F35 e servizio civile

«Un solo cacciabombardiere F35 in meno significa almeno 20 mila giovani che possono prestare servizio civile per un anno». È questa la provocazione, o forse meglio, il suggerimento lanciato da Licio Palazzini, presidente della Consulta nazionale per il Scn (Servizio civile nazionale) e di Arci servizio civile, per aumentare l’attenzione della politica e dei media sul rischio concreto che il Scn chiuda i battenti per mancanza di fondi.
La questione dell’acquisto di F35 da parte del Goveo italiano, all’interno di un programma internazionale con altri otto paesi (capofila gli Usa), con l’impegno economico per l’Italia per una spesa di 15 miliardi di euro da qui al 2025, ha acceso roventi polemiche, soprattutto considerato il tempo di crisi sferzante. Polemiche che hanno sortito un cambiamento parziale: l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, ha annunciato la riduzione del numero dei velivoli da acquistare da 131 a 90, cioè 41 in meno. All’apparenza è un primo buon segno, che però le associazioni pacifiste hanno criticato perché, secondo loro, in particolare gli studiosi della Rete italiana per il disarmo (www.retedisarmo.org, promotori della petizione «Taglia le ali alle armi»), è l’intero programma di acquisto che va bloccato, dato che i costi continueranno a salire e la costruzione dei velivoli, che avverrà a Cameri, provincia di Novara, non porterà molti nuovi posti di lavoro: si parla di meno di un migliaio, contro i 10 mila sbandierati dal ministro.
Nel frattempo, un ragionamento immediato si può fare, come accennava Palazzini: destinando il costo di un velivolo in meno al Servizio civile, si garantirebbe un anno di esperienza ad almeno 20 mila giovani. L’idea sta piacendo a molti, volontari in primis, ma anche altri enti storici del sociale italiano, come le Acli o il movimento di Pax Christi. «Seguiamo l’esempio degli altri partner del programma F35, che stanno ridimensionando il loro impegno – chiedono le Acli ai rappresentanti del Goveo italiano -; oggi la difesa del paese è la difesa delle fasce sociali più deboli e la messa in sicurezza del nostro territorio». Pax Christi, inoltre, elenca una serie di «acquisti alternativi» a un caccia da guerra F35 (e quindi alle spese militari), cominciando proprio dai 20 mila posti di servizio civile, per poi proseguire con «32 mila borse di studio universitarie, o 250 scuole italiane messe in sicurezza, o 20 nuovi treni per pendolari, o l’indennità di disoccupazione per 17 mila persone senza lavoro».

Daniele Biella

Daniele Biella




Altri ci copiano

Forme di servizio civile nel mondo

Verrebbe da non crederci, ma è proprio così: una volta tanto, l’Italia è un esempio virtuoso per tutto il mondo, perché il suo servizio civile volontario è probabilmente l’esperienza più all’avanguardia a livello internazionale. O almeno, lo era fino a poco tempo fa, quando i pesanti tagli e il conseguente spauracchio della chiusura non facevano ancora notizia. «Quando siamo andati a presentarlo a Bruxelles, qualche anno fa, tutti si sono complimentati con noi e parecchi ci hanno detto: studieremo il vostro modello per replicarlo da noi».
A scandire queste parole è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, Ufficio nazionale servizio civile, ma componente del ministero della Difesa già dal 1994. Grande esperto della storia dell’Obiezione di coscienza (Odc), ha anche una visione completa di quello che accade negli altri paesi in termini di esperienze di difesa della patria, alternativa a quella militare. Di recente ha pubblicato il libro-saggio Le vie del servizio civile (Gangemi editore), in cui il tema centrale è proprio l’analisi generale delle «virtù civiche giovanili» tra l’Europa e il mondo globalizzato. «Il servizio civile, in tutte le sue forme, tiene in piedi i legami della democrazia, anche perché incide su aree difficili, su problematiche in cui gli stati a volte fanno fatica a intervenire in modo completo», spiega De Cicco.
Oltre al modello italiano, a livello europeo le esperienze più radicate sono quelle della Francia e della Germania. «Per i francesi l’Odc è realtà fin dal 1963. Dal 1997, inoltre esiste il Servizio nazionale universale, poi diventato Service civique nel 2010, che dura dai 6 ai 24 mesi e sta riscuotendo un buon successo: nel 2011 sono partiti 25 mila giovani tra i 16 e i 25 anni», illustra il cornordinatore dell’Unsc.
In Germania, l’anno scorso, i volontari sono stati addirittura 35 mila, proprio nel primo anno di sperimentazione del Servizio civile volontario, «introdotto dal Goveo tedesco a fine 2010, quando è stata sospesa la leva obbligatoria – continua De Cicco -; prima esisteva il servizio civile obbligatorio, 9 mesi in patria oppure 11 all’estero, per chiunque rifiutava l’uso delle armi». Dal 1961 al 2009 sono stati ben 3,2 milioni i giovani obiettori tedeschi.
Le altre esperienze di Servizio civile volontario in Europa si trovano in Danimarca, Repubblica Ceca e Svezia (solo per le donne). Comunque, l’Odc è realtà in tutte le nazioni del vecchio continente.

A livello generale di Unione Europea, invece, si stanno compiendo i primi passi per la nascita di un Servizio civile comunitario. «È la vera partita da giocare, per rendere effettivo il sentirsi parte di una cittadinanza estesa: dovrebbe nascere un servizio che promuove diritti politici, sociali e culturali», chiosa De Cicco nel suo libro. È un’interessante prospettiva, però ancora molto sulla carta, così come lo sono i corpi civili di pace europei: una sorta di evoluzione della pratica di servizio civile, composta sia da volontari che da specialisti (quindi membri permanenti, pagati dal singolo Stato o dall’Ue) che possono incidere in prima persona in un conflitto armato, interponendosi tra le parti, come è avvenuto per i primi obiettori italiani che si sono recati a Sarajevo a inizio anni ’90, durante l’assedio della città.  
Nel resto del mondo, la diffusione del Servizio civile alternativo al militare è a macchia di leopardo, e soprattutto nelle Americhe, come riporta il Centro interuniversitario di studi sul servizio civile dell’Università di Pisa (Cissc), mentre quelle di servizio volontario sono davvero poche.
Il caso più virtuoso è senza dubbio quello degli Stati Uniti d’America, dove dal 1990 esiste Americorps, un programma di volontariato ad ampio raggio a cui partecipano ogni anno almeno 70 mila ragazze e ragazzi. Al suo interno esiste il National civilian community corps, che dura 10 mesi, è aperto ai giovani dai 18 ai 25 anni e ha caratteristiche simili al Servizio civile volontario italiano. Inoltre, il Goveo federale statunitense sta per approvare quest’anno il Voluntary national service act, che serve ad arruolare nuovi volontari per «missioni» delicate, come il contrasto alla piaga della dispersione scolastica, il sostegno alle famiglie povere e l’assistenza sanitaria per i più deboli.
Un’altra dimensione significativa di servizio civile nei paesi esteri è quella brasiliana, dove però il Servizio civile volontario, attivo dal 2000 e lungo 6 mesi, è disegnato per chi è esente dagli obblighi di leva. Mentre in Argentina si sta dibattendo dal 2010 una proposta di Servicio civil voluntario che però è arenata in Parlamento.
C’è da segnalare il servizio civile nato da qualche anno in Israele, aperto ai renitenti alla leva per motivi religiosi e alla popolazione arabo-israeliana (quindi non a tutti gli altri, che devono svolgere il servizio militare obbligatorio), ma criticato dalle associazioni locali perché gestito di fatto dall’apparato di sicurezza israeliano e quindi privo di quell’autonomia dal mondo militare che compete a un’esperienza di servizio civile propriamente detta.

Daniele Biella

Daniele Biella




Giulietta parla rumeno

Un’anasili del fenomeno

I matrimoni misti – intesi come unione tra una persona italiana e una straniera – sono ormai oltre il 15% del totale. Il fenomeno è dunque rilevante. Si tratta di un indebolimento del «controllo sociale» o di una conseguenza dell’integrazione e stabilizzazione della componente immigrata della società italiana? In ogni caso, diventare una coppia mista significa confrontarsi con mondi, tradizioni e modelli di comportamento diversi. Oltre che con pregiudizi, stereotipi e pressioni provenienti dalle famiglie d’origine e dalla società. Per tutto questo, rispetto ad un’unione «tra nativi», una coppia mista può risultare più fragile. Quando però essa ha successo, il beneficio ricade sull’intera collettività.

Secondo la professoressa Tognetti Bordogna dell’Università di Milano-Bicocca, pioniera del tema in Italia, «matrimoni o coppie miste» (di solito utilizzati in modo indifferenziato, nonostante le implicazioni legali evidentemente diverse) sono due termini che si riferiscono all’istituzione sociale per la quale due persone, tradizionalmente un uomo e una donna, di paesi diversi, background culturali diversi, religioni diverse o classi socio-economiche diverse, si uniscono in un legame sentimentale (anche se in tanti casi non necessariamente) che viene socialmente riconosciuto e che implica, d’accordo con le condizioni stesse dell’unione, effetti legali.
Queste unioni, sia formali che informali, non sono un fenomeno sociale nuovo. Quando ancora non esisteva il sistema degli Stati-nazione, quando i viaggi erano più difficili da realizzarsi per difficoltà nei sistemi di trasporto e quando la conoscenza e la comunicazione con altre regioni geografiche erano scarse, poteva essere considerato matrimonio misto anche quello tra due persone di diversa provenienza familiare (matrimonio fuori dal circolo dei cugini e altri parenti), di un’altra città (anche se vicina e con un background culturale non molto diverso), di diverse correnti all’interno di una stessa religione o di età particolarmente diverse (quando il matrimonio non era stato anticipatamente approvato dai genitori). Nella storia, casi illustri di unioni miste sono state, per esempio, quelle tra Cleopatra e Giulio Cesare, tra La Malinche e Hean Cortes (dalla cui unione nacque Martin Cortes, uno dei primi meticci nel Nuovo Mondo), e tra Luigi XVI di Francia e Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena. Studi archeologici e storici hanno evidenziato anche l’incidenza di unioni miste a livello popolare (dunque non solo tra i membri delle classi più alte delle società). Alcuni esempi sono quelli citati da Franco Marzatico1, tra membri di comunità etrusche e celtiche negli Appennini bolognesi, oppure quelli citati da Massimo Guidetti2 tra barbari e romani. In ambito letterario è anche possibile nominare per esempio due delle più famose opere di William Shakespeare, Otello e Romeo e Giulietta, nelle quali le coppie protagoniste sono caratterizzate da differenze razziali e familiari nelle società rispettivamente veneziana e veronese del Cinquecento.

L’elemento comune di queste unioni è che esse rappresentano una rottura evidente dei confini imposti dalle convivenze «tradizionali» e dei limiti – impliciti o espliciti – esistenti tra le classi sociali. L’elemento in continua trasformazione è invece costituito dalle categorie sociali che vengono prese in considerazione quando un rapporto di coppia viene definito come «misto». Oggi, ad esempio, il senso comune, i mass media e la società considerano matrimoni misti, quelli in cui un coniuge ha la cittadinanza italiana e l’altro è straniero (oppure con cittadinanza italiana, ma nato e/o cresciuto in un altro paese e quindi con un background culturale diverso). Queste unioni, passando dal 5,1% nel 1998 al 15% nel 2008, appaiono di estremo interesse poiché si pongono come elemento di «interazione» tra le diverse componenti della popolazione e come testimonianza del melting pot culturale che sta progressivamente contraddistinguendo anche l’Italia, paese di «nuova» immigrazione.
Il formarsi di coppie «miste», inoltre, è considerato generalmente un indicatore sia di indebolimento del controllo sociale delle comunità di appartenenza sui propri membri sia di integrazione nella società «di destinazione». La nuzialità dei cittadini stranieri, infatti, rappresenta uno degli indicatori più significativi del processo di stabilizzazione delle comunità immigrate nel nostro Paese. In questo modo, il matrimonio misto si presenta sia come un interessante laboratorio per l’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano la relazione coniugale tout court sia come un luogo di sperimentazione e negoziazione di pratiche e significati culturali, sociali, religiosi, alimentari, etc. La mixitè3, infatti, comporta allo stesso tempo rottura e incontro rispetto a quelle che sono le differenze messe in gioco tra i partner; queste rotture e incontri (riferiti da diversi studiosi del tema come i processi ambigui che continuano a riprodursi non solo all’interno della vita ordinaria della coppia, ma lungo il percorso di vita dei loro discendenti) comportano a loro volta cambiamenti che possono toccare anche le famiglie dei partner e i gruppi sociali a cui questi appartengono. Da queste unioni derivano così importanti implicazioni sociali, psicologiche, giuridiche, religiose e anche economiche a livello collettivo.

Da una prospettiva sociologica è interessante considerare la distanza che può esistere tra i paesi d’origine dei due coniugi (distanza culturale, economica, politica, demografica, etc.), che si traduce, all’interno dei nuclei familiari, in un’unione tra individui che sono stati socializzati a differenti modelli di comportamento (su divisione dei ruoli tra i sessi, educazione dei figli, rapporti con le famiglie d’origine), e spinge a riconoscere che ci sono, in alcuni casi, differenze «più diverse» di altre.

Gli studi già effettuati su queste nuove forme familiari hanno evidenziato la possibilità di una suddivisione in tre livelli dei problemi specifici che le coppie miste debbono affrontare: il livello interindividuale, il livello intercomunitario e quello interstatale.
Certamente, per ogni individuo, il diventare coppia richiede di «fare i conti» col proprio passato, ed è pur vero che ogni nuova coppia -indipendentemente dal proprio background -, si trova a compiere un lavoro di «rinegoziazione» di situazioni in precedenza regolate per ognuno dei due partner da principi e tradizioni legate alla propria famiglia e alla propria origine. Nella coppia mista si confrontano due individui che, nella loro socializzazione, hanno interiorizzato due mondi diversi, probabilmente due concezioni diverse del matrimonio, ognuno con una propria definizione della realtà. È evidente però che lo sforzo richiesto ai partner sarà direttamente proporzionale alla distanza dei loro mondi rispettivi. In questi ambienti familiari sarà quindi particolarmente rilevante la capacità di gestione della doppia appartenenza e il grado di conoscenza, per entrambi i coniugi, della cultura e del mondo dell’altro. È però importante tenere presente che i comportamenti nella coppia mista non sono ascrivibili né a modelli culturali del paese d’origine né a modelli presenti in Italia, ma sono molto spesso oggetto di un processo di reinterpretazione.
Diversi studiosi parlano della coppia mista come di un «corpo a corpo interculturale», proprio perché un matrimonio di questo tipo richiede la rinegoziazione di una quantità impressionante di situazioni, prima regolate diversamente. L’esperienza di alcuni consultori interetnici ha evidenziato come la vera comprensione tra i coniugi sia frutto di una capacità comunicativa che conduca entrambi alla conoscenza della lingua e della cultura dell’altro. Conoscere il mondo del partner è infatti fondamentale perché aiuta a non perdere la propria identità, a sviluppare una maggiore competenza nel prendere insieme le decisioni e nel risolvere i conflitti, a sviluppare relazioni soddisfacenti con la famiglia d’origine del proprio coniuge. L’esigenza di arrivare a una nuova «definizione della realtà», ad una mediazione fra modelli culturali, è quindi da ritenersi fondamentale per la riuscita e la stabilità del rapporto coniugale. Per questo le coppie miste vengono definite «laboratori interculturali» in quanto il confronto con «l’altro» non è teorico, ma reale e quotidiano.
Il secondo livello di interazione è quello delle relazioni tra le comunità. Tanto più i due sposi appartengono a comunità tra loro lontane, per tradizione, lingua, cultura, religione, tanto più sarà difficile per tali gruppi accettare o per lo meno condividere la decisione di un proprio membro di sposarsi al di fuori del gruppo. La scelta di un partner straniero, infatti, viene spesso letta come provocazione nei confronti dell’educazione ricevuta e del proprio gruppo di appartenenza, come gesto di negazione del legame familiare e sociale in quanto ci si pone fuori dai confini del «territorio simbolico» della comunità d’origine. Di frequente il matrimonio misto è quindi elemento di isolamento dal contesto e dal sistema relazionale d’origine dei membri della coppia: le coppie cambiano amici, allentano i legami con le rispettive famiglie. È a partire dalle famiglie di appartenenza degli sposi e dagli amici che si manifestano infatti pregiudizi, stereotipi, pressioni.
Al terzo livello di «problematicità» troviamo i rapporti tra i due Stati di cui i partner sono cittadini, e in particolare i legami esistenti o mancanti tra i rispettivi sistemi giuridici. Questo livello è importante quale tutela non solo dell’istituzione famiglia, ma dei singoli componenti della stessa. A volte la chiarezza giuridica manca sin dal momento della ufficializzazione dell’unione. La mancanza di accordi a livello giuridico si rileva particolarmente importante in caso di custodia dei figli, eredità, divorzio.

Anche a causa dei problemi evidenziati, le coppie miste possono risultare più fragili rispetto a quelle «tra nativi» e dunque più a rischio di rottura e fallimento. Tuttavia, esse si configurano anche come importantissimi luoghi di incontro, dialogo e sviluppo di pratiche interculturali che possono coinvolgere non soltanto la rete familiare dei coniugi, ma l’intera comunità.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Il cammino della società multiculturale

Le famiglie e le seconde generazioni

Rifiuto e disapprovazione oppure accoglienza e accettazione: l’atteggiamento della famiglia verso il partner straniero del figlio/a è fondamentale per la sorte di una coppia mista. Il prevalere di un atteggiamento rispetto all’altro ha evidenti conseguenze sociali. Decostruire stereotipi e pregiudizi serve infatti per favorire la nascita e lo sviluppo di una vera società multiculturale. Che ha nelle seconde generazioni – i figli degli immigrati nati in Italia – un tassello essenziale.

Una delle molteplici conseguenze dell’incremento nel numero di migranti inteazionali in tutto il mondo (192 milioni nel 2010, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, Oim) è stata l’aumento dei cosiddetti «matrimoni misti» («coppie miste»). Essendo un fattore di rottura e messa in discussione delle regole «tradizionali» dello Stato e delle comunità di origine dei partner (ognuna con le proprie caratteristiche culturali e religiose), queste unioni sono state molto spesso disincentivate tramite specifici strumenti di controllo sia giuridici che sociali. Lo Stato ha usato i suoi mezzi coercitivi, ad esempio, durante l’apartheid in Sudafrica e il nazismo in Germania, inserendo leggi ad hoc che proibivano espressamente i matrimoni interrazziali. Nel caso delle famiglie e delle comunità, invece, gli strumenti usati variano (variavano) dalla negazione dell’eredità ai figli all’adozione di comportamenti ostili nei confronti del partner considerato «estraneo» e perciò non gradito.
Queste attitudini e/o comportamenti da parte delle famiglie possono manifestarsi anche nel caso di partner «omogenei», quando la scelta del figlio/figlia non è particolarmente apprezzata. Però sono ancora più presenti nel caso delle coppie miste, a causa della maggiore evidenza delle differenze. Così, nonostante la crescente inteazionalizzazione del mondo, lo sviluppo di questo come «villaggio globale» e i sempre maggiori spostamenti delle persone, abbiano aumentato la possibilità di tali unioni, queste risultano ancora suscitare perplessità e/o disapprovazione presso non poche società. D’altronde, qui entrano in gioco le regole endogamiche ed esogamiche che precisano e classificano tutti i possibili/non possibili partner matrimoniali per i membri di ogni società. La visibilità della mixité inoltre – nella coppia prima e negli eventuali figli poi – e il fatto che l’«appartenenza razziale» sia un costrutto sociale con numerose, ramificate e pervasive conseguenze sull’organizzazione sociale degli spazi, delle risorse, delle aspettative, etc., costringe la coppia e poi la famiglia mista a stare sulla scena pubblica e a dare conto delle proprie scelte in modo molto più sistematico e diffuso rispetto ad ogni altro tipo di coppia.

L’ATTEGGIAMENTO DELLA FAMIGLIA
Secondo la professoressa Gaia Peruzzi dell’Università di Sassari, che ha sviluppato nel 2008 un’interessante e ampia ricerca sulle coppie miste in Toscana, «in questa sfida, in questa prova di coraggio nei confronti della famiglia e dell’ambiente circostante, si legge anche la speranza delle coppie miste, la promessa da parte di due individui di accogliere le proprie diversità, e di rapportarsi con una cultura altra rispetto a quella di origine». Nella ricerca viene inoltre evidenziato che in Italia il ruolo delle famiglie – e particolarmente dei genitori italiani – nella vita delle coppie miste è molto importante, proprio perché dai giudizi delle stesse dipende spesso il grado in cui la coppia viene considerata come mista e perciò diversa. Mentre – al contrario – dalla loro accoglienza e accettazione dipende in buona parte il processo di adattamento del partner straniero in particolare.
L’importanza dell’atteggiamento e soprattutto del supporto delle famiglie italiane verso le coppie miste che vivono in Italia è particolarmente evidente poiché nel nostro Paese molti servizi di cura e di assistenza sociale ricadono direttamente sulle famiglie stesse. Grazie alla diffusione di una cultura che ormai considera la libera scelta del partner un diritto individuale esplicitamente riconosciuto e praticato – almeno tra le generazioni più giovani -, le famiglie degli italiani intervistati nella ricerca, che hanno deciso di sposare o di convivere con un partner straniero, non si sono opposte (per lo meno apertamente) alla scelta dei figli: «Un’opposizione aperta di genitori e familiari di fronte alla decisione di un parente si configura, al giorno d’oggi, abbastanza remota, inattuale perfino come ipotesi». Allo stesso tempo, però, molti individui intervistati hanno sperimentato diverse attitudini e/o comportamenti di rifiuto e disapprovazione più sottili («di gentilezza, ma con distacco») da parte dei genitori e di altri parenti, in particolare rivolti al partner straniero.
Laddove però i partner stranieri vengono più facilmente accettati, questo è dovuto a due caratteristiche comuni delle famiglie: un atteggiamento di curiosità e di apertura alla diversità (spesso percepita come qualcosa di esotico), oppure una percezione del partner straniero come un possibile aiuto nei lavori di casa, nella cura dei parenti anziani, o come compagnia per il figlio, in molti casi divorziato o vedovo.

LE SECONDE GENERAZIONI
Un’attenzione particolare va rivolta alle famiglie dei partner stranieri, soprattutto per quelli appartenenti alle seconde generazioni ossia i «figli di immigrati e non gli immigrati», come si definiscono essi stessi nel blog della Rete G2-seconde generazioni1. Questi giovani spesso non hanno compiuto alcuna migrazione, o, anche se nati all’estero, non sono emigrati volontariamente, ma sono stati portati in Italia da genitori o da altri parenti. Hanno compiuto in Italia tutto o parte del loro processo di socializzazione, ma rimangono talvolta esclusi dalla concessione della cittadinanza e – rischiando di essere considerati stranieri sia nel paese di origine dei genitori sia in quello di destinazione – possono riprodurre forme di downward assimilation2, anche in ambito matrimoniale. Questi individui però, proprio per la discontinuità del proprio percorso di crescita rispetto a quello dei genitori e per la diversa posizione sociale nonché per l’esperienza nella società italiana, possono anche rappresentare un fattore di profondo cambiamento degli assetti sociali.
La società stessa è ormai in buona parte transnazionale e globalizzata e appare sempre più insostenibile per i giovani figli di immigrati doversi integrare o assimilare in un modello culturale precostituito, chiuso nei confini di una nazione o di una comunità. Le seconde generazioni ricercano, al contrario, forme di riconoscimento identitario plurali, stratificate e fluide, che consentano di rendere conto in modo più adeguato di un’esperienza quotidiana caratterizzata da complessità e capacità di adattarsi a contesti mutevoli e in costante trasformazione. Esse sperimentano pratiche di multiculturalismo quotidiano, ossia un insieme di strategie che vengono usate in modo contingente e che articolano ironia, mimetismo, ostentazione, enfasi ed erranza, che permettono a ognuno di costruire la propria individualità e differenza, rivendicata ormai su scala sopranazionale, linguistica, religiosa, etc., e in riferimento a gusti, estetiche, simboli e tradizioni che travalicano i confini di uno Stato.

TRA LA CULTURA EREDITATA E QUELLA ACQUISITA
I giovani, soprattutto quelli nati in Italia, infatti, pur riconoscendosi per certi aspetti sostanziali (soprattutto nello stile di vita, nelle abitudini, nella libertà e nelle opportunità a disposizione) come italiani non sono facilmente disposti a negare o occultare altre forme di riconoscimento (soprattutto per ciò che concee i valori, le tradizioni e i legami familiari). Le seconde generazioni incarnano, dunque, spesso non senza fatica e conflitti, le due culture, quella ereditata dai genitori e quella acquisita in Italia. E spesso il confronto/scontro con la propria famiglia e la loro comunità di appartenenza avviene rispetto ad alcune scelte fondamentali come quella del partner.
Il formarsi di coppie miste, infatti, può essere percepito come un indicatore di indebolimento delle comunità di appartenenza e un motivo di vergogna per la famiglia in cui questo avviene, segno del «fallimento» nell’educazione dei figli (ma soprattutto delle figlie).
Un esempio interessante viene descritto da una ragazza musulmana nel blog delle seconde generazioni Yalla Italia3: «Dover affrontare i propri genitori e presentare il “prescelto”, è di per sé imbarazzante, figuriamoci poi se quest’ultimo non ha tutti i requisiti necessari al posto giusto, gli manca un “pezzo”, insomma, un lieve difettuccio che “cozza” con i canoni del bravo ragazzo, preferibilmente arabo e assolutamente musulmano. Un diversamente musulmano? No! Apriti cielo. Sacrilegio, tragedie greche e anche telenovelas venezuelane, tutte insieme. Si inizia con un: “Ma con tutti quelli che ci sono al mondo proprio uno non mussulmano?”, per poi infierire su quel poco di sicurezza rimasta: “Sei proprio scesa in basso”, e ancora infliggerti un: “Perché ci hai fatto questo? Sparleranno tutti di noi”».
Nel racconto della ragazza questo sembra emergere come l’aspetto peggiore, quello che conta di più o, meglio «che conta di più per loro – i genitori e la comunità – che per noi», poiché provoca il giudizio su se stessi e la propria famiglia: «Ed ecco che gli amici, la società, i compagni di preghiera, i tuoi parenti o serpenti, insomma tutti sono lì pronti a giudicare sia te, facendoti sentire “sbagliata”, sia la tua famiglia che non è riuscita a compiere il miracolo di crescerti “come si deve”».
E così le seconde generazioni sono chiamate, per l’ennesima volta nella loro vita, a mediare, negoziare e definire pratiche e spazi di riconoscimento, modelli di comunicazione e forme di identificazione che tengano conto non solo dell’identità nazionale, ma che includano anche le lealtà ai legami familiari, alla religione, e ad una presunta e continuamente rielaborata appartenenza etnica e culturale.

DECOSTRUIRE PER COSTRUIRE
Se da un lato le attitudini e i comportamenti dei genitori (italiani e non italiani) verso le coppie miste hanno spesso un forte carattere strumentale e/o stereotipato, dall’altra l’esperienza di moltissime coppie miste mostra che i successi sono possibili e che gran parte dell’accettazione, della condivisione e del sostegno alla scelta del figlio si costruisce attraverso la conoscenza del partner e della sua cultura. Quando abbiamo chiesto a Marta e Manuel, coppia italo-dominicana in attesa di un bambino, di immaginare loro figlio tra 20 anni in una relazione «mista», hanno inizialmente mostrato di avere le stesse perplessità dei loro genitori. Poi si sono guardati, sono scoppiati a ridere e si sono corretti: «Prima di giudicare cercheremo di conoscere la persona di cui nostro figlio si è innamorato. Non vogliamo che sia vittima degli stessi stereotipi o pregiudizi di cui siamo stati vittime noi».
Se davvero così sarà, è allora possibile sostenere che davvero i matrimoni misti sono segnali di integrazione. Essi aiutano a sviluppare idee e comportamenti che potranno «decostruire» stereotipi e pregiudizi che troppo spesso non permettono di costruire relazioni umane e di coppia su cui fondare una società realmente inclusiva e rispettosa delle differenze.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




I dilemmi della famiglia biculturale

L’ora delle scelte

Come si comportano le famiglie miste con i propri figli? Anche in questo caso le possibilità possono essere le più diverse, a seconda che la coppia scelga di valorizzare entrambe le culture, di optare per quella italiana oppure di vivere nell’incertezza. Probabilmente, soltanto quando la cultura sarà vista come elemento dinamico e in evoluzione, potrà nascere una società «diversamente italiana».

Diverse ricerche condotte dagli anni ’90 ad oggi hanno mostrato che esistono tre differenti modalità di gestione delle differenze e delle appartenenze nelle relazioni della famiglia con i figli e con la società. Secondo Graziella Favaro, pedagogista che da anni si occupa di inserimento e successo scolastico di minori stranieri e figli di coppie miste, la famiglia mista può sentirsi: un gruppo cosmopolita; assimilata alla maggioranza; un nucleo instabile e in continua tensione a causa delle differenze esistenti tra le due culture di riferimento familiare.

la FAMIGLIA COSMOPOLITA
Nella prima tipologia familiare i coniugi vivono la propria appartenenza biculturale come un’occasione di arricchimento per sé, per gli altri e tanto più per i figli. In queste unioni le scelte importanti per la vita del figlio vengono rimandate in quell’età in cui il figlio potrà decidere da solo. Questo avviene, ad esempio, in molte coppie in cui la sfera religiosa non è ritenuta fondamentale (i cosiddetti «tiepidi») per cui vengono considerate altre le cose prioritarie da insegnare al proprio figlio. L’atteggiamento dei genitori è orientato alla valorizzazione di entrambe le culture in modo da far conoscere indistintamente tradizioni, valori, usi, al fine di mantenere vive le radici familiari e il sentimento di appartenenza di ogni individuo. Sotteso a questo approccio c’è spesso una conoscenza e un amore per l’altra cultura talvolta anche precedente l’incontro col partner e l’idea che non si sia così distanti, ma sia solo questione di «smussare un po’ gli angoli». Il figlio di queste coppie è quindi portato a vivere una situazione di doppia appartenenza non conflittuale, non considerando minoritaria né l’una né l’altra cultura.

la FAMIGLIA ASSIMILATA
Le famiglie miste che tendono invece all’assimilazione optano per l’accantonamento della cultura e delle origini del coniuge straniero in quanto considerate di intralcio o comunque non funzionali all’inserimento del nucleo familiare, e nello specifico del bambino, nella società in cui esse vivono. L’«invisibilità di un pezzo di storia familiare» sembra essere il prezzo da pagare per proteggere il figlio dalle possibili aggressioni di un ambiente e di un paese che appare discriminante e xenofobo.
È la voce diretta degli interessati che spesso conferma questo aspetto: «Se nel tuo compagno la diversità può essere proprio quell’elemento che attira, che incuriosisce, che stimola l’interesse… quando hai un figlio le cose cambiano perché vorresti solo che tuo figlio fosse il più possibile uguale a te…».

la FAMIGLIA INSTABILE
Le coppie appartenenti al terzo gruppo sono invece coloro che ancora non hanno trovato un’armonia intea e una collocazione nel più ampio ambiente sociale poiché non sono ancora arrivate ad elaborare le differenze alla pari, considerando di eguale valore ed importanza entrambe le culture di riferimento. Queste famiglie vivono in una situazione di continuo conflitto rispetto ad ogni scelta educativa ed identitaria: di conseguenza, le relazioni intee sono stressanti e conflittuali sia per i coniugi sia per i figli i quali vivono la loro appartenenza a due culture in modo problematico e, spesso, scelte orientate ad una piuttosto che all’altra cultura sono vissute come un tradimento nei confronti di uno dei due genitori. Le situazioni di disagio spesso possono evidenziare anche l’esistenza di una disparità nel potere decisionale dei due adulti che li induce a lottare per far prevalere una sola cultura e per trasmettere le tradizioni di un solo paese, il proprio.

LE SCELTE EDUCATIVE
Se nella coppia la differenza, la diversità dell’altro può essere occasione di arricchimento, nella relazione con il bambino far prevalere cultura, abitudini, valori di un genitore, può far emergere sentimenti di perdita e rinuncia. Ecco, dunque, che nelle coppie miste le scelte educative per i figli sono il banco di prova di una negoziazione (o della mancanza della stessa) all’interno della coppia e tra la coppia e l’esterno (famiglie di origine, società di accoglienza). Per tutto questo, per le famiglie miste, l’educazione dei figli è uno degli ambiti più difficili da gestire ed il passaggio famiglia – scuola diventa estremamente delicato.
L’ingresso nella scuola matea, in particolare, segna per i bambini anche il primo confronto con il gruppo, e dunque il confronto con la diversità: il gruppo è il luogo in cui è possibile elaborare la dialettica appartenenza – individuazione, entrambe necessarie allo sviluppo psichico e alla crescita sociale. Il bambino, infatti, nel confronto con gli altri scopre la sua diversità (e le sue somiglianze), mentre gli adulti si trovano a rapportarsi con un’istituzione che ha regole che spesso richiedono un’esplicita dichiarazione della propria scelta sul figlio: l’alimentazione, la lingua, la religione.
Seguendo Favaro, si possono distinguere tre tipologie di scelte dei genitori che ricalcano i gruppi precedentemente individuati: i cosmopoliti; gli assimilati; gli instabili.
I primi sono quei genitori che cercano, attraverso spazi e decisioni quotidiane, di costruire, per i loro figli, legami e appartenenze plurali, senza che vi siano fratture e distanze. Del secondo gruppo fanno parte i genitori che tendono a fare scomparire ogni traccia di memoria e di appartenenza alla cultura altra (quella straniera). Infine, ci sono coloro che oscillano tra scelte ambivalenti e conflittuali che ricadono con effetti talvolta estremamente negativi sul bambino.

«NON SONO MICA UN’EXTRACOMUNITARIA!»
Dal punto di vista dell’istituzione scolastica, invece, è importante da un lato evitare il rischio di non considerare la doppia origine di questi bambini (dato che non sempre la diversità di origini è accompagnata e annunciata da un’evidenza percepibile a prima vista). Dall’altra, occorre non cadere nell’errore di definire «diverso» chi poi nella realtà non lo è, di valorizzare un’appartenenza culturale non sentita o sentita in modo personale (e spesso più complesso) dall’interessato e che è opinabile sia compito della scuola conservare e tramandare.
In una scuola di Milano, ad esempio, quando una ragazzina, figlia di un’egiziana e di un italiano, si è sentita proporre di seguire un corso di arabo a scuola, ha replicato un po’ stizzita: «Non sono mica un’extracomunitaria!». Diventa sempre più importante, inoltre, dato l’aumento delle seconde generazioni, figli di stranieri nati sul territorio italiano, evitare il rischio di reificazione delle culture e di imposizione al bambino «di origine straniera», ma nato e cresciuto in Italia, di una cultura che spesso sente sua tanto quanto, se non meno, quella italiana. Da questo punto di vista è emblematica la storia che l’antropologo Marco Aime racconta a conclusione del suo libro Eccessi di culture1 (la storia a sua volta gli è stata raccontata da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere di Torino caratterizzato da una forte presenza di immigrati): «In una scuola matea del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto ad un piccolo di origini marocchine: “Ti piace?” “Sì”. “È come quello che fa tua mamma?” e la risposta del bambino è stata: “Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”».
È pertanto fondamentale ricordarsi che la cultura non è qualcosa di statico, ma è un processo creato e ricreato dall’incontro tra individui ed è perciò in continua trasformazione ed evoluzione. Le coppie miste e le istituzioni educative sono chiamate a sperimentare congiuntamente pratiche creative nuove e a beneficiare dei successi degli uni e degli altri, sfidando preconcetti e definizioni per la costruzione di una nuova società «diversamente italiana».

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Conoscersi attraverso il cibo

Mangiare in una coppia mista

Le coppie miste sono un laboratorio interculturale, dove le differenze si incontrano, si scontrano e si trasformano. Ruoli di genere, divisione del lavoro, uso del denaro, educazione dei figli, religione, ma anche lingua ed abitudini alimentari. Queste ultime, in apparenza poco rilevanti, possono divenire un proficuo elemento di incontro e condivisione.

Una particolarità dei cosiddetti matrimoni misti (o unioni miste) è la loro natura interculturale che li rende un vero laboratorio di scambio, sperimentazione e soprattutto negoziazione, nelle più varie pratiche della vita quotidiana. Pratiche che spaziano dagli orari di vita (per mangiare, dormire, etc.), ai gusti e alle abitudini culturali, alle credenze e pratiche religiose. Naturalmente queste attività d’interazione non riguardano in via esclusiva le coppie miste. In tutti i rapporti tra due o più persone (ma in modo particolare all’interno di una coppia) si scambiano e si negoziano opinioni, gusti, abitudini, principi e decisioni. Tuttavia, le differenze che si «giocano» all’interno delle coppie miste sono di solito più evidenti (anche se non necessariamente più contrastanti). Questa condizione di particolarità si deve proprio al fatto di coinvolgere due persone nate, cresciute e quindi socializzate in due culture diverse, che hanno deciso di vivere assieme e di costruire un progetto di famiglia condiviso. Questa scelta comporta un’attività di negoziazione quotidiana.

UN ELENCO DI DIFFERENZE
Alcuni ricercatori hanno identificato almeno due categorie di differenze culturali che abitualmente vengono prese in considerazione all’interno delle unioni miste: le differenze (quasi) innocue e le differenze (più) rilevanti, essendo queste ultime quelle che con maggiore probabilità possono diventare un motivo di separazione per la coppia. Nelle prime è possibile far rientrare la lingua e le abitudini alimentari, mentre tra le seconde compaiono la religione, i ruoli di genere e la divisione del lavoro, l’uso del denaro e l’educazione dei figli. Ciò non significa che le prime siano irrilevanti ma che, per le coppie oggetto delle ricerche, tali differenze non hanno rappresentato un motivo di rottura. A questa prima categoria appartiene un elemento che, proprio per la sua quotidianità, è spesso passato inosservato, pur rivestendo una grande importanza in virtù della sua necessarietà per la vita di qualsiasi individuo, indipendentemente della cultura in cui sia nato e cresciuto: il cibo.
Secondo lo scrittore, linguista e semiologo, Roland Barthes «il cibo è in ogni posto e in ogni epoca un atto sociale». Mangiare non è solamente un atto fisiologico e materiale dell’uomo, ma anche un’espressione permeata di significati culturali, sociali e simbolici, che, in più, possono variare da una cultura all’altra. In questo modo, proprio perché il cibo è presente lungo tutto il percorso di vita dell’essere umano, perché le specifiche abitudini alimentari sono le prime a conformarsi e perché, attraverso il cibo e lo sviluppo della cultura gastronomica, si può esprimere la propria identità culturale, nei processi migratori si sono studiati i cambiamenti alimentari e anche psicologici (proprio derivati dei cambiamenti nella dieta alimentare) che di solito sperimenta una persona/gruppo quando emigra in un contesto (gastronomico, ma non solo) diverso.

DAL MESSICO AL SENEGAL
Un interessante studio di Wallendorf & Reilly (1983) del dipartimento di marketing dell’Università dell’Arizona, partendo dall’analisi dei rifiuti alimentari di un campione di famiglie di origine ispano-americana (in maggioranza messicane) nel sud degli Stati Uniti, è riuscito ad identificare una forma specifica di consumo culinario unico ed originale. Tale forma non si sarebbe sviluppata, infatti, da un processo di assimilazione oppure da una semplice mescolanza tra gastronomia statunitense e messicana, ma avrebbe avuto origine direttamente da queste due distinte tradizioni (quella di origine e quella del paese di destinazione) che però hanno dato vita ad una terza «cultura culinaria» specifica, capace di soddisfare sia le necessità fisiologiche che quelle culturali del gruppo migratorio. Inoltre lo sviluppo di questa «terza opzione» alimentare è diventato anche il pretesto per promuovere momenti in cui persone, che si riconoscono (in quanto parte di un gruppo) legate da un’esperienza migratoria condivisa, si ritrovano a mangiare insieme.
Un altro studio, condotto da Gasparetti del Dipartimento di Studi orientali ed africani dell’Università di Londra, si è invece concentrato sui processi di acculturazione alimentare di un gruppo di migranti senegalesi in Italia, rilevando che le pratiche alimentari di questo gruppo africano, possono essere identificate con un processo di emarginazione. I senegalesi, infatti, preferiscono in via esclusiva i piatti tipici della cultura senegalese, che abitualmente consumano ritrovandosi, e quindi socializzando, solo tra di loro (o al limite con altre culture africane affini). Al contempo non hanno mostrato grande interesse per conoscere e provare la cucina del paese di destinazione, in questo caso dell’Italia.
I due esempi citati vogliono fornire un’immagine un po’ più dettagliata del ruolo e della rilevanza del cibo all’interno di un processo migratorio che, come si è visto, implica un incontro culturale anche in termini culinari. Entrando più nel dettaglio, chiediamoci ora cosa accade quando queste differenze in termini di cultura gastronomica, disponibilità di ingredienti, necessità, preferenza e gusto si ritrovano all’interno di una coppia.

I BENEFICI DELLA «CONTAMINAZIONE»
Dagli studi fatti precedentemente, tra cui uno dei più completi è quello di Peruzzi in Toscana (2008), le differenze alimentari non hanno mai rappresentato un grosso problema tra i conviventi misti. Gran parte dei soggetti che decidono di sposarsi con un partner di un’altra cultura hanno, in genere, già avuto contatto con la cultura gastronomica del coniuge anche prima di conoscerlo.
Le persone che sviluppano, sia per tradizione sia per propensione personale, una cultura di apertura e curiosità verso differenti tipi di gusti e sapori, sono quelle che solitamente sperimentano, assaggiando i piatti di altre culture gastronomiche (soprattutto quelle che possono apparire più esotiche), permettendo la «contaminazione» delle proprie abitudini alimentari con nuovi ingredienti, aromi, sapori, etc. Per queste persone non rappresenta un problema negoziare i consumi alimentari all’interno della coppia mista, e anzi i partner trovano che l’atto di cucinare e il loro gusto per il «ben e diverso mangiare» sia un punto d’incontro, scambio, conoscenza e addirittura di comunicazione interpersonale.
Un fattore importante intorno al cibo è anche il processo di divisione del lavoro che si configura attorno alla sua preparazione e al resto delle attività casalinghe. Quest’ultime di solito vengono fatte dal partner che trascorre più tempo in casa e che, per ragioni strutturali del mercato del lavoro italiano, continuano ad essere maggiormente le donne. Nonostante questo svantaggio generico, si osserva che, all’interno delle coppie miste, tanti uomini hanno sviluppato un gusto per l’arte di cucinare che permette loro di riscoprire un luogo d’azione e di apprezzamento gastronomico condiviso.
Il ruolo del cibo, non solo all’interno delle coppie miste, ma anche come elemento d’acculturazione dei gruppi migranti, ha pure avuto una importante conseguenza economica. Lo si nota nella crescita di diversi piccoli e medi negozi che si occupano della produzione, importazione e commercializzazione, dei cosiddetti «cibi etnici». Questi, nel caso dell’Italia, si trovano maggiormente nei centri urbani con un’alta densità di popolazione immigrata come Roma, Milano o Torino. Nel 2008, in conseguenza della sua rilevanza economica e sociale, la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Torino ha realizzato un’inchiesta sulle iniziative economiche degli immigrati nella filiera alimentare. È emerso che, nel capoluogo piemontese, la maggior parte delle imprese del comparto del cibo sono gestite da titolari provenienti da tre principali paesi: Marocco (30.3%), Cina (22.3%) e Egitto (17.8%). In ogni caso, nel complesso, nel settore della vendita di cibo etnico è possibile trovare rappresentate tutte le aree geografiche continentali. Questa variegata disponibilità di scelta permette alle coppie miste (e soprattutto al partner straniero) di riprodurre, almeno parzialmente, la propria cultura attraverso il cibo, sviluppando la creatività attraverso la mescolanza d’ingredienti e la creazione di nuove ricette. Condividendo la cultura gastronomica non solo con il partner, ma anche con familiari e amici (quelli più disponibili ad assaggiare), si promuoverà un rapporto di conoscenza culturale che va oltre gli aromi e i sapori.

Claudia Zilli Ramirez

Claudia Zilli Ramirez




Obiettivo: vita comunitaria

Le famiglie e la vita nell’Arca

Durante la nostra visita all’Arche conosciamo in refettorio una giovane famiglia. Manuelle e Emanuel hanno 3 bambini: la primogenita di 7 anni, un piccolo di 5 e una neonata di 7 mesi. Vivono in comunità da 4 mesi e ci raccontano le loro motivazioni e la loro esperienza.

L’appartamento di Manuelle e Emanuel è lo specchio della vivacità familiare. Giochi sparsi, un buon profumo di biancheria e molta energia nell’aria. A loro sono riservate tre stanze: una per i due bambini più grandi, un luminoso tinello in cui ci accolgono e un piccolo studio che funge da camera da letto per loro e per la piccolina.

Chiesa e vita comunitaria
«L’Arca è per noi l’opportunità di fare la vita comunitaria che desideravamo. Io sto partecipando alla Fève e mia moglie segue i bambini e fa vita comunitaria; l’anno prossimo faremo il contrario. Alla fine dei due anni avremo un’idea chiara per valutare se il nostro futuro sarà dentro l’Arca o altrove. Quello che possiamo dire, per questi primi mesi, è che la qualità della vita qui è molto buona». A parlare è Emanuel, da sei anni Pastore della Chiesa Riformata di Francia, che ci racconta anche come è nata l’idea di un’esperienza nell’Arca. «Ho sempre cercato, anche nella mia parrocchia in ambito rurale, di creare uno stile di vita comunitario. Celebravo il culto, ero a disposizione dei parrocchiani, insegnavo il catechismo. Quello che auspico di fare nel futuro è di riuscire a conciliare i due aspetti: la vita comunitaria “durante la settimana” e la celebrazione del Culto la domenica».

Ecumenismo e riforme
Il carattere aperto ed ecumenico dell’Arca ha permesso al pastore protestante Emanuel di entrare in comunità e partecipare alla Fève. Gli chiediamo un ritratto della spiritualità all’interno dell’Arca. «Lanza del Vasto era cattolico ed era la guida assoluta. Anna, Jeannette e Michèle ci raccontano che lui pensava e gli altri lavoravano. Successivamente la comunità ha vissuto la spiritualità in modo differente. Oggi, non esistono più patriarchi e gli aspetti conservatori sono stati eliminati. È stato come un movimento di riforma all’interno dell’Arca stessa. Questo consente una grande autonomia di decisione e la massima apertura in termini di spiritualità e scambio con le altre religioni». 
Gli chiediamo se c’è qualcosa di particolarmente rilevante nella vita all’Arca: «Molti anziani vengono in questa comunità sperando di potersi fermare a vivere ma l’Arca non è organizzata per questo. Per Michèle e Jeannette che hanno sempre vissuto qui è differente, ma per chi non ha fatto un certo percorso è difficile. Lo sperimentare la vita comunitaria mi ha fatto pensare che sarebbe interessante creare una comunità per persone anziane sole, non una casa di riposo ma uno spazio aggregativo, dove ognuno conservi la propria indipendenza, il proprio talento e si renda utile alla comunità».

Vita di famiglia nell’Arca
Lasciare il proprio lavoro (Manuelle è psicomotricista), cambiare scuola ai bambini e fare “famiglia” all’interno di una grossa comunità come questa, comporta molti cambiamenti.
A rispondere è Manuelle: «I bambini sono molto contenti di vivere in questa grande casa famiglia. Si sono create subito delle relazioni con gli altri bambini e non esiste il problema del babysitting (Manuelle sorride). Non è tutto così semplice però, occorre dialogare molto con loro e spiegare che le dinamiche della comunità sono differenti da quelle della famiglia mononucleare. Questa particolare struttura dell’Arca è grande e nel week end si riempie di gente che prenota le sale per conferenze o seminari, ai bambini è necessario mettere delle restrizioni perché la sicurezza non è certo quella delle quattro mura di casa. Manca sicuramente il controllo e l’intimità. La grande casa è protettrice ma a volte anche un po’ opprimente e non mancano i sacrifici in termini di “decrescita”. Per noi che siamo stagisti e non membri della comunità non è disponibile un bagno privato nell’appartamento e questo, con tre bimbi, non è sempre semplice.
Non da meno è la differenza con le altre famiglie sui metodi pedagogici. Noi siamo contrari a far vedere la televisione ai bambini ed altre famiglie invece accettano che televisione e computer siano sempre a disposizione dei piccoli. Su questo, il cammino verso la nonviolenza insegna molto: imparare a relazionarsi attraverso il dialogo e a smussare gli attriti, accettando le differenze, favorisce la convivenza pacifica. In questo senso sono già state fatte molte migliorie rispetto al nostro arrivo e la motivazione, comune a tutti, a vivere in armonia facilita e rende piacevole il quotidiano».
Rimettersi in discussione con la propria famiglia ed entrare in una grande comunità, con le sue regole e i suoi tempi è una bella sfida. Ma, esiste una sorta di gerarchia all’interno dell’Arca e da chi vengono prese le decisioni più importanti? «È necessario fare una puntualizzazione e dividere la vita dell’Arca in due tempi». A parlare è nuovamente Emanuel, mentre la moglie ci versa una tisana e richiama a un po’ di disciplina i piccoli nella stanza accanto. «Una volta si era più dipendenti, perché chi sceglieva la vita in comunità non aveva lo stipendio ed era supportato completamente dalle finanze comunitarie. Oggi, ogni famiglia ha un piccolo introito mensile con cui decide la priorità delle proprie spese. Nessuno controlla o si permette di criticare le scelte fatte. Le decisioni generali sulla comunità vengono prese dai membri stessi, mentre noi stagisti partecipiamo a delle commissioni operative che approfondiscono le varie problematiche e cercano le soluzioni. Ogni settimana c’è una riunione della casa in cui sia i membri che gli stagisti partecipano. Qui si discute tutti insieme e si  prendono decisioni comuni. Il principio cardine di tutto il nostro lavoro è che non ci si può fermare. La nonviolenza e la spiritualità sono un cammino perenne, una ricerca costante di equilibrio e coerenza prima dentro se stessi e poi nelle relazioni interpersonali».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




L’Arca secondo Anna

Una vita dentro l’Arca

Anna, 68 anni, è italiana di nascita ma francese di adozione. Il suo racconto ci porta sui passi di una conversione personale verso la non violenza.

C’è un termine portoghese, cantinho, che descrive al meglio la sensazione che si ha entrando in casa di Anna. Il cosiddetto cantinho si utilizza per indicare un angolo familiare e accogliente nel quale rifugiarsi per trovare ristoro. Così è l’appartamento di Anna: piccolo, profumato di legno chiaro e con una vista impagabile sull’abbazia di St. Antornine. Il dialogo con Anna è un tempo di perfezione «assoluta». Si instaura quella semplice intimità che solo la verità può trasmettere. Anna è forte e la sua forza le regala un aspetto giovanile e dinamico. Con voce calda e modulata si racconta e racconta.
«Provengo dalla cultura degli anni ‘60, quando i giovani si sentivano desiderosi di scoprire culture diverse, vivere la spiritualità in maniera più autentica, conoscere l’India. Il grande sogno era potersi differenziare dai propri genitori e stravolgere il mondo».

Anna, cosa ti spinse a ricercare uno stile di vita diverso?
«Tre aspetti influenzarono le mie scelte: la cultura degli anni ‘60 e il sogno che rappresentava (nel 1968 mi trovavo a Parigi), la ricerca di una vita spirituale coerente e di un’esistenza “giusta”. Nel 1969, mio marito ed io, che al tempo abitavamo in Franca, conoscemmo Lanza del Vasto. Fu durante la conferenza che tenne, nella piccola cittadina della Bretagna dove ci trovavamo. Mi accorsi che dietro il dibattito filosofico c’era una proposta di vita reale. Lanza del Vasto aveva fondato una comunità di gente che aveva scelto di abbandonare una vita privilegiata e di battersi per la giustizia».

La decisione di entrare in comunità fu immediata?
«Non immediata ma risoluta. Con Lanza del Vasto scoprii Gandhi e la nonviolenza. Avevo il desiderio di vivere la nonviolenza ma non sapevo come metterla in pratica. Dopo aver iniziato un percorso di lettura sui libri di Lanza del Vasto, andammo nel 1974 per due settimane alla Borie Noble. Cinquecento ettari di terra e sassi: una vera comunità rurale senza elettricità, acqua calda e nessun tipo di tecnologia. Per noi fu la scoperta della bellezza assoluta. Lanza del Vasto diceva: “Qual è la forma della verità? È la bellezza”. Non vanità e ostentazione, bensì sobrietà e bellezza. La chiave per elevarsi e vivere pienamente la spiritualità. Dopo un altro mese di prova comunitaria, nel 1976 lasciai il lavoro di assistente sociale, mio marito diede le dimissioni e, insieme alle nostre due bambine, ci trasferimmo alla Borie Noble».

Come rispose la comunità alle vostre necessità di cambiamento?
«La vita all’Arca corrispondeva a ciò che desideravamo: una vita molto attiva per quanto riguardava l’azione nonviolenta e vissuta con estrema semplicità. Occorreva solo essere lì: “presenti al presente”. Anche la scuola era all’interno della comunità in un’ottica di coerenza tra l’ideologia comunitaria e i programmi didattici. La vita spirituale era molto aperta e non dogmatica, scandita nei tempi di silenzio, nella preghiera e nella meditazione. “Ciascuno approfondisca la propria tradizione religiosa e impari a conoscere le altre, riconoscendone i tesori”, erano le parole di Lanza del Vasto».

Dieci anni alla Borie Noble. E in Italia, cosa stava accadendo?
«I dieci anni alla Borie Noble sono stati gli anni più intensi della mia vita. Eravamo convinti che avremmo cambiato il mondo e questa forza si avvertiva a distanza. Molti giovani arrivavano alla Borie Noble e ne sposavano la filosofia. Nel frattempo, i libri di Lanza del Vasto iniziarono ad essere tradotti e conosciuti anche in Italia. Era il tempo delle conferenze che portò molti italiani a conoscere l’Arca. Iniziammo così ad organizzare campi estivi in Italia, a San Vito dei Normanni, città natale di Lanza del Vasto, con una partecipazione sempre più numerosa di italiani: oltre le 150 persone».

Nel 1981 muore Lanza del Vasto, cosa accadde nell’Arca?
«In Italia il movimento dell’Arca era fervido e così nel 1986 monsignor Luigi Bettazzi mise a nostra disposizione un casale a nord di Ivrea con 7 ettari di terra intorno. Fu un periodo di splendore e di approfondimento di ciò che avevamo appreso nei primi 10 anni. La divulgazione dell’azione nonviolenta, la semplificazione della vita prese forma anche in Italia e richiamò molti seguaci».

Dal 1993 vivi a St. Antornine, perché questa comunità?
«Nel 1993 la comunità in Italia morì e, in seguito a una mia profonda crisi personale ed esistenziale, scelsi di venire a vivere qui. St. Antornine era una grande e giovane comunità che aveva iniziato un lavoro di rivisitazione dei fondamenti dell’Arca: un’indagine su cosa fosse essenziale mantenere all’interno delle comunità e cosa si potesse invece eliminare. In questo senso St. Antornine intraprese un importante lavoro psicologico e spirituale, approfondendo le scienze umane su cui Lanza del Vasto non ci aveva lasciato strumenti adeguati».

Lanza del Vasto parla spesso di unità tra vita e parola. Nel tuo cammino è stato possibile tutto ciò?
«È stato possibile solo quando mi sono accorta che era indispensabile cercare l’unità in me stessa. Un grosso lavoro impregnato di psicologia e spiritualità. È stata la scoperta dell’assioma che si potrebbe formulare così: non puoi cambiare nulla intorno a te se prima non cambi te stesso. Viviamo tempi caotici dove tutto evolve ma se non si parte da noi non può avvenire nessuna trasformazione sociale. La vita quotidiana in comunità mi regala un’unità di vita e mi aiuta a chiedermi: sono in unità con me stessa? Ho capito dove sono violenta con il mio essere e mi sto dando degli strumenti per aiutarmi? È un lavoro interminabile ma fondamentale».

Nel tuo percorso di riconciliazione dove è intervenuta la spiritualità?
«Non sono cattolica ma cristiana e solo facendo questo profondo lavoro su me stessa ho riscoperto il Vangelo. I testi mi parlavano di ciò che mi stava accadendo. Ho appreso solo con il tempo che per essere in equilibrio occorre riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla maledizione per entrare nella benedizione. Ho imparato a vivere la vita pensando che è una storia sacra, che ha un senso e che deve convergere verso lo stesso punto. Presenza e conciliazione, speranza e fiducia, accettazione del presente possono aiutarci a lodare ogni giorno la bellezza della vita».

E dentro l’Arca, che importanza ha la fede e come è vissuta?
«Per l’Arca è in tutto. Pulire per terra è spiritualità, lavorare nei campi, scrivere, mangiare… vivere con la coscienza di una vita spirituale.
Il richiamo alla vita spirituale è fermarsi. Noi abbiamo la campana che suona tutto il giorno e sappiamo che in taluni momenti dobbiamo “richiamarci a noi stessi”. Ma questo “prendersi il tempo” si può fare ovunque».

Per noi, estei alla comunità e in preda al caos, come può avvenire questo «tempo benedetto»?
«Riferendosi alla spiritualità, Shantidas diceva: “È l’inizio di una grande avventura”. Qualsiasi cosa si stia facendo, si interrompe un attimo, ci si mette in asse con se stessi e ci si riappropria del proprio essere. Si può cominciare con 15 minuti di meditazione silenziosa o con un testo sacro, lasciandosi parlare diritto al cuore, alla propria vita. Il tempo della preghiera serve a ricordarci il perché del nostro essere nel mondo. Qui e ora. Ha un senso la nostra vita? Da dove veniamo e dove stiamo andando?
Poi, c’è il tempo della gratitudine, della coscienza dell’amore di Dio, scoprendo chi è per noi Dio. Mettersi allo scoperto con tutte le nostre piccolezze e meschinità, certi del suo amore».

L’azione nonviolenta: come si traduce praticamente?
«Con progetti ad hoc contro gli Ogm, supportando l’immigrazione, accogliendo i rifugiati politici e lottando per l’antinucleare e per il disarmo nucleare della Francia. Abbiamo inoltre una équipe che si occupa di sensibilizzare i giovani alla nonviolenza nelle scuole. Siamo, da sempre, disponibili ad accogliere chiunque voglia sperimentare la vita comunitaria. È un’accoglienza gratuita che permette alle persone interessate di vivere il nostro stesso stile di vita».

L’Arca è strutturata in maniera gerarchica?
«Un responsabile di casa viene eletto ogni tre anni dal Capitolo, ovvero l’insieme delle persone che sono impegnate nella casa. Si diventa membri dopo uno stage di un anno a cui segue un postulato di due anni. Nessuno dei membri ha un lavoro esterno, ma ognuno ha un’occupazione all’interno della struttura. Dopo un mese di stage nella comunità, si può partecipare alle riunioni settimanali della casa».

Come sopravvive l’Arca economicamente e come sono gestite le finanze di voi membri?
«Attraverso l’affitto delle sale dedicate a conferenze, seminari e sessioni di formazione e con l’area attrezzata per l’accoglienza dei gruppi. Il ricavato confluisce in un’unica cassa che viene poi ripartita ai membri per le spese personali. In qualità di single percepisco un piccolo contributo mensile, non è certo un lusso ma permette una vita più distesa rispetto a quando non era contemplato».

Semplificare la vita o essere radicali. Cosa ti ha insegnato l’Arca?
«Mi ha insegnato che l’essere troppo radicali può essere deleterio. Le comunità sembravano inizialmente concepite solo per i giovani: senza luce, con i bagni spartani, isolate dal mondo. Le cose cambiano, la gioventù passa e anche le comunità si sono dovute adeguare, perché quello che conta maggiormente è l’attenzione verso la persona. Se a 30 anni non importa avere l’acqua calda e la doccia in casa, a 80 diventa un fattore non più trascurabile. Complice della semplicità deve essere sempre il rispetto e la conoscenza delle esigenze personali».

Possiamo dunque definire «decrescita» misurata lo stile di vita attuale?
«Non amo molto il termine decrescita. Quello che mi nasce dal cuore è invece un elogio della ricchezza: esser ricchi dentro per poter condividere. Oggi, ho piena coscienza che le macchine sono solo strumenti per poter lavorare meglio, il computer ci aiuta nelle relazioni, ci mette in contatto con il mondo. La vita è movimento e se si rimane indietro si rischia di rovinare il cammino intrapreso fino a quel momento. Le crisi comunitarie, come quelle personali, servono proprio a riflettere sui passi fatti e a “purificarci” dalle cose inutili».

Quali differenze tra chi vive nelle case e chi si impegna solo nel movimento?
«Fino al 2005 l’Arca era un ordine, non religioso, composto da persone che si impegnavano con i voti. Venivano soprannominati “compagni” quelli che vivevano insieme la stessa regola di vita nella casa comunitaria e “alleati” coloro che si impegnavano per il movimento dell’Arca al di fuori delle strutture comunitarie. Oggi, non esiste più differenza tra chi vive all’interno e chi all’esterno. Il rinnovamento è dato dal medesimo impegno sia per i compagni sia per gli alleati che sottoscrivono la Carta dell’Arca. Questa trasformazione è stata necessaria perché le case comunitarie iniziavano a chiudere e si sentiva la necessità di far vivere il movimento. Solo le comunità che si sono trasformate e hanno saputo adeguarsi ai tempi sono riuscite a sopravvivere».

Puoi regalarci una tua immagine sul futuro dell’Arca?
«Quest’anno ci sarà il Capitolo generale e potremo fare un vero bilancio di questi ultimi anni. Personalmente mi sembra che ci sia un buon fermento, che molti giovani si stiano impegnando nel movimento. Quello che ho potuto notare come responsabile per 10 anni della nonviolenza nell’Arca è che, aldilà dei limiti stessi della comunità che vanta solo 200 persone impegnate in Europa, l’Arca rimane una porta aperta su un mondo “altro” fatto di riconciliazione, conciliazione e unità».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Spiritualità e armonia

La comunità di Saint Antornine

La comunità dell’Arca di Saint Antornine, in Val d’Isère, è stata aperta nel 1997. È un concentrato di saggezza e spiritualità. Tra le comunità dell’Arca è quella più all’avanguardia in termini di aggioamento del pensiero del movimento e della sua applicazione. Vi entriamo insieme.

A causa di quel mio terzo occhio che cerca di mettere a fuoco ciò che gli altri due ignorano, mi interessano da sempre le realtà parallele. Uno sguardo plurale, si potrebbe definire oggi, che allarga visivamente ed emotivamente la conoscenza verso stili di vita e mondi «altri» da noi. Ecco cosa mi ha mosso verso la comunità dell’Arca: la sete di incontrare chi ha scelto, con coraggio, di cambiare rotta. Una scelta che solo attraverso la testimonianza e il racconto può giungere a contagiare qualche animo sopito.
Alla Communauté de l’Arche – nonviolence et spiritualitè – Saint Antornine l’Abbaye arriviamo la sera, al buio dopo un lungo viaggio in macchina. Ogni luogo ha un suo perché e non è un caso se l’Arca trova in questo antico villaggio medioevale la sua collocazione. Saint Antornine l’Abbaye è una finestra nel tempo, un invito alla pace e alla contemplazione. «Sarà la bellezza a salvare il mondo», disse Dostoevskij e attorno a questa considerazione ruota quasi tutta la filosofia di Giuseppe Lanza del Vasto, che a partire dal suo più noto scritto «Pellegrinaggio alle sorgenti» fino ai dialoghi, trasmette al pubblico e ai suoi successori diretti un’intensa ricerca interiore della Bellezza, tradotta in pace, armonia e spiritualità, e fatta confluire nell’immagine della festa.
Un arco segna l’ingresso nel villaggio al cui  interno, una manciata di case e botteghe in formato presepe ruota attorno alla storica abbazia. A ridosso dell’abbazia sorge l’antico complesso dell’Arca. Nella calma ovattata del paese, nel freddo pungente dell’inverno e nelle ultime luci della sera, nulla stona in questo angolo di mondo. La bellezza del paesaggio scompare di fronte al rivelarsi di un altro modo di vivere e di un’altra umanità che della scelta radicale della pace ha fatto la sua ragione di vita.
Lo storico palazzo in cui risiede la comunità dell’Arca è segnalato da una semplice freccia di legno. Bussiamo al portone in ferro battuto ed entriamo in un lungo corridoio abbellito al soffitto da oamenti botanici. Ad attenderci c’è Anna Massina. Forte e decisa, vitale e grintosa nel suo abbigliamento casual con un tocco esotico, Anna ci accoglie con un sorriso e un po’ di sorpresa per il nostro ritardo. Trentacinque anni di vita nell’Arca, Anna sarà il nostro cicerone italiano alla scoperta di questa comunità.
Nei fine settimana l’Arca si riempie di gente che usufruisce degli spazi per fare seminari o corsi di approfondimento. Ci aspettano dunque tre giorni movimentati. Come ospiti non possiamo dormire nell’area riservata alla comunità ma solo nella zona di accoglienza per i viandanti. Ogni camera ha una titolazione precisa. La nostra è «frumento». Anna è organizzativa e ha stabilito che faremo le interviste il giorno successivo, mentre la serata – dopo la cena comunitaria in mensa – saremo liberi di curiosare…in punta di piedi.

La giornata a Saint Antornine
Arriviamo nel refettorio gremito di gente, qualche sorriso e un po’ di impasse da parte nostra caratterizzano i primi istanti. Appese alle luci del soffitto animano la stanza alcune colombe bianche di carta, simbolo stilizzato di un credo forte in ogni angolo della comunità. La sala è semplice ma ispira calore: tavolate e panche di legno sono gli unici arredi. All’ingresso ci si può fornire di stoviglie (non esistono i tovaglioli di carta) e al centro della sala c’è lo spazio apposito per il buffet.
Prima di accedere alla scelta delle vivande – esclusivamente vegetariane – , una delle persone che vivono in comunità presenta il cibo e invita ad un momento di preghiera. Poi, si anima la scena. Chi si serve, chi chiacchiera in piedi, chi si adopera per aiutare i commensali. È un andirivieni piacevole da cui non ci sentiamo estranei o semplici spettatori. Nella semplicità non è difficile vincere la riservatezza di un linguaggio differente e scambiare qualche impressione con chi si siede accanto a noi. A fine mensa, sia i comunitari sia gli ospiti, si alzano, sparecchiano il loro tavolo e si dirigono verso un organizzatissimo spazio pre-cucina, adibito al lavaggio e all’asciugatura delle stoviglie. Rispetto e responsabilità sono le prime parole che ci vengono da formulare osservando il piacere con cui ognuno «fa la sua parte».
La mattina seguente la comunità è un brulicare di attività, ogni sala adibita alle attività è impegnata. C’è la sala della musica in cui si ode qualche canto armonico, la sala dedicata a Lanza del Vasto, la sala Jean Goss, la sala Bianca, la sala Comune e la sala del Giardino.

In punta di piedi
L’appuntamento con Anna è per il primo pomeriggio; decidiamo quindi di iniziare la visita esplorando con tutti i sensi la comunità, all’esterno e all’interno. Il tempo per intuire, attraverso i luoghi, un cammino. Prima delle persone «annusiamo» lo spazio alla ricerca di domande «primordiali». Non a caso, a volte sono proprio gli ambienti e le strutture a raccontarci qualcosa, a farci vedere una realtà multi dimensionale che solo a parole non potremmo afferrare. Partiamo dalla natura e scegliamo di passeggiare in silenzio nell’area circostante la comunità: ettari di orto e giardino che invitano alla meditazione. Tutto è studiato con estrema attenzione alla «decrescita». Un piccolo bagno ecologico è posto su un lato del terreno; le verdure non bastano a soddisfare le necessità dell’intera comunità ma sicuramente aiutano. In fondo al giardino qualche gioco per i più piccoli ricorda la presenza dei bambini. Il sole è tenue ma basta per illuminare gli ultimi rossi d’autunno e per regalarci un insolito belvedere collinare.
In questa prima visita solitaria e itinerante, ci tornano alla mente, tra le tante, alcune delle frasi di Lanza del Vasto o Shantidas (servitore di pace), secondo la volontà di Gandhi, che ci accompagnano nel nostro esplorare.
Sono frasi, senza età, che scuotono le viscere umane: «Mettiti in marcia con tutta la tua vita»; «la nonviolenza è una verità che solo chi vi si esercita può conoscere»; «risvegliarsi, spezzare l’incoscienza ordinaria, naturale, nativa, spezzare il guscio del sonno e dell’abitudine»; «richiamarsi a se stessi, entrare in noi stessi».
Negli spazi interni dell’Arca ci si potrebbe perdere tanto sono vasti: quattro piani suddivisi nelle aree per i comunitari e per gli ospiti. L’utilizzo del legno e dei colori caldi per gli arredi personalizzano gli ambienti: sobrietà e cura degli spazi rendono accogliente ogni angolo. Una piccola cappella al cuore della struttura convoglia chiunque si senta assetato di spiritualità. Una biblioteca, una sala della musica, una sala gioco per i bimbi, una bottega per fare il pane e un magazzino di riparazione, arricchiscono la struttura e fanno da corollario agli spazi prettamente dedicati ai seminari. Dentro e fuori sembrerebbe un binomio indissolubile: ogni vetrata dei corridoi interni rivolge lo sguardo verso la vegetazione estea e l’abbazia. Un’armonica bellezza che non può che conciliare il pensiero. Ogni area della struttura è indicata con frecce di legno e nemmeno gli ascensori (costruiti per facilitare l’accesso anche alle persone più anziane e ai disabili) deturpano l’ambiente essendo nascosti dietro nicchie apposite.

Le persone
Nella comunità dell’Arca vivono persone di tutte le età: dalle più anziane come Michèle e Jeannette, alle famiglie giovani con bambini che da poco hanno deciso di mettersi in gioco e sperimentare la vita comunitaria, alle seconde generazioni che stanno ancora vagliando se il loro futuro sarà dentro l’Arca o se prenderanno una strada propria, ai single e a chi sceglie di fare un anno di stage alla ricerca di un percorso di coerenza. In ognuno di loro si intravede la consapevolezza che la ricerca della nonviolenza è un cammino lungo, che porta prima dentro se stessi e poi si estende agli altri in una sorta di contagio positivo. Ciò che risulta evidente a noi «viandanti» è il forte impegno nell’esercizio della nonviolenza a partire dalle dinamiche relazionali della comunità: condivisione di compiti e responsabilità, prese di decisioni, riconciliazioni.
Un filo di continuità che lega il passato con il presente e le vecchie generazioni con le nuove, caratterizza l’Arca. In un tempo e una società dove gli anziani guardano spesso con nostalgia al passato e nutrono non pochi sospetti sulla gioventù, è quasi rivoluzionario sentirsi dire: «I giovani di oggi sono più coscienti, più entusiasti e con un’immensa ricchezza spirituale e meditativa». Una affermazione di Michèle Le Corre (81 anni) sostenuta anche da tutte le persone più mature della comunità.

Il tempo dentro l’Arca
Dopo la colazione in refettorio, c’è un momento di meditazione aperto a tutti dopo il quale ognuno si occupa dei propri lavori dentro la comunità. Tutti, quanto meno chi se la sente di partecipare, si ritrovano in cappella per la preghiera serale, prima della cena comunitaria. Ogni giorno c’è una riflessione e una preghiera per ogni religione. Anche a noi è riservato un saluto e un canto di accoglienza. Le azioni in cui si impegnano i membri dell’Arca sono nell’ambito della giustizia e della solidarietà, nella formazione alla nonviolenza e all’accoglienza. La vita comunitaria è scandita nei tempi del lavoro, del silenzio, della meditazione, del richiamo a se stessi, della responsabilità e della relazione con l’altro.
Tutto ciò avviene nella massima semplicità, nell’impegno a decrescere i consumi, nel dialogo, nella ricerca della bellezza, nel ballo e nella festa comunitaria. Ognuno, a seconda delle proprie forze e della personale sensibilità, decide a quali azioni nonviolente partecipare.

Incontri ravvicinati…
Di Anna, Michèle, Jeannette, Maria, Vincent, Emmanuel e Manuelle, raccogliamo la testimonianza. Sentire dalle loro voci e vedere sui loro visi la passione per un movimento di perenne cammino ci aiuta a percepire la forza della «battaglia» nonviolenta, a capie il senso e a cogliere l’importanza e la necessità del tentativo di costruire una società differente.
Le loro parole e l’autenticità delle loro azioni, sul filo di quello che Lanza del Vasto riteneva il sale della nonviolenza, ossia «la verità», sono il contrario della menzogna e dell’errore.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini