BAHRAIN: REPRESSIONE IGNORATA

Abbiamo incontrato Jasim
Husain e Hadi al-Mosawi, deputati del maggiore partito di opposizione del
Bahrain, al-Wifaq.

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On. Husain e al-Mosawi, quali sono le richieste che il
vostro movimento e la piazza del Bahrain fanno al regime?

Al-Mosawi: «La nostra è
una domanda di democratizzazione intea, di partecipazione alla gestione del
Paese e della politica. Non stiamo chiedendo la fine della monarchia degli
al-Khalifa, ma un sistema parlamentare vero e un governo che sia
rappresentativo del popolo e dei partiti, e la fine della presenza saudita, a
livello politico e militare. Vogliamo che le discriminazioni religiose, sociali
e professionali finiscano. Vogliamo media liberi e una società attiva. E la
liberazione dei prigionieri politici.

La rivolta è iniziata il
15 febbraio 2011, chiedendo riforme. Noi abbiamo sempre organizzato
manifestazioni pacifiche, non-violente, in stile gandhiano, ma il regime ha
risposto subito reprimendo, uccidendo».

Husain: «Siamo convinti
che il Bahrain sia pronto per la democrazia. Il paese ha un alto livello di
scolarizzazione. Ci sono tante persone colte, preparate, anche se molti
intellettuali sono in esilio. La democrazia arriverà, ne siamo sicuri. Il
regime attacca i manifestanti, pacifici, distrugge le moschee: ne abbiamo perse
35. Dove s’è mai visto un governo musulmano che abbatte le moschee? Le autorità
non vogliono che la nostra rivoluzione popolare continui in modo pacifico,
vogliono la violenza, così da poterci reprimere più duramente, ma noi siamo
non-violenti. Possono testimoniarlo le tante delegazioni parlamentari e
diplomatiche che arrivano in visita in Bahrain».

Qual è la situazione dei
diritti umani nel vostro paese? Husain: «Il regime si sta vendicando della
rivoluzione in corso. Un’ondata di licenziamenti ha colpito i manifestanti, sia
nel settore privato sia in quello pubblico: 4.400 tra bancari, insegnanti,
impiegati, medici, operai, poliziotti, ecc., sono stati mandati a casa per aver
partecipato alle rivolte. Licenziare come rappresaglia non è etico. Le autorità
non capiscono che ciò non è più concepibile nel mondo contemporaneo. Sono
rimaste indietro, sono arretrate, mentre la gente non lo è affatto, è colta e
non sopporta più un sistema dove un capo di governo è al potere da 40 anni e
dove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno».

Al-Mosawi: «Il 23
novembre del 2011, il Bici (www.bici.org.bh), Commissione indipendente
d’inchiesta del Bahrain, che monitora la situazione dei diritti umani, ha
stilato un rapporto di centinaia di pagine, evidenziando una politica settaria
e discriminatoria e un uso eccessivo della forza da parte del regime nei
confronti dei manifestanti. La situazione sta peggiorando: all’inizio, le
proteste di piazza avevano motivazioni politiche. Ora sono contro le violazioni
dei diritti umani. E poi?».

In Occidente, certi media
hanno scritto che la rivolta in Bahrain è incoraggiata dall’Iran. Cosa
rispondete?

H. e M.: «Nel rapporto
del Bici non emerge questo. L’Iran non era dietro allo scoppio della rivolta
popolare. Noi portiamo avanti la nostra lotta per il cambiamento interno, senza
ingerenze estee: vogliamo democrazia, diritti e il rispetto di principi
universali, giustizia per tutti». (fine)

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Angela Lano




Un altro Natale è possibile

Premessa. Dio si è avvicinato per vedere cosa accadeva – Luca Lorusso

 

È nato, si dice – Ugo Pozzoli
Rileggere le nostre fatiche in un’ottica di fede

La crisi renderà il Natale (forse) meno spendaccione del solito. Meriterà ancora celebrarlo «da poveretti»? Forse abbiamo l’opportunità di riscoprirne il senso più profondo che le luci di vetrina, i fiocchetti colorati, lo stress da ipermercato affollato, tendono a nasconderci. Dio nasce in un luogo di miseria. Il Natale è la festa del poco: ecco che lo riscopriamo come veramente nostro.

 

La festa della tenerezza di Dio – Ernesto Olivero
Una lettera sul Natale ai lettori di MC dal fondatore del Sermig, Ernesto Olivero

 

L’intensità di una gioia silenziosa – Marta Giambuzzi
Fratel Emanuele ci racconta il Natale in monastero

La comunità monastica cistercense Dominus tecum di Pra ‘d Mill è composta di 14 monaci. Essa struttura la sua vita attorno a preghiera, lavoro, lettura, senza trascurare uno degli elementi fondamentali dello stile monastico: l’accoglienza.

 

Osare non usare – Luca Lorusso
Il regalo alternativo secondo Gian Paolo di Casa Wiwa

«Io direi, per Natale non fate regali». Parola di «bottegaio»! O meglio, fateli: equi, solidali, biologici, ma nella sobrietà, resistendo al consumismo – anche a quello equosolidale -, prendendo l’acquisto del regalo come un’occasione per diventare più liberi e per dare un segno di speranza a chi lo riceverà.
Abbiamo incontrato Gian Paolo, che legando le proprie scelte di sobrietà alle dinamiche dell’economia globale, illustra «un altro regalo possibile», per un «altro Natale», più evangelico.

 

Natale in tre tempi – Gianfranco Testa
Evocando Natali in altre terre

Padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata, ci manda tre piccole e suggestive «storie» di Natale tratte dai suoi vissuti in diversi paesi dell’America Latina.

 

di Ugo Pozzoli, Ernesto Olivero, Marta Giambuzzi, Gianfranco Testa, Luca Lorusso




Una storia «sacra»

Premessa

Il libro dell’Esodo inizia così: «Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto, insieme a Giacobbe, ognuno con la sua famiglia: Ruben, Simeone, Levi e Giuda, Issacar, Zabulon e Beniamino, Dan e Neftali, Gad e Aser». Il libro sacro narra una storia che si ripete, in un diverso contesto, in quella del popolo afroamericano: una storia di fede, inserita in una manifestazione permanente di Dio in mezzo a un popolo che, attraverso altee e dolorose vicende, è riuscito non solo a sopravvivere, bensì a raggiungere anche la tanto sospirata dignità di figli di Dio.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dedicato loro l’intero 2011, dichiarato «Anno internazionale degli afrodiscendenti», con l’obiettivo di «rafforzare le azioni nazionali e la cooperazione regionale e internazionale a beneficio delle persone di discendenza africana, in relazione al loro pieno godimento dei propri diritti economici, culturali, sociali, civili e politici, la loro partecipazione e integrazione in tutti gli ambiti della vita sociale e perché sia promossa una maggiore conoscenza e rispetto per la loro diversità ed eredità culturale».
Durante l’anno si sono svolti seminari, congressi, conferenze, inchieste, festival, dichiarazioni, manifestazioni religiose e culturali… Tutto ciò ha certamente giovato a queste popolazioni, ma è ancora ben lontano da offrire loro opportunità concrete per emergere da quella invisibilità giuridica che per secoli li ha tenuti emarginati.
Nella diocesi di Cali, tutti gli agenti di pastorale sono stati invitati non solo a partecipare alle varie iniziative promosse durante l’anno, ma soprattutto a sviluppare una riflessione evangelizzatrice che permetta sia agli afrodiscendenti che al resto della popolazione diocesana di leggere la storia afro in Colombia con una visione di fede. Bisogna rendersi conto che anche gli afrodiscendenti hanno un cammino di fede da offrire al resto dell’umanità. Solo da una prospettiva di fede possiamo raccontare con orgoglio «l’esodo afro», scoprendo la mano di Dio nella sofferenza, nelle ingiustizie e altre avversità che avrebbero potuto segnare la fine di tutta una popolazione, la quale invece continua a crescere forte negli stessi contesti dove arrivò in condizione di schiavitù.
Come in Egitto giunsero le famiglie di Giacobbe, in America Latina arrivarono le etnie africane: carabalì, lucumì, mandinga, ocorò, possùs, mina, arboleda, quiñones, mosquera ecc.
Mentre gli israeliti scesero in Egitto spinti da carestie e accolti dal fratello Giuseppe, gli africani furono rapiti, strappati dalle proprie case, portati con la forza in Colombia per mai più ritornare alle loro terre; a poco a poco si moltiplicarono, come gli israeliti in Egitto. Gli spagnoli li costrinsero a costruire Cartagena, Barranquilla, Santa Marta, Canal del Dique… come i caposquadra egiziani sottomisero gli israeliti ai lavori forzati per costruire le città di Pitom e Ramses. Ma più venivano maltrattati più aumentavano, gli africani come gli israeliti (Es 1,11-12).
Stando alle statistiche ufficiali più recenti, su una popolazione di 590 milioni di abitanti, in America Latina e Caraibi gli afrodiscendenti sono oltre 150 milioni, con le seguenti percentuali di popolazione nazionale: Bahamas 69%, Belice 40,5%, Bolivia 1,6%, Brasile 28,3%, Colombia 16,3%, Costa Rica 1,5%, Cuba 54,7%, Ecuador 8,7%, Guiana 43,7%, Haiti 74,7%, Honduras 4%, Jamaica 88,5%, Messico 0,5%, Nicaragua 10,2%, Panama 59,9%, Paraguai 2,7%, Perù 8%, Repubblica Dominicana 68,3%, Suriname 33,4%, Trinidad y Tobago 39%, Uruguay 4,9%, Venezuela 8%.

Oggi, dopo cinque secoli, molti uomini e donne stanno ancora rimarginando le ferite riportate nello sradicamento dalle loro terre, riduzione in schiavitù, violenze subite, assassini dei loro cari… Per capire e vivere pienamente le proposte dell’Anno internazionale degli afrodiscendenti è fondamentale riprendere il tema della tratta degli schiavi.
La memoria storica è il primo tema da trattare, prima di affrontare quello dei diritti. L’Esodo viene prima del Genesi (anche se questo è il primo libro nel canone della Bibbia), per la semplice ragione che Israele non sarebbe mai stato interessato al messaggio del primo libro della Bibbia se Dio non l’avesse riscattato dalla schiavitù d’Egitto e non l’avesse legato a sé con un patto di alleanza. La stessa cosa vale per gli afrodiscendenti: non servirebbe a nulla ritenerci figli di Dio se non riusciamo a percepire la mano di Dio negli avvenimenti storici accaduti, per quanto tragici e dolorosi possano essere stati.

Venanzio Munyiri Mwangi

Venanzio Munyiri Mwangi




Primi attori dell’indipendenza

Mondo Afro in Colombia

La Colombia è al terzo posto per numero in assoluto di popolazione nera in America, dopo Usa e Brasile: su circa 46 milioni di abitanti, i discendenti dagli antichi schiavi africani oscillano tra 13 e 18 milioni. A 200 anni dall’indipendenza del paese e a 160 dall’abolizione della schiavitù, gli afrocolombiani sono ancora emarginati e discriminati, in fondo a tutte le classifiche di sviluppo del paese. Eppure essi hanno contribuito fortemente alla nascita e alla crescita della società colombiana in tutti i suoi ambiti. 

Rivolte di schiavi e costituzione di «territori ribelli» furono un fenomeno che caratterizzò tutto il continente americano; ma in Colombia esso ebbe una specificità tutta particolare: gli schiavi rivoltosi presero il nome di Cimarrones e i loro insediamenti, circondati da piccole fortezze per difendersi dai soldati spagnoli, furono chiamati Palenques. Tale forma di resistenza nera cominciò fin dagli inizi della schiavitù e si protrasse fino alla fine della colonia: i neri furono i primi a lottare per l’indipendenza del paese dal regime coloniale; ancora oggi il nero cimarrón è il simbolo della libertà; di lui si devono sentire orgogliosi tanto i neri come i bianchi colombiani.

Una storia ignorata
A partire dal 2001, il 21 maggio di ogni anno si celebra la «Giornata nazionale della afrocolombianità», istituita dalla legge 725 per commemorare il 150° anniversario della fine della schiavitù in Colombia, abolita il 21 maggio 1851. Con tale iniziativa si vorrebbe mostrare che la Colombia è un paese democratico, tollerante, rispettoso della differenza, non discriminatorio, che valorizza positivamente il contributo degli afrocolombiani all’identità nazionale. Ma la realtà è molto diversa. Benché la Costituzione colombiana sancisca e garantisca l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, nella pratica, però, persistono forme strutturali acute di invisibilità giuridica e discriminazione della popolazione afro.
Il censimento del 1993 concluse, contro ogni evidenza e per errori tecnici, che gli afrodiscendenti costituivano appena l’1,5% della popolazione colombiana. Nel censimento del 2005, realizzato con migliori forme di partecipazione e di rilevazione dei dati, la percentuale degli afrodiscendenti salì all’11%; ma secondo molti esperti, questa cifra sarebbe ancora molto inferiore alla realtà.
Il censimento del 2005 ha registrato 4.311.757 persone auto-identificatesi come afrocolombiane: ciò rappresenta un miglioramento nella stima della popolazione afrodiscendente; ma ci sono altri parametri da tenere in conto, destinati a stabilire con più chiarezza e precisione le dimensioni della presenza degli afrodiscendenti in Colombia e, conseguentemente, le implicazioni socioculturali che ne derivano. Alcuni affermano che gli afrocolombiani sono 13 milioni; secondo Juan de Dios Mosquera, direttore nazionale del Movimiento Cimarrón, essi sarebbero 18 milioni; solo nella capitale, secondo le stime del Centro studi sociali dell’Università nazionale di Bogotà, ce ne sarebbero circa 950 mila.
Segnati da una storia di invisibilità giuridica, gli afrodiscendenti colombiani sono il gruppo più svantaggiato, i più poveri tra i poveri. La loro esistenza è caratterizzata da emarginazione, esclusione, discriminazione, disuguaglianza sociale, con relativi svantaggi economici e sociali, oltre alle difficoltà per accedere ai servizi basilari di sanità e istruzione, alla partecipazione nella vita pubblica e a impieghi redditizi.
«Noi colombiani – scrive l’antropologa Patricia Quintero Barrera – dobbiamo fin dall’infanzia e dalla giovinezza costruire un’etica di rispetto verso le differenze e la diversità etnica e culturale». Un personaggio politico contemporaneo ha proposto che nei questionari di esami dell’Icfes (Istituto colombiano per la valutazione dell’educazione scolastica) il 5-10% delle domande sia sulla storia afro del paese, obbligando così allo studio più serio di tale tema in scuole e collegi. Tale proposta mette il dito nella piaga del problema: in Colombia si ignora totalmente la storia degli afrocolombiani, che vengono così esclusi dalle vicende storiche del paese. L’ignoranza della loro storia e della loro realtà culturale porta all’esclusione sociale e da qui all’emarginazione e discriminazione il passo è molto breve e consequenziale.

africa: culla degli afrocolombiani
Prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America le caravelle del Portogallo avevano più volte circumnavigato l’Africa ed esplorato le sue coste. Se lo scontro tra Europa e America fu deleterio per le popolazioni aborigene americane, molto più disastroso esso fu per le popolazioni africane. Guerre, disparità tecnologica, disprezzo per le culture primitive, fecero sì che l’Europa considerasse gli uomini di pelle scura come barbari nemici, esseri inferiori, poco più degli animali. Qualsiasi pretesto era buono per negare loro i più elementari diritti umani e permettere al più forte di approfittare di essi senza alcuna pietà. Tutto ciò fu alla base della nascita e dell’incremento, per oltre tre secoli, della deportazione di schiavi africani verso le Americhe.
La conquista ispanica del Nuovo Mondo veniva gestita dalla «Casa de contratación» che regolava il commercio tra Spagna e i suoi possedimenti d’oltremare. Fu fondata nel 1503, con sede a Siviglia, che era centro economico e amministrativo e insieme Corte di Giustizia. Qui arrivavano lamentele e accuse  contro i soprusi compiuti dai vari conquistatori. Giungevano infatti notizie di ribellioni e guerre con i nativi, perché obbligati a lavori disumani nelle miniere e nella produzione di generi alimentari per i loro dominatori, a servire come bestie da soma, per impervie e aspre mulattiere che si venivano mano a mano aprendo verso l’interno della colonia.
Era quello un mondo di tiranni e tiranneggiati, carente del minimo rispetto per la dignità umana e le culture locali. La Corte di Giustizia della Corona mandava ordinamenti in difesa degli oppressi, ma quando arrivavano in America essi venivano facilmente ignorati. Gli indigeni andavano estinguendosi; i loro insediamenti si spopolavano, le loro tradizioni morivano, uomini e donne si spingevano all’interno di foreste inaccessibili, proprio nel momento in cui era più necessaria la loro forza-lavoro per l’organizzazione della vita coloniale. Per eseguire quei lavori, che avevano annientato gli indiani d’America, si diede l’avvio alla tratta dei neri africani.

Distribuzione geografica
Gli schiavi neri, appartenenti a varie etnie delle regioni dell’Africa equatoriale, nell’area del Golfo di Guinea, furono portati nel Nuovo Mondo nel secolo XVI, al principio dell’epoca coloniale, per lo sfruttamento di materie prime come minerali, cotone, zucchero, riso, tabacco, di cui aveva bisogno l’incipiente capitalismo mondiale. Il traffico schiavista s’impose prima nelle Antille, per poi passare nel resto del continente, per rimpiazzare la manodopera indigena, sostituzione dovuta alla rapida diminuzione delle popolazioni aborigene e alle disposizioni emanate dal re di Spagna per la loro protezione.
Oltre all’utilità nelle colonie, gli schiavi costituivano un’importante fonte di entrata per la Corona spagnola: già nel 1513 furono stabilite le prime misure riguardanti la tratta di neri su vasta scala; quegli anni sono conosciuti come periodo delle «Licenze»: per ogni schiavo introdotto nelle Indie bisognava avere la legittima licenza, che si otteneva pagando un’imposta di due ducati; denaro che andava a impinguare le casse del re di Spagna.
In Colombia, la maggior parte degli africani furono introdotti «legalmente», attraverso il porto di Cartagena de Indias, quando il mercato degli schiavi era dominato da olandesi e portoghesi; altri furono portati di «contrabbando» a Buenaventura, Charambirà e Gorgona sul litorale del Pacifico, o sbarcati sulle coste di Riohacha, Santa Marta, Tolú e Darien sul versante Atlantico.
Fino al 1550 l’insediamento della popolazione africana sull’attuale territorio colombiano fu scarso e limitato a piccoli gruppi sul litorale caraibico. Ma alla fine del XVI secolo, la manodopera impiegata per lo sfruttamento delle miniere era in maggioranza di origine africana. Gli schiavi neri furono impiegati pure in altri lavori, come agricoltura, allevamento del bestiame, attività artigianali, nel servizio domestico. Inoltre, essi erano oggetto di operazioni di investimento: compra-vendita, noleggio di manodopera, crediti, permute, scambi, ipoteche e perfino pagamento di servizi. Nel 1789 il commercio della manodopera schiava fu liberalizzato e si avviò verso una graduale estinzione, per l’opposizione sia degli inglesi che dei movimenti indipendentisti americani contro la tratta schiavista.
Gli afrocolombiani furono dislocati in zone calde, selvatiche e lungo le coste, in ambienti simili alle loro terre di origine, principalmente Nigeria, Gabon e Congo. La loro maggior concentrazione si ebbe nelle regioni costiere bagnate dal Pacifico (dipartimenti del Chocó, Valle del Cauca, Nariño) e in quelle del litorale caraibico (Guajira, Magdalena, Atlantico, Bolivar, Cesar, Cordoba, Sucre e Antiochia). Alcuni si stabilirono pure nelle regioni calde dell’interno, come le valli dei fiumi Magdalena, Cauca, San Jorge, Sinú, Cesar, Atrato, San Juan, Baudó, Patía e Mira. Oggi, in quasi tutte le regioni del territorio colombiano ci sono nuclei significativi di popolazioni nere, come enclavi di antichi palenques, fattorie, miniere o piantagioni di banane.
Il Dipartimento nazionale di pianificazione indica come aree socioculturali di comunità negre, le seguenti zone: Costa Atlantica, Litorale Pacifico, Chocó, Atrato centrale, zona mineraria di Antiochia, Magdalena centrale, Valle del Cauca, Valle del Patía, Urabà, isole di San Andrés e Providencia e la zona del caffè. Attualmente si stima che gli afrocolombiani costituiscano il 29% (13 milioni) della popolazione totale nazionale; e questo pone la Colombia tra gli stati americani con maggior numero di afrodiscendenti, subito dopo Stati Uniti e Brasile. I dipartimenti con maggior popolazione afro sono Valle (1,9 milioni), Antiochia (1,4 milioni) e Bolivar (1,3 milioni).

Gruppi etnici e culturali
All’interno della popolazione afrocolombiana si possono distinguere quattro gruppi importanti: gli abitanti del litorale del Pacifico, i raizales dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina, la comunità di San Basilio di Palenque, le popolazioni delle periferie delle grandi città.
I primi risiedono tradizionalmente nella regione della costa occidentale, in un territorio caratterizzato da boschi umidi equatoriali, bacini idrografici, lagune e mangrovie; hanno pratiche culturali proprie delle popolazioni discendenti da africani, tra le quali risaltano la musica, le celebrazioni religiose e l’alimentazione. Sono fondamentalmente agricoltori. In questa regione si incontrano i 132 «Territori collettivi di comunità negre» legalmente riconosciuti, i quali hanno un’estensione di 4.717.269 ettari, pari al 4,13% del territorio nazionale.
Il secondo gruppo, i raizales, come vengono chiamati gli abitanti dell’arcipelago di San Andrés e Providencia, hanno radici culturali afro-inglesi, con profonde influenze delle popolazioni delle Antille; essi conservano una forte identità caraibica, con caratteristiche socioculturali e linguistiche chiaramente differenti dal resto della popolazione afrocolombiana. La loro lingua è conosciuta come «creolo sanandresano» o «bende»; la religione originaria è la protestante, ma molti sono passati alla Chiesa cattolica.
Il terzo gruppo, la comunità di San Basilio di Palenque (municipio di Mahates, dipartimento di Bolivar) raggiunse la propria libertà nel 1603, diventando così il primo villaggio libero d’America e riuscendo a resistere, in parte, grazie al relativo isolamento nel quale è vissuto fino a poco tempo fa; vi si parla il palenquero, altra lingua creola afrocolombiana.
Metà della popolazione afrocolombiana è concentrata nei dipartimenti di Antioquia, Valle del Cauca e Bolivar. Ma attualmente essa sta vivendo un crescente processo di emigrazione verso i centri urbani, a causa dello sfollamento forzato provocato dai conflitti armati tra gruppi illegali, nelle regioni di Urabà e del Medio Atrato, per l’espansione delle coltivazioni illegali nelle regioni dei fiumi Patía e Naya. È per questo che nelle città di Cartagena, Cali, Barranquilla, Medellin e Bogotà… risiede attualmente il 29,2% della popolazione afro.

L’afrocolombianità
Nella grande massa di popolazione negra, gli antropologi hanno distinto vari gruppi di provenienza: primo tra tutti quello di origine sudanese, cioè, provenienti dall’immensa area africana che dalle regioni occidentali, passando per le valli del Senegal e del Niger si estende fino al Sudan anglo-egiziano; altro gruppo è costituito dai bantu, provenienti dal bacino del Congo e dalle terre del sud e sudest dell’Africa; poco consistente è il numero dei boscimani e ottentotti del sudovest africano e dei pigmei abitanti del cordone equatoriale africano.
Tale classificazione, tuttavia, ha perduto la sua importanza, poiché già all’interno dell’Africa numerosi fattori, come migrazioni tribali, reciproca schiavitù tra etnie, intercambio di donne avevano mescolato usi e costumi. Tuttavia, nel complesso dell’eredità dell’Africa nera, c’erano certe caratteristiche comuni che persistettero nel profondo delle coscienze torturate degli schiavi; valori che hanno contribuito a formare la nuova società americana.
Strappati violentemente dalle loro famiglie, separati dal loro ambiente naturale, dalle loro occupazioni abituali e dall’organizzazione sociale che avevano imparato a rispettare fin dall’infanzia, i neri dovettero adattarsi alla nuova situazione, riducendo i propri sentimenti al minimo comune denominatore, salvando però ciò che nasceva dal profondo dell’anima come certe tradizioni più radicate e insostituibili. Essi portarono con sé una cultura narrativa orale in cui erano racchiusi e trasmessi i valori della famiglia, del clan, dell’etnia, come la pateità, mateità e fertilità e la sacralità dell’ospitalità; il matrimonio era inteso come un evento comunitario e alleanza tra clan, non solo una faccenda tra due persone; la terra e i mezzi di produzione non avevano valore commerciale, ma erano a servizio della famiglia, per cui tutti partecipavano dei beni.
Inoltre, gli schiavi portarono con sé, come parte integrante del proprio essere, un profondo sentimento religioso, che ancora oggi si esprime nel rispetto per il soprannaturale, per i defunti, nella venerazione per i propri antenati e nella ferma credenza che la vita viene da Dio. Portarono con sé anche la funzione attiva del simbolismo: il ritmo, la danza, i riti celebrativi in tutte le circostanze della vita, come la nascita e la morte. Ontologicamente considerato come «non persona», oggetto vendibile e commerciale, valorizzato solo come forza-lavoro, lo schiavo afro aveva una concezione filosofica di vita profondamente radicata: quella di essere unità di vita, partecipazione, forza vitale, concetto espresso nel motto «io sono perché noi siamo».
Sono tutti elementi riassunti in una parola: afrocolombianità, che viene così definita dall’antropologa Patricia Quintero Barrera: «L’afrocolombianità o identità etnica degli afrocolombiani è l’insieme dei contributi e apporti, sia materiali che immateriali, sviluppati dai popoli africani e dalla popolazione afrocolombiana nel corso del processo di costruzione e crescita della nostra nazione e delle diverse sfere della società colombiana. Sono la somma delle diverse realtà, valori e sentimenti integrati nella quotidianità individuale e collettiva di tutti/e noi. L’afrocolombianità è patrimonio di ogni colombiano/a senza distinzione nel colore della pelle e nel luogo di nascita». Cimarronismo e palenques, per esempio, sono i primi movimenti di libertà, che in seguito ispirarono la nascita e il cammino verso l’indipendenza di tutto il paese.
Con i loro valori tradizionali, l’amore per la libertà e la capacità di adattarsi e fare sintesi delle opportunità offerte dalle nuove situazioni, gli afrodiscendenti della Colombia hanno contribuito a costruire la comunità nazionale. Ma sorge una domanda: «In quali di questi valori, importati dall’Africa, gli afrocolombiani attuali si riconoscono ancora?».

Gaetano Mazzoleni

Gaetano Mazzoleni




Il Cristo dal volto nero

Approccio pastorale agli afrodiscendenti

La Chiesa riconosce che ha il dovere di avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla loro realtà culturale, considerando seriamente le ricchezze spirituali e umane di questa cultura che segnano il loro modo di celebrare il culto, il loro senso di gioia e di solidarietà, la loro lingua, le loro tradizioni (Ecclesia in America 16).

Quando diciamo «pastorale afrodiscendenti» non intendiamo discriminare né santificare tale pastorale, come se essa fosse l’unico approccio possibile alla cura religiosa della popolazione nera. Si vuole semplicemente affermare che è possibile costituire, alla luce della parola di Dio, comunità ecclesiali dal volto propriamente afro, secondo la loro organizzazione sociale, le loro caratteristiche culturali, il loro senso di identità e di libertà.
Si tratta, infatti, di accompagnare gli afrodiscendenti senza adottare metodi e schemi dal di fuori, ma partendo da loro e interagendo con loro.
Ma per fare questo, prima di tutto, è necessario conoscere il loro itinerario storico, la loro mentalità, cultura, tradizioni, religiosità e rispettive forme di espressione.

Abbandonati al «libero» destino
Il 21 maggio 1851, il presidente José Hilario López firmò la legge che aboliva la schiavitù in Colombia: la popolazione nera del paese fu sffrancata, ma continuò a essere un gruppo sociale povero, segregato, con istruzione precaria e poche possibilità di progresso. Alla radice di tutto questo c’è proprio l’abolizione stessa della schiavitù, poiché in essa si indennizzò gli schiavizzatori e non gli schiavizzati.
Già 40 anni prima, quando nel Nuovo Regno di Granada incominciò la gestazione dell’emancipazione nazionale dalla Corona spagnola, i venti del patriottismo non sfiorarono minimamente le popolazioni nere. A quei tempi, la società coloniale era costituita da quattro classi ben definite: al vertice della scala sociale c’erano i nobili, pochi spagnoli di alto rango; seguiva la casta dei proprietari terrieri, poco numerosa, ma potente e ricchissima; più in basso c’era la classe media, grigia e numerosa, composta da impiegati amministrativi, funzionari secondari, scribacchini pretenziosi, piccoli commercianti, sarti, osti, fabbri, muratori, bottegai, poliziotti, maestri, medicastri, salassatori, macellai, sacrestani, calzolai, basso clero…; nell’infimo gradino c’erano la classe bassa, il popolino.
Nel 1810, quando risuonarono i primi squilli di tromba della rivoluzione, l’unica classe che non vi partecipò fu quella più bassa, la super-sfruttata: indios, neri, meticci, mulatti e altri discendenti da mescolanze razziali possibili solo ai tropici.
A questa gente la rivoluzione non interessava. Loro compito era il lavoro da soma nelle gallerie delle miniere, nelle mefitiche piantagioni, la schiavitù domestica, zappa e finimenti di muli. Era il popolo schiacciato dall’oppressione. Continuava nell’anonimato, poiché era vuoto di ideali, servile per inerzia e in sempitea ignoranza. Alcuni facevano eccezione: adoravano i loro padroni e morivano per essi.
A che serviva la libertà? Cosa portava allo schiavo manomesso? Unico vantaggio era la non dipendenza; ma al di là di questo, il loro destino era morire di fame come cani rabbiosi, poiché le terre le aveva il padrone e l’embrionale costituzione mancava totalmente di leggi sociali pratiche, che rispondessero alle sue necessità più immediate di casa e lavoro. Al bivio tra essere poco o essere niente, i neri preferivano il primo.

Meglio la Schiavitù che la guerra
Il cambio di padrone sapeva d’imbroglio. Senza intendersi di politica, leggi, democrazia, diritti umani, i neri non capivano la rivoluzione. Tuttavia, spinti dai loro padroni, obbedendo ai loro ordini, alcuni andarono in guerra. Li si vedeva arruolati in entrambi gli schieramenti e in varie occasioni alternarono i loro servizi ora con l’uno e ora con l’altro: i racconti delle loro storie guerresche erano una collezione di diserzioni.
Ma per arruolare la maggior parte di essi fu necessario inseguirli come bestie dannose, soprattutto gli indios; una volta reclutati, venivano incolonnati e legati insieme per le mani; sciolti al momento di combattere: quelli che non cadevano morti sparivano come per incanto.
Altri ancora si unirono ai battaglioni benedetti dai parroci dei loro distretti, perché difendessero Dio e la Chiesa. Ma se il curato diceva che Cristo stava con Ferdinando, allora… «viva la Spagna»; se stava con Bolivar, «evviva la repubblica». No, gli schiavi neri non avevano interessi né ideali da difendere. Tanto più che non c’era spagnolo né patriota di rango che non li disprezzasse, non li evitasse per tante ragioni e pregiudizi prima e dopo la guerra, e perfino nel pieno furore della battaglia. E poi, in caso di vittoria, sarebbe cambiato solo il colore della loro rassegnazione senza speranza. No, essi non si sollevarono spontaneamente nel 1810: mancava loro la libertà per decidere e anche la motivazione.
E quando in Colombia fu decretata l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione non portò migliori condizioni di vita o avanzamento della posizione sociale delle popolazioni nere; anzi inizialmente le peggiorò. Tale abolizione, semplicemente, liberò il padrone da un peso che per lui ormai non era più redditizio; mentre l’antico schiavo fu chiaramente e semplicemente abbandonato alla sua «libera» sorte.
Dopo secoli di lavoro bestiale, considerato alla stregua di una «macchina» di produzione, il nero fu messo in un angolo proprio come un aese vecchio e disprezzabile. In teoria la manomissione lo dichiarava «libero cittadino», alla pari degli altri colombiani, ma al tempo stesso lo condannava a una «invisibilità giuridica» che in Colombia si è prolungata fino alla nuova costituzione del 1991 e alla Legge 70 del 1993: 152 anni di presenza invisibile, senza riconoscere il contributo e la partecipazione dell’afrocolombiano alla formazione sociale, economica e culturale del paese.
In tutto questo tempo nessuno ha aiutato gli afrocolombiani ad acquisire capacità e mezzi per difendersi nella vita socio-politica ed economica. La schiavitù, quindi, continuò molti anni sotto altre forme. Ancora oggi, la persona afro continua a lottare contro l’emarginazione, il razzismo, la mancanza di guida, la povertà, la violenza…

Nuovo adattamento
– Siamo liberi, e allora che facciamo?
– Arrangiatevi!
– E dove andiamo?
– Da quella parte, ci sono terre che non appartengono a nessuno: occupatele.
– Come facciamo a mangiare?
– Lavorate!
Non è pura fantasia immaginare un dialogo del genere tra l’antico padrone e il nuovo suddito dichiarato per legge «libero cittadino».
Sia come sia, abbandonato al suo destino, in un ambiente dove la natura si manifesta in tutto il suo splendore, ancora una volta il nero seppe adattarsi, affinché senza conflitto potesse coesistere sia lui che la natura tutta; uomo e natura, ognuno fragile in qualche misura.
Da lì iniziò un’esperienza che insegnò al nero a sopravvivere, estraendo dall’ambiente naturale ciò che gli era indispensabile per l’esistenza; nasceva una cultura nella quale non esistevano i concetti di sfruttamento né di superfluo, e nemmeno di accumulazione (con la relativa idea di risparmio), poiché l’ambiente in cui si trovava era talmente generoso che non era necessario accumulare per vivere.
L’economia del pancoger (letteralmente: cogliere il pane, cioè prendere lo strettamente necessario per l’esistenza) produsse una cultura di austerità, nella quale lo sforzo per la crescita poteva apparire superfluo; atteggiamento che dal punto di vista della mentalità capitalista occidentale fu considerato un freno all’evoluzione di queste società, segno d’incapacità o semplicemente di pigrizia.
Gli schemi educativi tradizionali trovarono in tale ambiente il proprio modello fondamentale. Fin da bambino l’individuo imparava a valorizzare l’ambiente naturale, poiché gli veniva inculcato il rispetto per gli elementi; rispetto che si traduceva in accortezza nel loro sfruttamento, virtù indispensabile per continuare a vivere in un luogo in cui l’uomo afrocolombiano si sentiva piccolo e limitato, benché pieno di possibilità favorevoli alla vita. Inoltre, in questo ambiente, egli dilatava il mondo della natura e vi associava il mondo delle forze soprannaturali, di esseri misteriosi e poteri superiori, la cui energia egli si abituava a captare, valorizzare e rispettare.
Con il processo d’indipendenza, si stabilirono alcuni gruppi culturali diametralmente opposti: quello dell’élite (bianco-creolo, evoluto, sofisticato, salottiero, europeizzante) e quello popolare (oppresso, sottostimato, soffocato, sfigurato e perfino perseguitato).
Il nero, in Colombia come in altre parti d’America, si trovò tra due correnti: una lo piegava verso il suo perduto passato nel desiderio di poterlo rivivere; l’altra lo obbligava ad adattarsi al nuovo ambiente in cui doveva vivere. In tale adattamento dovette scegliere l’acculturazione, cioè, assimilare elementi della cultura dominante e al tempo stesso trovare risposte alla sua mentalità e adattarle alle nuove situazioni. Creò, così, nuovi modelli di comportamento, conciliando l’elemento africano con quello della cultura dei suoi padroni o ex padroni.

Mentalità da conoscere
L’azione evangelizzatrice attuale e la pastorale cattolica con i gruppi afrocolombiani non incontrano, in generale, un «vuoto» di tipo culturale e religioso. Per di più, non esiste tra gli afrocolombiani una cultura o una religiosità totalmente estranea al messaggio evangelico.
Da secoli gli afrocolombiani hanno ricevuto l’annuncio del vangelo e, fondamentalmente, vi hanno aderito. Senza dubbio, lo hanno accolto alla loro maniera, in parte adattandosi con sincerità alla nuova religione e, in parte, adattando la nuova religione alla loro cultura.
In linea di massima gli afroamericani della costa e del Chocó si autodefiniscono «cattolici» e persino «buoni cattolici». In tale dichiarazione gioca una certa dose di ingenuità o ignoranza, ma non vi è presunzione.
Sarebbe perciò totalmente sbagliata un’azione pastorale che non tenesse conto della mentalità, della cultura e della tradizione religiosa delle persone a cui è diretta. Quindi, un lavoro pastorale proficuo tra gli afrocolombiani suppone ed esige la conoscenza piena della loro cultura e della loro religiosità. Inoltre, «inculcare la fede», come raccomanda la sfida lanciata dal Documento di Santo Domingo (1992), esige che le forme in cui essa viene espressa corrispondano alle forme di espressione della rispettiva cultura, evitando così che l’africano, per essere cristiano, debba diventare culturalmente bianco.
Per il nero la tradizione è una legge molto più forte e rispettabile di tutti i documenti ecclesiali di riforma, apparsi dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Non li critica, né li disprezza; semplicemente li ignora. Non contraddice ciò che i sacerdoti e le religiose cercano di comunicare loro: semplicemente scarta ciò che risulta estraneo alla sua tradizione.
Celebrando il Natale e la Settimana Santa, con ogni probabilità i neri intendono celebrare l’uomo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte. Cristo è l’immagine dell’uomo, e sono affascinati più dalla sua umanità che dalla sua divinità, più dalla sua morte che dalla sua risurrezione.

Due tipi di Sincretismo
Anche nell’ambito religioso il processo fu molto simile a quello socio-culturale: tra le istruzioni impartite dal clero, mediante istituzioni come il catechismo domenicale, e il controllo repressivo delle autorità civili e, posteriormente, del cosiddetto Santo Ufficio dell’Inquisizione, l’africano si vide sottoposto a una terribile pressione da parte dell’ambiente circostante, che influì sul suo credo religioso: di qui il nascere di un pronunciato sincretismo, ancora presente nella coscienza afroamericana. Tale sincretismo prosperò tanto in ambiente protestante che in quello cattolico, anche se in modo assai diverso.
Nell’ambiente protestante il nero non veniva accettato come membro della Chiesa se non dopo un’istruzione accurata e completa. In questo ambiente un’evangelizzazione approfondita portò alla scomparsa dell’elemento culturale africano. Lo schiavo reinterpretò il messaggio biblico filtrandolo attraverso la sua mentalità e le sue esigenze, creando un suo proprio cristianesimo.
In ambito cattolico, che si potrebbe definire più sociale che mistico, il nero invece capì molto presto che l’unica possibilità per ascendere nella scala sociale era quella di «formarsi un’anima di bianco». In questo ambiente, con un’evangelizzazione più superficiale, si mantennero più facilmente le caratteristiche culturali originarie, che produssero quel sincretismo di stampo africano presente nella religiosità popolare cattolica afrocolombiana.
Tra le sue varie forme, vale la pena menzionare la corrispondenza tra divinità africane e santi cattolici. In pratica, il nero riconosce che i santi cui rende culto sono la versione bianca delle sue divinità nere e lo giustifica teologicamente, affermando che fondamentalmente esiste una sola religione universale: quella che crede nell’esistenza di un Dio unico, creatore. E siccome questo Dio è troppo lontano dagli uomini, sono necessari degli intermediari, che per i protestanti sono gli angeli, per i cattolici sono i santi.
Degno di nota è pure il culto dei morti che diventa spazio di solidarietà e, nel suo nucleo essenziale è «la celebrazione della vita» che continua dopo la morte. Negli ambienti afroamericani questo culto ha lo scopo di accattivarsi la loro simpatia e di difendersi dal loro grande potere. È importante propiziarseli e riparare possibili offese. In tale celebrazione, la venerazione è sempre strettamente legata al timore, che è vero movente del culto degli antenati.

Il santo patrono
Emblematico è, soprattutto, il caso delle feste, e particolarmente in quelle patronali, che si trasformano in momenti privilegiati di ritrovo e comunicazione della popolazione nera: uno spazio autonomo, per comunicare con i propri antenati e con le divinità africane, scenario privilegiato per rafforzare la propria coesione.
La festa rappresenta la grande opportunità per celebrare la vita in gruppo. In essa ciò che più conta è il «saper socializzare». In questa occasione tutti si ritrovano e la gente si sente «comunità». Il nero non ama la solitudine, ama il gruppo, cerca la massa. Non ama il silenzio, ama il chiasso, l’allegria traboccante. Perché la festa sia tale ci deve essere molta gente… e molto chiasso.
Nella festa del santo patrono gli afroamericani trovano l’occasione per restituire al santo i favori che questi ha elargito durante l’anno. Un buon raccolto, una pesca abbondante, un certo benessere generale nel paese creano nella coscienza della gente la convinzione che il santo patrono abbia pensato a loro ed essi non esitano a manifestargli la loro riconoscenza nel giorno della festa patronale. Maggiore il benessere, maggiore sarà la festa. La gente dialoga con il santo patrono nel giorno della festa, soprattutto nella processione che costituisce l’atto religioso più idoneo ad esprimere i propri sentimenti. «Sentono» che il santo si è preso cura di loro e nella processione «glielo dicono», attraverso una ritualità che non può essere considerata pura esteriorità. Ma se durante l’anno il potere del santo patrono ha brillato per la sua assenza, la festa può giungere all’estremo opposto: porre il santo con la faccia contro il muro.

Senza memoria non c’è futuro
Da alcuni decenni gli afrocolombiani stanno dando notevoli segni di risveglio e presa di coscienza, di coraggiosa ricerca della propria identità culturale, religiosa e sociale, di timida lotta per recuperare la memoria storica, i valori etnici e le organizzazioni; tale movimento ha già ottenuto alcuni successi negli ambiti dell’educazione, della politica, della chiesa istituzionale e nelle comunità contadine.
Oggi, proprio in quanto popolo nero, essi hanno cominciato a organizzare il loro «esodo» verso la liberazione integrale e sentono la necessità e reclamano il diritto di continuare a ripercorrere le proprie esperienze spirituali ed espressioni liturgiche, radicate nella tradizione religiosa e culturale delle proprie comunità, cercando spazi di libertà per potersi esprimere come cristiani afroamericani.
Vengono così a galla le loro potenzialità, a volte messe a tacere ma mai eliminate, che lungo i secoli hanno permesso loro di sopravvivere e che oggi li stanno accompagnando lungo la via del Calvario verso la sicura risurrezione.
È proprio la sua anima religiosa che permette al popolo nero di avere una cosmovisione che lo rende capace di dare significato alla realtà, di interpretare le esperienze personali e di gruppo in una prospettiva unitaria, di organizzare ciò che è frammentario e dargli dimensione globale.
Il processo storico degli africani in Colombia, con tutte le sue contraddizioni, con la sua carica di morte e sofferenza, con le sue lotte e resistenze, ha configurato una cosmovisione in cui la manifestazione spirituale è l’asse portante per comprendere la realtà.
Gli afrocolombiani hanno sviluppato una visione globale sull’essere umano, il mondo, Dio, gli spiriti e le energie che tutto pervade.
Questa visione integrale della realtà e i valori che la sostengono, sono stati affrontati, nel passato, con una pastorale riduzionista, che promuoveva solo alcuni aspetti dell’essere umano e della sua realtà: quella spirituale, trascurando quella materiale o viceversa; tale azione ha provocato una schizofrenia culturale con gravi conseguenze sociali e religiose. 

Evangelizzare le espressioni della religiosità
Le popolazioni afrocolombiane hanno mantenuto fermamente la fede, l’hanno sviluppata nella quotidianità della loro vita contadina, l’hanno manifestata con spirito allegro e spontaneo, mediante una ricca serie di simboli e forme provenienti dalla loro cultura e mentalità, più che dalla tradizione universale cattolica. È naturale quindi che una pastorale autenticamente afro debba tendere a evangelizzare le manifestazioni culturali, le quali, a volte per mancanza di adeguato orientamento, hanno perso progressivamente il loro originario contenuto religioso e si sono ridotte a puro folclore.
Rientrano in questa categoria soprattutto le manifestazioni collettive della religiosità popolare, come le processioni e i balli religiosi, le «veglie» ai santi e ai defunti e le drammatizzazioni della nascita, passione e morte di Gesù a Natale e nel Venerdì Santo, che interessano e mobilitano tutto il paese.
Ma vi sono anche numerose manifestazioni individuali e domestiche che possono essere valorizzate nella pastorale. Tra le espressioni individuali si possono ricordare: farsi il segno della croce toccando la terra con una mano prima di uscire di casa; l’uso abbondante dell’acqua benedetta come terapia e elemento base per medicine casalinghe contro dolori e malattie varie; recita di speciali formule di preghiera in circostanze determinate; croci piantate sotto casa, specie se è edificata su palafitte e terreni paludosi, o davanti alla porta di ingresso, per scansare calamità reali o supposte, casi di malocchio ecc.
Le espressioni domestiche consistono in altarini, posti in nicchie o appoggiati alle pareti, ricoperti di immagini di santi e madonne, crocifissi e statuette, davanti cui si accendono lumini e si recitano diverse preghiere.
In tutte le espressioni religiose svolge un ruolo importante il canto accompagnato dai tamburi. I canti, come pure le ninne nanne e le poesie, costituiscono un ricco patrimonio culturale degli afroamericani e sono la quintessenza della loro religiosità.
Tutto ciò che è sacro è avvolto nel contempo da un alone di mistero. Ciò introduce l’afroamericano nel mondo del soprannaturale.
«partecipare» o «non partecipare»
Bisogna ammettere che il messaggio evangelico non è ancora riuscito a impregnare adeguatamente il gruppo culturale di origine africana, che possiede ricchissimi valori e conserva «i semi del Verbo» in attesa della Parola di vita. Come per tutta la Chiesa, la religiosità popolare afroamericana ha bisogno di essere rievangelizzata, colmando le lacune lasciate dall’evangelizzazione precedente.
Una di tale lacune è certamente il significato della domenica. Per l’afroamericano essa non rappresenta necessariamente il giorno dell’incontro religioso comunitario. La domenica è semplicemente il giorno del riposo e dello sport. Probabilmente questo dipende dal fatto che i primi missionari non approfondirono a sufficienza il significato religioso della domenica. L’evangelizzazione sottolineò più il mistero della Croce che della Risurrezione. E, forse, l’impossibilità di celebrare la messa per tutti per mancanza di sacerdoti, li indusse a non insistere inutilmente sul precetto domenicale.
Anche oggi, la messa non è considerata di fondamentale importanza presso gli afrocolombiani, forse perché è stata interpretata per troppo tempo come un atto di supplica, una preghiera efficace per comunicare con il mondo dei morti. Non è un caso che l’altare della veglia funebre nella casa del defunto sia una copia dell’altare della chiesa.
La difficoltà di capire i vari aspetti della messa ha provocato una reazione negativa nella gente. Ciò che per essa costituisce una seria difficoltà non è il mistero dell’eucaristia in quanto tale, bensì il fatto che questo, come altri misteri, venga celebrato in modo troppo freddo e formale, totalmente contrario alla sensibilità popolare.
Comprendere o non comprendere non costituisce per gli afroamericani un problema essenziale. Il problema è «partecipare» o «non partecipare». Nessun tipo di culto interessa agli afroamericani se si devono limitare ad ascoltare e a guardare passivamente, se non vi possono partecipare attivamente ed esprimersi liberamente.
Partecipare ed esprimere: è questa una questione fondamentale nell’espressione della loro religiosità. Per questo tra gli afrocolombiani assume tanta importanza la processione, che è un’autentica espressione di fede e di ringraziamento a Dio, il quale, mediante i suoi santi, elargisce vita e salute, clima favorevole e abbondante raccolto.

Vincenzo Pellegrino

Vincenzo Pellegrino




Integralismo all’africana

Premessa

Nell’ormai lontano 1998, il 7 agosto, le ambasciate Usa di Nairobi (Kenya) e Dar-es-Salaam (Tanzania) subiscono due attentati contemporanei. Muoiono 223 persone e 4.000 restano ferite. Sono i maggiori attacchi terroristici prima dell’11 settembre. Entrambi in suolo africano, sono rivendicati da Al Qaeda di Osama bin Laden.
2006: i miliziani islamici di Al Shabaab conquistano la Somalia centro orientale e impongono una lettura integralista della legge islamica.
Ad Abuja, il 26 agosto 2011 un’autobomba guidata da un kamikaze fa esplodere la sede Onu in Nigeria. Diciotto i morti e una decina i feriti. La setta islamica radicale Boko Haram rivendica l’attentato.

Nell’aprile di quest’anno il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad dichiara l’indipendenza del Nord del Mali e la secessione da Bamako. Ben presto i gruppi islamisti di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico), Mujao e Ansar Dine prendono il controllo dell’intero territorio e applicano la legge islamica.
Sono fatti, tasselli, nomi, sigle che raccontano come nell’Africa a Sud del Sahara gli «islamisti» stiano guadagnando progressivamente terreno. Spesso si tratta di movimenti con origine diversa (anche molto diversa) e che nel tempo si sono trasformati. Ma quali contatti hanno tra loro? A quali ideali si ispirano? Dove e come operano sul terreno? Chi li finanzia?
Nelle pagine seguenti abbiamo cercato di fornire alcuni elementi per meglio comprendere un fenomeno complesso e contraddittorio, quello dell’integralismo islamico in Africa sub sahariana, che mescola rivendicazioni a carattere nazionale con spinte inteazionaliste; che offre ordine e sicurezza ma anche una visione spietata e integralista dell’islam; che miscela guerra santa a traffici illeciti; che combatte l’Occidente, ma ha basi in Europa.

Enrico Casale e Marco Bello

Enrico Casale e Marco Bello




La bomba libica

Libia: caos post Gheddafi

Il paese è diviso, non c’è stato di diritto. Nella confusione i gruppi estremisti si rafforzano. Inoltre la Libia è patria di diversi leader di Al Qaeda e da tempo sono attive cellule salafite, che ora tornano a colpire. Qualcuno teorizza una (improbabile) alleanza con gli ex gheddafiani per rovesciare il governo.

È molto difficile dire se l’assalto all’ambasciata statunitense del 12 settembre rappresenti il primo passo sull’orlo dell’abisso del paese. L’uccisione a Bengasi di quattro funzionari statunitensi, compreso l’ambasciatore Chris Stevens, è certamente un evento inaspettato nella drammaticità, nelle proporzioni che la minaccia terroristica comporta, e nelle conseguenze politiche.
Nel marzo 2011, un anno e mezzo fa, una piazza traboccante e festante di giovani bengasini accoglieva la troupe della Cnn e la osannava con cori a suo favore. Bengasi e i rivoltosi entravano nel corso della storia dopo 42 anni di oblio. Erano al centro della Primavera araba ed esultavano per l’attenzione che su di loro poneva il network americano.
L’allora inviato statunitense Chris Stevens si era prodigato per stabilire contatti e legami con i ribelli e poi aveva incoraggiato il proprio paese a supportarli. La sua azione diplomatica in Libia gli era valsa la nomina di ambasciatore a Tripoli all’inizio dell’anno: il 22 maggio era stato accreditato.
Polveriera
Pensare alla sua uccisione per mano di libici sembra oggi incomprensibile per una mente razionale. Eppure ciò si può spiegare solamente con un fatto: la Libia è un paese diviso e senza alcuno stato di diritto, un paese in cui gruppi di facinorosi, in circostanze ancora da chiarire, possono comportare una seria minaccia. La sicurezza è in mano a bande che vengono «tollerate» dall’autorità centrale, talvolta blandite, talvolta onorate nel tentativo (fallito) di integrarle all’interno di un esercito nazionale. Alcune di queste bande hanno chiari orientamenti estremisti. E nell’instabilità l’estremismo prolifera. Improbabile che questa azione costituisca una diretta vendetta dell’uccisione di Abu Yahya al-Libi, numero due di Al Qaeda.
Sul fronte dell’islam radicale c’è chi ricorda la lunga tradizione della jihad in Cirenaica. È importante però non invertire il nesso di causa-effetto: l’islamismo radicale in Libia è stato alimentato soprattutto dall’oppressione del regime. Per buona parte dei libici, l’unico modo di dissentire da Gheddafi era quello di aderire o appoggiare Al Qaeda. I libici sono stati per anni il secondo maggior gruppo, dopo i sauditi, a combattere sui fronti iracheno e afghano. Sono in particolare città come Dea, in Cirenaica, ad aver alimentato il fronte qaedista. Per esempio, Abu Yahya al-Libi, era appunto libico ed è stato ucciso da un attacco di droni americani a inizio giugno 2012. Abu Yahya al-Libi, nato nel 1963, era considerato dagli Stati Uniti l’uomo più importante dopo Ayman al-Zawahiri, che dalla morte di Osama bin Laden guida l’organizzazione terroristica. Al-Libi non è stato mai descritto come un grande combattente, ma piuttosto come un ottimo organizzatore e propagandista. Si dice che al-Libi abbia cominciato la sua carriera terroristica negli anni Novanta, quando vive in Afghanistan. Nel 2002 è stato arrestato dalle forze americane a Bagram, ma dopo soli 3 anni è riuscito a fuggire facendo perdere le sue tracce. Alcuni «allievi» di Abu Yahya al-Libi sono attivi in Libia anche oggi. Sufian bin Qumu, per esempio, che ha lavorato anche a contatto con Osama bin Laden, prima di essere catturato dagli americani e detenuto a Guantanamo per sei anni, guida una milizia nella zona di Dea che sfoggia la bandiera nera di Al Qaeda ed è stata accusata di violenze. Qumu ha apertamente dichiarato che non intende deporre le armi finché in Libia non sarà instaurato un governo di tipo islamico-talebano. Sempre a Dea e in Cirenaica sono attive formazioni salafite, come il gruppo Ansar al-Sharia, che si rifiutano di riconoscere la legittimità dell’autorità centrale. Bisognerà indagare le responsabilità dell’attacco all’interno di questi gruppi. I primi arresti sembrano accreditare questa pista.
Segnali
Le avvisaglie di un atto simile c’erano tutte, anche se non di tale tragicità e rilevanza.
Le elezioni di luglio, che hanno avuto un buon esito, hanno fatto probabilmente abbassare la guardia. I problemi, tuttavia, rimanevano tutti. Il mese di agosto lo aveva chiaramente dimostrato: attacchi di gruppi salafiti agli «eretici» sufi, con la distruzione di diversi santuari; altri attentati a istituzioni libiche addebitati, forse troppo frettolosamente, a ex gheddafiani.
Questi, foraggiati probabilmente dall’estero tramite membri della famiglia del Rais, rappresentano una minaccia alla stabilità del paese e un ostacolo verso una piena pacificazione. Le loro rappresaglie hanno già avuto conseguenze politiche. Proprio a causa della recrudescenza delle violenze nel paese, il ministro dell’Inteo libico, Fawzi Abdelali, aveva presentato a fine agosto le sue dimissioni, per protestare contro le critiche all’inefficacia delle misure di sicurezza, ma poi si era detto impossibilitato nel risolvere la questione.
Seppur teoricamente improbabile, fonti di intelligence accreditano uno scenario alquanto preoccupante che vedrebbe una convergenza tattica dei salafiti con gruppi di ex gheddafiani nel nome della lotta all’attuale transizione politica. Le risorse e le amicizie inteazionali della famiglia Gheddafi non vanno sottovalutate, in particolare i legami che ancora può vantare Saadi Gheddafi, il figlio ex calciatore di Muammar, ora in Niger.
Se il paese rimanesse così instabile, anche l’influenza islamica radicale, guidata dagli elementi più pericolosi, si potrebbe rafforzare ancora. Gli attentati di maggio e giugno 2012 ai danni della Croce Rossa e dei consolati britannico e statunitense a Bengasi costituivano un chiaro avvertimento che è stato sottovalutato. L’uso di azioni terroristiche da parte dei gruppi radicali sta decisamente aumentando sia per quantità che per qualità. In un mix sempre più pericoloso di terrorismo, immigrazione illegale e traffico di droga e armi (20.000 missili portatili antiaerei sarebbero ancora nelle mani delle milizie), derivante dal fallimento del controllo delle frontiere, potrebbero trovare terreno fertile le organizzazioni criminali e terroristiche. Difficile pensare che l’azione di assalto al consolato Usa non sia stata premeditata e che la motivazione non sia pretestuosa.
Occidente mordi e fuggi
Una vasta coalizione internazionale ha abbattuto il regime di Gheddafi e poi ha fatto finta che i libici potessero farcela da soli. Gli Stati Uniti si sono mantenuti defilati. Sembrava una strategia vincente, ma ora per Obama il «leading from behind» (dirigere dalle retrovie, ndr) potrebbe diventare molto difficile da difendere dagli attacchi dei repubblicani.
Senza rievocare la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran che mise in ginocchio l’amministrazione Carter, questa vicenda sarà certamente rilevante per la campagna elettorale. Obama ha prontamente reagito con la decisione di rimpatriare il personale americano e di inviare un primo contingente di 50 marines specializzati nell’antiterrorismo ai quali, secondo una fonte del Pentagono, potrebbero seguire fino a 200 militari in tutto, e di un probabile utilizzo non dichiarato di droni contro i gruppi legati al terrorismo internazionale.
Se vi erano dubbi sulla capacità della Libia di risolvere da sé i propri problemi e incamminarsi da sola sulla strada della democrazia e della riappacificazione, questi eventi li alimentano. Lo stesso giorno dell’assalto all’ambasciata, in questa cupa atmosfera, il parlamento libico ha nominato Mustafa A.G. Abushagur, ex vice primo ministro del governo provvisorio, nuovo primo ministro. Il parlamento lo ha preferito di misura a Mahmud Jibril, che ha guidato l’alleanza di partiti con maggiori consensi alle elezioni di luglio. Abushagur, storico oppositore di Gheddafi, a lungo in esilio negli Usa, ha raccolto consensi trasversali. Toccherà a lui prendere in mano il paese, ma senza un forte aiuto della comunità internazionale si prospettano tempi difficili.

Arturo Varvelli

Arturo Varvelli




Armi low cost

La Libia del post Gheddafi si è trasformata in un supermercato delle armi. Un self-service al quale si rifoiscono milizie locali, ma anche numerosi gruppi di ribelli attivi in Nord Africa e nel Medio Oriente. L’implosione del regime ha reso infatti disponibile una quantità enorme di armi, da quelle leggere ai sistemi più complessi, e di munizioni che ora alimentano un traffico imponente nel continente africano. Per capire il perché questa enorme quantità di armamenti si sia resa disponibile con il tracollo del regime di Gheddafi è necessario fare un passo indietro.
Muammar Gheddafi era un ufficiale formato nelle scuole militari britanniche. Nonostante ciò, guardava con estremo interesse al modello di difesa jugoslavo. Dopo la seconda guerra mondiale e l’esperienza della lotta partigiana che nei Balcani aveva messo alle corde le forze armate tedesche, Belgrado aveva infatti creato un sistema di difesa unico. Tito, il dittatore jugoslavo, aveva voluto un esercito di ridotte dimensioni il cui compito era quello di far fronte al primo impatto di un’invasione straniera. La vera difesa era però affidata alle milizie popolari, le quali dovevano affrontare il nemico con il metodo della guerriglia. Queste milizie si sarebbero dovute rifornire di armi e munizioni in depositi sparsi sul territorio.
Gheddafi importa questo sistema in Libia. L’organizzazione delle forze armate viene ridotta all’osso (ciò risponde anche all’esigenza del rais di ridurre al minimo il rischio che l’esercito diventi un possibile catalizzatore del dissenso nei confronti del regime). Parallelamente, crea in tutto il paese magazzini e nascondigli stipati di armi leggere, munizioni, ma anche di sistemi d’arma più complessi quali i missili terra-aria. Non è un caso che Gheddafi nei primi giorni della rivolta, avesse ordinato alla sua aviazione di bombardare non tanto i ribelli, quanto i depositi di armi ai quali si rifoivano. Obiettivo solo in minima parte raggiunto, tanto è vero che il grosso dei magazzini si è salvata. Con la caduta del regime e l’implosione di ogni struttura civile e militare, le milizie che si sono spartite il territorio si sono impossessate anche delle armi che hanno trovato. In parte le hanno usate contro i lealisti (ma spesso anche contro le altre milizie) e in parte le hanno vendute per autofinanziarsi.
Secondo i rapporti di alcuni servizi di sicurezza occidentali che operano nel Nord Africa sono quattro i canali attraverso i quali vengono trafficate le armi.
Il primo è la Libia sudorientale. Questo è un canale tradizionalmente utilizzato dai contrabbandieri e dai trafficanti di uomini libici e sudanesi. È dal confine con il Sudan che arrivano i migranti e i carichi di droga (in particolare l’eroina) provenienti dall’Africa orientale. È verso il Sudan che sono diretti i carichi di armi. Queste si uniscono a quelle provenienti dall’Iran e, attraverso l’Egitto e il Sinai, arrivano ad Hamas a Gaza. Recentemente, alla frontiera tra Egitto e Sudan, è stato sequestrato dalla polizia egiziana un carico di missili antiaereo provenienti dalle caserme libiche e diretti ai movimenti palestinesi.
Il secondo canale è il Libano. Trafficanti libanesi acquistano armi dai miliziani libici per poi rivenderle a Hezbollah e ai ribelli siriani che combattono contro il regime di Bashar al-Assad.
Il terzo è la Libia sud occidentale. Molti tuareg maliani e nigerini che, per anni, avevano prestato servizio nelle forze armate libiche agli ordini di Gheddafi, al crollo del regime sono fuggiti, rientrando in patria. In Niger i tuareg sono stati disarmati. In Mali no. A gennaio è così scoppiata una rivolta contro Bamako. I soldati maliani, che fino ad allora erano sempre riusciti a controllare le sommosse anche in virtù della loro superiorità tecnico-militare, si sono trovati di fronte milizie tuareg dotate di armamenti più modei e sofisticati dei loro. L’esito dello scontro è stato segnato. I militari maliani sono stati sconfitti e le regioni del Nord (Azawad) hanno dichiarato l’indipendenza.
L’ultimo canale è il terrorismo islamico: Al-Qaeda e i movimenti ad essa collegati. I servizi segreti algerini, i meglio organizzati e i più agguerriti di tutto il Nord Africa, hanno sequestrato di recente diversi carichi destinati alle cellule di Aqmi (Al-Qaeda per il Maghreb islamico).
«Dopo il crollo del regime – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa – la Nato non ha pensato a controllare i confini della Libia per bloccare questi traffici. Così le armi libiche si sono diffuse in tutto il Maghreb e il Medio Oriente».

Enrico Casale

Enrico Casale




C’erano una volta due Mali

Mali: Al Qaeda, i Tuareg e gli altri

Un paese conficcato nel Sahara, dove il territorio è incontrollabile. I tuareg del deserto si ribellano (per la quarta volta in 50 anni) e dichiarano l’indipendenza. Intanto un colpo di stato sconvolge il Sud (dopo 2 decenni di regime democratico). E nel Nord i gruppi integralisti islamici prendono il controllo, a scapito dei tuareg. La confusione regna nei due Mali.

È l’alba del 17 gennaio 2012. Il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) lancia il suo primo attacco nel Nord del Mali. È l’inizio della ribellione armata che toglierà il controllo di una vasta regione (822.000 km quadrati di deserto) al governo centrale di Bamako. Controllo che già molto tempo prima era debole e circoscritto alle tre città capoluogo: Gao, Kidal e Timbuctu (Tombouctou). L’Mnla dichiara l’indipendenza dell’Azawad il 5 aprile. È questo il nome tuareg della regione, sulla quale però, ben presto perderà il potere. Ma la storia non inizia qui, e gli attori sono molteplici.
Un contesto intricato
La regione sahariana in Mali, come in Niger, è stata teatro di periodiche ribellioni tuareg (popolazioni nomadi che si estendono anche in Mauritania, Algeria, Libia, Ciad). In particolare nel 1963, 1990 e infine 2006. Ribellioni che hanno visto l’appoggio e poi la mediazione, delle potenze regionali, l’Algeria e la Libia di Gheddafi, e post coloniali, la Francia. I tuareg rivendicano da sempre il loro diverso modo di vita (rispetto agli stanziali del Sud), e un differente concetto di «nazione». La loro lotta è contro lo stato centrale (gestito da altre etnie) per una propria autodeterminazione, e con il potere sono scesi a patti (nei successivi trattati di pace), ottenendo concessioni sulla carta, spesso disattese. Molti tuareg, inoltre, hanno ingrossato per anni le file delle milizie speciali di Gheddafi, e poi combattuto al suo fianco fino alla disfatta finale, a opera delle forze Nato.
Il Nord del Mali è popolato anche da altre etnie, in particolare: peulh, songhai e arabi e vede da decenni la presenza di molti attori armati. Dall’Algeria degli anni Novanta, martoriata dalla guerra civile, gruppi di combattenti islamici integralisti del Gia (Gruppi islamici armati) si sono costituiti nel Gspc (Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento) che ha iniziato a installarsi nell’estremo Nord del Mali nel 2003 (vedi MC dicembre 2010). In questa regione le frontiere tra gli stati non esistono, siamo in pieno deserto del Sahara. In particolare, l’importante gruppo salafita di Mockhtar Belmokhtar (potente emiro dei Gia), si basa nella regione di Timbuctu. Il Gspc inaugura in quello stesso anno la stagione dei rapimenti degli occidentali, a scopo di riscatto. Pratica che diventa ben presto un lucroso giro di affari. Esiste una stima (algerina) che calcola in 50 milioni di euro i proventi dei riscatti pagati da paesi occidentali dal 2003 alla fine del 2010.
È nel 2007 che il Gspc dichiara ufficialmente la sua affiliazione all’universo Al Qaeda, prendendo il nome di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Allo stesso tempo Gspc prima (e Aqmi dopo) tesse relazioni sociali con popolazione e capi tradizionali e inizia a prendere parte nei fiorenti traffici transfrontalieri di cocaina, armi, e persone, già esistenti.
Gli algerini di Aqmi portano con sé anche l’ideologia di Al Qaeda: la visione radicale dell’islam wahabita e salafita, la jihad (guerra santa) per l’imposizione della sharia (legge islamica) a tutta la popolazione.
«Già alcuni anni fa – racconta un cornoperante di stanza in Mali – il governatore di Gao aveva richiamato alcuni imam, avendo constatato che nelle loro moschee le persone si fermavano a dormire. Si era verificato l’arrivo di predicatori dall’Afghanistan, i quali tenevano ai fedeli dei veri e propri corsi di islam radicale».
Negli stessi anni, le regioni del Nord sono il territorio di caccia di bande armate e milizie di ogni tipo che si alimentano dei traffici trans sahariani. Gruppi questi tollerati, e talvolta addirittura appoggiati dal governo centrale di Bamako, del presidente Amadou Toumani Touré (detto Att, presidente dal 2002 al 2012), allo scopo di esercitare un certo «controllo a distanza» su zone troppo lontane dalla capitale. Ma questa non è che una parte delle responsabilità del governo centrale sull’attuale situazione maliana.
La svolta
La crisi libica, iniziata nel febbraio 2011, e la sconfitta del Muammar Gheddafi, grande manovratore di vicende sahariane, diventa l’occasione da non perdere.
I combattenti tuareg in forza all’esercito privato del rais (e si parla di truppa ma anche di graduati e strateghi), ripiegano sui paesi di origine: Mali, Niger. Un’enorme quantità di armi, governative e della Nato, entrano nel mercato africano, e non solo (vedi riquadro).
Il movimento tuareg fa un salto di qualità. Al Movimento nazionale dell’Azawad (Mna) di tipo politico per rivendicare diritti e cultura, fondato da giovani intellettuali nel 2010, si aggiungono i «ritornati», combattenti esperti di lungo corso. Nei mesi successivi all’uccisione di Gheddafi, diversi gruppi tuareg (legati a clan famigliari) si incontrano a più riprese nella zona di Zakak, in pieno deserto. È qui che si organizza la ribellione armata. Il governo centrale ne è al corrente e si tentano mediazioni. L’Mnla è ufficialmente costituito nell’ottobre 2011, e importanti leader delle passate ribellioni ne fanno parte. Non si tratta di un’organizzazione verticale, ma di una sorta di piattaforma di diverse organizzazioni delle comunità tuareg delle tre regioni del Nord del Mali (Gao, Timbuctu, Kidal). L’Mnla è laico, non si caratterizza per la religione e il suo programma politico si riassume con la secessione dell’Azawad dal Sud corrotto e neo colonialista (su modello del Sud Sudan che si è separato dal Nord).
Il movimento stabilisce il suo ufficio politico a Nouakchott, capitale della Mauritania, uno dei principali alleati regionali della Francia. Alcuni leader, come Mossa Ag Attaher risiedono a Parigi e da lì gestiscono relazioni e due siti Inteet (in arabo e francese) del movimento. La Francia vede l’utilità dei tuareg per la lotta anti terrorista nel Nord del Mali. Da qui le accuse di collusione, soprattutto da parte di Bamako. Secondo l’Inteational Crisis Group (vedi pag. 49), tuttavia, questo interesse non si è mai tradotto in appoggio logistico, perché i transalpini non vedono di buon occhio la secessione del paese.
dai sotterranei di Al Qaeda
Negli stessi mesi anche Aqmi non sta ferma. Grazie alle ingenti quantità di denaro ottenuto con i rapimenti e il traffico di cocaina, fa incetta di armi libiche e arruola nei suoi ranghi giovani fuggiti dalla Libia.
Il leader tuareg Iyad Ag Ghali, figura importante nei trattati di pace del 1991 e del 2008, ha un suo percorso religioso particolare. Originario di Kidal, di uno dei clan più nobili, gli Ifoghas, si avvicina all’ideologia salafita. Negli anni (e nei trattati di pace) ha sempre favorito il suo clan e la sua regione, piuttosto che l’Azawad. Già miliziano nella Legione verde di Gheddafi degli anni ‘80, è anche stato vice console del Mali in Arabia Saudita sotto Att. Fa suo il progetto islamico fondamentalista della jihad internazionale, e si trova in contrasto con l’islam tollerante degli altri tuareg.
In parte estromesso dalle consultazioni di Zakak, si presta comunque come alleato tattico alla ribellione, adoperando la sua milizia, Ansar Dine (i partigiani della religione). Affianca e appoggia i gruppi dell’Mnla nella conquista di Gao e Timbuctu. Ed è proprio in questa regione che inizia a stringere alleanze con l’Aqmi di Belmokhtar. Vi trova affinità ideologica e presenza di risorse.
I progetti di società promossi da Mnla e da Ansar Dine sono dunque nettamente distinti: la secessione e uno stato laico gli uni, l’integrità territoriale e l’applicazione della sharia per tutti, gli altri.
In poche settimane i successi militari dell’Mnla, con Ansar Dine (e altri gruppi) sono rapidi e l’esercito di Bamako, viene cacciato dal Nord del paese. Le milizie pro governative (arabe e tuareg) sconfitte. Importante è la vittoria di Aguelhoc, seguita da esecuzioni extra giudiziali di decine di soldati maliani.
Crisi al Sud
A Bamako, a un mese dalle elezioni a cui Att non si sarebbe più candidato, il 22 marzo scorso il capitano Amadou Haya Sanogo, con un gruppo di militari di Kati (caserma alle porte di Bamako), porta a segno un colpo di stato che mette fine a vent’anni di percorso democratico del paese.
Il pretesto è proprio il lassismo con cui Att aveva gestito il Nord negli ultimi dieci anni. Ma i golpisti sembrano un po’ sprovveduti e la loro azione produce l’effetto di favorire l’avanzata dei ribelli fino alla citata proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad.
Ansar Dine, forte dei successi militari e dell’alleanza con Aqmi (che porta ingenti fondi, quindi armi), si impone, anche con scontri armati, sugli altri tuareg, prendendo il controllo delle città ed estromettendo di fatto l’Mnla, troppo lontano dall’approccio jihadistico. Questo si ritira dapprima nelle periferie e infine nelle campagne. Oggi Ansar Dine controlla saldamente Timbuctu e Kidal con l’appoggio di Aqmi.
Gao è in mano al Movimento per l’unità della jihad in Africa dell’Ovest (Mujao). Gruppo dissidente di Aqmi, staccatosi per motivi di spartizioni di riscatti, che compare pubblicamente con il rapimento di Rossella Urru e due colleghe a Tindouf (Algeria), il 22 ottobre 2011. Testimonianze lo danno già costituito fin dal 2008. Pratica, oltre il sequestro, anche attentati suicidi e predilige obiettivi algerini. È il Mujao che rapisce sette diplomatici di Algeri del consolato di Gao, di cui uno è stato giustiziato a inizio settembre.
Nuova Somalia?
Le grandi città del Nord, e gran parte del suo territorio, sono quindi oggi in mano a gruppi fondamentalisti islamici. Questi impongono la loro interpretazione della sharia alla popolazione. Arrestano le donne senza il velo o in giro la sera, applicano l’amputazione ed esecuzioni per lapidazione senza processo, e la flagellazione di bevitori da alcol e fumatori. Si conta che 475.000 persone siano fuggite verso il Sud Mali e in paesi confinanti. In Niger e in Burkina Faso c’è infatti un’emergenza sfollati maliani, che si somma alla crisi alimentare acuta che ha toccato il Sahel negli ultimi mesi.
«Tutti gli uffici statali sono stati attaccati e saccheggiati, così come le sedi delle Ong – racconta un operatore di una Ong internazionale –. Le auto rubate dai miliziani. A Gao sono stati addirittura cacciati i malati dall’ospedale, per prendere loro i letti. Cose mai viste in Africa, dove le strutture mediche sono sempre state rispettate».
Un’altra fonte raggiunta lo scorso agosto racconta: «A Gao per le strade, si vede una forte presenza di uomini in armi di diverse nazionalità: maliani, algerini, egiziani, sudanesi, nigeriani, pachistani. In maggioranza sono con il Mujao, ma anche con altri gruppi terroristi come Aqmi e con i narcotrafficanti. Controllano tutto quello che si muove in città e nella regione. Ricordano alla gente che sono loro i nuovi padroni della zona e proprietari di tutti i beni dello stato maliano rimasti». Anche membri della setta nigeriana Boko Haram (vedi articolo pag. 44) sono stati visti a Gao. E continua: «Ci sono poi molti piccoli gruppi di banditi armati, che non obbediscono a nessuna parte in conflitto, ma che organizzano assalti sulle grandi strade di accesso». «La sicurezza personale rimane precaria. Anche se è tornata la calma dopo che i tuareg dell’Mnla sono stati cacciati dalle città dagli islamici armati. Questi assicurano il servizio di polizia locale e mettono progressivamente in atto la sharia. Le Ong hanno bisogno di un lascia passare per muoversi e può accadere che gli islamisti interferiscano con le loro attività, ad esempio vogliono indicare a chi distribuire il cibo». «Anche la preghiera del venerdì è cambiata – continua la fonte – adesso ha uno stile più asiatico».
A Gao si è passati da una popolazione di 120.000 persone a 25.000. Tutto il commercio è bloccato, i funzionari statali sono fuggiti a Bamako. Il sistema sanitario è collassato per la fuga degli operatori. Non c’è cibo perché non si è fatta la campagna agricola e c’è una mancanza quasi totale di liquidità di denaro. Nelle campagne e nei villaggi, la gente sta tornando al baratto.
Intanto a Bamako la situazione resta molto confusa. Dopo una negoziazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e del Burkina Faso con la giunta, lo scorso aprile Sanogo si è messo ufficialmente da parte e ha restituito i poteri a organi di transizione. Dioncounda Traoré, presidente dell’Assemblea Nazionale (il parlamento) è diventato presidente di transizione, mentre si sono già succeduti due governi del primo ministro Cheick Modibo Diarra.
«Chi comanda, dietro le quinte, è sempre Sanogo» racconta un analista. «Quando, a inizio settembre, il presidente Traoré ha chiesto l’intervento militare della Cedeao per riconquistare il Nord agli islamici, subito Sanogo, che è un militare, ha dichiarato di non voler soldati stranieri in Mali, ma solo un appoggio logistico». La Cedeao, si appresta a intervenire con una forza di 3.300 uomini (Micema, Missione Cedeao in Mali) è in attesa, nel momento in cui si scrive, della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che la autorizzi. La Francia, che appoggerebbe logisticamente, ha chiesto rapidità.

Marco Bello

Marco Bello




Occidente proibito

Nigeria: tra le braccia di Boko Haram

Nascono come reazione alla miseria e all’oppressione. Combattono la corruzione nell’islam. Subiscono violente repressioni. Diventano un feroce gruppo jihadista che compie attentati suicidi contro i cristiani. È la storia di Boko Haram, legata al Nord povero della Nigeria, collegata con l’integralismo internazionale.

La Nigeria, paese più popoloso dell’Africa con 160 milioni di abitanti (sarà terzo al mondo nel 2050), primo produttore africano di petrolio. Da circa un anno fa di nuovo notizia a causa dei numerosi attentati suicidi contro cristiani e chiese. Tutti gli attacchi hanno la stessa matrice e sono rivendicati dal gruppo Boko Haram. «Boko» ovvero l’insegnamento occidentale, «Haram», proibito, in lingua haussa. Definito setta, movimento islamico o gruppo terrorista, Boko Haram ha origini e cause ben precise. Non è il primo movimento islamico nella storia della Nigeria, né il primo che utilizza la violenza. La sua peculiarità, però è quella degli attentati suicidi.
Il Nord del paese è popolato in prevalenza da haussa e fulani, in maggioranza musulmani. Il Sud da ibo e yoruba, in prevalenza cristiani. Ma è il Sud che detiene le maggiori ricchezze, e gli enormi giacimenti di petrolio.
Boko Haram nasce intorno al 2002 a Maiduguri, capitale dello stato del Boo, nel Nord-Est della Nigeria. Stato tra i più poveri, dove il livello di scolarizzazione è il più basso di tutta la federazione (21% nel 2010). Confina con Niger, Ciad e Camerun.
«I discepoli del Profeta per la propagazione dell’islam e la guerra santa», come preferiscono farsi chiamare, sono un movimento religioso che ha come guida spirituale Mohammed Yusuf. Molti proseliti sono analfabeti, e mendicanti (talibé) delle scuole coraniche.
«Inizialmente gli obiettivi della setta sono essenzialmente due – racconta il ricercatore francese Marc-Antornine Pérouse de Montclos -. Il primo è fare in modo che l’applicazione della sharia sia estesa al livello penale. Questo sarebbe possibile con una Repubblica islamica. Il secondo obiettivo è di giustizia sociale: lottare contro la corruzione imperante tra i governanti dello stato del Boo». Si ricorda che la legge islamica è oggi applicata in 12 stati del Nord, ma solo a livello di codice civile.
Nei target dei Boko Haram non c’erano affatto i cristiani, ma lo stesso sistema musulmano da riformare e rendere più rigoroso e integro. «I testi dottrinali di Yusuf non fanno in alcun caso cenno allo sterminio dei cristiani» continua lo studioso. La jihad (guerra santa) vi compare, ma nella sua accezione spirituale.
Le origini e la repressione
Disagio sociale, emarginazione, élite politiche corrotte e occidentalizzate sono dunque all’origine della setta. Nel 2003 iniziano i primi scontri con le forze di sicurezza del Boo, esercito e polizia. In questa fase Boko Haram è un movimento di insurrezione armata. Sono ben conosciuti e Yusuf è più volte arrestato e rilasciato. Non vengono attaccate strutture cristiane.
«Il punto di non ritorno si ha nel 2009 – continua Pérouse de Montclos -. Il governo del Boo e quello federale organizzano una feroce repressione nei confronti della setta. Yusuf viene catturato e giustiziato senza processo. I quadri di Boko Haram fuggono all’estero: Niger, Ciad, Camerun. Solo ora il movimento diventa clandestino».
Alcuni dirigenti in esilio entrano così in contatto con il movimento della jihad internazionale, con Al Qaeda. Assorbono parte dell’«Al Qaeda pensiero». La guerra santa assume connotazioni simili a quelle wahabite: bisogna cacciare i cristiani dalla terra dell’islam. Nel 2010 iniziano infatti gli attacchi alle chiese cristiane a Jos, città nel centro del paese, e altrove. I militanti si riorganizzano, ma gli obiettivi sono cambiati. Si stima che da allora siano 1.400 i morti nel Nord e Centro del paese causati da Boko Haram.
Anche il metodo di lotta cambia: dalla guerriglia con poche armi si passa al terrorismo degli attentati suicidi, che ormai contraddistinguono la setta.
Il salto di qualità è segnato dall’attentato alla sede Onu di Abuja, la capitale federale, il 26 agosto del 2011, in cui muoiono 25 persone. Gli obiettivi diventano anche inteazionali. Nel contesto in cui nasce questo movimento le pratiche dell’islam sono molto sincretiche con culti africani, ad esempio certi militanti portano amuleti, fatto insolito per l’islam. Inoltre c’è il culto dei santi delle confrateite Sufi. Tutte pratiche estranee ai wahabiti di Al Qaeda.
«Boko Haram e Al Qaeda hanno dunque un’impostazione di fondo diversa. Sono due gruppi salafisti, entrambi rivendicano lo stesso pensiero fondamentalista, l’applicazione integralista dell’islam, ma con sono molte differenze. Per questo non penso che Boko Haram proclamerà un’affiliazione ad Al Qaeda, come hanno fatto gli algerini del Gspc o i tribunali islamici somali (vedi articoli di questo dossier, ndr). La genesi della setta è molto diversa, le ideologie e le pratiche pure» conclude l’esperto.
Sono probabili convergenze tattiche tra i vari movimenti in Africa dell’Ovest. Boko Haram con Aqmi o Ansar Dine in Mali, allo scopo di procurarsi armi, formare artificieri e terroristi.
C’è anche il caso di Mamman Nur, nigeriano, che fa parte di una fazione estrema di Boko Haram. È accusato di aver organizzato l’attentato contro l’Onu. Lui ha dichiarato di essere stato formato dagli shabaab in Somalia, ma di averlo fatto a titolo personale.
I contatti tra Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Boko Haram quindi ci sono, ma non è dimostrata una strategia comune.
«Boko Haram ha scambi commerciali con Aqmi – rivela un’altra fonte nel vicino Niger, che chiede l’anonimato -. Aqmi manda soldi tramite corrieri che viaggiano con autobus di linea e portano anche 25-30.000 euro per volta. Boko Haram ha pure mandato della gente in formazione. Perché loro per adesso sono abbastanza disorganizzati come struttura». Boko Haram non ha mai fatto attentati in Niger, paese con il quale la Nigeria condivide una frontiera di oltre 1.500 chilometri. «Quando fanno un attacco in Nigeria poi scappano in Niger per nascondersi» continua la fonte.
«Da quanto ne so non esiste nessuna base solida, di addestramento, di Boko Haram nei paesi vicini. Ci sono piccoli gruppi che circolano. Questo è successo fin dai primi anni, grazie alla porosità delle frontiere. Ma i paesi confinanti non hanno interesse ad appoggiare un gruppo islamista. Così Boko Haram deve tenere un profilo basso per non perdere i nascondigli», rincalza Pérouse de Montclos.
Base sociale e fondi
La base sociale di Boko Haram è inizialmente più ristretta di quella attuale, nello stato del Boo. Poi si allarga a causa delle violente repressioni contro la popolazione delle forze di sicurezza. «C’è una sorta di omertà tra la gente, perché la setta è vista come un tentativo di resistenza ai soprusi del governo corrotto» racconta Pérouse de Montclos. Fino al 2009 si finanziano con donazioni di fedeli, in particolare grossi commercianti. Ricevono anche soldi anche dal governo: al momento delle elezioni del 2003 il governo «acquista» voti di Boko Haram. Poi fa business, come acquisto e vendita di auto usate. In questo periodo non ci sono finanziamenti estei.
Dal 2009 tutto cambia. I finanziamenti governativi pre-elettorali non esistono più. Le donazioni dei fedeli, pur continuando, sono limitate. Il filone storico inizia a finanziarsi con attacchi alle banche. Si auto giustificano col fatto che l’usura è «haram» (proibita), ma in realtà è per far cassa.
È una prova che il movimento non è finanziato da Aqmi. Ma attenzione: ci sono dei dissidenti in seno alla setta, che fondano la loro corrente, come nel caso di Mamman Nur. Questi sono finanziati dall’estero, anche da Al Qaeda con i soldi dei riscatti.
Una strategia islamica?
L’Africa dell’Ovest, area storicamente «tranquilla» rispetto ad altre regioni geopolitiche del continente, si vede oggi stretta tra gruppi islamisti provenienti dal Nord (che oggi controllano il Nord del Mali e circolano in tutta la fascia saheliana) e la setta Boko Haram dal Sud. Marc-Antornine Pérouse de Montclos non vede però possibile un’alleanza strategica in nome della jihad: «Non abbiamo prove di strategia di estensione del movimento al di fuori della Nigeria. Ci sono nigeriani pronti a vendersi e a combattere sui diversi fronti, ma che siano militanti di Boko Haram o che ci sia dietro una strategia globale, dovrebbe essere dimostrato. Non ci sono prove».
Secondo il ricercatore ci sono tre scenari per il futuro. Una parte di Boko Haram diventa un gruppo terrorista professionale. Questo si vedrebbe se facessero un salto di qualità, come un attacco nel Sud cristiano della Nigeria.
Un’altra alternativa è che la setta si trasformi in un vero movimento di guerriglia, con basi nei paesi confinanti, che però, ricordiamo, non hanno interessi a finanziarli. È uno scenario assai difficile.
Oppure, cosa che Pérouse de Montclos ritiene più probabile, il movimento si spegne da solo. Questo può succedere con gli anni, sia perché i militanti si disperdono, sia perché si mette in atto un’azione del governo per un processo di assimilazione (membri di Boko Haram accedono a cariche di potere), come è stato fatto con i gruppi guerriglieri del delta del Niger. Il governo ha dichiarato a fine agosto di essere in trattativa in modo «indiretto» con gli islamisti. «Spinto dai cristiani integralisti e dall’opposizione, il presidente Goodluck Jonhatan, anche lui cristiano che non conosce affatto il Nord, ha difficoltà a mandare avanti i negoziati. Sarà un processo lento. Ma tutto potrebbe cambiare dopo le prossime elezioni, nel 2015».

Marco Bello

Marco Bello