Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Spiritualità e armonia

La comunità di Saint Antornine

La comunità dell’Arca di Saint Antornine, in Val d’Isère, è stata aperta nel 1997. È un concentrato di saggezza e spiritualità. Tra le comunità dell’Arca è quella più all’avanguardia in termini di aggioamento del pensiero del movimento e della sua applicazione. Vi entriamo insieme.

A causa di quel mio terzo occhio che cerca di mettere a fuoco ciò che gli altri due ignorano, mi interessano da sempre le realtà parallele. Uno sguardo plurale, si potrebbe definire oggi, che allarga visivamente ed emotivamente la conoscenza verso stili di vita e mondi «altri» da noi. Ecco cosa mi ha mosso verso la comunità dell’Arca: la sete di incontrare chi ha scelto, con coraggio, di cambiare rotta. Una scelta che solo attraverso la testimonianza e il racconto può giungere a contagiare qualche animo sopito.
Alla Communauté de l’Arche – nonviolence et spiritualitè – Saint Antornine l’Abbaye arriviamo la sera, al buio dopo un lungo viaggio in macchina. Ogni luogo ha un suo perché e non è un caso se l’Arca trova in questo antico villaggio medioevale la sua collocazione. Saint Antornine l’Abbaye è una finestra nel tempo, un invito alla pace e alla contemplazione. «Sarà la bellezza a salvare il mondo», disse Dostoevskij e attorno a questa considerazione ruota quasi tutta la filosofia di Giuseppe Lanza del Vasto, che a partire dal suo più noto scritto «Pellegrinaggio alle sorgenti» fino ai dialoghi, trasmette al pubblico e ai suoi successori diretti un’intensa ricerca interiore della Bellezza, tradotta in pace, armonia e spiritualità, e fatta confluire nell’immagine della festa.
Un arco segna l’ingresso nel villaggio al cui  interno, una manciata di case e botteghe in formato presepe ruota attorno alla storica abbazia. A ridosso dell’abbazia sorge l’antico complesso dell’Arca. Nella calma ovattata del paese, nel freddo pungente dell’inverno e nelle ultime luci della sera, nulla stona in questo angolo di mondo. La bellezza del paesaggio scompare di fronte al rivelarsi di un altro modo di vivere e di un’altra umanità che della scelta radicale della pace ha fatto la sua ragione di vita.
Lo storico palazzo in cui risiede la comunità dell’Arca è segnalato da una semplice freccia di legno. Bussiamo al portone in ferro battuto ed entriamo in un lungo corridoio abbellito al soffitto da oamenti botanici. Ad attenderci c’è Anna Massina. Forte e decisa, vitale e grintosa nel suo abbigliamento casual con un tocco esotico, Anna ci accoglie con un sorriso e un po’ di sorpresa per il nostro ritardo. Trentacinque anni di vita nell’Arca, Anna sarà il nostro cicerone italiano alla scoperta di questa comunità.
Nei fine settimana l’Arca si riempie di gente che usufruisce degli spazi per fare seminari o corsi di approfondimento. Ci aspettano dunque tre giorni movimentati. Come ospiti non possiamo dormire nell’area riservata alla comunità ma solo nella zona di accoglienza per i viandanti. Ogni camera ha una titolazione precisa. La nostra è «frumento». Anna è organizzativa e ha stabilito che faremo le interviste il giorno successivo, mentre la serata – dopo la cena comunitaria in mensa – saremo liberi di curiosare…in punta di piedi.

La giornata a Saint Antornine
Arriviamo nel refettorio gremito di gente, qualche sorriso e un po’ di impasse da parte nostra caratterizzano i primi istanti. Appese alle luci del soffitto animano la stanza alcune colombe bianche di carta, simbolo stilizzato di un credo forte in ogni angolo della comunità. La sala è semplice ma ispira calore: tavolate e panche di legno sono gli unici arredi. All’ingresso ci si può fornire di stoviglie (non esistono i tovaglioli di carta) e al centro della sala c’è lo spazio apposito per il buffet.
Prima di accedere alla scelta delle vivande – esclusivamente vegetariane – , una delle persone che vivono in comunità presenta il cibo e invita ad un momento di preghiera. Poi, si anima la scena. Chi si serve, chi chiacchiera in piedi, chi si adopera per aiutare i commensali. È un andirivieni piacevole da cui non ci sentiamo estranei o semplici spettatori. Nella semplicità non è difficile vincere la riservatezza di un linguaggio differente e scambiare qualche impressione con chi si siede accanto a noi. A fine mensa, sia i comunitari sia gli ospiti, si alzano, sparecchiano il loro tavolo e si dirigono verso un organizzatissimo spazio pre-cucina, adibito al lavaggio e all’asciugatura delle stoviglie. Rispetto e responsabilità sono le prime parole che ci vengono da formulare osservando il piacere con cui ognuno «fa la sua parte».
La mattina seguente la comunità è un brulicare di attività, ogni sala adibita alle attività è impegnata. C’è la sala della musica in cui si ode qualche canto armonico, la sala dedicata a Lanza del Vasto, la sala Jean Goss, la sala Bianca, la sala Comune e la sala del Giardino.

In punta di piedi
L’appuntamento con Anna è per il primo pomeriggio; decidiamo quindi di iniziare la visita esplorando con tutti i sensi la comunità, all’esterno e all’interno. Il tempo per intuire, attraverso i luoghi, un cammino. Prima delle persone «annusiamo» lo spazio alla ricerca di domande «primordiali». Non a caso, a volte sono proprio gli ambienti e le strutture a raccontarci qualcosa, a farci vedere una realtà multi dimensionale che solo a parole non potremmo afferrare. Partiamo dalla natura e scegliamo di passeggiare in silenzio nell’area circostante la comunità: ettari di orto e giardino che invitano alla meditazione. Tutto è studiato con estrema attenzione alla «decrescita». Un piccolo bagno ecologico è posto su un lato del terreno; le verdure non bastano a soddisfare le necessità dell’intera comunità ma sicuramente aiutano. In fondo al giardino qualche gioco per i più piccoli ricorda la presenza dei bambini. Il sole è tenue ma basta per illuminare gli ultimi rossi d’autunno e per regalarci un insolito belvedere collinare.
In questa prima visita solitaria e itinerante, ci tornano alla mente, tra le tante, alcune delle frasi di Lanza del Vasto o Shantidas (servitore di pace), secondo la volontà di Gandhi, che ci accompagnano nel nostro esplorare.
Sono frasi, senza età, che scuotono le viscere umane: «Mettiti in marcia con tutta la tua vita»; «la nonviolenza è una verità che solo chi vi si esercita può conoscere»; «risvegliarsi, spezzare l’incoscienza ordinaria, naturale, nativa, spezzare il guscio del sonno e dell’abitudine»; «richiamarsi a se stessi, entrare in noi stessi».
Negli spazi interni dell’Arca ci si potrebbe perdere tanto sono vasti: quattro piani suddivisi nelle aree per i comunitari e per gli ospiti. L’utilizzo del legno e dei colori caldi per gli arredi personalizzano gli ambienti: sobrietà e cura degli spazi rendono accogliente ogni angolo. Una piccola cappella al cuore della struttura convoglia chiunque si senta assetato di spiritualità. Una biblioteca, una sala della musica, una sala gioco per i bimbi, una bottega per fare il pane e un magazzino di riparazione, arricchiscono la struttura e fanno da corollario agli spazi prettamente dedicati ai seminari. Dentro e fuori sembrerebbe un binomio indissolubile: ogni vetrata dei corridoi interni rivolge lo sguardo verso la vegetazione estea e l’abbazia. Un’armonica bellezza che non può che conciliare il pensiero. Ogni area della struttura è indicata con frecce di legno e nemmeno gli ascensori (costruiti per facilitare l’accesso anche alle persone più anziane e ai disabili) deturpano l’ambiente essendo nascosti dietro nicchie apposite.

Le persone
Nella comunità dell’Arca vivono persone di tutte le età: dalle più anziane come Michèle e Jeannette, alle famiglie giovani con bambini che da poco hanno deciso di mettersi in gioco e sperimentare la vita comunitaria, alle seconde generazioni che stanno ancora vagliando se il loro futuro sarà dentro l’Arca o se prenderanno una strada propria, ai single e a chi sceglie di fare un anno di stage alla ricerca di un percorso di coerenza. In ognuno di loro si intravede la consapevolezza che la ricerca della nonviolenza è un cammino lungo, che porta prima dentro se stessi e poi si estende agli altri in una sorta di contagio positivo. Ciò che risulta evidente a noi «viandanti» è il forte impegno nell’esercizio della nonviolenza a partire dalle dinamiche relazionali della comunità: condivisione di compiti e responsabilità, prese di decisioni, riconciliazioni.
Un filo di continuità che lega il passato con il presente e le vecchie generazioni con le nuove, caratterizza l’Arca. In un tempo e una società dove gli anziani guardano spesso con nostalgia al passato e nutrono non pochi sospetti sulla gioventù, è quasi rivoluzionario sentirsi dire: «I giovani di oggi sono più coscienti, più entusiasti e con un’immensa ricchezza spirituale e meditativa». Una affermazione di Michèle Le Corre (81 anni) sostenuta anche da tutte le persone più mature della comunità.

Il tempo dentro l’Arca
Dopo la colazione in refettorio, c’è un momento di meditazione aperto a tutti dopo il quale ognuno si occupa dei propri lavori dentro la comunità. Tutti, quanto meno chi se la sente di partecipare, si ritrovano in cappella per la preghiera serale, prima della cena comunitaria. Ogni giorno c’è una riflessione e una preghiera per ogni religione. Anche a noi è riservato un saluto e un canto di accoglienza. Le azioni in cui si impegnano i membri dell’Arca sono nell’ambito della giustizia e della solidarietà, nella formazione alla nonviolenza e all’accoglienza. La vita comunitaria è scandita nei tempi del lavoro, del silenzio, della meditazione, del richiamo a se stessi, della responsabilità e della relazione con l’altro.
Tutto ciò avviene nella massima semplicità, nell’impegno a decrescere i consumi, nel dialogo, nella ricerca della bellezza, nel ballo e nella festa comunitaria. Ognuno, a seconda delle proprie forze e della personale sensibilità, decide a quali azioni nonviolente partecipare.

Incontri ravvicinati…
Di Anna, Michèle, Jeannette, Maria, Vincent, Emmanuel e Manuelle, raccogliamo la testimonianza. Sentire dalle loro voci e vedere sui loro visi la passione per un movimento di perenne cammino ci aiuta a percepire la forza della «battaglia» nonviolenta, a capie il senso e a cogliere l’importanza e la necessità del tentativo di costruire una società differente.
Le loro parole e l’autenticità delle loro azioni, sul filo di quello che Lanza del Vasto riteneva il sale della nonviolenza, ossia «la verità», sono il contrario della menzogna e dell’errore.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Tra tradizione e modernità

Incontri

Michèle e Jeannette sono le due donne più «mature» della comunità dell’Arca di Saint Antornine. Attraverso le loro parole, percorriamo un pezzo della loro vita personale e della storia della comunità.

Bussiamo alla porta di Michèle all’imbrunire. La sua abitazione – seppur piccola come tutti gli appartamenti riservati ai single – trasuda eleganza e cultura. Alle pareti, quadri, icone e fotografie testimoniano una vita di ricerca e di «bellezza» nel senso alto del termine. È Michèle, una gentile signora francese di 82 anni, a raccontarci i primi tempi della vita in comunità con Lanza del Vasto.

Un incontro che cambia la vita
«Sono cresciuta all’ombra di due differenti religioni, quella cattolica di mia madre e quella ebraica di mio padre. L’incontro con Shantidas è stata la luce che ha illuminato la mia vita spirituale e quella di molti della mia generazione. Avevo 26 anni e lavoravo all’Università come medioevalista e archeologa; mio marito ne aveva 31 e apparteneva alla famiglia dei proprietari dei Magasins Printemps di Parigi, di cui al tempo ne era anche il direttore. Un giorno Lanza del Vasto tenne una conferenza sulla non-violenza gandhiana presso l’Università dove lavoravo. Vi partecipai insieme a mio marito – con cui condivisi tutto fino alla sua morte – e con un gruppo di colleghi, professori e ricercatori. Le sue parole e la sua figura ci ammaliarono: sobrietà, dignità e intelligenza ci conquistarono, così come la sua bellissima moglie Chanterelle, di origine ebrea. Inizialmente li seguimmo non tanto come maestri ma come un padre e una madre. Era la fotografia di un patriarcato con figli non piccoli ma maturi, tutti con dei pensieri già costruiti e una vita alle spalle».

Le prime comunità
Mentre Michèle parla è come se gli arredi stessi raccontassero di un tempo, le luci soffuse e i libri sparsi trasmettono memorie e saperi. Così, insieme alla sua voce, torniamo indietro nel tempo e possiamo ripercorrere la fondazione delle varie comunità. «Quando decidemmo di aderire al movimento dell’Arca avevamo quattro figli, un quinto sarebbe poi nato nelle comunità. Lasciammo i nostri lavori per dedicarci totalmente al movimento. Non rimpiansi mai la decisione presa. I primi anni ci stabilimmo in una casa di proprietà di Chanterelle a Vaucluse, dove rimanemmo per sei anni; successivamente costruimmo la comunità della Borie Noble in una zona al tempo completamente abbandonata. Non avevamo preconcetti verso la proprietà privata, si faceva uso di donazioni di benefattori e del lavoro degli uomini e delle donne della comunità che di volta in volta si trasformavano in muratori, contadini, sarte, tessitrici, ricamatrici etc. Essere un membro dell’Arca voleva dire innanzitutto essere coerente con ciò che si pensava. Ideologia e azione correvano sullo stesso binario; la ricerca della spiritualità e l’impegno verso la giustizia e la nonviolenza confluivano anche negli sforzi economici e nel lavoro fisico per ristrutturare le case, inizialmente affittate e poi comprate».

Talenti e spiritualità
Abbandonare una vita agiata e la propria professionalità, non è stato il risultato di ripensamenti o di sofferenze? «Alla base del credo dell’Arca c’è sempre stato un grande rispetto per ogni personale talento. L’attenzione a non frustrare ogni attitudine è all’ordine del giorno. Le attività pratiche si alternano con quelle artistiche o intellettuali, in modo tale da non doversi mai identificare solo con un’attività. Siamo anche contadini, ma soprattutto contadini che coltivano la propria saggezza. Pur lasciando il lavoro di ricercatrice, ho continuato ad approfondire le mie conoscenze senza abbandonare i miei saperi ma arricchendoli di nuova luce. Non solo lavoro però, l’impegno deve poter sfociare nel rituale festivo per dare un senso di gioia condivisa a tutto l’operato».
La spiritualità è centrale per le comunità dell’Arca. Domandiamo a Michèle come siano i rapporti con la Chiesa locale e come sia vissuta la religione a St. Antornine.
«Noi non siamo una Chiesa e quindi non ci sono rischi di concorrenza, i rapporti sono ottimi. Anche all’interno della comunità non esistono obblighi nei confronti della religione, partecipare all’ufficio cristiano deve essere una libera scelta. Quotidianamente prepariamo delle preghiere ecumeniche ed interreligiose in cappella. Il lunedì è dedicato agli indù, il martedì ai musulmani, il mercoledì ai cercatori di verità senza appartenenza religiosa specifica, il giovedì ai buddisti, il venerdì ai cristiani, il sabato agli ebrei e la domenica ai cattolici».
E i giovani? Cinquantasei anni all’interno di una comunità sono tanti, come tante sono le trasformazioni avvenute. Sui cambiamenti e sulle nuove leve dell’Arca, Michèle ci offre la sua opinione: «Questa comunità si è evoluta naturalmente. Forse la spiritualità ha ceduto un po’ il posto alla meditazione, ma ciò che rimane inalterato è la ricerca della felicità e dell’equilibrio interiore. La Fève (*) ha favorito un grande scambio di relazioni umane tra giovani e anziani, non solo un ricambio generazionale ma un’evoluzione sinergica. L’esperienza dei più “maturi” deve accogliere e sostenere i più giovani, aiutarli nelle soluzioni ma anche farsi ridare nuovi stimoli. La complicità e il dialogo sono le chiavi per far crescere una comunità».
(*)  La Fève è la «Formazione e Sperimentazione alla vita comunitaria», ispirata alla ricerca di una società nonviolenta basata sulla giustizia e la pace, attraverso una formazione biennale all’Arca Saint Antornine.

Jeannette e la nonviolenza
Dopo esserci calati in un tempo e in una dimensione diversa dall’ordinario, per Michèle è giunta l’ora di preparare la preghiera della sera. Ci congediamo da lei che con fare discreto ci invita a raggiungerla successivamente per il momento spirituale.
Approfittando di un po’ di tempo libero, andiamo a conoscere Jeannette. Con lei abbiamo scambiato qualche parola in cucina la mattina, mentre era intenta a pelare patate per tutta la comunità. Jeannette, 86 anni, ha la dolcezza data dalla semplicità e dall’esperienza. Il suo piccolo nido domestico vanta una sorta di anticamera dove un telaio fa da protagonista all’intera scena. Jeannette ama tessere e lo fa ancora per vocazione e passione.
Ci accoglie in una ridente cucina. In tutta la comunità non c’è nulla di ostentato e anche in questo piccolo angolo di Jeannette la sobrietà si traduce in calore. «Tutto è nato grazie a mio marito che aveva letto “Pellegrinaggio alle sorgenti” e aveva iniziato a farmi conoscere Lanza del Vasto dai suoi scritti». Così ci racconta Jeannette che continua: «Lanza del Vasto venne a tenere una conferenza nel piccolo paese di montagna dove abitavamo. Fu un colpo di fulmine. Aderimmo subito al movimento ma, avendo i bambini piccoli, non c’era posto per tutta la famiglia in comunità e dovemmo attendere qualche tempo prima di prendee parte. Fondammo nel frattempo un gruppo ecumenico in Bretagna. La prima comunità in cui abitammo fu la Borie Noble, poi ci trasferimmo a Bellecombe e infine – dal 1983 – qui a St. Antornine. Questa struttura era inutilizzata da molti anni e mio marito contribuì a renderla agibile».
Se per il marito di Jeannette – deceduto da 11 anni – la decisione di diventare membro dell’Arca passò attraverso le letture e l’interiorizzazione del credo di Lanza del Vasto, chiediamo a Jeannette quali furono le sue motivazioni. «Durante la seconda guerra mondiale, sviluppai un forte sentimento di odio verso i tedeschi. Volevo ucciderli per placare il mio dolore. Sentivo crescere dentro me una violenza inaudita. Lanza del Vasto mi insegnò a riflettere e a sottomettermi alla nonviolenza. È stato importantissimo passare molto tempo con lui, prendere coscienza del mio problema e cercare di risolverlo».
Come era Lanza del Vasto? «Era bello e nobile d’animo ma allo stesso tempo semplice e capace di mettersi al servizio degli altri. Umile seppure molto intelligente e colto. Potevo rivolgermi a lui come a un padre aperto e disponibile. Accogliente. Egli si sentiva sempre alla ricerca e discepolo del vero maestro,  Gandhi. È stata una vera fortuna conoscerlo, è riuscito a sostenermi e a trovare la risoluzione dei tanti conflitti con i miei genitori».
Negli anni ‘40 parlare di comunità doveva essere pionieristico, come fu il rapporto di Jeannette con la famiglia di origine? «I miei familiari erano commercianti di scarpe, non intellettuali. Quando appresero la notizia della mia motivazione ad entrare in comunità pensarono che fossi impazzita. Continuare a mantenere i rapporti è stato un processo lungo e complesso ma la nonviolenza mi ha insegnato proprio questo: accettare l’altro, confrontarsi con il diverso e giungere al dialogo pacifico».
E la spiritualità, quanto tempo prende della sua giornata e come si attua? «La ricerca spirituale è fondamentale per vivere insieme. È la spinta che ci fa comprendere, perdonare, essere forti, ci sostiene e ci aiuta a decidere. Per fare meditazione occorre però prendersi del tempo, svegliarsi presto, darsi delle regole, liberare un po’ di spazio per se stessi e per la riflessione comune».
Il racconto di Jeannette è confortante, la sua apertura verso il nuovo, la profondità dei suoi gesti e delle sue parole ci incantano. Una domanda ci sorge dal cuore: come è vivere la terza età all’interno di una comunità? «Siamo rimaste in poche “anziane” a St. Antornine e non ho molte persone della mia epoca con cui parlare. Ma non mi sento sola qui dentro. Se fossi fuori patirei molto di più la solitudine. La vicinanza con i giovani riempie le mie giornate: sono molto diversi da come eravamo noi ma assolutamente interessanti. Mi piace parlare con loro, fanno domande intelligenti e si crea sempre una relazione autentica. L’insegnamento di Lanza del Vasto è del tutto attuale, i valori che ci ha voluto tramandare sono importanti per tutte le età e per tutte le epoche.
L’essenziale è dentro di noi: accettare noi stessi e volerci bene in prima istanza per poter imparare a voler bene agli altri e a essere nonviolenti».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




A scuola di saggezza

I giovani e la vita nell’Arca

Sempre più incuriositi dai due anni di formazione alla non violenza, la cosiddetta Fève (Formazione e sperimentazione alla vita comunitaria), ci rechiamo nella biblioteca comunitaria dove ci aspettano Marie e Vincent.

Ci troviamo davanti due ragazzi poco più che ventenni, dai tratti fini e dai modi gentili. Sono fidanzati e hanno deciso di affrontare insieme il percorso della Fève. Marie, 24 anni, è nata e cresciuta nell’Arca di St. Antornine, ma ha già sperimentato cosa significhi vivere al di fuori dell’abbraccio della comunità. «Quando cresci nella comunità non ti fai molte domande, non ti rendi conto di vivere in modo “alternativo”. Vedi tante persone. Alcune le conosci da sempre e sono la tua famiglia, altre restano per qualche anno, altre ancora passano e se ne vanno».
Anche lei se n’è andata, ma solo per un po’. Tre anni di psicologia all’università, Barcellona, Grenoble, l’adesione insieme a Vincent al movimento degli Squatters. In mezzo anche un’esperienza all’altra Arca, quella rurale della Borie Noble. Utile, questa, per imparare tanti mestieri manuali, trovare un proprio stile di vita, un saper-fare che garantisca il necessario sostentamento senza vincolarsi a un lavoro di routine, che Marie dimostra, anche in modo molto espressivo, di aborrire. «Vivere insieme non è facile, ho constatato quanti conflitti possano sorgere anche tra individui pieni di buona volontà. Gli spazi comuni sono luoghi di equilibri delicati. Per viverli senza conflitti bisogna darsi delle regole e maturare come individui. La Fève è stata concepita qui a St. Antornine da persone con l’esperienza adatta a comprendere e spiegare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano nelle relazioni di coppia, di famiglia o di comunità. In questo modo ci prepariamo al futuro, seminando il grano della nonviolenza dentro di noi con la speranza di essere un giorno adulti migliori, almeno di averci provato forse più seriamente dei nostri coetanei degli anni ‘70, che in molti casi hanno fallito nel tentativo».

Il mondo cambia, i giovani anche…
«La violenza distrugge i progetti collettivi», a parlare è ora il ventitreenne Vincent. «L’ho sperimentato nelle “occupazioni” e nei tentativi di comunità fatti in modo “artigianale” dai miei amici, ai quali mi sono avvicinato con curiosità e interesse negli anni passati. Qui stiamo imparando strumenti e antidoti a queste pulsioni, lavoriamo sulla qualità dei rapporti interpersonali, imparando le tecniche di comunicazione nonviolenta, anche di matrice americana, e i metodi di gestione dei conflitti e della riconciliazione».
Vincent è un geografo, il suo sogno di ragazzino era lavorare al «Departement National de Geographie». Le esperienze di vita, la maturazione personale e il mutato scenario del mondo del lavoro lo hanno cambiato. Politicamente si sente un anarchico, ma ha capito che vivere un’esistenza individualista, creare una famiglia chiusa su se stessa o difendere un salario fisso non è quello che desidera per sé.

Formazione e sperimentazione
Marie ci parla ancora delle Fève: «È un progetto nuovo, questo è il suo secondo anno. È un corso non ancora riconosciuto dallo stato, che si avvale però di formatori estei, psicologi e professori provenienti dal mondo delle Università. Il numero di partecipanti è variabile, ma non dovrebbe superare le 12 persone all’anno, con età non superiore ai 35 anni. L’ammissione è sottoposta al giudizio dei membri della comunità che verificano comportamenti e motivazioni nell’arco di una settimana di vita comunitaria, obbligatoria e propedeutica per chi desidera intraprendere questo cammino. La formazione avviene a settimane altee, nella prima si fanno le sessioni formative che durano circa tre giorni. Nela successiva si sperimenta ciò che si è appreso, vivendo e lavorando insieme agli stagisti e ai membri stessi dell’Arca. Ogni settimana, al martedì pomeriggio, interviene una psicologa, con cui ci si confronta sui problemi legati alla convivenza e ai rapporti interpersonali. Lo facciamo tutti insieme, senza false ipocrisie o remore di sorta, con i membri dell’Arca».

Decrescita economica e crescita interiore
Chiediamo, pragmaticamente, se il corso della Fève potrà dare sbocchi lavorativi per il suo futuro. La domanda è evidentemente quella sbagliata, non sembra essere apprezzata da Marie che ci risponde con una piccola smorfia sul volto.
«Forse sì, forse no. Alcune associazioni sono interessate a replicare un corso sulla nonviolenza. In generale c’è fermento e voglia di divulgare. Piuttosto all’interno della comunità si imparano molti lavori: giardinaggio, cucina, vasellame, cucito, questi sì utili per il nostro futuro e per le persone che sono vicino a noi».
Stiamo parlando con una ragazza che non avverte certo l’ansia di trovarsi un lavoro, che sente l’urgenza di una crescita personale più che economica. Ma, di fronte alla scelta di Marie come reagiscono gli amici e i conoscenti?
«In generale, quando parlo per la prima volta dell’Arca, cioè dell’eco sistema in cui sono cresciuta, le persone si spaventano, non capiscono o confondono il concetto di comunità, ad esempio, con “sesso libero’”. Li invito a conoscerci e chi viene qui, si trova sempre a suo agio, si diverte e resta piacevolmente sorpreso. La reazione dipende comunque da persona a persona: ci sono i ricettivi e ci sono gli scettici».

La spiritualità nelle giovani leve
Come vivono la spiritualità i giovani come te, cresciuti qui? «La ricerca spirituale vuol dire, per noi, soprattutto fermarsi e fare spazio, riflettere. Il rappel (richiamo), il suono della campanella durante la giornata, serve proprio a questo. È un suono che arriva improvviso e ci dice di fermarci un momento per dedicarci a noi stessi e fare un minuto di meditazione. I giovani amano molto questa cosa. La preghiera resta un gesto soprattutto privato, come nella società estea. Chi è cresciuto qui, in genere, ama molto i rituali, i bambini ed i ragazzi vanno sempre alla preghiera della sera. Ma c’è chi non ci va: mia sorella, ad esempio (ride…). Ma in generale gli aspetti ecumenici sono molto apprezzati».
Decidiamo di salutare Marie e Vincent con una provocazione. La Francia di oggi, come vi considera? Gli ultimi seguaci di una bella utopia o cos’altro?
Marie sorride ma evita il trabocchetto. «È una bella utopia, ma funziona, tant’è che le comunità dell’Arca esistono da più di 50 anni. Ci sono membri che hanno trascorso tutta la vita in queste comunità. In Francia c’è un buon movimento, spesso mirato a obiettivi specifici, che collimano con le battaglie molto concrete che anche le nostre comunità hanno “combattuto” in passato. L’anti Ogm e il localismo di Josè Bové è una di queste. C’è molta gente che conosce il pacifismo, ma sa poco di comunicazione nonviolenta, e di nonviolenza intesa soprattutto come lavoro dell’individuo su se stesso».
Come non darle ragione? L’Arca di Lanza del Vasto, profeta della nonviolenza, ha introdotto già dalle sue origini concetti ultra modei. Ha cercato «l’altro mondo possibile», la «decrescita felice», il sostentamento a chilometro zero, in tempi non sospetti. Ha perseguito con fermezza e caparbietà la promozione dell’essere umano, andando molto oltre i concetti di tolleranza e solidarietà.

Luca Cecchetto

Luca Cecchetto




Obiettivo: vita comunitaria

Le famiglie e la vita nell’Arca

Durante la nostra visita all’Arche conosciamo in refettorio una giovane famiglia. Manuelle e Emanuel hanno 3 bambini: la primogenita di 7 anni, un piccolo di 5 e una neonata di 7 mesi. Vivono in comunità da 4 mesi e ci raccontano le loro motivazioni e la loro esperienza.

L’appartamento di Manuelle e Emanuel è lo specchio della vivacità familiare. Giochi sparsi, un buon profumo di biancheria e molta energia nell’aria. A loro sono riservate tre stanze: una per i due bambini più grandi, un luminoso tinello in cui ci accolgono e un piccolo studio che funge da camera da letto per loro e per la piccolina.

Chiesa e vita comunitaria
«L’Arca è per noi l’opportunità di fare la vita comunitaria che desideravamo. Io sto partecipando alla Fève e mia moglie segue i bambini e fa vita comunitaria; l’anno prossimo faremo il contrario. Alla fine dei due anni avremo un’idea chiara per valutare se il nostro futuro sarà dentro l’Arca o altrove. Quello che possiamo dire, per questi primi mesi, è che la qualità della vita qui è molto buona». A parlare è Emanuel, da sei anni Pastore della Chiesa Riformata di Francia, che ci racconta anche come è nata l’idea di un’esperienza nell’Arca. «Ho sempre cercato, anche nella mia parrocchia in ambito rurale, di creare uno stile di vita comunitario. Celebravo il culto, ero a disposizione dei parrocchiani, insegnavo il catechismo. Quello che auspico di fare nel futuro è di riuscire a conciliare i due aspetti: la vita comunitaria “durante la settimana” e la celebrazione del Culto la domenica».

Ecumenismo e riforme
Il carattere aperto ed ecumenico dell’Arca ha permesso al pastore protestante Emanuel di entrare in comunità e partecipare alla Fève. Gli chiediamo un ritratto della spiritualità all’interno dell’Arca. «Lanza del Vasto era cattolico ed era la guida assoluta. Anna, Jeannette e Michèle ci raccontano che lui pensava e gli altri lavoravano. Successivamente la comunità ha vissuto la spiritualità in modo differente. Oggi, non esistono più patriarchi e gli aspetti conservatori sono stati eliminati. È stato come un movimento di riforma all’interno dell’Arca stessa. Questo consente una grande autonomia di decisione e la massima apertura in termini di spiritualità e scambio con le altre religioni». 
Gli chiediamo se c’è qualcosa di particolarmente rilevante nella vita all’Arca: «Molti anziani vengono in questa comunità sperando di potersi fermare a vivere ma l’Arca non è organizzata per questo. Per Michèle e Jeannette che hanno sempre vissuto qui è differente, ma per chi non ha fatto un certo percorso è difficile. Lo sperimentare la vita comunitaria mi ha fatto pensare che sarebbe interessante creare una comunità per persone anziane sole, non una casa di riposo ma uno spazio aggregativo, dove ognuno conservi la propria indipendenza, il proprio talento e si renda utile alla comunità».

Vita di famiglia nell’Arca
Lasciare il proprio lavoro (Manuelle è psicomotricista), cambiare scuola ai bambini e fare “famiglia” all’interno di una grossa comunità come questa, comporta molti cambiamenti.
A rispondere è Manuelle: «I bambini sono molto contenti di vivere in questa grande casa famiglia. Si sono create subito delle relazioni con gli altri bambini e non esiste il problema del babysitting (Manuelle sorride). Non è tutto così semplice però, occorre dialogare molto con loro e spiegare che le dinamiche della comunità sono differenti da quelle della famiglia mononucleare. Questa particolare struttura dell’Arca è grande e nel week end si riempie di gente che prenota le sale per conferenze o seminari, ai bambini è necessario mettere delle restrizioni perché la sicurezza non è certo quella delle quattro mura di casa. Manca sicuramente il controllo e l’intimità. La grande casa è protettrice ma a volte anche un po’ opprimente e non mancano i sacrifici in termini di “decrescita”. Per noi che siamo stagisti e non membri della comunità non è disponibile un bagno privato nell’appartamento e questo, con tre bimbi, non è sempre semplice.
Non da meno è la differenza con le altre famiglie sui metodi pedagogici. Noi siamo contrari a far vedere la televisione ai bambini ed altre famiglie invece accettano che televisione e computer siano sempre a disposizione dei piccoli. Su questo, il cammino verso la nonviolenza insegna molto: imparare a relazionarsi attraverso il dialogo e a smussare gli attriti, accettando le differenze, favorisce la convivenza pacifica. In questo senso sono già state fatte molte migliorie rispetto al nostro arrivo e la motivazione, comune a tutti, a vivere in armonia facilita e rende piacevole il quotidiano».
Rimettersi in discussione con la propria famiglia ed entrare in una grande comunità, con le sue regole e i suoi tempi è una bella sfida. Ma, esiste una sorta di gerarchia all’interno dell’Arca e da chi vengono prese le decisioni più importanti? «È necessario fare una puntualizzazione e dividere la vita dell’Arca in due tempi». A parlare è nuovamente Emanuel, mentre la moglie ci versa una tisana e richiama a un po’ di disciplina i piccoli nella stanza accanto. «Una volta si era più dipendenti, perché chi sceglieva la vita in comunità non aveva lo stipendio ed era supportato completamente dalle finanze comunitarie. Oggi, ogni famiglia ha un piccolo introito mensile con cui decide la priorità delle proprie spese. Nessuno controlla o si permette di criticare le scelte fatte. Le decisioni generali sulla comunità vengono prese dai membri stessi, mentre noi stagisti partecipiamo a delle commissioni operative che approfondiscono le varie problematiche e cercano le soluzioni. Ogni settimana c’è una riunione della casa in cui sia i membri che gli stagisti partecipano. Qui si discute tutti insieme e si  prendono decisioni comuni. Il principio cardine di tutto il nostro lavoro è che non ci si può fermare. La nonviolenza e la spiritualità sono un cammino perenne, una ricerca costante di equilibrio e coerenza prima dentro se stessi e poi nelle relazioni interpersonali».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




L’Arca secondo Anna

Una vita dentro l’Arca

Anna, 68 anni, è italiana di nascita ma francese di adozione. Il suo racconto ci porta sui passi di una conversione personale verso la non violenza.

C’è un termine portoghese, cantinho, che descrive al meglio la sensazione che si ha entrando in casa di Anna. Il cosiddetto cantinho si utilizza per indicare un angolo familiare e accogliente nel quale rifugiarsi per trovare ristoro. Così è l’appartamento di Anna: piccolo, profumato di legno chiaro e con una vista impagabile sull’abbazia di St. Antornine. Il dialogo con Anna è un tempo di perfezione «assoluta». Si instaura quella semplice intimità che solo la verità può trasmettere. Anna è forte e la sua forza le regala un aspetto giovanile e dinamico. Con voce calda e modulata si racconta e racconta.
«Provengo dalla cultura degli anni ‘60, quando i giovani si sentivano desiderosi di scoprire culture diverse, vivere la spiritualità in maniera più autentica, conoscere l’India. Il grande sogno era potersi differenziare dai propri genitori e stravolgere il mondo».

Anna, cosa ti spinse a ricercare uno stile di vita diverso?
«Tre aspetti influenzarono le mie scelte: la cultura degli anni ‘60 e il sogno che rappresentava (nel 1968 mi trovavo a Parigi), la ricerca di una vita spirituale coerente e di un’esistenza “giusta”. Nel 1969, mio marito ed io, che al tempo abitavamo in Franca, conoscemmo Lanza del Vasto. Fu durante la conferenza che tenne, nella piccola cittadina della Bretagna dove ci trovavamo. Mi accorsi che dietro il dibattito filosofico c’era una proposta di vita reale. Lanza del Vasto aveva fondato una comunità di gente che aveva scelto di abbandonare una vita privilegiata e di battersi per la giustizia».

La decisione di entrare in comunità fu immediata?
«Non immediata ma risoluta. Con Lanza del Vasto scoprii Gandhi e la nonviolenza. Avevo il desiderio di vivere la nonviolenza ma non sapevo come metterla in pratica. Dopo aver iniziato un percorso di lettura sui libri di Lanza del Vasto, andammo nel 1974 per due settimane alla Borie Noble. Cinquecento ettari di terra e sassi: una vera comunità rurale senza elettricità, acqua calda e nessun tipo di tecnologia. Per noi fu la scoperta della bellezza assoluta. Lanza del Vasto diceva: “Qual è la forma della verità? È la bellezza”. Non vanità e ostentazione, bensì sobrietà e bellezza. La chiave per elevarsi e vivere pienamente la spiritualità. Dopo un altro mese di prova comunitaria, nel 1976 lasciai il lavoro di assistente sociale, mio marito diede le dimissioni e, insieme alle nostre due bambine, ci trasferimmo alla Borie Noble».

Come rispose la comunità alle vostre necessità di cambiamento?
«La vita all’Arca corrispondeva a ciò che desideravamo: una vita molto attiva per quanto riguardava l’azione nonviolenta e vissuta con estrema semplicità. Occorreva solo essere lì: “presenti al presente”. Anche la scuola era all’interno della comunità in un’ottica di coerenza tra l’ideologia comunitaria e i programmi didattici. La vita spirituale era molto aperta e non dogmatica, scandita nei tempi di silenzio, nella preghiera e nella meditazione. “Ciascuno approfondisca la propria tradizione religiosa e impari a conoscere le altre, riconoscendone i tesori”, erano le parole di Lanza del Vasto».

Dieci anni alla Borie Noble. E in Italia, cosa stava accadendo?
«I dieci anni alla Borie Noble sono stati gli anni più intensi della mia vita. Eravamo convinti che avremmo cambiato il mondo e questa forza si avvertiva a distanza. Molti giovani arrivavano alla Borie Noble e ne sposavano la filosofia. Nel frattempo, i libri di Lanza del Vasto iniziarono ad essere tradotti e conosciuti anche in Italia. Era il tempo delle conferenze che portò molti italiani a conoscere l’Arca. Iniziammo così ad organizzare campi estivi in Italia, a San Vito dei Normanni, città natale di Lanza del Vasto, con una partecipazione sempre più numerosa di italiani: oltre le 150 persone».

Nel 1981 muore Lanza del Vasto, cosa accadde nell’Arca?
«In Italia il movimento dell’Arca era fervido e così nel 1986 monsignor Luigi Bettazzi mise a nostra disposizione un casale a nord di Ivrea con 7 ettari di terra intorno. Fu un periodo di splendore e di approfondimento di ciò che avevamo appreso nei primi 10 anni. La divulgazione dell’azione nonviolenta, la semplificazione della vita prese forma anche in Italia e richiamò molti seguaci».

Dal 1993 vivi a St. Antornine, perché questa comunità?
«Nel 1993 la comunità in Italia morì e, in seguito a una mia profonda crisi personale ed esistenziale, scelsi di venire a vivere qui. St. Antornine era una grande e giovane comunità che aveva iniziato un lavoro di rivisitazione dei fondamenti dell’Arca: un’indagine su cosa fosse essenziale mantenere all’interno delle comunità e cosa si potesse invece eliminare. In questo senso St. Antornine intraprese un importante lavoro psicologico e spirituale, approfondendo le scienze umane su cui Lanza del Vasto non ci aveva lasciato strumenti adeguati».

Lanza del Vasto parla spesso di unità tra vita e parola. Nel tuo cammino è stato possibile tutto ciò?
«È stato possibile solo quando mi sono accorta che era indispensabile cercare l’unità in me stessa. Un grosso lavoro impregnato di psicologia e spiritualità. È stata la scoperta dell’assioma che si potrebbe formulare così: non puoi cambiare nulla intorno a te se prima non cambi te stesso. Viviamo tempi caotici dove tutto evolve ma se non si parte da noi non può avvenire nessuna trasformazione sociale. La vita quotidiana in comunità mi regala un’unità di vita e mi aiuta a chiedermi: sono in unità con me stessa? Ho capito dove sono violenta con il mio essere e mi sto dando degli strumenti per aiutarmi? È un lavoro interminabile ma fondamentale».

Nel tuo percorso di riconciliazione dove è intervenuta la spiritualità?
«Non sono cattolica ma cristiana e solo facendo questo profondo lavoro su me stessa ho riscoperto il Vangelo. I testi mi parlavano di ciò che mi stava accadendo. Ho appreso solo con il tempo che per essere in equilibrio occorre riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla maledizione per entrare nella benedizione. Ho imparato a vivere la vita pensando che è una storia sacra, che ha un senso e che deve convergere verso lo stesso punto. Presenza e conciliazione, speranza e fiducia, accettazione del presente possono aiutarci a lodare ogni giorno la bellezza della vita».

E dentro l’Arca, che importanza ha la fede e come è vissuta?
«Per l’Arca è in tutto. Pulire per terra è spiritualità, lavorare nei campi, scrivere, mangiare… vivere con la coscienza di una vita spirituale.
Il richiamo alla vita spirituale è fermarsi. Noi abbiamo la campana che suona tutto il giorno e sappiamo che in taluni momenti dobbiamo “richiamarci a noi stessi”. Ma questo “prendersi il tempo” si può fare ovunque».

Per noi, estei alla comunità e in preda al caos, come può avvenire questo «tempo benedetto»?
«Riferendosi alla spiritualità, Shantidas diceva: “È l’inizio di una grande avventura”. Qualsiasi cosa si stia facendo, si interrompe un attimo, ci si mette in asse con se stessi e ci si riappropria del proprio essere. Si può cominciare con 15 minuti di meditazione silenziosa o con un testo sacro, lasciandosi parlare diritto al cuore, alla propria vita. Il tempo della preghiera serve a ricordarci il perché del nostro essere nel mondo. Qui e ora. Ha un senso la nostra vita? Da dove veniamo e dove stiamo andando?
Poi, c’è il tempo della gratitudine, della coscienza dell’amore di Dio, scoprendo chi è per noi Dio. Mettersi allo scoperto con tutte le nostre piccolezze e meschinità, certi del suo amore».

L’azione nonviolenta: come si traduce praticamente?
«Con progetti ad hoc contro gli Ogm, supportando l’immigrazione, accogliendo i rifugiati politici e lottando per l’antinucleare e per il disarmo nucleare della Francia. Abbiamo inoltre una équipe che si occupa di sensibilizzare i giovani alla nonviolenza nelle scuole. Siamo, da sempre, disponibili ad accogliere chiunque voglia sperimentare la vita comunitaria. È un’accoglienza gratuita che permette alle persone interessate di vivere il nostro stesso stile di vita».

L’Arca è strutturata in maniera gerarchica?
«Un responsabile di casa viene eletto ogni tre anni dal Capitolo, ovvero l’insieme delle persone che sono impegnate nella casa. Si diventa membri dopo uno stage di un anno a cui segue un postulato di due anni. Nessuno dei membri ha un lavoro esterno, ma ognuno ha un’occupazione all’interno della struttura. Dopo un mese di stage nella comunità, si può partecipare alle riunioni settimanali della casa».

Come sopravvive l’Arca economicamente e come sono gestite le finanze di voi membri?
«Attraverso l’affitto delle sale dedicate a conferenze, seminari e sessioni di formazione e con l’area attrezzata per l’accoglienza dei gruppi. Il ricavato confluisce in un’unica cassa che viene poi ripartita ai membri per le spese personali. In qualità di single percepisco un piccolo contributo mensile, non è certo un lusso ma permette una vita più distesa rispetto a quando non era contemplato».

Semplificare la vita o essere radicali. Cosa ti ha insegnato l’Arca?
«Mi ha insegnato che l’essere troppo radicali può essere deleterio. Le comunità sembravano inizialmente concepite solo per i giovani: senza luce, con i bagni spartani, isolate dal mondo. Le cose cambiano, la gioventù passa e anche le comunità si sono dovute adeguare, perché quello che conta maggiormente è l’attenzione verso la persona. Se a 30 anni non importa avere l’acqua calda e la doccia in casa, a 80 diventa un fattore non più trascurabile. Complice della semplicità deve essere sempre il rispetto e la conoscenza delle esigenze personali».

Possiamo dunque definire «decrescita» misurata lo stile di vita attuale?
«Non amo molto il termine decrescita. Quello che mi nasce dal cuore è invece un elogio della ricchezza: esser ricchi dentro per poter condividere. Oggi, ho piena coscienza che le macchine sono solo strumenti per poter lavorare meglio, il computer ci aiuta nelle relazioni, ci mette in contatto con il mondo. La vita è movimento e se si rimane indietro si rischia di rovinare il cammino intrapreso fino a quel momento. Le crisi comunitarie, come quelle personali, servono proprio a riflettere sui passi fatti e a “purificarci” dalle cose inutili».

Quali differenze tra chi vive nelle case e chi si impegna solo nel movimento?
«Fino al 2005 l’Arca era un ordine, non religioso, composto da persone che si impegnavano con i voti. Venivano soprannominati “compagni” quelli che vivevano insieme la stessa regola di vita nella casa comunitaria e “alleati” coloro che si impegnavano per il movimento dell’Arca al di fuori delle strutture comunitarie. Oggi, non esiste più differenza tra chi vive all’interno e chi all’esterno. Il rinnovamento è dato dal medesimo impegno sia per i compagni sia per gli alleati che sottoscrivono la Carta dell’Arca. Questa trasformazione è stata necessaria perché le case comunitarie iniziavano a chiudere e si sentiva la necessità di far vivere il movimento. Solo le comunità che si sono trasformate e hanno saputo adeguarsi ai tempi sono riuscite a sopravvivere».

Puoi regalarci una tua immagine sul futuro dell’Arca?
«Quest’anno ci sarà il Capitolo generale e potremo fare un vero bilancio di questi ultimi anni. Personalmente mi sembra che ci sia un buon fermento, che molti giovani si stiano impegnando nel movimento. Quello che ho potuto notare come responsabile per 10 anni della nonviolenza nell’Arca è che, aldilà dei limiti stessi della comunità che vanta solo 200 persone impegnate in Europa, l’Arca rimane una porta aperta su un mondo “altro” fatto di riconciliazione, conciliazione e unità».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Accade a kombinat

Premessa

A 20 anni dalla caduta del regime comunista, a quasi 15 dai disordini del 1997, dovuti alla grave crisi finanziaria delle «piramidi», Kombinat è diventato un luogo effervescente di vita, dove l’arte dell’arrangiarsi, della sopravvivenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo può evolvere nelle direzioni più impensabili. È stupefacente la capacità, almeno apparente, di convivenza sociale che regna in questa caleidoscopica realtà dove, nel comprensibile desiderio di una vita migliore a qualunque costo e in tempi rapidi, vi è una massadi persone impegnate nella lotta per la sopravvivenza, a fronte di pochi, più ricchi e più furbi, altrettanto impegnati nel trae i maggiori vantaggi. A Kombinat convivono vecchi abitanti e nuovi immigrati da diverse parti d’Albania e gli «sfortunati» (o esclusi, come i Rom) provenienti da altre zone di Tirana: tanti gruppi che si tengono distinti, pur non avendo conflitti visibili.
Naturalmente, pur nella convivenza dichiarata, permane una diversità tra abitanti di vecchia data e nuovi arrivati. Nei primi vi è fierezza e orgoglio per essere stati i costruttori di Kombinat, fabbrica e quartiere, e tanta nostalgia e amarezza per com’è ora: essi avevano creduto nel sogno di una «nuova» Albania e, ora più degli altri, rimarcano amaramente il degrado e l’abbandono in cui versa il Paese.
I nuovi arrivati sono giunti con la speranza che qui qualcosa in qualche modo si possa trovare o possa accadere, e comunque hanno abbandonato l’isolamento della campagna e delle montagne, per vivere il «benessere» della città. Ma tra questi vi è anche emarginazione, disperazione, che a volte portano all’alcornol, alla droga e alla prostituzione; vi è povertà economica e morale, che a volte porta all’inaccessibilità alla scuola e al sistema sanitario. Molti vivono in abitazioni di fortuna e non risultano neanche iscritti nelle liste dell’anagrafe comunale: hanno solo elaborato strategie di sopravvivenza per esistere in un’area deindustrializzata.

Il grande desiderio e bisogno di comunicare della gente può essere interpretato come un modo per esorcizzare la sindrome di abbandono da parte delle istituzioni e il senso di precarietà che minaccia non solo le esistenze individuali, ma l’intera dimensione collettiva. Con il vecchio regime, gli albanesi vivevano in un ambiente certamente non confortevole, come tenuti sotto chiave, ma almeno socialmente sicuro e «protettivo».
Oggi, i cittadini di vecchia data e i nuovi inurbati a Kombinat stanno scontando un disorientamento e tale da far rimpiangere l’organizzazione sociale e, ancor più tra i meno abbienti, il sostegno sanitario e assistenziale del regime passato.  
Occorre traghettare la società albanese verso un sistema in cui lo Stato possa nuovamente essere riconosciuto come garante di legalità e governabilità; uno Stato che ponga al centro della propria attività lo sviluppo del Paese e il benessere sociale dei suoi cittadini tutti.
È quello che l’Ong Col’or (Camminiamo oltre l’orizzonte) realizza dal 2003, lavorando in Albania in generale e con gli abitanti di Kombinat in particolare. In questi anni essa ha realizzato numerosi progetti che spaziano da attività a favore delle famiglie, al sostegno alla locale associazione di donatori di sangue, fino ad attività di formazione professionale e avviamento al lavoro per i giovani in difficoltà.

    Paolo Rossi       

Paolo Rossi




Culto dell’etnia chiamata «albanità»

Processo storico dell’anima albanese

Nata come provincia romana dell’Illiria (II sec. a.C.), attraversati quattro secoli bui sotto il dominio ottomano, indipendente nel 1912 e conquistata dall’Italia nel 1939, dopo quasi mezzo secolo di regime nazional-comunista (1946-1990), l’Albania è tra i paesi emergenti d’Europa. La sua economia continua a crescere, ma il paese è ancora alle prese con seri problemi di arretratezza politica e sociale, che frustrano le sue richieste di integrazione nella comunità auropea.

Situato nella parte sudoccidentale della penisola balcanica, affacciata sul mare Adriatico in corrispondenza del canale d’Otranto, il cui punto più stretto è di circa 75 km, l’Albania ha una superficie di 28.748 km², poco più grande della Sicilia, e quasi 3 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2011. La maggior parte della popolazione vive nelle periferie dei grandi centri urbani che, da soli, ne agglomerano oltre due terzi.
Per descriversi, il popolo albanese pone al di sopra di tutto l’importanza dei valori dell’etnia, in contrapposizione al concetto di stato. Ogni forma di ricostruzione storica del Paese va quindi fatta alla luce di come gli albanesi «pensano» l’Albania, ricordando che tale schema è alla base del modello di nazione albanese.

Dall’indipendenza alla «grande albania»
La discendenza storica dagli Illiri costituisce un titolo di vanto riaffermato indistintamente da tutti i leader albanesi: pirati di professione, furono sottomessi da Roma verso il II secolo a.C. e la loro regione fu inetgrata nella provincia romana dell’Illiria.
Nei secoli del dominio ottomano i clan albanesi continuavano a praticare di nascosto la loro fede: di notte nelle case si svolgevano le antiche liturgie e, nascoste sotto terra, si celavano spesso le statue dei santi, mentre il battesimo era amministrato in segreto cosicché molti albanesi avevano un nome islamico e un secondo nome, ufficioso, cristiano.
Intoo al XVIII secolo iniziò quindi a svilupparsi quella cultura turco-albanese che raggiungerà, alla fine del secolo, traguardi di raffinatezza soprattutto nel settore letterario.
Una serie di contingenze determinarono nel corso del XX secolo un’inattesa alleanza con Italia e Austria che temevano il controllo serbo e greco del territorio: unica alternativa possibile era la trasformazione del paese in uno stato indipendente, sotto tutela italo-austriaca. L’allora governo di Francesco Crispi – un italo albanese – riuscì a imporre all’Europa la faticosa nascita dell’Albania, attraverso la Conferenza degli Ambasciatori del 1910, che due anni dopo confermò la costituzione della nuova nazione: il 28 novembre 1912, a Valona, Ismail Qemalil dichiarò l’indipendenza dell’Albania.
Seguirono anni di assestamento politico, segnato da arretratezza economica e lotte tra anacronistici capi-tribù, finché si affermò Ahmet Zogu che diede vita al Regno albanese, proclamandosi re col nome di Zog I, e intensificò i rapporti economici con l’Italia. Roma considerava l’Albania come una propria colonia e vedeva con sospetto l’ingerenza nazi-tedesca nei Balcani, finchè il governo fascista, attraverso il proconsole Ciano, rovesciò la monarchia albanese: era l’alba del 7 aprile del 1939, Venerdì Santo. Da allora l’Italia controllerà l’Albania fino al settembre del 1943, trascinandola nella rovinosa campagna di Grecia, il cui risultato per gli albanesi si risolse in un trionfo storico del tutto inaspettato: sotto la guida di un re italiano e con l’appoggio tedesco, realizzarono la «Grande Albania», recuperando l’Epiro del nord (Ciamuria), alcuni territori della Bulgaria e soprattutto il Kosovo.

La dittatura di Hoxha
Nel periodo che va dal 1943 al 1945 comparvero nel territorio albanese numerosi movimenti partigiani tra loro contrapposti, mentre per i kosovari tali anni furono particolarmente drammatici: la componente albanese, che per decenni aveva subito la repressione serba, e i tentativi di «pulizia etnica» del governo di Belgrado, forte dell’appoggio nazista, cornoperò con particolare ferocia nelle rappresaglie compiute dagli occupanti contro i serbi, dando ai vari gruppi politici kosovari un indirizzo ideologico esasperatamente antisemita.
Nel generale contesto di anarchia in cui il Paese stava precipitando emerse, per disciplina e forza militare, l’insieme dei gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha, che condusse una spietata guerra di liberazione, ben presto sfociata in guerra civile, quando l’anticomunismo spinse i nazionalisti monarchici e repubblicani a unirsi tra loro per combatterlo, arrivando addirittura ad affiancare i nazisti.
Hoxha goveò l’Albania dal 1944 al 1985, anno della morte, con un comunismo molto rigido e autoctono: è classificato tra i peggiori despoti del Novecento. Nonostante la stesura di una monumentale opera omnia, prodotta in ben 71 milioni di copie, che doveva consacrarlo a solo, autentico, continuatore di Lenin, Hoxha fu sempre legato a quel culto della etnia definito «albanità».
Quando il Cremlino si alleò, tradendo la besa (la parola data), con la Jugoslavia, storica nemica del popolo albanese che opprimeva i kosovari, la rottura con Mosca fu sancita definitivamente e Hoxha affidò agli intellettuali il compito di esprimere senza reticenze la messa in secondo piano dello schema marxiano fino ad allora sostenuto e imitato. L’alleanza con Pechino costituì una scelta di tipo strumentale, per la foitura di armamenti e strumenti per l’industrializzazione e lo sviluppo del Paese.
Nel 1976 anche la Cina fu accusata di «imperialismo» e il dittatore si ispirò a nuovi ideali da seguire, come quelli rappresentati dalla Svizzera, unica nazione che appariva neutrale rispetto alla Nato, e dall’Austria. Ma il popolo albanese, ormai guidato da Sali Berisha – il medico che sarebbe poi stato alla guida del primo governo anticomunista albanese – cominciò a capire che dietro tali scelte vi erano per lo più le solidità bancarie dei due Paesi, dove Hoxha teneva i suoi conti privati.
Gli albanesi giudicano oggi negativamente il quasi mezzo secolo di comunismo dominato da Enver Hoxha. Tuttavia, alcuni attribuiscono al dittatore alcuni meriti, come quello di aver permesso loro di imparare a leggere e scrivere, aver dato accesso al sistema sanitario e aver portato a coltura tutta la terra possibile; non da ultimo, sotto il suo regime la durata media della vita è passata da 38 a 70 anni.

L’era di berisha
Alla morte del dittatore, nel 1985, gli successe Ramiz Alia, che faceva parte dell’entourage di Hoxha, anche se, a differenza di gran parte degli altri, durante la guerra di liberazione non aveva avuto un ruolo militare di spicco. Nel 1987 Alia fece sì che l’Albania entrasse come membro permanente delle varie Conferenze balcaniche promosse dal governo Jugoslavo. Sul fronte interno, pressato dallo scontento popolare, avviò timide riforme politiche e, in concomitanza con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, introdusse il multipartitismo.
Tra gli intellettuali e funzionari statali del regime c’era anche la casta dei medici, all’interno della quale si trovava Sali Berisha, un cardiochirurgo che si era conquistato ampia notorietà a livello internazionale e di cui Hoxha si fidava ciecamente. Ma spinto dall’illimitata brama di potere, alla fine del 1990, Berisha scese in piazza assieme agli studenti che protestavano contro il regime di Alia, l’anno seguente riuscì a manovrare e diventare capo del Partito democratico albanese, al quale impresse una ideologia semplicemente e ferocemente anticomunista e presentandosi ormai come leader incontrastato. Le elezioni del 1992 sancirono un risultato del 66% dei voti al Partito democratico: Berisha diventò presidente e venne rieletto nel 1996; ma quello stesso anno il «crollo delle Piramidi Finanziarie» provocò proteste di massa: nei primi mesi del 1997 il Paese precipitò in una specie di anarchia con circa 2.000 morti; le responsabilità del presidente non sono mai state chiarite ma erano evidenti: Berisha fu costretto a dare le sue dimissioni.
Nonostante nel settembre 1998 avesse preso parte al tentato colpo di stato contro il governo di Fatos Nano, nell’estate 2005 la coalizione del partito di Berisha, dopo otto anni di opposizione, ebbe nuovamente la maggioranza in parlamento, grazie alla ripetizione del voto in tre circoscrizioni, tra polemiche su compra-vendita di voti, insulti tra i leader e indicazioni elettorali di clan: Berisha divenne primo ministro; nel 2007 fece eleggere presidente un candidato di sua fiducia, Bamir Topi; nel 2009 consolidò la vittoria elettorale, continuando nella carica di primo ministro per il secondo e attuale mandato.
Dalla caduta del regime comunista a oggi, la storia della direzione del Paese si consuma in un’alternanza che vede protagonisti, fin dal 1991, Sali Berisha e Fatos Nano.

Dal boom economico alla crisi
A fine 2006 il Capo delegazione del Fondo monetario internazionale a Tirana, Istavan Szekely, lanciò l’allarme per il fatto che il governo albanese aveva appena sottoscritto un contratto con il gruppo americano-turco Bechtel-Enka per i lavori di un tratto dell’autostrada Durazzo-Morina, lungo circa 50 km, al prezzo di 418 milioni di euro: l’Albania, secondo le normative del Fmi, non avrebbe potuto richiedere più di 50 milioni di euro di debiti al mercato finanziario. Intrappolato nella promessa elettorale della riduzione delle tasse, vincolato dal contratto che richiedeva ulteriori spese, ridotte le entrate per via della crisi, il governo optò per una terza via: congedare il Fmi dall’Albania.
Nel 2007 l’Albania registrò una crescita economica del 6% e l’anno successivo dell’8%, cifre che solo la Cina superava. Con una crescita economica simile si sarebbero potute finanziare non una, ma ben due strade Durazzo-Morina senza eccessive preoccupazioni. Con un Pil di circa 10 miliardi di euro l’anno e una crescita economica dell’8%, la ricchezza finanziaria albanese aumentava di 800 milioni di euro l’anno, in dieci anni il Paese poteva diventare due volte più ricco e, nella stessa misura, crescevano i redditi pro-capite.
Tutto ciò in teoria. La realtà si sta rivelando coerente alle paure del Fmi che, complice la crisi del 2009, vede la crescita economica albanese crollata dall’8% al 2,8% in un anno: una catastrofe per la finanza albanese, poiché il piano della spesa pubblica – avendo assorbito anche la famosa strada – era stato calcolato sulla base di una crescita economica maggiore.
A fine novembre 2008 il deficit pubblico era a quota 23,5 miliardi di leke, un anno più tardi il deficit si triplica arrivando a 63,5 miliardi di leke, pari a più di 450 milioni di euro. Al Goveo non restava che giustificarsi dicendo che «ovunque in Europa il deficit pubblico è esploso a causa della crisi».

Anticamera europea
Il 14 aprile 2010 l’Albania ha consegnato al Commissario europeo per l’Allargamento, Stefan Fule, il dossier con le risposte ai 2.284 quesiti utili alle istituzioni dell’Ue perché esprimano un giudizio sulla richiesta di adesione dell’Albania. L’Ue ha sollevato dubbi circa la stabilità democratica delle istituzioni, l’esistenza di un’economia in grado di reggere le regole della competizione e del mercato unico, il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze, lo stato del sistema giudiziario, la corruzione e la criminalità. Per entrare nell’Unione europea l’Albania dovrà fare particolarmente attenzione al raggiungimento dei criteri di Copenhagen.
Il 2011 è stato un susseguirsi di episodi di piazza. A gennaio le proteste scaturite dagli scontri tra partiti di maggioranza e opposizione hanno fatto 3 morti e decine di feriti; a maggio le elezioni amministrative, dopo numerosi colpi di scena e riconteggi, hanno conferito al Partito democratico di Sali Berisha anche la guida della capitale, strappata allo storico sindaco Edi Rama e di nuovo gli albanesi sono scesi in piazza per protestare, nel disinteresse totale dell’opinione pubblica mondiale.
A ottobre è stato pubblicato il rapporto della Commissione europea sull’avanzamento dei paesi balcanici verso l’integrazione europea. Anche quest’anno l’Albania si è vista rifiutare lo status del paese candidato.
A dicembre sono stati infine pubblicati i risultati del censimento della popolazione, svoltosi nel mese di ottobre: sembra che la popolazione sia diminuita del 2,8% in 10 anni, ma molti sollevano dubbi su come si è svolta la ricerca.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Nikolla racconta

storie esemplari di albanesi feriali

Nato a Liqenas, al confine con la Macedonia, il primo di sei figli, Nikolla Trojanov  vive con un fratello a Kombinat; una sorella è emigrata in America e un fratello in Grecia; gli altri due, una sorella e un fratello, sono rimasti nel loro villaggio, ma i loro figli sono migrati all’estero.

Dall’infanzia ho imparato che un uomo non si deve arrendere davanti alle difficoltà. Mio padre si è sposato all’età di 17 anni con mia madre Fanie; abitavano in case vicine: il padre di mia madre ha combinato il matrimonio, mentre il nonno paterno era l’unico contrario: lui non voleva quell’unione, ma alla fine accettò, convinto dagli altri, anche a causa della religione ortodossa alla quale appartenevano tutte e due le famiglie.
Da sposato, mio padre visse nella casa di mia madre, che era figlia unica. Mio nonno materno era molto bravo; per sopravvivere faceva di tutto, muratore, falegname, contadino e fabbricava perfino reti da pesca. Non si stancava mai e con il suo lavoro manteneva tutti noi.
Voglio raccontare la storia di quando ci è morto un bue. Fu una tragedia! I buoi a quell’epoca erano la principale ricchezza familiare, una garanzia per il pane quotidiano, ed essendo molto cari non era facile ricomperarli. Tutti ci rattristammo; ma il nonno ci disse di non disperare: «Chiederemo un prestito e ne compreremo un altro».
Avevamo poca terra e in qualche occasione quasi niente da mangiare. Il pasto più comune erano fagioli, zuppa di riso e byrek (una specie di pizza di sfoglia ripiena di verdura). Di carne neppure a parlarne, se non molto raramente. Tale povertà l’avevamo ereditata dal mio bisnonno, che si era sposato per la seconda volta con una donna che pensava solo a se stessa e spendeva tutto in cibo, bevande e vestiti, tanto che il mio bisnonno fu costretto a vendere la casa e le terre.
Il nonno ci raccontava tante storie della Prima guerra mondiale. Diceva che nel suo villaggio si erano stabiliti i bulgari e i francesi, occupando due colline che si fronteggiavano. I bulgari erano molto duri, in varie occasioni entravano in casa nostra e portavano via il nostro pane. Invece, i francesi erano più rispettosi e condividevano ciò che avevano con i contadini. Erano ricchi e bevevano vino al posto dell’acqua.
Ricordo che il nonno ci diceva sempre: «La patria e la lingua non la dobbiamo dimenticare mai e, se è necessario, devi dare anche la tua vita per questo».

Del villaggio dove sono nato e vissuto a lungo, avrei tanto da raccontare. Il paesaggio era molto bello, le persone che ci vivevano erano molto buone, generose, si aiutavano a vicenda e non litigavano tra loro. Erano in maggioranza analfabeti, per motivi economici e politici, eppure restavo impressionato dal fatto che la maggior parte dei contadini erano molto intelligenti per natura.
Una volta andai a comperare il cemento in una fabbrica. L’amministratore era andato a scuola, mentre un suo dipendente che pesava il cemento non aveva alcuna istruzione. Quando si trattò di fare il calcolo, il dipendente fu più svelto dell’amministratore. Come individui noi eravamo intelligenti, era la povertà che ci rendeva sottomessi.
La scuola aveva solo due stanze: una serviva da aula scolastica, nell’altra dormiva l’insegnante. Un solo maestro gestiva contemporaneamente quattro classi, disposte in quattro file di sedie; le lezioni si tenevano dentro l’unica stanza: mentre l’insegnante spiegava a una classe, le altre facevano i compiti loro assegnati.
Di quell’epoca ho un buon ricordo delle feste religiose. Quella preferita era la Pasqua, che durava tre giorni. Tutta la gente si riuniva al centro del villaggio, cantavamo e ballavamo insieme. Ragazzi e ragazze avevano i loro balli preferiti, ma danzavamo separati. Eravamo tutti vestiti bene. E c’era anche tanto cibo, messo da parte durante tutto l’anno proprio in vista di quel giorno.
Un’altra bella festa era quella dell’acqua benedetta: una croce ortodossa veniva buttata nel fiume di fronte alla gente e i ragazzi si tuffavano per recuperarla; chi la trovava, la portava per tutto il villaggio di casa in casa come segno di benedizione, in cambio riceveva in dono qualche soldo. Prima di consegnare la croce alla parrocchia, il giovane la teneva a casa sua per alcuni giorni, simbolo di buon augurio per lui e la sua famiglia, per tutto l’anno. Era una festa davvero speciale.

Al tempo del re Zog le persone soffrivano molto. Ricordo che mia madre, invece della pasta, cucinava la petka, fatta di foglie secche impastate con le uova. La crisi economica, a quel tempo, era forte, i salari troppo bassi e i soldi non bastavano a coprire tutte le necessità. Diverse persone povere e senza lavoro persero case e terre perché, dopo aver chiesto soldi in prestito per comperare da mangiare, non riuscirono a restituirli, e i loro beni vennero confiscati.
Arrivati gli italiani, le cose iniziarono ad andare meglio in varie zone dell’Albania. Furono aperti nuovi posti di lavoro e molti uomini andavano a lavorare a Durazzo, come scaricatori di porto e guadagnavano bei soldi. Giravano tanti soldi che Durazzo la chiamavamo l’America dalle nostre parti.
Nel nostro villaggio si era stabilita una guaigione italiana, essendo per la sua posizione geografica in una zona tranquilla e senza rischi di essere attaccata. I soldati erano molto buoni, lavoratori tranquilli, ci raccontavano delle loro famiglie, delle persone che avevano lasciato in Italia. Uno di loro non andava a casa da due anni e ne sentiva una nostalgia enorme. Noi ragazzi ascoltavamo i loro racconti e provavamo dispiacere per loro.
Ricordo la strada davanti a casa nostra: era molto brutta e piena di buche, ma i soldati la sistemarono e piantarono dei fiori. Dove gli italiani mettevano mano si vedeva subito un grande cambiamento. Quando se ne andarono noi bambini, che avevamo fatto amicizia con loro, provammo grande dispiacere: nessuno ci avrebbe più dato del pane.
Con i tedeschi fu tutto molto diverso. Avevo 16 anni quando occuparono la terra albanese e sentimmo subito il cambiamento: erano persone fredde, arroganti, diverse dagli italiani. Non avevamo più il coraggio di andare da loro per cercare pane, come facevamo prima. Erano persone di poche parole e avevamo paura, anche perché uccidevano e bruciavano le case di chi aveva legami con i partigiani. Erano molto decisi e non esitavano a uccidere. Sparavano alla gente come se facessero il tiro al bersaglio.

Sotto il regime di Enver Hoxha non eravamo liberi di parlare apertamente. Nessuno poteva dire quello che pensava, perché i servizi di spionaggio erano pronti a incastrarti e farti del male. Erano uomini molto intriganti e in ogni momento potevano crearti problemi. La mancanza di libertà era sentita come una menomazione perfino dagli stessi membri del Partito.
Ne è un esempio la brutta esperienza capitata a un cugino più giovane di me. Aveva 18 anni e, come ogni giovane, desiderava una vita diversa. I servizi segreti gli tesero una trappola: lo invitarono in un bar e, dopo aver bevuto insieme come «amici», cominciarono a provocarlo, dicendogli che questa vita non era molto buona, che «il futuro era in Macedonia». Gli fecero credere che erano veramente suoi amici perché si sentisse libero di parlare. Mio cugino si fidò delle loro parole e manifestò le sue idee e i suoi sogni. Lo presero e lui si fece 14 anni di prigione.
Era un periodo molto duro e difficile, pieno di pericoli; ma non posso non riconoscere ciò che di buono abbiamo avuto durante tale regime. Prima di tutto è arrivata l’elettricità: è stato un grande evento; tutta l’Albania si è illuminata. Poi abbiamo avuto la scuola dell’obbligo per tutti; anche l’assistenza sanitaria è stata estesa a tutti.
In quel periodo c’erano molte attività. I giovani partecipavano alla ricostruzione del paese e aiutavano a rendere le terre più coltivabili. Non vi erano molte differenze sociali, perché eravamo una nazione molto povera. Eravamo abituati a non avere frigoriferi, lavatrici, televisione… Eravamo abituati al minimo indispensabile, le altre cose sembrano per noi un lusso.

Mi sposai a 23 anni. Mia moglie aveva 20 anni. Mi innamorai di lei a prima vista, fu un vero colpo di fulmine. A quel tempo ero responsabile della manutenzione stradale e il lavoro mi portava al paese di mia moglie. Quando la vidi per la prima volta, sentii una forte emozione, mai provata fino allora. Lei mi vide e arrossì. Era scoccata la prima simpatia; poi, ogni volta che mi vedeva, usciva sulla porta. Cominciammo a incontrarci di nascosto: a quei tempi era molto pericoloso farsi vedere insieme apertamente, a causa dei pregiudizi.
Ora che il regime è finito, l’Albania si è aperta al mondo esterno; ma tale apertura presenta aspetti contrastanti. Di positivo c’è il fatto che abbiamo conosciuto un mondo a noi precluso e proibito per quasi mezzo secolo. Il rovescio della medaglia è il fatto che tanti giovani sono andati via dal Paese. Essi hanno scelto strade lontane dalle nostre, per una vita migliore.
Anche i miei figli sono andati via: prima la figlia maggiore, già sposata, decise di andare insieme ai suoi figli in Macedonia; pochi mesi dopo partì anche mio figlio minore. Furono le difficoltà economiche a costringerli a emigrare. La loro partenza fu decisa di colpo, a mia insaputa.
Fu un momento per me molto difficile. Sentivo che i miei figli non erano più miei; come se fossero stati comprati da qualcun altro. Inoltre, avevo paura che succedesse loro qualche disgrazia. Erano gli anni ‘90, quando valicare confini era ancora tabù e si rischiava la vita.
Arrivarono in Macedonia, ma ne rimasero delusi, perché non era quello che sognavano e si aspettavano. Rimasero nella zona di Beogroad per sicurezza; facevano qualche lavoro nei dintorni, ma la paga era appena sufficiente per sopravvivere. Mia figlia toò a casa poco dopo; mio figlio invece andò in Grecia. Non seppi più niente di lui, perché non avevamo il telefono. Ormai lo credevo morto e aspettavo da un momento all’altro di ricevere la brutta notizia. Alla fine, mi arrivò una lettera raccomandata che mi fece rinascere: mi scriveva di non preoccuparmi perché stava bene e lavorava al porto di Selanik. Fu la notizia più bella della mia vita.

Ora vivo a Kombinat presso mio fratello e la sua famiglia. È stato un grande cambiamento, alla mia età. Però essi sono stati gentili ad accogliermi, perché mia figlia non poteva occuparsi di me e mio figlio è ancora in Grecia. Speriamo stia bene e che ritorni un giorno.
Quando sono arrivato mi sono misso a piangere: non volevo fermarmi qui, ma dopo la morte di mia moglie non avevo scelta. Ricevo una pensione; non sono mai stato un peso per nessuno e mio fratello mi ha accolto con piacere; da parte mia lo aiuto economicamente. A me sta bene così. Passo il tempo raccontando ai due nipotini la storia mia e di mia moglie. Si siedono sulle mie ginocchia e ascoltano attenti; ma a volte pesano e devo farli scendere. 
Mio fratello è più giovane di me; anche lui ha lavorato sodo e si è comperato una casa: siamo in sei con lui, sua moglie Blerta, la loro figlia e due bambini. Il genero di mio fratello è andato in Germania a cercare fortuna insieme al cugino qualche anno fa. Sta bene, torna quando può, ma i figli non li porta mai con sé: questo io non lo capisco, dal momento che ora si può uscire tranquillamente dal paese. Secondo me ha un’altra donna; ma quando dico queste cose a mio fratello lui si arrabbia e io smetto.
Mio fratello è un gran lavoratore, ma da quando il lavoro nel suo settore è diminuito è nervoso. Io lo aiuto economicamente e mi prendo cura dei bambini ogni volta che mia nipote lavora nel negozio che vende i byrek. Mi piace e mi sento molto utile: rivedo in loro i miei figli e l’amore di mia moglie per loro.
Ma sono stanco. Sento molto la mancanza di mia moglie e dei figli lontani. Mia moglie è morta da anni, ma la sento sempre vicina. Era meravigliosa. Per quattro anni è rimasta a letto paralizzata. Io le stavo accanto e quando l’ho persa mi è sembrato che la mia vita si fosse spezzata. Mi sentivo come un uomo senza gambe e senza braccia.
Il sentimento di solitudine mi rattrista molto. Non ho paura della morte: oggi o domani, tutti dovremo morire. Ho più paura della solitudine: non vorrei morire solo in casa, a porte chiuse, senza qualcuno accanto, come si sente dalla televisione o si legge sui giornali. Anche se ho questi pensieri, credo che la vita sia da vivere in ogni momento.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Vita da Gabel

Storie negate di minoranze etniche

I Gabel sono i rom di Albania, una minoranza etnica che subisce molte discriminazioni e la maggior parte di loro vive in estrema povertà.

La zona dove trovano rifugio gli zingari è la più degradata di Kombinat. Alcuni bambini giocano davanti all’uscio della loro abitazione. Inaspettatamente una pianta oamentale è stata posta all’entrata di quel misero rifugio: il decoro di una pianta che sfida tanta miseria e degrado.
Albana, la madre dei bambini, racconta che l’ha piantata un anno fa e adesso è cresciuta: «I fiori mi piacciono molto, li pianto per abbellire il posto». Ha trovato anche altre piante e le hanno detto che se le mette nel terreno cresceranno.
Indica un ammasso di lattine che raccoglie insieme ai suoi figli per rivenderle: «Trasportiamo le lattine con la carriola, ci danno 50 lekë (40 centesimi di euro) per un chilo di lattine. Per alcuni anni sono stata senza corrente elettrica, ora grazie al permesso di una vicina mi sono potuta allacciare».
Si entra in casa, una casa senza porta, attraverso un piccolo vano arredato con una fatiscente credenza sulla quale sono poggiati alcuni oggetti raccolti tra i rifiuti. Manuel, il bambino, con mossa fulminea tira via dalla stufa la coperta intrisa d’umidità: si sprigiona un odore di muffa e di bruciato insieme.
Non c’è un pavimento, solo grezzo cemento; un vecchio e liso tappeto collega l’ingresso all’unico vano, anche questo privo di porta, che funge da cucina, soggiorno e camera da letto: il letto è costituito da un divano grande e liso; l’angolo di cottura da un fornellino a gas con una vecchia e annerita padella. Accanto a esso una bottiglia d’acqua mezza vuota: le condizioni igieniche sono pessime. Inutile chiedere dov’è il bagno, è evidente che non c’è.
Sul televisore c’è una foto: è il marito morto in un incidente d’auto 5 anni fa; da allora la sua vita già grama è diventata molto difficile: «Quando c’era lui la vita non era così, avevamo una casa in affitto, ma dopo la sua morte è tutto cambiato. Non ricevo nessuna assistenza, perché lui lavorava in nero. I bambini si ammalano spesso perché c’è acqua dentro e fuori la casa. Non so per quanto tempo resterò qua. Finché non arriverà qualcuno a buttarmi fuori. Il proprietario di questo posto vive in Grecia, è una persona della nostra razza; prima di trasferirsi in Grecia mi disse che avrei potuto occupare questo luogo, ma quando toerà me ne dovrò andare».
Albana ha quattro figli: la più grande di 18 anni è già sposata e aspetta un figlio; la seconda ha 15 anni, Manuel 10 e Anisa 9. Un’altra figlia, nata dopo la scomparsa del marito, è morta di stenti: «Quando è morto mio marito ero incinta, mi hanno portata in ospedale dove è nata la bambina, poi non potevo pagare l’affitto e ho dovuto lasciare la casa e la bambina che oggi avrebbe avuto 5 anni non è riuscita a sopportare queste condizioni di vita ed è morta».
La donna prima abitava a Lapraka, un’altra zona di Tirana; il marito faceva vari mestieri, il lustrascarpe, il venditore di stracci, il guardiano notturno e veniva pagato in nero. Alla morte del marito il municipio di Lapraka le ha dato 5.000 lekë (quasi 40 euro) per tre mesi perché il suo era un «caso speciale»; in seguito per due mesi 2.000 lekë e infine più niente, perché, le hanno detto, non c’erano più soldi: «Non era più possibile aiutarmi, ma a me quei soldi facevano comodo, almeno compravo il pane ai bambini». 
Il municipio di Kombinat non può aiutarla perché risulta residente ancora a Lapraka; d’altra parte non può ottenere i documenti necessari per cambiare residenza perché non ha i soldi per pagare le «tasse sull’ambiente»: una situazione drammatica, che assume un carattere grottesco con la richiesta di una tassa per l’ambiente a una donna che vive in tanto degrado! L’unico contributo all’ambiente che possono dare la signora Albana e i suoi figli è raccogliere lattine per sopravvivere.
Dal suo racconto viene fuori una kafkiana situazione burocratica: «Sono andata a prendere un certificato che serviva a mia figlia per sposarsi e non me lo hanno dato perché non ho pagato le tasse. Io non ho i soldi per pagare tutte le tasse; ce n’è una anche per ottenere la carta d’identità, un documento richiesto dappertutto, ma io non posso averlo. Dovrei pagare le tasse per l’ambiente, per la manutenzione degli spazi verdi! Ho chiesto di essere esonerata dal pagamento delle tasse visto che vivo con tre figli in una baracca e mi hanno risposto che devono attenersi alle regole del municipio di Tirana e non possono farci niente. Ho chiesto anche lavoro, ma mi hanno detto che non c’è lavoro. Ad ogni modo cercherò di fare il sacrificio per fare le foto per la carta d’identità, almeno quella».
Un’altra conseguenza di questa che si potrebbe definire «cittadinanza limitata» è l’impossibilità di fruire dell’assistenza sanitaria; Albana fa di tutto per salvaguardare la salute dei figli, ma non si può permettere di prendersi cura della propria salute: «Le vaccinazioni le hanno fatte perché viviamo in un ambiente molto malsano e già così ci ammaliamo spesso. Per le vaccinazioni ho fatto il sacrificio, ma altro non posso. Io sto male, sono malata però non posso andare a prendere le medicine, e ci vogliono i soldi anche per la visita. Ci vogliono soldi pure per aprire un libretto sanitario».
In queste condizioni i bambini non frequentano la scuola, per motivi economici e, soprattutto, perché il pudore materno non permette di mandarli a scuola senza un abbigliamento quantomeno decente: «Mia figlia secondogenita, quando il papà era in vita, è andata per due anni a scuola. Poi dopo la morte del padre non è più andata. Manuel non va a scuola perché non ha i vestiti, poi ci vogliono i certificati, molti documenti. Come faccio a presentarlo a scuola senza vestiti? Non va bene; non è bello! Anisa fino a ieri era senza scarpe; ma ieri ho girato con la carriola per Kombinat e ho trovato questi stivali usati che indossa. Non posso presentarli a scuola così perché non è bello».
Fa male ascoltare una persona che si vergogna della propria miseria. Albana mostra due patate mezze marce per terra, in una scatola, e dice: «Questo ho trovato e questo darò da mangiare oggi ai miei figli. Che posso fare? Questa è la mia vita».
Da 11 anni vive a Tirana, prima viveva a Kukës dove aveva una casa, pur condivisa con il fratello del marito, e dove faceva le pulizie nel municipio. «A Kukës stavo bene; ma anche qui a Tirana si stava bene quando mio marito era in vita, poi lui è morto ed è crollato tutto, perché l’uomo è l’uomo e sa trovare le soluzioni ai problemi».
Non ha nessuno che la possa aiutare: i suoi genitori vivono in un villaggio vicino a Laç, in una piccola casa di due stanze con due sue sorelle, suo fratello e moglie, e non hanno la possibilità di aiutarla: «Poi, anche se andassi là cosa potrei fare? Qui almeno posso raccogliere qualcosa e venderla, ma lì non potrei fare niente. Se avessi la casa ci andrei. Ho paura per i miei figli, per me la cosa più importante è avere una casa».
La sua preoccupazione è che ritorni il proprietario e richieda la baracca in cui abita; in tal caso non saprebbe proprio dove andare.
È la vita angosciante di una madre sola, in una situazione disperata, che vive in una città non sua e ha come unico scopo della sua vita quello di proteggere i suoi figli, «Oggi ho paura a lasciare i figli da soli; quando vado a lavorare li porto sempre con me. Certo prima stavo meglio perché ero giovane, non avevo la responsabilità dei figli, mentre adesso devo badare a loro e non li lascio da soli sulle strade, anche loro lavorano con me e si stancano con me».
Anisa, la più piccola, mi dice che le piacerebbe andare a scuola, a lei piace ballare e da grande vuole fare la ballerina. La madre conclude: «Io vivo per i ragazzi, a me non piace più vivere così, ma devo farmi forza per loro, la mia vita è finita, speriamo che si possa fare qualcosa. Io ho 34 anni, li ho compiuti a dicembre. Eh! così è andata la mia vita».

Federico Gallas

Federico Gallas