EMI 5: La Missione fa Cultura

Come la stampa missionaria è considerata nei secoli.
Precursori degli antropologi, che ne apprezzano e
utilizzano il lavoro. I missionari fanno «cultura» sulle pagine dell’editoria
laica già a fine Ottocento. E oggi i temi missionari spesso «bucano» le vetrine
imponendosi nella grande editoria.

«Sul piano scientifico, i missionari hanno veramente
raccolto tutto ciò che valeva la pena di essere conservato». L’attestazione,
tanto insospettabile quanto autorevole, è di Claude Lévi-Strauss, «mostro sacro»
dell’antropologia, scienza sociale di studio dell’uomo sorta nell’Ottocento con
un intendimento prettamente «laico», se non laicista. Nel suo capolavoro Tristi
tropici
(1955, Il Saggiatore) Lévi-Strauss riconosce che per quegli
antropologi che si recavano (e si recano) in paesi lontani per scoprire la vera
natura dell’uomo, l’apporto dei missionari è determinante. Attestazione di
stima che però non ha trovato molto riscontro nel corso dei decenni successivi
dell’antropologia culturale.

Ma al di là di questo specifico caso controverso, è
indubbio che il rapporto tra cultura, editoria e mondo missionario è una pagina
significativa delle vicende di quanti hanno dedicato la vita all’annuncio del
vangelo «fino ai confini della terra».

Già nei tempi passati la figura del missionario restava
eloquente e comunque apprezzata in contesti culturali diversi da quelli del
perimetro ecclesiale. Ciò avveniva ad esempio nell’Ottocento, quando intorno al
missionario era sorta una specie di «aura d’avventuriero», per cui chi
affrontava fatiche e sacrifici per portare la «Buona novella» in posti e presso
popolazioni sconosciuti all’Occidente affascinava e conquistava anche quanti
con la chiesa nulla avevano a che fare. Questa «buona stampa» degli
evangelizzatori ad gentes permane anche oggigiorno, in un periodo in cui
la chiesa istituzionale (per diverse ragioni come i casi di pedofilia tra il
clero oppure i vari Vatileaks) soffre di un deficit di credibilità che
pare scuoterla quasi nelle sue fondamenta.

Da Salgari agli antropologi

Gli esempi non mancano. Uno scrittore di successo dei
decenni passati come Emilio Salgari, «uomo d’avventura mancato», secondo il suo
biografo Silvino Gonzato (autore di La tempestosa vita del capitan Salgari,
Neri Pozza), «pur non avendo nessun afflato religioso, ammirava molto i
missionari: ogni volta che i religiosi del don Mazza (il maestro di Daniele
Comboni, ndr) tornavano dalle spedizioni in Sudan, lui li intervistava
per il quotidiano per cui lavorava, L’Arena. A suo parere – prosegue
Gonzato – i missionari erano veri uomini di avventura: ne elogiava lo spirito
di sacrificio, la disponibilità ad affrontare fatiche e rischi, li considerava
dei veri e propri esploratori». Per capirlo basta leggere l’incipit del
colloquio, pubblicato nel 1885, in cui Salgari dialogava con don Luigi Bonomi,
uno dei preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan: «Alto di
statura, scao alquanto, deve possedere muscoli d’acciaio ritemprati sotto i
terribili soli equatoriali. Si riconosce in lui l’uomo energico, risoluto e
forte – tre elementi indispensabili per chi sfida i pericoli, i cocenti calori
e le terribili privazioni del Continente Nero».

Se in Salgari si ritrova una laicissima e umanissima
ammirazione per l’impeto dei missionari, la storica Lucetta Scaraffia, docente
all’università La Sapienza di Roma, rintraccia invece una certa avversione
dell’ambiente accademico, almeno a cavallo tra Otto e Novecento, verso il
panorama missionario.

Scaraffia evidenzia una sorta di predisposta e
volontaria ignoranza degli antropologi di professione verso il lavoro etnologico
dei missionari: «Gli antropologi vedono nei missionari dei nemici potenziali
perché cercano di trasformare le società indigene in società cristiane,
distruggendo usi e tradizioni preziose agli occhi degli studiosi». La realtà,
evidenzia con una certa vis polemica la storica piemontese, è ben
diversa. E va a tutto vantaggio della caratura culturale degli annunciatori del
vangelo: gli eredi di Lévi-Strauss «preferiscono dimenticare che i missionari
sono venuti per primi in contatto con i popoli indigeni e che hanno imparato le
lingue dei nativi e studiato i loro costumi, tenendo diari e scrivendo
relazioni. […] Questi testi hanno costituito la base – soprattutto linguistica
– con cui poi gli antropologi hanno studiato le stesse popolazioni».

Storie di edizioni missionarie

In epoca più recente è soprattutto la presentazione dei
problemi, delle vicende, di un racconto di prima mano del Sud del mondo, ciò
che ha costituito il quid per il quale i missionari hanno trovato spesso
ascolto e riscontro nell’ambito della cultura (e dell’editoria).  A tal riguardo è poi interessante scoprire la
genesi di uno dei best seller missionari in campo editoriale (diverse
decine di migliaia di copie), Korogocho. Alla scuola dei poveri, di
padre Alex Zanotelli, edito da Feltrinelli. «Verso la fine del 2001, lavoravo a
quel tempo a Nigrizia, – afferma Pier Maria Mazzola, oggi direttore
editoriale dell’Emi -, ricevetti una telefonata direttamente da Carlo
Feltrinelli che mi disse: “Ci piacerebbe molto pubblicare un libro autobiografico
di padre Alex. Riuscite a convincerlo?”. In effetti, dal ritorno dalla sua
esperienza decennale di Korogocho, in Kenya, noi di Nigrizia
sollecitavamo Zanotelli a scrivere un libro sulla sua esperienza prima che
qualcuno lo facesse “a sua insaputa”. E quel libro funzionò davvero». Di Korogocho
uscirono diverse edizioni: il passaparola e la vendita nelle affollatissime
conferenze che padre Alex teneva in giro per l’Italia testimoniano la
significatività di una vicenda che ha raggiunto il grande pubblico.

Quell’ampia platea che ha potuto conoscere suor Eugenia
Bonetti, missionaria della Consolata, dal palco della manifestazione di Se
non ora, quando?
dedicata al riscatto sociale della donna – oggetto. Suor
Bonetti, responsabile del servizio anti tratta umana dell’Unione delle
superiori maggiori d’Italia (Usmi), è un’instancabile voce di difesa delle
donne sfruttate nel mercato del sesso delle nostre strade. Proprio in questa
veste è stata pubblicamente lodata dall’ex premier inglese Tony Blair in un editoriale
sul Corriere della sera e ha ricevuto premi e riconoscimenti.

In campo editoriale è singolare che, sebbene avesse già
scritto nel 2010 per San Paolo un libro sul problema cui si dedica da ormai
diversi anni (Spezzare le catene), già nel 2011 la laica Rizzoli chiese
a suor Bonetti (proprio all’indomani della sua partecipazione alla
manifestazione «rosa») di condensare la sua esperienza in un libro.

Un’altra missionaria, Chiara Castellani, è riuscita
negli ultimi anni a «bucare» le vetrine dei libri «laici»: questa laica
impegnata nella Repubblica del Congo, già protagonista di un lungo reportage di
Giovanni Porzio su Panorama (per la quale si dovette anche in un certo modo
difendere per essersi fatta raccontare da un mensile berlusconiano), ha raccolto
la sua vicenda in un libro ben accolto da Mondadori, Una lampadina per
Kimbau
, in cui narra le sue incredibili vicende mediche e umane illuminate
da un’incrollabile fede cristiana.

«Personalmente, quando ho avuto a che fare con editori
laici, ho trovato delle “praterie” davanti a me». Lo conferma, in maniera
significativa, padre Giulio Albanese, fondatore della Misna, autore per
Feltrinelli di Soldatini di piombo e Il mondo capovolto (Einaudi)
sul rapporto informazione – missionari: circa 10 mila copie ciascuno. «Non ho
mai trovato resistenze negli ambienti editoriali non cattolici alla
presentazione dei nostri temi, ovvero il racconto di un’umanità dolente, il Sud
del mondo, … – racconta il direttore delle riviste missionarie della Cei -. E
poi la mia sorpresa di vedere questi libri nelle grandi librerie degli
aeroporti o delle stazioni ferroviarie! Non posso contare i gruppi, università,
centri culturali anche lontanissimi dalla nostra sensibilità che mi hanno
invitato a incontri o conferenze. E non pensiamo solo ad ambienti “di sinistra”
o “progressisti”: anche i giovani di Confindustria mi hanno chiesto di
intervenire a un loro convegno proprio per avermi “scoperto” grazie a quei
libri. Spesso noi cattolici pensiamo al mondo laico come a un monolite: e invece
non è così. Ma per noi resta davvero un reale campo di missione». Di carta,
pagine e copertine, certo. Ma comunque sempre missione.

Lorenzo Fazzini 

Hanno contribuito a questo
dossier

Lorenzo Fazzini, direttore della Editrice
missionaria italiana (Emi).
Pier Maria Mazzola,direttore editoriale della
Editrice missionaria italiana (Emi).
Brunetto Salvarani,direttore di «Cem mondialità»
e della rivista «Qol»
.
Chiara Zappa,redattrice di «Mondo e
Missione».
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.
Questo dossier è nato dalla
collaborazione tra le testate «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Missioni
Consolata» e la Editrice missionaria italiana.
 

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Lorenzo Fazzini




FRATELLI MUSULMANI, FRATELLI DI POTERE

Le cosiddette «Primavere arabe» si sono trasformate in
«Autunni» o addirittura in «Invei» (come dimostrano le proteste egiziane di
fine 2012). I veri vincitori non sono le masse giovanili, ma i movimenti
organizzati attorno alla «Fratellanza musulmana» e ai «neosalafiti». Con alcuni
protagonisti più o meno occulti: Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Israele e
Stati Uniti. E una serie di rivolte «non accreditate» (Bahrain, Arabia Saudita,
Yemen) né dalla comunità internazionale, né dai media.

72

Le «Primavere arabe», definizione sentimentale, e poco
realista, hanno deluso le aspettative dei loro stessi promotori, i giovani, e
si sono presto trasformate in «Autunni» o, peggio, in «Invei». Esse sono nate
dalle spontanee ribellioni di masse giovanili esasperate da corruzione,
clientelismo, dispotismi di presidenti a vita (sostenuti dall’Occidente) e di
caste arabe dure a morire: un’onda tendenzialmente sovvertitrice di un «sistema
tribale» (malattia endemica del mondo arabo), partita dalla Tunisia e con
effetto domino arrivata fino in Bahrain e Arabia Saudita. Tuttavia, prive di
un’ideologia e di una strategia politica tali da permettere loro di essere
definite «rivoluzioni» e di un sostegno economico capace di farle competere, in
campagna elettorale, con i potenti mezzi dei movimenti islamici, le «Primavere»
sono state sopraffatte da questi ultimi. In queste pagine, proveremo a
ripercorrere e interpretare i fatti e le situazioni (tutte le fonti a termine di questo articolo).

LE RIVOLTE NON SONO TUTTE EGUALI

Ogni rivolta ha dinamiche ed esiti differenti: quelle in
Tunisia ed Egitto, autentiche sollevazioni popolari di massa, non sono
paragonabili alla libica. Per questa si è infatti trattato di un golpe pilotato
dalla Nato in collaborazione con gruppi di oppositori al regime di Muammar
Gheddafi residenti all’estero, con mercenari al servizio degli Usa e jihadisti
e qaedisti al soldo dell’Arabia Saudita.

Per la Siria, con maggiori difficoltà di riuscita, almeno
finora, la strada che si sta seguendo è la stessa della Libia. Sebbene nata
come opposizione non-violenta di una parte della popolazione al lungo regime
degli Assad, la rivolta si è presto trasformata in uno scontro armato e cruento
tra l’esercito regolare governativo e un insieme di forze variegate (oppositori
locali, mercenari, jihadisti di professione assoldati da forze straniere)
pronte a tutto. Un’altra storia sono, infine, le ribellioni in Bahrain e Arabia
Saudita, volutamente dimenticate dai media, perché contro regimi «amici» e
finanziatori delle altre «Primavere», e quella nello Yemen.

DITTATORI, ISLAMOFOBIA, ALLEANZE

Proprio osservando gli sviluppi di ciascuna protesta
popolare araba, ci si sta accorgendo di come il vento del cambiamento abbia
fatto veleggiare speditamente una nave con a bordo islamisti (Fratelli
musulmani e «neosalafiti»), Stati Uniti, Israele, Qatar e Arabia Saudita. Tutti
e quattro, questi ultimi, sostenitori a vario livello del fondamentalismo
islamico, in quanto strumentale ai loro progetti di destabilizzazione e
ridefinizione del Vicino e Medio Oriente.

Sebbene l’Occidente in generale, e in particolare gli Stati
Uniti, siano stati colti di sorpresa dalle rivolte arabe, poiché non previste
in tempi così brevi, esse sono state presto utilizzate all’interno di un piano
di «Nuovo ordine del Medio Oriente».

Stiamo parlando della seconda fase del progetto iniziato a
fine anni ’90 e passato attraverso la tragedia delle Torri Gemelle e delle
guerre in Afghanistan e Iraq, e ora, appunto, attraverso il dirottamento e la
manipolazione delle «Primavere». Gli Usa non potevano, infatti, continuare a
dominare il Mediterraneo e la regione mediorientale usando solo l’arma
dell’islamofobia, come avevano fatto nel decennio precedente: l’amministrazione
Obama, definita «islamofila» dai suoi avversari repubblicani e neo-con (si
ricordi il discorso del neo-eletto presidente americano al Cairo, il 4 giugno
del 2009: reperibile su YouTube), aveva ora bisogno di cornoptare le leadership
dei movimenti islamici (dati per vincenti nelle elezioni dei vari paesi) e i
dirigenti musulmani in Europa. Incontri ufficiosi, poi divenuti ufficiali, con
la Fratellanza musulmana erano in corso già da tempo, e si sono infittiti
durante le rivolte. Per quanto riguarda, invece, le diverse organizzazioni del
neosalafismo, dalla creazione di al-Qaida (durante la guerra fredda con
l’Unione Sovietica) in poi, esse sono sempre state funzionali alle politiche
statunitensi nel mondo islamico.

Nella Libia devastata dal colpo di stato contro il dittatore
Gheddafi e dalla guerra tra bande attualmente in atto, il caos politico e la
mancanza di una leadership riconosciuta, nel bene o nel male, da tutta la
popolazione, sono le orde qaediste, cioè quell’accozzaglia di jihadisti di
mestiere, ad aver davvero guadagnato: esse sono state sdoganate e ora
scorrazzano felici (prima c’erano, ma erano meno liete, in quanto contenute e
spesso perseguitate) in varie regioni africane (si veda in Mali, come ben
spiegato nel dossier MC di novembre 2012), seminando distruzione, aggredendo
cristiani e minoranze religiose islamiche (sufi e sciiti, ad esempio) e
radicando fobie ignoranti. L’amministrazione statunitense, con i suoi tanti
think tank ed esperti, ha saputo cogliere l’onda di cambiamento delle piazze
arabe e ha scaricato i vecchi amici, i dittatori tunisino e egiziano, ormai
impresentabili e troppo compromessi, e ha stretto alleanze tattiche con la
Fratellanza musulmana e i suoi alleati/concorrenti salafiti.

In Egitto, all’inizio della rivolta, i Fratelli erano
rimasti in disparte, a osservare i giovani e le forze politiche laiche, di
sinistra e liberali, manifestare nelle piazze contro Mubarak e il suo sistema
corrotto. Solo in un momento successivo si sono uniti alla lotta popolare,
sapendo di avere le carte giuste per ascendere al potere, dopo anni di
persecuzioni.

I salafiti, invece, avevano avversato le ribellioni, in
quanto «sovvertitrici di un ordine costituito», per poi cavalcarle, come gli
altri, fino a godee i frutti politici e parlamentari.

NEOLIBERISMO IN SALSA ISLAMICA

L’Occidente neoliberista ha intravisto nei movimenti
islamisti (collocati nella «lista nera») degli alleati tattici per ridisegnare
il Mediterraneo e il Medio Oriente. Con i nuovi interlocutori c’è, infatti, una
comunanza di vedute a livello religioso fondamentalista ed economico: i
Fratelli musulmani apprezzano la dottrina economica del capitalismo
neo-liberista, rappresentando gli interessi di una potente borghesia
medio-alta, costituita da industriali, professionisti e commercianti. Infatti,
uno dei primi passi pubblici del milionario Khairat alShater, capo dell’ufficio
economico dei Fm e tra i fondatori del partito «Giustizia e Libertà» arrivato
al potere in Egitto, è stato di rassicurare Usa ed Europa sulla loro agenda
economica neo-capitalista e di libero mercato, in quanto «unico modello» per
garantire una veloce crescita del paese. Dunque, non si tratta di
rivoluzionari, come ritiene la vulgata.

Seppur nati come movimento di riforma religiosa e sociale,
molto attento ai bisogni dei ceti più deboli, che hanno sempre sostenuto
attraverso politiche di assistenza sociale radicata capillarmente sul
territorio (sia in Egitto sia in Palestina sia in altre nazioni), i Fratelli
hanno consolidato, negli ultimi decenni, la loro base politica tra la ricca
borghesia religiosa conservatrice. Distribuendo servizi fondamentali –
scolastici, assistenziali, sanitari, alimentari – e catechesi islamica, a una
massa di poveri senza speranza, hanno ottenuto negli anni un appoggio politico
ed elettorale rilevante.

CHI VUOLE LA GUERRA ALL’IRAN

La nuova fase della politica statunitense verso il mondo
musulmano non deve, però, trarre in inganno: l’alleanza tra Usa e islamismo è
solo tattica. C’è una strumentalizzazione reciproca e consapevole. I movimenti
islamisti, a partire dalle rivolte arabe, e soprattutto con le guerre in Libia
e Siria, stanno usando la forza militare occidentale (Stati Uniti, Nato,
squadroni e commando addestrati dalla Cia, ecc.) per raggiungere i loro
obiettivi di conquista del potere e rovesciamento selettivo (non tutti, cioè)
di regimi dispotici loro avversi, laddove, appunto, sanno che non ci
riuscirebbero dal «basso», con le sole rivolte di piazza, non-violente e
idealiste, o come in Marocco vincendo le elezioni (anche qui, come in Turchia,
il partito «Giustizia e Sviluppo») senza ribellioni o scontri.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, l’islamofobia è
sempre in agguato, e il pessimo e squallido video artigianale sulla vita del
profeta Muhammad, «L’innocenza dei musulmani», diffuso su YouTube a settembre
del 2012, ne è una delle tante prove. Esso aveva l’obiettivo di provocare l’ira
dei musulmani, feriti dalle gratuite offese al profeta dell’Islam, adducendo
nuovi pretesti per lo «scontro di civiltà» e per la guerra contro l’Iran, che
una parte delle amministrazioni statunitense e israeliana vorrebbero scatenare.
Proprio su quest’ultimo conflitto e sulle politiche da adottare verso l’Islam e
il mondo arabo, la dirigenza americana, e quella d’Israele, sono in conflitto interno
tra «falchi» e «colombe». Coerentemente con le strategie belliche dei loro
predecessori (la famiglia Bush), i neocon Usa auspicano aggressioni e lo
scontro diretto per realizzare le loro politiche imperialiste. La fazione
obamiana, che ha dimostrato di amare la violenza e le guerre tanto quanto i
suoi rivali si pensi all’uso disinvolto dei droni in Afghanistan e Pakistan, ad
esempio, e il golpe Nato contro la Libia -, adotta semplicemente metodi e
strategie diverse: utilizza e manipola i musulmani, siano leader o popoli
arabi.

FAMIGLIA AL-SAUD E STRATEGIE

Nella sua lunga e dettagliata analisi sulle ragioni di quel
filmetto a basso costo, Mahdi Darius Nazemroaya, ricercatore di geopolitica
presso il canadese «Centro di ricerca sulla globalizzazione», spiega: «La
tempistica dell’uscita su YouTube del trailer de “L’innocenza dei musulmani”,
un film di piccola produzione che insulta il profeta Muhammad, non è solo una
coincidenza. La data dell’11 settembre è stata scelta appositamente per
l’associazione simbolica con i musulmani che viene fatta in maniera sbagliata e
assurda da coloro che percepiscono gli attacchi come un crimine collettivo di
tutti i praticanti islamici. Lo scopo di questo film offensivo è di
incoraggiare l’odio e la divisione incrementando il divario tra i cosiddetti
mondi occidentale e musulmano.

«L’uscita del film oltre ad aspirare alla divisione del
mondo è anche legata alla propaganda anti-Iran e al conflitto interno nella
politica estera statunitense. Israele ha un ruolo fondamentale nella divisione
intea tra le élite statunitensi e nell’antagonismo contro Teheran. L’analisi
del ruolo israeliano non dovrebbe essere svolta solo su una base nazionale che
vede Israele e Usa separatamente, ma anche dal punto di vista internazionale,
in cui riconoscere l’esistenza di alleanze tra gruppi diversi di élite
nazionali che vanno oltre i confini dei singoli stati».

«Non è certo per caso che una massiccia campagna
pubblicitaria islamofoba, legata ai sostenitori dell’occupazione del suolo
palestinese e della guerra Usa-Israele contro l’Iran, sia stata intrapresa e
intensificata in concomitanza con l’uscita del video su YouTube. Si tratta di
un costante assedio all’immagine dei musulmani. In breve queste campagne mirano
a rimodellare il Medio Oriente».

Come è ormai noto, le grandi manifestazioni musulmane
organizzate nelle piazze di molte capitali mondiali sono state orchestrate,
almeno in fase iniziale, dal clan della famiglia Al-Saud (la dinastia al potere
in Arabia Saudita) a Washington. Famiglia che, anche questo è risaputo,
sostiene economicamente i gruppi neo-salafiti in Egitto, Libia, Siria e in
altre regioni asiatiche e africane, che stanno collaborando con Stati Uniti,
Qatar e Israele, con il benestare di una parte della leadership della Fratellanza,
a creare un nuovo assetto si legga «destabilizzazione» del Mediterraneo e del
Medio Oriente, dopo aver infiltrato, manipolato e dirottato le primavere arabe.

ERDOGAN, IL NEO-OTTOMANO

Lo scenario geopolitico mediterraneo e mediorientale si sta
dunque configurando su nuove guerre di rapina delle risorse da parte
dell’Occidente, e di potere e conquista politico-religiosa da parte degli
alleati tattici arabi e musulmani (sunniti).

Questi ultimi sembrano avere un progetto di neo-califfato
che va dal Nordafrica, con appendici subsahariane, al Vicino e Medio Oriente.
Gli attori che si spartiscono la scena, come abbiamo accennato sopra, sono la
Fratellanza musulmana e la variegata e discussa galassia del neo-salafismo.

Tuttavia, uno dei co-protagonisti è anche la prospera Turchia,
che sotto la direzione del partito «Giustizia e Sviluppo» del presidente Recep
Tayyip Erdogan, emanazione anch’esso della Fratellanza, ha fatto passi da
gigante, dal punto di vista economico e sociale, e ha offerto al mondo islamico
una via di sviluppo da seguire.

Il cambiamento della propria politica estera, rispetto al
lungo periodo laico kemalista, la vede impegnata maggiormente nelle aree che
storicamente facevano parte dell’Impero Ottomano; tale aspirazione neo-ottomana
la porta a una rivalità geopolitica con un’altra antica e illustre nazione
mediorientale: la Persia, anch’essa musulmana non araba, e altrettanto
interessata al ruolo di guida del risveglio islamico in corso.

Le ambizioni regionali da una parte e la partecipazione alla
Nato dall’altra, fanno sì che il Paese anatolico prenda parte, a livello
militare e strategico, al war-game statunitense-israeliano, e salafita, e trascini i già più che convinti leader sunniti nella
conflittualità contro la Siria e, per ora, nelle schermaglie contro l’Iran.

SUNNITI CONTRO SCIITI

Osservando gli eventi in corso sembra che il mondo islamico
sunnita (almeno una parte di esso) stia andando alla «guerra», in senso
politico, e religioso (questo fattore non deve essere dimenticato, in quanto è
altrettanto determinante), contro la fazione minoritaria, lo sciismo. Lo si
nota negli articoli che  appaiono nei
media arabi, nei social network, nei discorsi dei politici, dove spesso
emergono attacchi, critiche, denunce, a vario livello, contro la corrente
storicamente rivale e considerata «eretica» e contro l’Iran.

Nelle chiacchierate informali con leader o rappresentanti
locali sunniti, in Europa come nel mondo arabo, emerge la loro contrapposizione
agli «altri», gli sciiti, ritenuti «infidi», «dal doppio discorso», in quanto
«fuori dall’ortodossia». Ecco dunque che il piano religioso irrompe con
prepotenza e interseca, giustificandolo, quello politico-strategico e bellico:
per un fondamentalista sunnita, infatti, uno sciita è più «kāfir» (miscredente)
di un ebreo, di un cristiano o di un buddista, in quanto reo di «deviare» dalla
sunna, la tradizione musulmana.

Per un neosalafita jihadista o un qaedista egli è degno di
morte: fare la guerra quindi contro coloro che deviano dall’ortodossia è lecito
e incoraggiato. Di qui, la motivazione politico-religiosa per la presenza di
al-Qaida in Siria (gli Assad sono alawiti) e per l’animosità contro l’Iran.

Paradossalmente, dunque, in quest’epoca di «scontro di
civiltà», i nemici della corrente maggioritaria dell’Islam non sono le
politiche di conquista americane e israeliane, sempre più sottili e incisive,
che stanno mettendo sottosopra il Vicino e Medio Oriente e la Palestina, o la
deriva neosalafita che proietta indietro di secoli il mondo musulmano, ma i
loro fratelli/antagonisti «eretici».

Della fitna (prova, litigio, scontro, fino al significato di
guerra civile) contemporanea, scaturita all’interno del mondo islamico, fanno
parte il conflitto mediatico, politico e militare, in corso contro il regime
siriano e quello ipotizzato contro l’Iran. Questa risistemazione di alleanze
tattiche e strategiche include la decisione dell’ottobre 2012 dell’Ufficio
politico di Hamas, la cui sede era a Damasco fino a pochi mesi prima, di
schierarsi ufficialmente contro il governo di Assad, attirandosi molte
critiche. Non è estraneo certamente a tale scelta radicale del movimento di
resistenza islamica il fatto che ora sia ospite del ricco e potente (e
interferente) Qatar.

Che in Siria ci sia bisogno di risolvere urgentemente la
crisi in corso ormai da un anno e mezzo, e con strumenti interni e non estei,
è evidente, ma che la strategia «atlantica» scelta da Hamas sia vincente è
tutto da vedere.

La lacerazione intra-islamica è stata (momentaneamente)
ricucita durante l’operazione di guerra israeliana contro la Striscia di Gaza
(14-21 novembre 2012), che ha visto gran parte del mondo arabo e musulmano
unito a sostegno dei palestinesi bombardati del regime di Tel Aviv. Dal punto
di vista concreto, da parte araba c’è stato ben poco, ma le prese di posizione
e il vortice di riunioni, incontri e pressioni hanno indubbiamente giocato a
favore di una tregua.

LA POSTA IN GIOCO

In tutto questo complicato, contraddittorio e nebuloso risiko,
dove le ribellioni accreditate ufficialmente sono quelle mediterranee e
vicino-orientali (con altre, altrettanto importanti, lasciate in disparte o
misconosciute, come quelle in Bahrain, Arabia Saudita, Yemen), la posta in
gioco sono la Palestina, la Siria e l’Iran. Tutte e tre strategicamente
fondamentali per le politiche neo-imperialiste e per le aspirazioni turche.
Siria e Iran probabilmente riusciranno a non soccombere per capacità intee,
potenza militare e politica, e per il sostegno di Russia e Cina, contrarie a
ogni intervento militare. A perdere saranno le popolazioni arabe, i giovani,
soprattutto, che non vedranno le primavere cui avevano diritto e per cui
avevano lottato morendo in tanti nelle piazze delle rivolte. E sarà la
Palestina l’altra grande sconfitta. Non ci sarà uno Stato palestinese degno di
questo nome: la Cisgiordania e Gerusalemme stanno perdendo terra in modo
esponenziale, anche grazie alla grande distrazione di massa offerta dalle
rivolte arabe, che distolgono l’attenzione da Israele che sta spingendo
l’acceleratore sulla colonizzazione della Palestina storica. La Striscia di
Gaza non sta affatto meglio ora che in Egitto ci sono i Fratelli, che non hanno
aperto il valico di Rafah, limitandosi a promesse, affettuosi abbracci e molta
retorica.

A meno che tale traballante e pericolosa situazione non
nasconda un asso nella manica dei giocatori arabi nel grande scacchiere
geopolitico: il progetto di «neo-califfato», da stabilire una volta che i
Fratelli musulmani si saranno insediati, insieme ai salafiti wahhabiti e
jihadisti, in tutto il Nordafrica e il Medio Oriente. Un califfato che
scatenerebbe una «guerra santa» contro Israele e si rivolterebbe contro
l’alleato del momento, gli Usa.

Tuttavia, in una prospettiva globale e futura, bisognerà
capire quale direzione prenderanno i paesi arabi e se vorranno portare avanti
la fitna intra-islamica tra sunniti e sciiti, incoraggiata da Stati Uniti,
Israele e petro-monarchie del Golfo, e quanto spazio prenderanno i salafiti. Se
i giochi di alleanze e conflitti in corso andranno avanti senza soluzioni
pacifiche, ciò potrebbe portare a una vasta guerra regionale. A quel punto,
addio al califfato e alla Palestina. E lunga vita al fondamentalismo. 

72

Scheda ____________________________

I FRATELLI MUSULMANI (AL
POTERE) 
(*)

EGITTO: Ḥizb al-ḥurriyya wa l-ʿadāla, partito Libertà e Giustizia (Fratelli
musulmani), attualmente al potere e già fortemente contestati a fine 2012.

TUNISIA: Ḥarakat an-Nahḍah, Movimento
della Tendenza islamica (en-Nahda), attualmente al potere. PALESTINA:

Jihad islamico; Hamas,
attualmente al potere nella Striscia di Gaza.

MAROCCO: Hizb al-adāla wa
at-tanmia, partito Giustizia e Sviluppo, attualmente alla presidenza del
Parlamento.

TURCHIA: Adalet ve Kalkınma
Partisi -Akp (Giustizia e Sviluppo), attualmente al potere.

GIORDANIA: Fronte di azione
islamico, che ha una rappresentanza in Parlamento (pur non essendo al governo).

I SALAFITI (ALL’OPPOSIZIONE)

Esistono più di un
centinaio di gruppi salafiti nel mondo. Precursori dei salafiti jihadisti
furono i mujahidin dell’AFGHANISTAN, al tempo della lotta contro l’Unione
Sovietica.

ALGERIA: Gia («Gruppo
islamico armato») e Movimento islamico 
armato sono il braccio armato del Fis, «Fronte islamico  di salvezza». Il Gia è oggi disciolto.

ALGERIA E MAROCCO: Gruppo
salafita per la predicazione e il combattimento, ora al-Qaida nel Maghreb
islamico.

MAROCCO: Gruppo
islamico  combattente marocchino; Assirat
al-Mustaqim (La retta via).

TUNISIA: vari gruppi
salafiti.

EGITTO: al-Jihād
al-Islāmī; al-jamāʻah
al-islāmīyah; Jund Allāh (I soldati di Dio); al-Takfīr wa l-Hijra; Ansār
al-Islām. YEMEN: Esercito islamico  Aden
Abyan.

LIBIA: Gruppo combattente
islamico  libico. IRAQ: al-Qaida; Ansār
al-Islām.

GIORDANIA: Esercito di
Muhammad.

SIRIA: dopo l’inizio
della rivolta  contro il regime della
famiglia al-Assad, sono presenti al-Qaida, gruppi jihadisti vari, finanziati da
Qatar e Arabia Saudita.

ARABIA SAUDITA: è la
patria del salafismo wahhabita, di al-Qaida e di molte organizzazioni
terroristiche. Paradossalmente, questo paese oscurantista e dittatoriale è
alleato dell’Occidente nella lotta al «terrorismo islamico» che esso stesso
alleva e finanzia.

(*) Per le voci in lingua
 araba: sulla rivista si è usata la
traslitterazione ufficiale, che può non apparire totalmente corretta in queste
pagine web per questione di fonti.

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__________________________________

FONTI:

Le Monde Diplomatique (2011-2012), Al-Hiwar (Centro
Peirone, Torino), Asia News, Nigrizia, i saggi citati in bibliografia e altri
testi di geopolitica, italiani e stranieri. Mentre questo Dossier viene chiuso
(30 novembre 2012, il giorno seguente all’accettazione della Palestina come
«stato osservatore» all’Onu), sono in corso dinamiche complesse e
contraddittorie (si vedano le proteste egiziane di fine novembre 2012 contro il
presidente Mursi e i Fratelli musulmani) che rendono difficile tracciare delle linee
nette nelle alleanze e nei conflitti in atto
.

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Angela Lano




LIBANO: LA POSIZIONE DI HEZBOLLAH

NÉ PAESI STRANIERI, NÉ TERRORISTI
(foto IRIN)

72

Ali Fayyad è parlamentare libanese e membro della direzione
di Hezbollah. Con lui abbiamo parlato di «Primavere arabe», questione
palestinese, conflitto siriano e Iran. Opinioni molto diverse da quelle
divulgate dai media tradizionali.

Qual è la sua opinione sulle Primavere arabe e sugli attuali
scenari mediorientali?

«Credo che il popolo arabo sia veramente il protagonista
delle Primavere, e non gli Usa o altri paesi stranieri. Nel mondo arabo stavamo
aspettando questo momento da anni. Quando gli arabi hanno potuto esprimersi e
decidere liberamente lo hanno fatto. Tuttavia, gli Usa sono entrati in questi
sviluppi regionali per aggiustarli, indirizzarli secondo i loro interessi. Noi
riteniamo positive le rivoluzioni arabe e chiediamo di rispettare le volontà
popolari. È possibile che ci siano stati degli errori qua e là, ma il contesto
strategico è positivo.

Noi crediamo che quella attuale sia un’era di transizione.
Il risultato che vediamo oggi non è quello definitivo. Dobbiamo aspettare. Nel
medio termine ci sono molte richieste in campo, tra cui libertà e democrazia.
Nel lungo termine ci sono questioni basilari come quella palestinese. Ora, il
popolo sta affrontando i dittatori arabi, e lo fanno per molte ragioni, tra cui
la strategia politica di queste dittature (notoriamente vicine agli Usa e
sostenitrici di Israele) riguardo alla Palestina. Gli arabi si vergognano di
ciò. Forse qualche movimento arabo ha tattiche speciali: non stanno parlando e
non si stanno comportando in modo franco, forse perché questo è un periodo di
transizione, ma non si può sfuggire dall’affrontare la questione palestinese.
Il movimento islamico presto si troverà a scontrarsi con gli Usa proprio sulla
causa palestinese».

La questione siriana
si sta rivelando sempre di più come un punto di svolta, e di rottura, nel mondo
arabo e islamico. Cosa ne pensa?

«Crediamo che quella siriana sia differente dalle altre
Primavere arabe. Bashar el-Assad non è Mubarak o altri dittatori. Lui
rappresenta la maggior parte della popolazione siriana. Ed è il principale
sostenitore della resistenza libanese e palestinese. La Siria ha la posizione
più importante sulla questione israelo-palestinese. Noi, come Hezbollah, sosteniamo
la necessità di portare avanti delle riforme, ma in modo pacifico. Tali riforme
non dovranno creare divisione in Siria, ma stabilità e unità. Noi cerchiamo
anche di salvaguardare la resistenza siriana contro Israele».

Quali sono le riforme da attuare e con quali modalità?

«Il popolo siriano deve scegliere la propria leadership
attraverso elezioni trasparenti e democratiche, che si svolgeranno nel 2014, e
non per mezzo dell’intervento di paesi stranieri».

E chi monitorerà la trasparenza di queste elezioni?

«Il popolo siriano sarà responsabile di monitorarle».
L’opposizione siriana ha tendenze e risposte diverse rispetto all’attuale
crisi…

«Non c’è una sola opposizione siriana. Ci sono centinaia di
gruppi. I più pericolosi sono i combattenti stranieri, che sono migliaia:
salafiti, takfiriti (espressione estrema e razzista del wahhabismo che
considera gli sciiti i peggiori nemici contro i quali lottare, ndr), al-Qaida,
ecc., che arrivano dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Libia, dal Golfo. Questi
stanno assassinando le minoranze, su basi settarie, e ciò sta portando alla
divisione della Siria e alla discriminazione. Israele sta agendo per dividere
la Siria: è il suo obiettivo. Gli Usa stanno lavorando per creare questo
scenario: mantenere instabile la situazione in Siria per indebolire il regime e
renderlo incapace di confrontarsi con Israele e di sostenere la resistenza
palestinese e libanese. Essi non vogliono una guerra propriamente detta, con
bombardamenti, come è avvenuto in Libia. Stanno dicendo che è difficile fare
una guerra, perché l’esercito siriano è forte. E anche la creazione di una
No-fly-zone è troppo complicata. Dunque, Israele e Stati Uniti vogliono
indebolire il governo di Damasco, ma senza far collassare lo stato. Gli Usa
temono infatti che, facendo crollare le istituzioni statali, gli islamisti
salafiti possano prendere il potere. La Siria è diventata il punto di
attrazione di salafiti provenienti dalle altre regioni mediorientali».

Come lo spiega?

«Hanno un progetto settario e sono sostenuti da diversi
paesi arabi del Golfo. Essi vogliono cambiare il regime siriano per creare un
califfato su Mediterraneo e Medio Oriente. Ci sono decine di migliaia di loro.
Il supporto logistico ed economico arriva dal Golfo. È un fenomeno molto
pericoloso che distrugge l’unità sociale dei nostri paesi e spinge indietro le
società».

Che cosa proponete per contrastare questa visione arretrata
e pericolosa?

«Non abbiamo altra scelta che salvaguardare l’unità islamica
tra sunniti e sciiti, e tra musulmani e cristiani, e promuovere la democrazia».

Ritiene possibile  una
guerra contro l’Iran?

«Se dovesse esserci una guerra contro l’Iran, per Israele
sarebbe un disastro, e così pure in tutta la regione. L’Iran ha il pieno
diritto di difendersi e di proteggere la propria sovranità contro attacchi
estei. Gli Usa hanno più volte avvisato Israele di evitare e prevenire una
guerra contro l’Iran. Leon Panetta, segretario della Difesa statunitense, di
recente ha dichiarato che Israele non ha la possibilità logistica di attaccare
l’Iran. È una chiara risposta sulla posizione Usa riguardo a questa questione».

Quali scenari regionali vede per il prossimo futuro?

«Avremo un decennio d’instabilità. Ci sono cambiamenti
strategici che necessitano di tempo. La maggiore sfida è quella di
salvaguardare l’unità dei paesi arabi e islamici e sostenere la resistenza
palestinese. La questione siriana è un tentativo di distrarre l’attenzione
dalle politiche israeliane e di creare contrapposizione e conflittualità nel
mondo islamico tra le varie etnie e correnti religiose».

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Angela Lano




TUNISIA: UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

DAL CARCERE AL POTERE
Ajmi Lourimi, filosofo e
attivista dei diritti umani, è stato in carcere durante la dittatura di Ben
Ali. Membro di en-Nahda, Lourimi spiega e difende l’azione del nuovo governo.

72

Cos’è cambiato in Tunisia
dopo la rivolta che ha rovesciato il regime di Ben Ali?

«Prima della rivoluzione,
la vita politica del paese era nulla, quella sociale era disastrosa; e i membri
dei movimenti islamici erano in carcere. Il nuovo governo sta ricostruendo
dalle ceneri: si tratta di un processo lungo. La disoccupazione è altissima:
800mila persone, cioè il 18% della popolazione lavorativa. Ben Ali ha lasciato
un paese distrutto, con un divario tra poveri e ricchi molto forte. Le zone
intee della Tunisia erano state dimenticate dal regime, ed è da lì che è
iniziata la rivoluzione.

La rivoluzione tunisina
non era né ideologica né politica e non era guidata da un
partito particolare. È iniziata improvvisamente e vi hanno partecipato tutti,
diversi strati sociali e culturali. C’erano anche i sindacati e le
associazioni, uniti sotto la bandiera della nazione. Lo scopo comune era di
mandare via il dittatore. Non è stata una rivoluzione della “fame”, anche se
c’era gente affamata. Era una rivoluzione della dignità, iniziata con la
protesta di un disoccupato: per i tunisini essere senza lavoro equivale a
essere senza dignità. Quando la popolazione ha capito che la situazione
tunisina era causata dagli errori, dalla corruzione del governo, ha deciso che
per cambiare era necessario mandare via Ben Ali, così è iniziata la rivoluzione
che in 23 giorni è riuscita a rimuoverlo.

Il prezzo in termini di
morti in Tunisia è stato molto ridotto, rispetto ad altre rivoluzioni. La
nostra è stata un esempio e una spinta per l’Egitto, la Libia, lo Yemen… Dai
primi giorni dopo la fuga del presidente, ci siamo trovati in una situazione
nuova. È stato deciso di chiudere con il passato e costruire una nuova
politica. La popolazione ha chiesto di sciogliere il parlamento e di creare un
comitato per riformare la costituzione, per la transizione e per andare alle
elezioni».

In Tunisia c’è stato un
cambiamento anche all’interno del sistema. L’esercito ha sostenuto la
popolazione in rivolta…

«L’esercito è stato dalla
parte del popolo, a differenza della polizia. È stato il garante della
protezione della rivoluzione tunisina: dopo la fuga di Ben Ali s’è creato un
vuoto nella sicurezza, che i militari avrebbero potuto riempire, ma si sono
rifiutati e hanno lasciato la gestione del potere alla parte civile. L’esercito
ha voluto le elezioni e il 23 ottobre 2011 ha protetto la gente che andava a
votare. L’affluenza alle ue è stata massiccia, e ha dato la vittoria al
movimento en-Nahda, vietato sotto Ben Ali (i suoi militanti erano o in carcere o
all’estero, esuli). La vittoria elettorale è stata del popolo, prima che di un
partito».

Tuttavia ci sono ancora
malcontenti e manifestazioni di piazza…

«I tunisini chiedono una
seconda rivoluzione, ma abbiamo bisogno di unità e non di opposizione. Siamo
d’accordo di indire nuove elezioni per la prossima primavera. I media francesi
hanno iniziato ad attaccare il governo con articoli in cui dicevano che la
Tunisia è diventata islamica, che le minoranze cristiane ed ebree sono sparite,
e che il paese è tornato indietro, che il turismo è sparito. Essi passano
l’immagine di un governo sotto il giogo del salafismo. Ciò non corrisponde al
vero. Oggi in Tunisia ci sono 125 partiti politici».

Rivolta spontanea,
pilotata o preparata da un’élite?

«Il 14 dicembre 2010
tutte le forze ribelli si sono incontrate insieme. La rivoluzione non è stata
preparata in laboratorio, scientificamente, ma è stata spontanea».

Quali sono i
problemi che deve affrontare il governo post-rivoluzione?

«Siamo alle prese con
grandi problemi. Le nostre élite intellettuali purtroppo non avevano elaborato
un’ideologia o un pensiero sulla modeità. Non c’è unanimità sul concetto di
“democrazia” e neanche sullo stesso processo democratico. Non abbiamo un
retroterra culturale come è stato per le vecchie rivoluzioni europee. Abbiamo
avuto migliaia di attivisti, di tutte le provenienze politiche e ideologiche
islamici, nazionalisti, marxisti, ecc. che tuttavia non hanno avuto egemonia
rivoluzionaria sul popolo. Durante la rivoluzione, infatti, la gente, le masse,
hanno scavalcato le avanguardie. Dopo i tragici fatti di Sidi Bouzid, nel
dicembre del 2010, la popolazione è scesa in piazza.

L’élite araba non è più
democratica dei despoti contro cui combatte. Faccio due esempi: il nazionalismo
arabo baathismo e nasserismo ha represso la democrazia; i movimenti islamici
hanno fatto lo stesso imponendo la shari’a, la legge islamica. Noi, come
en-Nahda, non riteniamo che sia una priorità l’islamizzazione della società,
quanto piuttosto la sua democratizzazione. Non abbiamo dubbi: dobbiamo
difendere le libertà e i diritti.

Ma sappiamo che il
processo democratico può durare molti anni. Per noi non c’è libertà senza
democrazia, non c’è futuro senza democrazia, non c’è islam senza democrazia.
Ciò che ci distingue dai modeisti è il fatto che loro subordinano la
democrazia alle libertà, e dai salafiti è che loro subordinano la democrazia
all’Islam. Noi riteniamo che la via democratica sia quella più breve e meno
costosa, ma non intendiamo la democrazia greca che escludeva le donne e gli
schiavi. Non ci piace la democrazia del capitale o quella della maggioranza cui
il resto della popolazione deve essere subordinato. Vogliamo una democrazia
dell’alternanza, che tenga conto di tutta la società».

Come reagisce il governo
tunisino nei confronti degli attacchi perpetrati da estremisti salafiti ai
danni di minoranze religiose?

«Nel nostro paese non
abbiamo problemi tra sunniti e sciiti: questo è un conflitto importato
dall’Oriente arabo. Dal momento che viviamo nello stesso spazio, quello che
succede in Medio Oriente ha ripercussione su di noi e viceversa. Dopo la
rivoluzione tutte le componenti della società tunisina, compresi i salafiti,
hanno avuto il diritto di esprimersi. Come movimento en-Nahda al governo, li
incoraggiamo a uscire dalla clandestinità, ma, allo stesso tempo, a rifiutare
la violenza e a rispettare i diritti degli altri. I salafiti considerano lo
sciismo un pericolo per l’unità nazionale e la sicurezza del paese, ma ciò
rappresenta un’esagerazione. La società tunisina è omogenea e la differenza di
punti di vista e di ideologia non minaccia affatto l’unità, mentre la violenza
è ben più grave del pluralismo ideologico e politico. Dobbiamo dunque essere
uniti contro la violenza da qualunque parte provenga».

Qual è il peso del
salafismo in Tunisia?

«Non ci sono elementi
estei in Tunisia. I salafiti ricevono appoggio politico da parte di alcune
associazioni o personalità del Medio Oriente e del Golfo. Sono i media e le
prediche degli ulema salafiti del Golfo a influenzare una parte della gioventù
tunisina, perché nell’era di Ben Ali l’islamismo era escluso dalla vita
politica e questo ha creato un vuoto che è stato riempito da un discorso
religioso e ideologico che non si combina con la realtà tunisina. Durante il
regime, non c’era rispetto per le libertà religiose e i discorsi religiosi
erano poco credibili e a favore del potere politico. Erano parte della
propaganda politica ufficiale, mentre le persone volevano sentire la verità e
lo spirito della religione musulmana trasmessi da gente degna.

Quello che succede ora è
il frutto di anni di regime di Ben Ali. Oggi c’è una libertà illimitata in
Tunisia e quindi tanti gruppi, salafiti compresi, pensano di fare ciò che
vogliono, anche imporre la loro visione e legge a detrimento degli altri. Il
governo vuole prima di tutto garantire la libertà di tutti, dato che è una
conquista della rivoluzione, e allo stesso tempo salvaguardare il Paese
dall’anarchia, trovando un equilibrio tra rispetto della legge e garanzie di libertà».

Veniamo ora all’articolo
28 della Costituzione e alla questione della «complementarietà» tra uomo e
donna che ha suscitato tanto scalpore in Europa. Di cosa si tratta?

«La polemica
sull’articolo 28 è nata dai media. Non è vero che esso riguarda i diritti delle
donne. Fa riferimento al diritto di famiglia, all’interno del quale viene
riconosciuto il ruolo complementare della donna e dell’uomo. Gli articoli 21 e
22 parlano invece dell’uguaglianza tra i due sessi. L’art. 21 spiega che tutti
i cittadini sono uguali e condanna la violenza contro le donne e la
discriminazione. En-Nahda difende il codice del diritto della persona stabilito
nel 1959 durante il regime di Bourguiba. La Tunisia non può tornare indietro,
ma solo andare avanti».

Qual è la posizione delle
donne nel nuovo governo?

«Penso che il problema
della donna in Tunisia non sia legislativo, ma culturale e sociale: esso ha a
che fare con la mentalità. Molte conquiste sono state realizzate a favore della
donna e non sono un regalo di nessuno, ma un risultato della lotta della donna
tunisina per essere uguale all’uomo e per preservare i suoi diritti. In Tunisia
c’è sempre una volontà politica per conservare tali conquiste, ma nessuno può
rimpiazzare la donna nella difesa dei propri diritti. Gli intellettuali
tunisini devono combattere la mentalità che ritiene che la donna non sia uguale
all’uomo o che lei sia la responsabile di problemi sociali come la
disoccupazione. La partecipazione della donna alla vita politica ed economica è
sostanziale. Possiamo dire che sia aumentata, ma non è ancora al livello delle
aspirazioni delle donne. Quindi c’è molto lavoro da fare. Nell’ambito
dell’assemblea costituente ci sono 49 donne e 42 sono di en-Nahda. Come
movimento abbiamo l’onore e l’onere di essere difensori e avvocati della donna
tunisina che ha partecipato alla rivoluzione, e non solo dell’intellettuale ma
anche di quella rurale che combatte ogni giorno per migliorare le condizioni di
vita sue e della sua famiglia».

Qual è la sua opinione
sulla guerra civile in Siria e sulla richiesta di una parte dei ribelli di far
intervenire la Nato?

«En-Nahda è contro ogni
intervento esterno nei paesi arabi, ma siamo a favore del popolo siriano che si
rivolta contro il regime di Assad. Sappiamo che sulla Siria convergono enormi
interessi geo-politici. È nostro dovere morale ed etico sostenere le
rivendicazioni della popolazione siriana».

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Angela Lano




USARE I SALAFITI, UN GIOCO PERICOLOSO

Talal Khrais è un
giornalista italo-libanese. Che racconta il conflitto siriano partendo da una
prospettiva diversa da quella occidentale.

72 La situazione in Siria è
drammatica ormai da molto tempo. Che prospettive ci sono?

«Lo scenario è cambiato.
Ci sono forti dichiarazioni della Cina contro la guerra alla Siria. E anche
della Russia, che oggi è decisamente più forte di quando cadde il Muro, nel
1989. È un paese ricco il primo produttore di gas a livello internazionale -,
grande e con un popolo che sostiene il risveglio del nazionalismo. Allora,
perché dovrebbe lasciare fare all’Occidente ciò che vuole? Un Occidente in
caduta libera, oltretutto, ed esportatore di terrorismo islamico, in quanto,
dalla Guerra fredda in poi, gli Usa hanno utilizzato il fondamentalismo
islamico jihadista come strumento per indebolire o sconfiggere il nemico – si
ricordino al-Qaida e i taliban nell’Afghanistan occupato dalle truppe
sovietiche; e si pensi ai recenti casi di Libia e Siria, dove hanno operato o
operano attualmente “ribelli” locali, forze occidentali e jihadisti. In Siria
la presenza del terrorismo è nota. Hanno aperto le porte ai jihadisti
provenienti da tutte le parti. L’Occidente può essere accusato di aver alimentato
il terrorismo islamico che ha fatto morti ovunque».

La Siria e Israele, non solo Alture del Golan…

«Il grande problema
d’Israele è che nel 2006 è cambiata la situazione militare: Hezbollah ha
utilizzato sistemi di difesa e dissuasione. Il governo di Tel Aviv aveva due
giornielli: i merkawa (famosi carrarmati di produzione israeliana, ndr) e
l’aviazione. Ma essi servono se si hanno davanti sistemi potenti. Hezbollah ha
usato razzi anti-carro: qui è iniziata la crisi israeliana, di cui ha accusato
la Siria. Erano razzi modificati in Siria. Allora, molti leader di Hamas,
Hezbollah e militari siriani sono stati uccisi negli anni successivi.
L’interesse di Israele è di privare la Siria della sua potenza, ma il suo
arsenale bellico è ancora in piedi. Washington e Tel Aviv vogliono indebolire
il regime siriano, non farlo cadere. La sua caduta creerebbe il caos».

Che relazione vede tra i
fatti di Bengazi dell’11 settembre 2012, in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore
Usa e altre persone dello staff consolare, e la situazione in Medio Oriente?

«A mio avviso,
l’attentato di Bengazi è stata una risposta al tentativo americano di ritirarsi
dal fronte siriano, in quanto la guerra s’è trasformata in jihadista e di
scontro con la Cina».

Regime o opposizione, chi
vincerà?

«L’opposizione non ha
testa e non ha un programma. Il regime è ancora molto popolare. L’opposizione
all’estero ha poche relazioni con quella intea. A combattere sul terreno sono
i jihadisti. Ci sono zone rurali arretrate, dove si sono introdotti i salafiti
attraverso la propaganda fondamentalista e l’assistenzialismo. Nelle città,
invece, il sostegno va all’esercito.

Le zone dove si muovono
le bande armate è il confine turco-siriano. Mafie libanesi e turche si occupano
del flusso di armi e uomini. Assicurano le partenze dei jihadisti dallo Yemen,
dalla Libia, dall’Afghanistan, ecc., e li fanno entrare insieme ai profughi».

I ribelli ammazzano e
compiono atti efferati, ma l’esercito regolare bombarda…

«L’esercito usa tattiche
di assedio, per far uscire la popolazione, poi bombarda per liberare le aree
dove ci sono le bande armate dei ribelli (rimane però alto il numero delle
vittime civili, ndr). La cosa più pericolosa è la presenza dei cecchini. La
caduta del regime significherebbe islamizzazione e persecuzioni dei cristiani e
delle minoranze. Tuttavia, per far cadere il regime siriano ci sarebbe voluta
una No-flyzone, che era ciò che avevano chiesto i ribelli, senza ottenerla.

Questa situazione di
conflitto può durare anni. I cristiani sono i maggiori difensori del governo
Assad. In Siria l’appartenenza alla nazione è molto forte, e i cristiani sono
la più antica comunità. Inoltre, la borghesia cristiana teme l’islamizzazione.
Purtroppo, si sta ripetendo lo stesso scenario dell’Afghanistan: anche lì, come
detto prima, l’Occidente usò i salafiti.

Quella volta fu contro
l’Urss. Ora contro altri. Ma i salafiti sono un giocattolo pericoloso: prendono
il controllo e sfuggono di mano».

Parliamo di un altro
possibile  teatro di guerra occidentale-qatariota-saudita: l’Iran. Quale scenario
intravede nel caso di un attacco?

«Da tempo Israele
minaccia seriamente di attaccare l’Iran. Tali minacce sono accompagnate da una
politica arrogante da parte dell’Occidente. Malgrado non esista alcuna prova
della produzione nucleare iraniana, gli Usa stanno portando avanti una
strategia che si riflette negativamente sulla vita del Paese. L’Iran non ha mai
mosso le proprie truppe fuori, né è andata ad occupare altri territori né
attaccherà Israele, ma nel caso questo colpisse l’Iran si aprirebbero le porte
dell’inferno. Perché oggi la supremazia non è più l’aeronautica, ma la parte
missilistica. L’Iran lancerebbe migliaia di missili come reazione contro
Israele, e contro le basi Usa se questi dovessero collaborare con lo Stato
sionista nel mondo arabo».

Quindi l’Europa, secondo
lei, non verrebbe colpita?

«Perché colpire l’Europa
se ci sono il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia come basi americane?
L’Europa sarebbe toccata a livello economico: i prezzi della benzina e delle
assicurazioni salirebbero alle stelle.

Poi ci si chiede perché
l’Europa è così aggressiva con l’Iran che non ha le bombe atomiche e non fa
nulla contro Israele che ne ha tante. Nella guerra contro l’Iraq, gli iraniani
ebbero un milione di morti: altri di più verrebbero sacrificati contro Israele
e Usa, in caso di un conflitto. Israele è disposto ad avere tanti morti?». Come
vede l’attuale situazione egiziana, dopo la vittoria della Fratellanza
musulmana?

«C’è una contraddizione
forte nella leadership egiziana. Il presidente Mohammed Mursi deve fare i conti
con i Fratelli musulmani e con la base salafita all’interno della Fratellanza.
Da una parte, deve tenere in considerazione questa realtà, che è anti-Usa, e
dall’altra deve guardare a Russia, Cina e Iran, ma non può farlo senza
scontrarsi con i salafiti, per i quali quei tre paesi sono grandi nemici. Come
riuscirà, allora, a gestire i rapporti con gli Stati Uniti che, tra l’altro,
sono partner di Israele?».

SIRIA – scheda 1

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LA GUERRA E LA
REALTÀ VIRTUALE

Haytham Manna, presidente
all’estero del Coordinamento per il cambiamento democratico (Cnccd, meglio noto
come «National Coordination Body», Ncb),

ha dichiarato: «La
rivolta siriana è da considerarsi come parte delle sollevazioni arabe. Con una
differenza rappresentata dal ruolo del paese come bastione delle resistenze
antimperialiste. Le posizioni del Cnccd sono incentrate sul “no” all’intervento
straniero nella crisi. Una posizione diametralmente opposta a quella assunta
invece dal Consiglio nazionale siriano (Cns) favorevole all’intervento».

Per Haytham Manna la
guerra civile è il frutto sia dell’intransigenza del regime sia dell’intervento
dei salafiti nel conflitto. L’8 agosto 2011, ha ricordato, ci fu il passaggio
dalla rivolta pacifica a quella violenta: il primo ingresso dei salafiti sulla
scena politica siriana. E fu un attacco alla posizione del Cnccd (quella dei
«tre no»: all’intervento straniero, alla guerra civile, al settarismo
religioso).

I salafiti dissero che i
«tre no» sostenevano il regime di Assad e dovevano essere sostituiti da tre sì:
all’intervento esterno, alla lotta armata, alla lotta contro le minoranze,
contro i «kuffār» (i miscredenti) e quindi guerra settaria e fitna. Ma la cosa
ancora più significativa è che ai tre sì si aggiungeva la volontà di
«riconciliazione» tra l’Islam e l’Occidente. Per i salafiti lo slogan era: «Il
sangue dei sunniti è uno». Si trattava di un gruppo minoritario, cui è stato
dato molto risalto dai media arabi del Golfo, e ciò ha favorito la loro
espansione nel mondo arabo.

Manna ha anche ricordato
il complesso mosaico siriano, costituito da 26 componenti religiose, nazionali
ed etniche e che oggi lo scontro è più un conflitto internazionale che interno,
visto il peso delle interferenze straniere. Egli ha denunciato il ruolo delle
emittenti del Golfo («al Jazeera» e «al Arabiya») nel presentare la rivolta
come esclusivamente sunnita.

Secondo Manna, nessuno
dei mezzi di informazione del Golfo parla di ciò che il Coordinamento fa per
aiutare il popolo siriano e del fatto che all’interno dell’opposizione ci sono
sunniti, alawiti, sciiti, cristiani, ismailiti. E ha ricordato che lui è il
presidente del Cnccd all’estero e che ha tre vice (uno curdo, uno sciita e un
druso), mentre nella direzione ci

sono tre cristiani.
Invece le emittenti del Golfo vogliono segnalare che la rivolta è soprattutto
sunnita, istigando la guerra settaria, omettendo di spiegare che sono
rappresentate tutte le etnie e le minoranze del paese. Questa propaganda, ha
sottolineato, favorisce la guerra e impedisce ogni tipo di soluzione politica
del conflitto, perché lo pone come settario.

«Abbiamo tre
rappresentazioni della Siria: virtuale (la Rete), formata da 200 persone che
fanno credere di guidare la rivolta; mediatica, media pro-governativi e
anti-governativi (del Golfo) che non danno un’immagine esatta della realtà; e
reale: la realtà vera e propria. Quando abbiamo lanciato una proposta di
cessate il fuoco, tutte le parti hanno rifiutato».

Per Manna la natura
fondamentale della rivolta non è di tipo confessionale: «Se le milizie salafite
fossero davvero così forti, come dicono, perché fanno arrivare combattenti
dall’esterno?». A suo avviso la percezione comune dei siriani è: o si riuscirà a
vivere insieme o si perirà tutti insieme. A questo proposito ha citato il caso
di Aleppo, dove la popolazione della città non ha accolto con favore né le
milizie né l’esercito di Assad.

«Bisogna distinguere tra
lo stato (al cui interno vi sono tante persone oneste) e il regime. Una
distinzione che non fanno i Fratelli musulmani, che rappresentano la
maggioranza del Cns. Un’incapacità di distinguere che deriva anche dal fatto
che i dirigenti della Fratellanza vivono tutti all’estero dopo la forte repressione
che li colpì negli anni ’80. La transizione dovrà implicare necessariamente una
qualche forma di continuità con lo stato, non con il regime. Estremisti ciechi
nell’opposizione stanno cercando di fermare ogni relazione con gli apparati
dello stato, cercano la distruzione. Sono loro che con le loro posizioni
estremiste fanno sprofondare la Siria in una guerra civile».

Secondo Manna, il
negoziato e il compromesso sono l’unica soluzione. Dialogo, dunque, con tutte
le forze, ad eccezione di quelle che rispondono a potenze estee alla Siria. •

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SIRIA Scheda  2:

I CRISTIANI, MINACCIATI ESPULSI E UCCISI

Fino alla scoppio della
rivolta in Siria, le relazioni tra la storica minoranza cristiana circa il 10%
della popolazione e la comunità musulmana erano ottime, «esemplari» le definì
il Papa nel 2011. I cristiani occupavano posti importanti nella vita politica,
istituzionale, accademica, giuridica, culturale, ecc., del paese. Erano spesso
un «ponte», in molte città e villaggi, tra sunniti, sciiti, alawiti, drusi,
curdi, avendo buoni rapporti con tutti.

Attualmente, invece, i
cristiani sono minacciati, uccisi, espulsi. Da sempre protetti dalla famiglia
Assad, a partire dall’insurrezione violenta dell’opposizione al regime di
Damasco, essi hanno dovuto affrontare persecuzioni e massacri in quanto
ritenuti «sostenitori» di Bashar el-Assad, e per questo da eliminare o da sradicare.
A migliaia sono stati costretti a lasciare le proprie case per fuggire da
violenze e discriminazioni perpetrate da gruppi salafiti e qaedisti, presenti
nella variegata e frammentata opposizione sostenuta da Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Qatar e Arabia Saudita. Secondo l’agenzia del Vaticano,
«Fides», i ribelli assaltano e occupano chiese, distruggono case e fanno
pulizia etnica di tutti i cristiani dai territori da loro controllati.

Scrive Thierry Meyssan su
«Voltaire Net» (www.voltairenet.org): «La guerra contro la Siria, pianificata
da Stati Uniti, Francia e Regno Unito per metà novembre 2011, è stata bloc-

cata in extremis dai veti
di Russia e Cina, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Secondo Nicolas Sarkozy,
che aveva informato della questione il Patriarca maronita durante un burrascoso
incontro all’Eliseo il 5 settembre 2011, il piano prevede l’esclusione dei
cristiani mediorientali da parte delle potenze occidentali. In questo contesto,
in Europa ha preso il via una campagna mediatica che accusa i cristiani
d’Oriente di collusione con le dittature».

Secondo questa lettura
della crisi, l’Occidente avrebbe creato una contrapposizione politica e
religiosa tra la Cristianità occidentale (inserita in un contesto imperialista,
neo-liberista e anti-arabo) e la Cristianità orientale, vittima dei piani
neo-coloniali degli Stati Uniti, di Israele e delle petromonarchie del Golfo, e
dei loro ascari qaedisti e salafiti.

Il timore che la Siria
divenga un «secondo Iraq» per i cristiani, con chiese, abitazioni attaccate,
cittadini rapiti, ammazzati, violentati, e espulsi, è sempre più reale, grazie,
anche qui, alle gang criminali della galassia salafita-qaedista. Sono tre le
città siriane dove i cristiani hanno subito persecuzioni e pulizia etnica e sono
stati spinti all’esodo.

A QUSAYR  migliaia cristiani sono stati costretti ad
andarsene. L’area è controllata da gruppi sunniti salafiti che considerano
nemici i cristiani e altre minoranze, come sciiti e alawiti.

A HOMS, che ha sempre
ospitato una delle maggiori comunità cristiane siriane, ormai quasi tutti i
cristiani sono fuggiti: secondo diversi report giornalistici, le loro case sono
state assaltate e sequestrate da bande di «al-Qaeda»; molti sono stati uccisi.
Contemporaneamente, il governo ha bombardato la città, per liberarla dagli
insorti, provocando altri morti e altre fughe.

Ad ALEPPO e in altre
città, i cristiani sono stati oggetto di attacchi terroristici.

Scrive Franco Trad su
«al-Hiwar» (Il Dialogo) di maggio-giugno 2012: «La rivoluzione, nata pacifica
ed innocente, con richieste giuste e condivise, è stata in parte usurpata da
chi l’ha trasformata in rivolta armata che distrugge i beni del popolo siriano,
che fa pulizia etnica, che violenta le donne, uccide i bambini e sequestra le
persone per avere un riscatto». •

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Angela Lano




IL SALAFISMO: NASCITA, STORIA, IDEE

Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

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Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

Il salafismo originario
era un movimento autenticamente religioso, che ricercava un’antica purezza
dell’Islam, ripulita da sovrastrutture createsi nei secoli, e proponeva una
lettura né troppo letteralista né troppo allegorica o spirituale-esoterica del
Corano.

Figure storiche
fondamentali per i salafiti sono Ahmad ibn Hanbal (780-855), Ibn Taymiyya
(1263-1328) introdusse il concetto di «ǧihād», che
ebbe grande influenza sul radicalismo islamico moderno, e Muhammad ibn Abd
al-Wahhab (1703-1792).

Il significato moderno
del termine è collegato a un movimento di rinascita dell’Islam, avviato nel
1800 e proseguito nei primi decenni del 1900, in Egitto e in altri paesi arabi,
in reazione relazione al colonialismo occidentale, attraverso i testi e il
lavoro di grandi studiosi musulmani: Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897),
Muhammad ‘Abduh (1849-1905), fondatori del movimento culturale e politico
conosciuto come «Iṣlāḥ», riformismo islamico, e Rashid Rida (1865-1935).
È con Rida, nel 1900, in Egitto, che il movimento riformista assume
caratteristiche di maggior contrapposizione con l’Europa, e intende far
rinascere l’Islam dell’epoca del profeta Muhammad e dei suoi compagni, i pii antenati,
Salaf al-ṣaliḥīn, appunto. Da qui deriverà l’uso del termine
«Salafita».

Il salafismo si
trasformerà, negli anni successivi, sempre di più da movimento riformista,
intellettuale, aperto e tollerante, a fondamentalista. Nascerà la
«neosalafiyya», o neosalafismo, con la creazione delle organizzazioni dei
giovani musulmani («Jam‘iyyat al-Shubban al-muslimin») e la Fratellanza
musulmana o Fratelli musulmani («Jamāʿat alIkhwān al-muslimīn»), fondata al Cairo nel
1928 da Hasan al-Banna, politico e religioso egiziano, iniziato al sufismo e
allievo di Muhammad ‘Abduh.

Attraverso la «da‘wa»,
richiamo all’Islam, il neo-salafismo diventerà un’ideologia rivolta alle masse
arabe diseredate, e non più solo a élite colte e intellettuali: in totale
contrapposizione al salafismo delle origini e di quello degli illuminati
al-Afghani e ‘Abduh, si trasformerà dunque in movimento «anti-intellettuale» e
conservatore. Esso diventerà espressione delle forme radicali del
fondamentalismo islamico, fino alle sue estreme conseguenze del «qaedismo» e «jihadismo»
attuali, passando per i gruppi violenti del salafismo algerino degli anni ’90.

Con il passare degli
anni, il «salafismo» è andato a delineare una galassia di gruppi e movimenti
identificantisi con il wahhabismo, fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd
al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanba- analisi politica e
geo-politica del mondo arabo-islamico e globale, da un ridotto sviluppo
istituzionale, da un anti-intellettualismo, dall’indifferenza per la cultura e
da un’attenzione accentuata verso gli aspetti giuridici, materiali, e
scarsamente spirituali della fede e della vita umana.

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Angela Lano




BAHRAIN: REPRESSIONE IGNORATA

Abbiamo incontrato Jasim
Husain e Hadi al-Mosawi, deputati del maggiore partito di opposizione del
Bahrain, al-Wifaq.

72

On. Husain e al-Mosawi, quali sono le richieste che il
vostro movimento e la piazza del Bahrain fanno al regime?

Al-Mosawi: «La nostra è
una domanda di democratizzazione intea, di partecipazione alla gestione del
Paese e della politica. Non stiamo chiedendo la fine della monarchia degli
al-Khalifa, ma un sistema parlamentare vero e un governo che sia
rappresentativo del popolo e dei partiti, e la fine della presenza saudita, a
livello politico e militare. Vogliamo che le discriminazioni religiose, sociali
e professionali finiscano. Vogliamo media liberi e una società attiva. E la
liberazione dei prigionieri politici.

La rivolta è iniziata il
15 febbraio 2011, chiedendo riforme. Noi abbiamo sempre organizzato
manifestazioni pacifiche, non-violente, in stile gandhiano, ma il regime ha
risposto subito reprimendo, uccidendo».

Husain: «Siamo convinti
che il Bahrain sia pronto per la democrazia. Il paese ha un alto livello di
scolarizzazione. Ci sono tante persone colte, preparate, anche se molti
intellettuali sono in esilio. La democrazia arriverà, ne siamo sicuri. Il
regime attacca i manifestanti, pacifici, distrugge le moschee: ne abbiamo perse
35. Dove s’è mai visto un governo musulmano che abbatte le moschee? Le autorità
non vogliono che la nostra rivoluzione popolare continui in modo pacifico,
vogliono la violenza, così da poterci reprimere più duramente, ma noi siamo
non-violenti. Possono testimoniarlo le tante delegazioni parlamentari e
diplomatiche che arrivano in visita in Bahrain».

Qual è la situazione dei
diritti umani nel vostro paese? Husain: «Il regime si sta vendicando della
rivoluzione in corso. Un’ondata di licenziamenti ha colpito i manifestanti, sia
nel settore privato sia in quello pubblico: 4.400 tra bancari, insegnanti,
impiegati, medici, operai, poliziotti, ecc., sono stati mandati a casa per aver
partecipato alle rivolte. Licenziare come rappresaglia non è etico. Le autorità
non capiscono che ciò non è più concepibile nel mondo contemporaneo. Sono
rimaste indietro, sono arretrate, mentre la gente non lo è affatto, è colta e
non sopporta più un sistema dove un capo di governo è al potere da 40 anni e
dove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno».

Al-Mosawi: «Il 23
novembre del 2011, il Bici (www.bici.org.bh), Commissione indipendente
d’inchiesta del Bahrain, che monitora la situazione dei diritti umani, ha
stilato un rapporto di centinaia di pagine, evidenziando una politica settaria
e discriminatoria e un uso eccessivo della forza da parte del regime nei
confronti dei manifestanti. La situazione sta peggiorando: all’inizio, le
proteste di piazza avevano motivazioni politiche. Ora sono contro le violazioni
dei diritti umani. E poi?».

In Occidente, certi media
hanno scritto che la rivolta in Bahrain è incoraggiata dall’Iran. Cosa
rispondete?

H. e M.: «Nel rapporto
del Bici non emerge questo. L’Iran non era dietro allo scoppio della rivolta
popolare. Noi portiamo avanti la nostra lotta per il cambiamento interno, senza
ingerenze estee: vogliamo democrazia, diritti e il rispetto di principi
universali, giustizia per tutti». (fine)

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Angela Lano




Un altro Natale è possibile

Premessa. Dio si è avvicinato per vedere cosa accadeva – Luca Lorusso

 

È nato, si dice – Ugo Pozzoli
Rileggere le nostre fatiche in un’ottica di fede

La crisi renderà il Natale (forse) meno spendaccione del solito. Meriterà ancora celebrarlo «da poveretti»? Forse abbiamo l’opportunità di riscoprirne il senso più profondo che le luci di vetrina, i fiocchetti colorati, lo stress da ipermercato affollato, tendono a nasconderci. Dio nasce in un luogo di miseria. Il Natale è la festa del poco: ecco che lo riscopriamo come veramente nostro.

 

La festa della tenerezza di Dio – Ernesto Olivero
Una lettera sul Natale ai lettori di MC dal fondatore del Sermig, Ernesto Olivero

 

L’intensità di una gioia silenziosa – Marta Giambuzzi
Fratel Emanuele ci racconta il Natale in monastero

La comunità monastica cistercense Dominus tecum di Pra ‘d Mill è composta di 14 monaci. Essa struttura la sua vita attorno a preghiera, lavoro, lettura, senza trascurare uno degli elementi fondamentali dello stile monastico: l’accoglienza.

 

Osare non usare – Luca Lorusso
Il regalo alternativo secondo Gian Paolo di Casa Wiwa

«Io direi, per Natale non fate regali». Parola di «bottegaio»! O meglio, fateli: equi, solidali, biologici, ma nella sobrietà, resistendo al consumismo – anche a quello equosolidale -, prendendo l’acquisto del regalo come un’occasione per diventare più liberi e per dare un segno di speranza a chi lo riceverà.
Abbiamo incontrato Gian Paolo, che legando le proprie scelte di sobrietà alle dinamiche dell’economia globale, illustra «un altro regalo possibile», per un «altro Natale», più evangelico.

 

Natale in tre tempi – Gianfranco Testa
Evocando Natali in altre terre

Padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata, ci manda tre piccole e suggestive «storie» di Natale tratte dai suoi vissuti in diversi paesi dell’America Latina.

 

di Ugo Pozzoli, Ernesto Olivero, Marta Giambuzzi, Gianfranco Testa, Luca Lorusso




Armi low cost

La Libia del post Gheddafi si è trasformata in un supermercato delle armi. Un self-service al quale si rifoiscono milizie locali, ma anche numerosi gruppi di ribelli attivi in Nord Africa e nel Medio Oriente. L’implosione del regime ha reso infatti disponibile una quantità enorme di armi, da quelle leggere ai sistemi più complessi, e di munizioni che ora alimentano un traffico imponente nel continente africano. Per capire il perché questa enorme quantità di armamenti si sia resa disponibile con il tracollo del regime di Gheddafi è necessario fare un passo indietro.
Muammar Gheddafi era un ufficiale formato nelle scuole militari britanniche. Nonostante ciò, guardava con estremo interesse al modello di difesa jugoslavo. Dopo la seconda guerra mondiale e l’esperienza della lotta partigiana che nei Balcani aveva messo alle corde le forze armate tedesche, Belgrado aveva infatti creato un sistema di difesa unico. Tito, il dittatore jugoslavo, aveva voluto un esercito di ridotte dimensioni il cui compito era quello di far fronte al primo impatto di un’invasione straniera. La vera difesa era però affidata alle milizie popolari, le quali dovevano affrontare il nemico con il metodo della guerriglia. Queste milizie si sarebbero dovute rifornire di armi e munizioni in depositi sparsi sul territorio.
Gheddafi importa questo sistema in Libia. L’organizzazione delle forze armate viene ridotta all’osso (ciò risponde anche all’esigenza del rais di ridurre al minimo il rischio che l’esercito diventi un possibile catalizzatore del dissenso nei confronti del regime). Parallelamente, crea in tutto il paese magazzini e nascondigli stipati di armi leggere, munizioni, ma anche di sistemi d’arma più complessi quali i missili terra-aria. Non è un caso che Gheddafi nei primi giorni della rivolta, avesse ordinato alla sua aviazione di bombardare non tanto i ribelli, quanto i depositi di armi ai quali si rifoivano. Obiettivo solo in minima parte raggiunto, tanto è vero che il grosso dei magazzini si è salvata. Con la caduta del regime e l’implosione di ogni struttura civile e militare, le milizie che si sono spartite il territorio si sono impossessate anche delle armi che hanno trovato. In parte le hanno usate contro i lealisti (ma spesso anche contro le altre milizie) e in parte le hanno vendute per autofinanziarsi.
Secondo i rapporti di alcuni servizi di sicurezza occidentali che operano nel Nord Africa sono quattro i canali attraverso i quali vengono trafficate le armi.
Il primo è la Libia sudorientale. Questo è un canale tradizionalmente utilizzato dai contrabbandieri e dai trafficanti di uomini libici e sudanesi. È dal confine con il Sudan che arrivano i migranti e i carichi di droga (in particolare l’eroina) provenienti dall’Africa orientale. È verso il Sudan che sono diretti i carichi di armi. Queste si uniscono a quelle provenienti dall’Iran e, attraverso l’Egitto e il Sinai, arrivano ad Hamas a Gaza. Recentemente, alla frontiera tra Egitto e Sudan, è stato sequestrato dalla polizia egiziana un carico di missili antiaereo provenienti dalle caserme libiche e diretti ai movimenti palestinesi.
Il secondo canale è il Libano. Trafficanti libanesi acquistano armi dai miliziani libici per poi rivenderle a Hezbollah e ai ribelli siriani che combattono contro il regime di Bashar al-Assad.
Il terzo è la Libia sud occidentale. Molti tuareg maliani e nigerini che, per anni, avevano prestato servizio nelle forze armate libiche agli ordini di Gheddafi, al crollo del regime sono fuggiti, rientrando in patria. In Niger i tuareg sono stati disarmati. In Mali no. A gennaio è così scoppiata una rivolta contro Bamako. I soldati maliani, che fino ad allora erano sempre riusciti a controllare le sommosse anche in virtù della loro superiorità tecnico-militare, si sono trovati di fronte milizie tuareg dotate di armamenti più modei e sofisticati dei loro. L’esito dello scontro è stato segnato. I militari maliani sono stati sconfitti e le regioni del Nord (Azawad) hanno dichiarato l’indipendenza.
L’ultimo canale è il terrorismo islamico: Al-Qaeda e i movimenti ad essa collegati. I servizi segreti algerini, i meglio organizzati e i più agguerriti di tutto il Nord Africa, hanno sequestrato di recente diversi carichi destinati alle cellule di Aqmi (Al-Qaeda per il Maghreb islamico).
«Dopo il crollo del regime – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa – la Nato non ha pensato a controllare i confini della Libia per bloccare questi traffici. Così le armi libiche si sono diffuse in tutto il Maghreb e il Medio Oriente».

Enrico Casale

Enrico Casale




C’erano una volta due Mali

Mali: Al Qaeda, i Tuareg e gli altri

Un paese conficcato nel Sahara, dove il territorio è incontrollabile. I tuareg del deserto si ribellano (per la quarta volta in 50 anni) e dichiarano l’indipendenza. Intanto un colpo di stato sconvolge il Sud (dopo 2 decenni di regime democratico). E nel Nord i gruppi integralisti islamici prendono il controllo, a scapito dei tuareg. La confusione regna nei due Mali.

È l’alba del 17 gennaio 2012. Il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) lancia il suo primo attacco nel Nord del Mali. È l’inizio della ribellione armata che toglierà il controllo di una vasta regione (822.000 km quadrati di deserto) al governo centrale di Bamako. Controllo che già molto tempo prima era debole e circoscritto alle tre città capoluogo: Gao, Kidal e Timbuctu (Tombouctou). L’Mnla dichiara l’indipendenza dell’Azawad il 5 aprile. È questo il nome tuareg della regione, sulla quale però, ben presto perderà il potere. Ma la storia non inizia qui, e gli attori sono molteplici.
Un contesto intricato
La regione sahariana in Mali, come in Niger, è stata teatro di periodiche ribellioni tuareg (popolazioni nomadi che si estendono anche in Mauritania, Algeria, Libia, Ciad). In particolare nel 1963, 1990 e infine 2006. Ribellioni che hanno visto l’appoggio e poi la mediazione, delle potenze regionali, l’Algeria e la Libia di Gheddafi, e post coloniali, la Francia. I tuareg rivendicano da sempre il loro diverso modo di vita (rispetto agli stanziali del Sud), e un differente concetto di «nazione». La loro lotta è contro lo stato centrale (gestito da altre etnie) per una propria autodeterminazione, e con il potere sono scesi a patti (nei successivi trattati di pace), ottenendo concessioni sulla carta, spesso disattese. Molti tuareg, inoltre, hanno ingrossato per anni le file delle milizie speciali di Gheddafi, e poi combattuto al suo fianco fino alla disfatta finale, a opera delle forze Nato.
Il Nord del Mali è popolato anche da altre etnie, in particolare: peulh, songhai e arabi e vede da decenni la presenza di molti attori armati. Dall’Algeria degli anni Novanta, martoriata dalla guerra civile, gruppi di combattenti islamici integralisti del Gia (Gruppi islamici armati) si sono costituiti nel Gspc (Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento) che ha iniziato a installarsi nell’estremo Nord del Mali nel 2003 (vedi MC dicembre 2010). In questa regione le frontiere tra gli stati non esistono, siamo in pieno deserto del Sahara. In particolare, l’importante gruppo salafita di Mockhtar Belmokhtar (potente emiro dei Gia), si basa nella regione di Timbuctu. Il Gspc inaugura in quello stesso anno la stagione dei rapimenti degli occidentali, a scopo di riscatto. Pratica che diventa ben presto un lucroso giro di affari. Esiste una stima (algerina) che calcola in 50 milioni di euro i proventi dei riscatti pagati da paesi occidentali dal 2003 alla fine del 2010.
È nel 2007 che il Gspc dichiara ufficialmente la sua affiliazione all’universo Al Qaeda, prendendo il nome di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Allo stesso tempo Gspc prima (e Aqmi dopo) tesse relazioni sociali con popolazione e capi tradizionali e inizia a prendere parte nei fiorenti traffici transfrontalieri di cocaina, armi, e persone, già esistenti.
Gli algerini di Aqmi portano con sé anche l’ideologia di Al Qaeda: la visione radicale dell’islam wahabita e salafita, la jihad (guerra santa) per l’imposizione della sharia (legge islamica) a tutta la popolazione.
«Già alcuni anni fa – racconta un cornoperante di stanza in Mali – il governatore di Gao aveva richiamato alcuni imam, avendo constatato che nelle loro moschee le persone si fermavano a dormire. Si era verificato l’arrivo di predicatori dall’Afghanistan, i quali tenevano ai fedeli dei veri e propri corsi di islam radicale».
Negli stessi anni, le regioni del Nord sono il territorio di caccia di bande armate e milizie di ogni tipo che si alimentano dei traffici trans sahariani. Gruppi questi tollerati, e talvolta addirittura appoggiati dal governo centrale di Bamako, del presidente Amadou Toumani Touré (detto Att, presidente dal 2002 al 2012), allo scopo di esercitare un certo «controllo a distanza» su zone troppo lontane dalla capitale. Ma questa non è che una parte delle responsabilità del governo centrale sull’attuale situazione maliana.
La svolta
La crisi libica, iniziata nel febbraio 2011, e la sconfitta del Muammar Gheddafi, grande manovratore di vicende sahariane, diventa l’occasione da non perdere.
I combattenti tuareg in forza all’esercito privato del rais (e si parla di truppa ma anche di graduati e strateghi), ripiegano sui paesi di origine: Mali, Niger. Un’enorme quantità di armi, governative e della Nato, entrano nel mercato africano, e non solo (vedi riquadro).
Il movimento tuareg fa un salto di qualità. Al Movimento nazionale dell’Azawad (Mna) di tipo politico per rivendicare diritti e cultura, fondato da giovani intellettuali nel 2010, si aggiungono i «ritornati», combattenti esperti di lungo corso. Nei mesi successivi all’uccisione di Gheddafi, diversi gruppi tuareg (legati a clan famigliari) si incontrano a più riprese nella zona di Zakak, in pieno deserto. È qui che si organizza la ribellione armata. Il governo centrale ne è al corrente e si tentano mediazioni. L’Mnla è ufficialmente costituito nell’ottobre 2011, e importanti leader delle passate ribellioni ne fanno parte. Non si tratta di un’organizzazione verticale, ma di una sorta di piattaforma di diverse organizzazioni delle comunità tuareg delle tre regioni del Nord del Mali (Gao, Timbuctu, Kidal). L’Mnla è laico, non si caratterizza per la religione e il suo programma politico si riassume con la secessione dell’Azawad dal Sud corrotto e neo colonialista (su modello del Sud Sudan che si è separato dal Nord).
Il movimento stabilisce il suo ufficio politico a Nouakchott, capitale della Mauritania, uno dei principali alleati regionali della Francia. Alcuni leader, come Mossa Ag Attaher risiedono a Parigi e da lì gestiscono relazioni e due siti Inteet (in arabo e francese) del movimento. La Francia vede l’utilità dei tuareg per la lotta anti terrorista nel Nord del Mali. Da qui le accuse di collusione, soprattutto da parte di Bamako. Secondo l’Inteational Crisis Group (vedi pag. 49), tuttavia, questo interesse non si è mai tradotto in appoggio logistico, perché i transalpini non vedono di buon occhio la secessione del paese.
dai sotterranei di Al Qaeda
Negli stessi mesi anche Aqmi non sta ferma. Grazie alle ingenti quantità di denaro ottenuto con i rapimenti e il traffico di cocaina, fa incetta di armi libiche e arruola nei suoi ranghi giovani fuggiti dalla Libia.
Il leader tuareg Iyad Ag Ghali, figura importante nei trattati di pace del 1991 e del 2008, ha un suo percorso religioso particolare. Originario di Kidal, di uno dei clan più nobili, gli Ifoghas, si avvicina all’ideologia salafita. Negli anni (e nei trattati di pace) ha sempre favorito il suo clan e la sua regione, piuttosto che l’Azawad. Già miliziano nella Legione verde di Gheddafi degli anni ‘80, è anche stato vice console del Mali in Arabia Saudita sotto Att. Fa suo il progetto islamico fondamentalista della jihad internazionale, e si trova in contrasto con l’islam tollerante degli altri tuareg.
In parte estromesso dalle consultazioni di Zakak, si presta comunque come alleato tattico alla ribellione, adoperando la sua milizia, Ansar Dine (i partigiani della religione). Affianca e appoggia i gruppi dell’Mnla nella conquista di Gao e Timbuctu. Ed è proprio in questa regione che inizia a stringere alleanze con l’Aqmi di Belmokhtar. Vi trova affinità ideologica e presenza di risorse.
I progetti di società promossi da Mnla e da Ansar Dine sono dunque nettamente distinti: la secessione e uno stato laico gli uni, l’integrità territoriale e l’applicazione della sharia per tutti, gli altri.
In poche settimane i successi militari dell’Mnla, con Ansar Dine (e altri gruppi) sono rapidi e l’esercito di Bamako, viene cacciato dal Nord del paese. Le milizie pro governative (arabe e tuareg) sconfitte. Importante è la vittoria di Aguelhoc, seguita da esecuzioni extra giudiziali di decine di soldati maliani.
Crisi al Sud
A Bamako, a un mese dalle elezioni a cui Att non si sarebbe più candidato, il 22 marzo scorso il capitano Amadou Haya Sanogo, con un gruppo di militari di Kati (caserma alle porte di Bamako), porta a segno un colpo di stato che mette fine a vent’anni di percorso democratico del paese.
Il pretesto è proprio il lassismo con cui Att aveva gestito il Nord negli ultimi dieci anni. Ma i golpisti sembrano un po’ sprovveduti e la loro azione produce l’effetto di favorire l’avanzata dei ribelli fino alla citata proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad.
Ansar Dine, forte dei successi militari e dell’alleanza con Aqmi (che porta ingenti fondi, quindi armi), si impone, anche con scontri armati, sugli altri tuareg, prendendo il controllo delle città ed estromettendo di fatto l’Mnla, troppo lontano dall’approccio jihadistico. Questo si ritira dapprima nelle periferie e infine nelle campagne. Oggi Ansar Dine controlla saldamente Timbuctu e Kidal con l’appoggio di Aqmi.
Gao è in mano al Movimento per l’unità della jihad in Africa dell’Ovest (Mujao). Gruppo dissidente di Aqmi, staccatosi per motivi di spartizioni di riscatti, che compare pubblicamente con il rapimento di Rossella Urru e due colleghe a Tindouf (Algeria), il 22 ottobre 2011. Testimonianze lo danno già costituito fin dal 2008. Pratica, oltre il sequestro, anche attentati suicidi e predilige obiettivi algerini. È il Mujao che rapisce sette diplomatici di Algeri del consolato di Gao, di cui uno è stato giustiziato a inizio settembre.
Nuova Somalia?
Le grandi città del Nord, e gran parte del suo territorio, sono quindi oggi in mano a gruppi fondamentalisti islamici. Questi impongono la loro interpretazione della sharia alla popolazione. Arrestano le donne senza il velo o in giro la sera, applicano l’amputazione ed esecuzioni per lapidazione senza processo, e la flagellazione di bevitori da alcol e fumatori. Si conta che 475.000 persone siano fuggite verso il Sud Mali e in paesi confinanti. In Niger e in Burkina Faso c’è infatti un’emergenza sfollati maliani, che si somma alla crisi alimentare acuta che ha toccato il Sahel negli ultimi mesi.
«Tutti gli uffici statali sono stati attaccati e saccheggiati, così come le sedi delle Ong – racconta un operatore di una Ong internazionale –. Le auto rubate dai miliziani. A Gao sono stati addirittura cacciati i malati dall’ospedale, per prendere loro i letti. Cose mai viste in Africa, dove le strutture mediche sono sempre state rispettate».
Un’altra fonte raggiunta lo scorso agosto racconta: «A Gao per le strade, si vede una forte presenza di uomini in armi di diverse nazionalità: maliani, algerini, egiziani, sudanesi, nigeriani, pachistani. In maggioranza sono con il Mujao, ma anche con altri gruppi terroristi come Aqmi e con i narcotrafficanti. Controllano tutto quello che si muove in città e nella regione. Ricordano alla gente che sono loro i nuovi padroni della zona e proprietari di tutti i beni dello stato maliano rimasti». Anche membri della setta nigeriana Boko Haram (vedi articolo pag. 44) sono stati visti a Gao. E continua: «Ci sono poi molti piccoli gruppi di banditi armati, che non obbediscono a nessuna parte in conflitto, ma che organizzano assalti sulle grandi strade di accesso». «La sicurezza personale rimane precaria. Anche se è tornata la calma dopo che i tuareg dell’Mnla sono stati cacciati dalle città dagli islamici armati. Questi assicurano il servizio di polizia locale e mettono progressivamente in atto la sharia. Le Ong hanno bisogno di un lascia passare per muoversi e può accadere che gli islamisti interferiscano con le loro attività, ad esempio vogliono indicare a chi distribuire il cibo». «Anche la preghiera del venerdì è cambiata – continua la fonte – adesso ha uno stile più asiatico».
A Gao si è passati da una popolazione di 120.000 persone a 25.000. Tutto il commercio è bloccato, i funzionari statali sono fuggiti a Bamako. Il sistema sanitario è collassato per la fuga degli operatori. Non c’è cibo perché non si è fatta la campagna agricola e c’è una mancanza quasi totale di liquidità di denaro. Nelle campagne e nei villaggi, la gente sta tornando al baratto.
Intanto a Bamako la situazione resta molto confusa. Dopo una negoziazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e del Burkina Faso con la giunta, lo scorso aprile Sanogo si è messo ufficialmente da parte e ha restituito i poteri a organi di transizione. Dioncounda Traoré, presidente dell’Assemblea Nazionale (il parlamento) è diventato presidente di transizione, mentre si sono già succeduti due governi del primo ministro Cheick Modibo Diarra.
«Chi comanda, dietro le quinte, è sempre Sanogo» racconta un analista. «Quando, a inizio settembre, il presidente Traoré ha chiesto l’intervento militare della Cedeao per riconquistare il Nord agli islamici, subito Sanogo, che è un militare, ha dichiarato di non voler soldati stranieri in Mali, ma solo un appoggio logistico». La Cedeao, si appresta a intervenire con una forza di 3.300 uomini (Micema, Missione Cedeao in Mali) è in attesa, nel momento in cui si scrive, della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che la autorizzi. La Francia, che appoggerebbe logisticamente, ha chiesto rapidità.

Marco Bello

Marco Bello