuka. Nuovo sviluppo presero pure le scuole sia alla centrale che nelle out-schools.

1936, mons. Nepote
Finalmente nel 1936, la prefettura ebbe il suo nuovo prefetto apostolico nella persona di mons. Giuseppe Nepote. Scriveva il «Da casa madre» [il bollettino interno dell’Istituto] del novembre 1936: «L’Angelo della Chiesa di Meru: ce l’ha portato la Madonna del Rosario come dono della sua festa: un dono materno quindi, prezioso e bello come i frutti di questa ottima raccolta autunnale. La lunga attesa della Chiesa di Meru non poteva certo sperare un premio più gradito e munifico di questa illuminata scelta».
Il periodo di mons. Nepote segna lo stabilizzarsi della vita cristiana nelle Missioni. Catecumenati fiorenti, scuole, cristianità in aumento in ogni luogo. [Ma l’idillio durò poco].

LA II GRANDE GUERRA
La grande guerra risparmiò nessuno, nemmeno il prefetto apostolico, il quale in un primo tempo fu inteato in un campo di Kabete, e in seguito confinato in una missione del Tanganika . Eventi successivi del dopo guerra portarono alle dimissioni di mons. Nepote nel novembre del 1946. E la chiesa di Meru [rimasta priva del suo pastore fu] retta dall’amministratore apostolico mons. Carlo Cavallera, vicario apostolico di Nyeri.
Durante l’inteamento di tutti i missionari [nel campo di Koffiefontein in Sudafrica] e suore, la prefettura venne temporaneamente affidata a quattro padri della Congregazione dello Spirito Santo, troppo pochi per il grande lavoro della prefettura, cosicché parecchie missioni furono chiuse e visitate solo periodicamente.
Con il ritorno globale dei padri e suore nell’agosto 1944, tutte le missioni presero nuovo sviluppo: catecumenati, cristianità, dispensari, ospedale, scuole primarie e secondarie, con un ritmo che ha del prodigioso.

A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (1) Quasi un’antologia

Cent’anni fa il Meru accoglieva la Consolata

Il 13 dicembre 1911 è la data dell’inizio ufficiale dell’evangelizzazione del Meru, una vastissima area allora quasi inesplorata a nord-est del Monte Kenya. Quel giorno i padri Balbo Giovanni e Olivero Luigi piantarono «le tende a Keja presso il capo Kerundu; la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».

Sono passati cent’anni da quel giorno. Da quella prima missione, piccolo seme alle falde del Monte Kenya, è cresciuto non solo un albero maestoso ma una foresta rigogliosa. Alla prima missione di Keja (o Kiija, chiamata poi Imenti e ora Mojwa o Mujwa) si aggiunse presto la missione di Egoji e altre ancora. Diventata Prefettura Apostolica del Meru nel 1926, raggiunse lo stato di diocesi nel 1953. Da essa furono poi create la diocesi di Garissa nel 1984 (da cui venne ricavata la diocesi di Malindi nel 2000), la diocesi di Embu nel 1986 e il Vicariato Apostolico di Isiolo nel 1995. Là oggi ci sono quasi un milione e mezzo di cattolici su una popolazione di oltre tre milioni di abitanti.
Queste pagine sono dedicate ai pionieri di questa grande avventura, quasi un’antologia dei loro pensieri e della loro vita.
Siamo andati a spulciare i vecchi numeri di questa rivista, i diari, le relazioni, le testimonianze di quel glorioso e sofferto periodo in cui un manipolo di missionari generosissimi, con pochi mezzi, cuore grande e tanta fantasia, furono capaci di piantare il seme del Vangelo in una terra nella quale «dietro ad ogni foglia si nascondeva un diavolo», come scrisse p. Vincenzo Dolza da Mekinduri. E le foglie non mancavano di certo sui fertili pendii e profonde valli ai piedi della grande montagna sacra.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Fuori le mura

Cosa pensa chi tenta di entrare

Introduzione

«Fortezza Europa»

Esistono alcuni luoghi ai confini dell’Europa mediterranea diventati ormai un simbolo nell’immaginario delle persone. A Nord come a Sud. Nel bene e nel male. Sono «terra promessa» e «barriera all’invasione». Sono «speranza di vita» e «difesa dello status quo». Sono «porta d’ingresso» e «portone sbarrato».

Si tratta di Patrasso, Lampedusa, Calais e Melilla. Quattro luoghi di paesi mediterranei: Grecia, Italia, Francia e Spagna. Sono nomi che corrono di bocca in bocca da Kinshasa a Abidjan, da Khartoum a Asmara, da Baghdad a Kabul. Alimentando leggende e sogni. Nomi sui quali si investono denaro e, spesso, la stessa vita. Ma anche luoghi in cui i paesi europei tentano di mettere in atto le loro direttive in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Concentrano forze di polizia per bloccare l’ingresso alle popolazioni dal Sud del mondo. Sono luoghi diventati, loro malgrado, il simbolo dei gendarmi dell’Europa.

Si tratta di due immagini contrapposte di uno stesso luogo geografico. Una vista dal Sud e una dal Nord del mondo. Sono luoghi in cui vengono alla luce in maniera netta due letture del mondo. Località dove le differenze e le ingiustizie che, all’inizio del terzo millennio continuano ad aumentare, vengono esasperate. Da una parte un «Nord ricco» e dall’altra un «Sud povero» del pianeta.
Due punti di vista che vanno raccontati attraverso le testimonianze delle persone raccolte in questi luoghi simbolo. Migranti, forze di polizia, operatori sociali, medici, volontari delle Ong, residenti. Per capire davvero di cosa si parla quando si dice «Fortezza Europa».

Fuori le mura

Le rotte dei flussi migratori sono dinamiche, variano a seconda degli eventi e del clima. È come un fluido che tenta di entrare non appena si apre una falla. E i gendarmi europei corrono a chiudere il buco. Ma subito si forma un’altra breccia.

Melilla, spagna
«Fratello, questa è una guerra. Soltanto Dio sa come andrà a finire. Ho tentato di scavalcare la valla (rete posta a protezione della frontiera spagnola di Melilla) tre volte. Mi hanno sempre preso. Mi hanno picchiato e riportato alla frontiera con l’Algeria. Qui dal Marocco è sempre più difficile passare». Ibrahim, camerunese di 25 anni, ha lo sguardo basso sulla terra brulla della foresta di Oujda, città marocchina al confine con l’Algeria. È in Marocco ormai da 2 anni e mezzo, e la doppia recinzione di rete e filo spinato alta 6 metri che circonda i 12 chilometri quadrati della cittadina di Melilla, enclave spagnola in terra d’Africa, è diventata la sua ossessione. «Per passare la rete bisogna avere dei jeans, un giubbotto a maniche lunghe e dei guanti di cuoio – spiega Sibo Kamara, ivoriano trentenne seduto a fianco a Ibrahim – altrimenti il filo spinato in cima alla barriera ti strappa la pelle. Si scavalca la prima rete con una scala e se ne lancia un’altra per scavalcare la seconda. Ho provato già tante volte ma non sono mai riuscito. Quest’inverno un compagno avanti a me è riuscito a passare. Ma per me non c’è stato nulla da fare».
Mukete, altro ragazzo camerunese, alto e magro, è rimasto «prigioniero della foresta» con Ibrahim e decine di altri immigrati subsahariani clandestini: provengono dal Camerun, Costa d’Avorio, Liberia, Guinea-Bissau, Guinea Conakry, Sierra Leone, Ghana, Nigeria, Gabon e vivono alla giornata, braccati dai militari marocchini e costretti a dormire sotto gli alberi. «Il nostro mondo finisce sul limite della foresta – spiega – sono quasi due anni che vivo nascosto tra questi alberi. Se esco e mi prendono i militari mi portano a morire nel deserto dell’Algeria. Sto aspettando il momento migliore per mettermi in marcia per Melilla o Ceuta». Come i suoi compagni Mukete è convinto che si tratti solo di tempo, perché «non è possibile che ci fermino – continua – mi hanno detto che stanno costruendo una terza rete intorno a Melilla. Ma non riusciranno a fermarci. Ho lasciato il mio paese in cui non avevo nulla, sono entrato in Nigeria, ho attraversato il Niger, poi il Mali, l’Algeria e infine sono arrivato qui in Marocco. Ora non è giusto che ci impediscano di andare verso una vita migliore, non abbiamo fatto niente di male».

Le rotte
Sono lontani i periodi in cui dalle frontiere europee di Ceuta e Melilla passavano centinaia di persone in fuga dai paesi africani. Oggi le «rotte» per l’Europa sono altre. Da qui non si passa più. Da Ceuta e Melilla i flussi si sono spostati verso le coste che si affacciano sulle Canarie: Marocco del Sud, poi territori Saharawi, Mauritania e fino in Senegal. Ma presto anche lì i «gendarmi europei» hanno cercato di bloccare la via. Allora i flussi si sono spostati dalle coste tunisine e libiche verso l’Italia. Poi dalla Turchia in Grecia. Ora, dopo gli ultimi accadimenti nei paesi maghrebini, nuovamente da Libia e Tunisia. Ma alcuni attendono ancora qui in Marocco, nella speranza che «cambi nuovamente il vento». E che la via spagnola all’Europa si riapra. Altri invece sono semplicemente «insabbiati». Dopo anni di tentativi non hanno più le forze per rimettersi in viaggio.
«Le spinte migratorie sono come l’acqua: seguono una legge fisica di alta e bassa pressione. Se creo una barriera per fermare il flusso, questo pian piano la aggirerà trovando sempre nuove strade». Padre Joseph Lepine è un attento osservatore dei processi migratori. È un prete cattolico settantenne, che da oltre 30 anni vive nella chiesa cattolica marocchina di Oujda, edificata proprio a fianco alla moschea cittadina, per accudire i numerosi giovani cattolici che vengono a studiare nell’università. «Sono oltre 10 anni che vediamo arrivare gente disperata dai paesi subsahariani diretta in Spagna – racconta -. Ma, da circa tre, la situazione è precipitata». Centinaia di persone giungono dall’Algeria e si installano nella foresta adiacente l’università: uomini, donne e bambini.
Il campus universitario, il secondo per importanza nel paese, è una sorta di rifugio per gli immigrati clandestini subsahariani. Verso le cinque di sera, quando gli studenti finiscono le lezioni e tornano ai loro alloggiamenti, gli immigrati entrano nel campus per attingere acqua potabile, lavarsi e rilassarsi qualche ora. All’interno della struttura universitaria infatti, secondo una storica usanza marocchina, la polizia non può entrare senza il permesso di studenti e rettore.
«La situazione in città è di assoluta emergenza – spiega il professor El Arbi Mrabet, preside della Facoltà di diritto dell’Università di Oujda – e in tutto il Marocco non esiste un solo centro di accoglienza per clandestini. Ed è solo per questo motivo che permettiamo agli immigrati di entrare nel campus la sera. Ma resta il fatto che la nostra struttura è finalizzata allo studio e non all’accoglienza».
I migranti clandestini per l’enclave spagnola di Melilla sono da sempre un fiorente business. «Il problema degli immigrati clandestini subsahariani – spiega José Palazon, presidente dell’Ong Prodein di Melilla – continua ad essere strumentalizzato per richiamare l’attenzione internazionale su Melilla e chiedere più risorse economiche». E ancora oggi, benché dalla valla non si passi quasi più, nel Ceti (Centro temporal de imigración) «lavorano tutta una serie di società private e Ong che percepiscono un mucchio di soldi – continua Palazon -. E solo la costruzione della terza valla a Melilla e Ceuta è costata quasi 40 milioni di euro». Si tratta di una ulteriore rete costruita qualche anno fa in mezzo alle due già esistenti: una barriera inviolabile, con tanto di labirinto di cavi d’acciaio e irroratori di liquido al peperoncino urticante.

Lampedusa, italia
Sono passate da poco le nove di sera quando il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e una motovedetta della capitaneria fanno ingresso nel porto di Lampedusa. A bordo, rispettivamente, 76 e 87 migranti: 163 persone salpate dalle coste libiche e soccorse dopo oltre dodici ore di navigazione su un barcone lungo 17 metri, a circa 24 miglia marine dall’isola siciliana. Sono maghrebini e subsahariani in fuga dai paesi nordafricani in rivolta. Tra loro anche 13 donne e 2 bambini, di sei e dieci anni. Un fenomeno che si ripete tristemente uguale tutti i giorni. L’ennesimo sbarco di clandestini sull’isola.
Sulla banchina attendono tutte le divise possibili e immaginabili: poliziotti, carabinieri, finanzieri, marinai. Poi il personale delle Ong pronto a prestare i primi soccorsi. Infine gli operatori dei media in cerca di notizie.
La piccola isola siciliana da mesi è chiamata ad affrontare l’accoglienza di migliaia di immigrati provenienti da Sud. Una vera e propria «pressione umana» che, solo recentemente, le altre regioni italiane stanno cercando di alleviare, accettando di accogliere alcuni migranti in fuga. È il caso di Kochri, giovane tunisino non ancora venticinquenne scappato dal suo paese in rivolta, sbarcato a Lampedusa e trasferito in Calabria.

Centri di «accoglienza»
Seduto di fronte ai container del centro d’accoglienza Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, nel Crotonese, la struttura d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa, il giovane non crede ai suoi occhi. «Sono arrivato una settimana fa a Lampedusa – racconta il migrante tunisino – e ora sono stato trasferito in questo centro su un aereo della guardia di finanza, insieme ad altri 100 compagni».
È aprile di quest’anno. L’isola siciliana, avamposto europeo in mare africano, è al collasso. Con migranti lasciati per le strade e strutture di accoglienza stipate. «Quando mi hanno detto che ci trasferivano ero felice – continua -, credevo fosse la seconda tappa verso una nuova vita nel vostro paese. Poi la sistemazione in brandine a terra, senza coperte. La delusione. Questa è una prigione fatta di gabbie per animali, senza rispetto né dignità. Perché? Non siamo ancora in Europa qui?».
La struttura calabrese di Isola di Capo Rizzuto è formata da una tendopoli più un campo di 162 container, di pochi metri di ampiezza ciascuno, in cui vengono stipati 12 – 15 e forse più migranti. E la capacità ricettiva complessiva non ha eguali in Europa: 1.300 posti. Si tratta di una delle numerose strutture allestite in fretta e furia dal governo italiano all’indomani della crisi dei paesi del Nord Africa. Quando gli sbarchi sull’isola di Lampedusa sono aumentati in maniera esponenziale.
Ma la situazione di emergenza nella piccola isola siciliana è endemica. Non è mai cessata. A partire dall’inizio degli anni 2000, quando il vecchio Cpa (Centro di prima accoglienza) di Lampedusa ricordava le carceri militari afghane o irachene: una cinta di rete sormontata da rotoli di filo spinato, cancelli con inferriate e abbondanti fari di illuminazione. Situato proprio a ridosso dell’aeroporto, con mezzi militari e uomini armati all’esterno che pattugliavano il perimetro 24 ore su 24. All’interno una serie di container metallici ospitavano i dormitori e i servizi. «Il centro ha una capienza di 190 persone – spiegava nel 2004 Claudio Scalia, della Misericordia di Palermo, allora responsabile del Cpa -. Ma a causa dei ripetuti sbarchi ci siamo già trovati a ospitare anche 1.100 persone, tutte insieme». In seguito, nel 2007, il Centro di prima accoglienza è stato trasformato in Centro di soccorso e prima accoglienza e trasferito in una ex caserma dell’esercito sull’isola, che nell’ottobre del 2009 è stato chiuso, in quanto, dichiarava una nota del ministero: «Non ci sono più immigrati da ospitare per effetto della politica dei respingimenti adottata dal governo».
Il ministro Roberto Maroni infatti, pochi mesi prima aveva dichiarato: «Il 2009 sarà l’anno della fine dell’emergenza, così come il 2008 è stato un anno record sul fronte sbarchi. Due giorni fa – spiegava il titolare del Viminale – ho incontrato l’ambasciatore libico ed entro gennaio spero che i pattugliamenti possano partire. Ciò ci consentirà di chiudere con il fenomeno degli sbarchi prima della stagione turistica».
Poi la situazione dei paesi Nord africani è precipitata. E 10 anni di impegni in patti bilaterali della politica italiana in materia di immigrazione sono andati in fumo. «Lampedusa continua ad essere una realtà offshore – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), membro della Rete antirazzista siciliana e docente di Diritto privato all’Università di Palermo – un’isola de-territorializzata, dove non funzionano le normali regole di un paese democratico. Per legge, gli immigrati che arrivano sul nostro territorio dovrebbero avere una procedura davanti al magistrato entro 48 ore. Ma non succede, perché da Agrigento i giudici si recano sull’isola, se va bene, una volta a settimana. Evidentemente l’articolo 13 della Costituzione qui non esiste».
Patrasso, Grecia
Afghani, sudanesi, somali, eritrei, kurdi, iracheni e palestinesi, in tutto un migliaio di persone, vivono accampati nei pressi del porto d’imbarco per l’Italia. Sono organizzati in campi abusivi, chi all’aperto, chi sotto i vagoni dei treni, chi in case abbandonate, divisi per area di provenienza. Senza assistenza, né acqua né luce, con servizi igienici di fortuna.
In città solo l’associazione umanitaria Kinisi si prende cura di loro, ma la situazione è totalmente fuori controllo. E Patrasso è solo la punta dell’iceberg di un sistema d’immigrazione clandestina che parte da Kabul come da Karthoum o dalla Cisgiordania, per entrare in Europa attraverso il confine tra Turchia e Grecia. Storie di fatiche, ingiustizie, soprusi, violazioni, a volte morte. Tutto per arrivare nell’avamposto europeo del mar Egeo, nell’enclave ellenica, da dove i migranti clandestini, in attesa di permesso di soggiorno o richiedenti asilo, tentano di entrare in Italia, nascosti nei container o attaccati sotto i rimorchi dei tir in attesa di imbarcarsi sui traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Per rimanerci o per potersi spostare «liberamente» in altri paesi europei confinanti.
Il giovane Abdullah, 18enne leader di un gruppetto di otto ragazzi giunti dallo stesso villaggio, racconta la sua epopea: «Ho impiegato più di due mesi ad arrivare qui. Sono partito dal mio villaggio, a Nord di Kabul, per Kandahar. Da lì sono passato in Pakistan, per proseguire verso l’Iran. Sono arrivato al confine tra Iran e Turchia con passaggi in auto, e accompagnato da guide locali lungo le montagne sono entrato in Turchia. Van, Ankara, poi Istanbul, Smie e infine il centro di Paganì, sull’isola di Lesbo. Ora sono a Patrasso da 6 mesi in attesa di andare in Italia, perché voglio entrare davvero in Europa…».
Mohammud invece, 50enne ingegnere minerario del Sudan, racconta: «Sono arrivato ad Ankara in aereo dal Cairo. Sono scappato da Karthoum lasciando moglie e quattro figli perché ero sulla lista nera del governo». Una volta ad Ankara, Mohammud ha contattato un «passeur», un trafficante di uomini, per entrare in Europa. Come? «Con il cellulare naturalmente, chiamando un numero avuto da un connazionale incontrato al Cairo». Detto fatto, per la modica cifra di 600 dollari Usa, molto meno del passaggio dalla Libia all’Italia, o dal Marocco alla Spagna, Mohammud è stato imbarcato su un gommone che dal porto di Smie, sulla costa turca, lo ha portato nell’isola greca di Samos.
Dopo due mesi di fermo è stato rilasciato con un permesso bimestrale in attesa di risposta per la domanda di asilo. «È da sei mesi che sono in Grecia e ancora non mi hanno comunicato niente», dice l’ingegnere. Che è costretto a dormire da clandestino insieme a 200 tra connazionali, somali, eritrei, sotto alcuni vagoni dismessi presso la stazione a Ovest di Patrasso.
«Ormai l’unica strada per entrare in Europa è la Turchia», sosteneva Bawa Hissen Folase, giovane sudanese, nella primavera del 2010. «Dal Marocco non si passa più perché i militari sparano. E le Canarie, Ceuta e Melilla sono completamente bloccate dalla polizia spagnola. Dalla Libia verso l’Italia nemmeno, respingono le barche». «Io ci sono stato: ho lavorato tre anni a Tripoli per pagarmi il passaggio verso Lampedusa. Poi la polizia italiana ci ha fatto tornare indietro. Eravamo 18, nella traversata i più deboli sono morti».
Amir, iracheno sulla ventina, è arrivato a Patrasso con un colpo di arma da fuoco in corpo. Cosa che, conferma Johannis Lamprous dell’associazione Kinisi, accade spesso. Ora è guarito e, con una decina di ragazzi afghani, attende che un tir si fermi al semaforo per balzare sotto il rimorchio. Con il rischio di essere arrestato dalla polizia.
«Il modo per andare in Italia ci sarebbe» dice Magal, giovane afghano. «Basta avere i soldi e un passaggio si trova». Lo prova il recente ritrovamento da parte della polizia portuale di Patrasso di un camion con 25 immigrati nascosti in un doppiofondo. «Questi traffici sono organizzati direttamente da Atene, da lì arrivano i camion carichi di clandestini diretti nei porti di Venezia, Ancona o Bari» spiega Mihalis Sidiropoulos, studente di legge attivista di Kinisi. Il costo del «passaggio» è variabile, può arrivare a 2.000 euro.
Nel frattempo, per i clandestini senza soldi, anche la strada dell’imbarco dal porto di Patrasso si sta chiudendo. Negli ultimi mesi solo poche decine di ragazzi sono riusciti a partire. E ancora meno a superare i controlli italiani nel porto di destinazione. Una nuova via sembrava essersi definita attraverso la Turchia, verso le frontiere con la Repubblica di Macedonia. Poi Serbia, Ungheria e Austria. Ma con l’esplosione delle rivolte in Tunisia, Algeria e con l’intervento Nato in Libia, tutto è nuovamente cambiato. E si è riaperta d’improvviso la via di Lampedusa.
«Ieri mi ha chiamato un amico che dormiva con noi, qui nella “forest” – racconta Hassan, giovane afghano -. Lui ce l’ha fatta. Era appena arrivato a Calais, in Francia. E tra pochi giorni finalmente arriverà in Inghilterra». Meta di molti migranti provenienti da paesi anglofoni.
Calais, Francia
Scende la notte sul porto di Calais, affacciato sullo stretto della Manica, nel Nord della Francia. Le luci a giorno rischiarano il piazzale asfaltato, cinto da una rete alta tre metri, dove stazionano i camion in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra. È praticamente territorio inglese, nel senso che uomini e merci arrivano dopo aver passato la dogana. Fatta di controlli rigorosi: controllo delle bolle di carico, apertura dei container, inserimento di pertiche di ferro nei passa ruota e sotto la scocca dei camion, rilevazione attraverso apparecchi elettronici di eventuale anidride carbonica emessa da «clandestini» nascosti nel carico.
Yasir, l’amico di Hassan di Patrasso, percorre rue de Moscov, passa il ponte Ventillard che divide la città vecchia dal porto, cammina lungo il perimetro della rete e all’improvviso, con agile mossa, entra. Immediatamente scatta un allarme e arriva un’auto della polizia inglese. Yasir viene bloccato, si siede sul bordo del marciapiede insieme a due poliziotti e si fa offrire una sigaretta. Questa sera è la terza volta che tenta di scavalcare la rete. La polizia ormai lo conosce, ma non sa cosa fare per fermarlo. Gli inglesi attendono i colleghi francesi, che arrivano, caricano Yasir in auto e lo portano fuori dal porto, verso il centro di Calais. Pont Ventillard, rue de Moscov, e il ragazzo afghano viene rilasciato per strada.
«Vengo da un paese a nord di Kabul – spiega Yasir in un inglese stentato – e sono partito da casa ormai da tre anni». Aveva 12 anni, primo di quattro fratelli e una sorella, quando perse il padre ucciso in una sparatoria. Decise di partire per raggiungere l’Inghilterra, dove alcuni amici dei suoi parenti erano riusciti a costruirsi una nuova vita. Come i suoi conterranei ancora bloccati a Patrasso è entrato in Iran attraverso le montagne per poi andare in Turchia. Da lì si è introdotto illegalmente in Europa attraverso la Grecia. «Sono stato bloccato per due anni a Patrasso – racconta sorridendo -. Poi dopo tantissimi tentativi, finalmente sono riuscito a passare nascosto in un camion che è sbarcato a Venezia». In treno, attraverso il Col di Tenda, è arrivato a Parigi. E via fino a Calais, dove lo aspetta l’ultimo sforzo che lo divide dalla sua meta.
Simone, il fotografo che mi accompagna in questo viaggio, mostra le foto fatte a Patrasso, nel campo degli afghani. Yasir riconosce immediatamente Hassan e gli altri suoi amici.
«Tra tre o quattro giorni avrà fatto il salto dall’altra parte, in Inghilterra. Come tutti». Spiega Sylvie Copyans. Cinquantadue anni, ex impiegata di banca, Sylvie è uno dei soci fondatori di Salam, associazione di Calais che fornisce aiuto umanitario a migranti clandestini. Seduta ad un tavolino del café brasserie «La Tour» della centrale Place d’Arme offre una Coca Cola al giovane afghano. «Qui in Francia non possono fermarlo – continua la donna -. Ha 15 anni, è minorenne, e dovrebbe essere a scuola». Invece vive accampato come tanti altri suoi connazionali tra quello che resta della «Forest», un bosco ai margini della zona industriale di Calais, e i bungalow occupati abusivamente sulla spiaggia. Spiaggia dalla quale, ironia della sorte, si vedono le bianche scogliere di Dover dall’altra parte dello stretto della Manica.
Casa Africa
«Pochi mesi fa Casa Africa era un’altra cosa – racconta Adam, sudanese del Darfur che vive nello squat Casa Africa di Calais da quattro mesi -. Poi la polizia un giorno è arrivata con le ruspe e ha spianato tutto quello che c’era all’interno dei capannoni». Compresi gli effetti personali di chi vi abitava. E i cumuli di macerie agli angoli degli stanzoni vuoti, con materassi a terra e fuochi accesi per scaldarsi e cucinare, testimoniano ancora l’operazione. Unica oasi ordinata: un’area di tappeti di una decina di metri quadrati, circondata da un bordo di legno, nella quale pregano a tuo i musulmani. «Sono scappato dal mio villaggio nel Sud Ovest del Sudan – racconta Adam uscendo dalla zona di preghiera – inseguito dall’esercito che voleva arruolarmi». I militari sono arrivati a cavallo nella notte, hanno portato tutti fuori dalle case e le hanno incendiate.
«Mi ricordo le frustate che schioccavano nell’aria – continua Adam -. Sono subito scappato il più lontano possibile». Adam è stato successivamente inteato in un campo profughi. E non ha mai più saputo nulla dei suoi fratelli e dei suoi genitori. «Sono arrivato a Lampedusa nel 2009 – racconta il sudanese – ed ho chiesto asilo a Roma. Ho anche chiesto che mi aiutassero a rintracciare la mia famiglia, ma nessuno è riuscito a saper nulla. Ora aspetto il momento giusto per passare in Inghilterra. Nella speranza che non mi scoprano, altrimenti mi rispediscono a Roma. Dove hanno le mie impronte digitali».
Poco distante da Casa Africa, in rue de Moscov, nel centro storico di Calais, c’è un grande piazzale asfaltato dove all’ora dei pasti si accalcano centinaia di persone in attesa. È il centro di distribuzione del cibo messo a disposizione dal Comune alle associazioni che si occupano dei migranti. Si danno il tuo tra associazione Salam, La Belle Etornile, Secours Catholique e l’Auberge des Migrantes. Garantendo la distribuzione di colazione alle 10, pranzo alle 12 e cena alle 18.
«Sono arrivato da due settimane a Calais» racconta Hassan con la faccia sconvolta, in un italiano fluente. Dormiva nello squat chiamato «Casa Palestina» quando sono arrivati i poliziotti. L’hanno arrestato e tenuto tutta la notte in centrale con le manette. È stato appena rilasciato e mostra i segni rossi ai polsi. «Sono arrivato a Lampedusa dalla Libia e ho vissuto sette anni in Italia, a Vigevano. Facevo l’idraulico e stavo bene. Avevo la casa, l’automobile, andavo in discoteca con gli amici. Ma ora in Italia c’è la crisi, la mia ditta ha chiuso ed io ho perso il permesso di soggiorno, come tanti miei amici stranieri. Ma qui in Francia è terribile. Non si può vivere così. Provo ancora una settimana a passare in Inghilterra. Se non ci riesco too in Italia. Se solo avessi i soldi per passare…».
E sì, perché anche qui chi ha tra i 500 e i 1.000 euro a disposizione per pagare il passeur, arriva in Inghilterra senza problemi. Attende direttamente a Parigi, per essere poi nascosto in un camion che attraversa la Manica nell’Eurotunnel o su un traghetto del porto di Calais. Ma chi non ha soldi può solo tentare la fortuna. Sperando di passare indenne i controlli. Magari con un sacchetto di plastica in testa per non rilasciare anidride carbonica che potrebbe essere rilevata dagli apparecchi della polizia.

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis