Occidente proibito

Nigeria: tra le braccia di Boko Haram

Nascono come reazione alla miseria e all’oppressione. Combattono la corruzione nell’islam. Subiscono violente repressioni. Diventano un feroce gruppo jihadista che compie attentati suicidi contro i cristiani. È la storia di Boko Haram, legata al Nord povero della Nigeria, collegata con l’integralismo internazionale.

La Nigeria, paese più popoloso dell’Africa con 160 milioni di abitanti (sarà terzo al mondo nel 2050), primo produttore africano di petrolio. Da circa un anno fa di nuovo notizia a causa dei numerosi attentati suicidi contro cristiani e chiese. Tutti gli attacchi hanno la stessa matrice e sono rivendicati dal gruppo Boko Haram. «Boko» ovvero l’insegnamento occidentale, «Haram», proibito, in lingua haussa. Definito setta, movimento islamico o gruppo terrorista, Boko Haram ha origini e cause ben precise. Non è il primo movimento islamico nella storia della Nigeria, né il primo che utilizza la violenza. La sua peculiarità, però è quella degli attentati suicidi.
Il Nord del paese è popolato in prevalenza da haussa e fulani, in maggioranza musulmani. Il Sud da ibo e yoruba, in prevalenza cristiani. Ma è il Sud che detiene le maggiori ricchezze, e gli enormi giacimenti di petrolio.
Boko Haram nasce intorno al 2002 a Maiduguri, capitale dello stato del Boo, nel Nord-Est della Nigeria. Stato tra i più poveri, dove il livello di scolarizzazione è il più basso di tutta la federazione (21% nel 2010). Confina con Niger, Ciad e Camerun.
«I discepoli del Profeta per la propagazione dell’islam e la guerra santa», come preferiscono farsi chiamare, sono un movimento religioso che ha come guida spirituale Mohammed Yusuf. Molti proseliti sono analfabeti, e mendicanti (talibé) delle scuole coraniche.
«Inizialmente gli obiettivi della setta sono essenzialmente due – racconta il ricercatore francese Marc-Antornine Pérouse de Montclos -. Il primo è fare in modo che l’applicazione della sharia sia estesa al livello penale. Questo sarebbe possibile con una Repubblica islamica. Il secondo obiettivo è di giustizia sociale: lottare contro la corruzione imperante tra i governanti dello stato del Boo». Si ricorda che la legge islamica è oggi applicata in 12 stati del Nord, ma solo a livello di codice civile.
Nei target dei Boko Haram non c’erano affatto i cristiani, ma lo stesso sistema musulmano da riformare e rendere più rigoroso e integro. «I testi dottrinali di Yusuf non fanno in alcun caso cenno allo sterminio dei cristiani» continua lo studioso. La jihad (guerra santa) vi compare, ma nella sua accezione spirituale.
Le origini e la repressione
Disagio sociale, emarginazione, élite politiche corrotte e occidentalizzate sono dunque all’origine della setta. Nel 2003 iniziano i primi scontri con le forze di sicurezza del Boo, esercito e polizia. In questa fase Boko Haram è un movimento di insurrezione armata. Sono ben conosciuti e Yusuf è più volte arrestato e rilasciato. Non vengono attaccate strutture cristiane.
«Il punto di non ritorno si ha nel 2009 – continua Pérouse de Montclos -. Il governo del Boo e quello federale organizzano una feroce repressione nei confronti della setta. Yusuf viene catturato e giustiziato senza processo. I quadri di Boko Haram fuggono all’estero: Niger, Ciad, Camerun. Solo ora il movimento diventa clandestino».
Alcuni dirigenti in esilio entrano così in contatto con il movimento della jihad internazionale, con Al Qaeda. Assorbono parte dell’«Al Qaeda pensiero». La guerra santa assume connotazioni simili a quelle wahabite: bisogna cacciare i cristiani dalla terra dell’islam. Nel 2010 iniziano infatti gli attacchi alle chiese cristiane a Jos, città nel centro del paese, e altrove. I militanti si riorganizzano, ma gli obiettivi sono cambiati. Si stima che da allora siano 1.400 i morti nel Nord e Centro del paese causati da Boko Haram.
Anche il metodo di lotta cambia: dalla guerriglia con poche armi si passa al terrorismo degli attentati suicidi, che ormai contraddistinguono la setta.
Il salto di qualità è segnato dall’attentato alla sede Onu di Abuja, la capitale federale, il 26 agosto del 2011, in cui muoiono 25 persone. Gli obiettivi diventano anche inteazionali. Nel contesto in cui nasce questo movimento le pratiche dell’islam sono molto sincretiche con culti africani, ad esempio certi militanti portano amuleti, fatto insolito per l’islam. Inoltre c’è il culto dei santi delle confrateite Sufi. Tutte pratiche estranee ai wahabiti di Al Qaeda.
«Boko Haram e Al Qaeda hanno dunque un’impostazione di fondo diversa. Sono due gruppi salafisti, entrambi rivendicano lo stesso pensiero fondamentalista, l’applicazione integralista dell’islam, ma con sono molte differenze. Per questo non penso che Boko Haram proclamerà un’affiliazione ad Al Qaeda, come hanno fatto gli algerini del Gspc o i tribunali islamici somali (vedi articoli di questo dossier, ndr). La genesi della setta è molto diversa, le ideologie e le pratiche pure» conclude l’esperto.
Sono probabili convergenze tattiche tra i vari movimenti in Africa dell’Ovest. Boko Haram con Aqmi o Ansar Dine in Mali, allo scopo di procurarsi armi, formare artificieri e terroristi.
C’è anche il caso di Mamman Nur, nigeriano, che fa parte di una fazione estrema di Boko Haram. È accusato di aver organizzato l’attentato contro l’Onu. Lui ha dichiarato di essere stato formato dagli shabaab in Somalia, ma di averlo fatto a titolo personale.
I contatti tra Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Boko Haram quindi ci sono, ma non è dimostrata una strategia comune.
«Boko Haram ha scambi commerciali con Aqmi – rivela un’altra fonte nel vicino Niger, che chiede l’anonimato -. Aqmi manda soldi tramite corrieri che viaggiano con autobus di linea e portano anche 25-30.000 euro per volta. Boko Haram ha pure mandato della gente in formazione. Perché loro per adesso sono abbastanza disorganizzati come struttura». Boko Haram non ha mai fatto attentati in Niger, paese con il quale la Nigeria condivide una frontiera di oltre 1.500 chilometri. «Quando fanno un attacco in Nigeria poi scappano in Niger per nascondersi» continua la fonte.
«Da quanto ne so non esiste nessuna base solida, di addestramento, di Boko Haram nei paesi vicini. Ci sono piccoli gruppi che circolano. Questo è successo fin dai primi anni, grazie alla porosità delle frontiere. Ma i paesi confinanti non hanno interesse ad appoggiare un gruppo islamista. Così Boko Haram deve tenere un profilo basso per non perdere i nascondigli», rincalza Pérouse de Montclos.
Base sociale e fondi
La base sociale di Boko Haram è inizialmente più ristretta di quella attuale, nello stato del Boo. Poi si allarga a causa delle violente repressioni contro la popolazione delle forze di sicurezza. «C’è una sorta di omertà tra la gente, perché la setta è vista come un tentativo di resistenza ai soprusi del governo corrotto» racconta Pérouse de Montclos. Fino al 2009 si finanziano con donazioni di fedeli, in particolare grossi commercianti. Ricevono anche soldi anche dal governo: al momento delle elezioni del 2003 il governo «acquista» voti di Boko Haram. Poi fa business, come acquisto e vendita di auto usate. In questo periodo non ci sono finanziamenti estei.
Dal 2009 tutto cambia. I finanziamenti governativi pre-elettorali non esistono più. Le donazioni dei fedeli, pur continuando, sono limitate. Il filone storico inizia a finanziarsi con attacchi alle banche. Si auto giustificano col fatto che l’usura è «haram» (proibita), ma in realtà è per far cassa.
È una prova che il movimento non è finanziato da Aqmi. Ma attenzione: ci sono dei dissidenti in seno alla setta, che fondano la loro corrente, come nel caso di Mamman Nur. Questi sono finanziati dall’estero, anche da Al Qaeda con i soldi dei riscatti.
Una strategia islamica?
L’Africa dell’Ovest, area storicamente «tranquilla» rispetto ad altre regioni geopolitiche del continente, si vede oggi stretta tra gruppi islamisti provenienti dal Nord (che oggi controllano il Nord del Mali e circolano in tutta la fascia saheliana) e la setta Boko Haram dal Sud. Marc-Antornine Pérouse de Montclos non vede però possibile un’alleanza strategica in nome della jihad: «Non abbiamo prove di strategia di estensione del movimento al di fuori della Nigeria. Ci sono nigeriani pronti a vendersi e a combattere sui diversi fronti, ma che siano militanti di Boko Haram o che ci sia dietro una strategia globale, dovrebbe essere dimostrato. Non ci sono prove».
Secondo il ricercatore ci sono tre scenari per il futuro. Una parte di Boko Haram diventa un gruppo terrorista professionale. Questo si vedrebbe se facessero un salto di qualità, come un attacco nel Sud cristiano della Nigeria.
Un’altra alternativa è che la setta si trasformi in un vero movimento di guerriglia, con basi nei paesi confinanti, che però, ricordiamo, non hanno interessi a finanziarli. È uno scenario assai difficile.
Oppure, cosa che Pérouse de Montclos ritiene più probabile, il movimento si spegne da solo. Questo può succedere con gli anni, sia perché i militanti si disperdono, sia perché si mette in atto un’azione del governo per un processo di assimilazione (membri di Boko Haram accedono a cariche di potere), come è stato fatto con i gruppi guerriglieri del delta del Niger. Il governo ha dichiarato a fine agosto di essere in trattativa in modo «indiretto» con gli islamisti. «Spinto dai cristiani integralisti e dall’opposizione, il presidente Goodluck Jonhatan, anche lui cristiano che non conosce affatto il Nord, ha difficoltà a mandare avanti i negoziati. Sarà un processo lento. Ma tutto potrebbe cambiare dopo le prossime elezioni, nel 2015».

Marco Bello

Marco Bello




Al cospetto di Al Shabaab

Somalia: 21 anni di guerra

In un contesto di anarchia e assenza di istituzioni le Corti islamiche cercano di gestire la giustizia. I«Signori della guerra» le contrastano. Gli Usa promuovono l’invasione della Somalia da parte dell’Etiopia. Il movimento Al Sahabaab reagisce. Ideologicamente vicino ad Al Qaeda, ne dichiara l’affiliazione. Ma oggi perde terreno…

I media li chiamano i «talebani del Coo d’Africa». E, in effetti, con i miliziani afghani hanno molto in comune: la fede incrollabile in un islam radicale, la forza militare, i legami con il network di Al Qaeda, un certo sostegno della popolazione. Come i loro cugini afghani sembrano nati dal nulla e, per lungo tempo, sono parsi invincibili. Le milizie Al Shabaab, oggi messe alla corda da un’avanzata delle truppe governative supportate dagli eserciti di Kenya ed Etiopia e dal contingente dell’Unione africana, sono indubbiamente stati i protagonisti della scena somala negli ultimi sette-otto anni. Ma chi sono, quale modello di islam professano? E chi li sostiene?
LE ORIGINI
Non esiste una data di nascita ufficiale del movimento Al Shabaab. Molti analisti concordano però sul fatto che il primo nucleo sorge, intorno al 2004, all’ombra delle «Corti islamiche». Le Corti islamiche sono un fenomeno piuttosto complesso. Nascono nella seconda metà degli anni Novanta rette da autorità religiose e sostenute economicamente da uomini d’affari. L’obiettivo che si pongono è di amministrare la giustizia dando sicurezza al popolo e all’economia di Mogadiscio, in un contesto come quello somalo caratterizzato dall’anarchia e dalla totale assenza di istituzioni politiche e giudiziarie. Le Corti islamiche nascono però a macchia di leopardo sul territorio e solo nel 2005 si trasformano in un movimento unitario con una struttura simile a quella di un movimento politico. Quelli sono mesi molto difficili per la Somalia. Nelle regioni centro meridionali una coalizione di «Signori della guerra» (i capi delle milizie claniche somale), finanziati dagli Stati Uniti, dopo 16 anni di guerra tra loro, iniziano a combattere l’integralismo religioso islamico. Uccidono autorità religiose e persone legate all’islam, ma ne approfittano anche per regolare i conti tra di loro. Ne scaturisce una guerra senza quartiere e devastante, soprattutto per la popolazione civile. Per riportare l’ordine, le Corti islamiche organizzano proprie milizie e attaccano i Signori della guerra, sconfiggendoli.
A livello internazionale (e in particolare negli Stati Uniti) le Corti islamiche vengono però viste come l’avanguardia di Al Qaeda. Gli Stati Uniti, memori degli insuccessi del 1992, non osano intervenire militarmente ma, allo stesso tempo, non possono tollerare la creazione di possibili basi logistiche per il terrorismo islamico nel Coo d’Africa. Decidono così di finanziare l’intervento dell’Etiopia, fedele alleato di Washington e preoccupata anch’essa dell’instabilità somala.
Nel 2006 scatta l’offensiva etiope in Somalia. L’avanzata delle truppe di Addis Abeba travolge le Corti islamiche. Le milizie si disgregano e i leader fuggono all’estero. Chi rimane sul campo è il movimento Al Shabaab. Sono un piccolo gruppo (all’origine non più di 300 uomini) che rappresenta l’ala più militante delle Corti. I giovani combattenti non solo fanno dell’essere rimasti sul campo a combattere gli etiopi un grande argomento di mobilitazione popolare, ma riescono, in qualche modo, a prendere le fila della resistenza.
Il background di questi ragazzi non è religioso. Certo, frequentano le moschee, ma la loro formazione è più che altro militare (e come potrebbe essere altrimenti in un paese che da anni conosce solo la guerra e l’anarchia?). Sono ben addestrati, ben armati e molto determinati. Sarà l’atteggiamento della comunità internazionale, che ha sempre privilegiato lo scontro al dialogo, l’intransigenza al confronto, a far maturare in loro l’integralismo religioso. Con il tempo infatti abbracciano in modo sempre più convinto l’islam salafita. Quell’islam caratterizzato da una rigidità dottrinale e che propugna la «guerra santa», jihad, contro gli infedeli (non solo i cristiani, ma anche i musulmani sufi che sostengono una versione più dialogante dell’islam).
Nel gennaio 2009, con il ritiro delle truppe etiopi, si crea però un vuoto perché le forze armate di Addis Abeba non vengono sostituite con quelle del governo di transizione. I miliziani di Al Shabaab tornano così all’attacco e occupano le principali città del Centro Sud. Nei territori controllati creano vere e proprie amministrazioni locali e impongono la legge islamica, la sharia.
Nuovi attori
Nell’autunno 2011 scatta però una nuova offensiva anti shabaab. Le truppe del contingente Amisom (la missione dell’Unione africana in Somalia) e delle forze armate keniane ed etiopi attaccano le roccaforti del movimento e ne mettono in fuga i miliziani. Affrontare un’offensiva da più fronti non è semplice per un’organizzazione, tutto sommato ristretta, come quello degli Al Shabaab. Non solo, ma nel frattempo gli integralisti hanno perso gran parte del consenso popolare e a Mogadiscio le istituzioni si rafforzano (tanto che il 10 settembre Hassan Sheikh Mohamoud viene eletto presidente somalo, il primo dopo 21 anni di anarchia). «La loro popolarità – spiega Mario Raffaelli, presidente di Amref ed ex inviato speciale per il Coo d’Africa dei governi italiani – è iniziata a scemare lo scorso anno quando, durante la grande siccità che ha colpito il paese, i leader del movimento hanno impedito l’arrivo di aiuti alla popolazione da parte delle Nazioni Unite e delle Ong inteazionali. Detto questo va però aggiunto che i miliziani di Al Shabaab sono una galassia composita che ha ancora una forza militare di tutto rispetto e, molto probabilmente, continueranno a combattere, anche se con strategie diverse. Invece che su scontri in campo aperto, si concentreranno sugli attentati con le bombe o sugli assassinii mirati. Già oggi Mogadiscio di giorno è tranquilla, ma di notte è infrequentabile».
Movimento «glocal»
«Secondo gli esperti occidentali – osserva Matteo Guglielmo, analista di Limes -, il movimento avrebbe due anime: quella più legata alla rete di Al Qaeda, che ha quindi interessi più inteazionali o transnazionali (mujhiruun, gli esiliati), e quella più legata al territorio (al Ansar). Questa divisione, secondo alcuni, sarebbe una sorta di spaccatura insanabile. In realtà, credo che pur esistendo due anime, dobbiamo riferirci a esse non come a due componenti in lotta, ma come a due correnti che convivono all’interno dello stesso movimento con una loro dialettica. Dire che ci sarà una spaccatura all’interno di Al Shabaab, mi sembra esagerato». I rapporti con Al Qaeda comunque ci sono e sono ben radicati. Al Shabaab non fa mistero di rifarsi ideologicamente proprio al movimento di Osama bin Laden. Alcuni personaggi del gruppo somalo, come Fasul che è stato ucciso di recente, hanno avuto contatti frequenti e intensi con la rete del fondamentalismo islamico. Ciò non significa che i somali prendano ordini dal network fondamentalista o da esso in qualche modo dipendano. Semmai è Al Qaeda che, per condurre la sua battaglia, ha bisogno di stringere rapporti stretti con gruppi come quello degli Al Shabaab che sono più legati al territorio. «Al Shabaab – spiega Lorenzo Vidino, esperto di islamismo del Politecnico di Zurigo – opera sul territorio in modo non diverso da movimenti quali Boko Haram in Nigeria, Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Ansar Dine in Mali (vedi altri articoli del dossier, ndr). Questi gruppi sono simili dal punto di vista ideologico: tutti condividono una visione jihadista dell’islam. Ognuno di essi ha però una propria storia, basata su circostanze locali e una propria leadership. Al Shabaab, per esempio, combatte in Somalia contro etiopi (per il momento le truppe di Addis Abeba hanno confermato la loro presenza anche dopo la morte, avvenuta il 20 agosto, del premier Meles Zenawi), Amisom ed esercito governativo, ma collega questa lotta a quella globale per l’affermazione dell’islam. Lotta nella quale Al Qaeda rappresenta, a loro dire, l’unico difensore globale dei musulmani contro l’attacco dell’Occidente e degli infedeli. È questo il legame profondo che li unisce alla rete di bin Laden».
Non solo islam
L’ideale islamico non è però l’unico collante che tiene insieme Al Qaeda e Al Shabaab. Dominando alcune zone della Somalia, Al Shabaab ne controlla anche le risorse. L’affiliazione quindi è utile ad Al Qaeda anche per ottenere mezzi economici per le iniziative a livello internazionale.
Ma da dove provengono queste risorse? Una parte consistente delle entrate dei miliziani arriva dallo sfruttamento del porto di Chisimaio. Un hub importantissimo che viene utilizzato soprattutto per l’esportazione del carbone. Quel carbone che è uno dei più grandi business della Somalia ed è prodotto disboscando le regioni meridionali, con un fortissimo impatto ambientale. «Molti fondi – sottolinea Matteo Guglielmo – arrivano anche dalla diaspora somala.
La diaspora li finanzia non tanto perché intende sostenere un movimento fondamentalista islamico, ma piuttosto perché le rimesse passano attraverso società che sono sostenute dai clan. Se il clan appoggia Al Shabaab, allora parte dei soldi delle rimesse andrà a finire al movimento islamico. La Somalia è il paese che al mondo riceve più rimesse, ciò significa che ad Al Shabaab arrivano risorse continue e consistenti per finanziare le proprie attività».
Il rapporto di Al Shabaab con i clan è però controverso. Ufficialmente negano e condannano la struttura clanica tipica della Somalia e sostengono di essere un movimento sovraclanico. «Tuttavia – continua Guglielmo – sono molto bravi a manipolare i clan cioè a servirsene per gestire il potere. Da sempre Al Shabaab arma e rinforza i clan più deboli. Così si radica sul territorio e, allo stesso tempo, tiene sotto controllo i clan maggiori che possono rappresentare un rischio. Quindi se ufficialmente nega i clan, da un punto di vista pragmatico li utilizza.
È anche questa la forza di Al Shabaab. Ed è anche per questo motivo che non può essere considerato un movimento “importato”, ma un’organizzazione profondamente somala».
A livello internazionale è invece difficile risalire ai finanziatori del movimento. Nessun Paese ufficialmente sostiene Al Shabaab. I paesi del Golfo però sono da sempre vicini ai movimenti che si ispirano all’islam di matrice wahabita e salafita. Quello stesso islam professato da Al Shabaab. È quindi probabile che finanziamenti arrivino dalla Penisola araba. Non tanto però dai governi, quanto dalle fondazioni del Golfo che, dagli anni Novanta, operano in Somalia nei settori sanitario, educativo, religioso.
Finanziamenti che continueranno ad affluire anche in futuro. Garantendo ad Al Shabaab quei flussi economici indispensabili a continuare la sua battaglia.

Enrico Casale

Enrico Casale




Una storia «sacra»

Premessa

Il libro dell’Esodo inizia così: «Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto, insieme a Giacobbe, ognuno con la sua famiglia: Ruben, Simeone, Levi e Giuda, Issacar, Zabulon e Beniamino, Dan e Neftali, Gad e Aser». Il libro sacro narra una storia che si ripete, in un diverso contesto, in quella del popolo afroamericano: una storia di fede, inserita in una manifestazione permanente di Dio in mezzo a un popolo che, attraverso altee e dolorose vicende, è riuscito non solo a sopravvivere, bensì a raggiungere anche la tanto sospirata dignità di figli di Dio.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dedicato loro l’intero 2011, dichiarato «Anno internazionale degli afrodiscendenti», con l’obiettivo di «rafforzare le azioni nazionali e la cooperazione regionale e internazionale a beneficio delle persone di discendenza africana, in relazione al loro pieno godimento dei propri diritti economici, culturali, sociali, civili e politici, la loro partecipazione e integrazione in tutti gli ambiti della vita sociale e perché sia promossa una maggiore conoscenza e rispetto per la loro diversità ed eredità culturale».
Durante l’anno si sono svolti seminari, congressi, conferenze, inchieste, festival, dichiarazioni, manifestazioni religiose e culturali… Tutto ciò ha certamente giovato a queste popolazioni, ma è ancora ben lontano da offrire loro opportunità concrete per emergere da quella invisibilità giuridica che per secoli li ha tenuti emarginati.
Nella diocesi di Cali, tutti gli agenti di pastorale sono stati invitati non solo a partecipare alle varie iniziative promosse durante l’anno, ma soprattutto a sviluppare una riflessione evangelizzatrice che permetta sia agli afrodiscendenti che al resto della popolazione diocesana di leggere la storia afro in Colombia con una visione di fede. Bisogna rendersi conto che anche gli afrodiscendenti hanno un cammino di fede da offrire al resto dell’umanità. Solo da una prospettiva di fede possiamo raccontare con orgoglio «l’esodo afro», scoprendo la mano di Dio nella sofferenza, nelle ingiustizie e altre avversità che avrebbero potuto segnare la fine di tutta una popolazione, la quale invece continua a crescere forte negli stessi contesti dove arrivò in condizione di schiavitù.
Come in Egitto giunsero le famiglie di Giacobbe, in America Latina arrivarono le etnie africane: carabalì, lucumì, mandinga, ocorò, possùs, mina, arboleda, quiñones, mosquera ecc.
Mentre gli israeliti scesero in Egitto spinti da carestie e accolti dal fratello Giuseppe, gli africani furono rapiti, strappati dalle proprie case, portati con la forza in Colombia per mai più ritornare alle loro terre; a poco a poco si moltiplicarono, come gli israeliti in Egitto. Gli spagnoli li costrinsero a costruire Cartagena, Barranquilla, Santa Marta, Canal del Dique… come i caposquadra egiziani sottomisero gli israeliti ai lavori forzati per costruire le città di Pitom e Ramses. Ma più venivano maltrattati più aumentavano, gli africani come gli israeliti (Es 1,11-12).
Stando alle statistiche ufficiali più recenti, su una popolazione di 590 milioni di abitanti, in America Latina e Caraibi gli afrodiscendenti sono oltre 150 milioni, con le seguenti percentuali di popolazione nazionale: Bahamas 69%, Belice 40,5%, Bolivia 1,6%, Brasile 28,3%, Colombia 16,3%, Costa Rica 1,5%, Cuba 54,7%, Ecuador 8,7%, Guiana 43,7%, Haiti 74,7%, Honduras 4%, Jamaica 88,5%, Messico 0,5%, Nicaragua 10,2%, Panama 59,9%, Paraguai 2,7%, Perù 8%, Repubblica Dominicana 68,3%, Suriname 33,4%, Trinidad y Tobago 39%, Uruguay 4,9%, Venezuela 8%.

Oggi, dopo cinque secoli, molti uomini e donne stanno ancora rimarginando le ferite riportate nello sradicamento dalle loro terre, riduzione in schiavitù, violenze subite, assassini dei loro cari… Per capire e vivere pienamente le proposte dell’Anno internazionale degli afrodiscendenti è fondamentale riprendere il tema della tratta degli schiavi.
La memoria storica è il primo tema da trattare, prima di affrontare quello dei diritti. L’Esodo viene prima del Genesi (anche se questo è il primo libro nel canone della Bibbia), per la semplice ragione che Israele non sarebbe mai stato interessato al messaggio del primo libro della Bibbia se Dio non l’avesse riscattato dalla schiavitù d’Egitto e non l’avesse legato a sé con un patto di alleanza. La stessa cosa vale per gli afrodiscendenti: non servirebbe a nulla ritenerci figli di Dio se non riusciamo a percepire la mano di Dio negli avvenimenti storici accaduti, per quanto tragici e dolorosi possano essere stati.

Venanzio Munyiri Mwangi

Venanzio Munyiri Mwangi




Primi attori dell’indipendenza

Mondo Afro in Colombia

La Colombia è al terzo posto per numero in assoluto di popolazione nera in America, dopo Usa e Brasile: su circa 46 milioni di abitanti, i discendenti dagli antichi schiavi africani oscillano tra 13 e 18 milioni. A 200 anni dall’indipendenza del paese e a 160 dall’abolizione della schiavitù, gli afrocolombiani sono ancora emarginati e discriminati, in fondo a tutte le classifiche di sviluppo del paese. Eppure essi hanno contribuito fortemente alla nascita e alla crescita della società colombiana in tutti i suoi ambiti. 

Rivolte di schiavi e costituzione di «territori ribelli» furono un fenomeno che caratterizzò tutto il continente americano; ma in Colombia esso ebbe una specificità tutta particolare: gli schiavi rivoltosi presero il nome di Cimarrones e i loro insediamenti, circondati da piccole fortezze per difendersi dai soldati spagnoli, furono chiamati Palenques. Tale forma di resistenza nera cominciò fin dagli inizi della schiavitù e si protrasse fino alla fine della colonia: i neri furono i primi a lottare per l’indipendenza del paese dal regime coloniale; ancora oggi il nero cimarrón è il simbolo della libertà; di lui si devono sentire orgogliosi tanto i neri come i bianchi colombiani.

Una storia ignorata
A partire dal 2001, il 21 maggio di ogni anno si celebra la «Giornata nazionale della afrocolombianità», istituita dalla legge 725 per commemorare il 150° anniversario della fine della schiavitù in Colombia, abolita il 21 maggio 1851. Con tale iniziativa si vorrebbe mostrare che la Colombia è un paese democratico, tollerante, rispettoso della differenza, non discriminatorio, che valorizza positivamente il contributo degli afrocolombiani all’identità nazionale. Ma la realtà è molto diversa. Benché la Costituzione colombiana sancisca e garantisca l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, nella pratica, però, persistono forme strutturali acute di invisibilità giuridica e discriminazione della popolazione afro.
Il censimento del 1993 concluse, contro ogni evidenza e per errori tecnici, che gli afrodiscendenti costituivano appena l’1,5% della popolazione colombiana. Nel censimento del 2005, realizzato con migliori forme di partecipazione e di rilevazione dei dati, la percentuale degli afrodiscendenti salì all’11%; ma secondo molti esperti, questa cifra sarebbe ancora molto inferiore alla realtà.
Il censimento del 2005 ha registrato 4.311.757 persone auto-identificatesi come afrocolombiane: ciò rappresenta un miglioramento nella stima della popolazione afrodiscendente; ma ci sono altri parametri da tenere in conto, destinati a stabilire con più chiarezza e precisione le dimensioni della presenza degli afrodiscendenti in Colombia e, conseguentemente, le implicazioni socioculturali che ne derivano. Alcuni affermano che gli afrocolombiani sono 13 milioni; secondo Juan de Dios Mosquera, direttore nazionale del Movimiento Cimarrón, essi sarebbero 18 milioni; solo nella capitale, secondo le stime del Centro studi sociali dell’Università nazionale di Bogotà, ce ne sarebbero circa 950 mila.
Segnati da una storia di invisibilità giuridica, gli afrodiscendenti colombiani sono il gruppo più svantaggiato, i più poveri tra i poveri. La loro esistenza è caratterizzata da emarginazione, esclusione, discriminazione, disuguaglianza sociale, con relativi svantaggi economici e sociali, oltre alle difficoltà per accedere ai servizi basilari di sanità e istruzione, alla partecipazione nella vita pubblica e a impieghi redditizi.
«Noi colombiani – scrive l’antropologa Patricia Quintero Barrera – dobbiamo fin dall’infanzia e dalla giovinezza costruire un’etica di rispetto verso le differenze e la diversità etnica e culturale». Un personaggio politico contemporaneo ha proposto che nei questionari di esami dell’Icfes (Istituto colombiano per la valutazione dell’educazione scolastica) il 5-10% delle domande sia sulla storia afro del paese, obbligando così allo studio più serio di tale tema in scuole e collegi. Tale proposta mette il dito nella piaga del problema: in Colombia si ignora totalmente la storia degli afrocolombiani, che vengono così esclusi dalle vicende storiche del paese. L’ignoranza della loro storia e della loro realtà culturale porta all’esclusione sociale e da qui all’emarginazione e discriminazione il passo è molto breve e consequenziale.

africa: culla degli afrocolombiani
Prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America le caravelle del Portogallo avevano più volte circumnavigato l’Africa ed esplorato le sue coste. Se lo scontro tra Europa e America fu deleterio per le popolazioni aborigene americane, molto più disastroso esso fu per le popolazioni africane. Guerre, disparità tecnologica, disprezzo per le culture primitive, fecero sì che l’Europa considerasse gli uomini di pelle scura come barbari nemici, esseri inferiori, poco più degli animali. Qualsiasi pretesto era buono per negare loro i più elementari diritti umani e permettere al più forte di approfittare di essi senza alcuna pietà. Tutto ciò fu alla base della nascita e dell’incremento, per oltre tre secoli, della deportazione di schiavi africani verso le Americhe.
La conquista ispanica del Nuovo Mondo veniva gestita dalla «Casa de contratación» che regolava il commercio tra Spagna e i suoi possedimenti d’oltremare. Fu fondata nel 1503, con sede a Siviglia, che era centro economico e amministrativo e insieme Corte di Giustizia. Qui arrivavano lamentele e accuse  contro i soprusi compiuti dai vari conquistatori. Giungevano infatti notizie di ribellioni e guerre con i nativi, perché obbligati a lavori disumani nelle miniere e nella produzione di generi alimentari per i loro dominatori, a servire come bestie da soma, per impervie e aspre mulattiere che si venivano mano a mano aprendo verso l’interno della colonia.
Era quello un mondo di tiranni e tiranneggiati, carente del minimo rispetto per la dignità umana e le culture locali. La Corte di Giustizia della Corona mandava ordinamenti in difesa degli oppressi, ma quando arrivavano in America essi venivano facilmente ignorati. Gli indigeni andavano estinguendosi; i loro insediamenti si spopolavano, le loro tradizioni morivano, uomini e donne si spingevano all’interno di foreste inaccessibili, proprio nel momento in cui era più necessaria la loro forza-lavoro per l’organizzazione della vita coloniale. Per eseguire quei lavori, che avevano annientato gli indiani d’America, si diede l’avvio alla tratta dei neri africani.

Distribuzione geografica
Gli schiavi neri, appartenenti a varie etnie delle regioni dell’Africa equatoriale, nell’area del Golfo di Guinea, furono portati nel Nuovo Mondo nel secolo XVI, al principio dell’epoca coloniale, per lo sfruttamento di materie prime come minerali, cotone, zucchero, riso, tabacco, di cui aveva bisogno l’incipiente capitalismo mondiale. Il traffico schiavista s’impose prima nelle Antille, per poi passare nel resto del continente, per rimpiazzare la manodopera indigena, sostituzione dovuta alla rapida diminuzione delle popolazioni aborigene e alle disposizioni emanate dal re di Spagna per la loro protezione.
Oltre all’utilità nelle colonie, gli schiavi costituivano un’importante fonte di entrata per la Corona spagnola: già nel 1513 furono stabilite le prime misure riguardanti la tratta di neri su vasta scala; quegli anni sono conosciuti come periodo delle «Licenze»: per ogni schiavo introdotto nelle Indie bisognava avere la legittima licenza, che si otteneva pagando un’imposta di due ducati; denaro che andava a impinguare le casse del re di Spagna.
In Colombia, la maggior parte degli africani furono introdotti «legalmente», attraverso il porto di Cartagena de Indias, quando il mercato degli schiavi era dominato da olandesi e portoghesi; altri furono portati di «contrabbando» a Buenaventura, Charambirà e Gorgona sul litorale del Pacifico, o sbarcati sulle coste di Riohacha, Santa Marta, Tolú e Darien sul versante Atlantico.
Fino al 1550 l’insediamento della popolazione africana sull’attuale territorio colombiano fu scarso e limitato a piccoli gruppi sul litorale caraibico. Ma alla fine del XVI secolo, la manodopera impiegata per lo sfruttamento delle miniere era in maggioranza di origine africana. Gli schiavi neri furono impiegati pure in altri lavori, come agricoltura, allevamento del bestiame, attività artigianali, nel servizio domestico. Inoltre, essi erano oggetto di operazioni di investimento: compra-vendita, noleggio di manodopera, crediti, permute, scambi, ipoteche e perfino pagamento di servizi. Nel 1789 il commercio della manodopera schiava fu liberalizzato e si avviò verso una graduale estinzione, per l’opposizione sia degli inglesi che dei movimenti indipendentisti americani contro la tratta schiavista.
Gli afrocolombiani furono dislocati in zone calde, selvatiche e lungo le coste, in ambienti simili alle loro terre di origine, principalmente Nigeria, Gabon e Congo. La loro maggior concentrazione si ebbe nelle regioni costiere bagnate dal Pacifico (dipartimenti del Chocó, Valle del Cauca, Nariño) e in quelle del litorale caraibico (Guajira, Magdalena, Atlantico, Bolivar, Cesar, Cordoba, Sucre e Antiochia). Alcuni si stabilirono pure nelle regioni calde dell’interno, come le valli dei fiumi Magdalena, Cauca, San Jorge, Sinú, Cesar, Atrato, San Juan, Baudó, Patía e Mira. Oggi, in quasi tutte le regioni del territorio colombiano ci sono nuclei significativi di popolazioni nere, come enclavi di antichi palenques, fattorie, miniere o piantagioni di banane.
Il Dipartimento nazionale di pianificazione indica come aree socioculturali di comunità negre, le seguenti zone: Costa Atlantica, Litorale Pacifico, Chocó, Atrato centrale, zona mineraria di Antiochia, Magdalena centrale, Valle del Cauca, Valle del Patía, Urabà, isole di San Andrés e Providencia e la zona del caffè. Attualmente si stima che gli afrocolombiani costituiscano il 29% (13 milioni) della popolazione totale nazionale; e questo pone la Colombia tra gli stati americani con maggior numero di afrodiscendenti, subito dopo Stati Uniti e Brasile. I dipartimenti con maggior popolazione afro sono Valle (1,9 milioni), Antiochia (1,4 milioni) e Bolivar (1,3 milioni).

Gruppi etnici e culturali
All’interno della popolazione afrocolombiana si possono distinguere quattro gruppi importanti: gli abitanti del litorale del Pacifico, i raizales dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina, la comunità di San Basilio di Palenque, le popolazioni delle periferie delle grandi città.
I primi risiedono tradizionalmente nella regione della costa occidentale, in un territorio caratterizzato da boschi umidi equatoriali, bacini idrografici, lagune e mangrovie; hanno pratiche culturali proprie delle popolazioni discendenti da africani, tra le quali risaltano la musica, le celebrazioni religiose e l’alimentazione. Sono fondamentalmente agricoltori. In questa regione si incontrano i 132 «Territori collettivi di comunità negre» legalmente riconosciuti, i quali hanno un’estensione di 4.717.269 ettari, pari al 4,13% del territorio nazionale.
Il secondo gruppo, i raizales, come vengono chiamati gli abitanti dell’arcipelago di San Andrés e Providencia, hanno radici culturali afro-inglesi, con profonde influenze delle popolazioni delle Antille; essi conservano una forte identità caraibica, con caratteristiche socioculturali e linguistiche chiaramente differenti dal resto della popolazione afrocolombiana. La loro lingua è conosciuta come «creolo sanandresano» o «bende»; la religione originaria è la protestante, ma molti sono passati alla Chiesa cattolica.
Il terzo gruppo, la comunità di San Basilio di Palenque (municipio di Mahates, dipartimento di Bolivar) raggiunse la propria libertà nel 1603, diventando così il primo villaggio libero d’America e riuscendo a resistere, in parte, grazie al relativo isolamento nel quale è vissuto fino a poco tempo fa; vi si parla il palenquero, altra lingua creola afrocolombiana.
Metà della popolazione afrocolombiana è concentrata nei dipartimenti di Antioquia, Valle del Cauca e Bolivar. Ma attualmente essa sta vivendo un crescente processo di emigrazione verso i centri urbani, a causa dello sfollamento forzato provocato dai conflitti armati tra gruppi illegali, nelle regioni di Urabà e del Medio Atrato, per l’espansione delle coltivazioni illegali nelle regioni dei fiumi Patía e Naya. È per questo che nelle città di Cartagena, Cali, Barranquilla, Medellin e Bogotà… risiede attualmente il 29,2% della popolazione afro.

L’afrocolombianità
Nella grande massa di popolazione negra, gli antropologi hanno distinto vari gruppi di provenienza: primo tra tutti quello di origine sudanese, cioè, provenienti dall’immensa area africana che dalle regioni occidentali, passando per le valli del Senegal e del Niger si estende fino al Sudan anglo-egiziano; altro gruppo è costituito dai bantu, provenienti dal bacino del Congo e dalle terre del sud e sudest dell’Africa; poco consistente è il numero dei boscimani e ottentotti del sudovest africano e dei pigmei abitanti del cordone equatoriale africano.
Tale classificazione, tuttavia, ha perduto la sua importanza, poiché già all’interno dell’Africa numerosi fattori, come migrazioni tribali, reciproca schiavitù tra etnie, intercambio di donne avevano mescolato usi e costumi. Tuttavia, nel complesso dell’eredità dell’Africa nera, c’erano certe caratteristiche comuni che persistettero nel profondo delle coscienze torturate degli schiavi; valori che hanno contribuito a formare la nuova società americana.
Strappati violentemente dalle loro famiglie, separati dal loro ambiente naturale, dalle loro occupazioni abituali e dall’organizzazione sociale che avevano imparato a rispettare fin dall’infanzia, i neri dovettero adattarsi alla nuova situazione, riducendo i propri sentimenti al minimo comune denominatore, salvando però ciò che nasceva dal profondo dell’anima come certe tradizioni più radicate e insostituibili. Essi portarono con sé una cultura narrativa orale in cui erano racchiusi e trasmessi i valori della famiglia, del clan, dell’etnia, come la pateità, mateità e fertilità e la sacralità dell’ospitalità; il matrimonio era inteso come un evento comunitario e alleanza tra clan, non solo una faccenda tra due persone; la terra e i mezzi di produzione non avevano valore commerciale, ma erano a servizio della famiglia, per cui tutti partecipavano dei beni.
Inoltre, gli schiavi portarono con sé, come parte integrante del proprio essere, un profondo sentimento religioso, che ancora oggi si esprime nel rispetto per il soprannaturale, per i defunti, nella venerazione per i propri antenati e nella ferma credenza che la vita viene da Dio. Portarono con sé anche la funzione attiva del simbolismo: il ritmo, la danza, i riti celebrativi in tutte le circostanze della vita, come la nascita e la morte. Ontologicamente considerato come «non persona», oggetto vendibile e commerciale, valorizzato solo come forza-lavoro, lo schiavo afro aveva una concezione filosofica di vita profondamente radicata: quella di essere unità di vita, partecipazione, forza vitale, concetto espresso nel motto «io sono perché noi siamo».
Sono tutti elementi riassunti in una parola: afrocolombianità, che viene così definita dall’antropologa Patricia Quintero Barrera: «L’afrocolombianità o identità etnica degli afrocolombiani è l’insieme dei contributi e apporti, sia materiali che immateriali, sviluppati dai popoli africani e dalla popolazione afrocolombiana nel corso del processo di costruzione e crescita della nostra nazione e delle diverse sfere della società colombiana. Sono la somma delle diverse realtà, valori e sentimenti integrati nella quotidianità individuale e collettiva di tutti/e noi. L’afrocolombianità è patrimonio di ogni colombiano/a senza distinzione nel colore della pelle e nel luogo di nascita». Cimarronismo e palenques, per esempio, sono i primi movimenti di libertà, che in seguito ispirarono la nascita e il cammino verso l’indipendenza di tutto il paese.
Con i loro valori tradizionali, l’amore per la libertà e la capacità di adattarsi e fare sintesi delle opportunità offerte dalle nuove situazioni, gli afrodiscendenti della Colombia hanno contribuito a costruire la comunità nazionale. Ma sorge una domanda: «In quali di questi valori, importati dall’Africa, gli afrocolombiani attuali si riconoscono ancora?».

Gaetano Mazzoleni

Gaetano Mazzoleni




Il Cristo dal volto nero

Approccio pastorale agli afrodiscendenti

La Chiesa riconosce che ha il dovere di avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla loro realtà culturale, considerando seriamente le ricchezze spirituali e umane di questa cultura che segnano il loro modo di celebrare il culto, il loro senso di gioia e di solidarietà, la loro lingua, le loro tradizioni (Ecclesia in America 16).

Quando diciamo «pastorale afrodiscendenti» non intendiamo discriminare né santificare tale pastorale, come se essa fosse l’unico approccio possibile alla cura religiosa della popolazione nera. Si vuole semplicemente affermare che è possibile costituire, alla luce della parola di Dio, comunità ecclesiali dal volto propriamente afro, secondo la loro organizzazione sociale, le loro caratteristiche culturali, il loro senso di identità e di libertà.
Si tratta, infatti, di accompagnare gli afrodiscendenti senza adottare metodi e schemi dal di fuori, ma partendo da loro e interagendo con loro.
Ma per fare questo, prima di tutto, è necessario conoscere il loro itinerario storico, la loro mentalità, cultura, tradizioni, religiosità e rispettive forme di espressione.

Abbandonati al «libero» destino
Il 21 maggio 1851, il presidente José Hilario López firmò la legge che aboliva la schiavitù in Colombia: la popolazione nera del paese fu sffrancata, ma continuò a essere un gruppo sociale povero, segregato, con istruzione precaria e poche possibilità di progresso. Alla radice di tutto questo c’è proprio l’abolizione stessa della schiavitù, poiché in essa si indennizzò gli schiavizzatori e non gli schiavizzati.
Già 40 anni prima, quando nel Nuovo Regno di Granada incominciò la gestazione dell’emancipazione nazionale dalla Corona spagnola, i venti del patriottismo non sfiorarono minimamente le popolazioni nere. A quei tempi, la società coloniale era costituita da quattro classi ben definite: al vertice della scala sociale c’erano i nobili, pochi spagnoli di alto rango; seguiva la casta dei proprietari terrieri, poco numerosa, ma potente e ricchissima; più in basso c’era la classe media, grigia e numerosa, composta da impiegati amministrativi, funzionari secondari, scribacchini pretenziosi, piccoli commercianti, sarti, osti, fabbri, muratori, bottegai, poliziotti, maestri, medicastri, salassatori, macellai, sacrestani, calzolai, basso clero…; nell’infimo gradino c’erano la classe bassa, il popolino.
Nel 1810, quando risuonarono i primi squilli di tromba della rivoluzione, l’unica classe che non vi partecipò fu quella più bassa, la super-sfruttata: indios, neri, meticci, mulatti e altri discendenti da mescolanze razziali possibili solo ai tropici.
A questa gente la rivoluzione non interessava. Loro compito era il lavoro da soma nelle gallerie delle miniere, nelle mefitiche piantagioni, la schiavitù domestica, zappa e finimenti di muli. Era il popolo schiacciato dall’oppressione. Continuava nell’anonimato, poiché era vuoto di ideali, servile per inerzia e in sempitea ignoranza. Alcuni facevano eccezione: adoravano i loro padroni e morivano per essi.
A che serviva la libertà? Cosa portava allo schiavo manomesso? Unico vantaggio era la non dipendenza; ma al di là di questo, il loro destino era morire di fame come cani rabbiosi, poiché le terre le aveva il padrone e l’embrionale costituzione mancava totalmente di leggi sociali pratiche, che rispondessero alle sue necessità più immediate di casa e lavoro. Al bivio tra essere poco o essere niente, i neri preferivano il primo.

Meglio la Schiavitù che la guerra
Il cambio di padrone sapeva d’imbroglio. Senza intendersi di politica, leggi, democrazia, diritti umani, i neri non capivano la rivoluzione. Tuttavia, spinti dai loro padroni, obbedendo ai loro ordini, alcuni andarono in guerra. Li si vedeva arruolati in entrambi gli schieramenti e in varie occasioni alternarono i loro servizi ora con l’uno e ora con l’altro: i racconti delle loro storie guerresche erano una collezione di diserzioni.
Ma per arruolare la maggior parte di essi fu necessario inseguirli come bestie dannose, soprattutto gli indios; una volta reclutati, venivano incolonnati e legati insieme per le mani; sciolti al momento di combattere: quelli che non cadevano morti sparivano come per incanto.
Altri ancora si unirono ai battaglioni benedetti dai parroci dei loro distretti, perché difendessero Dio e la Chiesa. Ma se il curato diceva che Cristo stava con Ferdinando, allora… «viva la Spagna»; se stava con Bolivar, «evviva la repubblica». No, gli schiavi neri non avevano interessi né ideali da difendere. Tanto più che non c’era spagnolo né patriota di rango che non li disprezzasse, non li evitasse per tante ragioni e pregiudizi prima e dopo la guerra, e perfino nel pieno furore della battaglia. E poi, in caso di vittoria, sarebbe cambiato solo il colore della loro rassegnazione senza speranza. No, essi non si sollevarono spontaneamente nel 1810: mancava loro la libertà per decidere e anche la motivazione.
E quando in Colombia fu decretata l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione non portò migliori condizioni di vita o avanzamento della posizione sociale delle popolazioni nere; anzi inizialmente le peggiorò. Tale abolizione, semplicemente, liberò il padrone da un peso che per lui ormai non era più redditizio; mentre l’antico schiavo fu chiaramente e semplicemente abbandonato alla sua «libera» sorte.
Dopo secoli di lavoro bestiale, considerato alla stregua di una «macchina» di produzione, il nero fu messo in un angolo proprio come un aese vecchio e disprezzabile. In teoria la manomissione lo dichiarava «libero cittadino», alla pari degli altri colombiani, ma al tempo stesso lo condannava a una «invisibilità giuridica» che in Colombia si è prolungata fino alla nuova costituzione del 1991 e alla Legge 70 del 1993: 152 anni di presenza invisibile, senza riconoscere il contributo e la partecipazione dell’afrocolombiano alla formazione sociale, economica e culturale del paese.
In tutto questo tempo nessuno ha aiutato gli afrocolombiani ad acquisire capacità e mezzi per difendersi nella vita socio-politica ed economica. La schiavitù, quindi, continuò molti anni sotto altre forme. Ancora oggi, la persona afro continua a lottare contro l’emarginazione, il razzismo, la mancanza di guida, la povertà, la violenza…

Nuovo adattamento
– Siamo liberi, e allora che facciamo?
– Arrangiatevi!
– E dove andiamo?
– Da quella parte, ci sono terre che non appartengono a nessuno: occupatele.
– Come facciamo a mangiare?
– Lavorate!
Non è pura fantasia immaginare un dialogo del genere tra l’antico padrone e il nuovo suddito dichiarato per legge «libero cittadino».
Sia come sia, abbandonato al suo destino, in un ambiente dove la natura si manifesta in tutto il suo splendore, ancora una volta il nero seppe adattarsi, affinché senza conflitto potesse coesistere sia lui che la natura tutta; uomo e natura, ognuno fragile in qualche misura.
Da lì iniziò un’esperienza che insegnò al nero a sopravvivere, estraendo dall’ambiente naturale ciò che gli era indispensabile per l’esistenza; nasceva una cultura nella quale non esistevano i concetti di sfruttamento né di superfluo, e nemmeno di accumulazione (con la relativa idea di risparmio), poiché l’ambiente in cui si trovava era talmente generoso che non era necessario accumulare per vivere.
L’economia del pancoger (letteralmente: cogliere il pane, cioè prendere lo strettamente necessario per l’esistenza) produsse una cultura di austerità, nella quale lo sforzo per la crescita poteva apparire superfluo; atteggiamento che dal punto di vista della mentalità capitalista occidentale fu considerato un freno all’evoluzione di queste società, segno d’incapacità o semplicemente di pigrizia.
Gli schemi educativi tradizionali trovarono in tale ambiente il proprio modello fondamentale. Fin da bambino l’individuo imparava a valorizzare l’ambiente naturale, poiché gli veniva inculcato il rispetto per gli elementi; rispetto che si traduceva in accortezza nel loro sfruttamento, virtù indispensabile per continuare a vivere in un luogo in cui l’uomo afrocolombiano si sentiva piccolo e limitato, benché pieno di possibilità favorevoli alla vita. Inoltre, in questo ambiente, egli dilatava il mondo della natura e vi associava il mondo delle forze soprannaturali, di esseri misteriosi e poteri superiori, la cui energia egli si abituava a captare, valorizzare e rispettare.
Con il processo d’indipendenza, si stabilirono alcuni gruppi culturali diametralmente opposti: quello dell’élite (bianco-creolo, evoluto, sofisticato, salottiero, europeizzante) e quello popolare (oppresso, sottostimato, soffocato, sfigurato e perfino perseguitato).
Il nero, in Colombia come in altre parti d’America, si trovò tra due correnti: una lo piegava verso il suo perduto passato nel desiderio di poterlo rivivere; l’altra lo obbligava ad adattarsi al nuovo ambiente in cui doveva vivere. In tale adattamento dovette scegliere l’acculturazione, cioè, assimilare elementi della cultura dominante e al tempo stesso trovare risposte alla sua mentalità e adattarle alle nuove situazioni. Creò, così, nuovi modelli di comportamento, conciliando l’elemento africano con quello della cultura dei suoi padroni o ex padroni.

Mentalità da conoscere
L’azione evangelizzatrice attuale e la pastorale cattolica con i gruppi afrocolombiani non incontrano, in generale, un «vuoto» di tipo culturale e religioso. Per di più, non esiste tra gli afrocolombiani una cultura o una religiosità totalmente estranea al messaggio evangelico.
Da secoli gli afrocolombiani hanno ricevuto l’annuncio del vangelo e, fondamentalmente, vi hanno aderito. Senza dubbio, lo hanno accolto alla loro maniera, in parte adattandosi con sincerità alla nuova religione e, in parte, adattando la nuova religione alla loro cultura.
In linea di massima gli afroamericani della costa e del Chocó si autodefiniscono «cattolici» e persino «buoni cattolici». In tale dichiarazione gioca una certa dose di ingenuità o ignoranza, ma non vi è presunzione.
Sarebbe perciò totalmente sbagliata un’azione pastorale che non tenesse conto della mentalità, della cultura e della tradizione religiosa delle persone a cui è diretta. Quindi, un lavoro pastorale proficuo tra gli afrocolombiani suppone ed esige la conoscenza piena della loro cultura e della loro religiosità. Inoltre, «inculcare la fede», come raccomanda la sfida lanciata dal Documento di Santo Domingo (1992), esige che le forme in cui essa viene espressa corrispondano alle forme di espressione della rispettiva cultura, evitando così che l’africano, per essere cristiano, debba diventare culturalmente bianco.
Per il nero la tradizione è una legge molto più forte e rispettabile di tutti i documenti ecclesiali di riforma, apparsi dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Non li critica, né li disprezza; semplicemente li ignora. Non contraddice ciò che i sacerdoti e le religiose cercano di comunicare loro: semplicemente scarta ciò che risulta estraneo alla sua tradizione.
Celebrando il Natale e la Settimana Santa, con ogni probabilità i neri intendono celebrare l’uomo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte. Cristo è l’immagine dell’uomo, e sono affascinati più dalla sua umanità che dalla sua divinità, più dalla sua morte che dalla sua risurrezione.

Due tipi di Sincretismo
Anche nell’ambito religioso il processo fu molto simile a quello socio-culturale: tra le istruzioni impartite dal clero, mediante istituzioni come il catechismo domenicale, e il controllo repressivo delle autorità civili e, posteriormente, del cosiddetto Santo Ufficio dell’Inquisizione, l’africano si vide sottoposto a una terribile pressione da parte dell’ambiente circostante, che influì sul suo credo religioso: di qui il nascere di un pronunciato sincretismo, ancora presente nella coscienza afroamericana. Tale sincretismo prosperò tanto in ambiente protestante che in quello cattolico, anche se in modo assai diverso.
Nell’ambiente protestante il nero non veniva accettato come membro della Chiesa se non dopo un’istruzione accurata e completa. In questo ambiente un’evangelizzazione approfondita portò alla scomparsa dell’elemento culturale africano. Lo schiavo reinterpretò il messaggio biblico filtrandolo attraverso la sua mentalità e le sue esigenze, creando un suo proprio cristianesimo.
In ambito cattolico, che si potrebbe definire più sociale che mistico, il nero invece capì molto presto che l’unica possibilità per ascendere nella scala sociale era quella di «formarsi un’anima di bianco». In questo ambiente, con un’evangelizzazione più superficiale, si mantennero più facilmente le caratteristiche culturali originarie, che produssero quel sincretismo di stampo africano presente nella religiosità popolare cattolica afrocolombiana.
Tra le sue varie forme, vale la pena menzionare la corrispondenza tra divinità africane e santi cattolici. In pratica, il nero riconosce che i santi cui rende culto sono la versione bianca delle sue divinità nere e lo giustifica teologicamente, affermando che fondamentalmente esiste una sola religione universale: quella che crede nell’esistenza di un Dio unico, creatore. E siccome questo Dio è troppo lontano dagli uomini, sono necessari degli intermediari, che per i protestanti sono gli angeli, per i cattolici sono i santi.
Degno di nota è pure il culto dei morti che diventa spazio di solidarietà e, nel suo nucleo essenziale è «la celebrazione della vita» che continua dopo la morte. Negli ambienti afroamericani questo culto ha lo scopo di accattivarsi la loro simpatia e di difendersi dal loro grande potere. È importante propiziarseli e riparare possibili offese. In tale celebrazione, la venerazione è sempre strettamente legata al timore, che è vero movente del culto degli antenati.

Il santo patrono
Emblematico è, soprattutto, il caso delle feste, e particolarmente in quelle patronali, che si trasformano in momenti privilegiati di ritrovo e comunicazione della popolazione nera: uno spazio autonomo, per comunicare con i propri antenati e con le divinità africane, scenario privilegiato per rafforzare la propria coesione.
La festa rappresenta la grande opportunità per celebrare la vita in gruppo. In essa ciò che più conta è il «saper socializzare». In questa occasione tutti si ritrovano e la gente si sente «comunità». Il nero non ama la solitudine, ama il gruppo, cerca la massa. Non ama il silenzio, ama il chiasso, l’allegria traboccante. Perché la festa sia tale ci deve essere molta gente… e molto chiasso.
Nella festa del santo patrono gli afroamericani trovano l’occasione per restituire al santo i favori che questi ha elargito durante l’anno. Un buon raccolto, una pesca abbondante, un certo benessere generale nel paese creano nella coscienza della gente la convinzione che il santo patrono abbia pensato a loro ed essi non esitano a manifestargli la loro riconoscenza nel giorno della festa patronale. Maggiore il benessere, maggiore sarà la festa. La gente dialoga con il santo patrono nel giorno della festa, soprattutto nella processione che costituisce l’atto religioso più idoneo ad esprimere i propri sentimenti. «Sentono» che il santo si è preso cura di loro e nella processione «glielo dicono», attraverso una ritualità che non può essere considerata pura esteriorità. Ma se durante l’anno il potere del santo patrono ha brillato per la sua assenza, la festa può giungere all’estremo opposto: porre il santo con la faccia contro il muro.

Senza memoria non c’è futuro
Da alcuni decenni gli afrocolombiani stanno dando notevoli segni di risveglio e presa di coscienza, di coraggiosa ricerca della propria identità culturale, religiosa e sociale, di timida lotta per recuperare la memoria storica, i valori etnici e le organizzazioni; tale movimento ha già ottenuto alcuni successi negli ambiti dell’educazione, della politica, della chiesa istituzionale e nelle comunità contadine.
Oggi, proprio in quanto popolo nero, essi hanno cominciato a organizzare il loro «esodo» verso la liberazione integrale e sentono la necessità e reclamano il diritto di continuare a ripercorrere le proprie esperienze spirituali ed espressioni liturgiche, radicate nella tradizione religiosa e culturale delle proprie comunità, cercando spazi di libertà per potersi esprimere come cristiani afroamericani.
Vengono così a galla le loro potenzialità, a volte messe a tacere ma mai eliminate, che lungo i secoli hanno permesso loro di sopravvivere e che oggi li stanno accompagnando lungo la via del Calvario verso la sicura risurrezione.
È proprio la sua anima religiosa che permette al popolo nero di avere una cosmovisione che lo rende capace di dare significato alla realtà, di interpretare le esperienze personali e di gruppo in una prospettiva unitaria, di organizzare ciò che è frammentario e dargli dimensione globale.
Il processo storico degli africani in Colombia, con tutte le sue contraddizioni, con la sua carica di morte e sofferenza, con le sue lotte e resistenze, ha configurato una cosmovisione in cui la manifestazione spirituale è l’asse portante per comprendere la realtà.
Gli afrocolombiani hanno sviluppato una visione globale sull’essere umano, il mondo, Dio, gli spiriti e le energie che tutto pervade.
Questa visione integrale della realtà e i valori che la sostengono, sono stati affrontati, nel passato, con una pastorale riduzionista, che promuoveva solo alcuni aspetti dell’essere umano e della sua realtà: quella spirituale, trascurando quella materiale o viceversa; tale azione ha provocato una schizofrenia culturale con gravi conseguenze sociali e religiose. 

Evangelizzare le espressioni della religiosità
Le popolazioni afrocolombiane hanno mantenuto fermamente la fede, l’hanno sviluppata nella quotidianità della loro vita contadina, l’hanno manifestata con spirito allegro e spontaneo, mediante una ricca serie di simboli e forme provenienti dalla loro cultura e mentalità, più che dalla tradizione universale cattolica. È naturale quindi che una pastorale autenticamente afro debba tendere a evangelizzare le manifestazioni culturali, le quali, a volte per mancanza di adeguato orientamento, hanno perso progressivamente il loro originario contenuto religioso e si sono ridotte a puro folclore.
Rientrano in questa categoria soprattutto le manifestazioni collettive della religiosità popolare, come le processioni e i balli religiosi, le «veglie» ai santi e ai defunti e le drammatizzazioni della nascita, passione e morte di Gesù a Natale e nel Venerdì Santo, che interessano e mobilitano tutto il paese.
Ma vi sono anche numerose manifestazioni individuali e domestiche che possono essere valorizzate nella pastorale. Tra le espressioni individuali si possono ricordare: farsi il segno della croce toccando la terra con una mano prima di uscire di casa; l’uso abbondante dell’acqua benedetta come terapia e elemento base per medicine casalinghe contro dolori e malattie varie; recita di speciali formule di preghiera in circostanze determinate; croci piantate sotto casa, specie se è edificata su palafitte e terreni paludosi, o davanti alla porta di ingresso, per scansare calamità reali o supposte, casi di malocchio ecc.
Le espressioni domestiche consistono in altarini, posti in nicchie o appoggiati alle pareti, ricoperti di immagini di santi e madonne, crocifissi e statuette, davanti cui si accendono lumini e si recitano diverse preghiere.
In tutte le espressioni religiose svolge un ruolo importante il canto accompagnato dai tamburi. I canti, come pure le ninne nanne e le poesie, costituiscono un ricco patrimonio culturale degli afroamericani e sono la quintessenza della loro religiosità.
Tutto ciò che è sacro è avvolto nel contempo da un alone di mistero. Ciò introduce l’afroamericano nel mondo del soprannaturale.
«partecipare» o «non partecipare»
Bisogna ammettere che il messaggio evangelico non è ancora riuscito a impregnare adeguatamente il gruppo culturale di origine africana, che possiede ricchissimi valori e conserva «i semi del Verbo» in attesa della Parola di vita. Come per tutta la Chiesa, la religiosità popolare afroamericana ha bisogno di essere rievangelizzata, colmando le lacune lasciate dall’evangelizzazione precedente.
Una di tale lacune è certamente il significato della domenica. Per l’afroamericano essa non rappresenta necessariamente il giorno dell’incontro religioso comunitario. La domenica è semplicemente il giorno del riposo e dello sport. Probabilmente questo dipende dal fatto che i primi missionari non approfondirono a sufficienza il significato religioso della domenica. L’evangelizzazione sottolineò più il mistero della Croce che della Risurrezione. E, forse, l’impossibilità di celebrare la messa per tutti per mancanza di sacerdoti, li indusse a non insistere inutilmente sul precetto domenicale.
Anche oggi, la messa non è considerata di fondamentale importanza presso gli afrocolombiani, forse perché è stata interpretata per troppo tempo come un atto di supplica, una preghiera efficace per comunicare con il mondo dei morti. Non è un caso che l’altare della veglia funebre nella casa del defunto sia una copia dell’altare della chiesa.
La difficoltà di capire i vari aspetti della messa ha provocato una reazione negativa nella gente. Ciò che per essa costituisce una seria difficoltà non è il mistero dell’eucaristia in quanto tale, bensì il fatto che questo, come altri misteri, venga celebrato in modo troppo freddo e formale, totalmente contrario alla sensibilità popolare.
Comprendere o non comprendere non costituisce per gli afroamericani un problema essenziale. Il problema è «partecipare» o «non partecipare». Nessun tipo di culto interessa agli afroamericani se si devono limitare ad ascoltare e a guardare passivamente, se non vi possono partecipare attivamente ed esprimersi liberamente.
Partecipare ed esprimere: è questa una questione fondamentale nell’espressione della loro religiosità. Per questo tra gli afrocolombiani assume tanta importanza la processione, che è un’autentica espressione di fede e di ringraziamento a Dio, il quale, mediante i suoi santi, elargisce vita e salute, clima favorevole e abbondante raccolto.

Vincenzo Pellegrino

Vincenzo Pellegrino




Integralismo all’africana

Premessa

Nell’ormai lontano 1998, il 7 agosto, le ambasciate Usa di Nairobi (Kenya) e Dar-es-Salaam (Tanzania) subiscono due attentati contemporanei. Muoiono 223 persone e 4.000 restano ferite. Sono i maggiori attacchi terroristici prima dell’11 settembre. Entrambi in suolo africano, sono rivendicati da Al Qaeda di Osama bin Laden.
2006: i miliziani islamici di Al Shabaab conquistano la Somalia centro orientale e impongono una lettura integralista della legge islamica.
Ad Abuja, il 26 agosto 2011 un’autobomba guidata da un kamikaze fa esplodere la sede Onu in Nigeria. Diciotto i morti e una decina i feriti. La setta islamica radicale Boko Haram rivendica l’attentato.

Nell’aprile di quest’anno il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad dichiara l’indipendenza del Nord del Mali e la secessione da Bamako. Ben presto i gruppi islamisti di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico), Mujao e Ansar Dine prendono il controllo dell’intero territorio e applicano la legge islamica.
Sono fatti, tasselli, nomi, sigle che raccontano come nell’Africa a Sud del Sahara gli «islamisti» stiano guadagnando progressivamente terreno. Spesso si tratta di movimenti con origine diversa (anche molto diversa) e che nel tempo si sono trasformati. Ma quali contatti hanno tra loro? A quali ideali si ispirano? Dove e come operano sul terreno? Chi li finanzia?
Nelle pagine seguenti abbiamo cercato di fornire alcuni elementi per meglio comprendere un fenomeno complesso e contraddittorio, quello dell’integralismo islamico in Africa sub sahariana, che mescola rivendicazioni a carattere nazionale con spinte inteazionaliste; che offre ordine e sicurezza ma anche una visione spietata e integralista dell’islam; che miscela guerra santa a traffici illeciti; che combatte l’Occidente, ma ha basi in Europa.

Enrico Casale e Marco Bello

Enrico Casale e Marco Bello




La bomba libica

Libia: caos post Gheddafi

Il paese è diviso, non c’è stato di diritto. Nella confusione i gruppi estremisti si rafforzano. Inoltre la Libia è patria di diversi leader di Al Qaeda e da tempo sono attive cellule salafite, che ora tornano a colpire. Qualcuno teorizza una (improbabile) alleanza con gli ex gheddafiani per rovesciare il governo.

È molto difficile dire se l’assalto all’ambasciata statunitense del 12 settembre rappresenti il primo passo sull’orlo dell’abisso del paese. L’uccisione a Bengasi di quattro funzionari statunitensi, compreso l’ambasciatore Chris Stevens, è certamente un evento inaspettato nella drammaticità, nelle proporzioni che la minaccia terroristica comporta, e nelle conseguenze politiche.
Nel marzo 2011, un anno e mezzo fa, una piazza traboccante e festante di giovani bengasini accoglieva la troupe della Cnn e la osannava con cori a suo favore. Bengasi e i rivoltosi entravano nel corso della storia dopo 42 anni di oblio. Erano al centro della Primavera araba ed esultavano per l’attenzione che su di loro poneva il network americano.
L’allora inviato statunitense Chris Stevens si era prodigato per stabilire contatti e legami con i ribelli e poi aveva incoraggiato il proprio paese a supportarli. La sua azione diplomatica in Libia gli era valsa la nomina di ambasciatore a Tripoli all’inizio dell’anno: il 22 maggio era stato accreditato.
Polveriera
Pensare alla sua uccisione per mano di libici sembra oggi incomprensibile per una mente razionale. Eppure ciò si può spiegare solamente con un fatto: la Libia è un paese diviso e senza alcuno stato di diritto, un paese in cui gruppi di facinorosi, in circostanze ancora da chiarire, possono comportare una seria minaccia. La sicurezza è in mano a bande che vengono «tollerate» dall’autorità centrale, talvolta blandite, talvolta onorate nel tentativo (fallito) di integrarle all’interno di un esercito nazionale. Alcune di queste bande hanno chiari orientamenti estremisti. E nell’instabilità l’estremismo prolifera. Improbabile che questa azione costituisca una diretta vendetta dell’uccisione di Abu Yahya al-Libi, numero due di Al Qaeda.
Sul fronte dell’islam radicale c’è chi ricorda la lunga tradizione della jihad in Cirenaica. È importante però non invertire il nesso di causa-effetto: l’islamismo radicale in Libia è stato alimentato soprattutto dall’oppressione del regime. Per buona parte dei libici, l’unico modo di dissentire da Gheddafi era quello di aderire o appoggiare Al Qaeda. I libici sono stati per anni il secondo maggior gruppo, dopo i sauditi, a combattere sui fronti iracheno e afghano. Sono in particolare città come Dea, in Cirenaica, ad aver alimentato il fronte qaedista. Per esempio, Abu Yahya al-Libi, era appunto libico ed è stato ucciso da un attacco di droni americani a inizio giugno 2012. Abu Yahya al-Libi, nato nel 1963, era considerato dagli Stati Uniti l’uomo più importante dopo Ayman al-Zawahiri, che dalla morte di Osama bin Laden guida l’organizzazione terroristica. Al-Libi non è stato mai descritto come un grande combattente, ma piuttosto come un ottimo organizzatore e propagandista. Si dice che al-Libi abbia cominciato la sua carriera terroristica negli anni Novanta, quando vive in Afghanistan. Nel 2002 è stato arrestato dalle forze americane a Bagram, ma dopo soli 3 anni è riuscito a fuggire facendo perdere le sue tracce. Alcuni «allievi» di Abu Yahya al-Libi sono attivi in Libia anche oggi. Sufian bin Qumu, per esempio, che ha lavorato anche a contatto con Osama bin Laden, prima di essere catturato dagli americani e detenuto a Guantanamo per sei anni, guida una milizia nella zona di Dea che sfoggia la bandiera nera di Al Qaeda ed è stata accusata di violenze. Qumu ha apertamente dichiarato che non intende deporre le armi finché in Libia non sarà instaurato un governo di tipo islamico-talebano. Sempre a Dea e in Cirenaica sono attive formazioni salafite, come il gruppo Ansar al-Sharia, che si rifiutano di riconoscere la legittimità dell’autorità centrale. Bisognerà indagare le responsabilità dell’attacco all’interno di questi gruppi. I primi arresti sembrano accreditare questa pista.
Segnali
Le avvisaglie di un atto simile c’erano tutte, anche se non di tale tragicità e rilevanza.
Le elezioni di luglio, che hanno avuto un buon esito, hanno fatto probabilmente abbassare la guardia. I problemi, tuttavia, rimanevano tutti. Il mese di agosto lo aveva chiaramente dimostrato: attacchi di gruppi salafiti agli «eretici» sufi, con la distruzione di diversi santuari; altri attentati a istituzioni libiche addebitati, forse troppo frettolosamente, a ex gheddafiani.
Questi, foraggiati probabilmente dall’estero tramite membri della famiglia del Rais, rappresentano una minaccia alla stabilità del paese e un ostacolo verso una piena pacificazione. Le loro rappresaglie hanno già avuto conseguenze politiche. Proprio a causa della recrudescenza delle violenze nel paese, il ministro dell’Inteo libico, Fawzi Abdelali, aveva presentato a fine agosto le sue dimissioni, per protestare contro le critiche all’inefficacia delle misure di sicurezza, ma poi si era detto impossibilitato nel risolvere la questione.
Seppur teoricamente improbabile, fonti di intelligence accreditano uno scenario alquanto preoccupante che vedrebbe una convergenza tattica dei salafiti con gruppi di ex gheddafiani nel nome della lotta all’attuale transizione politica. Le risorse e le amicizie inteazionali della famiglia Gheddafi non vanno sottovalutate, in particolare i legami che ancora può vantare Saadi Gheddafi, il figlio ex calciatore di Muammar, ora in Niger.
Se il paese rimanesse così instabile, anche l’influenza islamica radicale, guidata dagli elementi più pericolosi, si potrebbe rafforzare ancora. Gli attentati di maggio e giugno 2012 ai danni della Croce Rossa e dei consolati britannico e statunitense a Bengasi costituivano un chiaro avvertimento che è stato sottovalutato. L’uso di azioni terroristiche da parte dei gruppi radicali sta decisamente aumentando sia per quantità che per qualità. In un mix sempre più pericoloso di terrorismo, immigrazione illegale e traffico di droga e armi (20.000 missili portatili antiaerei sarebbero ancora nelle mani delle milizie), derivante dal fallimento del controllo delle frontiere, potrebbero trovare terreno fertile le organizzazioni criminali e terroristiche. Difficile pensare che l’azione di assalto al consolato Usa non sia stata premeditata e che la motivazione non sia pretestuosa.
Occidente mordi e fuggi
Una vasta coalizione internazionale ha abbattuto il regime di Gheddafi e poi ha fatto finta che i libici potessero farcela da soli. Gli Stati Uniti si sono mantenuti defilati. Sembrava una strategia vincente, ma ora per Obama il «leading from behind» (dirigere dalle retrovie, ndr) potrebbe diventare molto difficile da difendere dagli attacchi dei repubblicani.
Senza rievocare la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran che mise in ginocchio l’amministrazione Carter, questa vicenda sarà certamente rilevante per la campagna elettorale. Obama ha prontamente reagito con la decisione di rimpatriare il personale americano e di inviare un primo contingente di 50 marines specializzati nell’antiterrorismo ai quali, secondo una fonte del Pentagono, potrebbero seguire fino a 200 militari in tutto, e di un probabile utilizzo non dichiarato di droni contro i gruppi legati al terrorismo internazionale.
Se vi erano dubbi sulla capacità della Libia di risolvere da sé i propri problemi e incamminarsi da sola sulla strada della democrazia e della riappacificazione, questi eventi li alimentano. Lo stesso giorno dell’assalto all’ambasciata, in questa cupa atmosfera, il parlamento libico ha nominato Mustafa A.G. Abushagur, ex vice primo ministro del governo provvisorio, nuovo primo ministro. Il parlamento lo ha preferito di misura a Mahmud Jibril, che ha guidato l’alleanza di partiti con maggiori consensi alle elezioni di luglio. Abushagur, storico oppositore di Gheddafi, a lungo in esilio negli Usa, ha raccolto consensi trasversali. Toccherà a lui prendere in mano il paese, ma senza un forte aiuto della comunità internazionale si prospettano tempi difficili.

Arturo Varvelli

Arturo Varvelli




Un patrimonio da salvare

Premessa

«I pionieri di un mondo senza guerre sono i giovani che rifiutano il servizio militare». Chi è al corrente che una frase del genere è stata detta quasi 100 anni fa da un premio Nobel per la fisica? Stiamo parlando di Albert Einstein (1879-1955), che ai suoi celeberrimi studi ha affiancato, nel tempo, l’impegno per un pacifismo concreto, alternativo alle logiche del tempo. Come lui, altre migliaia di persone, nel mondo e anche in Italia, hanno fatto una precisa scelta di campo: quella dell’obiezione di coscienza (Odc), ovvero di voler difendere la propria Patria senza imbracciare un’arma.
In questo 2012 ricorrono 40 anni esatti dall’introduzione dell’obiezione nella legge italiana. Un anniversario da festeggiare, perché, dopo i primi pionieri che avevano dovuto pagare il proprio rifiuto con l’arresto e le vessazioni di chi li considerava nulla più che dei «senzapatria», l’Odc ha permesso a milioni di giovani di trovare la propria strada attraverso i significativi mesi (prima 20, poi 12, com’è ancora oggi) di Servizio civile presso enti di varia natura, dall’aiuto alle persone in difficoltà, alla salvaguardia del patrimonio ambientale e artistico, all’interposizione nonviolenta nei conflitti, in Italia come all’estero.
Nel 2001, altra pietra miliare nella storia della difesa alternativa della Patria: con la scomparsa della naia obbligatoria è nato – grazie all’impegno di molti, politici e non, nell’affrontare il lungo percorso istituzionale sfociato nella legge 64 – il Servizio civile nazionale volontario (Scn), aperto ai ragazzi e, per la prima volta, alle ragazze dai 18 ai 26 anni, poi innalzati a 28. È nato così un organo governativo apposito, per la prima volta indipendente dal ministero della Difesa, l’Ufficio nazionale servizio civile (Unsc), direttamente collegato alla Presidenza del Consiglio.
Da allora, 300 mila giovani sono partiti per l’anno di servizio, molti in Italia, ma qualche migliaio anche all’estero, attraverso uno dei progetti più virtuosi che il mondo invidia all’Italia: il corpo civile di pace dei Caschi bianchi, oggi diffuso in gran parte dei paesi in difficoltà a livello sociale, economico e di diritti umani e civili.
Una marea di persone ha fatto questa scelta di vita e di cittadinanza attiva. Per molte di esse non ha significato solo svolgere un anno di Scn, ma un impegno che è continuato, sotto varie forme (dal volontariato, alla ricerca di lavoro in ambiti affini, a varie altre strade), una volta ritornate alla propria vita pre-servizio, naturalmente cambiate da un’esperienza spesso coinvolgente a 360 gradi.

Dopo anni di crescita di domande e di posti a disposizione, dal 2008 la tendenza si è però rovesciata, non a causa del disinteresse dei giovani, bensì del taglio di fondi governativi. In questo 2012, addirittura, si è parlato per la prima volta di possibile interruzione del Servizio civile, finito sotto la scure dei tagli in nome della crisi. I volontari (chiamati così in modo un po’ inappropriato, perché la scelta è sì volontaria ma si viene rimborsati con un indennizzo mensile, lo stesso dato a chi presta il servizio militare) hanno iniziato a manifestare la propria preoccupazione, inviando anche lettere ai politici; gli enti che li fanno partire hanno aumentato la loro pressione sul governo Monti; giornali, donne e uomini di cultura, hanno lanciato l’idea di un Servizio civile universale, per tutti, seconde generazioni (figli di stranieri nati in Italia) comprese; politici di ogni schieramento che hanno a cuore il tema (pochi, purtroppo, anche se tra questi spicca il ministro per l’integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio) fanno cartello chiedendo al Presidente del Consiglio di metterci una pezza. Vedremo: per ora si sa che nel 2013, chi partirà lo farà con i fondi residui dell’Unsc. È l’unica luce in fondo al tunnel, in attesa di nuove.
Nelle pagine seguenti viene illustrato, sotto ogni aspetto, il bene che l’Obiezione di coscienza prima, il servizio civile poi, ha fatto e sta facendo per il nostro paese. Il problema è che una parte dei cittadini di questo paese se ne rende conto, ma un’altra grossa fetta non ne ha capito la portata, nonostante sia palese, come rivelano le ultime ricerche sociali in merito, quanto sia virtuoso il «ritorno» verso la società civile dell’impegno dei ragazzi in Scn: ben quattro euro di capitale umano ogni euro investito dallo Stato per il loro servizio.
Alla luce dei numeri e dei fatti, il messaggio che viene diffuso è forte e chiaro, in primo luogo per la politica: è ora che tutti sappiano veramente cos’è il Servizio civile e cosa perderemmo se venisse sospeso. È ora di rilanciarlo, e per questo c’è bisogno dell’impegno di tutti noi.

Daniele Biella

Daniele Biella




Operazioni caschi bianchi

Servizio civile all’estero

Da quando è stata riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare ed è stato istituito il servizio civile nazionale, oltre 300 mila giovani hanno scelto di difendere la patria spendendo un anno di lavoro in un paese estero, in missione di pace non-armata e nonviolenta. Chi ha sperimentato tale servizio ne resta segnato per tutta la vita, continuando a impegnarsi in attività di promozione umana, a difesa della pace e dei diritti dei più deboli.

Li incontri quando proprio non te l’aspetti: negli slums, le baraccopoli africane, come nelle favelas brasiliane. A difendere i diritti delle donne in America Latina e delle minoranze etniche nell’Est Europa. Ma anche a tutelare foreste, avviare progetti di cooperazione allo sviluppo, o semplicemente condividere la dura quotidianità di bambini e adulti di strada, famiglie indigenti o vittime di guerre o violenze strutturali, senza colpe se non quella di trovarsi nel posto sbagliato. Sono i giovani italiani che decidono di partire per l’anno di Servizio civile volontario all’estero: 400 in questo 2012, almeno 5 mila da quando, nel 2001, è nato in via ufficiale il Scn, Servizio civile nazionale, che nonostante la dicitura «nazionale» prevede anche l’invio di ragazze e ragazzi fuori dall’Italia.

Da obiettori a caschi bianchi
Nessun controsenso: la difesa della patria si può promuovere anche così. «Oramai siamo in una nuova fase dell’idea di “difesa”: si tutelano gli interessi nazionali, non i confini. Lo fanno in primis gli stessi militari, con le cosiddette “missioni di pace” nei territori caldi come Afghanistan, Balcani, e fino a qualche tempo fa Iraq – sottolinea Nicola Lapenta, 41 anni, responsabile per il Servizio civile dell’associazione Comunità Papa Giovanni xxiii -. Quindi ancor più il discorso vale per un’azione non armata e nonviolenta come quella portata avanti dai giovani ex obiettori di coscienza, oggi volontari in servizio civile».
La differenza del tipo di impegno, rispetto a quello militare, è evidente; «non si difendono interessi legati a pozzi di petrolio o altre questioni geopolitiche; piuttosto, chi sceglie il servizio civile all’estero promuove il rispetto dei diritti umani e la trasformazione positiva dei conflitti di ogni genere» afferma Lapenta, padre di tre bambini, ma soprattutto uno dei primi obiettori di coscienza alla naia obbligatoria ad aver «superato il confine»: nel 1995, durante l’anno di servizio civile (che ha svolto in una casa famiglia della Comunità in Piemonte), partecipò, alla marcia pacifista indetta dai Beati costruttori di pace nella Sarajevo sotto assedio, capitale dell’attuale Bosnia, allora parte della ex Jugoslavia.
«Recarsi all’estero a quel tempo non era permesso agli obiettori, così io e altri ci siamo autodenunciati e siamo partiti: ci sembrava giusto dare il nostro contributo alla risoluzione nonviolenta del conflitto nei Balcani, attraverso l’interposizione diretta», spiega il responsabile servizio civile della Comunità Papa Giovanni xxiii.
Dalla presenza degli obiettori nella ex Jugoslavia, la storia dell’impegno civile dei giovani italiani ha scritto pagine sempre più colme di testimonianze e coraggio, fino ad arrivare alla legge 230 del 1998, che nel riformare l’obiezione di coscienza introduceva la possibilità di partire per l’estero, e «sanava» la situazione del centinaio di persone che, come Lapenta, si erano recati all’estero senza permesso durante il loro anno di servizio.
Nel frattempo, a questi giovani pionieri è stato dato anche un nome: Caschi bianchi. Una risoluzione dell’Onu del 1994 chiama così un possibile corpo civile di aiuto umanitario da inserire nei conflitti. Da allora in Italia il nome è stato dato in via informale ai giovani obiettori all’estero. «Fino al 2001 quando, con l’istituzione del Scn, un progetto promosso dagli enti Caritas italiana, Comunità Papa Giovanni xxiii, Focsiv-Volontari nel mondo e Gavci si è chiamato proprio “Caschi bianchi”, puntando sulla creazione di un vero e proprio corpo civile di pace» (per quest’ultimo aspetto vedi la pagina 48, dedicata al «Servizio civile nel mondo», ndr).

Progetti per costruire la pace 
Quel progetto c’è ancora oggi e riguarda la maggior parte dei volontari all’estero del servizio civile, circa due terzi del totale. Nel 2012 i Caschi (chiamati “bianchi” per distinguerli dai “blu” delle stesse Nazioni Unite, che hanno compiti simili ma impugnano un’arma da usare a seconda del bisogno) sono sparsi in quasi tutti i continenti: «Paesi dell’ex Jugoslavia, Gibuti, Guinea, Sierra Leone, Argentina, Guatemala, Thailandia, Sri Lanka: ecco alcuni dei Paesi in cui sono presenti oggi con i nostri progetti – elenca Diego Cipriani, capo dell’Ufficio servizio civile di Caritas italiana -. Si occupano, dando man forte alle presenze locali del nostro ente, di ragazzi di strada, promozione dei diritti umani, riconciliazione delle parti in conflitto. La loro presenza è fondamentale, sono un punto di riferimento per la popolazione locale».
Il cornordinamento fra le quattro organizzazioni promotrici dei Caschi bianchi fa sì che il progetto sia ben strutturato: «A ben vedere rappresenta l’essenza dello stesso servizio civile: si tratta di una presenza preziosa nel prevenire e trasformare i conflitti, ovvero nel costruire la vera pace, attraverso la nonviolenza» aggiunge Primo Di Blasio, referente per la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato). Le sue parole trovano conferma nelle recenti dichiarazioni del ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi: «Perché così pochi posti per l’estero? Ne servirebbero molti di più, la mediazione è una componente fondamentale della società, che vede una crescita dei conflitti sociali».
Discorsi e intenzioni a parte, la concretezza parla da sé anche nel caso della Focsiv: 1.250 giovani partiti dal 2001 a oggi, 200 in servizio quest’anno in nazioni, tanto per citae alcune, come Cina, India, Albania, Mali, Congo, Rwanda, Colombia, Venezuela, tutti a sostegno di progetti di organizzazioni non governative italiane o locali; in Benin l’ente si è appoggiato finora alla presenza dei missionari cappuccini.
«Gli ambiti di intervento sono il socio-sanitario, la tutela ambientale, la difesa dei diritti, lo sviluppo sociale, ad esempio, promuovendo il turismo comunitario e le associazioni di artigiani locali» illustra Di Blasio. Come se non bastasse, i Caschi bianchi svolgono anche attività giornalistica dal basso, scrivendo articoli per il portale antennedipace.org. «Sono come delle antenne, pronte a diffondere quello che vedono verso tutti» aggiunge Lapenta, la cui Comunità Papa Giovanni xxiii (presente in ampie zone del mondo, dai Territori palestinesi allo Zambia, dal Tanzania alla Russia, dal Brasile al Bangladesh), si occupa anche, dall’Italia, di raccogliere i contributi dei giovani in servizio e inserirli sul portale telematico.
Inoltre, nonostante che per il servizio civile in generale sia un periodo molto arduo, data la paventata chiusura dei progetti nel 2013 se il governo non riuscirà a reperire altri fondi, dal 2011 è partito un nuovo progetto sperimentale in Albania, promosso dal Comitato Dcnan, Difesa civile non armata e non violenta, di cui fan parte gli enti promotori del servizio civile all’estero: si chiama “Oltre le vendette” e vuole aiutare la ricomposizione pacifica dei violenti conflitti famigliari che flagellano il Paese balcanico. Non solo Caschi bianchi, comunque; il servizio civile all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono attingere è ampio.

Andata…
Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ragazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servizio civile, estero compreso, almeno una volta all’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio nazionale servizio civile). La procedura è semplice: entra in contatto con l’ente referente del progetto e invia la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richieste pervenute dai vari enti.
Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che continua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, arrivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripescato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel dicembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo – spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero».
È questa la differenza con un’esperienza di volontariato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reggere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concretezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di formazione normale, si alternano incontri con esperti, laboratori, esperienze di condivisione diretta in ambienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni xxiii, ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa – riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno».
Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impegno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… – continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetizzarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà».
La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servizio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di coscienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio.
«All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivisione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni materiali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risolvere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un ingranaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servizio civile, che con umiltà cerca di entrare in un ambiente nuovo ben sapendo di essere di passaggio.
«Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui abbiamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambiamento non siamo noi ma loro, e noi con loro – specifica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragionamento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chiedermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abituati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolutrice».

… e ritorno
Peccato che, più velocemente di quel che ci si aspetti, i 12 mesi del servizio finiscano; giusto il tempo di abituarsi alla nuova vita, ed è già ora di passare il testimone al casco bianco che verrà dopo di te: si è utili, ma non indispensabili.
A un certo punto, quindi, si devono fare i conti con il ritorno in Italia. E qui inizia il bello: «A volte è più dura della partenza, sei cambiato, devi rifarti una vita», aggiunge ancora Pinnisi. Lui, dopo alcuni ritorni in Cile («perché le amicizie rimangono, ma vanno coltivate») ha oggi trovato impiego nel sindacato della Cgil, oltre a dedicarsi al volontariato in parrocchia e per Cascina G, progetto di un prete novarese per la promozione dell’impegno giovanile. Bianchi, invece, si occupa di progettazione per Banca Etica. Sono due esempi delle molteplici strade che prendono gli ex volontari di Scn all’estero, una volta superato lo spaesamento iniziale del rientro. C’è chi, fra gli altri, è diventato giornalista anche per quotidiani nazionali, chi è entrato a pieno titolo nello staff di Amnesty Inteational; parecchie decine hanno scelto la cooperazione internazionale e sono ripartiti per altri paesi.
Ancora, ci sono coloro che hanno deciso di tornare al lavoro esercitato prima della partenza, oppure sono ancora alla ricerca, soprattutto chi è tornato da poco. «All’estero mi sono innamorato della patria, mi ha rivelato un ragazzo appena tornato in Italia: questa è finora la frase più bella che abbia mai sentito», ammette il responsabile servizio civile della Focsiv. C’è infatti un filo rosso che unisce le migliaia di esperienze, ed è sottolineato da tutti i responsabili degli enti: la passione per il sociale in tutte le sue forme e il continuare a essere casco bianco in ogni situazione, nonostante sia terminata l’esperienza propriamente detta. «Con i vicini di casa, con i propri figli, i parenti, gli amici, sul lavoro o nell’associazione per cui fai volontariato: ovunque puoi portare avanti la tua missione», argomenta Chiara Perego, che nel 2004 è stata anche lei a Santiago del Cile e oggi è tornata nella sua Brianza, dove si occupa sia di economia solidale che di musicoterapia. Prima con i Caschi bianchi del suo scaglione, poi con altre persone che si sono man mano unite negli anni, essa ha fondato nel 2006 l’associazione Paciamoci onlus, per promuovere la risoluzione nonviolenta dei conflitti interpersonali, a scuola come in altri ambiti quotidiani. «Abbiamo scoperto che anche in Italia c’è molto bisogno di mediare fra le parti in conflitto, a volte da un semplice torto subito si generano catene di violenza che durano anni e possono non venire mai superate», aggiunge Perego.
C’è di più: dal 2011, almeno un centinaio di Caschi bianchi partiti con la Papa Giovanni xxiii ha deciso di tornare a fare gruppo, creando il movimento della «Ricostituente»: ogni 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica, si trovano per un momento di formazione, confronto e azione diretta nonviolenta, e nel resto dell’anno cercano di agire in gruppi locali. «Il presupposto è che si rimane caschi bianchi a vita – conclude Bianchi -; di certo i ritmi frenetici della nostra vita in Italia non aiutano, ma paradossalmente la vera sfida è di portare avanti gli ideali con cui operavi all’estero proprio qui in Italia».

Daniele Biella

Daniele Biella




La meglio gioventù

Servizio civile in Italia

Sono 3.581 gli enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Unsc (Ufficio nazionale per il servizio civile). I tagli imposti a causa dell’attuale crisi economica hanno diminuito di molto le risorse economiche, rischiando di azzerare una delle esperienze più significative ed esemplari degli ultimi 40 anni di politica giovanile.

Prendete un’esperienza che funziona: i 300 mila ragazze e ragazzi che negli ultimi 11 anni (grazie alla legge n. 64 del 2001) hanno svolto 12 mesi di Servizio civile nazionale e volontario (Scn), ovvero quella che è ritenuta dalla gran parte di sociologi ed educatori la migliore politica giovanile dello Stato italiano, sicuramente l’unica che funzioni davvero. Ebbene, se provate a tagliare, poco alla volta ma in modo inesorabile, i fondi che la tengono in piedi, tale esperienza arriva a un possibile azzeramento da qui a pochi mesi.
Follia? No. Oggi sta accadendo anche questo, nel nostro paese, sconvolto da una crisi economica che rischia di trasformarsi, se non lo è già, anche in una crisi di tipo morale. Il welfare, lo stato sociale, sta soffrendo non poco, e non ci sono parole che spieghino quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti: in pochi mesi si sta dilapidando una storia lunga almeno 40 anni, da quando, nel 1972, venne promulgata la legge Marcora (n. 772) sull’Obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio. A dirla tutta, per trovare testimonianza del primo renitente alla leva si risale fino al II sec. d.C.: san Massimiliano, che rifiutò di arruolarsi nell’esercito romano e che oggi è il santo protettore degli obiettori.
«Che la lunga notte del servizio civile sia l’esemplificazione di un paese che non vuole avere un futuro?». A chiederselo è Licio Palazzini, obiettore nel 1982 con l’associazione Arci, ma soprattutto oggi doppiamente in prima fila nel mondo del Servizio civile nazionale: è presidente di Arci servizio civile, la realtà che più di tutti ha fatto partire giovani dal 2001 in poi («almeno 15 mila, una media di 1.300 volontari all’anno»), e presiede anche la Consulta nazionale per il servizio civile, organo che dal 1999 fa sedere attorno a un tavolo tutti i protagonisti del mondo del Scn: i rappresentanti della Conferenza Stato-regioni, l’Unsc (Ufficio nazionale del servizio civile, governato dalla presidenza del Consiglio dei ministri), gli enti e i rappresentanti dei volontari. «Siamo di fronte a un corto circuito: questi ragazzi sono un capitale umano indispensabile, come si può pensare di fae a meno?» prosegue Palazzini.
A lui fa eco un’altra storica figura del settore, Diego Cipriani, 49 anni, oggi responsabile servizio civile della Caritas italiana, ma dal 2006 al 2008 direttore proprio dell’Unsc, quindi profondo conoscitore dei meccanismi di finanziamento del servizio civile. «È chiaro che noi, enti, sopravvivremmo lo stesso senza i volontari in servizio. Ma sarebbe davvero un grave errore chiuderlo, perché i fatti dimostrano che la funzione educativa per i giovani stessi e il ricavo che la comunità trae dal loro impegno è fondamentale», ragiona Cipriani, che ai 15 mesi dell’allora leva obbligatoria aveva preferito, nel 1987, i 20 mesi di servizio civile alternativo, aiutando i volontari della Caritas di Bari.
Come dar loro torto? Per capire che tipo di esperienza abbiamo di fronte basta sentire solo alcune delle voci delle migliaia di volontari che partono ogni anno da e per ogni regione d’Italia. Dai 178 del primo anno si è passati ai 7.865 del 2002, al record di 45.890 nel 2006, fino alla caduta libera degli ultimi anni, con il 2012 che vedrà un massimo di 19 mila invii, con partenze scaglionate mese per mese, proprio per problemi economici nel reperire tutti i fondi per farli partire assieme, come è avvenuto fino al 2011 (vedi tabelle a pag. 46-47). In queste cifre si nota una marcata prevalenza di ragazze (67%), con un recupero delle presenze maschili negli ultimi anni, e un’età media sui 24 anni.
Le testimonianze sono una diversa dall’altra, ma in comune hanno tutte il fatto che, comunque sia andata, l’anno di servizio civile non lo si dimentica affatto. Né lo dimenticano i beneficiari. «È un’esperienza che rimarrà per sempre. Io alla fine del servizio ho anche continuato al progetto come volontaria», spiega Charlotte Cesareo, 27 anni, che ha svolto il Scn nel 2010 per Arci servizio civile come «braccio destro dell’avvocato che aiuta gratuitamente nelle pratiche chi è in attesa del permesso umanitario». Lei, tramite il progetto «L’officina dei diritti», accompagnava i rifugiati in questura, ospedale e altri luoghi «per loro spesso fonte di preoccupazione». Aggiunge ancora la ragazza: «All’inizio è stata dura, poi capisci il tuo ruolo e diventa un’esperienza unica».
La scelta di Angelo Sgandurria, leccese, che oggi ha 28 anni, è peculiare: «Ho iniziato il servizio civile per l’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism), nel dicembre 2009. Poche settimane prima ero un militare della capitaneria di porto, sempre in ferma volontaria – racconta – ma ho deciso di cambiare, senza alcuna aspettativa: era la prima volta che incontravo la disabilità». L’anno di Scn è stato utile sia alle persone che accudiva sia a se stesso, e aggiunge: «Non si può nemmeno paragonare il beneficio del servizio civile rispetto al militare; è un’ottima palestra per crescere: prima non ero sensibile verso i problemi degli altri, ora sono all’opposto. Avrei firmato per un altro anno di servizio, ma visto che non si può fare, ora cerco comunque di lavorare nel sociale».
Non per tutti, comunque, i 12 mesi rappresentano un’esperienza solo positiva. Per vari motivi, può essere difficile e faticoso portare avanti il proprio compito. «Menomale che è finita – ammette Emanuele Pizzo, padovano di 32 anni -. L’ho fatto nel 2008, ero in una casa di riposo per anziani, all’inizio pensavo che avrei potuto valorizzare al meglio la mia giovinezza. Ma le aspettative ti fregano: la realtà quotidiana era pesante, molte persone non erano molto in sé e noi dovevamo limitarci ad assisterli in toto». Non per questo, però, Pizzo, che durante quell’anno è stato anche eletto rappresentante nazionale dei volontari, giudica l’esperienza negativa: «Al contrario, ho trovato un team di colleghi affiatato, che rendeva comunque stimolante il lavoro. Oggi too ancora nella struttura come volontario».

Assistenza, ambiente, promozione culturale, protezione civile: sono questi gli ambiti in cui rientrano tutti i progetti dei 3.581 enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Ufficio nazionale (vedi www.serviziocivile.gov.it). Tra le proposte, si può salire sull’ambulanza dell’Anpas, Croce Rossa o delle Misericordie, oppure promuovere la donazione del sangue con Avis, Fratres o Fidas. «Andavo nelle scuole di ogni grado a parlare dell’importanza di donare, portando racconti di altri donatori, gli strumenti che si utilizzano, infine accompagnando i ragazzi nelle sale di donazione: sono molto interessati», illustra Elisa Montagni, 27 anni, ex volontaria in Scn per Avis.
Viviana Ciufo è partita invece nel 2005 con il Wwf, lavorando nell’ufficio comunicazione «per provare un’esperienza concreta prima di finire gli studi in scienze geologiche». Alla fine dell’anno, è rimasta per due anni come collaboratrice, così come capita a migliaia di giovani: spesso, se fortuna e capacità vanno a braccetto, l’impegno volontario si può tramutare in un posto di lavoro. «Nel 2008 il Csv (Centro servizi per il volontariato), Sardegna solidale, dove avevo appena finito l’anno di Scn, mi ha tenuto come referente per i volontari servizio civile degli enti associati», spiega la 33enne sarda Ilaria Scioni.
«Ma vi immaginate cosa potrebbe accadere se non ci fossero più giovani ad assistere gli utenti dell’Aism, per esempio, o dei tanti altri enti che contano sul servizio civile con la doppia valenza dell’aiuto per il proprio lavoro e la crescita educativa dei ragazzi?». A porre la questione è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, dal 1994 nello staff governativo che gestisce il Scn. «L’utilità del servizio civile è sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che si trovino i finanziamenti e venga rilanciato: ne va dei rapporti tra cittadini e istituzione», sentenzia De Cicco.

Alla fine si torna sempre lì, alla questione dei fondi: dai 121 milioni di euro del 2002 si è raggiunta quota 296 milioni nel 2007, ma si è poi sprofondati agli attuali 68 milioni. Per il 2013 l’Ufficio nazionale esaurirà gli 80 milioni che ha ancora in cassa (utili per 15 mila partenze). Ma poi?
Il ministro Andrea Riccardi ha detto pubblicamente che si sta impegnando presso il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo governo a reperire i finanziamenti; molti politici e volti noti della società civile e dello spettacolo sono scesi in campo appoggiando anche l’idea di Servizio civile universale, lanciata dalla testata del non profit Vita (tra gli altri Romano Prodi, don Antonio Mazzi, i comici Giovanni e Giacomo); ex volontari e rappresentanti hanno lanciato appelli (vedi riquadro su F-35).
Si cercano nuove soluzioni, ad esempio potenziando il Servizio civile regionale, attivo dal 2004 in molte regioni, in cornordinamento con quello nazionale. Sono in discussione in Parlamento varie proposte di riforma del Scn, una delle quali in merito all’apertura dell’anno di servizio pure a stranieri e seconde generazioni. A inizio 2012 tutte le partenze erano state bloccate, perché un tribunale aveva dato ragione a un ragazzo pachistano che era stato rifiutato, ritenendo tale rifiuto un atto discriminatorio. Poi è arrivato lo sblocco, ma solo con l’impegno della politica per allargare al più presto le maglie della legge.
Insomma, siamo di fronte a un cantiere pieno di belle speranze, a ben vedere. «Ma siamo molto preoccupati; speriamo in un orizzonte più sereno di qui a poco, evitando così la paralisi», auspica Primo Di Blasio, che oltre a essere referente della Focsiv copre il ruolo di presidente della Conferenza nazionale degli enti di servizio civile (Cnesc), rete che da 20 anni racchiude tutti i più grandi enti di servizio civile.
Per capire cosa perderebbe la società basta citare qualche dato degli studi che periodicamente compie l’Irs, Istituto per la ricerca sociale: i 1.116 giovani di Arci servizio civile, in servizio nel 2009, sono costati allo Stato 6,7 milioni di euro (433 euro al giorno più contributi), ma il ritorno sulla collettività, calcolato equiparando gli stipendi di categorie lavorative con mansioni affini, è stato di 22,9 milioni, ovvero quasi quattro volte tanto e un risparmio per l’erario di 16,2 milioni. Un capitale sociale enorme, senza eguali nell’Italia di oggi. Anche perché, dicono gli esperti dell’Irs, «chi ha svolto il servizio, una volta conclusa l’esperienza, ha molta più propensione al volontariato, alla vita associativa e ad azioni di cittadinanza attiva». La speranza è che il governo dei tecnici lo tenga ben presente.

Daniele Biella

Daniele Biella