Tra tradizione e modernità
Incontri
Michèle e Jeannette sono le due donne più «mature» della comunità dell’Arca di Saint Antornine. Attraverso le loro parole, percorriamo un pezzo della loro vita personale e della storia della comunità.
Bussiamo alla porta di Michèle all’imbrunire. La sua abitazione – seppur piccola come tutti gli appartamenti riservati ai single – trasuda eleganza e cultura. Alle pareti, quadri, icone e fotografie testimoniano una vita di ricerca e di «bellezza» nel senso alto del termine. È Michèle, una gentile signora francese di 82 anni, a raccontarci i primi tempi della vita in comunità con Lanza del Vasto.
Un incontro che cambia la vita
«Sono cresciuta all’ombra di due differenti religioni, quella cattolica di mia madre e quella ebraica di mio padre. L’incontro con Shantidas è stata la luce che ha illuminato la mia vita spirituale e quella di molti della mia generazione. Avevo 26 anni e lavoravo all’Università come medioevalista e archeologa; mio marito ne aveva 31 e apparteneva alla famiglia dei proprietari dei Magasins Printemps di Parigi, di cui al tempo ne era anche il direttore. Un giorno Lanza del Vasto tenne una conferenza sulla non-violenza gandhiana presso l’Università dove lavoravo. Vi partecipai insieme a mio marito – con cui condivisi tutto fino alla sua morte – e con un gruppo di colleghi, professori e ricercatori. Le sue parole e la sua figura ci ammaliarono: sobrietà, dignità e intelligenza ci conquistarono, così come la sua bellissima moglie Chanterelle, di origine ebrea. Inizialmente li seguimmo non tanto come maestri ma come un padre e una madre. Era la fotografia di un patriarcato con figli non piccoli ma maturi, tutti con dei pensieri già costruiti e una vita alle spalle».
Le prime comunità
Mentre Michèle parla è come se gli arredi stessi raccontassero di un tempo, le luci soffuse e i libri sparsi trasmettono memorie e saperi. Così, insieme alla sua voce, torniamo indietro nel tempo e possiamo ripercorrere la fondazione delle varie comunità. «Quando decidemmo di aderire al movimento dell’Arca avevamo quattro figli, un quinto sarebbe poi nato nelle comunità. Lasciammo i nostri lavori per dedicarci totalmente al movimento. Non rimpiansi mai la decisione presa. I primi anni ci stabilimmo in una casa di proprietà di Chanterelle a Vaucluse, dove rimanemmo per sei anni; successivamente costruimmo la comunità della Borie Noble in una zona al tempo completamente abbandonata. Non avevamo preconcetti verso la proprietà privata, si faceva uso di donazioni di benefattori e del lavoro degli uomini e delle donne della comunità che di volta in volta si trasformavano in muratori, contadini, sarte, tessitrici, ricamatrici etc. Essere un membro dell’Arca voleva dire innanzitutto essere coerente con ciò che si pensava. Ideologia e azione correvano sullo stesso binario; la ricerca della spiritualità e l’impegno verso la giustizia e la nonviolenza confluivano anche negli sforzi economici e nel lavoro fisico per ristrutturare le case, inizialmente affittate e poi comprate».
Talenti e spiritualità
Abbandonare una vita agiata e la propria professionalità, non è stato il risultato di ripensamenti o di sofferenze? «Alla base del credo dell’Arca c’è sempre stato un grande rispetto per ogni personale talento. L’attenzione a non frustrare ogni attitudine è all’ordine del giorno. Le attività pratiche si alternano con quelle artistiche o intellettuali, in modo tale da non doversi mai identificare solo con un’attività. Siamo anche contadini, ma soprattutto contadini che coltivano la propria saggezza. Pur lasciando il lavoro di ricercatrice, ho continuato ad approfondire le mie conoscenze senza abbandonare i miei saperi ma arricchendoli di nuova luce. Non solo lavoro però, l’impegno deve poter sfociare nel rituale festivo per dare un senso di gioia condivisa a tutto l’operato».
La spiritualità è centrale per le comunità dell’Arca. Domandiamo a Michèle come siano i rapporti con la Chiesa locale e come sia vissuta la religione a St. Antornine.
«Noi non siamo una Chiesa e quindi non ci sono rischi di concorrenza, i rapporti sono ottimi. Anche all’interno della comunità non esistono obblighi nei confronti della religione, partecipare all’ufficio cristiano deve essere una libera scelta. Quotidianamente prepariamo delle preghiere ecumeniche ed interreligiose in cappella. Il lunedì è dedicato agli indù, il martedì ai musulmani, il mercoledì ai cercatori di verità senza appartenenza religiosa specifica, il giovedì ai buddisti, il venerdì ai cristiani, il sabato agli ebrei e la domenica ai cattolici».
E i giovani? Cinquantasei anni all’interno di una comunità sono tanti, come tante sono le trasformazioni avvenute. Sui cambiamenti e sulle nuove leve dell’Arca, Michèle ci offre la sua opinione: «Questa comunità si è evoluta naturalmente. Forse la spiritualità ha ceduto un po’ il posto alla meditazione, ma ciò che rimane inalterato è la ricerca della felicità e dell’equilibrio interiore. La Fève (*) ha favorito un grande scambio di relazioni umane tra giovani e anziani, non solo un ricambio generazionale ma un’evoluzione sinergica. L’esperienza dei più “maturi” deve accogliere e sostenere i più giovani, aiutarli nelle soluzioni ma anche farsi ridare nuovi stimoli. La complicità e il dialogo sono le chiavi per far crescere una comunità».
(*) La Fève è la «Formazione e Sperimentazione alla vita comunitaria», ispirata alla ricerca di una società nonviolenta basata sulla giustizia e la pace, attraverso una formazione biennale all’Arca Saint Antornine.
Jeannette e la nonviolenza
Dopo esserci calati in un tempo e in una dimensione diversa dall’ordinario, per Michèle è giunta l’ora di preparare la preghiera della sera. Ci congediamo da lei che con fare discreto ci invita a raggiungerla successivamente per il momento spirituale.
Approfittando di un po’ di tempo libero, andiamo a conoscere Jeannette. Con lei abbiamo scambiato qualche parola in cucina la mattina, mentre era intenta a pelare patate per tutta la comunità. Jeannette, 86 anni, ha la dolcezza data dalla semplicità e dall’esperienza. Il suo piccolo nido domestico vanta una sorta di anticamera dove un telaio fa da protagonista all’intera scena. Jeannette ama tessere e lo fa ancora per vocazione e passione.
Ci accoglie in una ridente cucina. In tutta la comunità non c’è nulla di ostentato e anche in questo piccolo angolo di Jeannette la sobrietà si traduce in calore. «Tutto è nato grazie a mio marito che aveva letto “Pellegrinaggio alle sorgenti” e aveva iniziato a farmi conoscere Lanza del Vasto dai suoi scritti». Così ci racconta Jeannette che continua: «Lanza del Vasto venne a tenere una conferenza nel piccolo paese di montagna dove abitavamo. Fu un colpo di fulmine. Aderimmo subito al movimento ma, avendo i bambini piccoli, non c’era posto per tutta la famiglia in comunità e dovemmo attendere qualche tempo prima di prendee parte. Fondammo nel frattempo un gruppo ecumenico in Bretagna. La prima comunità in cui abitammo fu la Borie Noble, poi ci trasferimmo a Bellecombe e infine – dal 1983 – qui a St. Antornine. Questa struttura era inutilizzata da molti anni e mio marito contribuì a renderla agibile».
Se per il marito di Jeannette – deceduto da 11 anni – la decisione di diventare membro dell’Arca passò attraverso le letture e l’interiorizzazione del credo di Lanza del Vasto, chiediamo a Jeannette quali furono le sue motivazioni. «Durante la seconda guerra mondiale, sviluppai un forte sentimento di odio verso i tedeschi. Volevo ucciderli per placare il mio dolore. Sentivo crescere dentro me una violenza inaudita. Lanza del Vasto mi insegnò a riflettere e a sottomettermi alla nonviolenza. È stato importantissimo passare molto tempo con lui, prendere coscienza del mio problema e cercare di risolverlo».
Come era Lanza del Vasto? «Era bello e nobile d’animo ma allo stesso tempo semplice e capace di mettersi al servizio degli altri. Umile seppure molto intelligente e colto. Potevo rivolgermi a lui come a un padre aperto e disponibile. Accogliente. Egli si sentiva sempre alla ricerca e discepolo del vero maestro, Gandhi. È stata una vera fortuna conoscerlo, è riuscito a sostenermi e a trovare la risoluzione dei tanti conflitti con i miei genitori».
Negli anni ‘40 parlare di comunità doveva essere pionieristico, come fu il rapporto di Jeannette con la famiglia di origine? «I miei familiari erano commercianti di scarpe, non intellettuali. Quando appresero la notizia della mia motivazione ad entrare in comunità pensarono che fossi impazzita. Continuare a mantenere i rapporti è stato un processo lungo e complesso ma la nonviolenza mi ha insegnato proprio questo: accettare l’altro, confrontarsi con il diverso e giungere al dialogo pacifico».
E la spiritualità, quanto tempo prende della sua giornata e come si attua? «La ricerca spirituale è fondamentale per vivere insieme. È la spinta che ci fa comprendere, perdonare, essere forti, ci sostiene e ci aiuta a decidere. Per fare meditazione occorre però prendersi del tempo, svegliarsi presto, darsi delle regole, liberare un po’ di spazio per se stessi e per la riflessione comune».
Il racconto di Jeannette è confortante, la sua apertura verso il nuovo, la profondità dei suoi gesti e delle sue parole ci incantano. Una domanda ci sorge dal cuore: come è vivere la terza età all’interno di una comunità? «Siamo rimaste in poche “anziane” a St. Antornine e non ho molte persone della mia epoca con cui parlare. Ma non mi sento sola qui dentro. Se fossi fuori patirei molto di più la solitudine. La vicinanza con i giovani riempie le mie giornate: sono molto diversi da come eravamo noi ma assolutamente interessanti. Mi piace parlare con loro, fanno domande intelligenti e si crea sempre una relazione autentica. L’insegnamento di Lanza del Vasto è del tutto attuale, i valori che ci ha voluto tramandare sono importanti per tutte le età e per tutte le epoche.
L’essenziale è dentro di noi: accettare noi stessi e volerci bene in prima istanza per poter imparare a voler bene agli altri e a essere nonviolenti».
Gabriella Mancini