Un patrimonio da salvare

Premessa

«I pionieri di un mondo senza guerre sono i giovani che rifiutano il servizio militare». Chi è al corrente che una frase del genere è stata detta quasi 100 anni fa da un premio Nobel per la fisica? Stiamo parlando di Albert Einstein (1879-1955), che ai suoi celeberrimi studi ha affiancato, nel tempo, l’impegno per un pacifismo concreto, alternativo alle logiche del tempo. Come lui, altre migliaia di persone, nel mondo e anche in Italia, hanno fatto una precisa scelta di campo: quella dell’obiezione di coscienza (Odc), ovvero di voler difendere la propria Patria senza imbracciare un’arma.
In questo 2012 ricorrono 40 anni esatti dall’introduzione dell’obiezione nella legge italiana. Un anniversario da festeggiare, perché, dopo i primi pionieri che avevano dovuto pagare il proprio rifiuto con l’arresto e le vessazioni di chi li considerava nulla più che dei «senzapatria», l’Odc ha permesso a milioni di giovani di trovare la propria strada attraverso i significativi mesi (prima 20, poi 12, com’è ancora oggi) di Servizio civile presso enti di varia natura, dall’aiuto alle persone in difficoltà, alla salvaguardia del patrimonio ambientale e artistico, all’interposizione nonviolenta nei conflitti, in Italia come all’estero.
Nel 2001, altra pietra miliare nella storia della difesa alternativa della Patria: con la scomparsa della naia obbligatoria è nato – grazie all’impegno di molti, politici e non, nell’affrontare il lungo percorso istituzionale sfociato nella legge 64 – il Servizio civile nazionale volontario (Scn), aperto ai ragazzi e, per la prima volta, alle ragazze dai 18 ai 26 anni, poi innalzati a 28. È nato così un organo governativo apposito, per la prima volta indipendente dal ministero della Difesa, l’Ufficio nazionale servizio civile (Unsc), direttamente collegato alla Presidenza del Consiglio.
Da allora, 300 mila giovani sono partiti per l’anno di servizio, molti in Italia, ma qualche migliaio anche all’estero, attraverso uno dei progetti più virtuosi che il mondo invidia all’Italia: il corpo civile di pace dei Caschi bianchi, oggi diffuso in gran parte dei paesi in difficoltà a livello sociale, economico e di diritti umani e civili.
Una marea di persone ha fatto questa scelta di vita e di cittadinanza attiva. Per molte di esse non ha significato solo svolgere un anno di Scn, ma un impegno che è continuato, sotto varie forme (dal volontariato, alla ricerca di lavoro in ambiti affini, a varie altre strade), una volta ritornate alla propria vita pre-servizio, naturalmente cambiate da un’esperienza spesso coinvolgente a 360 gradi.

Dopo anni di crescita di domande e di posti a disposizione, dal 2008 la tendenza si è però rovesciata, non a causa del disinteresse dei giovani, bensì del taglio di fondi governativi. In questo 2012, addirittura, si è parlato per la prima volta di possibile interruzione del Servizio civile, finito sotto la scure dei tagli in nome della crisi. I volontari (chiamati così in modo un po’ inappropriato, perché la scelta è sì volontaria ma si viene rimborsati con un indennizzo mensile, lo stesso dato a chi presta il servizio militare) hanno iniziato a manifestare la propria preoccupazione, inviando anche lettere ai politici; gli enti che li fanno partire hanno aumentato la loro pressione sul governo Monti; giornali, donne e uomini di cultura, hanno lanciato l’idea di un Servizio civile universale, per tutti, seconde generazioni (figli di stranieri nati in Italia) comprese; politici di ogni schieramento che hanno a cuore il tema (pochi, purtroppo, anche se tra questi spicca il ministro per l’integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio) fanno cartello chiedendo al Presidente del Consiglio di metterci una pezza. Vedremo: per ora si sa che nel 2013, chi partirà lo farà con i fondi residui dell’Unsc. È l’unica luce in fondo al tunnel, in attesa di nuove.
Nelle pagine seguenti viene illustrato, sotto ogni aspetto, il bene che l’Obiezione di coscienza prima, il servizio civile poi, ha fatto e sta facendo per il nostro paese. Il problema è che una parte dei cittadini di questo paese se ne rende conto, ma un’altra grossa fetta non ne ha capito la portata, nonostante sia palese, come rivelano le ultime ricerche sociali in merito, quanto sia virtuoso il «ritorno» verso la società civile dell’impegno dei ragazzi in Scn: ben quattro euro di capitale umano ogni euro investito dallo Stato per il loro servizio.
Alla luce dei numeri e dei fatti, il messaggio che viene diffuso è forte e chiaro, in primo luogo per la politica: è ora che tutti sappiano veramente cos’è il Servizio civile e cosa perderemmo se venisse sospeso. È ora di rilanciarlo, e per questo c’è bisogno dell’impegno di tutti noi.

Daniele Biella

Daniele Biella




Operazioni caschi bianchi

Servizio civile all’estero

Da quando è stata riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare ed è stato istituito il servizio civile nazionale, oltre 300 mila giovani hanno scelto di difendere la patria spendendo un anno di lavoro in un paese estero, in missione di pace non-armata e nonviolenta. Chi ha sperimentato tale servizio ne resta segnato per tutta la vita, continuando a impegnarsi in attività di promozione umana, a difesa della pace e dei diritti dei più deboli.

Li incontri quando proprio non te l’aspetti: negli slums, le baraccopoli africane, come nelle favelas brasiliane. A difendere i diritti delle donne in America Latina e delle minoranze etniche nell’Est Europa. Ma anche a tutelare foreste, avviare progetti di cooperazione allo sviluppo, o semplicemente condividere la dura quotidianità di bambini e adulti di strada, famiglie indigenti o vittime di guerre o violenze strutturali, senza colpe se non quella di trovarsi nel posto sbagliato. Sono i giovani italiani che decidono di partire per l’anno di Servizio civile volontario all’estero: 400 in questo 2012, almeno 5 mila da quando, nel 2001, è nato in via ufficiale il Scn, Servizio civile nazionale, che nonostante la dicitura «nazionale» prevede anche l’invio di ragazze e ragazzi fuori dall’Italia.

Da obiettori a caschi bianchi
Nessun controsenso: la difesa della patria si può promuovere anche così. «Oramai siamo in una nuova fase dell’idea di “difesa”: si tutelano gli interessi nazionali, non i confini. Lo fanno in primis gli stessi militari, con le cosiddette “missioni di pace” nei territori caldi come Afghanistan, Balcani, e fino a qualche tempo fa Iraq – sottolinea Nicola Lapenta, 41 anni, responsabile per il Servizio civile dell’associazione Comunità Papa Giovanni xxiii -. Quindi ancor più il discorso vale per un’azione non armata e nonviolenta come quella portata avanti dai giovani ex obiettori di coscienza, oggi volontari in servizio civile».
La differenza del tipo di impegno, rispetto a quello militare, è evidente; «non si difendono interessi legati a pozzi di petrolio o altre questioni geopolitiche; piuttosto, chi sceglie il servizio civile all’estero promuove il rispetto dei diritti umani e la trasformazione positiva dei conflitti di ogni genere» afferma Lapenta, padre di tre bambini, ma soprattutto uno dei primi obiettori di coscienza alla naia obbligatoria ad aver «superato il confine»: nel 1995, durante l’anno di servizio civile (che ha svolto in una casa famiglia della Comunità in Piemonte), partecipò, alla marcia pacifista indetta dai Beati costruttori di pace nella Sarajevo sotto assedio, capitale dell’attuale Bosnia, allora parte della ex Jugoslavia.
«Recarsi all’estero a quel tempo non era permesso agli obiettori, così io e altri ci siamo autodenunciati e siamo partiti: ci sembrava giusto dare il nostro contributo alla risoluzione nonviolenta del conflitto nei Balcani, attraverso l’interposizione diretta», spiega il responsabile servizio civile della Comunità Papa Giovanni xxiii.
Dalla presenza degli obiettori nella ex Jugoslavia, la storia dell’impegno civile dei giovani italiani ha scritto pagine sempre più colme di testimonianze e coraggio, fino ad arrivare alla legge 230 del 1998, che nel riformare l’obiezione di coscienza introduceva la possibilità di partire per l’estero, e «sanava» la situazione del centinaio di persone che, come Lapenta, si erano recati all’estero senza permesso durante il loro anno di servizio.
Nel frattempo, a questi giovani pionieri è stato dato anche un nome: Caschi bianchi. Una risoluzione dell’Onu del 1994 chiama così un possibile corpo civile di aiuto umanitario da inserire nei conflitti. Da allora in Italia il nome è stato dato in via informale ai giovani obiettori all’estero. «Fino al 2001 quando, con l’istituzione del Scn, un progetto promosso dagli enti Caritas italiana, Comunità Papa Giovanni xxiii, Focsiv-Volontari nel mondo e Gavci si è chiamato proprio “Caschi bianchi”, puntando sulla creazione di un vero e proprio corpo civile di pace» (per quest’ultimo aspetto vedi la pagina 48, dedicata al «Servizio civile nel mondo», ndr).

Progetti per costruire la pace 
Quel progetto c’è ancora oggi e riguarda la maggior parte dei volontari all’estero del servizio civile, circa due terzi del totale. Nel 2012 i Caschi (chiamati “bianchi” per distinguerli dai “blu” delle stesse Nazioni Unite, che hanno compiti simili ma impugnano un’arma da usare a seconda del bisogno) sono sparsi in quasi tutti i continenti: «Paesi dell’ex Jugoslavia, Gibuti, Guinea, Sierra Leone, Argentina, Guatemala, Thailandia, Sri Lanka: ecco alcuni dei Paesi in cui sono presenti oggi con i nostri progetti – elenca Diego Cipriani, capo dell’Ufficio servizio civile di Caritas italiana -. Si occupano, dando man forte alle presenze locali del nostro ente, di ragazzi di strada, promozione dei diritti umani, riconciliazione delle parti in conflitto. La loro presenza è fondamentale, sono un punto di riferimento per la popolazione locale».
Il cornordinamento fra le quattro organizzazioni promotrici dei Caschi bianchi fa sì che il progetto sia ben strutturato: «A ben vedere rappresenta l’essenza dello stesso servizio civile: si tratta di una presenza preziosa nel prevenire e trasformare i conflitti, ovvero nel costruire la vera pace, attraverso la nonviolenza» aggiunge Primo Di Blasio, referente per la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato). Le sue parole trovano conferma nelle recenti dichiarazioni del ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi: «Perché così pochi posti per l’estero? Ne servirebbero molti di più, la mediazione è una componente fondamentale della società, che vede una crescita dei conflitti sociali».
Discorsi e intenzioni a parte, la concretezza parla da sé anche nel caso della Focsiv: 1.250 giovani partiti dal 2001 a oggi, 200 in servizio quest’anno in nazioni, tanto per citae alcune, come Cina, India, Albania, Mali, Congo, Rwanda, Colombia, Venezuela, tutti a sostegno di progetti di organizzazioni non governative italiane o locali; in Benin l’ente si è appoggiato finora alla presenza dei missionari cappuccini.
«Gli ambiti di intervento sono il socio-sanitario, la tutela ambientale, la difesa dei diritti, lo sviluppo sociale, ad esempio, promuovendo il turismo comunitario e le associazioni di artigiani locali» illustra Di Blasio. Come se non bastasse, i Caschi bianchi svolgono anche attività giornalistica dal basso, scrivendo articoli per il portale antennedipace.org. «Sono come delle antenne, pronte a diffondere quello che vedono verso tutti» aggiunge Lapenta, la cui Comunità Papa Giovanni xxiii (presente in ampie zone del mondo, dai Territori palestinesi allo Zambia, dal Tanzania alla Russia, dal Brasile al Bangladesh), si occupa anche, dall’Italia, di raccogliere i contributi dei giovani in servizio e inserirli sul portale telematico.
Inoltre, nonostante che per il servizio civile in generale sia un periodo molto arduo, data la paventata chiusura dei progetti nel 2013 se il governo non riuscirà a reperire altri fondi, dal 2011 è partito un nuovo progetto sperimentale in Albania, promosso dal Comitato Dcnan, Difesa civile non armata e non violenta, di cui fan parte gli enti promotori del servizio civile all’estero: si chiama “Oltre le vendette” e vuole aiutare la ricomposizione pacifica dei violenti conflitti famigliari che flagellano il Paese balcanico. Non solo Caschi bianchi, comunque; il servizio civile all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono attingere è ampio.

Andata…
Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ragazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servizio civile, estero compreso, almeno una volta all’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio nazionale servizio civile). La procedura è semplice: entra in contatto con l’ente referente del progetto e invia la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richieste pervenute dai vari enti.
Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che continua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, arrivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripescato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel dicembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo – spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero».
È questa la differenza con un’esperienza di volontariato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reggere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concretezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di formazione normale, si alternano incontri con esperti, laboratori, esperienze di condivisione diretta in ambienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni xxiii, ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa – riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno».
Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impegno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… – continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetizzarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà».
La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servizio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di coscienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio.
«All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivisione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni materiali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risolvere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un ingranaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servizio civile, che con umiltà cerca di entrare in un ambiente nuovo ben sapendo di essere di passaggio.
«Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui abbiamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambiamento non siamo noi ma loro, e noi con loro – specifica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragionamento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chiedermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abituati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolutrice».

… e ritorno
Peccato che, più velocemente di quel che ci si aspetti, i 12 mesi del servizio finiscano; giusto il tempo di abituarsi alla nuova vita, ed è già ora di passare il testimone al casco bianco che verrà dopo di te: si è utili, ma non indispensabili.
A un certo punto, quindi, si devono fare i conti con il ritorno in Italia. E qui inizia il bello: «A volte è più dura della partenza, sei cambiato, devi rifarti una vita», aggiunge ancora Pinnisi. Lui, dopo alcuni ritorni in Cile («perché le amicizie rimangono, ma vanno coltivate») ha oggi trovato impiego nel sindacato della Cgil, oltre a dedicarsi al volontariato in parrocchia e per Cascina G, progetto di un prete novarese per la promozione dell’impegno giovanile. Bianchi, invece, si occupa di progettazione per Banca Etica. Sono due esempi delle molteplici strade che prendono gli ex volontari di Scn all’estero, una volta superato lo spaesamento iniziale del rientro. C’è chi, fra gli altri, è diventato giornalista anche per quotidiani nazionali, chi è entrato a pieno titolo nello staff di Amnesty Inteational; parecchie decine hanno scelto la cooperazione internazionale e sono ripartiti per altri paesi.
Ancora, ci sono coloro che hanno deciso di tornare al lavoro esercitato prima della partenza, oppure sono ancora alla ricerca, soprattutto chi è tornato da poco. «All’estero mi sono innamorato della patria, mi ha rivelato un ragazzo appena tornato in Italia: questa è finora la frase più bella che abbia mai sentito», ammette il responsabile servizio civile della Focsiv. C’è infatti un filo rosso che unisce le migliaia di esperienze, ed è sottolineato da tutti i responsabili degli enti: la passione per il sociale in tutte le sue forme e il continuare a essere casco bianco in ogni situazione, nonostante sia terminata l’esperienza propriamente detta. «Con i vicini di casa, con i propri figli, i parenti, gli amici, sul lavoro o nell’associazione per cui fai volontariato: ovunque puoi portare avanti la tua missione», argomenta Chiara Perego, che nel 2004 è stata anche lei a Santiago del Cile e oggi è tornata nella sua Brianza, dove si occupa sia di economia solidale che di musicoterapia. Prima con i Caschi bianchi del suo scaglione, poi con altre persone che si sono man mano unite negli anni, essa ha fondato nel 2006 l’associazione Paciamoci onlus, per promuovere la risoluzione nonviolenta dei conflitti interpersonali, a scuola come in altri ambiti quotidiani. «Abbiamo scoperto che anche in Italia c’è molto bisogno di mediare fra le parti in conflitto, a volte da un semplice torto subito si generano catene di violenza che durano anni e possono non venire mai superate», aggiunge Perego.
C’è di più: dal 2011, almeno un centinaio di Caschi bianchi partiti con la Papa Giovanni xxiii ha deciso di tornare a fare gruppo, creando il movimento della «Ricostituente»: ogni 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica, si trovano per un momento di formazione, confronto e azione diretta nonviolenta, e nel resto dell’anno cercano di agire in gruppi locali. «Il presupposto è che si rimane caschi bianchi a vita – conclude Bianchi -; di certo i ritmi frenetici della nostra vita in Italia non aiutano, ma paradossalmente la vera sfida è di portare avanti gli ideali con cui operavi all’estero proprio qui in Italia».

Daniele Biella

Daniele Biella




La meglio gioventù

Servizio civile in Italia

Sono 3.581 gli enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Unsc (Ufficio nazionale per il servizio civile). I tagli imposti a causa dell’attuale crisi economica hanno diminuito di molto le risorse economiche, rischiando di azzerare una delle esperienze più significative ed esemplari degli ultimi 40 anni di politica giovanile.

Prendete un’esperienza che funziona: i 300 mila ragazze e ragazzi che negli ultimi 11 anni (grazie alla legge n. 64 del 2001) hanno svolto 12 mesi di Servizio civile nazionale e volontario (Scn), ovvero quella che è ritenuta dalla gran parte di sociologi ed educatori la migliore politica giovanile dello Stato italiano, sicuramente l’unica che funzioni davvero. Ebbene, se provate a tagliare, poco alla volta ma in modo inesorabile, i fondi che la tengono in piedi, tale esperienza arriva a un possibile azzeramento da qui a pochi mesi.
Follia? No. Oggi sta accadendo anche questo, nel nostro paese, sconvolto da una crisi economica che rischia di trasformarsi, se non lo è già, anche in una crisi di tipo morale. Il welfare, lo stato sociale, sta soffrendo non poco, e non ci sono parole che spieghino quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti: in pochi mesi si sta dilapidando una storia lunga almeno 40 anni, da quando, nel 1972, venne promulgata la legge Marcora (n. 772) sull’Obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio. A dirla tutta, per trovare testimonianza del primo renitente alla leva si risale fino al II sec. d.C.: san Massimiliano, che rifiutò di arruolarsi nell’esercito romano e che oggi è il santo protettore degli obiettori.
«Che la lunga notte del servizio civile sia l’esemplificazione di un paese che non vuole avere un futuro?». A chiederselo è Licio Palazzini, obiettore nel 1982 con l’associazione Arci, ma soprattutto oggi doppiamente in prima fila nel mondo del Servizio civile nazionale: è presidente di Arci servizio civile, la realtà che più di tutti ha fatto partire giovani dal 2001 in poi («almeno 15 mila, una media di 1.300 volontari all’anno»), e presiede anche la Consulta nazionale per il servizio civile, organo che dal 1999 fa sedere attorno a un tavolo tutti i protagonisti del mondo del Scn: i rappresentanti della Conferenza Stato-regioni, l’Unsc (Ufficio nazionale del servizio civile, governato dalla presidenza del Consiglio dei ministri), gli enti e i rappresentanti dei volontari. «Siamo di fronte a un corto circuito: questi ragazzi sono un capitale umano indispensabile, come si può pensare di fae a meno?» prosegue Palazzini.
A lui fa eco un’altra storica figura del settore, Diego Cipriani, 49 anni, oggi responsabile servizio civile della Caritas italiana, ma dal 2006 al 2008 direttore proprio dell’Unsc, quindi profondo conoscitore dei meccanismi di finanziamento del servizio civile. «È chiaro che noi, enti, sopravvivremmo lo stesso senza i volontari in servizio. Ma sarebbe davvero un grave errore chiuderlo, perché i fatti dimostrano che la funzione educativa per i giovani stessi e il ricavo che la comunità trae dal loro impegno è fondamentale», ragiona Cipriani, che ai 15 mesi dell’allora leva obbligatoria aveva preferito, nel 1987, i 20 mesi di servizio civile alternativo, aiutando i volontari della Caritas di Bari.
Come dar loro torto? Per capire che tipo di esperienza abbiamo di fronte basta sentire solo alcune delle voci delle migliaia di volontari che partono ogni anno da e per ogni regione d’Italia. Dai 178 del primo anno si è passati ai 7.865 del 2002, al record di 45.890 nel 2006, fino alla caduta libera degli ultimi anni, con il 2012 che vedrà un massimo di 19 mila invii, con partenze scaglionate mese per mese, proprio per problemi economici nel reperire tutti i fondi per farli partire assieme, come è avvenuto fino al 2011 (vedi tabelle a pag. 46-47). In queste cifre si nota una marcata prevalenza di ragazze (67%), con un recupero delle presenze maschili negli ultimi anni, e un’età media sui 24 anni.
Le testimonianze sono una diversa dall’altra, ma in comune hanno tutte il fatto che, comunque sia andata, l’anno di servizio civile non lo si dimentica affatto. Né lo dimenticano i beneficiari. «È un’esperienza che rimarrà per sempre. Io alla fine del servizio ho anche continuato al progetto come volontaria», spiega Charlotte Cesareo, 27 anni, che ha svolto il Scn nel 2010 per Arci servizio civile come «braccio destro dell’avvocato che aiuta gratuitamente nelle pratiche chi è in attesa del permesso umanitario». Lei, tramite il progetto «L’officina dei diritti», accompagnava i rifugiati in questura, ospedale e altri luoghi «per loro spesso fonte di preoccupazione». Aggiunge ancora la ragazza: «All’inizio è stata dura, poi capisci il tuo ruolo e diventa un’esperienza unica».
La scelta di Angelo Sgandurria, leccese, che oggi ha 28 anni, è peculiare: «Ho iniziato il servizio civile per l’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism), nel dicembre 2009. Poche settimane prima ero un militare della capitaneria di porto, sempre in ferma volontaria – racconta – ma ho deciso di cambiare, senza alcuna aspettativa: era la prima volta che incontravo la disabilità». L’anno di Scn è stato utile sia alle persone che accudiva sia a se stesso, e aggiunge: «Non si può nemmeno paragonare il beneficio del servizio civile rispetto al militare; è un’ottima palestra per crescere: prima non ero sensibile verso i problemi degli altri, ora sono all’opposto. Avrei firmato per un altro anno di servizio, ma visto che non si può fare, ora cerco comunque di lavorare nel sociale».
Non per tutti, comunque, i 12 mesi rappresentano un’esperienza solo positiva. Per vari motivi, può essere difficile e faticoso portare avanti il proprio compito. «Menomale che è finita – ammette Emanuele Pizzo, padovano di 32 anni -. L’ho fatto nel 2008, ero in una casa di riposo per anziani, all’inizio pensavo che avrei potuto valorizzare al meglio la mia giovinezza. Ma le aspettative ti fregano: la realtà quotidiana era pesante, molte persone non erano molto in sé e noi dovevamo limitarci ad assisterli in toto». Non per questo, però, Pizzo, che durante quell’anno è stato anche eletto rappresentante nazionale dei volontari, giudica l’esperienza negativa: «Al contrario, ho trovato un team di colleghi affiatato, che rendeva comunque stimolante il lavoro. Oggi too ancora nella struttura come volontario».

Assistenza, ambiente, promozione culturale, protezione civile: sono questi gli ambiti in cui rientrano tutti i progetti dei 3.581 enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Ufficio nazionale (vedi www.serviziocivile.gov.it). Tra le proposte, si può salire sull’ambulanza dell’Anpas, Croce Rossa o delle Misericordie, oppure promuovere la donazione del sangue con Avis, Fratres o Fidas. «Andavo nelle scuole di ogni grado a parlare dell’importanza di donare, portando racconti di altri donatori, gli strumenti che si utilizzano, infine accompagnando i ragazzi nelle sale di donazione: sono molto interessati», illustra Elisa Montagni, 27 anni, ex volontaria in Scn per Avis.
Viviana Ciufo è partita invece nel 2005 con il Wwf, lavorando nell’ufficio comunicazione «per provare un’esperienza concreta prima di finire gli studi in scienze geologiche». Alla fine dell’anno, è rimasta per due anni come collaboratrice, così come capita a migliaia di giovani: spesso, se fortuna e capacità vanno a braccetto, l’impegno volontario si può tramutare in un posto di lavoro. «Nel 2008 il Csv (Centro servizi per il volontariato), Sardegna solidale, dove avevo appena finito l’anno di Scn, mi ha tenuto come referente per i volontari servizio civile degli enti associati», spiega la 33enne sarda Ilaria Scioni.
«Ma vi immaginate cosa potrebbe accadere se non ci fossero più giovani ad assistere gli utenti dell’Aism, per esempio, o dei tanti altri enti che contano sul servizio civile con la doppia valenza dell’aiuto per il proprio lavoro e la crescita educativa dei ragazzi?». A porre la questione è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, dal 1994 nello staff governativo che gestisce il Scn. «L’utilità del servizio civile è sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che si trovino i finanziamenti e venga rilanciato: ne va dei rapporti tra cittadini e istituzione», sentenzia De Cicco.

Alla fine si torna sempre lì, alla questione dei fondi: dai 121 milioni di euro del 2002 si è raggiunta quota 296 milioni nel 2007, ma si è poi sprofondati agli attuali 68 milioni. Per il 2013 l’Ufficio nazionale esaurirà gli 80 milioni che ha ancora in cassa (utili per 15 mila partenze). Ma poi?
Il ministro Andrea Riccardi ha detto pubblicamente che si sta impegnando presso il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo governo a reperire i finanziamenti; molti politici e volti noti della società civile e dello spettacolo sono scesi in campo appoggiando anche l’idea di Servizio civile universale, lanciata dalla testata del non profit Vita (tra gli altri Romano Prodi, don Antonio Mazzi, i comici Giovanni e Giacomo); ex volontari e rappresentanti hanno lanciato appelli (vedi riquadro su F-35).
Si cercano nuove soluzioni, ad esempio potenziando il Servizio civile regionale, attivo dal 2004 in molte regioni, in cornordinamento con quello nazionale. Sono in discussione in Parlamento varie proposte di riforma del Scn, una delle quali in merito all’apertura dell’anno di servizio pure a stranieri e seconde generazioni. A inizio 2012 tutte le partenze erano state bloccate, perché un tribunale aveva dato ragione a un ragazzo pachistano che era stato rifiutato, ritenendo tale rifiuto un atto discriminatorio. Poi è arrivato lo sblocco, ma solo con l’impegno della politica per allargare al più presto le maglie della legge.
Insomma, siamo di fronte a un cantiere pieno di belle speranze, a ben vedere. «Ma siamo molto preoccupati; speriamo in un orizzonte più sereno di qui a poco, evitando così la paralisi», auspica Primo Di Blasio, che oltre a essere referente della Focsiv copre il ruolo di presidente della Conferenza nazionale degli enti di servizio civile (Cnesc), rete che da 20 anni racchiude tutti i più grandi enti di servizio civile.
Per capire cosa perderebbe la società basta citare qualche dato degli studi che periodicamente compie l’Irs, Istituto per la ricerca sociale: i 1.116 giovani di Arci servizio civile, in servizio nel 2009, sono costati allo Stato 6,7 milioni di euro (433 euro al giorno più contributi), ma il ritorno sulla collettività, calcolato equiparando gli stipendi di categorie lavorative con mansioni affini, è stato di 22,9 milioni, ovvero quasi quattro volte tanto e un risparmio per l’erario di 16,2 milioni. Un capitale sociale enorme, senza eguali nell’Italia di oggi. Anche perché, dicono gli esperti dell’Irs, «chi ha svolto il servizio, una volta conclusa l’esperienza, ha molta più propensione al volontariato, alla vita associativa e ad azioni di cittadinanza attiva». La speranza è che il governo dei tecnici lo tenga ben presente.

Daniele Biella

Daniele Biella




F35 e servizio civile

«Un solo cacciabombardiere F35 in meno significa almeno 20 mila giovani che possono prestare servizio civile per un anno». È questa la provocazione, o forse meglio, il suggerimento lanciato da Licio Palazzini, presidente della Consulta nazionale per il Scn (Servizio civile nazionale) e di Arci servizio civile, per aumentare l’attenzione della politica e dei media sul rischio concreto che il Scn chiuda i battenti per mancanza di fondi.
La questione dell’acquisto di F35 da parte del Goveo italiano, all’interno di un programma internazionale con altri otto paesi (capofila gli Usa), con l’impegno economico per l’Italia per una spesa di 15 miliardi di euro da qui al 2025, ha acceso roventi polemiche, soprattutto considerato il tempo di crisi sferzante. Polemiche che hanno sortito un cambiamento parziale: l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, ha annunciato la riduzione del numero dei velivoli da acquistare da 131 a 90, cioè 41 in meno. All’apparenza è un primo buon segno, che però le associazioni pacifiste hanno criticato perché, secondo loro, in particolare gli studiosi della Rete italiana per il disarmo (www.retedisarmo.org, promotori della petizione «Taglia le ali alle armi»), è l’intero programma di acquisto che va bloccato, dato che i costi continueranno a salire e la costruzione dei velivoli, che avverrà a Cameri, provincia di Novara, non porterà molti nuovi posti di lavoro: si parla di meno di un migliaio, contro i 10 mila sbandierati dal ministro.
Nel frattempo, un ragionamento immediato si può fare, come accennava Palazzini: destinando il costo di un velivolo in meno al Servizio civile, si garantirebbe un anno di esperienza ad almeno 20 mila giovani. L’idea sta piacendo a molti, volontari in primis, ma anche altri enti storici del sociale italiano, come le Acli o il movimento di Pax Christi. «Seguiamo l’esempio degli altri partner del programma F35, che stanno ridimensionando il loro impegno – chiedono le Acli ai rappresentanti del Goveo italiano -; oggi la difesa del paese è la difesa delle fasce sociali più deboli e la messa in sicurezza del nostro territorio». Pax Christi, inoltre, elenca una serie di «acquisti alternativi» a un caccia da guerra F35 (e quindi alle spese militari), cominciando proprio dai 20 mila posti di servizio civile, per poi proseguire con «32 mila borse di studio universitarie, o 250 scuole italiane messe in sicurezza, o 20 nuovi treni per pendolari, o l’indennità di disoccupazione per 17 mila persone senza lavoro».

Daniele Biella

Daniele Biella




Altri ci copiano

Forme di servizio civile nel mondo

Verrebbe da non crederci, ma è proprio così: una volta tanto, l’Italia è un esempio virtuoso per tutto il mondo, perché il suo servizio civile volontario è probabilmente l’esperienza più all’avanguardia a livello internazionale. O almeno, lo era fino a poco tempo fa, quando i pesanti tagli e il conseguente spauracchio della chiusura non facevano ancora notizia. «Quando siamo andati a presentarlo a Bruxelles, qualche anno fa, tutti si sono complimentati con noi e parecchi ci hanno detto: studieremo il vostro modello per replicarlo da noi».
A scandire queste parole è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, Ufficio nazionale servizio civile, ma componente del ministero della Difesa già dal 1994. Grande esperto della storia dell’Obiezione di coscienza (Odc), ha anche una visione completa di quello che accade negli altri paesi in termini di esperienze di difesa della patria, alternativa a quella militare. Di recente ha pubblicato il libro-saggio Le vie del servizio civile (Gangemi editore), in cui il tema centrale è proprio l’analisi generale delle «virtù civiche giovanili» tra l’Europa e il mondo globalizzato. «Il servizio civile, in tutte le sue forme, tiene in piedi i legami della democrazia, anche perché incide su aree difficili, su problematiche in cui gli stati a volte fanno fatica a intervenire in modo completo», spiega De Cicco.
Oltre al modello italiano, a livello europeo le esperienze più radicate sono quelle della Francia e della Germania. «Per i francesi l’Odc è realtà fin dal 1963. Dal 1997, inoltre esiste il Servizio nazionale universale, poi diventato Service civique nel 2010, che dura dai 6 ai 24 mesi e sta riscuotendo un buon successo: nel 2011 sono partiti 25 mila giovani tra i 16 e i 25 anni», illustra il cornordinatore dell’Unsc.
In Germania, l’anno scorso, i volontari sono stati addirittura 35 mila, proprio nel primo anno di sperimentazione del Servizio civile volontario, «introdotto dal Goveo tedesco a fine 2010, quando è stata sospesa la leva obbligatoria – continua De Cicco -; prima esisteva il servizio civile obbligatorio, 9 mesi in patria oppure 11 all’estero, per chiunque rifiutava l’uso delle armi». Dal 1961 al 2009 sono stati ben 3,2 milioni i giovani obiettori tedeschi.
Le altre esperienze di Servizio civile volontario in Europa si trovano in Danimarca, Repubblica Ceca e Svezia (solo per le donne). Comunque, l’Odc è realtà in tutte le nazioni del vecchio continente.

A livello generale di Unione Europea, invece, si stanno compiendo i primi passi per la nascita di un Servizio civile comunitario. «È la vera partita da giocare, per rendere effettivo il sentirsi parte di una cittadinanza estesa: dovrebbe nascere un servizio che promuove diritti politici, sociali e culturali», chiosa De Cicco nel suo libro. È un’interessante prospettiva, però ancora molto sulla carta, così come lo sono i corpi civili di pace europei: una sorta di evoluzione della pratica di servizio civile, composta sia da volontari che da specialisti (quindi membri permanenti, pagati dal singolo Stato o dall’Ue) che possono incidere in prima persona in un conflitto armato, interponendosi tra le parti, come è avvenuto per i primi obiettori italiani che si sono recati a Sarajevo a inizio anni ’90, durante l’assedio della città.  
Nel resto del mondo, la diffusione del Servizio civile alternativo al militare è a macchia di leopardo, e soprattutto nelle Americhe, come riporta il Centro interuniversitario di studi sul servizio civile dell’Università di Pisa (Cissc), mentre quelle di servizio volontario sono davvero poche.
Il caso più virtuoso è senza dubbio quello degli Stati Uniti d’America, dove dal 1990 esiste Americorps, un programma di volontariato ad ampio raggio a cui partecipano ogni anno almeno 70 mila ragazze e ragazzi. Al suo interno esiste il National civilian community corps, che dura 10 mesi, è aperto ai giovani dai 18 ai 25 anni e ha caratteristiche simili al Servizio civile volontario italiano. Inoltre, il Goveo federale statunitense sta per approvare quest’anno il Voluntary national service act, che serve ad arruolare nuovi volontari per «missioni» delicate, come il contrasto alla piaga della dispersione scolastica, il sostegno alle famiglie povere e l’assistenza sanitaria per i più deboli.
Un’altra dimensione significativa di servizio civile nei paesi esteri è quella brasiliana, dove però il Servizio civile volontario, attivo dal 2000 e lungo 6 mesi, è disegnato per chi è esente dagli obblighi di leva. Mentre in Argentina si sta dibattendo dal 2010 una proposta di Servicio civil voluntario che però è arenata in Parlamento.
C’è da segnalare il servizio civile nato da qualche anno in Israele, aperto ai renitenti alla leva per motivi religiosi e alla popolazione arabo-israeliana (quindi non a tutti gli altri, che devono svolgere il servizio militare obbligatorio), ma criticato dalle associazioni locali perché gestito di fatto dall’apparato di sicurezza israeliano e quindi privo di quell’autonomia dal mondo militare che compete a un’esperienza di servizio civile propriamente detta.

Daniele Biella

Daniele Biella




Giulietta parla rumeno

Un’anasili del fenomeno

I matrimoni misti – intesi come unione tra una persona italiana e una straniera – sono ormai oltre il 15% del totale. Il fenomeno è dunque rilevante. Si tratta di un indebolimento del «controllo sociale» o di una conseguenza dell’integrazione e stabilizzazione della componente immigrata della società italiana? In ogni caso, diventare una coppia mista significa confrontarsi con mondi, tradizioni e modelli di comportamento diversi. Oltre che con pregiudizi, stereotipi e pressioni provenienti dalle famiglie d’origine e dalla società. Per tutto questo, rispetto ad un’unione «tra nativi», una coppia mista può risultare più fragile. Quando però essa ha successo, il beneficio ricade sull’intera collettività.

Secondo la professoressa Tognetti Bordogna dell’Università di Milano-Bicocca, pioniera del tema in Italia, «matrimoni o coppie miste» (di solito utilizzati in modo indifferenziato, nonostante le implicazioni legali evidentemente diverse) sono due termini che si riferiscono all’istituzione sociale per la quale due persone, tradizionalmente un uomo e una donna, di paesi diversi, background culturali diversi, religioni diverse o classi socio-economiche diverse, si uniscono in un legame sentimentale (anche se in tanti casi non necessariamente) che viene socialmente riconosciuto e che implica, d’accordo con le condizioni stesse dell’unione, effetti legali.
Queste unioni, sia formali che informali, non sono un fenomeno sociale nuovo. Quando ancora non esisteva il sistema degli Stati-nazione, quando i viaggi erano più difficili da realizzarsi per difficoltà nei sistemi di trasporto e quando la conoscenza e la comunicazione con altre regioni geografiche erano scarse, poteva essere considerato matrimonio misto anche quello tra due persone di diversa provenienza familiare (matrimonio fuori dal circolo dei cugini e altri parenti), di un’altra città (anche se vicina e con un background culturale non molto diverso), di diverse correnti all’interno di una stessa religione o di età particolarmente diverse (quando il matrimonio non era stato anticipatamente approvato dai genitori). Nella storia, casi illustri di unioni miste sono state, per esempio, quelle tra Cleopatra e Giulio Cesare, tra La Malinche e Hean Cortes (dalla cui unione nacque Martin Cortes, uno dei primi meticci nel Nuovo Mondo), e tra Luigi XVI di Francia e Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena. Studi archeologici e storici hanno evidenziato anche l’incidenza di unioni miste a livello popolare (dunque non solo tra i membri delle classi più alte delle società). Alcuni esempi sono quelli citati da Franco Marzatico1, tra membri di comunità etrusche e celtiche negli Appennini bolognesi, oppure quelli citati da Massimo Guidetti2 tra barbari e romani. In ambito letterario è anche possibile nominare per esempio due delle più famose opere di William Shakespeare, Otello e Romeo e Giulietta, nelle quali le coppie protagoniste sono caratterizzate da differenze razziali e familiari nelle società rispettivamente veneziana e veronese del Cinquecento.

L’elemento comune di queste unioni è che esse rappresentano una rottura evidente dei confini imposti dalle convivenze «tradizionali» e dei limiti – impliciti o espliciti – esistenti tra le classi sociali. L’elemento in continua trasformazione è invece costituito dalle categorie sociali che vengono prese in considerazione quando un rapporto di coppia viene definito come «misto». Oggi, ad esempio, il senso comune, i mass media e la società considerano matrimoni misti, quelli in cui un coniuge ha la cittadinanza italiana e l’altro è straniero (oppure con cittadinanza italiana, ma nato e/o cresciuto in un altro paese e quindi con un background culturale diverso). Queste unioni, passando dal 5,1% nel 1998 al 15% nel 2008, appaiono di estremo interesse poiché si pongono come elemento di «interazione» tra le diverse componenti della popolazione e come testimonianza del melting pot culturale che sta progressivamente contraddistinguendo anche l’Italia, paese di «nuova» immigrazione.
Il formarsi di coppie «miste», inoltre, è considerato generalmente un indicatore sia di indebolimento del controllo sociale delle comunità di appartenenza sui propri membri sia di integrazione nella società «di destinazione». La nuzialità dei cittadini stranieri, infatti, rappresenta uno degli indicatori più significativi del processo di stabilizzazione delle comunità immigrate nel nostro Paese. In questo modo, il matrimonio misto si presenta sia come un interessante laboratorio per l’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano la relazione coniugale tout court sia come un luogo di sperimentazione e negoziazione di pratiche e significati culturali, sociali, religiosi, alimentari, etc. La mixitè3, infatti, comporta allo stesso tempo rottura e incontro rispetto a quelle che sono le differenze messe in gioco tra i partner; queste rotture e incontri (riferiti da diversi studiosi del tema come i processi ambigui che continuano a riprodursi non solo all’interno della vita ordinaria della coppia, ma lungo il percorso di vita dei loro discendenti) comportano a loro volta cambiamenti che possono toccare anche le famiglie dei partner e i gruppi sociali a cui questi appartengono. Da queste unioni derivano così importanti implicazioni sociali, psicologiche, giuridiche, religiose e anche economiche a livello collettivo.

Da una prospettiva sociologica è interessante considerare la distanza che può esistere tra i paesi d’origine dei due coniugi (distanza culturale, economica, politica, demografica, etc.), che si traduce, all’interno dei nuclei familiari, in un’unione tra individui che sono stati socializzati a differenti modelli di comportamento (su divisione dei ruoli tra i sessi, educazione dei figli, rapporti con le famiglie d’origine), e spinge a riconoscere che ci sono, in alcuni casi, differenze «più diverse» di altre.

Gli studi già effettuati su queste nuove forme familiari hanno evidenziato la possibilità di una suddivisione in tre livelli dei problemi specifici che le coppie miste debbono affrontare: il livello interindividuale, il livello intercomunitario e quello interstatale.
Certamente, per ogni individuo, il diventare coppia richiede di «fare i conti» col proprio passato, ed è pur vero che ogni nuova coppia -indipendentemente dal proprio background -, si trova a compiere un lavoro di «rinegoziazione» di situazioni in precedenza regolate per ognuno dei due partner da principi e tradizioni legate alla propria famiglia e alla propria origine. Nella coppia mista si confrontano due individui che, nella loro socializzazione, hanno interiorizzato due mondi diversi, probabilmente due concezioni diverse del matrimonio, ognuno con una propria definizione della realtà. È evidente però che lo sforzo richiesto ai partner sarà direttamente proporzionale alla distanza dei loro mondi rispettivi. In questi ambienti familiari sarà quindi particolarmente rilevante la capacità di gestione della doppia appartenenza e il grado di conoscenza, per entrambi i coniugi, della cultura e del mondo dell’altro. È però importante tenere presente che i comportamenti nella coppia mista non sono ascrivibili né a modelli culturali del paese d’origine né a modelli presenti in Italia, ma sono molto spesso oggetto di un processo di reinterpretazione.
Diversi studiosi parlano della coppia mista come di un «corpo a corpo interculturale», proprio perché un matrimonio di questo tipo richiede la rinegoziazione di una quantità impressionante di situazioni, prima regolate diversamente. L’esperienza di alcuni consultori interetnici ha evidenziato come la vera comprensione tra i coniugi sia frutto di una capacità comunicativa che conduca entrambi alla conoscenza della lingua e della cultura dell’altro. Conoscere il mondo del partner è infatti fondamentale perché aiuta a non perdere la propria identità, a sviluppare una maggiore competenza nel prendere insieme le decisioni e nel risolvere i conflitti, a sviluppare relazioni soddisfacenti con la famiglia d’origine del proprio coniuge. L’esigenza di arrivare a una nuova «definizione della realtà», ad una mediazione fra modelli culturali, è quindi da ritenersi fondamentale per la riuscita e la stabilità del rapporto coniugale. Per questo le coppie miste vengono definite «laboratori interculturali» in quanto il confronto con «l’altro» non è teorico, ma reale e quotidiano.
Il secondo livello di interazione è quello delle relazioni tra le comunità. Tanto più i due sposi appartengono a comunità tra loro lontane, per tradizione, lingua, cultura, religione, tanto più sarà difficile per tali gruppi accettare o per lo meno condividere la decisione di un proprio membro di sposarsi al di fuori del gruppo. La scelta di un partner straniero, infatti, viene spesso letta come provocazione nei confronti dell’educazione ricevuta e del proprio gruppo di appartenenza, come gesto di negazione del legame familiare e sociale in quanto ci si pone fuori dai confini del «territorio simbolico» della comunità d’origine. Di frequente il matrimonio misto è quindi elemento di isolamento dal contesto e dal sistema relazionale d’origine dei membri della coppia: le coppie cambiano amici, allentano i legami con le rispettive famiglie. È a partire dalle famiglie di appartenenza degli sposi e dagli amici che si manifestano infatti pregiudizi, stereotipi, pressioni.
Al terzo livello di «problematicità» troviamo i rapporti tra i due Stati di cui i partner sono cittadini, e in particolare i legami esistenti o mancanti tra i rispettivi sistemi giuridici. Questo livello è importante quale tutela non solo dell’istituzione famiglia, ma dei singoli componenti della stessa. A volte la chiarezza giuridica manca sin dal momento della ufficializzazione dell’unione. La mancanza di accordi a livello giuridico si rileva particolarmente importante in caso di custodia dei figli, eredità, divorzio.

Anche a causa dei problemi evidenziati, le coppie miste possono risultare più fragili rispetto a quelle «tra nativi» e dunque più a rischio di rottura e fallimento. Tuttavia, esse si configurano anche come importantissimi luoghi di incontro, dialogo e sviluppo di pratiche interculturali che possono coinvolgere non soltanto la rete familiare dei coniugi, ma l’intera comunità.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Il cammino della società multiculturale

Le famiglie e le seconde generazioni

Rifiuto e disapprovazione oppure accoglienza e accettazione: l’atteggiamento della famiglia verso il partner straniero del figlio/a è fondamentale per la sorte di una coppia mista. Il prevalere di un atteggiamento rispetto all’altro ha evidenti conseguenze sociali. Decostruire stereotipi e pregiudizi serve infatti per favorire la nascita e lo sviluppo di una vera società multiculturale. Che ha nelle seconde generazioni – i figli degli immigrati nati in Italia – un tassello essenziale.

Una delle molteplici conseguenze dell’incremento nel numero di migranti inteazionali in tutto il mondo (192 milioni nel 2010, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, Oim) è stata l’aumento dei cosiddetti «matrimoni misti» («coppie miste»). Essendo un fattore di rottura e messa in discussione delle regole «tradizionali» dello Stato e delle comunità di origine dei partner (ognuna con le proprie caratteristiche culturali e religiose), queste unioni sono state molto spesso disincentivate tramite specifici strumenti di controllo sia giuridici che sociali. Lo Stato ha usato i suoi mezzi coercitivi, ad esempio, durante l’apartheid in Sudafrica e il nazismo in Germania, inserendo leggi ad hoc che proibivano espressamente i matrimoni interrazziali. Nel caso delle famiglie e delle comunità, invece, gli strumenti usati variano (variavano) dalla negazione dell’eredità ai figli all’adozione di comportamenti ostili nei confronti del partner considerato «estraneo» e perciò non gradito.
Queste attitudini e/o comportamenti da parte delle famiglie possono manifestarsi anche nel caso di partner «omogenei», quando la scelta del figlio/figlia non è particolarmente apprezzata. Però sono ancora più presenti nel caso delle coppie miste, a causa della maggiore evidenza delle differenze. Così, nonostante la crescente inteazionalizzazione del mondo, lo sviluppo di questo come «villaggio globale» e i sempre maggiori spostamenti delle persone, abbiano aumentato la possibilità di tali unioni, queste risultano ancora suscitare perplessità e/o disapprovazione presso non poche società. D’altronde, qui entrano in gioco le regole endogamiche ed esogamiche che precisano e classificano tutti i possibili/non possibili partner matrimoniali per i membri di ogni società. La visibilità della mixité inoltre – nella coppia prima e negli eventuali figli poi – e il fatto che l’«appartenenza razziale» sia un costrutto sociale con numerose, ramificate e pervasive conseguenze sull’organizzazione sociale degli spazi, delle risorse, delle aspettative, etc., costringe la coppia e poi la famiglia mista a stare sulla scena pubblica e a dare conto delle proprie scelte in modo molto più sistematico e diffuso rispetto ad ogni altro tipo di coppia.

L’ATTEGGIAMENTO DELLA FAMIGLIA
Secondo la professoressa Gaia Peruzzi dell’Università di Sassari, che ha sviluppato nel 2008 un’interessante e ampia ricerca sulle coppie miste in Toscana, «in questa sfida, in questa prova di coraggio nei confronti della famiglia e dell’ambiente circostante, si legge anche la speranza delle coppie miste, la promessa da parte di due individui di accogliere le proprie diversità, e di rapportarsi con una cultura altra rispetto a quella di origine». Nella ricerca viene inoltre evidenziato che in Italia il ruolo delle famiglie – e particolarmente dei genitori italiani – nella vita delle coppie miste è molto importante, proprio perché dai giudizi delle stesse dipende spesso il grado in cui la coppia viene considerata come mista e perciò diversa. Mentre – al contrario – dalla loro accoglienza e accettazione dipende in buona parte il processo di adattamento del partner straniero in particolare.
L’importanza dell’atteggiamento e soprattutto del supporto delle famiglie italiane verso le coppie miste che vivono in Italia è particolarmente evidente poiché nel nostro Paese molti servizi di cura e di assistenza sociale ricadono direttamente sulle famiglie stesse. Grazie alla diffusione di una cultura che ormai considera la libera scelta del partner un diritto individuale esplicitamente riconosciuto e praticato – almeno tra le generazioni più giovani -, le famiglie degli italiani intervistati nella ricerca, che hanno deciso di sposare o di convivere con un partner straniero, non si sono opposte (per lo meno apertamente) alla scelta dei figli: «Un’opposizione aperta di genitori e familiari di fronte alla decisione di un parente si configura, al giorno d’oggi, abbastanza remota, inattuale perfino come ipotesi». Allo stesso tempo, però, molti individui intervistati hanno sperimentato diverse attitudini e/o comportamenti di rifiuto e disapprovazione più sottili («di gentilezza, ma con distacco») da parte dei genitori e di altri parenti, in particolare rivolti al partner straniero.
Laddove però i partner stranieri vengono più facilmente accettati, questo è dovuto a due caratteristiche comuni delle famiglie: un atteggiamento di curiosità e di apertura alla diversità (spesso percepita come qualcosa di esotico), oppure una percezione del partner straniero come un possibile aiuto nei lavori di casa, nella cura dei parenti anziani, o come compagnia per il figlio, in molti casi divorziato o vedovo.

LE SECONDE GENERAZIONI
Un’attenzione particolare va rivolta alle famiglie dei partner stranieri, soprattutto per quelli appartenenti alle seconde generazioni ossia i «figli di immigrati e non gli immigrati», come si definiscono essi stessi nel blog della Rete G2-seconde generazioni1. Questi giovani spesso non hanno compiuto alcuna migrazione, o, anche se nati all’estero, non sono emigrati volontariamente, ma sono stati portati in Italia da genitori o da altri parenti. Hanno compiuto in Italia tutto o parte del loro processo di socializzazione, ma rimangono talvolta esclusi dalla concessione della cittadinanza e – rischiando di essere considerati stranieri sia nel paese di origine dei genitori sia in quello di destinazione – possono riprodurre forme di downward assimilation2, anche in ambito matrimoniale. Questi individui però, proprio per la discontinuità del proprio percorso di crescita rispetto a quello dei genitori e per la diversa posizione sociale nonché per l’esperienza nella società italiana, possono anche rappresentare un fattore di profondo cambiamento degli assetti sociali.
La società stessa è ormai in buona parte transnazionale e globalizzata e appare sempre più insostenibile per i giovani figli di immigrati doversi integrare o assimilare in un modello culturale precostituito, chiuso nei confini di una nazione o di una comunità. Le seconde generazioni ricercano, al contrario, forme di riconoscimento identitario plurali, stratificate e fluide, che consentano di rendere conto in modo più adeguato di un’esperienza quotidiana caratterizzata da complessità e capacità di adattarsi a contesti mutevoli e in costante trasformazione. Esse sperimentano pratiche di multiculturalismo quotidiano, ossia un insieme di strategie che vengono usate in modo contingente e che articolano ironia, mimetismo, ostentazione, enfasi ed erranza, che permettono a ognuno di costruire la propria individualità e differenza, rivendicata ormai su scala sopranazionale, linguistica, religiosa, etc., e in riferimento a gusti, estetiche, simboli e tradizioni che travalicano i confini di uno Stato.

TRA LA CULTURA EREDITATA E QUELLA ACQUISITA
I giovani, soprattutto quelli nati in Italia, infatti, pur riconoscendosi per certi aspetti sostanziali (soprattutto nello stile di vita, nelle abitudini, nella libertà e nelle opportunità a disposizione) come italiani non sono facilmente disposti a negare o occultare altre forme di riconoscimento (soprattutto per ciò che concee i valori, le tradizioni e i legami familiari). Le seconde generazioni incarnano, dunque, spesso non senza fatica e conflitti, le due culture, quella ereditata dai genitori e quella acquisita in Italia. E spesso il confronto/scontro con la propria famiglia e la loro comunità di appartenenza avviene rispetto ad alcune scelte fondamentali come quella del partner.
Il formarsi di coppie miste, infatti, può essere percepito come un indicatore di indebolimento delle comunità di appartenenza e un motivo di vergogna per la famiglia in cui questo avviene, segno del «fallimento» nell’educazione dei figli (ma soprattutto delle figlie).
Un esempio interessante viene descritto da una ragazza musulmana nel blog delle seconde generazioni Yalla Italia3: «Dover affrontare i propri genitori e presentare il “prescelto”, è di per sé imbarazzante, figuriamoci poi se quest’ultimo non ha tutti i requisiti necessari al posto giusto, gli manca un “pezzo”, insomma, un lieve difettuccio che “cozza” con i canoni del bravo ragazzo, preferibilmente arabo e assolutamente musulmano. Un diversamente musulmano? No! Apriti cielo. Sacrilegio, tragedie greche e anche telenovelas venezuelane, tutte insieme. Si inizia con un: “Ma con tutti quelli che ci sono al mondo proprio uno non mussulmano?”, per poi infierire su quel poco di sicurezza rimasta: “Sei proprio scesa in basso”, e ancora infliggerti un: “Perché ci hai fatto questo? Sparleranno tutti di noi”».
Nel racconto della ragazza questo sembra emergere come l’aspetto peggiore, quello che conta di più o, meglio «che conta di più per loro – i genitori e la comunità – che per noi», poiché provoca il giudizio su se stessi e la propria famiglia: «Ed ecco che gli amici, la società, i compagni di preghiera, i tuoi parenti o serpenti, insomma tutti sono lì pronti a giudicare sia te, facendoti sentire “sbagliata”, sia la tua famiglia che non è riuscita a compiere il miracolo di crescerti “come si deve”».
E così le seconde generazioni sono chiamate, per l’ennesima volta nella loro vita, a mediare, negoziare e definire pratiche e spazi di riconoscimento, modelli di comunicazione e forme di identificazione che tengano conto non solo dell’identità nazionale, ma che includano anche le lealtà ai legami familiari, alla religione, e ad una presunta e continuamente rielaborata appartenenza etnica e culturale.

DECOSTRUIRE PER COSTRUIRE
Se da un lato le attitudini e i comportamenti dei genitori (italiani e non italiani) verso le coppie miste hanno spesso un forte carattere strumentale e/o stereotipato, dall’altra l’esperienza di moltissime coppie miste mostra che i successi sono possibili e che gran parte dell’accettazione, della condivisione e del sostegno alla scelta del figlio si costruisce attraverso la conoscenza del partner e della sua cultura. Quando abbiamo chiesto a Marta e Manuel, coppia italo-dominicana in attesa di un bambino, di immaginare loro figlio tra 20 anni in una relazione «mista», hanno inizialmente mostrato di avere le stesse perplessità dei loro genitori. Poi si sono guardati, sono scoppiati a ridere e si sono corretti: «Prima di giudicare cercheremo di conoscere la persona di cui nostro figlio si è innamorato. Non vogliamo che sia vittima degli stessi stereotipi o pregiudizi di cui siamo stati vittime noi».
Se davvero così sarà, è allora possibile sostenere che davvero i matrimoni misti sono segnali di integrazione. Essi aiutano a sviluppare idee e comportamenti che potranno «decostruire» stereotipi e pregiudizi che troppo spesso non permettono di costruire relazioni umane e di coppia su cui fondare una società realmente inclusiva e rispettosa delle differenze.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




I dilemmi della famiglia biculturale

L’ora delle scelte

Come si comportano le famiglie miste con i propri figli? Anche in questo caso le possibilità possono essere le più diverse, a seconda che la coppia scelga di valorizzare entrambe le culture, di optare per quella italiana oppure di vivere nell’incertezza. Probabilmente, soltanto quando la cultura sarà vista come elemento dinamico e in evoluzione, potrà nascere una società «diversamente italiana».

Diverse ricerche condotte dagli anni ’90 ad oggi hanno mostrato che esistono tre differenti modalità di gestione delle differenze e delle appartenenze nelle relazioni della famiglia con i figli e con la società. Secondo Graziella Favaro, pedagogista che da anni si occupa di inserimento e successo scolastico di minori stranieri e figli di coppie miste, la famiglia mista può sentirsi: un gruppo cosmopolita; assimilata alla maggioranza; un nucleo instabile e in continua tensione a causa delle differenze esistenti tra le due culture di riferimento familiare.

la FAMIGLIA COSMOPOLITA
Nella prima tipologia familiare i coniugi vivono la propria appartenenza biculturale come un’occasione di arricchimento per sé, per gli altri e tanto più per i figli. In queste unioni le scelte importanti per la vita del figlio vengono rimandate in quell’età in cui il figlio potrà decidere da solo. Questo avviene, ad esempio, in molte coppie in cui la sfera religiosa non è ritenuta fondamentale (i cosiddetti «tiepidi») per cui vengono considerate altre le cose prioritarie da insegnare al proprio figlio. L’atteggiamento dei genitori è orientato alla valorizzazione di entrambe le culture in modo da far conoscere indistintamente tradizioni, valori, usi, al fine di mantenere vive le radici familiari e il sentimento di appartenenza di ogni individuo. Sotteso a questo approccio c’è spesso una conoscenza e un amore per l’altra cultura talvolta anche precedente l’incontro col partner e l’idea che non si sia così distanti, ma sia solo questione di «smussare un po’ gli angoli». Il figlio di queste coppie è quindi portato a vivere una situazione di doppia appartenenza non conflittuale, non considerando minoritaria né l’una né l’altra cultura.

la FAMIGLIA ASSIMILATA
Le famiglie miste che tendono invece all’assimilazione optano per l’accantonamento della cultura e delle origini del coniuge straniero in quanto considerate di intralcio o comunque non funzionali all’inserimento del nucleo familiare, e nello specifico del bambino, nella società in cui esse vivono. L’«invisibilità di un pezzo di storia familiare» sembra essere il prezzo da pagare per proteggere il figlio dalle possibili aggressioni di un ambiente e di un paese che appare discriminante e xenofobo.
È la voce diretta degli interessati che spesso conferma questo aspetto: «Se nel tuo compagno la diversità può essere proprio quell’elemento che attira, che incuriosisce, che stimola l’interesse… quando hai un figlio le cose cambiano perché vorresti solo che tuo figlio fosse il più possibile uguale a te…».

la FAMIGLIA INSTABILE
Le coppie appartenenti al terzo gruppo sono invece coloro che ancora non hanno trovato un’armonia intea e una collocazione nel più ampio ambiente sociale poiché non sono ancora arrivate ad elaborare le differenze alla pari, considerando di eguale valore ed importanza entrambe le culture di riferimento. Queste famiglie vivono in una situazione di continuo conflitto rispetto ad ogni scelta educativa ed identitaria: di conseguenza, le relazioni intee sono stressanti e conflittuali sia per i coniugi sia per i figli i quali vivono la loro appartenenza a due culture in modo problematico e, spesso, scelte orientate ad una piuttosto che all’altra cultura sono vissute come un tradimento nei confronti di uno dei due genitori. Le situazioni di disagio spesso possono evidenziare anche l’esistenza di una disparità nel potere decisionale dei due adulti che li induce a lottare per far prevalere una sola cultura e per trasmettere le tradizioni di un solo paese, il proprio.

LE SCELTE EDUCATIVE
Se nella coppia la differenza, la diversità dell’altro può essere occasione di arricchimento, nella relazione con il bambino far prevalere cultura, abitudini, valori di un genitore, può far emergere sentimenti di perdita e rinuncia. Ecco, dunque, che nelle coppie miste le scelte educative per i figli sono il banco di prova di una negoziazione (o della mancanza della stessa) all’interno della coppia e tra la coppia e l’esterno (famiglie di origine, società di accoglienza). Per tutto questo, per le famiglie miste, l’educazione dei figli è uno degli ambiti più difficili da gestire ed il passaggio famiglia – scuola diventa estremamente delicato.
L’ingresso nella scuola matea, in particolare, segna per i bambini anche il primo confronto con il gruppo, e dunque il confronto con la diversità: il gruppo è il luogo in cui è possibile elaborare la dialettica appartenenza – individuazione, entrambe necessarie allo sviluppo psichico e alla crescita sociale. Il bambino, infatti, nel confronto con gli altri scopre la sua diversità (e le sue somiglianze), mentre gli adulti si trovano a rapportarsi con un’istituzione che ha regole che spesso richiedono un’esplicita dichiarazione della propria scelta sul figlio: l’alimentazione, la lingua, la religione.
Seguendo Favaro, si possono distinguere tre tipologie di scelte dei genitori che ricalcano i gruppi precedentemente individuati: i cosmopoliti; gli assimilati; gli instabili.
I primi sono quei genitori che cercano, attraverso spazi e decisioni quotidiane, di costruire, per i loro figli, legami e appartenenze plurali, senza che vi siano fratture e distanze. Del secondo gruppo fanno parte i genitori che tendono a fare scomparire ogni traccia di memoria e di appartenenza alla cultura altra (quella straniera). Infine, ci sono coloro che oscillano tra scelte ambivalenti e conflittuali che ricadono con effetti talvolta estremamente negativi sul bambino.

«NON SONO MICA UN’EXTRACOMUNITARIA!»
Dal punto di vista dell’istituzione scolastica, invece, è importante da un lato evitare il rischio di non considerare la doppia origine di questi bambini (dato che non sempre la diversità di origini è accompagnata e annunciata da un’evidenza percepibile a prima vista). Dall’altra, occorre non cadere nell’errore di definire «diverso» chi poi nella realtà non lo è, di valorizzare un’appartenenza culturale non sentita o sentita in modo personale (e spesso più complesso) dall’interessato e che è opinabile sia compito della scuola conservare e tramandare.
In una scuola di Milano, ad esempio, quando una ragazzina, figlia di un’egiziana e di un italiano, si è sentita proporre di seguire un corso di arabo a scuola, ha replicato un po’ stizzita: «Non sono mica un’extracomunitaria!». Diventa sempre più importante, inoltre, dato l’aumento delle seconde generazioni, figli di stranieri nati sul territorio italiano, evitare il rischio di reificazione delle culture e di imposizione al bambino «di origine straniera», ma nato e cresciuto in Italia, di una cultura che spesso sente sua tanto quanto, se non meno, quella italiana. Da questo punto di vista è emblematica la storia che l’antropologo Marco Aime racconta a conclusione del suo libro Eccessi di culture1 (la storia a sua volta gli è stata raccontata da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere di Torino caratterizzato da una forte presenza di immigrati): «In una scuola matea del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto ad un piccolo di origini marocchine: “Ti piace?” “Sì”. “È come quello che fa tua mamma?” e la risposta del bambino è stata: “Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”».
È pertanto fondamentale ricordarsi che la cultura non è qualcosa di statico, ma è un processo creato e ricreato dall’incontro tra individui ed è perciò in continua trasformazione ed evoluzione. Le coppie miste e le istituzioni educative sono chiamate a sperimentare congiuntamente pratiche creative nuove e a beneficiare dei successi degli uni e degli altri, sfidando preconcetti e definizioni per la costruzione di una nuova società «diversamente italiana».

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Conoscersi attraverso il cibo

Mangiare in una coppia mista

Le coppie miste sono un laboratorio interculturale, dove le differenze si incontrano, si scontrano e si trasformano. Ruoli di genere, divisione del lavoro, uso del denaro, educazione dei figli, religione, ma anche lingua ed abitudini alimentari. Queste ultime, in apparenza poco rilevanti, possono divenire un proficuo elemento di incontro e condivisione.

Una particolarità dei cosiddetti matrimoni misti (o unioni miste) è la loro natura interculturale che li rende un vero laboratorio di scambio, sperimentazione e soprattutto negoziazione, nelle più varie pratiche della vita quotidiana. Pratiche che spaziano dagli orari di vita (per mangiare, dormire, etc.), ai gusti e alle abitudini culturali, alle credenze e pratiche religiose. Naturalmente queste attività d’interazione non riguardano in via esclusiva le coppie miste. In tutti i rapporti tra due o più persone (ma in modo particolare all’interno di una coppia) si scambiano e si negoziano opinioni, gusti, abitudini, principi e decisioni. Tuttavia, le differenze che si «giocano» all’interno delle coppie miste sono di solito più evidenti (anche se non necessariamente più contrastanti). Questa condizione di particolarità si deve proprio al fatto di coinvolgere due persone nate, cresciute e quindi socializzate in due culture diverse, che hanno deciso di vivere assieme e di costruire un progetto di famiglia condiviso. Questa scelta comporta un’attività di negoziazione quotidiana.

UN ELENCO DI DIFFERENZE
Alcuni ricercatori hanno identificato almeno due categorie di differenze culturali che abitualmente vengono prese in considerazione all’interno delle unioni miste: le differenze (quasi) innocue e le differenze (più) rilevanti, essendo queste ultime quelle che con maggiore probabilità possono diventare un motivo di separazione per la coppia. Nelle prime è possibile far rientrare la lingua e le abitudini alimentari, mentre tra le seconde compaiono la religione, i ruoli di genere e la divisione del lavoro, l’uso del denaro e l’educazione dei figli. Ciò non significa che le prime siano irrilevanti ma che, per le coppie oggetto delle ricerche, tali differenze non hanno rappresentato un motivo di rottura. A questa prima categoria appartiene un elemento che, proprio per la sua quotidianità, è spesso passato inosservato, pur rivestendo una grande importanza in virtù della sua necessarietà per la vita di qualsiasi individuo, indipendentemente della cultura in cui sia nato e cresciuto: il cibo.
Secondo lo scrittore, linguista e semiologo, Roland Barthes «il cibo è in ogni posto e in ogni epoca un atto sociale». Mangiare non è solamente un atto fisiologico e materiale dell’uomo, ma anche un’espressione permeata di significati culturali, sociali e simbolici, che, in più, possono variare da una cultura all’altra. In questo modo, proprio perché il cibo è presente lungo tutto il percorso di vita dell’essere umano, perché le specifiche abitudini alimentari sono le prime a conformarsi e perché, attraverso il cibo e lo sviluppo della cultura gastronomica, si può esprimere la propria identità culturale, nei processi migratori si sono studiati i cambiamenti alimentari e anche psicologici (proprio derivati dei cambiamenti nella dieta alimentare) che di solito sperimenta una persona/gruppo quando emigra in un contesto (gastronomico, ma non solo) diverso.

DAL MESSICO AL SENEGAL
Un interessante studio di Wallendorf & Reilly (1983) del dipartimento di marketing dell’Università dell’Arizona, partendo dall’analisi dei rifiuti alimentari di un campione di famiglie di origine ispano-americana (in maggioranza messicane) nel sud degli Stati Uniti, è riuscito ad identificare una forma specifica di consumo culinario unico ed originale. Tale forma non si sarebbe sviluppata, infatti, da un processo di assimilazione oppure da una semplice mescolanza tra gastronomia statunitense e messicana, ma avrebbe avuto origine direttamente da queste due distinte tradizioni (quella di origine e quella del paese di destinazione) che però hanno dato vita ad una terza «cultura culinaria» specifica, capace di soddisfare sia le necessità fisiologiche che quelle culturali del gruppo migratorio. Inoltre lo sviluppo di questa «terza opzione» alimentare è diventato anche il pretesto per promuovere momenti in cui persone, che si riconoscono (in quanto parte di un gruppo) legate da un’esperienza migratoria condivisa, si ritrovano a mangiare insieme.
Un altro studio, condotto da Gasparetti del Dipartimento di Studi orientali ed africani dell’Università di Londra, si è invece concentrato sui processi di acculturazione alimentare di un gruppo di migranti senegalesi in Italia, rilevando che le pratiche alimentari di questo gruppo africano, possono essere identificate con un processo di emarginazione. I senegalesi, infatti, preferiscono in via esclusiva i piatti tipici della cultura senegalese, che abitualmente consumano ritrovandosi, e quindi socializzando, solo tra di loro (o al limite con altre culture africane affini). Al contempo non hanno mostrato grande interesse per conoscere e provare la cucina del paese di destinazione, in questo caso dell’Italia.
I due esempi citati vogliono fornire un’immagine un po’ più dettagliata del ruolo e della rilevanza del cibo all’interno di un processo migratorio che, come si è visto, implica un incontro culturale anche in termini culinari. Entrando più nel dettaglio, chiediamoci ora cosa accade quando queste differenze in termini di cultura gastronomica, disponibilità di ingredienti, necessità, preferenza e gusto si ritrovano all’interno di una coppia.

I BENEFICI DELLA «CONTAMINAZIONE»
Dagli studi fatti precedentemente, tra cui uno dei più completi è quello di Peruzzi in Toscana (2008), le differenze alimentari non hanno mai rappresentato un grosso problema tra i conviventi misti. Gran parte dei soggetti che decidono di sposarsi con un partner di un’altra cultura hanno, in genere, già avuto contatto con la cultura gastronomica del coniuge anche prima di conoscerlo.
Le persone che sviluppano, sia per tradizione sia per propensione personale, una cultura di apertura e curiosità verso differenti tipi di gusti e sapori, sono quelle che solitamente sperimentano, assaggiando i piatti di altre culture gastronomiche (soprattutto quelle che possono apparire più esotiche), permettendo la «contaminazione» delle proprie abitudini alimentari con nuovi ingredienti, aromi, sapori, etc. Per queste persone non rappresenta un problema negoziare i consumi alimentari all’interno della coppia mista, e anzi i partner trovano che l’atto di cucinare e il loro gusto per il «ben e diverso mangiare» sia un punto d’incontro, scambio, conoscenza e addirittura di comunicazione interpersonale.
Un fattore importante intorno al cibo è anche il processo di divisione del lavoro che si configura attorno alla sua preparazione e al resto delle attività casalinghe. Quest’ultime di solito vengono fatte dal partner che trascorre più tempo in casa e che, per ragioni strutturali del mercato del lavoro italiano, continuano ad essere maggiormente le donne. Nonostante questo svantaggio generico, si osserva che, all’interno delle coppie miste, tanti uomini hanno sviluppato un gusto per l’arte di cucinare che permette loro di riscoprire un luogo d’azione e di apprezzamento gastronomico condiviso.
Il ruolo del cibo, non solo all’interno delle coppie miste, ma anche come elemento d’acculturazione dei gruppi migranti, ha pure avuto una importante conseguenza economica. Lo si nota nella crescita di diversi piccoli e medi negozi che si occupano della produzione, importazione e commercializzazione, dei cosiddetti «cibi etnici». Questi, nel caso dell’Italia, si trovano maggiormente nei centri urbani con un’alta densità di popolazione immigrata come Roma, Milano o Torino. Nel 2008, in conseguenza della sua rilevanza economica e sociale, la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Torino ha realizzato un’inchiesta sulle iniziative economiche degli immigrati nella filiera alimentare. È emerso che, nel capoluogo piemontese, la maggior parte delle imprese del comparto del cibo sono gestite da titolari provenienti da tre principali paesi: Marocco (30.3%), Cina (22.3%) e Egitto (17.8%). In ogni caso, nel complesso, nel settore della vendita di cibo etnico è possibile trovare rappresentate tutte le aree geografiche continentali. Questa variegata disponibilità di scelta permette alle coppie miste (e soprattutto al partner straniero) di riprodurre, almeno parzialmente, la propria cultura attraverso il cibo, sviluppando la creatività attraverso la mescolanza d’ingredienti e la creazione di nuove ricette. Condividendo la cultura gastronomica non solo con il partner, ma anche con familiari e amici (quelli più disponibili ad assaggiare), si promuoverà un rapporto di conoscenza culturale che va oltre gli aromi e i sapori.

Claudia Zilli Ramirez

Claudia Zilli Ramirez




Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini