Tra tradizione e modernità

Incontri

Michèle e Jeannette sono le due donne più «mature» della comunità dell’Arca di Saint Antornine. Attraverso le loro parole, percorriamo un pezzo della loro vita personale e della storia della comunità.

Bussiamo alla porta di Michèle all’imbrunire. La sua abitazione – seppur piccola come tutti gli appartamenti riservati ai single – trasuda eleganza e cultura. Alle pareti, quadri, icone e fotografie testimoniano una vita di ricerca e di «bellezza» nel senso alto del termine. È Michèle, una gentile signora francese di 82 anni, a raccontarci i primi tempi della vita in comunità con Lanza del Vasto.

Un incontro che cambia la vita
«Sono cresciuta all’ombra di due differenti religioni, quella cattolica di mia madre e quella ebraica di mio padre. L’incontro con Shantidas è stata la luce che ha illuminato la mia vita spirituale e quella di molti della mia generazione. Avevo 26 anni e lavoravo all’Università come medioevalista e archeologa; mio marito ne aveva 31 e apparteneva alla famiglia dei proprietari dei Magasins Printemps di Parigi, di cui al tempo ne era anche il direttore. Un giorno Lanza del Vasto tenne una conferenza sulla non-violenza gandhiana presso l’Università dove lavoravo. Vi partecipai insieme a mio marito – con cui condivisi tutto fino alla sua morte – e con un gruppo di colleghi, professori e ricercatori. Le sue parole e la sua figura ci ammaliarono: sobrietà, dignità e intelligenza ci conquistarono, così come la sua bellissima moglie Chanterelle, di origine ebrea. Inizialmente li seguimmo non tanto come maestri ma come un padre e una madre. Era la fotografia di un patriarcato con figli non piccoli ma maturi, tutti con dei pensieri già costruiti e una vita alle spalle».

Le prime comunità
Mentre Michèle parla è come se gli arredi stessi raccontassero di un tempo, le luci soffuse e i libri sparsi trasmettono memorie e saperi. Così, insieme alla sua voce, torniamo indietro nel tempo e possiamo ripercorrere la fondazione delle varie comunità. «Quando decidemmo di aderire al movimento dell’Arca avevamo quattro figli, un quinto sarebbe poi nato nelle comunità. Lasciammo i nostri lavori per dedicarci totalmente al movimento. Non rimpiansi mai la decisione presa. I primi anni ci stabilimmo in una casa di proprietà di Chanterelle a Vaucluse, dove rimanemmo per sei anni; successivamente costruimmo la comunità della Borie Noble in una zona al tempo completamente abbandonata. Non avevamo preconcetti verso la proprietà privata, si faceva uso di donazioni di benefattori e del lavoro degli uomini e delle donne della comunità che di volta in volta si trasformavano in muratori, contadini, sarte, tessitrici, ricamatrici etc. Essere un membro dell’Arca voleva dire innanzitutto essere coerente con ciò che si pensava. Ideologia e azione correvano sullo stesso binario; la ricerca della spiritualità e l’impegno verso la giustizia e la nonviolenza confluivano anche negli sforzi economici e nel lavoro fisico per ristrutturare le case, inizialmente affittate e poi comprate».

Talenti e spiritualità
Abbandonare una vita agiata e la propria professionalità, non è stato il risultato di ripensamenti o di sofferenze? «Alla base del credo dell’Arca c’è sempre stato un grande rispetto per ogni personale talento. L’attenzione a non frustrare ogni attitudine è all’ordine del giorno. Le attività pratiche si alternano con quelle artistiche o intellettuali, in modo tale da non doversi mai identificare solo con un’attività. Siamo anche contadini, ma soprattutto contadini che coltivano la propria saggezza. Pur lasciando il lavoro di ricercatrice, ho continuato ad approfondire le mie conoscenze senza abbandonare i miei saperi ma arricchendoli di nuova luce. Non solo lavoro però, l’impegno deve poter sfociare nel rituale festivo per dare un senso di gioia condivisa a tutto l’operato».
La spiritualità è centrale per le comunità dell’Arca. Domandiamo a Michèle come siano i rapporti con la Chiesa locale e come sia vissuta la religione a St. Antornine.
«Noi non siamo una Chiesa e quindi non ci sono rischi di concorrenza, i rapporti sono ottimi. Anche all’interno della comunità non esistono obblighi nei confronti della religione, partecipare all’ufficio cristiano deve essere una libera scelta. Quotidianamente prepariamo delle preghiere ecumeniche ed interreligiose in cappella. Il lunedì è dedicato agli indù, il martedì ai musulmani, il mercoledì ai cercatori di verità senza appartenenza religiosa specifica, il giovedì ai buddisti, il venerdì ai cristiani, il sabato agli ebrei e la domenica ai cattolici».
E i giovani? Cinquantasei anni all’interno di una comunità sono tanti, come tante sono le trasformazioni avvenute. Sui cambiamenti e sulle nuove leve dell’Arca, Michèle ci offre la sua opinione: «Questa comunità si è evoluta naturalmente. Forse la spiritualità ha ceduto un po’ il posto alla meditazione, ma ciò che rimane inalterato è la ricerca della felicità e dell’equilibrio interiore. La Fève (*) ha favorito un grande scambio di relazioni umane tra giovani e anziani, non solo un ricambio generazionale ma un’evoluzione sinergica. L’esperienza dei più “maturi” deve accogliere e sostenere i più giovani, aiutarli nelle soluzioni ma anche farsi ridare nuovi stimoli. La complicità e il dialogo sono le chiavi per far crescere una comunità».
(*)  La Fève è la «Formazione e Sperimentazione alla vita comunitaria», ispirata alla ricerca di una società nonviolenta basata sulla giustizia e la pace, attraverso una formazione biennale all’Arca Saint Antornine.

Jeannette e la nonviolenza
Dopo esserci calati in un tempo e in una dimensione diversa dall’ordinario, per Michèle è giunta l’ora di preparare la preghiera della sera. Ci congediamo da lei che con fare discreto ci invita a raggiungerla successivamente per il momento spirituale.
Approfittando di un po’ di tempo libero, andiamo a conoscere Jeannette. Con lei abbiamo scambiato qualche parola in cucina la mattina, mentre era intenta a pelare patate per tutta la comunità. Jeannette, 86 anni, ha la dolcezza data dalla semplicità e dall’esperienza. Il suo piccolo nido domestico vanta una sorta di anticamera dove un telaio fa da protagonista all’intera scena. Jeannette ama tessere e lo fa ancora per vocazione e passione.
Ci accoglie in una ridente cucina. In tutta la comunità non c’è nulla di ostentato e anche in questo piccolo angolo di Jeannette la sobrietà si traduce in calore. «Tutto è nato grazie a mio marito che aveva letto “Pellegrinaggio alle sorgenti” e aveva iniziato a farmi conoscere Lanza del Vasto dai suoi scritti». Così ci racconta Jeannette che continua: «Lanza del Vasto venne a tenere una conferenza nel piccolo paese di montagna dove abitavamo. Fu un colpo di fulmine. Aderimmo subito al movimento ma, avendo i bambini piccoli, non c’era posto per tutta la famiglia in comunità e dovemmo attendere qualche tempo prima di prendee parte. Fondammo nel frattempo un gruppo ecumenico in Bretagna. La prima comunità in cui abitammo fu la Borie Noble, poi ci trasferimmo a Bellecombe e infine – dal 1983 – qui a St. Antornine. Questa struttura era inutilizzata da molti anni e mio marito contribuì a renderla agibile».
Se per il marito di Jeannette – deceduto da 11 anni – la decisione di diventare membro dell’Arca passò attraverso le letture e l’interiorizzazione del credo di Lanza del Vasto, chiediamo a Jeannette quali furono le sue motivazioni. «Durante la seconda guerra mondiale, sviluppai un forte sentimento di odio verso i tedeschi. Volevo ucciderli per placare il mio dolore. Sentivo crescere dentro me una violenza inaudita. Lanza del Vasto mi insegnò a riflettere e a sottomettermi alla nonviolenza. È stato importantissimo passare molto tempo con lui, prendere coscienza del mio problema e cercare di risolverlo».
Come era Lanza del Vasto? «Era bello e nobile d’animo ma allo stesso tempo semplice e capace di mettersi al servizio degli altri. Umile seppure molto intelligente e colto. Potevo rivolgermi a lui come a un padre aperto e disponibile. Accogliente. Egli si sentiva sempre alla ricerca e discepolo del vero maestro,  Gandhi. È stata una vera fortuna conoscerlo, è riuscito a sostenermi e a trovare la risoluzione dei tanti conflitti con i miei genitori».
Negli anni ‘40 parlare di comunità doveva essere pionieristico, come fu il rapporto di Jeannette con la famiglia di origine? «I miei familiari erano commercianti di scarpe, non intellettuali. Quando appresero la notizia della mia motivazione ad entrare in comunità pensarono che fossi impazzita. Continuare a mantenere i rapporti è stato un processo lungo e complesso ma la nonviolenza mi ha insegnato proprio questo: accettare l’altro, confrontarsi con il diverso e giungere al dialogo pacifico».
E la spiritualità, quanto tempo prende della sua giornata e come si attua? «La ricerca spirituale è fondamentale per vivere insieme. È la spinta che ci fa comprendere, perdonare, essere forti, ci sostiene e ci aiuta a decidere. Per fare meditazione occorre però prendersi del tempo, svegliarsi presto, darsi delle regole, liberare un po’ di spazio per se stessi e per la riflessione comune».
Il racconto di Jeannette è confortante, la sua apertura verso il nuovo, la profondità dei suoi gesti e delle sue parole ci incantano. Una domanda ci sorge dal cuore: come è vivere la terza età all’interno di una comunità? «Siamo rimaste in poche “anziane” a St. Antornine e non ho molte persone della mia epoca con cui parlare. Ma non mi sento sola qui dentro. Se fossi fuori patirei molto di più la solitudine. La vicinanza con i giovani riempie le mie giornate: sono molto diversi da come eravamo noi ma assolutamente interessanti. Mi piace parlare con loro, fanno domande intelligenti e si crea sempre una relazione autentica. L’insegnamento di Lanza del Vasto è del tutto attuale, i valori che ci ha voluto tramandare sono importanti per tutte le età e per tutte le epoche.
L’essenziale è dentro di noi: accettare noi stessi e volerci bene in prima istanza per poter imparare a voler bene agli altri e a essere nonviolenti».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




A scuola di saggezza

I giovani e la vita nell’Arca

Sempre più incuriositi dai due anni di formazione alla non violenza, la cosiddetta Fève (Formazione e sperimentazione alla vita comunitaria), ci rechiamo nella biblioteca comunitaria dove ci aspettano Marie e Vincent.

Ci troviamo davanti due ragazzi poco più che ventenni, dai tratti fini e dai modi gentili. Sono fidanzati e hanno deciso di affrontare insieme il percorso della Fève. Marie, 24 anni, è nata e cresciuta nell’Arca di St. Antornine, ma ha già sperimentato cosa significhi vivere al di fuori dell’abbraccio della comunità. «Quando cresci nella comunità non ti fai molte domande, non ti rendi conto di vivere in modo “alternativo”. Vedi tante persone. Alcune le conosci da sempre e sono la tua famiglia, altre restano per qualche anno, altre ancora passano e se ne vanno».
Anche lei se n’è andata, ma solo per un po’. Tre anni di psicologia all’università, Barcellona, Grenoble, l’adesione insieme a Vincent al movimento degli Squatters. In mezzo anche un’esperienza all’altra Arca, quella rurale della Borie Noble. Utile, questa, per imparare tanti mestieri manuali, trovare un proprio stile di vita, un saper-fare che garantisca il necessario sostentamento senza vincolarsi a un lavoro di routine, che Marie dimostra, anche in modo molto espressivo, di aborrire. «Vivere insieme non è facile, ho constatato quanti conflitti possano sorgere anche tra individui pieni di buona volontà. Gli spazi comuni sono luoghi di equilibri delicati. Per viverli senza conflitti bisogna darsi delle regole e maturare come individui. La Fève è stata concepita qui a St. Antornine da persone con l’esperienza adatta a comprendere e spiegare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano nelle relazioni di coppia, di famiglia o di comunità. In questo modo ci prepariamo al futuro, seminando il grano della nonviolenza dentro di noi con la speranza di essere un giorno adulti migliori, almeno di averci provato forse più seriamente dei nostri coetanei degli anni ‘70, che in molti casi hanno fallito nel tentativo».

Il mondo cambia, i giovani anche…
«La violenza distrugge i progetti collettivi», a parlare è ora il ventitreenne Vincent. «L’ho sperimentato nelle “occupazioni” e nei tentativi di comunità fatti in modo “artigianale” dai miei amici, ai quali mi sono avvicinato con curiosità e interesse negli anni passati. Qui stiamo imparando strumenti e antidoti a queste pulsioni, lavoriamo sulla qualità dei rapporti interpersonali, imparando le tecniche di comunicazione nonviolenta, anche di matrice americana, e i metodi di gestione dei conflitti e della riconciliazione».
Vincent è un geografo, il suo sogno di ragazzino era lavorare al «Departement National de Geographie». Le esperienze di vita, la maturazione personale e il mutato scenario del mondo del lavoro lo hanno cambiato. Politicamente si sente un anarchico, ma ha capito che vivere un’esistenza individualista, creare una famiglia chiusa su se stessa o difendere un salario fisso non è quello che desidera per sé.

Formazione e sperimentazione
Marie ci parla ancora delle Fève: «È un progetto nuovo, questo è il suo secondo anno. È un corso non ancora riconosciuto dallo stato, che si avvale però di formatori estei, psicologi e professori provenienti dal mondo delle Università. Il numero di partecipanti è variabile, ma non dovrebbe superare le 12 persone all’anno, con età non superiore ai 35 anni. L’ammissione è sottoposta al giudizio dei membri della comunità che verificano comportamenti e motivazioni nell’arco di una settimana di vita comunitaria, obbligatoria e propedeutica per chi desidera intraprendere questo cammino. La formazione avviene a settimane altee, nella prima si fanno le sessioni formative che durano circa tre giorni. Nela successiva si sperimenta ciò che si è appreso, vivendo e lavorando insieme agli stagisti e ai membri stessi dell’Arca. Ogni settimana, al martedì pomeriggio, interviene una psicologa, con cui ci si confronta sui problemi legati alla convivenza e ai rapporti interpersonali. Lo facciamo tutti insieme, senza false ipocrisie o remore di sorta, con i membri dell’Arca».

Decrescita economica e crescita interiore
Chiediamo, pragmaticamente, se il corso della Fève potrà dare sbocchi lavorativi per il suo futuro. La domanda è evidentemente quella sbagliata, non sembra essere apprezzata da Marie che ci risponde con una piccola smorfia sul volto.
«Forse sì, forse no. Alcune associazioni sono interessate a replicare un corso sulla nonviolenza. In generale c’è fermento e voglia di divulgare. Piuttosto all’interno della comunità si imparano molti lavori: giardinaggio, cucina, vasellame, cucito, questi sì utili per il nostro futuro e per le persone che sono vicino a noi».
Stiamo parlando con una ragazza che non avverte certo l’ansia di trovarsi un lavoro, che sente l’urgenza di una crescita personale più che economica. Ma, di fronte alla scelta di Marie come reagiscono gli amici e i conoscenti?
«In generale, quando parlo per la prima volta dell’Arca, cioè dell’eco sistema in cui sono cresciuta, le persone si spaventano, non capiscono o confondono il concetto di comunità, ad esempio, con “sesso libero’”. Li invito a conoscerci e chi viene qui, si trova sempre a suo agio, si diverte e resta piacevolmente sorpreso. La reazione dipende comunque da persona a persona: ci sono i ricettivi e ci sono gli scettici».

La spiritualità nelle giovani leve
Come vivono la spiritualità i giovani come te, cresciuti qui? «La ricerca spirituale vuol dire, per noi, soprattutto fermarsi e fare spazio, riflettere. Il rappel (richiamo), il suono della campanella durante la giornata, serve proprio a questo. È un suono che arriva improvviso e ci dice di fermarci un momento per dedicarci a noi stessi e fare un minuto di meditazione. I giovani amano molto questa cosa. La preghiera resta un gesto soprattutto privato, come nella società estea. Chi è cresciuto qui, in genere, ama molto i rituali, i bambini ed i ragazzi vanno sempre alla preghiera della sera. Ma c’è chi non ci va: mia sorella, ad esempio (ride…). Ma in generale gli aspetti ecumenici sono molto apprezzati».
Decidiamo di salutare Marie e Vincent con una provocazione. La Francia di oggi, come vi considera? Gli ultimi seguaci di una bella utopia o cos’altro?
Marie sorride ma evita il trabocchetto. «È una bella utopia, ma funziona, tant’è che le comunità dell’Arca esistono da più di 50 anni. Ci sono membri che hanno trascorso tutta la vita in queste comunità. In Francia c’è un buon movimento, spesso mirato a obiettivi specifici, che collimano con le battaglie molto concrete che anche le nostre comunità hanno “combattuto” in passato. L’anti Ogm e il localismo di Josè Bové è una di queste. C’è molta gente che conosce il pacifismo, ma sa poco di comunicazione nonviolenta, e di nonviolenza intesa soprattutto come lavoro dell’individuo su se stesso».
Come non darle ragione? L’Arca di Lanza del Vasto, profeta della nonviolenza, ha introdotto già dalle sue origini concetti ultra modei. Ha cercato «l’altro mondo possibile», la «decrescita felice», il sostentamento a chilometro zero, in tempi non sospetti. Ha perseguito con fermezza e caparbietà la promozione dell’essere umano, andando molto oltre i concetti di tolleranza e solidarietà.

Luca Cecchetto

Luca Cecchetto




Accade a kombinat

Premessa

A 20 anni dalla caduta del regime comunista, a quasi 15 dai disordini del 1997, dovuti alla grave crisi finanziaria delle «piramidi», Kombinat è diventato un luogo effervescente di vita, dove l’arte dell’arrangiarsi, della sopravvivenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo può evolvere nelle direzioni più impensabili. È stupefacente la capacità, almeno apparente, di convivenza sociale che regna in questa caleidoscopica realtà dove, nel comprensibile desiderio di una vita migliore a qualunque costo e in tempi rapidi, vi è una massadi persone impegnate nella lotta per la sopravvivenza, a fronte di pochi, più ricchi e più furbi, altrettanto impegnati nel trae i maggiori vantaggi. A Kombinat convivono vecchi abitanti e nuovi immigrati da diverse parti d’Albania e gli «sfortunati» (o esclusi, come i Rom) provenienti da altre zone di Tirana: tanti gruppi che si tengono distinti, pur non avendo conflitti visibili.
Naturalmente, pur nella convivenza dichiarata, permane una diversità tra abitanti di vecchia data e nuovi arrivati. Nei primi vi è fierezza e orgoglio per essere stati i costruttori di Kombinat, fabbrica e quartiere, e tanta nostalgia e amarezza per com’è ora: essi avevano creduto nel sogno di una «nuova» Albania e, ora più degli altri, rimarcano amaramente il degrado e l’abbandono in cui versa il Paese.
I nuovi arrivati sono giunti con la speranza che qui qualcosa in qualche modo si possa trovare o possa accadere, e comunque hanno abbandonato l’isolamento della campagna e delle montagne, per vivere il «benessere» della città. Ma tra questi vi è anche emarginazione, disperazione, che a volte portano all’alcornol, alla droga e alla prostituzione; vi è povertà economica e morale, che a volte porta all’inaccessibilità alla scuola e al sistema sanitario. Molti vivono in abitazioni di fortuna e non risultano neanche iscritti nelle liste dell’anagrafe comunale: hanno solo elaborato strategie di sopravvivenza per esistere in un’area deindustrializzata.

Il grande desiderio e bisogno di comunicare della gente può essere interpretato come un modo per esorcizzare la sindrome di abbandono da parte delle istituzioni e il senso di precarietà che minaccia non solo le esistenze individuali, ma l’intera dimensione collettiva. Con il vecchio regime, gli albanesi vivevano in un ambiente certamente non confortevole, come tenuti sotto chiave, ma almeno socialmente sicuro e «protettivo».
Oggi, i cittadini di vecchia data e i nuovi inurbati a Kombinat stanno scontando un disorientamento e tale da far rimpiangere l’organizzazione sociale e, ancor più tra i meno abbienti, il sostegno sanitario e assistenziale del regime passato.  
Occorre traghettare la società albanese verso un sistema in cui lo Stato possa nuovamente essere riconosciuto come garante di legalità e governabilità; uno Stato che ponga al centro della propria attività lo sviluppo del Paese e il benessere sociale dei suoi cittadini tutti.
È quello che l’Ong Col’or (Camminiamo oltre l’orizzonte) realizza dal 2003, lavorando in Albania in generale e con gli abitanti di Kombinat in particolare. In questi anni essa ha realizzato numerosi progetti che spaziano da attività a favore delle famiglie, al sostegno alla locale associazione di donatori di sangue, fino ad attività di formazione professionale e avviamento al lavoro per i giovani in difficoltà.

    Paolo Rossi       

Paolo Rossi




Culto dell’etnia chiamata «albanità»

Processo storico dell’anima albanese

Nata come provincia romana dell’Illiria (II sec. a.C.), attraversati quattro secoli bui sotto il dominio ottomano, indipendente nel 1912 e conquistata dall’Italia nel 1939, dopo quasi mezzo secolo di regime nazional-comunista (1946-1990), l’Albania è tra i paesi emergenti d’Europa. La sua economia continua a crescere, ma il paese è ancora alle prese con seri problemi di arretratezza politica e sociale, che frustrano le sue richieste di integrazione nella comunità auropea.

Situato nella parte sudoccidentale della penisola balcanica, affacciata sul mare Adriatico in corrispondenza del canale d’Otranto, il cui punto più stretto è di circa 75 km, l’Albania ha una superficie di 28.748 km², poco più grande della Sicilia, e quasi 3 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2011. La maggior parte della popolazione vive nelle periferie dei grandi centri urbani che, da soli, ne agglomerano oltre due terzi.
Per descriversi, il popolo albanese pone al di sopra di tutto l’importanza dei valori dell’etnia, in contrapposizione al concetto di stato. Ogni forma di ricostruzione storica del Paese va quindi fatta alla luce di come gli albanesi «pensano» l’Albania, ricordando che tale schema è alla base del modello di nazione albanese.

Dall’indipendenza alla «grande albania»
La discendenza storica dagli Illiri costituisce un titolo di vanto riaffermato indistintamente da tutti i leader albanesi: pirati di professione, furono sottomessi da Roma verso il II secolo a.C. e la loro regione fu inetgrata nella provincia romana dell’Illiria.
Nei secoli del dominio ottomano i clan albanesi continuavano a praticare di nascosto la loro fede: di notte nelle case si svolgevano le antiche liturgie e, nascoste sotto terra, si celavano spesso le statue dei santi, mentre il battesimo era amministrato in segreto cosicché molti albanesi avevano un nome islamico e un secondo nome, ufficioso, cristiano.
Intoo al XVIII secolo iniziò quindi a svilupparsi quella cultura turco-albanese che raggiungerà, alla fine del secolo, traguardi di raffinatezza soprattutto nel settore letterario.
Una serie di contingenze determinarono nel corso del XX secolo un’inattesa alleanza con Italia e Austria che temevano il controllo serbo e greco del territorio: unica alternativa possibile era la trasformazione del paese in uno stato indipendente, sotto tutela italo-austriaca. L’allora governo di Francesco Crispi – un italo albanese – riuscì a imporre all’Europa la faticosa nascita dell’Albania, attraverso la Conferenza degli Ambasciatori del 1910, che due anni dopo confermò la costituzione della nuova nazione: il 28 novembre 1912, a Valona, Ismail Qemalil dichiarò l’indipendenza dell’Albania.
Seguirono anni di assestamento politico, segnato da arretratezza economica e lotte tra anacronistici capi-tribù, finché si affermò Ahmet Zogu che diede vita al Regno albanese, proclamandosi re col nome di Zog I, e intensificò i rapporti economici con l’Italia. Roma considerava l’Albania come una propria colonia e vedeva con sospetto l’ingerenza nazi-tedesca nei Balcani, finchè il governo fascista, attraverso il proconsole Ciano, rovesciò la monarchia albanese: era l’alba del 7 aprile del 1939, Venerdì Santo. Da allora l’Italia controllerà l’Albania fino al settembre del 1943, trascinandola nella rovinosa campagna di Grecia, il cui risultato per gli albanesi si risolse in un trionfo storico del tutto inaspettato: sotto la guida di un re italiano e con l’appoggio tedesco, realizzarono la «Grande Albania», recuperando l’Epiro del nord (Ciamuria), alcuni territori della Bulgaria e soprattutto il Kosovo.

La dittatura di Hoxha
Nel periodo che va dal 1943 al 1945 comparvero nel territorio albanese numerosi movimenti partigiani tra loro contrapposti, mentre per i kosovari tali anni furono particolarmente drammatici: la componente albanese, che per decenni aveva subito la repressione serba, e i tentativi di «pulizia etnica» del governo di Belgrado, forte dell’appoggio nazista, cornoperò con particolare ferocia nelle rappresaglie compiute dagli occupanti contro i serbi, dando ai vari gruppi politici kosovari un indirizzo ideologico esasperatamente antisemita.
Nel generale contesto di anarchia in cui il Paese stava precipitando emerse, per disciplina e forza militare, l’insieme dei gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha, che condusse una spietata guerra di liberazione, ben presto sfociata in guerra civile, quando l’anticomunismo spinse i nazionalisti monarchici e repubblicani a unirsi tra loro per combatterlo, arrivando addirittura ad affiancare i nazisti.
Hoxha goveò l’Albania dal 1944 al 1985, anno della morte, con un comunismo molto rigido e autoctono: è classificato tra i peggiori despoti del Novecento. Nonostante la stesura di una monumentale opera omnia, prodotta in ben 71 milioni di copie, che doveva consacrarlo a solo, autentico, continuatore di Lenin, Hoxha fu sempre legato a quel culto della etnia definito «albanità».
Quando il Cremlino si alleò, tradendo la besa (la parola data), con la Jugoslavia, storica nemica del popolo albanese che opprimeva i kosovari, la rottura con Mosca fu sancita definitivamente e Hoxha affidò agli intellettuali il compito di esprimere senza reticenze la messa in secondo piano dello schema marxiano fino ad allora sostenuto e imitato. L’alleanza con Pechino costituì una scelta di tipo strumentale, per la foitura di armamenti e strumenti per l’industrializzazione e lo sviluppo del Paese.
Nel 1976 anche la Cina fu accusata di «imperialismo» e il dittatore si ispirò a nuovi ideali da seguire, come quelli rappresentati dalla Svizzera, unica nazione che appariva neutrale rispetto alla Nato, e dall’Austria. Ma il popolo albanese, ormai guidato da Sali Berisha – il medico che sarebbe poi stato alla guida del primo governo anticomunista albanese – cominciò a capire che dietro tali scelte vi erano per lo più le solidità bancarie dei due Paesi, dove Hoxha teneva i suoi conti privati.
Gli albanesi giudicano oggi negativamente il quasi mezzo secolo di comunismo dominato da Enver Hoxha. Tuttavia, alcuni attribuiscono al dittatore alcuni meriti, come quello di aver permesso loro di imparare a leggere e scrivere, aver dato accesso al sistema sanitario e aver portato a coltura tutta la terra possibile; non da ultimo, sotto il suo regime la durata media della vita è passata da 38 a 70 anni.

L’era di berisha
Alla morte del dittatore, nel 1985, gli successe Ramiz Alia, che faceva parte dell’entourage di Hoxha, anche se, a differenza di gran parte degli altri, durante la guerra di liberazione non aveva avuto un ruolo militare di spicco. Nel 1987 Alia fece sì che l’Albania entrasse come membro permanente delle varie Conferenze balcaniche promosse dal governo Jugoslavo. Sul fronte interno, pressato dallo scontento popolare, avviò timide riforme politiche e, in concomitanza con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, introdusse il multipartitismo.
Tra gli intellettuali e funzionari statali del regime c’era anche la casta dei medici, all’interno della quale si trovava Sali Berisha, un cardiochirurgo che si era conquistato ampia notorietà a livello internazionale e di cui Hoxha si fidava ciecamente. Ma spinto dall’illimitata brama di potere, alla fine del 1990, Berisha scese in piazza assieme agli studenti che protestavano contro il regime di Alia, l’anno seguente riuscì a manovrare e diventare capo del Partito democratico albanese, al quale impresse una ideologia semplicemente e ferocemente anticomunista e presentandosi ormai come leader incontrastato. Le elezioni del 1992 sancirono un risultato del 66% dei voti al Partito democratico: Berisha diventò presidente e venne rieletto nel 1996; ma quello stesso anno il «crollo delle Piramidi Finanziarie» provocò proteste di massa: nei primi mesi del 1997 il Paese precipitò in una specie di anarchia con circa 2.000 morti; le responsabilità del presidente non sono mai state chiarite ma erano evidenti: Berisha fu costretto a dare le sue dimissioni.
Nonostante nel settembre 1998 avesse preso parte al tentato colpo di stato contro il governo di Fatos Nano, nell’estate 2005 la coalizione del partito di Berisha, dopo otto anni di opposizione, ebbe nuovamente la maggioranza in parlamento, grazie alla ripetizione del voto in tre circoscrizioni, tra polemiche su compra-vendita di voti, insulti tra i leader e indicazioni elettorali di clan: Berisha divenne primo ministro; nel 2007 fece eleggere presidente un candidato di sua fiducia, Bamir Topi; nel 2009 consolidò la vittoria elettorale, continuando nella carica di primo ministro per il secondo e attuale mandato.
Dalla caduta del regime comunista a oggi, la storia della direzione del Paese si consuma in un’alternanza che vede protagonisti, fin dal 1991, Sali Berisha e Fatos Nano.

Dal boom economico alla crisi
A fine 2006 il Capo delegazione del Fondo monetario internazionale a Tirana, Istavan Szekely, lanciò l’allarme per il fatto che il governo albanese aveva appena sottoscritto un contratto con il gruppo americano-turco Bechtel-Enka per i lavori di un tratto dell’autostrada Durazzo-Morina, lungo circa 50 km, al prezzo di 418 milioni di euro: l’Albania, secondo le normative del Fmi, non avrebbe potuto richiedere più di 50 milioni di euro di debiti al mercato finanziario. Intrappolato nella promessa elettorale della riduzione delle tasse, vincolato dal contratto che richiedeva ulteriori spese, ridotte le entrate per via della crisi, il governo optò per una terza via: congedare il Fmi dall’Albania.
Nel 2007 l’Albania registrò una crescita economica del 6% e l’anno successivo dell’8%, cifre che solo la Cina superava. Con una crescita economica simile si sarebbero potute finanziare non una, ma ben due strade Durazzo-Morina senza eccessive preoccupazioni. Con un Pil di circa 10 miliardi di euro l’anno e una crescita economica dell’8%, la ricchezza finanziaria albanese aumentava di 800 milioni di euro l’anno, in dieci anni il Paese poteva diventare due volte più ricco e, nella stessa misura, crescevano i redditi pro-capite.
Tutto ciò in teoria. La realtà si sta rivelando coerente alle paure del Fmi che, complice la crisi del 2009, vede la crescita economica albanese crollata dall’8% al 2,8% in un anno: una catastrofe per la finanza albanese, poiché il piano della spesa pubblica – avendo assorbito anche la famosa strada – era stato calcolato sulla base di una crescita economica maggiore.
A fine novembre 2008 il deficit pubblico era a quota 23,5 miliardi di leke, un anno più tardi il deficit si triplica arrivando a 63,5 miliardi di leke, pari a più di 450 milioni di euro. Al Goveo non restava che giustificarsi dicendo che «ovunque in Europa il deficit pubblico è esploso a causa della crisi».

Anticamera europea
Il 14 aprile 2010 l’Albania ha consegnato al Commissario europeo per l’Allargamento, Stefan Fule, il dossier con le risposte ai 2.284 quesiti utili alle istituzioni dell’Ue perché esprimano un giudizio sulla richiesta di adesione dell’Albania. L’Ue ha sollevato dubbi circa la stabilità democratica delle istituzioni, l’esistenza di un’economia in grado di reggere le regole della competizione e del mercato unico, il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze, lo stato del sistema giudiziario, la corruzione e la criminalità. Per entrare nell’Unione europea l’Albania dovrà fare particolarmente attenzione al raggiungimento dei criteri di Copenhagen.
Il 2011 è stato un susseguirsi di episodi di piazza. A gennaio le proteste scaturite dagli scontri tra partiti di maggioranza e opposizione hanno fatto 3 morti e decine di feriti; a maggio le elezioni amministrative, dopo numerosi colpi di scena e riconteggi, hanno conferito al Partito democratico di Sali Berisha anche la guida della capitale, strappata allo storico sindaco Edi Rama e di nuovo gli albanesi sono scesi in piazza per protestare, nel disinteresse totale dell’opinione pubblica mondiale.
A ottobre è stato pubblicato il rapporto della Commissione europea sull’avanzamento dei paesi balcanici verso l’integrazione europea. Anche quest’anno l’Albania si è vista rifiutare lo status del paese candidato.
A dicembre sono stati infine pubblicati i risultati del censimento della popolazione, svoltosi nel mese di ottobre: sembra che la popolazione sia diminuita del 2,8% in 10 anni, ma molti sollevano dubbi su come si è svolta la ricerca.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Nikolla racconta

storie esemplari di albanesi feriali

Nato a Liqenas, al confine con la Macedonia, il primo di sei figli, Nikolla Trojanov  vive con un fratello a Kombinat; una sorella è emigrata in America e un fratello in Grecia; gli altri due, una sorella e un fratello, sono rimasti nel loro villaggio, ma i loro figli sono migrati all’estero.

Dall’infanzia ho imparato che un uomo non si deve arrendere davanti alle difficoltà. Mio padre si è sposato all’età di 17 anni con mia madre Fanie; abitavano in case vicine: il padre di mia madre ha combinato il matrimonio, mentre il nonno paterno era l’unico contrario: lui non voleva quell’unione, ma alla fine accettò, convinto dagli altri, anche a causa della religione ortodossa alla quale appartenevano tutte e due le famiglie.
Da sposato, mio padre visse nella casa di mia madre, che era figlia unica. Mio nonno materno era molto bravo; per sopravvivere faceva di tutto, muratore, falegname, contadino e fabbricava perfino reti da pesca. Non si stancava mai e con il suo lavoro manteneva tutti noi.
Voglio raccontare la storia di quando ci è morto un bue. Fu una tragedia! I buoi a quell’epoca erano la principale ricchezza familiare, una garanzia per il pane quotidiano, ed essendo molto cari non era facile ricomperarli. Tutti ci rattristammo; ma il nonno ci disse di non disperare: «Chiederemo un prestito e ne compreremo un altro».
Avevamo poca terra e in qualche occasione quasi niente da mangiare. Il pasto più comune erano fagioli, zuppa di riso e byrek (una specie di pizza di sfoglia ripiena di verdura). Di carne neppure a parlarne, se non molto raramente. Tale povertà l’avevamo ereditata dal mio bisnonno, che si era sposato per la seconda volta con una donna che pensava solo a se stessa e spendeva tutto in cibo, bevande e vestiti, tanto che il mio bisnonno fu costretto a vendere la casa e le terre.
Il nonno ci raccontava tante storie della Prima guerra mondiale. Diceva che nel suo villaggio si erano stabiliti i bulgari e i francesi, occupando due colline che si fronteggiavano. I bulgari erano molto duri, in varie occasioni entravano in casa nostra e portavano via il nostro pane. Invece, i francesi erano più rispettosi e condividevano ciò che avevano con i contadini. Erano ricchi e bevevano vino al posto dell’acqua.
Ricordo che il nonno ci diceva sempre: «La patria e la lingua non la dobbiamo dimenticare mai e, se è necessario, devi dare anche la tua vita per questo».

Del villaggio dove sono nato e vissuto a lungo, avrei tanto da raccontare. Il paesaggio era molto bello, le persone che ci vivevano erano molto buone, generose, si aiutavano a vicenda e non litigavano tra loro. Erano in maggioranza analfabeti, per motivi economici e politici, eppure restavo impressionato dal fatto che la maggior parte dei contadini erano molto intelligenti per natura.
Una volta andai a comperare il cemento in una fabbrica. L’amministratore era andato a scuola, mentre un suo dipendente che pesava il cemento non aveva alcuna istruzione. Quando si trattò di fare il calcolo, il dipendente fu più svelto dell’amministratore. Come individui noi eravamo intelligenti, era la povertà che ci rendeva sottomessi.
La scuola aveva solo due stanze: una serviva da aula scolastica, nell’altra dormiva l’insegnante. Un solo maestro gestiva contemporaneamente quattro classi, disposte in quattro file di sedie; le lezioni si tenevano dentro l’unica stanza: mentre l’insegnante spiegava a una classe, le altre facevano i compiti loro assegnati.
Di quell’epoca ho un buon ricordo delle feste religiose. Quella preferita era la Pasqua, che durava tre giorni. Tutta la gente si riuniva al centro del villaggio, cantavamo e ballavamo insieme. Ragazzi e ragazze avevano i loro balli preferiti, ma danzavamo separati. Eravamo tutti vestiti bene. E c’era anche tanto cibo, messo da parte durante tutto l’anno proprio in vista di quel giorno.
Un’altra bella festa era quella dell’acqua benedetta: una croce ortodossa veniva buttata nel fiume di fronte alla gente e i ragazzi si tuffavano per recuperarla; chi la trovava, la portava per tutto il villaggio di casa in casa come segno di benedizione, in cambio riceveva in dono qualche soldo. Prima di consegnare la croce alla parrocchia, il giovane la teneva a casa sua per alcuni giorni, simbolo di buon augurio per lui e la sua famiglia, per tutto l’anno. Era una festa davvero speciale.

Al tempo del re Zog le persone soffrivano molto. Ricordo che mia madre, invece della pasta, cucinava la petka, fatta di foglie secche impastate con le uova. La crisi economica, a quel tempo, era forte, i salari troppo bassi e i soldi non bastavano a coprire tutte le necessità. Diverse persone povere e senza lavoro persero case e terre perché, dopo aver chiesto soldi in prestito per comperare da mangiare, non riuscirono a restituirli, e i loro beni vennero confiscati.
Arrivati gli italiani, le cose iniziarono ad andare meglio in varie zone dell’Albania. Furono aperti nuovi posti di lavoro e molti uomini andavano a lavorare a Durazzo, come scaricatori di porto e guadagnavano bei soldi. Giravano tanti soldi che Durazzo la chiamavamo l’America dalle nostre parti.
Nel nostro villaggio si era stabilita una guaigione italiana, essendo per la sua posizione geografica in una zona tranquilla e senza rischi di essere attaccata. I soldati erano molto buoni, lavoratori tranquilli, ci raccontavano delle loro famiglie, delle persone che avevano lasciato in Italia. Uno di loro non andava a casa da due anni e ne sentiva una nostalgia enorme. Noi ragazzi ascoltavamo i loro racconti e provavamo dispiacere per loro.
Ricordo la strada davanti a casa nostra: era molto brutta e piena di buche, ma i soldati la sistemarono e piantarono dei fiori. Dove gli italiani mettevano mano si vedeva subito un grande cambiamento. Quando se ne andarono noi bambini, che avevamo fatto amicizia con loro, provammo grande dispiacere: nessuno ci avrebbe più dato del pane.
Con i tedeschi fu tutto molto diverso. Avevo 16 anni quando occuparono la terra albanese e sentimmo subito il cambiamento: erano persone fredde, arroganti, diverse dagli italiani. Non avevamo più il coraggio di andare da loro per cercare pane, come facevamo prima. Erano persone di poche parole e avevamo paura, anche perché uccidevano e bruciavano le case di chi aveva legami con i partigiani. Erano molto decisi e non esitavano a uccidere. Sparavano alla gente come se facessero il tiro al bersaglio.

Sotto il regime di Enver Hoxha non eravamo liberi di parlare apertamente. Nessuno poteva dire quello che pensava, perché i servizi di spionaggio erano pronti a incastrarti e farti del male. Erano uomini molto intriganti e in ogni momento potevano crearti problemi. La mancanza di libertà era sentita come una menomazione perfino dagli stessi membri del Partito.
Ne è un esempio la brutta esperienza capitata a un cugino più giovane di me. Aveva 18 anni e, come ogni giovane, desiderava una vita diversa. I servizi segreti gli tesero una trappola: lo invitarono in un bar e, dopo aver bevuto insieme come «amici», cominciarono a provocarlo, dicendogli che questa vita non era molto buona, che «il futuro era in Macedonia». Gli fecero credere che erano veramente suoi amici perché si sentisse libero di parlare. Mio cugino si fidò delle loro parole e manifestò le sue idee e i suoi sogni. Lo presero e lui si fece 14 anni di prigione.
Era un periodo molto duro e difficile, pieno di pericoli; ma non posso non riconoscere ciò che di buono abbiamo avuto durante tale regime. Prima di tutto è arrivata l’elettricità: è stato un grande evento; tutta l’Albania si è illuminata. Poi abbiamo avuto la scuola dell’obbligo per tutti; anche l’assistenza sanitaria è stata estesa a tutti.
In quel periodo c’erano molte attività. I giovani partecipavano alla ricostruzione del paese e aiutavano a rendere le terre più coltivabili. Non vi erano molte differenze sociali, perché eravamo una nazione molto povera. Eravamo abituati a non avere frigoriferi, lavatrici, televisione… Eravamo abituati al minimo indispensabile, le altre cose sembrano per noi un lusso.

Mi sposai a 23 anni. Mia moglie aveva 20 anni. Mi innamorai di lei a prima vista, fu un vero colpo di fulmine. A quel tempo ero responsabile della manutenzione stradale e il lavoro mi portava al paese di mia moglie. Quando la vidi per la prima volta, sentii una forte emozione, mai provata fino allora. Lei mi vide e arrossì. Era scoccata la prima simpatia; poi, ogni volta che mi vedeva, usciva sulla porta. Cominciammo a incontrarci di nascosto: a quei tempi era molto pericoloso farsi vedere insieme apertamente, a causa dei pregiudizi.
Ora che il regime è finito, l’Albania si è aperta al mondo esterno; ma tale apertura presenta aspetti contrastanti. Di positivo c’è il fatto che abbiamo conosciuto un mondo a noi precluso e proibito per quasi mezzo secolo. Il rovescio della medaglia è il fatto che tanti giovani sono andati via dal Paese. Essi hanno scelto strade lontane dalle nostre, per una vita migliore.
Anche i miei figli sono andati via: prima la figlia maggiore, già sposata, decise di andare insieme ai suoi figli in Macedonia; pochi mesi dopo partì anche mio figlio minore. Furono le difficoltà economiche a costringerli a emigrare. La loro partenza fu decisa di colpo, a mia insaputa.
Fu un momento per me molto difficile. Sentivo che i miei figli non erano più miei; come se fossero stati comprati da qualcun altro. Inoltre, avevo paura che succedesse loro qualche disgrazia. Erano gli anni ‘90, quando valicare confini era ancora tabù e si rischiava la vita.
Arrivarono in Macedonia, ma ne rimasero delusi, perché non era quello che sognavano e si aspettavano. Rimasero nella zona di Beogroad per sicurezza; facevano qualche lavoro nei dintorni, ma la paga era appena sufficiente per sopravvivere. Mia figlia toò a casa poco dopo; mio figlio invece andò in Grecia. Non seppi più niente di lui, perché non avevamo il telefono. Ormai lo credevo morto e aspettavo da un momento all’altro di ricevere la brutta notizia. Alla fine, mi arrivò una lettera raccomandata che mi fece rinascere: mi scriveva di non preoccuparmi perché stava bene e lavorava al porto di Selanik. Fu la notizia più bella della mia vita.

Ora vivo a Kombinat presso mio fratello e la sua famiglia. È stato un grande cambiamento, alla mia età. Però essi sono stati gentili ad accogliermi, perché mia figlia non poteva occuparsi di me e mio figlio è ancora in Grecia. Speriamo stia bene e che ritorni un giorno.
Quando sono arrivato mi sono misso a piangere: non volevo fermarmi qui, ma dopo la morte di mia moglie non avevo scelta. Ricevo una pensione; non sono mai stato un peso per nessuno e mio fratello mi ha accolto con piacere; da parte mia lo aiuto economicamente. A me sta bene così. Passo il tempo raccontando ai due nipotini la storia mia e di mia moglie. Si siedono sulle mie ginocchia e ascoltano attenti; ma a volte pesano e devo farli scendere. 
Mio fratello è più giovane di me; anche lui ha lavorato sodo e si è comperato una casa: siamo in sei con lui, sua moglie Blerta, la loro figlia e due bambini. Il genero di mio fratello è andato in Germania a cercare fortuna insieme al cugino qualche anno fa. Sta bene, torna quando può, ma i figli non li porta mai con sé: questo io non lo capisco, dal momento che ora si può uscire tranquillamente dal paese. Secondo me ha un’altra donna; ma quando dico queste cose a mio fratello lui si arrabbia e io smetto.
Mio fratello è un gran lavoratore, ma da quando il lavoro nel suo settore è diminuito è nervoso. Io lo aiuto economicamente e mi prendo cura dei bambini ogni volta che mia nipote lavora nel negozio che vende i byrek. Mi piace e mi sento molto utile: rivedo in loro i miei figli e l’amore di mia moglie per loro.
Ma sono stanco. Sento molto la mancanza di mia moglie e dei figli lontani. Mia moglie è morta da anni, ma la sento sempre vicina. Era meravigliosa. Per quattro anni è rimasta a letto paralizzata. Io le stavo accanto e quando l’ho persa mi è sembrato che la mia vita si fosse spezzata. Mi sentivo come un uomo senza gambe e senza braccia.
Il sentimento di solitudine mi rattrista molto. Non ho paura della morte: oggi o domani, tutti dovremo morire. Ho più paura della solitudine: non vorrei morire solo in casa, a porte chiuse, senza qualcuno accanto, come si sente dalla televisione o si legge sui giornali. Anche se ho questi pensieri, credo che la vita sia da vivere in ogni momento.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Vita da Gabel

Storie negate di minoranze etniche

I Gabel sono i rom di Albania, una minoranza etnica che subisce molte discriminazioni e la maggior parte di loro vive in estrema povertà.

La zona dove trovano rifugio gli zingari è la più degradata di Kombinat. Alcuni bambini giocano davanti all’uscio della loro abitazione. Inaspettatamente una pianta oamentale è stata posta all’entrata di quel misero rifugio: il decoro di una pianta che sfida tanta miseria e degrado.
Albana, la madre dei bambini, racconta che l’ha piantata un anno fa e adesso è cresciuta: «I fiori mi piacciono molto, li pianto per abbellire il posto». Ha trovato anche altre piante e le hanno detto che se le mette nel terreno cresceranno.
Indica un ammasso di lattine che raccoglie insieme ai suoi figli per rivenderle: «Trasportiamo le lattine con la carriola, ci danno 50 lekë (40 centesimi di euro) per un chilo di lattine. Per alcuni anni sono stata senza corrente elettrica, ora grazie al permesso di una vicina mi sono potuta allacciare».
Si entra in casa, una casa senza porta, attraverso un piccolo vano arredato con una fatiscente credenza sulla quale sono poggiati alcuni oggetti raccolti tra i rifiuti. Manuel, il bambino, con mossa fulminea tira via dalla stufa la coperta intrisa d’umidità: si sprigiona un odore di muffa e di bruciato insieme.
Non c’è un pavimento, solo grezzo cemento; un vecchio e liso tappeto collega l’ingresso all’unico vano, anche questo privo di porta, che funge da cucina, soggiorno e camera da letto: il letto è costituito da un divano grande e liso; l’angolo di cottura da un fornellino a gas con una vecchia e annerita padella. Accanto a esso una bottiglia d’acqua mezza vuota: le condizioni igieniche sono pessime. Inutile chiedere dov’è il bagno, è evidente che non c’è.
Sul televisore c’è una foto: è il marito morto in un incidente d’auto 5 anni fa; da allora la sua vita già grama è diventata molto difficile: «Quando c’era lui la vita non era così, avevamo una casa in affitto, ma dopo la sua morte è tutto cambiato. Non ricevo nessuna assistenza, perché lui lavorava in nero. I bambini si ammalano spesso perché c’è acqua dentro e fuori la casa. Non so per quanto tempo resterò qua. Finché non arriverà qualcuno a buttarmi fuori. Il proprietario di questo posto vive in Grecia, è una persona della nostra razza; prima di trasferirsi in Grecia mi disse che avrei potuto occupare questo luogo, ma quando toerà me ne dovrò andare».
Albana ha quattro figli: la più grande di 18 anni è già sposata e aspetta un figlio; la seconda ha 15 anni, Manuel 10 e Anisa 9. Un’altra figlia, nata dopo la scomparsa del marito, è morta di stenti: «Quando è morto mio marito ero incinta, mi hanno portata in ospedale dove è nata la bambina, poi non potevo pagare l’affitto e ho dovuto lasciare la casa e la bambina che oggi avrebbe avuto 5 anni non è riuscita a sopportare queste condizioni di vita ed è morta».
La donna prima abitava a Lapraka, un’altra zona di Tirana; il marito faceva vari mestieri, il lustrascarpe, il venditore di stracci, il guardiano notturno e veniva pagato in nero. Alla morte del marito il municipio di Lapraka le ha dato 5.000 lekë (quasi 40 euro) per tre mesi perché il suo era un «caso speciale»; in seguito per due mesi 2.000 lekë e infine più niente, perché, le hanno detto, non c’erano più soldi: «Non era più possibile aiutarmi, ma a me quei soldi facevano comodo, almeno compravo il pane ai bambini». 
Il municipio di Kombinat non può aiutarla perché risulta residente ancora a Lapraka; d’altra parte non può ottenere i documenti necessari per cambiare residenza perché non ha i soldi per pagare le «tasse sull’ambiente»: una situazione drammatica, che assume un carattere grottesco con la richiesta di una tassa per l’ambiente a una donna che vive in tanto degrado! L’unico contributo all’ambiente che possono dare la signora Albana e i suoi figli è raccogliere lattine per sopravvivere.
Dal suo racconto viene fuori una kafkiana situazione burocratica: «Sono andata a prendere un certificato che serviva a mia figlia per sposarsi e non me lo hanno dato perché non ho pagato le tasse. Io non ho i soldi per pagare tutte le tasse; ce n’è una anche per ottenere la carta d’identità, un documento richiesto dappertutto, ma io non posso averlo. Dovrei pagare le tasse per l’ambiente, per la manutenzione degli spazi verdi! Ho chiesto di essere esonerata dal pagamento delle tasse visto che vivo con tre figli in una baracca e mi hanno risposto che devono attenersi alle regole del municipio di Tirana e non possono farci niente. Ho chiesto anche lavoro, ma mi hanno detto che non c’è lavoro. Ad ogni modo cercherò di fare il sacrificio per fare le foto per la carta d’identità, almeno quella».
Un’altra conseguenza di questa che si potrebbe definire «cittadinanza limitata» è l’impossibilità di fruire dell’assistenza sanitaria; Albana fa di tutto per salvaguardare la salute dei figli, ma non si può permettere di prendersi cura della propria salute: «Le vaccinazioni le hanno fatte perché viviamo in un ambiente molto malsano e già così ci ammaliamo spesso. Per le vaccinazioni ho fatto il sacrificio, ma altro non posso. Io sto male, sono malata però non posso andare a prendere le medicine, e ci vogliono i soldi anche per la visita. Ci vogliono soldi pure per aprire un libretto sanitario».
In queste condizioni i bambini non frequentano la scuola, per motivi economici e, soprattutto, perché il pudore materno non permette di mandarli a scuola senza un abbigliamento quantomeno decente: «Mia figlia secondogenita, quando il papà era in vita, è andata per due anni a scuola. Poi dopo la morte del padre non è più andata. Manuel non va a scuola perché non ha i vestiti, poi ci vogliono i certificati, molti documenti. Come faccio a presentarlo a scuola senza vestiti? Non va bene; non è bello! Anisa fino a ieri era senza scarpe; ma ieri ho girato con la carriola per Kombinat e ho trovato questi stivali usati che indossa. Non posso presentarli a scuola così perché non è bello».
Fa male ascoltare una persona che si vergogna della propria miseria. Albana mostra due patate mezze marce per terra, in una scatola, e dice: «Questo ho trovato e questo darò da mangiare oggi ai miei figli. Che posso fare? Questa è la mia vita».
Da 11 anni vive a Tirana, prima viveva a Kukës dove aveva una casa, pur condivisa con il fratello del marito, e dove faceva le pulizie nel municipio. «A Kukës stavo bene; ma anche qui a Tirana si stava bene quando mio marito era in vita, poi lui è morto ed è crollato tutto, perché l’uomo è l’uomo e sa trovare le soluzioni ai problemi».
Non ha nessuno che la possa aiutare: i suoi genitori vivono in un villaggio vicino a Laç, in una piccola casa di due stanze con due sue sorelle, suo fratello e moglie, e non hanno la possibilità di aiutarla: «Poi, anche se andassi là cosa potrei fare? Qui almeno posso raccogliere qualcosa e venderla, ma lì non potrei fare niente. Se avessi la casa ci andrei. Ho paura per i miei figli, per me la cosa più importante è avere una casa».
La sua preoccupazione è che ritorni il proprietario e richieda la baracca in cui abita; in tal caso non saprebbe proprio dove andare.
È la vita angosciante di una madre sola, in una situazione disperata, che vive in una città non sua e ha come unico scopo della sua vita quello di proteggere i suoi figli, «Oggi ho paura a lasciare i figli da soli; quando vado a lavorare li porto sempre con me. Certo prima stavo meglio perché ero giovane, non avevo la responsabilità dei figli, mentre adesso devo badare a loro e non li lascio da soli sulle strade, anche loro lavorano con me e si stancano con me».
Anisa, la più piccola, mi dice che le piacerebbe andare a scuola, a lei piace ballare e da grande vuole fare la ballerina. La madre conclude: «Io vivo per i ragazzi, a me non piace più vivere così, ma devo farmi forza per loro, la mia vita è finita, speriamo che si possa fare qualcosa. Io ho 34 anni, li ho compiuti a dicembre. Eh! così è andata la mia vita».

Federico Gallas

Federico Gallas




L’assistenza non è uguale per tutti

Storie di cittadini di serie B

Aricla è una delle tre assistenti sociali del municipio di Kombinat; nel suo lavoro incontra situazioni a volte disperate, soprattutto tra le famiglie ultime arrivate nel quartiere, vittime di discriminazione e burocrazia.

Tutti gli uffici del municipio di Kombinat sono situati al piano terra di un vecchio stabile; l’ingresso è buio e affollato. Subito dopo l’ufficio tecnico-urbanistico (il più ampio e luminoso dell’intera sede, costituita da altre tre stanze e un bagno) vi è l’ufficio dell’Assistenza sociale: uno sgabuzzino dove trovano posto un armadio, un piccolo tavolo con computer e due sedie; le assistenti sociali del comune sono tre, che si avvicendano o si ammassano nello sgabuzzino. Proseguendo vi è il bagno alla turca dove sono anche allocati gli attrezzi per la pulizia e un grande bidone di plastica pieno d’acqua che sopperisce all’assenza dello sciacquone. Le dimensioni del bagno sono uguali a quelle dell’ufficio dell’Assistenza sociale. Accanto al bagno si apre un piccolo corridoio, al fondo del quale sulla sinistra si trova l’ufficio del Sindaco (una donna), modesto e solo un poco più spazioso degli altri; attaccato alla porta dell’ufficio del Sindaco, c’è un piccolo tavolo con l’usciera. Al capo opposto del corridoio c’è l’ufficio del personale e all’ingresso un box adibito a ufficio informazioni. È questa la postazione politico-amministrativa di un quartiere che ufficialmente conta circa 60.000 abitanti, ma che secondo le stime dell’Ong Col’or, supera i 90.000.
Aricla, capelli scuri, lunghi e folti, statura media e robusta è una delle assistenti sociali e sta lavorando. Nell’ufficio non c’è una luce diretta, solo delle vetrate in alto permettono l’ingresso della luce dal vicino ufficio tecnico che a sua volta si affaccia sulla strada. Le condizioni di quest’ufficio costituiscono una metafora adeguata dello stato della pubblica amministrazione e del servizio sociale nel quartiere di Kombinat. L’assistente sociale è cordiale e vivace come la maggior parte della gente di qui. Vive da molto tempo nel quartiere e lavora in quest’ufficio dal 2001, dopo essersi laureata.
Dal 2005 l’unico servizio che assicurano alle famiglie è l’aiuto di tipo economico («non abbiamo nessun altro servizio perché non ci sono i fondi») ed è una legge dello Stato che stabilisce quali tipologie di persone possono fruire di questo aiuto.
Vi è una curiosa differenza di denominazione tra coloro che provengono da altre parti dell’Albania e chi risiede a Kombinat da molti anni: i primi sono denominati árdhur, «nuovo venuto», mentre i secondi sono chiamati «cittadini»; questa differenza nominale è sintomatica della diseguaglianza nella fruizione dell’assistenza.
Eppure la maggior parte delle richieste proviene dai nuovi arrivati, poiché i vecchi residenti sanno quali sono le prassi da seguire per accedere agli aiuti, mentre i nuovi non conoscono come funziona la procedura. Questi ultimi, anche se vivono in condizioni più gravi, non possono ricevere nessun tipo d’aiuto.
«Ci sono casi di famiglie disperate che non possiamo aiutare perché non hanno portato i documenti entro il mese previsto per legge. Noi dobbiamo attenerci alla legge altrimenti possiamo avere dei guai con il ministero del lavoro».
Per accedere all’assistenza economica bisogna dimostrare di essere disoccupati, esibendo il certificato di disoccupazione rilasciato dall’ufficio di collocamento al lavoro; la somma erogata varia secondo le condizioni della famiglia: al capofamiglia spettano 2.600 lekë, ai membri già abili al lavoro 600 lekë e ai figli 700 lekë al mese; una famiglia di tre componenti può giungere a 3.900 lekë al mese (circa 30 euro).
Per intervenire sul grave fenomeno della disoccupazione l’unità municipale di Kombinat in collaborazione con il municipio di Tirana ha realizzato, tra il 2005 e il 2008, un progetto per coloro che erano titolari di assistenza economica ed erano in grado di lavorare. Il progetto prevedeva il loro impiego nella manutenzione e pulizia dell’ambiente; essi ricevevamo una somma di danaro aggiuntiva a quella che percepivano per l’assistenza, che comunque non poteva superare la paga minima di 1.400 lekë (circa 10 euro), e questo intervento veniva denominato «reddito minimo».
L’amministrazione dell’unità municipale non prevede praticamente alcuna forma di assistenza a favore dei minori. L’assistente sociale si limita solo a verificare che una famiglia non può accudire i figli e sulla base della documentazione i minori possono essere inseriti nei centri di accoglienza dello stato. A Kombinat ci sono solo centri diui, gestiti da Ong, e solo a Tirana vi è un centro residenziale.
Anche per l’«evasione scolastica» possono solo registrae l’esistenza: l’autorità scolastica segnala i vari casi, si fanno le verifiche delle situazioni solo presso le famiglie in assistenza o chiedendo informazioni ai parenti o al vicinato, poi tutto finisce lì. Sono soprattutto i bambini rom e quelli molto poveri che non vanno a scuola. Di conseguenza è diffuso il lavoro minorile; essendo il cimitero di Tirana vicino a Kombinat, molti bambini vendono i fiori per i defunti o fanno la pulizia delle tombe.
Secondo Aricla il problema sociale più rilevante nel quartiere è la disoccupazione sempre più grave, che provoca aumento della povertà; con la povertà cresce la violenza in famiglia, soprattutto contro le donne e i bambini; ma anche gli uomini sono vittime di violenza e per loro la situazione è ancora più grave perché hanno più difficoltà a parlarne; e a Kombinat non c’è nessun centro antiviolenza.
Il senso di frustrazione e impotenza di Aricla è evidente e dichiara che, se lei potesse realizzare un sogno da professionista del sociale, innanzitutto cambierebbe la legge sull’assistenza, togliendola alle famiglie che possono lavorare e aiutando quelle che hanno più bisogno, indipendentemente dal loro essere vecchi o nuovi residenti; avvierebbe poi progetti per offrire un lavoro solo a chi ne ha veramente bisogno e infine: «Farei un grande negozio di alimentari sovvenzionato dallo stato dove la gente povera possa prendere il cibo».

Paolo Rossi

Storia di Erion: tassista abusivo
La famiglia di Erion, tassista abusivo, è arrivata a Tirana nel 1947, quando dal nord e dal sud dell’Albania tanti arrivavano in questa città per lavorare nelle fabbriche di Kombinat.
Suo padre, durante l’occupazione italiana, faceva l’agricoltore; poi lavorò per una ditta italiana che stava costruendo l’acquedotto per Kavaja; successivamente fece il vigile del fuoco a Kombinat. Gli ha lasciato in eredità una proprietà a Fier, comprata prima della guerra, ma di cui ancora non è riuscito a entrare in possesso.
Erion ci tiene a dire che ai tempi di Enver Hoxa non c’era disoccupazione e ricorda che i tecnici russi erano molto amabili; sulla situazione attuale di Kombinat, invece, ha un’opinione molto negativa. «Per certi versi la vita era molto più bella prima: c’era tanta amicizia; ora invece la vita è diventata molto più aggressiva, perfino tra fratelli – afferma Erion -. Tutta colpa di quelli venuti dal nord, che hanno portato qui certe loro usanze, come le “vendette del sangue”; a volte si uccidono per una parolaccia, per una piccola contraddizione. Quelli sono molto più selvaggi, noi siamo più dolci; quando li vedo io dico loro: perché andate a sfondare delle porte che non vi portano da nessuna parte?».
Nella sua critica a quelli del nord, Erion continua: «Sono arrivati soprattutto tra il ’90 e il ’97 e hanno occupato metà delle fabbriche di Kombinat, facendone case e casupole; quelli venuti da altre parti, invece, non sono andati a vivere nell’area delle fabbriche, ma hanno comprato casa o hanno trovato altre sistemazioni. Nessuno li emargina, sono loro che si tengono in disparte».
Se deve portare qualcuno a sud di notte ci va volentieri, ma prima di andare al nord ci pensa due volte. E sottolinea ancora la differenza tra sé e i nuovi arrivati: «Questi katundar (dispregiativo per indicare gente di campagna ndr) sono venuti qui e hanno comprato del terreno ma non lo lavorano. Dopo 30 anni di lavoro io non ho la pensione e non mi hanno ancora restituito i terreni, per cui devo fare il tassista pirata».
Secondo lui, a Kombinat la situazione non è allarmante: la notte si può uscire tranquilli; ma al tempo del regime bastavano tre poliziotti per «tenere in pugno Kombinat»; ora di poliziotti ce ne sono tanti, ma non c’è ordine.

Paolo Rossi




Ben tornata, Arabia felix

Premessa

Fino a 40 anni fa la costa araba che si affacciava sul Golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comune denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 kmq di deserto che per 1.318 km si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore.
Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi; così, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, sarebbero potute sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai, Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti; Ras al-Khaymah decise di unirsi al progetto l’anno seguente. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada.
Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile, soprattutto dopo il conflitto dello Yom Kippur, quando gli stati arabi decisero di utilizzare il petrolio come arma contro i paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato «l’oro nero», i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari.
Identico fenomeno è avvenuto nel resto della penisola arabica. In grandissima parte desertica, con una popolazione composta in maggioranza da tribù beduine nomadi o semi-nomadi e con una struttura sociale di tipo tribale e feudale, questa regione era rimasta per secoli ai margini della scena mondiale, fino a una cinquantina di anni fa, quando in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del petrolio è ritornata ad essere l’Arabia Felix di cui favoleggiavano gli antichi romani. Da sola, l’Arabia Saudita possiede il 24% delle riserve petrolifere mondiali; estrae ogni giorno 35 milioni di barili di petrolio, esporta greggio per migliaia di miliardi di dollari, con un surplus finanziario di centinaia di miliardi da investire in patria e all’estero.
In un paio di generazioni, la Penisola è passata dalla tenda al grattacielo: oggi, più del 95% della popolazione è sedentarizzato; ma sotto l’aspetto sociale mantiene un piede nel Medio Evo e con l’altro cerca uno stabile appoggio nel XXI secolo.
Il boom petrolifero sta cambiando la vita di queste popolazioni sia sotto l’aspetto economico che sociale, promuovendo fermenti di democratizzazione, riforme del sistema scolastico e perfino la ricerca di riforme costituzionali. Per spingere nell’era modea il piede rimasto indietro, re, emiri, sultani dei paesi che costituiscono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati, Qatar e Oman) moltiplicano le infrastrutture in settori economici e sociali: raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, strade, telecomunicazioni, scuole, università, edilizia, turismo, finanza… a volte con progetti avveniristici e spettacolari nelle città capitali. Perfino il deserto sta fiorendo, almeno nelle città.
Tali progetti, insieme a quelli specifici dell’industria petrolifera, hanno obbligato questi paesi a importare cervelli e manodopera dall’estero: sono migliaia di contractor stranieri e milioni di lavoratori provenienti dall’Asia, da altri paesi arabi, alcuni dall’Africa.
Si calcola che tra questi immigrati ci siano oltre 4 milioni di cristiani, 3 dei quali cattolici. «È curioso che, mentre in Europa arrivano immigrati musulmani, nella penisola arabica, culla dell’islam, dopo secoli di assenza sono tornati tanti cristiani, più numerosi che nel resto del Medio Oriente» afferma mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale.

Il cristianesimo arrivò nella penisola arabica cinque secoli prima dell’islam, quando i missionari persiani cominciarono a spargere il seme del vangelo lungo la costa del Golfo Persico, fondando le prime comunità cristiane nel Kuwait; in seguito l’evangelizzazione avanzò sempre più verso sud, come testimoniano resti di chiese in vari luoghi delle coste del Golfo. Già nel III secolo esisteva un’eparchia (diocesi) nelle isole Barhein; a partire dal IV secolo tutta l’area appariva come centro principale della Chiesa orientale, la cui influenza si estendeva fino alle coste più meridionali e alle numerose isole del Golfo.
Con la nascita, l’espansione e la dominazione dell’islam, il cristianesimo fu praticamente spazzato via da tutta la penisola, per ritornare timidamente 12 secoli dopo Maometto, nel 1841, quando i Servi di Maria aprirono una missione ad Aden e, superate molte difficoltà iniziali, estesero la loro azione nello Yemen e nel Somaliland. Nel 1888 la missione fu staccata dal vicariato apostolico dei Galla (Etiopia) per ricavae il vicariato apostolico di Aden, ribattezzato l’anno seguente come vicariato apostolico d’Arabia, che fu poi affidato ai cappuccini di Firenze (1916). Nel 1973 la sede del vicariato fu trasferita dallo Yemen ad Abu Dabi negli Emirati Arabi. Nel 1953 una porzione dell’immenso territorio fu staccato per creare la prefettura apostolica del Kuwait, elevata l’anno seguente a vicariato.
Per equilibrare l’estensione tra i due vicariati, un decreto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in vigore dal 31 maggio 2011, ha stabilito una nuova organizzazione territoriale e la modifica dei titoli: la giurisdizione su Bahrein, Qatar e Arabia Saudita è passata al vicariato del Kuwait, che ha preso il nome di «Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale», sotto la guida del vescovo comboniano mons. Camillo Ballin; Emirati Arabi, Oman e Yemen sono diventati «Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale», sotto la giurisdizione del cappuccino svizzero mons. Paul Hinder. Entrambi i vicariati sono stati affidati all’ordine dei frati minori cappuccini.

    Piergiorgio Pescali e  Benedetto Bellesi     

Piergiorgio Pescali e Benedetto Bellesi




La chiesa cresce nella culla dell’islam

Discepoli di Cristo nella terra di Maometto

Mentre in Medio Oriente si assiste all’esodo dei cristiani, nella Penisola Arabica il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta, formando una chiesa giovane, vivace, ma «pellegrina», povera di strutture e soprattutto a libertà vigilata.

«Quando nel 2003 fui nominato vicario apostolico d’Arabia, che allora copriva 6 paesi (Emirati Arabi, Oman, Yemen, Arabia Saudita, Bahrein e Qatar), il vescovo di Münster in Germania, mio amico, mi scrisse una lettera di congratulazioni, aggiungendo: “Ma non so cosa vai a fare in Arabia, perché non ci sono cristiani”. Gli risposi subito che avevo forse più cattolici di lui». Inizia così, sorridendo, mons. Paul Hinder, alla richiesta di tracciare un quadro generale della chiesa cattolica nella Penisola arabica. «Non esistono cifre ufficiali, ma dalle stime fatte sulla base delle indicazioni delle ambasciate in loco, si calcola che nei due vicariati ci sono oltre 4 milioni di cristiani, tre quarti dei quali cattolici».

Puramente pellegrina
Facciamo i calcoli, anche se rimangono approssimativi. Con circa 1 milione e 400 mila immigrati filippini, per l’85% cattolici, e altrettanti indiani, è plausibile che in Arabia Saudita il numero dei soli cattolici si avvicini a due milioni. Negli Emirati Arabi, secondo gli ultimi dati, ci sono circa 6 milioni di abitanti, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di tali immigrati professa l’islam (circa 3,2 milioni), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero di cristiani è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e proviene da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Analoga situazione si riscontra in Kuwait, la cui popolazione è formata da un milione di cittadini e due milioni di stranieri; di questi immigrati circa 500 mila sono i cristiani, tra i quali i cattolici sono 350 mila (320 mila di rito latino e 30 mila di rito orientale).
«Prima di tutto la nostra è una chiesa puramente pellegrina – continua mons. Hinder -. Siamo tutti stranieri; non ci sono cittadini cristiani, salvo qualche sparuta eccezione in Yemen e Kuwait. Siamo tutti a tempo: anche noi, vescovi, preti e suore, tutti dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno, che non sarà mai un permesso permanente».
Si può dire che la prosperità dei paesi del Golfo è resa possibile dagli stranieri, gente molto attiva, ma a volte molto povera: moltissime donne e moltissimi uomini vivono con il minimo, spesso trattati come schiavi. Le condizioni per la loro presenza in questi paesi sono molto chiare: devono avere un visto debitamente ottenuto, che sarà sempre temporaneo; nessuno straniero può accedere alla cittadinanza araba, né possedere terre o immobili; nessuno sciopero è permesso né reclamare in pubblico; non esiste alcuna sicurezza sociale né tutte le facilitazioni per salute, studio, abitazione… godute dai cittadini arabi. Ogni infrazione legale causa l’espulsione immediata. Gli immigrati sono utilizzati secondo le necessità del paese. «I nostri fedeli – spiega mons. Camillo Ballin, vescovo del Kuwait e ora vicario apostolico dell’Arabia settentrionale – sanno che nessun paese del Golfo sarà la loro nuova patria; vi possono restare finché́ hanno un visto di lavoro; quando il lavoro verrà a mancare o arriverà l’età della pensione, dovranno tornare al proprio paese o cercarsi un’altra nazione, di solito gli Stati Uniti». 

Evviva… la babele
Quella d’Arabia è una Chiesa molto viva, formata a volte da realtà piccolissime e in situazioni d’insicurezza, come quelle presenti nello Yemen, altre volte da parrocchie mastodontiche, come quella di Saint Mary a Dubai, con 200 mila fedeli, dove ogni settimana si distribuiscono più di 50 mila comunioni. Ad Abu Dabi dal venerdì alla domenica si susseguono decine di migliaia di fedeli in una dozzina di messe.
La pratica per molti cattolici rimane difficile, prima di tutto a causa delle distanze; ma anche dove ci sono luoghi di culto, essa si riduce spesso a Natale e Pasqua, perché in molti casi i padroni musulmani non danno il permesso di recarsi in chiesa in modo regolare, specialmente se si tratta di domestiche.
«Se tutti venissero in chiesa non sapremmo come accoglierli  – spiega mons. Ballin -. Il problema dello spazio è enorme in tutti gli stati del Golfo. In Kuwait abbiamo solo due chiese e due cappelle per oltre 300 mila fedeli. La cattedrale è stata costruita 50 anni fa per 700 persone, ma ad ogni messa ne abbiamo almeno mille. Una situazione che molti parroci europei, le cui chiese sono spesso semi vuote, invidierebbero; ci vorrebbe il miracolo di Loreto: un volo di qualche cattedrale europea dalle parti del Golfo» conclude il vescovo sorridendo.
«Siamo una realtà piccola, ma molto variegata, che, nonostante la sua piccolezza, riflette tutta la ricchezza spirituale della Chiesa cattolica» continua mons. Ballin. I fedeli sono diversi per nazionalità e cultura: indiani, filippini, bengalesi, singalesi, pakistani, coreani, egiziani, etiopi, arabi mediorientali, europei, americani… Alle differenze nazionali si aggiunge la diversità dei riti e delle lingue: rito latino,̀ celebrato in inglese, konkani, tagallog, tamil, singalese, bengali, oltre a francese, italiano, polacco e arabo; riti siro-malabarico e siro-malankara, officiati in lingua malayalam; riti maronita e copto celebrati in arabo, con parti rispettivamente in siriaco e in copto.
Si possono immaginare le difficoltà provocate da una babele del genere, soprattutto quando si tratta di programmare le varie cerimonie e fissare spazi e tempi in cui le differenti comunità possono riunirsi. Ne è un esempio la veglia pasquale in Kuwait: alle 19 comincia la celebrazione in lingua konkani; alle 21 inizia la veglia in inglese presieduta dal vescovo, che deve finire entro le 23, per dare spazio alla veglia in arabo, che a sua volta deve terminare entro le 24.30, quando comincia quella di rito maronita. E sono tutte affollatissime con migliaia di persone.
«Dal punto di vista logistico il problema di far quadrare il cerchio si presenta anche durante l’anno – continua mons. Ballin -. Ma i miei preti sono abilissimi al riguardo». Per accontentare tutti, per quanto è possibile, le celebrazioni domenicali si fanno in contemporanea: cioè,̀ mentre un sacerdote celebra in cattedrale, altri preti celebrano in altre lingue o riti nei grandi saloni al pianterreno, nel sotterraneo e al primo piano. In certi periodi, come Natale, Settimana Santa, Pasqua, primo e ultimo giorno dell’anno e alcune feste della Madonna, è del tutto normale celebrare una ventina di messe al giorno. Un altro esempio è la veglia nottua tenuta ogni terzo giovedì del mese, dalle 10 di sera alle 6 del mattino seguente: vi partecipano sempre oltre mille persone, dall’inizio alla fine.
«Abbiamo fedeli ferventi e molto praticanti, che sono una grande consolazione per noi pastori – conclude il vescovo Ballin -. Non hanno altri appoggi se non nel Signore. Molti di loro sono soli: per portare la famiglia devono avere un salario mensile di almeno mille dollari. Tale solitudine è̀ molto sentita soprattutto nelle grandi feste».

Libertà… vigilata
La maggior parte dei fedeli che compongono la chiesa d’Arabia sono giovani, animati quindi di entusiasmo e voglia di impegnarsi tipica della loro età; ma deve fare i conti con una libertà religiosa molto limitata. La libertà di coscienza non esiste affatto o è a senso unico, cioè, un cristiano può farsi musulmano, ma un musulmano non può farsi cristiano.
Sulla libertà di culto bisogna fare notevoli distinzioni, a cominciare dai luoghi di culto. Re e sceicchi dei paesi del Golfo (Arabia Saudita esclusa) si sono dimostrati comprensivi nel permettere edifici per il culto, almeno uno in ogni loro stato; ma non più di una per città, come avviene negli Emirati Arabi. Non esiste alcun contratto stabile sulla proprietà e sull’uso degli edifici, scuole e chiese: tutto funziona finché persiste il benvolere del monarca. Poiché lo straniero non può possedere niente in questi paesi, anche il suolo dove si trovano le chiese è dato in affitto dal governo, che può richiederlo indietro in qualsiasi momento per costruirvi una strada, una piazza o altra struttura di comune vantaggio.
Generalmente non è permesso alcun segno esterno che possa far notare la presenza cristiana, come croci e campanili, suono di campane o altoparlanti; ogni chiesa è spesso affiancata da una o più moschee dalle dimensioni imponenti e con vistosi e altisonanti mezzi di presenza, anche quando i praticanti sono scarsi.
All’interno dei luoghi concessi alla chiesa c’è totale libertà di culto; si possono svolgere tutti i riti e cerimonie che si vogliono; ma tutto deve rimanere dentro le mura di cinta del complesso parrocchiale; nulla deve apparire all’esterno. La polizia vigila; ma lascia fare. Generalmente non si ha l’impressione di essere controllati. «Anche nelle mie prediche sono libero – afferma mons. Hinder -. Sono più libero del mio vicino imam, che il venerdì deve usare il testo ufficiale fornito dal ministero degli affari religiosi o un suo testo sottoposto all’approvazione dello stesso ministero. A me e ai nostri preti ciò non è richiesto. Abbiamo quindi una certa libertà negli Emirati, sultanato di Oman, Qatar e Bahrein».
«Forse il nostro lavoro sembra ristretto al ruolo liturgico – continua mons. Ballin -. Non ci è possibile avere alcun ruolo sociale, tanto meno prendere posizioni o fare dichiarazioni in difesa dei diritti negati a qualsiasi cattolico. Ma non ci accontentiamo delle grandi folle; pensiamo anche a quelli che per vari motivi e condizioni non possono venire a celebrare con gli altri o credono di non avee bisogno e cerchiamo di aiutarli a essere veramente cristiani nel mare magnum musulmano».
E questa è un’altra sfida della Chiesa in terra arabica: molti cattolici confessano di sentirsi più cristiani di quanto non lo fossero in patria; vivere immersi nel mondo islamico li rende autenticamente testimoni di Cristo e responsabili nel dimostrare che il cristianesimo non si identifica con lo stile di vita che va per la maggiore in Occidente.

Nella culla di Maometto
L’Arabia Saudita «in fatto di libertà è molto in ritardo a causa del sistema politico-religioso dello stato – spiega benignamente mons. Hinder -. Il re attuale, il quasi novantenne Abdallah Ibn Abd el Aziz, è impegnato a introdurre lentamente certe riforme, ma non sappiamo se continuerà su questa strada, sia per le enormi resistenze della società saudita, sia per l’incertezza della sua successione. Ma non entro nei dettagli, poiché si tratta di un argomento delicato e non voglio mettere a rischio quel poco che possiamo fare. Spero che passo passo, con discrezione, possiamo migliorare la situazione».
Non è un mistero per alcuno che nel regno saudita i diritti umani sono calpestati, quello della libertà religiosa e di coscienza non esiste affatto. L’unica religione ammessa è l’islam, nella sua versione giuridico-teologica del fondamentalismo wahhabita. In base a una rigorosa prescrizione coranica, la patria di Maometto è suolo sacro e non può esservi tollerato alcun altro culto all’infuori dell’islam. Agli inizi tale sacralità era ristretta alla Mecca e Medina; ma il secondo califfo (634-644) la estese a tutta la penisola.
In base a tale principio è proibito qualsiasi esercizio e segno religioso, chiesa o luogo di culto anche per le cosiddette religioni del libro, ebraismo e cristianesimo, tollerate nel resto del mondo musulmano. È vietato a tutti, anche a visitatori, avere con sé libri religiosi e bibbie, indossare o esporre simboli religiosi, come crocifissi e rosari. Non parliamo di conversione dall’islam al cristianesimo, considerata apostasia, punita con la morte, anche se da tempo non si hanno notizie di esecuzioni per tale reato.
In barba a tale proibizione, nella culla dell’islam, il numero dei cristiani, e quindi dei cattolici, è più alto che in tutto il Medio Oriente. Sono gruppi diversi per riti, lingua e nazione, provenienti dall’Asia, ma anche dall’Africa, Etiopia ed Eritrea soprattutto, che si organizzano anche clandestinamente.
Il governo tollera la loro presenza, finché rimane discreta e occulta. Una tolleranza ufficiosa che permette ai cristiani stranieri di praticare la propria fede «in privato», ma «senza disturbare gli altri». Ma poiché non è ben definito cosa significhi «in privato»,  negli anni più recenti si sono avuti non pochi soprusi da parte della muttawa, la polizia religiosa, che ha potere di perquisire le abitazioni dei cristiani, requisire crocifissi, bibbie, icone, rosari o altri oggetti e simboli religiosi, fino ad arrestare i cristiani sorpresi a pregare.
È pur vero che da quando sul trono saudita siede Abdallah Ibn Abd el Aziz (2005), è diminuito il numero di arresti di cristiani: il sovrano ha limitato i poteri della muttawa. Anzi, il monarca sembra diventato un campione di dialogo interreligioso, promuovendo incontri interconfessionali e interreligiosi. Il 7 novembre 2007 ha fatto visita al papa Benedetto XVI: l’incontro tra il monarca saudita, «custode delle due sante moschee» (Mecca e Medina), e il capo dei cattolici di tutto il mondo è stato definito «storico» dalla stampa araba e ha acceso la speranza di qualche spiraglio di libertà religiosa nel regno saudita, ma per ora ogni speranza rimane nel cassetto. 

Una protesta non fa primavera
La cosiddetta «primavera araba», l’ondata di proteste scoppiata nel Nord Africa, ha portato lo Yemen sull’orlo di una guerra civile, sconvolto il Bahrein e lambito altri paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Oman, che si sono affrettati a promettere qualche riforma politica, economica e sociale; il resto della penisola è rimasta molto calma. Tuttavia il vento della rivolta araba ha provocato tra i cristiani del Golfo «grande preoccupazione per il loro futuro – afferma mons. Ballin -. Temono di perdere il lavoro e di essere rimpatriati nei paesi di provenienza. L’instabilità politica li spaventa e in nessun modo hanno preso parte alle proteste».
«Non sono profeta – sorride mons. Hinder – ma credo che anche nel mondo arabo-musulmano del Vicino Oriente si stiano facendo passi avanti. Tuttavia dobbiamo sempre tenere presente che in ambito di libertà e diritti umani lo sviluppo non sarà lineare, si possono avere due passi avanti e uno indietro; a volte uno avanti e due indietro».
Nulla di nuovo in vista per quanto riguarda la libertà religiosa. I rapporti tra gerarchia cattolica e governanti, a parte l’Arabia Saudita, sono sempre cordiali. Il problema sorge nel passaggio ai fatti: quando si chiede un nuovo spazio o permessi per costruire, per aprire una nuova scuola o rinnovae una già esistente… ai livelli superiori di governo dicono di sì, ma a quelli più bassi gli ostacoli si moltiplicano e sono insuperabili, sia perché le amministrazioni sono spesso in mano a fondamentalisti, sia perché di fronte a qualsiasi evento, anche piccolo, sorgono subito sospetti di proselitismo, anche se nessuno dei preti cattolici si sogna di convertire un musulmano, col rischio di espulsione o chiusura delle loro opere. Al contrario, quando qualcuno, cristiano o di altra religione, si converte all’islam la notizia viene sbandierata con tutti i mezzi di comunicazione.
E tutto questo in barba alla reciprocità invocata in Occidente, quando, concedendo permessi di costruire moschee si chiede che anche nelle regioni a maggioranza islamica sia possibile costruire chiese o comunque sia garantita la libertà di cambiare religione. «È bene che ne parlino i capi di stato quando vengono in visita nei paesi cristiani – afferma mons. Hinder -; ma più che parlare di reciprocità, è importante insistere sul rispetto della libertà di culto e di religione. Inoltre è importante il modo con cui si dicono le cose, si pongono i problemi, senza umiliare i paesi arabi, i nostri interlocutori. E questo vale per tutti gli ambiti: ci troviamo di fronte a persone che sono orgogliose, che non vogliono essere accusate, che non ammettono di essere umiliate».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Paradiso «artificiale»

Reportage da Dubai: grattacieli nel deserto

Dalla pesca e coltivazione di perle al boom del petrolio, Dubai è uno specchio della penisola Arabica: un miscuglio di ambizioni e contraddizioni, megalomanie e sfruttamento umano, tradizionalismo islamico e modeità, tolleranza religiosa e umori di rivolta… ma affari e finanza mettono tutto e tutti d’accordo.

Fu il veneziano Gaspero Balbi, nel 1580, il primo a nominare nel suo diario l’industria perlifera che fioriva lungo le coste di Dubai. Nei mercati di Venezia le perle di Dibei erano tra le mercanzie più ambite dalla nobiltà e le piccole sferette di madreperla rimasero l’unica risorsa del porto arabo fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’industria delle perle artificiali indusse il governatore del regno, lo sceicco Saeed bin Hasher al Maktoum e in particolare il suo successore Rashid bin Saeed al Maktoum, a cercare altre forme di sviluppo.
Dapprima fu l’ampliamento del porto di Dubai, nel 1963, ad attirare i primi investimenti. Grazie alla favorevole posizione geografica, a pochi chilometri dalle coste iraniane, e alla presenza di numerosi commercianti indiani, la città diventò il principale centro di scambio dell’oro nel Medio Oriente. «Ancora oggi il Gold Souk è una delle attrazioni turistiche e commerciali più visitate di Dubai, ma pochi sanno che proprio da queste stradine si è costruita l’immensa ricchezza della metropoli» spiega Praful Soni, proprietario della Shyam Jewellers, una delle più antiche oreficerie della città.

Risorse diversificate
Ma gli ambiziosi piani della famiglia Maktoum non avrebbero potuto realizzarsi senza lo sfruttamento di quello che è stato il vero propellente dello sviluppo del piccolo regno arabo: il petrolio. La scoperta alla metà degli anni Sessanta dei primi giacimenti, ha permesso lo sviluppo di una fiorente industria, consentendo a Dubai di prevalere sull’eterna rivale Abu Dhabi, capitale politica degli Emirati Arabi Uniti.
Una prosperità che sarebbe effimera, quella di Dubai, visto che gli esperti prevedono che già nel 2025 le viscere dello sceiccato si prosciugheranno. «La ricchezza petrolifera degli Emirati è sempre stata monopolizzata da Abu Dhabi – mi dice Hisham Abdullah Al Shirawi, vice presidente della Camera di commercio di Dubai – ma Dubai ha saputo diversificare in tempo le proprie risorse, mantenendo una supremazia economica e culturale riconosciuta da tutto il mondo».
L’attuale governatore di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, ha saputo anticipare gli eventi sino a ridurre al 6% i ricavi economici derivanti dall’export petrolifero (contro il 25% dell’intera nazione) trasformando la città in una sorta di calamita per gli investimenti stranieri. Chi arriva qui, aspettandosi di trovare pozzi petroliferi, raffinerie e le tipiche fiamme che illuminano la notte delle desolate lande del deserto, rimane deluso. Dubai si è trasformata in un centro finanziario mondiale e la città è il punto nevralgico non solo della nazione, ma dell’intero Medio Oriente. Nel suo immenso aeroporto, il quarto del pianeta, transitano 60 milioni di passeggeri all’anno trasportati da 150 compagnie che collegano 220 destinazioni, mentre nelle 49 banchine del porto di Dubai i 30.000 lavoratori smistano annualmente 12 milioni di Teu (l’unità di misura standard nel trasporto dei container; un container da 6,1 metri corrisponde a 1 Teu, ndr). Il Pil, pari a 50 miliardi di euro, è garantito per il 22,6% dagli investimenti immobiliari, per il 16% dal commercio e per l’11% dai servizi finanziari.

Crisi e sorpasso di Abu dhabi
Ma Dubai è ancora febbricitante: il ricordo della crisi che ha colpito la finanza, ma ancora più duramente l’orgoglio di tutti gli Emirati, è una ferita ancora aperta. Già, la «crisi del debito di Dubai». Così è stata chiamata dal mondo finanziario la più grave congiuntura che ha colpito la monarchia islamica in tutta la sua storia, rischiando di far crollare l’impero creato dalla famiglia Al Maktoum.
Il 29 novembre 2009 il colosso Dubai World, il principale conglomerato imprenditoriale dell’Emirato controllato dalla casa regnante, aveva annunciato di non essere in grado di far fronte al pagamento di 26 miliardi di dollari di debiti, di cui 4 miliardi di sukuk, i bond islamici, i più importanti di tutto il mondo musulmano. Senza finanziamenti, il giorniello del Dubai, il Dubai Burj (torre), il più alto grattacielo al mondo, oramai quasi ultimato, avrebbe rischiato di rimanere un immenso cantiere aperto, e la sua guglia incompiuta a 828 metri di altezza si sarebbe trasformata in un chiodo arrugginito piantato nel centro della città a simboleggiare il fallimento della sua economia.
A soccorrere Dubai è intervenuta però l’eterna rivale Abu Dhabi, con un prestito di 10 miliardi di dollari che ha permesso di terminare la costruzione del Dubai Burj, stranamente (ma non troppo) ribattezzato, a pochi giorni dall’inaugurazione (4-1-2010), Burj al-Khalifa (Torre del Califfo), un omaggio, neppure troppo celato, a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, presidente degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e sceicco di Abu Dhabi. Insomma, uno schiaffo alla famiglia Al Maktoum che molti analisti hanno interpretato come una volontà di ridistribuzione di poteri all’interno dell’Emirato. Abu Dhabi, infatti, pur essendo la capitale politica dello stato, è sempre stata economicamente in secondo piano rispetto a Dubai. Christopher Davidson, professore di politica del Medio Oriente alla Durham University, asserisce che «la crisi del 2009 ha fatto perdere a Dubai l’autonomia che, de facto, aveva da 170 anni. Ora è Abu Dhabi l’emirato emergente ed è chiaro che la capitale degli Eau sta cercando di dare un’impronta più centralizzata e meno autonomista all’intera nazione».
Approfittando della crisi finanziaria, Abu Dhabi ha iniziato la sua ascesa economica in competizione con Dubai. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi, la Etihad, sta togliendo importanti fette di mercato alla Emirates Airlines; la capitale si è aggiudicata lo svolgimento del Gran Premio di Formula 1 ed ha costruito il Ferrari World, l’unico parco a tema al mondo dedicato alla scuderia di Maranello. Nei prossimi anni verranno inaugurati musei come il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim, mentre l’aeroporto, che oggi ospita 12 milioni di passeggeri all’anno, sta per essere ampliato in modo da garantie il transito di 40 milioni. Infine, dulcis in fundo, durante la visita della regina Elisabetta d’Inghilterra nel novembre 2010, lo sceicco di Abu Dhabi ha ufficialmente varato il suo programma nucleare che vede accordi con Stati Uniti, Corea del sud, Francia e Gran Bretagna e la costruzione di 4 reattori entro il 2020.

Uno stop alla megalomania
Insomma, viene da chiedersi se la prospettiva proposta nel 2007 da Sheikh Mohammad bin Rashid Al Maktoum, di trasformare Dubai in «una città araba di importanza globale che rivaleggi storicamente con Cordoba e Baghdad» si sia arenata.
«Non è facile rispondere a questa domanda» afferma Stephanie Fisher, consulente dell’American Business Council di Dubai; «governo e ditte private non rilasciano dichiarazioni facilmente ed è quindi obiettivamente difficile capire come stia andando l’economia dell’Emirato».
Comunque è chiaro che la megalomania araba si è alquanto ridimensionata. Basta andare a fare un giro con la sofisticata linea della metropolitana, costata più di 4 miliardi di dollari, per accorgersi che numerosi cantieri sono ancora fermi e che tra una zona e l’altra, vi sono chilometri di «nulla»: aree di sabbia da anni precettate dai conglomerati finanziari e su cui, in attesa di tempi migliori, sorgeranno futuristici parchi, campi da golf, hotel, parchi tematici, grattacieli, centri commerciali. «Sulla carta ci sono progetti per quasi 500 miliardi di dollari, ma molti sono stati sospesi per mancanza di liquidità» mi dice Ahmad Othman, dell’Ufficio Comunicazioni della Hsbc, una delle maggiori agenzie finanziarie e bancarie del mondo.
Delle famose isole artificiali, tutte progettate e costruite dalla Nakheel, appartenente, manco a dirlo, alla famiglia reale, solo una, The Palm Jumeirah, è stata quasi ultimata. Gli altri progetti, compresi i tanto reclamizzati The World Islands, The Universe, Palm Deira e Dubai Waterfront, sono stati interrotti o la data di completamento procrastinata sine die.
Naturalmente i grandi gruppi finanziari e i governanti ostentano fiducia: «Dopo la grande crisi che ci ha colpito nel 2009 e nel 2010, il Pil di Dubai crescerà del 4,6% nel 2011, dimostrando a tutto il mondo la solidità della nostra economia e l’abilità dei nostri governanti» sentenzia Hamad Buamin, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Dubai.

Gli immigrati
Il suo ottimismo, però, crolla di fronte alle critiche di Saabir, immigrato pakistano che abita nel quartiere di Deira: «È naturale che il Pil di Dubai aumenterà del 4,6% nel 2011, visto che il governo ha aumentato del 15% acqua ed elettricità, del 33% la benzina e del 40% i biglietti dei servizi pubblici! Come sempre, l’emirato si arricchisce a spese degli immigrati!».
Saabir ha il dente avvelenato nei confronti degli arabi. E non a torto. Dei 2,3 milioni di abitanti di Dubai, solo il 17% sono cittadini dell’Emirato, il restante 83% sono immigrati, la maggioranza dei quali svolge lavori di manovalanza. Il 42% sono indiani, il 13% pakistani, l’8% bengalesi, il 2,5% filippini. Gli immigrati «di lusso», europei e nordamericani, sono solo 1,2% della popolazione cittadina, ma, assieme agli arabi, detengono tutti i posti di comando della finanza e dell’economia. Sono loro che vivono nella fantasmagorica Dubai, quella dei grattacieli, alberghi mozzafiato, centri commerciali più grandi al mondo.
Nell’albergo dove alloggio, il Movenpick Jumeirah, il personale si dice soddisfatto del trattamento: «La direzione e il management sono attenti alle nostre esigenze e la paga è estremamente alta, se comparata con quella dei nostri colleghi in Europa» spiega una ragazza della reception. La stessa soddisfazione la riscontro tra le cameriere della sala della colazione.
Ma so che questa è solo una fortunata minoranza: la maggioranza degli altri stranieri vive in condizioni di semischiavitù. Orari di lavoro impossibili, stipendi inadeguati, ammortizzatori sociali inesistenti, case fatiscenti sono facili micce per proteste. Le più eclatanti sono state quelle che hanno interessato la convulsa costruzione del Burj Khalifa quando, nel marzo 2006 e novembre 2007, 2.500 lavoratori protestarono chiedendo condizioni di vita migliori e paghe più adeguate. Il Ministero del Lavoro rispose facendo intervenire la polizia e minacciando i manifestanti di deportazioni in massa nei loro paesi d’origine.
Samer Muscati, ricercatore dell’Human Rights Watch (Hrw), mi descrive una situazione disastrosa: «I lavoratori stranieri impiegati in ditte edili vengono pagati tra i 100 e i 250 euro al mese per lavorare 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Molto spesso le compagnie che assoldano gli operai sequestrano loro i passaporti per ricattarli, obbligandoli a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza. I sindacati sono inesistenti; chi solo cerca di organizzare un’associazione che tuteli i diritti dei lavoratori viene immediatamente espulso».
Fuori dal Burj Khalifa, incontro Ravi, un lavoratore indiano. È la sua pausa pranzo e ci sediamo all’ombra dei luccicanti vetri che ricoprono la facciata del grattacielo: «L’Arabtec, la ditta che ha costruito il Burj Khalifa, ci alloggiava in una cinquantina di campi lavoro sparsi attorno a Dubai, lontano dagli occhi dei turisti. A loro si deve far vedere il paradiso». Vedere questa povertà assoluta, infatti, rischierebbe di smantellare il mito di Dubai come una sorta di Disneyland araba.
Eppure lo sceiccato di Dubai è stato il primo nella storia a denunciare la tratta degli schiavi nel 1820, quando con il governo di Sua Maestà siglò il «General Maritime Peace Treaty».

il paradiso che non c’è
Con un gruppo della Caritas visito uno di questi quartieri e mi ritrovo in una fogna a cielo aperto: sporcizia ovunque, case fatiscenti dove in pochi metri quadrati alloggiano anche 20 persone in un’atmosfera di promiscuità assoluta. Le latrine sono perennemente intasate e d’estate, con 50 gradi, l’odore è nauseabondo; una sorta di cappa infeale che rende la vita impossibile. L’acqua, bene prezioso per una città come Dubai, viene spesso razionata per permettere il continuo rifoimento negli alberghi e nelle zone commerciali. Il solo sistema di condizionamento del Burj Khalifa equivale allo scioglimento di 12.500 tonnellate di ghiaccio; mantenere il green del campo da golf Tiger Woods richiede 18 milioni di litri di acqua al giorno, nel centro commerciale Mall of the Emirates c’è una pista da sci da 500 metri con impianti di risalita, uno chalet svizzero e una temperatura costantemente mantenuta tra i 4 e i 10 gradi sotto lo zero, mentre il grandioso e lussuoso complesso Atlantis, oltre ad avere un parco acquatico con 40 milioni di litri di acqua, vanta un hotel letteralmente immerso in un acquario, dove gli ospiti hanno l’impressione di dormire, mangiare e farsi la tornilette tra squali, ceie, murene. Il paradiso descritto da Ravi. Ma non c’è posto per tutti in questo paradiso e Ravi, come molti altri suoi colleghi, che questo paradiso lo hanno costruito, sono costretti a vivere nell’inferno.
La condizione delle collaboratrici domestiche è ancora peggiore: segregate nelle lussuose ville dei loro padroni, sono spesso oggetto di abusi sessuali. Un sondaggio condotto dall’Hrw nel gennaio 2010, ha evidenziato il terrore della componente femminile nel denunciare eventuali soprusi commessi a loro danno. Il 55% delle donne, infatti, ha ammesso che non contesterebbe alcun abuso sessuale per paura di ritorsioni delle famiglie ospitanti. Del resto non c’è da stupirsi di tanta omertà, visto che la corte di giustizia è sottomessa alla famiglia reale, tanto da assolvere dall’accusa di tortura Sheikh Issa bin Zayed al Nahyan, figlio del precedente presidente degli Emirati, nonostante un video lo inchiodasse. Il motivo dell’assoluzione? Lo sceicco sarebbe stato vittima di una cospirazione.

Islam differente
Passeggiando lungo la Jumeirah Beach, la spiaggia pubblica all’ombra del Burj Al Arab, davanti all’hotel più lussuoso del mondo, dove il costo di una stanza va da mille a 28 mila dollari a notte, vedo giovani arabi d’ambo i sessi bagnarsi nelle stesse acque e prendere il sole in bikini. «Ciò accade solo a Dubai – mi avverte mons. Paul Hinder, vicario apostolico del Sud Arabia -. Ad Abu Dhabi, ad esempio, le spiagge sono ancora separate secondo l’usanza islamica».
A Dubai incontro un islam completamente differente da quello conosciuto in altri paesi. «Questo è il vero islam» mi dice Nasif Kayed, direttore del Centro per la comprensione culturale (Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding, Smccu), rinnegando quanti si arrogano il diritto di affermare nel mondo altre componenti musulmane: dai taleban agli ayatollah, dagli hezbollah ai fratelli musulmani.
Qui tradizione e modeità hanno saputo armonizzarsi tra loro sino a convivere e a trasformarsi a vicenda, per cui l’islam che si respira è assai diverso da quello di altre culture musulmane. Non potrebbe essere altrimenti, in una città che ha fatto della globalizzazione spinta, la sua bandiera. Una islamizzazione radicale avrebbe potuto allontanare imprenditori e finanziatori. Tutti sanno che Dubai è sempre stata la lavanderia dei soldi destinati alla jihad. La famiglia Bin Laden ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la famiglia regnante e lo stesso Osama bin Laden, negli anni passati è stato ricoverato negli attrezzatissimi ospedali dell’Emirato. Il governo degli Eau, del resto, è stato l’unico al mondo, assieme a quelli del Pakistan e Arabia Saudita, a riconoscere l’Afghanistan dei taleban, ma è anche uno dei paesi arabi che mantiene strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti, sino a garantire alle forze statunitensi due basi militari sul suo territorio.
Anche se la costituzione garantisce all’islam il ruolo di religione di stato, a Dubai esistono chiese cristiane, templi hinduisti e sikh, gli hotel inteazionali possono servire alcolici e carne suina.
Ma se l’islam «di stato» può essere tollerante, molti immigrati non accettano questo «inquinamento» di valori: «Dubai si è venduto all’Occidente e ha perso la via indicata dal profeta – mi spiega Khurram, un pakistano di Quetta da cinque mesi arrivato a Dubai -. Noi musulmani non possiamo neppure andare in spiaggia senza vedere donne nude o uomini che bevono birra o alcolici. Dubai non è l’islam e non è un luogo dove vorrei vivere».
Gli fa eco Shamil, anche lui pakistano: «L’islam predica l’unità dei fedeli per combattere gli infedeli, ma qui a Dubai sembra che i nostri fratelli si siano alleati con gli infedeli per combattere i fedeli. Una jihad al contrario».
A Khurram e Shamil risponde senza mezzi termini Nasif Kayed: «Se la pensano così, allora perché vanno in spiaggia? Se non vuoi vedere questa “promiscuità” o gente bere alcolici, non andare in spiaggia né ai bar: sai benissimo che se vai in questi luoghi, troverai queste situazioni».
La sfida religiosa di Dubai è proprio quella di restare in equilibrio su un filo sospeso nel baratro della rivolta religiosa. Da una parte il governo di Al Maktoum deve soddisfare le aperture richieste dall’Occidente, dall’altro non può negare a chi mantiene il «paradiso» la propria religiosità. E allora ecco che una richiesta per una scuola cattolica, rimane ferma da quattro anni sulla scrivania di un ministero.
Il motto del Smccu è «Open doors. Open minds», aprire le porte, aprire le menti, ma è obiettivamente difficile applicare questa massima a una città che fa della finanza e della crescita economica l’unico senso della sua esistenza.
Ma, forse, è proprio questa sfida che Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, principe di Dubai, vuole vincere, come ha scritto in una sua poesia:
«Le notti buie e i difficili giorni;
li accogliamo come ci vengono dati
e non abbiamo timore del futuro.
Camminiamo lungo un sentirnero non ancora battuto
e se la via è difficile, mi diverto maggiormente».

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali