4_Orti: Contadina Provvidenza

Esperienze 3/ Cooperativa Cavoli Nostri
Dall’incontro tra due religiosi e un gruppo di giovani
nasce un’esperienza sostenibile. Grazie alla produzione orticola rifornisce un
centro per anziani del Cottolengo. Allo stesso tempo impiega persone
svantaggiate, dando loro un salario. Sempre con una grande fiducia nella
provvidenza.

In paese la indicano ancora con il nome antico, la
Colonia: una struttura settecentesca a due passi dal centro di Feletto (To),
circondata da sei ettari di terreno, sede dagli anni ‘40 della Piccola casa
della Divina Provvidenza (uno dei centri del Cottolengo di Torino) per
l’accoglienza di persone sordomute.

Nel tempo il numero di religiosi impegnati nella
struttura si è assottigliato, e i mezzi materiali hanno iniziato a scarseggiare
finché, nel 2007, la direzione della Casa è stata affidata a fratel Umberto
Bonotto, che ha deciso insieme al confratello Marco Rizzonato di «sfruttare» la
campagna a disposizione per rilanciare le attività agricole. Alcuni giovani,
venuti a conoscenza del progetto, si offrono «provvidenzialmente» di
collaborare nel ridare vita agli spazi in abbandono, accompagnati dalla
Coldiretti di Torino. Nasce così, nel 2011, la cornoperativa Cavoli Nostri. «Dopo
le prime perlustrazioni, insieme ad altri amici ci siamo innamorati del posto e
dello spirito che lo animava, e abbiamo iniziato a incontrarci una volta la
settimana per far crescere insieme il sogno di trasformare i terreni della
Piccola casa in qualcosa che, pur mantenendo la vocazione sociale, assumesse
però anche una valenza produttiva» racconta Silvia, 41 anni, socia volontaria
della cornoperativa sgorgata da quel sogno collettivo.

Silvia vive a Torino, dove lavora come psicologa e
collabora con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ma
appena ha un momento libero va a Feletto per fare anche lei la sua parte.
Seminare, zappare, togliere le erbacce, pulire… il lavoro non manca mai e i
volontari non si tirano indietro, qualunque sia la loro competenza
professionale: a parte Stefania, che per «puro caso» è agrotecnica di
professione, e Daniela, che è cresciuta in un’azienda agricola, ci sono
Martina, laureata in giurisprudenza, Elena, un’economista, Davide, impiegato…
13 soci in tutto, tra lavoratori e volontari, inclusi i due religiosi e tre
ospiti della Piccola casa in grado di lavorare.

Ispirazione religiosa, stile laico

Finora Cavoli Nostri ha ridato vita a 2,5 ettari dei sei
disponibili, impiegandoli per la coltivazione ortofrutticola. Il Cottolengo
concede i terreni in comodato d’uso, in cambio la cornoperativa fornisce alla
Piccola casa i prodotti necessari al sostentamento dei suoi ospiti, che oggi
sono una ventina, alcuni molto anziani, e tutti uomini.

«Ci sono anche 5-6 sordomuti, stiamo imparando il
linguaggio dei segni per comunicare meglio con loro» spiega Silvia. Mentre ci
accompagna a visitare le serre (ce ne sono tre già in funzione, ma ne stanno
montando altre per incrementare la produzione), Silvia ci racconta l’origine
del nome Cavoli Nostri. «Ci ha dato lo spunto fratel Marco, raccontandoci un
episodio della vita di San Giuseppe Cottolengo: per assistere i malati
rifiutati dall’ospedale, il Cottolengo aveva preso in affitto due stanzette a
Torino; poi però era scoppiata un’epidemia di colera ed era arrivato lo
sfratto. I volontari che aiutavano il santo erano disperati, non sapevano che
fine avrebbero fatto, ma lui li rassicurò dicendo: “Come il cavolo va
trapiantato per potersi riprodurre, così sarà anche per noi”. Detto fatto: il
Cottolengo prese in affitto un piccolo rustico, che fu all’origine dell’attuale
Casa della Divina Provvidenza di Torino, in grado di ospitare oggi centinaia di
persone».

Anche tra i soci della cornoperativa si respira quella «fiducia
nella Provvidenza» tipica del più genuino spirito cottolenghino: una fiducia
che spinge a non arrendersi davanti alle difficoltà, e a vivere secondo gli
ideali della sobrietà e della solidarietà. «Cerchiamo di fare buon uso delle
risorse a nostra disposizione, senza sprecare nulla, nel rispetto delle persone
e dell’ambiente» spiega Silvia mostrandoci la serra delle fragole: i bancali
con le piantine sono stati ricavati da vecchi letti del Cottolengo dismessi, e
sono rialzati da terra «così da permettere anche a chi ha problemi fisici di
poter lavorare, restando in piedi anziché a terra ginocchioni».

Se Cavoli Nostri continua la tradizione solidaristica
del Cottolengo, lo fa però in uno stile del tutto laico: «La cosa bella è che
pur trovandoci in una struttura religiosa viviamo nella piena libertà
d’espressione, credenti e non» spiega Silvia. «Quello che condividiamo sono valori
umani di solidarietà e di amore per il prossimo».

Ripensare il welfare

Cavoli Nostri è una cornoperativa sociale di tipo b che
cura la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate dai
18 ai 60 anni: disabili psichici e intellettivi, ma anche rifugiati politici. «Oggi,
con la crisi dello stato sociale e il declino di molti servizi essenziali, nel
nostro piccolo vogliamo dimostrare che si può fare welfare in modo nuovo,
raggiungendo la piena sostenibilità economica per uscire dalle logiche
dell’assistenzialismo» spiega Stefania, socia volontaria di Cavoli Nostri. «Adesso
con la vendita ortofrutticola riusciamo a retribuire alcuni dei nostri ragazzi,
anche grazie all’apertura di un punto vendita diretto». Dallo scorso giugno
infatti Cavoli Nostri è aperto al pubblico tutti i sabati mattina (nella bella
stagione anche mercoledì pomeriggio). «Ogni sabato abbiamo una cinquantina di
acquirenti, non è poco se consideriamo che qui in paese quasi ogni abitante ha
il proprio orto», spiega Stefania. «Molti vengono a comperare dalla città,
lavoriamo grazie al passaparola e rifoiamo anche alcuni gruppi d’acquisto. I
nostri prodotti sono molto apprezzati perché, oltre alla componente “sociale”,
sono biologici al 100%; almeno di fatto visto che non abbiamo ancora concluso
le pratiche per la certificazione».

A Torino c’è un ristorante, Le Papille, che ha iniziato
con la passata di pomodoro di Cavoli Nostri e adesso propone ai clienti anche
gli altri prodotti della cornoperativa. «Il nostro sogno sarebbe aprire un
laboratorio per la trasformazione di sughi, conserve, confetture, in modo da
attivare qualche inserimento lavorativo in più» racconta Silvia. Nel frattempo
per trasformare i prodotti, Cavoli Nostri lavora in rete con altre realtà della
provincia, accomunate dalla filosofia dell’agricoltura sociale, come la cascina
Amalterna di Borgiallo, in Valle Sacra, e l’Agricò di Pecetto, che ha vinto
l’Oscar Green 2011 e offre inserimento lavorativo alle vittime di tratta.

Il valore della differenza

«Non è sempre facile far capire ai consumatori il valore
del cibo sano» dice Silvia, «all’inizio qualche cliente, contento di sostenere
il progetto d’inserimento dei ragazzi, si lamentava però dell’aspetto estetico
dei prodotti, dei calibri della frutta, ecc. In questi casi rispondiamo che “per
noi la differenza è un valore, in tutte le sue manifestazioni!”».

Non contenti di produrre cibi buoni e biologici, a
Cavoli Nostri stanno anche studiando le pratiche eco-sostenibili
dell’agricoltura biodinamica. Inoltre, grazie al progetto La Carriola
finanziato dalla Compagnia di S. Paolo, hanno potuto dotare sia l’interno delle
serre sia l’esterno di un nylon biodegradabile per la pacciamatura
(copertura del terreno per mantenere l’umidità del suolo e proteggere dall’erosione)
che non danneggia l’ambiente.

Ma come vivono questa esperienza i ragazzi che ci
lavorano? Paolino, di 35 anni, è tra i più disponibili a raccontarsi: è
arrivato qui da circa un anno, e dopo un tirocinio di sei mesi è stato assunto
dalla cornoperativa. Paolino abita in un paese vicino e due – tre volte la
settimana viene a Feletto in treno per lavorare un paio d’ore, un impegno
compatibile con le sue possibilità. «Prima di questa esperienza non avevo mai
fatto il contadino» ci racconta, «mi piace molto venire qui, stare a contatto
con la natura mi rilassa la mente ed è bello vedere le cose che crescono». Dopo
qualche difficoltà iniziale, Paolino si è perfettamente ambientato e il suo
viso si illumina mentre ci racconta i piccoli-grandi incarichi che svolge nella
cornoperativa. «Tolgo le erbacce, curo le piantine di fragola, raccolgo i
fagiolini… Quel poco che guadagno è una grande soddisfazione, così so che ho
qualche soldo da parte in caso di bisogno». Magari per fare un regalo al
nipotino di 2 anni, per cui Paolino stravede… La chiacchierata s’interrompe,
per Paolino è ora di tornare in stazione. Ci saluta raggiante stringendoci la
mano e ci dice, dopo averci dedicato il suo tempo, «grazie della disponibilità!».

 
Box 2
Agricoltura sociale

Le aree d’intervento dell’agricoltura sociale:
• riabilitazione/cura: per persone con gravi disabilità
(fisica, psichica/mentale, sociale) con una finalità socio-terapeutica;
• formazione e inserimento lavorativo: esperienze orientate
all’occupazione di soggetti a basso potere contrattuale o con disabilità;
• ricreazione e qualità della vita: esperienze rivolte a un
ampio spettro di persone con bisogni speciali, con finalità socio-ricreative
(agriturismo «sociale», fattoria didattica);
• educazione: per soggetti diversi che traggono utilità
dall’apprendere il funzionamento della natura e dei processi produttivi
agricoli;
• servizi alla vita quotidiana: agri-asili, accoglienza
diua, riorganizzazione di reti di prossimità per la cura e il supporto agli
anziani.

 (Fonte: Francesco Di
Iacovo, «Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori», Franco
Angeli 2008).

 

Stefania Garini




5_Orti: Passione e Metodo

L’intervista / Roberto Moncalvo, Coldiretti
Gli agri-asili, le agri-tate,
l’inserimento lavorativo di giovani. In un mondo dove le zone periferiche sono
sempre più sprovviste di servizi, le aziende agricole hanno qualcosa da dire.
L’agricoltura sociale diventa un risparmio per la collettività. Ma sono necessari competenza e
rigore. Parola di Coldiretti.

Roberto Moncalvo, 32 anni, è il
giovane presidente di Coldiretti Piemonte e di Coldiretti Torino. L’agricoltura
sociale è per lui, oltre che un compito istituzionale, una vocazione personale.
Insieme alla sorella Daniela, Roberto è titolare dell’azienda Settimo Miglio
(situata a Settimo Torinese), che in questi anni ha assunto nel proprio
organico un ragazzo psichiatrico, un disabile e un rifugiato politico della
Somalia.

Com’è nata nella Coldiretti l’idea
di aprirsi all’agricoltura sociale?

«In Piemonte nel 2002 abbiamo
iniziato a interrogarci sulla qualità della vita dei nostri associati, e su
come arginare l’abbandono delle terre da parte dei giovani. Attraverso una
mappatura della provincia di Torino ci siamo resi conto della carenza di
servizi sociali, ad esempio gli asili. In molte aree rurali o peri-urbane,
soprattutto a bassa densità di popolazione, c’è carenza di interventi del
pubblico ma a volte anche del terzo settore. Costruire un’impresa nuova
richiede investimenti e, con un numero basso di utenti, non c’è garanzia di
sostenibilità economica. Le imprese agricole invece sono già presenti e quindi
mettono a disposizione una parte dei loro spazi. Così, grazie anche
all’approvazione della legge di Orientamento, i nostri soci si sono attrezzati
per offrire nuovi servizi, dagli agriturismi alle fattorie didattiche. In
questi anni si sono moltiplicate le aziende del territorio che, con altri
attori locali, hanno realizzato diverse sperimentazioni nel campo
dell’agricoltura sociale».

Qualche fiore all’occhiello?

«Sì, per esempio La Piemontesina di
Chivasso (To), il primo agri-nido d’Europa. Si tratta di un asilo situato
all’interno di un’azienda agricola, gestito dall’imprenditrice insieme ad alcuni
educatori. Il progetto formativo è legato ai cicli naturali e alla vita
campestre, i giochi sono costruiti con materiali disponibili in loco. I bambini
possono sperimentare spazi e tempi di vita meno frenetici, più naturali.
Imparano anche a mangiare sano, solo prodotti di stagione, e maturano un
atteggiamento di rispetto verso l’ambiente.

Un’altra esperienza innovativa, nel
cuneese e in tutto il territorio piemontese, è quella delle «agri-tate»,
progetto di Coldiretti Piemonte che vede il coinvolgimento di tre assessorati
regionali: si tratta di imprenditrici, coadiuvanti o anche solo appartenenti a
una famiglia agricola, che dopo un corso di 400 ore (organizzato da Coldiretti)
possono offrire un servizio di cura per bambini fino a 3 anni all’interno dell’impresa
agricola, sperimentando un progetto educativo basato sulla pedagogia della
domesticità.

Così si creano posti di lavoro e si
offre ai bambini un ambiente protetto che ne favorisce la socializzazione. Ci
sono poi aziende che foiscono servizi di Estate ragazzi, andando a colmare il
vuoto dovuto al calo di preti e suore nelle parrocchie. Altre ancora, durante
le vacanze, accolgono i “nonni” che non se la sentono di andare in ferie con i
figli».

Che vantaggi trae da queste pratiche
l’impresa agricola?

«L’azienda ricava maggiore
visibilità e può aumentare il giro di vendite. L’agricoltura sociale funziona
secondo il modello win-win (vincente-vincente, ndr), cioè tutti
ci guadagnano. Prendiamo il caso di chi fa riabilitazione e inserimento dei
ragazzi psichiatrici: l’azienda migliora la sua produttività, i consumatori
mangiano cibi puliti e sani, i ragazzi vedono accrescere il proprio benessere,
le famiglie sono contente… e le Asl risparmiano. Perché se il ragazzo sta
meglio si riducono i costi per i ricoveri, per gli psicofarmaci, ecc.
L’agricoltura sociale è un risparmio per tutta la collettività».

Quali sono i punti di forza delle
aziende agricole?

«Una componente è senz’altro la
dimensione familiare: qui il luogo di lavoro coincide con la casa, con la
famiglia, il che favorisce l’instaurarsi di legami forti tra i residenti e i
ragazzi coinvolti nei progetti di reinserimento. Ma non basta la buona volontà,
servono anche competenza e rigore. Per questo Coldiretti Piemonte ha pubblicato
di recente un manuale di “Agricoltura sociale innovativa”, a cura di Francesco
Di Iacovo, che fornisce gli strumenti scientifici per una corretta valutazione
delle “buone pratiche” di agricoltura sociale».

Bibliografia
e sitografia

Agricoltura
sociale innovativa
, Francesco Di Iacovo (Coldiretti 2012)
La cooperazione
sociale agricola in Italia
, Aa.Vv. (Euricse-Inea 2012)
I buoni frutti:
viaggio nell’Italia della nuova agricoltura civica, etica e responsabile
,
Aa.Vv. (Agra Editrice 2011)
Farm City,
l’educazione di una contadina urbana
, Novella Carpenter (Slow Food 2011)
Mondi agricoli e
rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali
, Aa.Vv.
(Inea 2010)
I nuovi
contadini
, Jan Douwe van der Ploeg (Donzelli 2009)
Linee guida per
progettare iniziative di agricoltura sociale
, Alfonso Pascale (Inea 2009)
Vite contadine.
Storie del mondo agricolo e rurale
, Aa.Vv. (Inea 2009)
Agricoltura
sociale: quando le campagne coltivano valori
, Francesco Di Iacovo (Franco
Angeli 2008)

www.torino.coldiretti.it
www.aiab.it
www.ortietici.it
www.aicare.it
www.fattoriesociali.com
www.lombricosociale.info
http//:sofar.unipi.it

Documentario La buona terra. Esperienze di agricoltura
sociale in Italia, Rai 2011.

 
Hanno contribuito a questo dossier:

Stefania Garini, torinese, ha una laurea in filosofia
con master di specializzazione in Bioetica. Da 15 anni lavora come giornalista,
occupandosi soprattutto di tematiche sociali e ambientali. È volontaria Avo
(Associazione volontari ospedalieri) e presta servizio con i malati
psichiatrici. Da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.

Foto di Stefania Garini, Massimo Maiorino, Cooperativa
Frassati, L’Orto dei ragazzi e Silvia -Venturelli per Cavoli nostri.

Coordinamento editoriale di Marco bello, redattore di
MC.

 

Stefania Garini




1_M: Piccola ma vivace, La Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni

Consolazione in Mongolia

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:6.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.Fotografo, li.Fotografo, div.Fotografo {mso-style-name:Fotografo; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:6.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.DossierTesto1, li.DossierTesto1, div.DossierTesto1 {mso-style-name:Dossier_Testo1; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Fotografo; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.5pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} p.DossierBoxTesto, li.DossierBoxTesto, div.DossierBoxTesto {mso-style-name:Dossier_Box_Testo; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin-top:0cm; margin-right:0cm; margin-bottom:5.65pt; margin-left:0cm; text-align:justify; line-height:10.5pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} p.Dossierdidascalia, li.Dossierdidascalia, div.Dossierdidascalia {mso-style-name:Dossier_didascalia; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.0pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} .MsoPapDefault {mso-style-type:export-only;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} --
 
Dossier di di Benedetto Bellesi, mons. Wenceslao Padilla, Giorgio Marengo La Chiesa cattolica in Mongolia è la più giovane tra le chiese particolari nel mondo: ha appena 20 anni di età e ha festeggiato con meritato orgoglio il suo ventesimo compleanno nel corso del 2012. Ad aprire le celebrazioni nella cattedrale di Ulaanbaatar è stato mons. Savio Hon, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Si tratta di «una Chiesa di piccole dimensioni, ma di grande vitalità» ha affermato il presule. Tale vitalità è stata espressa anche simbolicamente: a conclusione dei festeggiamenti, rispondendo all’invito del loro vescovo mons. Wenceslao Padilla, i cattolici mongoli hanno piantato un albero, come augurio che il Vangelo di Cristo affondi sempre più profondamente le radici nei cuori della popolazione mongola.

Non è la prima volta che la Buona Notizia viene annunciata a questa popolazione. Già nel secolo VI i monaci della Chiesa siriaca orientale (i cosiddetti nestoriani) si erano spinti fino alle steppe dell’Asia orientale, costituendo solide comunità che neppure le persecuzioni del IX secolo riuscirono a soffocare completamente. Nel secolo XIII, in seguito all’espansione dell’impero mongolo creato da Gengis Khan e dai suoi successori, l’evangelizzazione dei mongoli riprese sotto forma di «missioni diplomatiche», affidate ai missionari francescani, fino a costituire la diocesi di Khambaliq (oggi Pechino), con l’arcivescovo che aveva autorità «in toto dominio Tartarorum» (in tutto l’impero dei Tartari). Ma tutto fu troncato a partire dal 1368, quando i cinesi della dinastia Ming posero fine all’impero mongolo.

Dopo oltre sei secoli di vuoto, in cui dall’attuale Mongolia scomparve ogni traccia di presenza cristiana, la Chiesa cattolica è rinata nel 1992, con l’arrivo di tre missionari del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) e ha continuato a crescere in numero e qualità: oggi, dopo 20 anni, la Prefettura apostolica di Ulaanbaatar conta sei parrocchie e numerose iniziative in campo sociale, di promozione umana e di dialogo interreligioso.

Negli ultimi due secoli, in verità, ci furono vari tentativi, promossi da Propaganda Fide, per entrare nell’attuale Mongolia passando dalla Cina. Uno di essi fu programmato dai Cistercensi, che nel 1883 stabilirono la loro comunità a Yang Kia Ping, nel nord della Cina, vicino alla grande muraglia. Il monastero fu intitolato a Nostra Signora della Consolazione, titolo suggerito da Giovanni Bosco, quando il fondatore della trappa, don Ephrem Seignol, priore del monastero di Tamié nella Savoia, prima di partire per la Cina si recò a Torino per salutare il suo amico. In tale occasione, oltre ai consigli, don Bosco gli diede un’immagine della Consolata, con scritto nel retro: «Che Dio benedica voi e le vostre opere, che la Santa Vergine Consolata vi benedica sempre».

Fiorente di vocazioni e attività, agli inizi del XX sec. la trappa contava oltre 100 monaci in maggioranza cinesi, tanto da sentire il bisogno di dare vita a una nuova fondazione. «Consolazione mandò una colonia in una provincia centrale cinese - racconta Thomas Merton - e questo nuovo monastero era stato messo sotto il controllo di un priore titolare Cinese, don Paolino Li... I monaci stavano preparando i piani di espansione nella Mongolia, quando l’esercito rosso occupò entrambe le case e pose fine ad ogni progetto futuro» (T. Merton, Le acque di Siloe, pag. 301).

Erano gli anni 1947-48, durante la guerra tra l’armata rossa di Mao Tze Tung e i nazionalisti di Chiang Kai-shek; i monaci della seconda fondazione si rifugiarono a Hong Kong, ma dei 75 monaci di N. S. della Consolazione, sottoposti a torture inaudibili, 33 morirono e l’abbazia fu rasa al suolo.

Ma la Consolata ha trovato ugualmente le sue vie per entrare in Mongolia: il 27 luglio 2003 atterrarono nella capitale mongola due padri e tre suore della Consolata. Oggi la loro presenza è raddoppiata e quest’anno festeggiano con gioia il decimo anniversario della loro presenza di «Consolazione» in Mongolia.

B.B.
Benedetto Bellesi




2_M: Pericolo Giallo

1245-1368: Missioni e
missionari tra i mongoli


L’espansione dell’impero
mongolo, inglobando quasi tutto il continente asiatico e parte dell’Europa
orientale, nel XIII e XIV secolo, dapprima provocò spavento nella cristianità,
poi si rivelò occasione provvidenziale, garantendo sicurezza e stabilità
economica ai missionari e commercianti che raggiunsero le capitali imperiali.
Purtroppo l’evangelizzazione fu faticosa e poi stroncata nel momento di maggior
successo.

In tutta Europa, nel
1241, risuonava il grido «la cristianità è in pericolo», quando il generale
mongolo Batu, invasa l’Ungheria, distrutta Zagabria, saccheggiata Spalato, si
affacciava sulle sponde dell’Adriatico, mentre l’ala destra del suo esercito
marciava su Vienna. 

In pochi anni, Gengis Khan (1162-1227) e i suoi quattro
figli avevano costruito l’impero più vasto della storia, dalla Corea alla
Polonia, dal Mar Giallo al Golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le
vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) seminava dappertutto
terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come
capre o deportati come schiavi. La stessa sorte era toccata a molti cristiani
russi, polacchi, ungheresi.

Contro il pericolo giallo papa Gregorio IX invocava
invano una crociata: l’imperatore Federico II era in rotta di collisione col
pontefice; i principi cristiani in totale anarchia. Non restava che sperare
nella provvidenza. E infatti, alla fine del 1241, l’improvvisa scomparsa di
Ogodei Khan, successore di Gengis Khan bloccò l’avanzata mongola, poiché
principi e generali dovettero precipitarsi a Karakorum, la capitale dei mongoli
per eleggere il nuovo sovrano.

Ben presto l’impero si divise in quattro regni o
khanati, che nel tempo acquistarono sempre maggiore autonomia.

Missione diplomatica

Al concilio di Lione (1245), la «sevitia Tartarorum»
fu considerata tra i cinque principali dolori che affliggevano la Chiesa, per
cui il «remedium contra tartaros» fu posto subito all’ordine del giorno.
Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vide nell’espansione dei
Mongoli una nuova sfida missionaria e inviò un’ambasceria, con lo scopo di
convertirli al cristianesimo o averli almeno alleati contro i musulmani per
liberare la Terra Santa. La legazione fu affidata al francescano Giovanni da
Pian di Carpine.

«Uomo familiare e spirituale, letterato e grande
prolocutore», come lo definisce Salimbene da Parma, impegnato per vari anni nel
diffondere l’ordine francescano nell’Europa centrale e settentrionale, fra’
Giovanni aveva sviluppato notevoli capacità diplomatiche e temprato fisico e
carattere alle situazioni più impensabili: per papa Innocenzo IV era la persona
ideale per guidare un’ambasciata al gran khan dei Mongoli.

Partito da Lione il 16 aprile 1245, in compagnia di
Stefano di Boemia e più tardi di Benedetto di Polonia in qualità di interprete
di lingue slave, il messo pontificio raggiunse la Polonia e proseguì per Kiev,
dove Stefano di Boemia si ammalò e dovette interrompere il viaggio. Grazie
all’aiuto di principi russi, che procurarono loro dei cavalli tartari, capaci
di brucare l’erba anche sotto la neve, i due religiosi raggiunsero gli
avamposti dei Mongoli sul Volga, dove tradussero in persiano le lettere papali
destinate al Gran Khan.

Dopo aver percorso migliaia di chilometri attraverso le
sterminate steppe centro-asiatiche, «equitando quanti equi poterant ire
trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime
» (stando a
cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… da mattina a sera e
spesso anche di notte), come racconta nella sua Historia Mongalorum,
cibandosi per lo più di miglio con acqua e sale, dopo aver interloquito, di
tappa in tappa, con i principali signori mongoli incontrati nel cammino, il 22
luglio 1246, dopo 15 mesi di viaggio, i due francescani arrivarono
all’accampamento di Guyuk Khan, nipote di Gengis Khan, non lontano dalla città
di Karakorum, proprio mentre fervevano i preparativi per l’incoronazione
ufficiale del nuovo sovrano.

Dopo quattro mesi di attesa, fra’ Giovanni fu finalmente
ammesso alla presenza del Gran Khan e poté consegnare il messaggio papale, che
invitava l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo.
L’accoglienza fu gentile; ma il missionario fu rimandato con un messaggio
inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a
venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci,
non ne vediamo la ragione… Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i
soli a essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi
Dio si degnerà di conferire la sua grazia?». A fra’ Giovanni non restava che
riprendere a ritroso il percorso fatto all’andata; tra infiniti stenti
raggiunse Kiev e da lì Lione, nel novembre del 1247. L’anno seguente fu
nominato arcivescovo di Antivari, in Montenegro, dove morì nel 1252.


Altre legazioni papali e reali

Nonostante la mancata conversione dei Mongoli,
l’esperienza di fra’ Giovanni da Pian del Carpine ebbe una portata storica
impareggiabile: osservatore privilegiato e testimone effettivo del popolo
mongolo, egli fu il primo a farlo conoscere all’Occidente, con la sua «Historia
Mongalorum quos nos Tartaros appellamus
» in cui racconta il suo viaggio e
soprattutto il mondo culturale e religioso della società mongola, la sua
storia, virtù e difetti, loro tecniche militari e perfino l’aspetto fisico (vedi
riquadro
).

Nell’impero mongolo vigeva una certa tolleranza verso
tutte le religioni, benché i Mongoli seguissero prevalentemente credenze
sciamaniche. Anche la risposta del gran khan Guyuk alla missiva del Papa, tutto
sommato, aveva più sapore di orgoglio e indifferenza che di ostilità. Lo stesso
fra’ Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini dei
nestoriani in una cappella che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran
Khan; due ministri dell’impero mongolo erano cristiani nestoriani.

Altri missionari furono inviati con lettere del Papa e
di Luigi re di Francia. Uno di essi fu il domenicano francese Andrea da
Longjumeau: prima fu mandato da Innocenzo IV a evangelizzare i tartari del
khanato di Persia (1245-47), poi, nel 1249, Luigi IX lo inviò al gran khan
Guyuk per chiedere protezione verso i cristiani dell’impero mongolo e la sua
alleanza nella crociata per la liberazione dei luoghi santi. Andrea arrivò a
Karakorum che il Gran Khan era morto da mesi; offrì alla sua vedova, la
reggente Oghul Qaimish, doni preziosi, tra cui una reliquia della Santa Croce,
che accettò volentieri come segno di sottomissione e consegnò al frate una
lettera per Luigi IX, in cui invitava il re di Francia a considerarsi suo
vassallo e pagare un tributo annuo ai Mongoli. Rispetto alla missione di
Giovanni da Pian del Carpine non ci fu quindi alcun progresso. Tuttavia il
frate domenicano toò con molte informazioni sulla neutralità dei Mongoli in
materia religiosa e sulla forte presenza di cristiani nestoriani alla corte
dell’imperatore. Tali informazioni incoraggiarono Luigi IX a inviare un’altra
missione, nella speranza di convertire al cristianesimo tutta l’aristocrazia
mongola.

La nuova missione affidata nel 1253 al francescano fiammingo
Guglielmo di Rubruck, aveva carattere non solo missionario ma anche politico e
scientifico. Nelle sue lettere il re di Francia usò espressioni di cortesia
verso i re tartari, chiedendo che Guglielmo e il suo compagno fra’ Bartolomeo
da Cremona, potessero restare nei paesi da loro governati «per insegnare la
Parola di Dio». Al tempo stesso re Luigi chiese a Guglielmo di scrivere un
rapporto su tutto ciò che avrebbe potuto apprendere sui Mongoli.

Partiti nel 1253 da San Giovanni d’Acri alla volta di
Istanbul, i due missionari proseguirono verso la regione del Volga,
incontrarono il campo militare (orda) di Sartach, poi quello di suo padre Batu,
dove furono accolti con benevolenza, ma vennero indirizzati a Karakorum, poiché
solo il Gran Khan aveva potere di decidere circa le relazioni con i sovrani di
altri popoli. Raggiunto l’accampamento di Mongku, nipote di Gengis Khan e
successore di Guyuk, i due missionari entrarono in Karakorum nell’aprile del
1254. Guglielmo fece moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari,
monaci nestoriani o buddisti, sciamani, prigionieri occidentali… Egli
organizza pubbliche dispute teologiche con sacerdoti buddisti: tutti ascoltano
senza fiatare, ma nessuno diceva di voler essere cristiano. Il missionario
riescì ad amministrare solo sei battesimi, tutti a figli di deportati.

Ammesso alla presenza di Mongku Khan, Guglielmo si sentì
spiegare che il sovrano non aveva bisogno del cristianesimo; gli bastavano gli
indovini, i cui consigli lo facevano vivere bene. A luglio dello stesso anno
ripartì, portando con sé la lettera per il re di Francia in cui Mongku gli
chiedeva la sua sottomissione. Dopo quasi un anno di viaggio, il missionario
raggiunse la Terra Santa, dove scrisse un rapporto preciso e dettagliato del
viaggio in forma di lettera per re Luigi: resoconto vivo e affascinante, uno
dei capolavori della letteratura geografica medioevale, intitolato Itinerarium
fratris Willielmi de Rubruquis
.

Missioni… commerciali

Se dal punto di vista missionario e diplomatico furono
un fallimento, queste ambascerie ebbero altri risvolti positivi: le notizie
raccolte dai missionari svelarono all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le
loro imprese aprirono ai mercanti la strada verso il favoloso Cathay, come era
chiamata la Cina. Dove fallirono le missioni diplomatiche, riuscirono quelle
commerciali.

Nel frattempo, infatti, il nuovo gran khan Kubilai aveva
spostato in Cina la capitale del suo impero, conosciuta dagli europei col nome
turco di Khambaliq (città del khan), l’odiea Pechino. A contatto con
la civiltà cinese la cultura mongola conobbe una nuova fase. È quanto
testimoniano due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo: arrivati nella
capitale nel 1260, trovarono una corte variopinta e un imperatore ben disposto
e curiosissimo: «Dimandò di messere il Papa e di tutte le condizioni della
Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». E quando i due mercanti
ripartirono, dopo nove anni, Kubilai li pregò di ritornare e di portargli «un
po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo», e affidò loro un
messaggio per il Papa, in cui chiedeva 100 uomini di scienza che istruissero i
tartari sulla religione cristiana.

Nel 1271 il papa Gregorio X mandò due domenicani,
insieme ai due mercanti veneziani, cui si era aggiunto il piccolo Marco, autore
del Milione; ma i frati tornarono subito indietro. Sei anni dopo furono
inviati quattro francescani, che sparirono nel nulla.

Nel 1287 un monaco nestoriano, Raban Sauma, arrivò in
Europa come ambasciatore dello stesso Kubilai Khan, per chiedere al re di
Francia un’alleanza contro i turchi e al papa di inviare missionari. Nicolò IV,
primo papa francescano, non esitò un istante: nel 1289 decise di mandare un
missionario già collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.

Giovanni da Montecorvino

Nato nel 1247 a Montecorvino, vicino a Saleo, «dottissimo
ed eruditissimo» come lo definisce il Marignolli, per 10 anni aveva predicato
il vangelo in Armenia, Persia e Tartaria settentrionale, operando migliaia di
conversioni. Tornato a Roma come ambasciatore dei re di quelle regioni presso
il papa, Nicolò IV lo nominò suo legato e lo inviò subito indietro, con 26
lettere credenziali da consegnare a re, dignitari ecclesiastici georgiani,
nestoriani, giacobiti, fino al gran khan della Cina.

Partito il 15 luglio 1289 insieme a un manipolo di
francescani e domenicani e al mercante genovese Pietro Lucalongo, fra’ Giovanni
raggiunse le regioni del suo primo amore missionario, consegnò a principi e
prelati le lettere papali e continuò dappertutto a predicare, istruire,
convertire e organizzare comunità cristiane.

Ripreso il viaggio via mare, si fermò in India per oltre
un anno; poi, sempre via mare, nel 1294 approdò insieme al domenicano Nicola da
Pistornia e a Lucalongo al porto cinese di Zaitung o Quanzhou; risalendo il
Canale imperiale, raggiunse Khambaliq e consegnò la lettera papale a Timur Khan
(Kubilai era morto quello stesso anno).

Come legato del papa, Giovanni da Montecorvino fu
accolto con tutti gli onori; gli fu concesso il privilegio di risiedere nella
città proibita; ebbe piena libertà di annunciare il Vangelo a mongoli e cinesi,
ai membri della famiglia imperiale e ai nestoriani. I frutti arrivarono subito:
una principessa, promessa sposa del gran khan, e il nestoriano principe
Giorgio, re di Tenduk, abbracciarono la fede cattolica.

Ma i nestoriani non gliela perdonarono. Presenti in Cina
da sette secoli e sparsi in 20 province settentrionali e orientali del celeste
impero, essi occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e non avevano
alcuna intenzione di condividere i loro privilegi con l’ultimo arrivato e lo
calunniarono per cinque anni davanti alla corte del gran khan.

Finalmente scagionato da ogni accusa, riprese con
successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. In una lettera ai confratelli
di Tabriz nel 1305, tirava qualche somma del lavoro svolto in 11 anni di
missione. «Ho amministrato il battesimo a 6 mila persone. Se non ci fossero
state le calunnie dei nestoriani, ne avrei battezzate altre 30 mila. E sto sempre
battezzando». Riuscì a convertire anche importanti personalità della corte, ma
non il gran khan, «ormai incallito nell’idolatria» come confessava lo stesso
monarca.

Rimase da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso
fino a erigere altre diocesi suffraganee. Ma in Occidente, con il papa in
esilio ad Avignone, nessuno si ricordava più di quel frate sparito nel nulla,
finché fra’ Tommaso da Tolentino, proveniente dalla Persia, arrivò ad Avignone
durante un concistoro e lesse le lettere di Montecorvino davanti al papa e ai
cardinali. Grande fu lo stupore nel sentire quelle meraviglie d’altro mondo. E
quando le lettere arrivarono nei conventi, molti religiosi si offrirono
volontari per raggiungere l’eroico missionario.

Papa Clemente V nel 1307 inviò alcuni missionari e 7
vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Khambaliq e patriarca di tutto
l’Oriente «in toto dominio Tartarorum»; solo tre di essi giunsero a
destinazione due anni dopo. La consacrazione di fra’ Giovanni avvenne nel 1310
nella chiesa attigua alla reggia, alla presenza di Guluk Khan (succeduto a
Timur nel 1308) e di una folla incontenibile d’ogni razza e religione.

Nel 1325 un altro grande missionario francescano,
Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia
meridionale, raggiunse Pechino e per tre anni aiutò il vecchio Montecorvino.
Tornato in Italia per chiedere rinforzi per la missione in Cina, morì un anno
dopo il suo arrivo. Ma ebbe ancora il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di
Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), un’opera che non ha nulla da invidiare al Milione
di Marco Polo e che diventò subito un best seller, tradotto in italiano,
francese e tedesco.

Fra’ Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, a 81 anni,
compianto da cristiani e pagani, «venerato come santo da Tartari e Alani» come
scriveva Marignolli. Alla sua morte la Chiesa in Cina contava oltre 30 mila
fedeli. La sua opera fu continuata da una cinquantina di confratelli, ma non sopravvisse
per più di 40 anni, sia perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati
minori, impedendo l’invio di nuovi missionari, sia, soprattutto, perché la
dinastia Ming prese il potere (1368) e pose fine all’impero mongolo,
distruggendo la vecchia capitale Karakorum, ma senza riuscire a controllare il
territorio. Al tempo stesso il celeste impero chiuse i confini agli stranieri e
le cristianità si dissolsero, scomparendo lentamente nel nulla.

Benedetto
Bellesi

Scheda 1: Visti da vicino: Aspetto fisico, virtù e
vizi dei Tartari


«Il loro aspetto fisico è
diverso da quello di tutti gli altri uomini. Sono, tra gli occhi e le guance,
più larghi degli altri uomini, e le guance sporgono sulle mascelle. Hanno il
naso piatto e corto, gli occhi piccoli, e le palpebre che salgono sino alle
sopracciglia. Sono assai sottili di cintura, con poche eccezioni. Quasi tutti
sono di statura mediocre. La maggior parte hanno pochissima barba; alcuni
tuttavia hanno sul labbro superiore e sul mento qualche rado pelo che non
tagliano mai. Sulla cima del cranio, hanno una corona di capelli, alla maniera
dei chierici, e da un orecchio all’altro, su una larghezza di tre dita, tutti
si radono i capelli alla stessa maniera, ma lasciano crescere sino alle
sopracciglia i capelli che sono tra la corona e la rasatura; e da una parte all’altra
della fronte, hanno i capelli tagliati più che a metà; per il resto, li
lasciano crescere, alla maniera delle donne, e ne fanno due trecce che annodano
dietro l’orecchio. Hanno i piedi piccolissimi.


I detti uomini, ossia i
Tartari, sono assai più obbedienti verso i loro superiori, di quanto non lo
siano gli altri uomini… e li venerano grandemente, né osano mentire dinanzi a
loro. Contendono di rado a parole e mai con fatti. Guerre, risse, ferimenti,
omicidi, non avvengono mai tra di loro. Predoni e ladri di grandi cose non si
trovano tra di loro, perciò non usano chiudere con serrature o legature le loro
abitazioni e i carri entro i quali racchiudono il proprio tesoro. Se qualche
animale si disperde chiunque lo incontri, o lo lascia dove trovasi o lo
consegna a coloro che sono incaricati di raccoglierli. E i proprietari li
richiedono a questi, ottenendoli di ritorno senza nessuna difficoltà. Si
rispettano molto l’un l’altro e si trattano con grande famigliarità e per
quanto i viveri siano assai scarsi, pure se li passano volentieri… Le loro
mogli sono caste, né si sente mai dir nulla della loro impudicizia…


Essi sono quanto mai
altezzosi e sprezzanti verso gli altri uomini e li considerano pochissimo,
siano nobili, siano ignobili… Sono assai irosi verso gli altri uomini e
sdegnosi ed anche mentitori con gli stranieri…»


(Historia
Mongalorum
, 1247).


Scheda 2: I Nestoriani in Cina

A portare per primi il
Vangelo nell’Estremo Oriente furono missionari comunemente detti nestoriani,
appartenenti alla Chiesa Siriaca d’Oriente, diffusa in Persia e Mesopotamia.
Guidati dal monaco persiano Alopen, essi portarono il cristianesimo in Cina nel
635, durante la dinastia dei «T’ang», alquanto tollerante verso le religioni
non cinesi. Il fatto è testimoniato dalla famosa stele di Si-ngan-fu, eretta
nel 782, scritta in lingua siriaca e caratteri cinesi, scoperta nel 1625.

Caposaldo della
metodologia missionaria dei cristiani orientali erano i monasteri. Si
sforzarono di presentare le verità cristiane, adattandole alla mentalità cinese
e assumendone la lingua; disponevano di una preziosa biblioteca: 230 libri, in
parte tradotti e in parte adattati da esperti. Alcuni di questi scritti furono
ritrovati nel 1908 nelle grotte di Tunhwang (ad esempio il libro Gesù Messia).
Questo primo tentativo di evangelizzazione durò fino all’845, allorché un
editto imperiale e relative persecuzioni ne decretarono la fine.

Ma durante i secoli
XI-XIII, grazie alla «pax mongolica», che garantiva a mercanti e
missionari di viaggiare in sicurezza attraverso l’impero di Gengis Khan, la
Chiesa d’Oriente riprese vigore e fu accolta da diverse tribù turco-mongole
dell’Asia centrale e settentrionale. Gruppi di cristiani orientali furono
segnalati da Marco Polo e dai missionari francescani nell’impero mongolo.

«Sappiate, padri miei –
disse un cristiano orientale nel XIII secolo – che molti dei nostri padri sono
andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che
sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati
che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i
cristiani, e molti di loro sono credenti».

B.B.

Scheda 3: Sei secoli di grande vuoto

Con la perdita del potere per mano
della dinastia cinese dei Ming (1368), l’impero mongolo fu totalmente
disgregato e i clan rivali cominciarono a combattersi tra loro, soprattutto
nelle regioni dove l’impero cinese esercitava meno controllo.

Nel XVI secolo,
sotto Altan Khan, i principi mongoli abbracciarono il buddismo tibetano,
sistema di scrittura compreso, per non essere totalmente assorbiti nell’impero
cinese. Un secolo più tardi, sotto la dinastia Qing (1636-1911), il territorio
abitato dai mongoli fu diviso in due province: Mongolia interiore, rimasta
sempre legata all’impero cinese, e Mongolia esteriore, che ebbe un regime si
semiautonomia e, caduta la dinastia Qing, diventò oggetto di contesa tra cinesi
e russi, riducendosi nei confini attuali. Intanto cresceva il nazionalismo dei
suoi abitanti, che nel 1921, con l’appoggio della Russia, si dichiararono
indipendenti, formarono il proprio governo nel 1924, dando origine alla
Repubblica popolare di Mongolia, di stretto stampo sovietico: per 70 anni i
mongoli subirono l’ingerenza e la dittatura comunista dell’Urss, senza peraltro
entrare a far parte formalmente dell’Unione Sovietica.

Dal 1368 al 1990
nella Mongolia esteriore non si ha alcuna traccia di presenza cristiana. Nel
1864 Propaganda Fide incaricò i missionari Lazzaristi e di Scheut
(Congregazione del Cuore Immacolato di Maria) di evangelizzare l’intera
Mongolia, ma non poterono lavorare che nella Mongolia interiore. Nel 1922 la
Santa Sede eresse la missione sui iuris di Urga (rinominata Ulaanbaatar
dai comunisti), affidandola ai missionari di Scheut, ma il cambiamento politico
impedì loro di entrare. Il nuovo regime cancellò ogni segno religioso,
distrusse luoghi di culto, trucidò migliaia di monaci, abbatté monumenti
storici, sostituendoli con statue di Lenin e Stalin. Fu perfino proibito di
pronunciare il nome di Gengis Khan, eroe nazionale e «divinità» popolare.

Con l’avvento della perestrojka
sovietica, anche in Mongolia iniziò la svolta democratica, con libere elezioni
(1990) e con l’entrata in vigore di una nuova costituzione (12 febbraio 1992),
che garantisce libertà di religione. Nel frattempo una delegazione del governo
mongolo si presentò in Vaticano per chiedere di allacciare relazioni
diplomatiche con la Santa Sede, dicendo che sarebbe stata ben accolta la
presenza e il contributo di missionari cattolici alla ripresa della società
mongola.

Il 4 aprile 1992
Santa Sede e Mongolia stabilirono le relazioni diplomatiche; tre mesi dopo
arrivarono a Ulaanbaatar tre missionari di Scheut per riprendere
l’evangelizzazione del popolo mongolo, colmando così un silenzio storico durato
oltre sei secoli.

B.B.

Benedetto Bellesi




3_M: Torna a rifiorir la steppa

Storia e sfide della
chiesa più giovane del mondo
Con un messaggio
pastorale il prefetto apostolico di Ulaanbaatar, monsignor Wenceslao Padilla, traccia la storia dei primi 20
anni della missione cattolica in Mongolia. Una storia che parte da tre
missionari e arriva a centinaia di fedeli e un buon numero di missionari e
missionarie, diverse strutture e nuove conversioni ogni anno. Oggi, però, con
lo sviluppo economico e l’avvento della democrazia le sfide si moltiplicano.

Il 10 luglio del 1992
una Chiesa è nata nelle steppe dell’Asia Centrale. Ciò avvenne quando tre
missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) misero il
piede sul suolo mongolo. Sembrava quasi un’avventura per i tre religiosi
stabilire una missione là dove la Chiesa non aveva alcuna struttura fisica né
membri da considerare propri. Sin dall’inizio, l’idea di far nascere una Chiesa
dal nulla sembrava un’impresa paurosa, piena di sfide, ma anche eccitante.

Siamo arrivati quando la Repubblica di Mongolia si era
appena liberata dal dominio della Russia Sovietica e la nazione stava tentando
i primi passi per reggersi in piedi da sola. Il governo appena costituito
cercava di rispondere ai vari problemi e necessità della gente e del paese.
C’era una situazione in un certo senso caotica nei luoghi pubblici, come lo «sciopero
della fame» messo in atto davanti al palazzo presidenziale e parlamento, per
chiedere le dimissioni dell’allora primo ministro. A guidare la dimostrazione
c’era anche un coraggioso e impegnato attivista sostenitore della democrazia:
Tsakhiagiin Elbegdorj, attuale presidente del Paese.

I primi contatti

Stando in un appartamento in affitto, abbiamo lentamente
trovato la nostra strada per entrare nel cuore dei mongoli, cercando di vivere
come loro, sperimentando le stesse privazioni e difficoltà di vita di quel
tempo. C’era scarsità di cibo e mancanza di comodità. La Mongolia era un «paese
di stenti», come dicevano molti stranieri incontrati durante i primi giorni
della nostra integrazione. Ben presto, però, dopo aver conosciuto meglio la
gente e il loro stile di vita, e dopo aver imparato un po’ la loro lingua, ci
siamo sentiti più fiduciosi nell’allacciare contatti con i locali.

«Venite e vedete» era la nostra parola d’ordine per far
sentire benvenute e a proprio agio le persone che incontravamo e si avvicinavano
a noi. Alla curiosità di chi si domandava chi eravamo, cosa facevamo, perché
eravamo in Mongolia… rispondemmo piano piano, quando cominciammo a invitare e
radunare la gente per le celebrazioni liturgiche, a organizzare classi di
catechismo e a svolgere attività sociali.

I primi anni sono stati tempi di sopravvivenza,
adattamento e aggiustamento alle realtà fisiche del paese e del suo popolo. Per
quel trio, sono stati anni di vero discernimento, inculturazione e prima
evangelizzazione… i primi contatti della Chiesa istituzionale con i fedeli di
altre credenze e convinzioni religiose.

Non eravamo tanto preoccupati delle difficoltà e delle
sfide che ci circondavano, come invei molto rigidi, barriere linguistiche,
mancanza di comodità, fortissima adesione della popolazione a buddismo,
sciamanesimo e islam, presenza di altre denominazioni e sette cristiane,
assenza di fedeli cattolici locali e di qualsiasi edificio sacro. Personalmente
presi tutto questo come aspetti positivi della vita missionaria. Tali condizioni
ci offrivano una sfida e un’opportunità. Eravamo fortemente convinti che quel
Dio che ci chiamava e ci mandava in Mongolia fosse presente già da tempo nelle
vite ordinarie dei fratelli e sorelle mongoli, anche prima del nostro arrivo.
Tale pensiero era uno sprone per crescere nell’apprezzamento e nella
comprensione delle realtà concrete  del
paese e della gente.

La Chiesa in Mongolia oggi

Guardando indietro a questi primi 20 anni di presenza
della Chiesa cattolica in Mongolia, siamo lieti di ripetere come il salmista: «Grandi
cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (126, 3).

Dai 3 pionieri, siamo passati a 81 missionari di 22
differenti nazionalità e di 13 istituti e gruppi religiosi diversi; da una
popolazione cattolica pari a zero, oggi sono circa 835 i mongoli entrati nella
Chiesa cattolica attraverso l’iniziazione cristiana; molti di più sono quelli
già introdotti nella fede cattolica e che sono accompagnati dai missionari con
differenti programmi di catechesi.

Con il rilevante aumento del personale (missionari e
collaboratori locali) continuano a crescere ed evolversi attività pastorali,
sociali, educative, umanitarie caritative e di sviluppo: tutti progetti diretti
al miglioramento della situazione della povera gente.

Ora la missione può vantarsi di avere 5 parrocchie e
altrettante postazioni missionarie con estesi servizi sociali; 2 centri per i
bambini di strada; una casa per anziani; 2 asili Montessori; 2 scuole
elementari; un centro per bambini disabili; una scuola tecnica; 3 biblioteche
con sale di studio e strutture informatiche; un ostello per giovani
universitarie, anch’esso dotato di sala studio e servizi informatici; vari
centri per attività giovanili; 2 cornoperative agricole; un ambulatorio con
laboratorio; un Centro di ricerca Mostaert; programmi di lingue… La Caritas
Mongolia
porta avanti programmi di escavazione e riparazione di pozzi
profondi, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, servizi e assistenza nelle zone rurali, lotta al traffico di esseri
umani. Inoltre abbiamo un centro per ritiri spirituali, centri con programmi
per alleviare la povertà, offriamo borse di studio a studenti poveri e
meritevoli di città e di campagna.

La celebrazione dei 20 anni di vita della Chiesa
cattolica in Mongolia è stata segnata da altri eventi, come l’inaugurazione
della scuola elementare della Prefettura e l’erezione della quinta parrocchia
intitolata a «Maria Madre della misericordia» (quella di Arvaiheer, vedi
pag. 47-49, ndr
). Inoltre, siamo anche felici che due giovani mongoli sono
oggi in un seminario della Corea del Sud, presso l’Università cattolica di
Daejeon, per prepararsi al sacerdozio.

Con tutto ciò, ora siamo in grado di guardare al futuro
con più fiducia e speranza. Con pazienza e determinazione siamo decisi a
raggiungere altra gente, non solo quelli che si sono già uniti a noi nella
fede, ma anche quelli di cui ci prendiamo cura anche se non sono ancora
battezzati. Tuttavia una frustrazione si sta insinuando in questa Chiesa
adolescente: circa il 23% dei battezzati non frequenta più i riti liturgici;
alcuni hanno già abbandonato la fede; un altro 15% è fuori alla ricerca di
pascoli più verdi, sperando che, dovunque si trovino, continuino a praticare
qualche forma di vita cristiana.

Guardando al futuro e alle sue sfide

Sono passati 20 anni. È difficile ora risalire a punto
in cui abbiamo cominciato. Con le trasformazioni del paese causate dall’avvento
della democrazia e dell’economia di mercato, la Mongolia si affaccia a un
futuro sconosciuto per molte generazioni di mongoli. Al momento il paese si
trova alla ribalta e attrae l’avidità di molti investitori stranieri, data la
sua ricchezza di risorse naturali. L’industria mineraria è esplosa negli ultimi
anni e sta attirando un movimento immigratorio dalle città alle zone rurali. C’è
anche un influsso di esperti e tecnici stranieri che stanno facendo le
infrastrutture e le prime operazioni di scavo.

Con lo sviluppo portato da questo fenomeno, il tenore di
vita della popolazione sta raggiungendo livelli 
elevati; ma il costo della vita e dei beni di prima necessità continua a
crescere. Per affrontare questa situazione la popolazione viene sostenuta con
sussidi da parte del governo, il quale sta già ricevendo somme considerevoli grazie
agli investimenti previsti dalle compagnie estrattive. Si può dire che le
autorità politiche stanno già usando gli «utili non ancora realizzati» dalle
attività minerarie per condividerli con la popolazione. Di conseguenza, la
maggior parte dei dividendi governativi ricavati dai profitti minerari molto
probabilmente toerà nelle tasche degli investitori una volta che le
operazioni saranno in pieno sviluppo e inizieranno a rendere.

Tale situazione pone alla Chiesa sfide tremende. Quello
che sta succedendo potrà essere di aiuto al popolo, ma di sicuro non aiuterà la
comunità cattolica che dipende dagli aiuti e sostegno dall’estero: non abbiamo
alcuna fonte di guadagno locale, dato che siamo qui come «organizzazione non
profit
». L’aumento dei salari del 53% avvenuto nel 2012 ha aggravato fortemente
le difficoltà finanziarie della Chiesa. È molto probabile che i missionari
dovranno tirare la cinghia, ridurre un buon numero di personale o chiudere
alcuni dei loro progetti.

A tutto ciò si aggiunge una considerevole diminuzione
delle donazioni dall’estero per portare avanti i nostri progetti. Le agenzie di
raccolta fondi, colpite dalla recessione economica globale, non sono riuscite a
raggiungere i traguardi degli anni scorsi. Anche i benefattori, che sentono e
leggono la propaganda sulla crescita del benessere della Mongolia danno di
meno. Con questa nuova situazione, la Chiesa deve superare ostacoli sempre più
grandi per sopravvivere.

Un’altra sfida che la Chiesa deve affrontare è la
rinascita dello sciamanesimo, la religione culturalmente radicata nella
popolazione, che propone l’adorazione della natura, cioè il tengerismo
(adorazione dei cieli blu). La gente sta tornando ai suoi costumi culturali
ancestrali e credenze tradizionali.

Infine, data la crescente richiesta di lavoratori nelle
imprese minerarie, suppongo che bisognerà cambiare le strategie di missione
della Chiesa, per aiutare quelle persone che saranno coinvolte nel processo
migratorio dalle città alle campagne.

Cosa può offrire oggi la Chiesa alla Mongolia?

Per essere rilevante, la Chiesa deve guardare più
attentamente al futuro, adattandosi alla società in celere mutamento, sotto la
spinta della democrazia, dell’economia di mercato, del materialismo e del
consumismo. Da una comunità nomade di pastori a una società di residenti urbani
e nei siti minerari, con l’aumento della forma di vita sedentaria, bisogna
adottare un nuovo tipo di apostolato e di servizio, per compiere la missione di
evangelizzazione e diffusione del Vangelo. 
Per essere percepita come necessaria, la Chiesa deve concentrarsi
nell’aiutare la gente a preservare o acquisire i valori della convivenza
civile. Questo, credo, si raggiunge infondendo i valori umani e cristiani e i
relativi comportamenti.

Stiamo attraversando una soglia, laddove la Chiesa ha
concentrato i suoi sforzi in campo sociale, umanitario e di sviluppo. Questi
ambiti di coinvolgimento rimangono attuali, dato che molte persone, sia nelle
zone rurali che tra i nuovi migranti nelle città, incontrano ancora difficoltà
nella vita economica e collettiva, a causa della mancanza di etica sociale e
dell’aumento dei prezzi dei beni essenziali. Ad ogni modo, è arrivato il
momento di rafforzare il ruolo educativo e pastorale della Chiesa. Penso che
l’istruzione, in tutte le sue varie ramificazioni, debba essere prioritaria.
Credo che qualunque sia la direzione che la Mongolia e il suo popolo vogliano
prendere, deve avvenire un cambiamento di mentalità da nomade-rurale a
cittadino sedentario. Questo può avvenire solamente con il giusto approccio e
le giuste conoscenze. La Chiesa può aiutare in questo, rafforzando il proprio
impegno nel campo dell’educazione.

Intanto la Chiesa deve mantenere con sollecitudine la
propria reputazione di comunità di accoglienza e di protettrice dei poveri,
dando sostegno morale ai bisognosi. La vita di testimonianza dei suoi fedeli,
per essere credibile e degna di fiducia, deve mostrare coerenza tra
predicazione e stile di vita cristiano… testimoniare il Vangelo e i suoi valori
con parole e fatti.

Conclusioni

Credo che questa Chiesa fiorisca con lo Spirito di Dio
che la guida. È sopravvissuta ai primi e più difficili anni della sua esistenza
grazie alla dedizione e impegno dei missionari e loro collaboratori laici, e
sono certo che continuerà a crescere con il costante impegno dei suoi agenti
pastorali e collaboratori, unito alla generosità di singoli e gruppi donatori
di altre Chiese di tutto il mondo. Siamo in debito con i nostri benefattori!
Grazie e che Dio vi benedica!

Inoltre, è assolutamente necessario un forte spirito di
collaborazione e organizzazione nell’integrare i nostri differenti carismi di
congregazioni religiose in uno sforzo e visione comune. Lo spirito di unità e
di comunione fra i missionari è un obbligo, ed è la migliore testimonianza che
possiamo offrire e trasmettere al popolo mongolo. Anche la vita personale di
ogni agente pastorale è un modo potente per testimoniare il Vangelo. Le parole
di Paolo VI sono ancora più vere nella nostra situazione: «Uomini e donne oggi
ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri. E se ascoltano i maestri è
perché sono testimoni» (Evangelii nuntiandi 41).

La Missione mongola avanza nel
futuro tenendo ben a mente il «noi» della Chiesa e della fede apostolica.
Ognuno ha un compito diverso nella vigna del Signore, ma siamo tutti compagni
di lavoro. Ciò vale oggi e per il futuro, per ogni singolo cristiano. Siamo
tutti umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo nella misura in cui ci è
consentito, secondo i nostri doni, e chiediamo a Dio che la sua Buona Notizia e
la sua Comunità ecclesiale si sviluppi oggi e nel futuro tramite «noi».

E così, al di là delle nostre funzioni effettive, questa
è la vera sfida nell’essere veri missionari, chiamati ad aiutare a trasformare
la vita di coloro con cui entriamo in contatto, in modo particolare i poveri e
i bisognosi, nel nostro ministero e nella nostra missione.

Mons.
Wenceslao Padilla

Wenceslao Padilla




4_M: Una Storia di Provvidenza

Da 10 anni i missionari
della Consolata in Mongolia
Arrivati senza progetti
prefabbricati, hanno cercato la loro via attraverso il confronto, dialogo e
discernimento: oggi i missionari e le missionarie della Consolata in Mongolia
sono 11, distribuiti in due comunità, nella capitale e nella cittadina di Arvaiheer.

Nudee adesso ha 10
anni. Il suo è un soprannome e si riferisce agli occhietti vispi che spiccano
sul suo volto minuto. Lo abbiamo conosciuto quando lottava per sopravvivere,
tra gli stenti di una famiglia troppo provata; oggi è un ragazzino vivace e
sano che ha ripreso a vivere e sperare. Guardandolo, ci viene da pensare che la
nostra presenza in Mongolia ha la sua stessa età. Compiamo anche noi 10 anni di
Mongolia: quella che ci sembra una giornata ininterrotta, neanche poi così
lunga, negli occhi di Nudee è già una vita. Breve, ma intensa, ricca di
incontri, esperienze e strade percorse.

I primi inizi

Prima di partire da Roma, di mons. Padilla sapevamo solo
che era il Prefetto Apostolico di 
Ulaanbaatar che aveva benevolmente accolto la delegazione dei missionari
e missionarie della Consolata nel 2002, di ritorno dalla Cambogia, la quale
inizialmente sembrava dovesse essere il nostro nuovo campo di apostolato. E qui
già una sorpresa, la prima di tante che la Provvidenza ha seminato nella nostra
storia: invece che in Cambogia, i nostri due Istituti scelsero la Mongolia, la
cui situazione richiedeva forze missionarie che si dedicassero
all’evangelizzazione, al dialogo interreligioso e alla consolazione dei poveri;
queste le uniche grandi linee-direttrici consegnate al primo gruppo di
partenti: i padri Juan Carlos Greco e Giorgio Marengo, le suore Lucia
Bortolomasi, Maria Ines Patino e Giovanna Maria Villa. Sì, un gruppo misto, per
espressa volontà dei due Istituti, che intendevano riprendere quella comunione
di vita e missione che li aveva visti nascere dal beato Allamano. Il gruppetto
si trovò per un mese di convivenza tra Nepi (Viterbo) e Roma, nella primavera
del 2003. E già in quei primi passi di conoscenza reciproca e formazione
sperimentò il passaggio della croce per la malattia improvvisa di padre Paolo
Fedrigoni, anch’egli destinato alla Mongolia, ma sostituito da padre Eesto
Viscardi, che raggiunse il gruppo a inizio 2004. Anche suor Sandra Garay, pur
avendo partecipato al cammino di preparazione, si unì al gruppo qualche mese più
tardi.

Il mandato delle due Direzioni Generali era essenziale:
iniziare questa nuova presenza puntando sulla comunione tra di noi e senza
troppi traguardi da raggiungere, perché quelli li avremmo scoperti insieme, sul
posto. E così partimmo: era il luglio 2003. I nostri confratelli della Corea
furono i primi a accoglierci in terra asiatica, mentre sbrigavamo le formalità
per ottenere il visto dall’ambasciata mongola di Seoul. Durante quei giorni
ricevemmo una chiamata di mons. Padilla: «Abbiamo trovato per voi due alloggi
in affitto nello stesso condominio; vi aspettiamo all’aeroporto». Pochi giorni
dopo volammo verso  Ulaanbaatar: sentendo
gli annunci in mongolo delle assistenti di volo ci chiedevamo quando mai
avremmo imparato a esprimerci in una lingua così difficile…

Fu proprio la lingua la priorità alla quale dedicammo i
primi tre anni di presenza nella capitale: tornammo sui banchi di scuola per
cercare di assimilare suoni impronunciabili e capie la grammatica, oltre che
per introdurci al mondo culturale di questo poco conosciuto paese dell’Asia
Centrale.

Vivevamo in due alloggi nello stesso condominio, nella
zona est di  Ulaanbaatar. Fu spontaneo
impostare i ritmi quotidiani su alcuni appuntamenti fissi condivisi: preghiera,
pasti preparati a tuo, incontri di formazione e valutazione. Nascevano
momenti di condivisione spontanea, vitali per persone che, provenienti da paesi
diversi e con alle spalle esperienze di missione piuttosto eterogenee, dovevano
imparare a orientarsi in un mondo del tutto nuovo e piuttosto insolito. Allora
forse non lo sapevamo, ma si stava definendo uno stile che avrebbe poi
caratterizzato questa missione: la frateità vera, declinata al maschile e al
femminile, e che supera la semplice «collaborazione», per diventare spirito di
famiglia, responsabilità condivisa nelle scelte, esperienza di crescita umana e
spirituale.

Qualcuno tra i missionari di altre congregazioni già sul
campo si stupì che non fossimo arrivati con un progetto già ben definito,
magari una scuola o un centro di salute: «E poi cosa farete? Di che cosa vi
occuperete?» era la domanda più ricorrente. Ma fu proprio questa libertà da
schemi predefiniti che ci permise di metterci in atteggiamento di attenzione e
discernimento di quale fosse la volontà di Dio per noi.

Alcune scelte importanti

Nel frattempo mons. Padilla era stato ordinato vescovo e
la piccola chiesa locale provava a darsi una prima organizzazione ufficiale.
Negli anni a seguire avremmo poi offerto un contributo determinante in questo
processo, al punto che uno di noi, padre Eesto Viscardi, è oggi Prefetto
delegato, ossia vicario generale del vescovo. Ciò che diventava gradualmente più
chiaro era la necessità di spingerci al di fuori della capitale, fino ad allora
unico vero campo di apostolato della Chiesa. In questo enorme Paese, grande 5
volte l’Italia, la Chiesa non aveva alcuna presenza stabile in zone rurali o
nei centri delle 21 regioni amministrative, eccetto un asilo infantile nella
città settentrionale di Erdenet.

Anche in questo caso non ricevemmo «ricette già pronte»;
il vescovo ci invitò a guardarci attorno, a esplorare il khudoo,
l’immensa campagna mongola. Durante le vacanze dalla scuola di lingua, in
inverno e in estate, organizzammo viaggi con fuori strada presi a noleggio e
visitammo almeno 10 regioni, quelle che ritenemmo più realistico prendere in
considerazione, situate in un raggio di 400-600 chilometri dal centro. A ogni
viaggio seguiva un incontro di valutazione, finché nel 2006 giungemmo alla
scelta di Uvurkhangai, nel suo capoluogo di Arvaiheer.

Con la presenza ad Arvaiheer si avviò una nuova fase:
l’inserimento diretto nel vissuto di una comunità. Non avevamo precedenti. Si
dovettero ottenere i permessi da parte dell’autorità locale. In Mongolia
infatti, benché la costituzione riconosca la libertà di culto, l’esercizio di
attività religiose è strettamente regolamentato da una serie di restrizioni.
Eravamo gli unici stranieri stabilmente residenti nella cittadina. Bisognava
tessere reti di relazioni amichevoli con persone di vari ambienti e
provenienze.

Tale situazione ci fece capire concretamente che
l’annuncio evangelico deve necessariamente prendere carne nella persona degli
annunciatori, accettando la gradualità e i condizionamenti di qualsiasi
relazione autenticamente umana; dovevamo renderci conto di essere «pellegrini e
ospiti» e quindi dipendenti anche noi dall’accettazione degli altri.

Nacquero piccole iniziative di avvicinamento alla vita
del paese: collaborazioni in progetti di sviluppo lanciati dagli enti locali,
insegnamento dell’inglese, volontariato in un asilo. E intanto ci chiedevamo
che forma potesse eventualmente prendere la nostra presenza, qualora ci
avessero dato il permesso. Il governo regionale si pronunciò a favore, dandoci
come una chance per verificare se davvero valeva la pena lasciarci
operare nella loro giurisdizione. Un pezzo dopo l’altro si veniva componendo un
mosaico, che capimmo solo dopo: ci diedero in uso un terreno a ridosso della
strada statale, all’ingresso del paese; pochi mesi dopo cambiarono idea e
finimmo dove sorge ora la missione: una zona periferica e piuttosto isolata, ma
che si sta progressivamente popolando. Poi la grande gher della cappella
e quella del doposcuola (2007), il centro missionario in muratura (2008), il
locale per le docce pubbliche (2010) e infine gli spazi per gli incontri e
l’ospitalità (2012).

Il frutto più bello di questo cammino è la nascita della
piccola comunità cristiana, fatta di persone che dalla curiosità sono passate alla
ricerca e infine al catecumenato e al battesimo. Il 17 giugno il vescovo l’ha
elevata a parrocchia, dedicandola a «Maria, Madre di Misericordia». E così
abbiamo scoperto quanto sia attraente il Vangelo e come lo Spirito di Dio parli
nell’intimo dei cuori, per condurre alla pienezza di vita nella fede. Storie a
volte incredibili di persone che si sentono attratte dal Signore, sperimentano
una pace «diversa» quando vengono a pregare nella grande tenda-cappella,
scoprono la riconciliazione reciproca e con Dio e riescono a uscire dalla
schiavitù dell’alcornol: solo Dio può tessere così la trama delle nostre vite e
noi siamo qui a riconoscere il suo passaggio e renderlo manifesto.

Dal centro alla periferia

Contemporaneamente agli sviluppi di Arvaiheer, la comunità
di Ulaanbaatar accoglieva le missionarie e i missionari in arrivo e li
accompagnava nel primo inserimento. Ma già fin dai primi anni ci misurammo con
la formazione di una piccola comunità cristiana nascente, in un quartiere
periferico della capitale, vicino all’aeroporto. Anche qui si creò un gruppo,
che faceva capo alla parrocchia più vicina, nel territorio in cui viviamo;
diverse di quelle persone divennero poi punti di riferimento perché altre
incontrassero il Vangelo: due ragazze sono oggi in formazione nelle Filippine,
per diventare catechiste qualificate a servizio della Prefettura Apostolica.

Oltre allo studio della lingua e cultura, abbiamo sempre
cercato di offrire un contributo qualificato alle attività della Chiesa locale:
catechesi, incontri formativi, assistenza ai poveri, collaborazioni con gli
uffici della Prefettura. Nel tempo ci sembò che il nostro servizio in città
potesse anche prendere la forma di un apostolato diretto, in una zona dove non
ci fossero ancora presenze cattoliche.

Anche questa volta portammo avanti una riflessione
comunitaria, per pianificare la nuova apertura in contesto cittadino. Facemmo
un’accurata ricerca sul campo, che ci portò a individuare nella periferia nord
della città l’area di un futuro inserimento. Solo recentemente abbiamo concluso
una lunga trattativa per l’acquisizione di un terreno in quella zona, piuttosto
degradata, dove speriamo di avviare presto la nostra presenza; la
frequentazione della gente del luogo e il vivere lì ci daranno elementi validi
per disceere come realizzare il centro di «spiritualità ed evangelizzazione»
che ci sembra di poter offrire alla Chiesa in Mongolia. Quando le forze
missionarie lo consentiranno, esso potrà offrire occasioni di primo annuncio e
attenzione ai poveri; nelle nostre intenzioni rappresenterà anche la possibilità
di ritirarsi dal caos del centro cittadino per ritrovare se stessi nella
preghiera e condivisione.

La tenda della Consolata

Dieci anni di presenza in un paese dalla storia
millenaria sono come una goccia d’acqua. Intanto però la Consolata ha potuto
piantare la sua tenda nella terra di Gengis Khan. È questo un paese dove
l’inserimento può essere pesantemente condizionato dal clima molto freddo,
dalla peculiarità e complessità dei riferimenti culturali (p. es. la lingua) e
dal carattere rarefatto delle relazioni, vista la bassissima densità di
popolazione. Il senso di isolamento che si avverte può essere molto forte.
Eppure ci sentiamo enormemente arricchiti da tutto questo.

L’immagine biblica che forse più ci accompagna è quella
del piccolo seme gettato nel campo; essa esprime bene quello che sperimentiamo
di fronte alla sproporzione tra le esigenze della missione e la nostra povertà.
Ma abbiamo toccato con mano quanto tale povertà possa diventare feconda, se
messa nelle mani di Colui che guida la storia e le nostre vite. E allora
continuiamo il cammino, da fratelli e sorelle, sperando di incrociare un giorno
lo sguardo adulto del nostro Nudee.

P. Giorgio
Marengo

Giorgio Marengo




EMI 1: Missione di carta L’editrice Missionaria Italiana compie 40 anni

Questo dossier, oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

40 ANNI BEN PORTATI

Unica nel panorama mondiale, la Emi, Editrice
missionaria italiana, nasce dall’intuizione e dalla caparbietà di alcuni
religiosi di quattro istituti missionari agli inizi degli anni ‘70. L’unione di
quattro case editrici è una sperimentazione che si rivela vincente.

L’editrice mette su carta storie missionarie, ma anche
diritti umani, idee innovative, nuovi stili di vita per un mondo più giusto,
equo ed eco compatibile. Senza trascurare i titoli di geopolitica riguardanti
paesi più o meno sconosciuti del mondo e crisi inteazionali. E tutto con un
angolo visuale molto particolare, dettato anche da una conoscenza approfondita
del terreno e delle problematiche.

La Emi diventa ben presto strumento di comunicazione e
di produzione di «cultura missionaria» in Italia. E non solo di cultura
missionaria, in quanto molto importante è il sodalizio con associazioni e
movimenti della società civile italiana, che trovano nella Emi un valido
alleato.

La Emi resiste alle crisi, e oggi
compie 40 anni di attività.

Per questo motivo, insieme alle
riviste «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Nigrizia», «Missioni Consolata»
ha deciso di dedicare all’evento un piccolo spazio di riflessione. Nasce così
questo dossier, che oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

Terminiamo con un augurio di altri 40 anni sempre sulla «cresta
dell’onda».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




EMI 2: Pagine “missionarie”

1973 – 2013: storia di una
piccola-grande casa editrice

Era il 1973. All’inizio furono in
quattro. Oggi gli istituti missionari che sostengono la Emi sono 15. Grazie ad
alcune intuizioni precise, la casa editrice seppe riempire uno spazio culturale
prima vuoto. L’attuale crisi dell’editoria la scuote, ma l’Emi sa rinnovarsi.
Parlano i testimoni di ieri e di oggi.

Ha fatto conoscere al pubblico i
volti dei grandi protagonisti della chiesa, del mondo missionario, delle
religioni. Ha anticipato l’attenzione di massa su temi caldi come la giustizia
e la pace, la salvaguardia del creato, i nuovi stili di vita, il dialogo tra le
fedi. Di più: negli scritti dei pionieri e anticipatori della sua avventura,
per prima diede voce ai popoli di quello che allora veniva chiamato «il terzo
mondo», e riuscì a focalizzare i riflettori mediatici su di esso, sulle sue
emergenze – la fame, l’anelito all’indipendenza – e soprattutto sulle sue
ricchezze, a cominciare dalla rivendicazione del proprio protagonismo. L’Emi, Editrice missionaria italiana, ne ha fatta di strada negli
ultimi quarant’anni.

L’unione fa la forza

Ad aprile questa vitale espressione
degli istituti ad gentes italiani festeggerà l’anniversario di
quell’esperimento che – era il 1973 – vide in prima fila Comboniani, Missionari
della Consolata, Pime e Saveriani.

L’idea era ridare slancio a una
proposta culturale avviata negli anni Cinquanta da alcuni membri dei quattro
istituti, le cui case editrici avevano cominciato a curare insieme una collana
di teologia della missione e una per la conoscenza dei popoli. «In quegli anni
si viveva un entusiasmo missionario oggi inimmaginabile», ricorda padre Piero
Gheddo, del Pime, tra i promotori di quella primissima iniziativa insieme al
saveriano Walter Gardini. «In quel clima, favorito da tre encicliche, la Evangelii
praeconese,
la Fideidonum di Pio XII e la Princeps pastorum
di Giovanni XXIII, nacquero anche la Federazione della stampa missionaria
italiana (Fesmi), i primi congressi del laicato missionario italiano, l’équipe
di visitatori missionari dei seminari italiani – continua padre Gheddo – e,
ancora, assistemmo alla partenza dei primi sacerdoti fidei donum, nel
1957, o alla nascita delle “Settimane di studi missionari” dell’università
Cattolica, nel 1960».

A metà degli anni Sessanta,
tuttavia, le pubblicazioni unitarie degli istituti missionari cominciarono, per
varie ragioni, a languire. L’entusiasmo originario si era affievolito, forse
anche per la sensazione di un diminuito interesse del pubblico. Fu allora che
entrò in gioco un giovane comboniano, padre Ottavio Raimondo, che nel ’67 era
stato assegnato dai suoi superiori alla casa editrice Nigrizia.

Padre Raimondo riuscì a vincere lo
scetticismo degli altri missionari coinvolti nell’edizione delle due collane
comuni, per fare un tentativo nuovo: «Nel 1973 i quattro istituti maschili
decisero di congelare per quattro anni le rispettive editrici, per farle
confluire tutte nell’Emi, senza però che ancora avesse una personalità
giuridica», racconta padre Ottavio, che sarebbe poi diventato il direttore «storico»
dell’editrice missionaria, guidandola per 21 anni.

«Ci dicemmo: “Vediamo se funziona,
altrimenti toeremo ognuno alle nostre attività”». Invece, indietro non si
toò più. I primi anni di attività diedero subito frutti positivi, e il 17
novembre 1977 nacque la cornoperativa Sermis (Servizio missionario), con lo scopo
di dare autonomia giuridica all’Emi, la cui sede fu fissata a Bologna, e tenere
aperta la porta ad altre iniziative in campo culturale (come sarebbe successo
nel 1997, con la nascita dell’agenzia di stampa Misna).

Ben presto, ai quattro soci
fondatori si aggiunsero altri istituti, maschili e femminili, fino a
raggiungere il numero attuale di quindici: Società Delle Missioni Africane, Missionarie
di Nostra Signora degli Apostoli, Missionarie Comboniane, Padri Bianchi
(Missionari d’Africa), Verbiti, Missionarie della Consolata, segretariato
unitario per le missioni dei Cappuccini, Missionarie Secolari Comboniane, Comunità
Redemptorhominis, Missionarie dell’Immacolata e Saveriane.

Le intuizioni

«Le nostre intuizioni più
importanti, in origine, furono due», spiega padre Ottavio facendo un bilancio
di questi decenni. «Da una parte, gli istituti si resero conto che per incidere
nella realtà italiana, portando sul territorio l’idea della missione, dell’alterità, della diversità, era necessario unirsi,
sia per ottimizzare le energie sia per ovviare a una certa auto referenzialità
di ognuno. Dall’altra, l’Emi diede spazio alle voci delle giovani chiese del Sud del mondo, di cui, negli anni del
dopo Concilio, si sentiva il bisogno di conoscere la grande vitalità e
ricchezza.

Traducevamo i documenti delle
Conferenze episcopali. Ricordo che pubblicammo gli atti della Conferenza
dell’Episcopato latinoamericano di Puebla, nel ’79, prima ancora che uscissero
localmente!».

Negli anni seguenti, secondo padre
Ottavio, furono altre due le intuizioni che fecero dell’editrice dei missionari
una ricchezza per l’intera società italiana: «Si tratta della dimensione dell’interculturalità, che approfondimmo dagli anni
Ottanta, soprattutto grazie all’impulso del Centro saveriano di animazione
missionaria
e del suo Centro di educazione alla mondialità, e del
tema dei nuovi stili di
vita, che
sviluppammo negli anni Novanta, in particolare con l’apporto del Centro
nuovo modello di sviluppo
, cornordinato da Francesco Gesualdi (vedi articolo)».

Quando padre Ottavio riprese la
guida dell’Emi al rientro dalla lunga parentesi missionaria in Messico, dal ‘79
al ’93, era stata data alle stampe la prima edizione della «Guida al consumo
critico», destinata a diventare un bestseller da 200 mila copie. Fu
quello il periodo in cui l’Emi divenne catalizzatrice di un’attenzione che
cominciava a esprimersi in alcuni settori della società su temi appunto come
stili di vita alternativi al modello consumistico, finanza etica, problematiche
ecologiche: un’attenzione che solo più tardi sarebbe stata fatta propria anche
dai grandi editori.

Molti dei titoli di questo filone,
con il loro successo di vendite, aprirono all’editrice missionaria anche le
porte delle grandi librerie laiche e dei circuiti legati alle manifestazioni
dell’associazionismo, alle fiere, alle botteghe del mondo.

Un altro fronte che portò ottimi
risultati fu quello dei libri di testo per l’insegnamento della religione
cattolica. Il trend positivo continuò fino alla metà degli anni Duemila.
Ma lo spettro della crisi economica cominciava ad aleggiare.

Arriva la crisi

«Arrivai alla direzione dell’Emi in
un momento di passaggio non solo della nostra struttura, bensì globale»,
racconta padre Giovanni Munari, comboniano, che dopo trent’anni di missione in
Brasile prese le redini della casa editrice nel 2008. «La crisi ebbe degli
effetti pesanti su di noi, in modo diretto ma anche indiretto, visto che negli
ultimi anni avevamo lavorato molto con il mondo dell’associazionismo e vari
temi al centro dei nuovi titoli erano espressione della riflessione e delle
proposte provenienti proprio da quel mondo». Linfa di cui, negli ultimissimi
anni, i problemi economici hanno bruscamente interrotto il flusso.

«Ci siamo resi conto così che dovevamo
cercare di ritagliarci uno spazio nel mercato editoriale, che oggi è fortemente
competitivo, attraverso una serie di riforme, dagli aspetti grafici a quelli
contenutistici fino alla fisionomia delle collane», continua Munari. Una sfida
affrontata con successo, se è vero che la neo – quarantenne editrice è riuscita
a sopravvivere all’emergenza senza aiuti estei e continua ad aggiungere tra i
50 e i 60 libri ogni anno al suo catalogo, che oggi comprende oltre ottocento
titoli (dai volumi per l’infanzia alla recente collana di narrazioni).

Ora, però, è necessario guardare
avanti. Ma nell’attuale panorama editoriale e mediatico può esserci ancora
spazio per un’editrice missionaria? Il nuovo direttore dell’Emi Lorenzo
Fazzini, primo laico a occupare questo posto, è convinto di sì. «La narrazione
della missione, le tematiche dei nuovi stili di vita, il lavoro costante
sull’educazione, la prospettiva interculturale e interreligiosa sulle grandi
questioni contemporanee sono le peculiarità dell’Emi che si rafforzano oggi,
nell’epoca in cui la globalizzazione è un dato accertato, che non va subìto
passivamente, soprattutto dal punto di vista culturale e tanto più ecclesiale»,
afferma Fazzini. Certo serve «un surplus di fantasia, innovazione,
creatività, nella convinzione che la prospettiva missionaria, che tiene conto
del punto di vista dell’altro, che è costantemente in dialogo, che vive alla
frontiera dell’annuncio cristiano, è un arricchimento ineguagliabile per la
Chiesa ma anche per la società stessa».

La sfida è «rintracciare nuove
strade e intuire i luoghi della cultura di frontiera e di fecondità
significativa per l’annuncio missionario». Per farlo, l’intenzione è tornare a
puntare l’obiettivo sulla ricchezza – in termini di nuove prospettive di
indagine, riflessione e azione – che può venire dai paesi di missione. Fazzini
cita, tra l’altro, un personaggio come l’ex primo cittadino di Bogotà Ananas
Mockus, «esempio virtuoso di “anti politica” e di un civismo amministrativo
tutto da scoprire», la cui storia è raccontata dal volume di Sandro Bozzolo, «Un
sindaco fuori del comune», ma anche il neo cardinale di Manila Luis Antonio
Tagle, di cui Emi sta per pubblicare il primo libro in italiano, «Gente di
Pasqua». «Personalità e questioni “periferiche”, se affrontate con qualità,
possono diventare vincenti in quanto esemplificative di una cultura non
omologata». La missione, insomma, ha ancora pagine da scrivere.

Chiara Zappa

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Chiara Zappa




EMI 3: L’Immagine del Missionario

Tre intellettuali «leggono» la missione in italia
Una società che cambia. Un ruolo e un’immagine quelli
dei missionari, che attraversano i secoli. Ma cosa sono oggi i missionari
nell’immaginario collettivo italiano? Lo abbiamo chiesto a personaggi «non
sospetti».

Come sta cambiando, nel nostro paese, l’immagine dei
missionari e della missione? Vale a dire: a mezzo secolo dal documento
conciliare Ad gentes e dalla definitiva decolonizzazione, a oltre venti
dalla fine dell’utopia comunista e oltre dieci dall’11 settembre 2001, nel
contesto di un mondo in fuga (T. Giddens) e sempre più globalizzato. E mentre
la storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove
stiamo andando.

Le prime grandi missioni delle chiese cristiane fuori
dall’Europa – dopo la stagione pionieristica del primo millennio d.C. – erano
intrecciate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo: spagnoli e
portoghesi portavano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e
inglesi i loro missionari protestanti.

I missionari potevano, di volta in volta, sostenere o
criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si
stava dirigendo: verso il dominio occidentale del mondo. Verso la civiltà
cristiana. Un dato che, in ogni caso e al di là della buona fede dei singoli,
determinò il panorama della scena missionaria.

Nella seconda metà del secolo scorso, la missione si è
venuta a trovare in un nuovo contesto: il conflitto tra i due blocchi di
potenze, quello orientale e quello occidentale, tra il comunismo e il
capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del
proletariato e altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma tale conflitto
rappresentava il palcoscenico inevitabile dell’opera missionaria.

Ora, i missionari non vengono più
mandati per nave verso paesi sconosciuti e, quasi ovunque, non sono più lontani
che un giorno di viaggio. In un quadro così frastagliato, quanto e com’è mutato
l’immaginario collettivo sul missionario e la missione in Italia (un paese che
sta vivendo la stagione di passaggio dalla religione unica degli italiani
all’Italia delle religioni)? Abbiamo cercato di capirlo interrogando alcune
personalità illustri della cultura laica nazionale: Salvatore Natoli, Annamaria
Rivera e Giuliano Vigini.

L’esperto e il filosofo

Per Giuliano Vigini, uno dei nomi più noti
dell’editoria, dalla vasta attività critica e bibliografica, l’impegno
missionario di religiosi e laici che operano in Italia ha un duplice effetto: «Da
un lato, quello di essere sempre uniti, in una tensione costante di fede e
carità, a tutti coloro che in tanti paesi offrono la loro vita per la
predicazione e la testimonianza al vangelo: orizzonte e paradigma di ogni
attività ecclesiale, come ha ribadito anche di recente Benedetto XVI». In tal
senso, «tutti coloro che, con la preghiera, il sostegno economico e l’impegno
diretto, cornoperano alla missione e insieme contribuiscono in Italia alla
formazione di una coscienza missionaria, sono come dei costruttori di ponti che
collegano e avvicinano mondi lontani, facendoli sentire parte integrante della
vocazione e della vita della Chiesa».

Dall’altro lato, si tratta di «essere attivamente
impegnati in questa terra di missione che – come tanti altri paesi di antiche
radici cristiane – è diventata l’Italia, anch’essa dunque da rievangelizzare
per essere restituita alla fede viva del vangelo». Peraltro, «in questa società
sempre più crocevia di fedi, lingue e culture, il missionario è chiamato anche
a nuovi compiti: l’ascolto e il dialogo religioso e interculturale, la
partecipazione ai problemi e alle sofferenze della gente, la solidarietà sempre
più generosa verso i più poveri, antichi e nuovi».

A parere di Salvatore Natoli, docente di filosofia
teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, un pensatore dichiaratamente
laico eppure aperto al confronto con le istanze cristiane, per cogliere
l’immagine del missionario occorre evidenziare due aspetti, complessivamente in
sintonia con quanto sostiene Vigini: «Prima di tutto, visto il sempre più
profondo processo di secolarizzazione, egli è colui che s’impegna per la nuova
evangelizzazione, dato che viviamo ormai in una terra pagana. In secondo luogo,
il missionario è poi colui che si propone di fornire delle risposte sensate ai
nuovi bisogni, cercando di porre un freno alla dilagante miseria, di carattere morale
e materiale, impegnandosi dunque in un’opera di misericordia morale o corporale».

Riguardo all’interrogativo su quale immagine dei
missionari abbiano i nostri connazionali, Vigini ammette che, non conoscendo
indagini o sondaggi in tal senso, gli è possibile semplicemente esprimere una
sensazione personale: «Gli italiani, orientati in questo senso anche da tante
trasmissioni e immagini televisive, vedono prevalentemente il missionario
impegnato in attività filantropiche e sociali. Costruiscono case, ospedali,
scuole; si curano della miseria, delle malattie e delle necessità di tante
persone che, senza la loro presenza e il loro lavoro, sarebbero abbandonate a
se stesse. Per questo loro impegno, i missionari sono certamente apprezzati e
aiutati dagli italiani». Tuttavia, egli conclude che «tutto questo rischia di
mettere un po’ in ombra, nell’opinione corrente, l’obiettivo religioso primario
della loro vocazione».

Secondo Natoli, presso gli italiani la figura del
missionario – non dandosi oggi, in realtà, una riflessione significativa al
riguardo – risulta molto più sfumata, rispetto al passato: «Peraltro, ho
l’impressione che si conceda loro una larga fiducia, particolarmente sotto il
profilo di esercitare un’assistenza alle popolazioni coinvolte». Per questo,
alla fine, il loro giudizio pare a Natoli comunque positivo.

Infine, ma non da ultimo per importanza, è lecito
domandarsi quanto l’azione dei missionari in vari ambiti (lotta alla fame nel
mondo, nuovi stili di vita, beni comuni, mondialità, dialogo interreligioso,
lotta al razzismo…), raccontati anche attraverso la Emi, sia servita per
diffondere sia tali temi sia la loro voce in Italia. Secondo Vigini, è
innegabile che tale azione sia servita, e non poco: «Quanto i missionari fanno
in molti campi è servito in particolare a radicare negli italiani due
convincimenti: che pochi come loro si spendono per il bene degli altri e che ci
si può fidare di loro, perché sono testimoni credibili». Mentre «sarebbe anche
importante far capire la radice e lo spirito del servizio che i missionari
svolgono per il bene della chiesa e dell’uomo».

Più articolata la riflessione di Natoli in proposito: «Il
missionario ci permette di fare un’opera di transfert: piuttosto di
impegnarmi in prima persona in un cambiamento individuale, è più semplice fare
l’offerta al missionario, cosa che ci fornisce sollievo pur non producendo una
trasformazione interiore». Alla fine, il rischio è di procurarsi un alibi,
perché «monetizzare la carità è facile, in quanto ci evita di entrare in
contatto diretto con la sofferenza».

L’antropologa

Intriganti sono poi le considerazioni di Annamaria
Rivera, antropologa, saggista, scrittrice, docente di etnologia e di
antropologia sociale presso l’Università di Bari, editorialista per i quotidiani
Il Manifesto e Liberazione, che, interrogata in merito, afferma: «Fino
ad alcuni anni fa i missionari erano per me principalmente quelli di cui si
parla nella letteratura antropologica. Ciò che sapevo di loro riguardava,
dunque, lo straordinario contributo alla conoscenza delle lingue locali, il
patrimonio d’informazioni e conoscenze sulle più varie popolazioni e culture
esotiche, accumulato nel corso dei secoli, la redazione delle prime monografie
etnografiche, quindi il contributo implicito alla nascita dell’antropologia: la
disciplina che ho insegnato per alcuni decenni nell’università e che pratico
nel lavoro di ricerca.

Sapevo anche del loro rapporto complesso con
l’espansione coloniale: dapprima strenui oppositori del sistema schiavistico e
appassionati difensori dei diritti delle popolazioni indigene, poi – in epoca
contemporanea, quando si generalizzarono i movimenti per l’indipendenza dei
popoli colonizzati compromessi talvolta con il colonialismo. E tuttavia la loro
vocazione universalista, mutuata dal cristianesimo, il più delle volte li mise
al riparo dai miti nazionalisti e dalle loro conseguenze nefaste».

Nel 2006, ad Annamaria capita di trovarsi a tenere una
conferenza durante un convegno organizzato da un mensile missionario, sia pure sui
generis
: «Dei missionari avevo dunque un’esperienza per lo più indiretta e
libresca nonché scarsamente aggiornata al tempo presente. Finché fui invitata
come relatrice in uno dei convegni del Cem Mondialità, a Viterbo. Fu
un’esperienza inaspettata ed entusiasmante poiché vi trovai molto di ciò che
credevo irrevocabilmente perduto con la fine degli anni ’70 e del quale
conservavo acuto rimpianto: la capacità di rendersi comunità – almeno per
alcuni giorni – condividendo convivialità e calore umano, ma anche competenza,
spirito critico, non conformismo, insieme con il senso della ricerca e
dell’impegno, dell’ironia e del gioco. Vi trovai soprattutto un’attitudine che
sembra ormai perduta nella nostra società (intendo dire nei più vari ambienti
professionali, sociali e politici dell’Italia dei nostri giorni): l’interesse
verso l’altro/a e la tendenza a valorizzarlo/a e a valorizzarsi reciprocamente.

Fu in quella occasione che conobbi un saveriano, padre
Domenico Milani. Ne fui colpita: il gran vecchio, sagace e dolce, con un gran
senso dell’umorismo, sapeva raccontare in un modo che non poteva essere più
accattivante. Narrava dei suoi incontri con donne e uomini africani,
soprattutto congolesi, con una leggerezza pari alla drammaticità della loro
condizione. Più tardi, prendendo a pretesto una visita alla preziosa collezione
etnografica conservata nel rifugio silenzioso e solenne dei saveriani di Parma,
riuscii a incontrarlo e a salutarlo per l’ultima volta».

Gli hippies della missione

Non fu, quello, peraltro, l’unico suo rapporto con il
mondo missionario: «In seguito ho avuto altre occasioni per partecipare alle
iniziative ispirate dai saveriani: un articolo per Missione oggi e
ancora altri appuntamenti di Cem Mondialità. Fino al più recente, il 17
marzo 2012, dedicato ai Nuovi spazi dell’intercultura, quando fui
invitata a parlare delle nuove forme di razzismo in Italia e dei possibili modi
per contrastarlo e superarlo, fra i quali le pratiche interculturali. Come
sempre, il convegno fu arricchito da momenti conviviali e da una performance
teatrale interattiva. Anche quest’ultima all’insegna dell’imprevedibile, del
non convenzionale, perfino dello spiazzante.

Fu mia figlia, che avevo coinvolto nella performance, a
offrirmi una chiave possibile per definire quello stile – al tempo stesso laico
e spirituale, impegnato e lieve, inteazionalista e comunitario – di leggere e
vivere la realtà. Con una battuta ironica e folgorante: “Sono dei veri hippie
e non hanno bisogno di droghe!”». Fino a concludere: «A pensarci bene, in fondo
quella di mia figlia non era solo una boutade. A caratterizzare il
movimento hippie, infatti, furono il pacifismo integrale, il senso
comunitario, l’esaltazione dell’amore e della fratellanza, l’ideologia mite e
non dottrinaria, la matrice spirituale attinta al pensiero di Gesù Cristo,
Buddha, Francesco d’Assisi, Gandhi…; nonché la controcultura che privilegiava
la performance, il teatro di strada, la musica popolare».

Ecco. Senza pretese di esaustività, ovviamente, qualche
idea in più ce la siamo fatta. Anche se il mosaico è lungi dall’esser esaurito,
e le sfaccettature della figura del missionario di oggi, sospeso tra una società
di fatto postcristiana e un Dio che sta cambiando indirizzo, posizionandosi
sempre più spesso a Sud dell’Equatore, sono – ammettiamolo – ben difficili da
afferrare pienamente.

Brunetto Salvarani

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Brunetto Salvarani




EMI 4: Consumo, da critico a responsabile

Incontro con Francesco Gesualdi
Parla il
curatore del best seller della Emi, la
Guida al consumo critico
. Realizzata la prima volta nel 1996 dal Centro
nuovo modello di sviluppo, riscuote subito un grande successo. Arriva alla
sesta edizione in dodici anni. Ma che attualità c’è nel suo messaggio?

«Ci chiamiamo Centro nuovo
modello di sviluppo
(Cnms), ma siamo tre famiglie. Viviamo insieme da venti
anni, ma non siamo una comunità. Naturalmente crediamo nel valore della vita in
comune, ma non siamo pronti per questa scelta. Del resto, quando siamo partiti,
alla fine degli anni ’70, eravamo animati essenzialmente da ragioni di
efficacia sociale e politica». È questo l’incipit della presentazione
del noto Centro di Vecchiano, in provincia di Pisa. Il Cnms cornordinato da
Francesco Gesualdi, uno dei fondatori, ha iniziato le sue attività nel 1985 ed è,
negli anni, diventato una voce autorevole, riconosciuta per la sua serietà e
l’accuratezza delle informazioni.

Da subito il gruppo è cosciente
della «necessità della politica per rimuovere le cause profonde che generano
disagio ed emarginazione». Poi l’intuizione che caratterizzerà il lavoro del
Centro: «Così abbiamo capito l’importanza strategica del consumo e abbiamo
cominciato a chiederci come potevamo trasformarlo da strumento di complicità
con gli oppressori a strumento di liberazione per gli oppressi». Nasce il
concetto di «consumo critico».

Il Centro e la Emi

Dopo i primi anni di studio
iniziano le pubblicazioni del Centro, che hanno larga diffusione tra i
movimenti della società civile e ambientalisti. In questa fase il sodalizio con
la Emi è fondamentale.

Molti sono i titoli. Tra i più
famosi: Nord-Sud: predatori, predati e opportunisti (1997), Geografia
del supermercato mondiale
(1997), Lettera ad un consumatore del Nord
(1998) e tanti altri.

Ma il cavallo di battaglia del
Centro è senza dubbio la Guida al consumo critico, un compendio unico di
istruzioni pratiche e indicazioni per consumare criticamente e in modo equo. La
prima edizione è pubblicata dalla Emi nel 1996, per arrivare alla sesta nel
2011.

«Bisogna passare dal consumo
critico al consumo responsabile dove la sobrietà fa da sfondo a ogni scelta».
Si legge nella presentazione dell’ultima edizione.

Il concetto portante è: «La
politica si fa ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di
lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero, quando ci si sposa.
Scegliendo cosa leggere, come, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come
viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico
sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche,
contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia
solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca».


Incontro con l’autore

Ci siamo intrattenuti con
Francesco Gesualdi, prolifico autore della Emi, per avere la sua visione del
momento attuale e delle prospettive per l’editoria missionaria.

La collaborazione tra il Centro e
la Emi, partita a metà degli anni ’90, si è subito rivelata vincente. Ma oggi
ci si chiede che futuro abbia l’editoria che tratta questi temi. «La piccola
editoria continua a impegnarsi per le idee innovative, quelle che si impegnano
sempre meno sono le grandi case editrici che si orientano ormai verso una
logica da supermercato: bisogna fare cassa e per questo ci dirigiamo verso gli
autori affermati, anche se perfino loro non riescono a stare sulla bancarella
per più di 15 giorni. È la novità che deve dominare e se riesco a cambiare il
prodotto invito a comprare con una maggiore frequenza. La grande editoria sta
cambiando in peggio, ha bisogno di ricambio continuo per acquisti veloci. La
piccola editoria continua a provarci, ma ha mille difficoltà, non ultima quella
di arrivare in libreria, e di non affogare in tutto ciò che si pubblica: si
parla di oltre 100 nuovi titoli al giorno in Italia.

Ogni tanto mi dico che è meglio
non pubblicare niente, altrimenti ingolfiamo l’editoria!».

Francesco Gesualdi osserva che non
è lui che può dare consigli, e continua: «Mi rendo conto che è difficile.
Sarebbero meglio pochi prodotti, ma buoni. Quindi selezionare molto bene quello
che si pubblica.

Noi come Centro continuiamo a
produrre, il nostro obiettivo non sono i soldi, ma fare circolare le idee. Le
guide al consumo critico, sono raccolte di dati che invecchiano rapidamente,
per questo sarebbe molto più agevole la via informatica che la carta stampata.
Si potrebbe aggioare con più agilità e con costi molto minori. Attualmente
non ci riusciamo, perché non abbiamo forze sufficienti».

Passiamo ad affrontare con
Gesualdi i temi «caldi» del momento.

La crisi

«La crisi che stiamo vivendo poteva
essere l’occasione per cambiare, per ridurre il peso della finanza, che sta
alla base di questa situazione. Perché è stato l’uso della finanza in maniera
totalmente avida, fino ad arrivare alle scorrettezze, a portarci fin qui.

Chi gestiva e produceva titoli
tossici, lo faceva con consapevolezza, sapeva di proporre prodotti che non
erano basati su cose sicure e chi avrebbe comprato si sarebbe poi trovato nei
guai». Ci racconta Francesco Gesualdi, che da anni si occupa di modelli
economici alternativi.

Poteva essere l’occasione buona per
mettere dei freni alla finanza, e regolamentae fortemente il ruolo. In
particolare per creare una divisione tra banche commerciali e banche di
investimento, in modo che i clienti risparmiatori normali non venissero più
messi a rischio. Porre fine alle attività rischiose delle banche e riportarle
al loro mestiere: fare credito per l’economia reale. «Si poteva impedire la
speculazione su fondi di interesse comune (i debiti sovrani) e sarebbe stata
l’occasione per mettere in discussione lo scippo della sovranità monetaria agli
stati in Europa. Questi ultimi non riescono più a giocare il ruolo sovrano
proprio di un sistema democratico perché sono in balia del mercato», continua
Gesualdi.

Negli Usa è stata varata la legge Dodd
– Frank Act
(gennaio 2010), un tentativo di mettere regole alla finanza. Ma
quando si è trattato di scrivere i regolamenti attuativi, ci sono state fortissime
pressioni affinché tutto finisse in una bolla di sapone.

«In Europa, invece, tutte le scelte
si sono fatte con l’attenzione a non pestare i piedi alle banche o agli altri
fondi della finanza. Non si è tenuto in conto l’interesse collettivo. Peggio:
ci dicono che occorre assecondare le ricette speculative dei mercati, perché
questi sono così potenti che se per caso osiamo metterci contro di loro ci
puniranno. La grande ipocrisia: farci credere che più serviamo i mercati, più
facciamo i nostri interessi, perché evitiamo il peggio. È una politica
chiaramente contro la collettività che pone tutte le premesse per andare sempre
più a fondo».

Una «conversione culturale»

Ma la crisi potrebbe anche avere
effetti positivi, come quelli di indurre la gente a consumare meno e meglio.
Secondo Gesualdi: «Questa situazione sta facendo pagare le famiglie, ma senza
che queste abbiano fatto un percorso di crescita interiore. Sarebbe positivo se
ci fosse una consapevolezza, una conversione culturale. Ma se questa è vissuta
soltanto come un’imposizione estea, una maledizione, allora c’è il rischio
che si alimenti il populismo più gretto che promette l’impossibile. Oggi invece
bisogna avere il coraggio di sfidare i mercati. Chi non lo fa (i politici, ndr)
e propone solo riduzione di tasse o si butta nel taglio delle spese dei
servizi, che quindi saranno poi pagati, ancora una volta, dalle famiglie, ci
sta prendendo in giro».

Ma il Cnms ha delle sue proposte
per contrastare i mercati?

«Primo: mettere regole che
impediscano la speculazione sul debito pubblico. Secondo: quando un popolo è in
difficoltà per diverse ragioni, non deve pagare soltanto la gente, rinunciando
ai propri diritti, ma anche i creditori, tanto più che molti di loro hanno già
lucrato sul debito pubblico. Terzo: arrivare più in là e riformare la Bce
(Banca centrale europea), facendo tornare la sovranità monetaria sotto governi
e parlamenti, affinché la moneta sia gestita per la piena occupazione e per
garantire la stabilità del sistema economico. Bisogna uscire dalla logica, su
cui è improntata oggi la Ue, per cui la moneta è gestita per permettere alle
banche di arricchirsi».

Si è visto che con un meccanismo di
decrescita i primi a rimetterci sono i lavoratori meno tutelati, che perdono il
posto di lavoro.

«Questo discorso vale se il quadro
di riferimento continua a essere questo sistema, basato sugli interessi delle
imprese e messo al loro servizio: è ovvio che i primi a rimetterci sono i più
deboli.

Non è possibile parlare di decrescita
senza mettere mano all’impostazione del sistema economico, con ristrutturazione
forte del ruolo del mercato, dell’economia pubblica e della moneta.

Occorre progettare un sistema
economico che funzioni secondo altri criteri. E non basta orientarsi verso una
vita più sobria, più eco compatibile a livello di singola famiglia. Dobbiamo
ripartire dalla domanda: qual è la funzione dell’economia? Se l’obiettivo è
vivere tutti in maniera dignitosa, sappiamo di dover rispettare una serie di
limiti che ci impongono il pianeta e gli impoveriti della terra. Loro hanno
diritto di accrescere il proprio consumo e la propria produzione, ma potranno
farlo soltanto se noi accettiamo di sottoporci a una cura dimagrante».

Lavoro ed economia pubblica

Secondo il fondatore del Cnms
occorre introdurre dei cambiamenti di carattere culturale, a partire dal
lavoro.

Si chiede: qual è la funzione del
lavoro? Se l’unica strada per soddisfare i nostri bisogni è il mercato, la
funzione del lavoro è guadagnare un salario, perché per entrare nel mercato
abbiamo bisogno di denaro. Allora dobbiamo vendere il nostro tempo.

«Per ribaltare questa logica diremo
che la funzione del lavoro non è guadagnare un salario ma garantire i nostri
bisogni. Altre possibilità si realizzano attraverso il «fai da te», ma anche la
solidarietà collettiva. Un luogo dove non si compra nulla, ma si ottiene
qualcosa grazie a un patto di solidarietà che abbiamo fatto al nostro interno»
sostiene Gesualdi.

«È il principio dell’economia
pubblica. La domanda nuova è come farla funzionare senza che essa dipenda  dalla crescita generale dell’economia.

Io dico che bisogna eliminare la
dipendenza dell’economia pubblica dal denaro, perché è questo che la tiene
legata al resto dell’economia.

Ci vuole un altro modo di concepire
la partecipazione, che non si fermi a eleggere i nostri rappresentanti nelle
istituzioni, ma si spinga fino al coinvolgimento nei servizi. Questo richiede
che ci sia una certa organizzazione, un apparato di apprendimento.

Ma il problema più serio è la
nostra chiusura mentale: noi non accettiamo che ci possa essere una dimensione
collettiva alla quale dedicare parte del nostro tempo. È così fuori dal nostro
immaginario che la viviamo come un’oppressione infinita».

Idee queste sperimentate in
piccolo, in comunità e gruppi circoscritti di persone, molto difficili da
estendere a livello paese. Dice Gesualdi: «Dobbiamo ricostituire le comunità.
Poi il livello organizzativo dipende dal tipo di servizio considerato. Ci sono
dei servizi che partono dal condominio. Ad esempio gli anziani: si può dare una
risposta a livello condominiale, se gli abitanti sono disposti a farsi carico
delle situazioni di bisogno degli anziani che vivono nel palazzo. Ci sono
alcuni che necessitano di assistenza specializzata, altri hanno bisogno che si
faccia loro la spesa, o che si tenga loro la cucina pulita.

Possiamo immaginare di risolvere il
problema degli anziani con un esercito di assistenti domiciliari pagati? Non lo
può fare neanche la ricchissima Svezia. O ci inventiamo un altro tipo di
coinvolgimento oppure andremo verso il degrado sociale più spaventoso. I
livelli organizzativi vanno adattati a quella che è la peculiarità del servizio
da garantire. Tanti servizi vanno riportati al livello micro del territorio,
compreso quello sanitario. Parlando di cura, molte malattie sono banali e si
possono curare nel piccolo centro, con pochi posti letto. Oggi questa logica
non è pensabile perché ci scontriamo con la questione dei costi: l’aspetto
monetario diventa ostacolo. Con strutture che diano servizi gratuiti, e nel
contempo godano anche di lavoro gratuito, il problema monetario non ci sarebbe
più.

Penso a migliaia di microstrutture
a livello di comunità che replicano lo stesso servizio e soddisfano quindi i
bisogni».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello