4_Schiavitù: Vergogna del XXI secolo

Dalla Mostra «spezziamo le catene»  



A 125 anni dalla famosa campagna antischiavista del cardinal
Lavigerie con l’obiettivo di fermare l’ignobile «commercio dei negri»,
nonostante la tratta sia bandita in tutti gli stati del mondo, la schiavitù
continua in altre forme più sottili e più inumane, costituendo uno degli affari
più redditizi. Per ravvivare la denuncia di tale fenomeno, riportiamo alcuni
episodi e forme di schiavitù illustrate dalla mostra «Spezziamo le catene»
organizzata dai Missionari d’Africa e Missionarie di N.S. d’Africa, con la
collaborazione della redazione di Africa, rivista dei Padri Bianchi.

I NUOVI TRAFFICANTI

Una barca stipata di migranti, intercettata da una
motovedetta della Gardia di Finanza a Lampedusa. La crisi economica che
flagella l’Europa meridionale non frena il flusso di gommoni e imbarcazioni
provenienti dalle coste nordafricane. Solo nel 2012 oltre 1400 persone – in
fuga da guerre e povertà – sono giunte via mare in Italia. Almeno 200 sono
morte o rimaste disperse durante la traversata. Le rotte dell’immigrazione
illegale sono controllate da scafisti criminali – i modei trafficanti di
esseri umani – che vendono i «viaggi della speranza» per non meno di 2.500
dollari.

MERCANTI DI BAMBINI

Un camion carico di baby-schiavi, scoperto e bloccato
dalla polizia di frontiera nigeriana. In Africa occidentale prospera ancora
oggi un traffico clandestino di bambini e bambine – provenienti soprattutto da
Togo, Benin e Camerun – che vengono rapiti o acquistati da bande criminali, per
essere smerciati all’estero come servi domestici, operai tuttofare, schiavi
sessuali. Di recente le autorità governative hanno smascherato alcune cliniche
clandestine in cui decine di povere donne mettevano alla luce figli con lo
scopo di venderli ai trafficanti per poche decine di dollari.

BABY-SOLDATI

Nelle guerre civili in Liberia (1989 e 1999) hanno
combattuto circa 20 mila bambini. Anche nel recente conflitto in Sierra Leone
sono stati utilizzati migliaia di minori in divisa. Negli ultimi 30 anni almeno
200 mila baby-soldati hanno combattuto in Angola, Sudan e Uganda. Ancora oggi
miriadi di bambini sono forzatamente arruolati da gruppi ribelli nella
Repubblica democratica del Congo e in Centrafrica. In tutto il mondo sono più
di 250 mila i minori di 18 anni coinvolti nei conflitti armati. La metà si
trova in Africa.

MAURITANIA!

Una famiglia di discendenti haratin,
nella sua baracca a El-Mina, periferia di Nouakchott. In Mauritania la schiavitù
è stata abolita almeno tre volte nel secolo scorso; ma solo sulla carta;
nell’agosto del 2007, fu dichiarata nuovamente illegale e criminalizzato il
possesso di schiavi. Ma i leader politici non hanno mai agevolato i gruppi
inteazionali che cercano di portare alla luce tale pratica. Per cui ancora
oggi migliaia di neri africani – chiamati haratin – sono sfruttati e
maltrattati dai loro padroni di origine araba o berbera. La condizione di
schiavo viene trasmessa per via ereditaria… finché qualcuno non trova il
coraggio di spezzare le catene.

«SPOSE DI DIO»

Un sacerdote tradizionale del Ghana circondato da due
schiave trokosi (spose di Dio). Nei villaggi del popolo ewé
centinaia di bambine e ragazze vergini vengono sacrificate dai genitori e
affidate ai dignitari religiosi. Il motivo? Devono espiare una colpa compiuta
da un familiare e placare le ire del dio Troxovi, una divinità potente e severa
che si aggira lungo le rive del fiume Volta. Le donne ridotte in schiavitù sono
condannate a lavorare tutta la vita come serve per i «preti» locali: obbligate
a soddisfare i loro desideri sessuali, segregate all’interno dei templi sacri e
costrette a procreare il maggior numero possibile di figli (destinati anch’essi
a vivere come schiavi).

Nati con le catene

Alcune donne del Niger attingono acqua da un pozzo
scavato nel deserto. Alla miseria causata dalla situazione del deserto, nel
Niger si aggiunge la pratica secolare della schiavitù. Su una popolazione di
oltre 13 milioni di abitanti si calcola che 900 mila di essi vivano in stato di
schiavitù, 8% della popolazione totale. Una legge del 2003 è tornata a proibire
la riduzione in schiavitù e ai lavori forzati, ma gli schiavi non lo sanno e
nessuno ha interesse a istruirli sui loro diritti alla libertà. Essi nascono
con le catene in testa e se qualche associazione cerca di toglierle loro,
governo e poteri interessati cercano di impedirlo. Tale genere di schiavitù è
diffusa in altre regioni desertiche del Sahel.

SULLA STRADA

Prostitute africane in attesa di clienti. Si stima che
nel mondo circa un milione di esseri umani siano vittime di sfruttamento
sessuale. La metà di esse si trova in Europa. In Italia, dove le prostitute
straniere sono circa 25.000, la mafia nigeriana controlla il traffico
clandestino delle donne (rapite o attirate con l’inganno) provenienti
dall’Africa. Le ragazze vengono obbligate a svendere il proprio corpo per meno
di 30 euro. Devono lavorare anche quando sono malate e avere rapporti sessuali
non protetti; se rimangono incinte sono costrette ad  abortire o vengono sottratti loro i figli e
usati come strumenti di ricatto.

SCHIAVE DEL VUDÙ

Cerimonia di iniziazione nella città di Ouidah, Benin,
culla spirituale del vudù e storico porto d’imbarco delle navi negriere. La
religione vudù, originaria dell’Africa occidentale, si è diffusa durante i
secoli dello schiavismo anche in Brasile e nelle isole caraibiche. Ancora oggi
in Benin e Togo è l’invisibile architrave della società che permea e condiziona
la vita della gente. Talvolta però degenera in pratiche deleterie. Alcuni
sacerdoti vudù complici di trafficanti di esseri umani, sottopongono delle
ragazze a un rito tradizionale – chiamato ju-ju – per assoggettarle ai
loro sfruttatori che le obbligano alla prostituzione sotto la minaccia di
ritorsioni e oscure maledizioni.

LAVORO INFERNALE

Nella regione del Katanga, cassaforte delle ricchezze
congolesi, si trovano i più colossali giacimenti di metalli strategici al
mondo. Ogni giorno migliaia di disperati scavano a mani nude nelle miniere di
questo sperduto Eldorado: armati di picconi e scalpelli, scendono nelle
voragini delle cave, strisciano nei cunicoli di pericolanti gallerie e spaccano
le pietre a martellate. Cercano minerali preziosi per l’Occidente: oro,
diamanti, rame, cobalto, coltan… Ricchezze che grondano sangue. E che riducono
in schiavitù i minatori congolesi.

NULLA DI NUOVO

Nelle miniere del Congo migliaia di bambini setacciano
ogni giorno la terra, immersi in pozze di acqua 
fetida, alla ricerca di pietre preziose. L’Africa continua a rimanere un
territorio di saccheggio come nel passato. Un tempo le potenze coloniali
europee bramavano il controllo di prodotti come la gomma, l’avorio, gli
schiavi. Oggi sono cambiate le materie prime, ma il meccanismo di sfruttamento è
sempre spietato. Scrive il giornalista Raffaele Masto: «Se fra qualche secolo
uno storico dovrà raccontare i nostri tempi, sarà costretto a scrivere che la
schiavitù – ufficialmente abolita nell’Ottocento – è proseguita, in forme più
nascoste e senza la copertura della legge, almeno fino ai primi decenni del
Duemila».

VERGOGNA ITALIANA

Braccianti africani al lavoro nelle campagne pugliesi.
La raccolta stagionale dei pomodori richiama ogni anno migliaia di immigrati,
costretti a lavorare in condizioni di schiavitù sotto i cosiddetti «caporali»,
modei negrieri che assumono i braccianti e ne sfruttano il lavoro. Le paghe
sono da fame: tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300
chili. Due euro a mezzo se si è clandestini. Quattordici ore al giorno di
lavoro sotto il sole. E baracche sovraffollate per dormire. Le stesse
condizioni sono imposte, in varie regioni italiane, ai raccoglitori di meloni,
angurie, agrumi, mele…

FERITE INDELEBILI

Nancy, 16 anni, fu sequestrata da bambina in un
villaggio del nord Uganda dal famigerato Esercito di Resistenza del Signore.
Dal 1987 questo gruppo terroristico, guidato dal sanguinario Joseph Kony, ha
rapito e ridotto in servitù oltre 15.000 bambini per fae dei soldati o
costringerli alla schiavitù sessuale. Nancy è stata fortunata: dopo anni di
prigionia e abusi, è stata liberata dall’esercito ugandese. Sul suo volto resta
la cicatrice di una ferita inflitta dai ribelli. E nei suoi occhi la sofferenza
di un incubo impossibile da dimenticare.

I MENDICANTI DI ALLAH

Un bambino-mendicante. A Dakar se ne vedono tanti:
appostati ai semafori, alle stazioni, nei mercati, davanti alle moschee. Non
hanno più di dieci, dodici anni. Fin dall’alba sono in strada per raccogliere
nelle loro ciotole qualche moneta, un pezzo di pane, qualcosa che possa
sfamarli. Li chiamano talibé (a Bamako, nel confinante Mali, garibus).
Sono i piccoli alunni delle scuole coraniche, obbligati a elemosinare sotto
minaccia da guide spirituali disoneste che sfruttano i bimbi per arricchirsi.
Secondo l’Unicef il loro numero – in preoccupante aumento – supera le centomila
unità: un esercito di piccoli schiavi.

LA MALEDIZIONE DEL CACAO

São Tomé e Príncipe: due operai in pausa in un vecchio
magazzino per il cacao. Il tempo sembra essersi fermato, in questo minuscolo
arcipelago trasformato per quattro secoli dai portoghesi in centro di raccolta
e smistamento per la tratta degli schiavi. Nel periodo coloniale i
conquistadores importarono qui dal Brasile la coltura del cacao, e dall’Angola
migliaia di schiavi per sfruttarli nelle piantagioni. Oggi la recessione in
Occidente ha fatto precipitare il prezzo del cacao, mettendo in ginocchio i
discendenti degli schiavi che lavorano nelle antiche fattorie.

SCHIAVI DEI DEBITI

Un bambino costretto a lavorare sulla strada. Dopo
decenni di guerra civile, l’Angola sta vivendo una stagione di sviluppo, ma i
profitti dei diamanti e del petrolio finiscono nelle tasche della nomenclatura
locale, lasciando nella miseria il 70 per cento della popolazione. Per
sopravvivere molte famiglie sono obbligate a chiedere prestiti, a cui spesso
sono applicati tassi d’interesse da usura. I creditori possono esigere di
essere rimborsati sfruttando il lavoro gratuito di uno o più membri della
famiglia. Oggi in tutto il mondo sono 20 milioni le persone schiave per debiti,
la maggior parte si trova nelle campagne in Africa.

SENZA DIRITTI

Uno dei centri di detenzione di migranti stranieri a
Tripoli. Negli ultimi cinquant’anni in Libia si sono riversati due milioni di
immigrati provenienti dall’Africa nera, costretti a lavorare sottopagati e
senza diritti, alla stregua dei vecchi schiavi. Anche nel resto del Nord
Africa, e in larga parte del Sahel, le oligarchie arabe e berbere hanno imposto
per lungo tempo condizioni di sfruttamento su base etnica alle minoranze nere
originarie dell’Africa subsahariana. In alcune nazioni queste ignobili
condizioni permangono ancora oggi.

NELLE VISCERE DELLA TERRA

Un minatore si cala in una galleria sotterranea per
cercare e raccogliere frammenti di una pietra preziosa conosciuta col nome di
tanzanite. Muniti di una torcia sulla fronte, senza alcuna protezione, anche i
baby- lavoratori riescono a infilarsi nei budelli più stretti e arrivano a
spingersi fino a trecento metri di profondità all’interno di cunicoli che
potrebbero crollare da un momento all’altro. Non di rado restano vittime di
incidenti o di malori: drammi destinati a restare sepolti nelle viscere
profonde dell’Africa.

IL TESORO MALEDETTO

Bambini impegnati a setacciare il terreno alla ricerca
della zoisite, conosciuta anche come tanzanite, una gemma rara e pregiata molto
richiesta dalle giorniellerie occidentali. Nella cava di Mererani (Tanzania) sono
impiegati centinaia di baby-minatori, tra gli otto e i tredici anni, che
lavorano anche dodici ore al giorno per una manciata di soldi. Secondo l’Unicef
oggi nel mondo sono costretti a lavorare 215 milioni di bambini e bambine,
spesso in condizioni disumane e sotto le minacce di un padrone. La gran parte
si trova nelle miniere dell’Africa.

Padri e Suore




1_Orti: Orti Solidali viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale»

Agricoltura sociale, istruzioni per l’uso



Nella vecchia fattoria

Produrre cibo pulito e sano, favorendo al tempo stesso
la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate: disabili,
immigrati, minori a rischio… Sono questi gli obiettivi dell’«agricoltura sociale»,
una pratica che si sta diffondendo in tutta Europa e che in Italia ha già messo
a segno un migliaio di progetti. Tra le regioni in pole position nel settore, il
Piemonte, che nella provincia di Torino ha avviato importanti esperienze di
questo tipo. Siamo andati a conoscerle.

Secondo la definizione del professor Saverio Senni,
docente di Economia e politica dello sviluppo rurale all’Università della
Tuscia (Viterbo) e tra i massimi esperti sul tema, l’agricoltura sociale
consiste in «un insieme di attività a carattere agricolo in senso lato –
coltivazione, allevamento, selvicoltura, trasformazione dei prodotti
alimentari, agriturismo, ecc. – con l’esplicito proposito di generare benefici
per fasce particolari della popolazione». Oltre a produrre beni agroalimentari,
questa pratica svolge dunque una funzione di servizio alle persone, in cui le
attività e il contesto rurale sono rivolti ad alleviare il disagio delle
categorie più svantaggiate: minori a rischio, immigrati, portatori di handicap
fisici o intellettivi, malati psichici, tossicodipendenti, detenuti, ecc.
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) riconosce
questo tipo di agricoltura come una pratica «multifunzionale» che contribuisce
a più obiettivi sociali: terapeutici – si pensi a esperienze quali pet
therapy
, ippoterapia, onoterapia … – formativi, di inserimento
professionale o di «semplice» benessere, per individui a rischio di esclusione
e con un basso potere contrattuale sul mercato del lavoro. L’agricoltura sociale
ha dunque una valenza etica e risponde al modello di «impresa con finalità
sociale», indicato dall’economista e premio Nobel Muhammad Yunus: «Un’impresa
capace di porsi obiettivi diversi da quello del profitto personale, in grado di
dedicarsi anche alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali».

«Buone pratiche» europee

In Europa esistono oltre 6.000 progetti di agricoltura
sociale, di cui 1.000 solo in Italia. Il primo paese a promuovere questa
pratica è stato l’Olanda – dove l’agricoltura sociale è ufficialmente
riconosciuta dal sistema sanitario nazionale – che conta oggi oltre 800 aziende
attive nel settore. Qui, a partire dagli anni ‘90, gli imprenditori agricoli si
sono dati disponibili per progetti terapeutico-riabilitativi destinati a soggetti
svantaggiati, ricevendo in cambio un’integrazione del proprio reddito in base a
un accordo quadro tra ministero dell’Agricoltura e ministero degli Affari
sociali. Analoghi sistemi di green care si sono diffusi anche in Belgio
e in Norvegia, mentre in Francia hanno preso piede i Jardins de Cocagne:
120 realtà agricole specializzate nella produzione biologica, diffuse su tutto
il territorio nazionale e gestite da realtà no profit che favoriscono
l’inclusione sociale e lavorativa di persone senza fissa dimora, disoccupati di lungo periodo, ecc. A differenza dei
sistemi «nordici», dove un ruolo importante è giocato dai finanziamenti
istituzionali, qui la sostenibilità economica si regge tutta sulla vendita
diretta dei prodotti.

In Italia i soggetti promotori dell’agricoltura sociale
sono per lo più aziende agricole o cornoperative sociali, istituite nel 1991 con
la Legge 381, e arrivate a quota 500 in poco più di un decennio.

La forma di aggregazione più diffusa è la «fattoria
sociale»: una fattoria o un allevamento gestiti da uno o più associati, con la
caratteristica di essere economicamente sostenibile. L’azienda agro-sociale
produce per la vendita sul mercato, ma lo fa in maniera «integrata» e a
vantaggio di soggetti deboli o residenti in aree fragili (montagne, centri
isolati), di solito in collaborazione con le istituzioni pubbliche che
finanziano parte delle attività. In Piemonte, una delle regioni più attive nel
settore, esistono numerose iniziative a partecipazione pubblico-privata, in cui
un ruolo di primo piano è giocato dalle realtà aderenti alla Coldiretti. Molte
di queste interessano la provincia di Torino.

Secondo una recente indagine dell’Associazione italiana
per l’agricoltura biologica (Aiab), nel triennio 2007-2010 il numero delle
fattorie sociali nel nostro paese è passato da 107 a 221 unità. Inoltre è
cresciuta l’incidenza delle aziende agricole sul totale dei soggetti che
praticano l’agricoltura sociale: benché la cornoperativa sociale resti infatti la
forma giuridica più diffusa, il settore agricolo privato ha registrato nel 2010
un aumento del 33% del totale degli operatori, rispetto ad esempio al 25% del
2007, con una massiccia presenza di giovani e donne impiegati nel settore.

L’Abc del contadino solidale

Ma quali sono le caratteristiche dell’agricoltura
sociale che favoriscono i percorsi educativi, di riabilitazione e di
inserimento lavorativo? Innanzi tutto la vita a contatto con la natura, che
permette di muoversi in spazi aperti e non costrittivi. Poi la flessibilità
dell’organizzazione del lavoro in termini sia di orario sia di mansioni,
ottenuta anche attraverso una strutturazione in piccoli gruppi; il metodo
biologico o anche di utilizzo di pratiche agro-eco-compatibili, che bandisce le
sostanze tossiche e consente a chiunque di lavorare in sicurezza; la vendita
diretta, che favorisce gli scambi e fa dell’azienda rurale un luogo aperto e
frequentato dalla cittadinanza; la filiera corta, che garantisce il risparmio
per i consumatori e la valorizzazione del territorio; infine la varietà di compiti
legati al corso dei giorni e delle stagioni, con la possibilità per le persone
accolte di partecipare al ciclo produttivo completo, dalla semina alla vendita.

In un periodo di crisi come questo, inoltre,
l’agricoltura sociale si configura come «un percorso di innovazione sociale che
coinvolge un’ampia gamma di soggetti locali per mobilizzare in modo nuovo le
risorse del territorio, dando risposte utili ai bisogni delle persone e delle
comunità», come chiarisce Francesco Di Iacovo, docente di Economia agraria
all’Università di Pisa e tra i massimi esperti europei del settore: «Oggi
abbiamo bisogno di cambiare, molto e molto rapidamente, per ricostruire
opportunità e senso di futuro», spiega il professore. «Per questo l’agricoltura
sociale, capace di creare al tempo stesso valore economico e valore sociale,
acquista una rilevanza strategica. Essa può funzionare come campo di prova del
cambiamento, per ripensare in modo più ampio i principi di funzionamento delle
comunità locali».

Stefania Garini




2_Orti: Matti per le lattughe

Esperienze 1/ La Cooperativa Pier Giorgio Frassati
Un gruppo di agronomi, educatori e
operatori socio assistenziali hanno dato vita a una «Fattoria sociale» alle
porte di Torino. Qui sono attivi quindici «ragazzi» tra i 20 e i 50 anni, con
varie disabilità. Sono arrivati a portare i loro prodotti agricoli al Salone
del Gusto e accolgono scolaresche per visite didattiche.

Una trentina d’anni fa, poco dopo la chiusura dei
manicomi voluta dalla Legge Basaglia, alcuni ex pazienti dell’ospedale
psichiatrico di Mogliano Veneto furono accolti a Torino, nel Centro di attività
diua (Cad) gestito dalla cornoperativa Pier Giorgio Frassati, dove si
svolgevano alcune attività agricole a scopo riabilitativo.

Queste attività sono continuate nel tempo, finché nel
2008 hanno dato vita a un nuovo progetto: la Fattoria sociale P.G. Frassati.
«L’idea di partenza è stata rendere più professionale la coltivazione
ortofrutticola che si svolgeva nel Cad, integrando due componenti importanti,
quella socio-assistenziale e quella tecnico-agronomica», ci spiega Sabrina
Serena Guinzio, giovane agronoma che lavora alla Cascina La Luna. Quest’ultima
sorge su un’area data in concessione dal comune di Torino: 6.000 m² nel cuore
della città, comprensivi di terreno irriguo, quattro tunnel e una serra
climatizzata per coltivare anche nei mesi invernali, primizie e fiori in vaso.

«La nostra è stata la prima fattoria sociale del
Piemonte, nata grazie alla collaborazione tra la Provincia di Torino, il Patto
territoriale della zona Ovest, la Coldiretti e la facoltà di agraria
dell’Università», spiega Guido Pomato, l’altro agronomo della Frassati. «Di
solito esperienze simili, in cui si cerca di stimolare le abilità residue dei
ragazzi disabili, sono affidate unicamente agli educatori, mentre la sfida qui è
stata quella di integrare le diverse professionalità». Per fare questo «all’inizio
tutti noi, educatori, Oss (Operatori socio sanitari) e agronomi facevamo tutto
in maniera intercambiabile, per capire anche il punto di vista degli altri»
racconta Sabrina, «solo quando abbiamo raggiunto un grado sufficiente di
amalgama ognuno è tornato al proprio mestiere».

Due facce della Luna: sociale…

Alle attività della fattoria partecipano, oltre al
personale specializzato e a due operai agricoli diversamente abili, anche gli
utenti del Centro di attività diua. «Una quindicina di “ragazzi” di età
compresa tra i 20 e i 50 anni, alcuni psichiatrici, altri disabili intellettivi
(ad es. con sindrome di Down), mandati qui dalle Asl o dal comune che, a
seconda del progetto terapeutico, possono fermarsi per periodi variabili, anche
diversi anni» ci spiega l’educatore Luigi Piras, 61 anni, che da 30 lavora alla
cornoperativa Frassati.

I ragazzi vivono in famiglia o in comunità, il loro
impegno in fattoria dovrebbe svolgersi dalle 8.30 alle 16.00, «ma alcuni
arrivano in cascina già di buon mattino, perché qui si trovano bene, apprezzano
il lavoro e stare in compagnia degli altri» dice Luigi. «Spesso sono ragazzi
soli, fuori di qui non hanno amici, non sanno cosa fare. Tra loro vanno
d’accordo, ma non riescono a mantenere il rapporto al di là della fattoria,
perché nessuno prende l’iniziativa di organizzare incontri o uscite. Anche se
qualcuno è qui da 10 anni…».

Le loro mansioni sono diverse e commisurate alle capacità:
zappare, seminare, raccogliere la verdura, rastrellare le foglie, aiutare nella
vendita dei prodotti al pubblico, ma anche tenere puliti gli spazi comuni,
apparecchiare per il pranzo (che si consuma tutti insieme), lavare i piatti,
ecc.

«La vita a contatto con la natura è di per sé
riabilitativa, e nel lavoro agricolo i limiti di questi ragazzi risultano meno
evidenti: l’insalata è sempre insalata, che a coltivarla sia o no un disabile»
dice Dario Flego, 46 anni, educatore alla Frassati dal 2000. «Anche se è raro
riuscire a inserire questi ragazzi nel mondo del lavoro “vero”, quello che
fanno qui permette loro di migliorare le proprie competenze e la capacità di
socializzare».

Gabriele, che ha 36 anni e frequenta il Cad da 13,
racconta: «Con i compagni mi trovo bene, tranne quando mi disturbano oppure
sporcano dove ho appena pulito. Mi dà fastidio quando le cose sono troppo
difficili da capire, o quando gli altri mi urlano dietro. Mi piace molto stare
in compagnia e pranzare tutti assieme, ma mi arrabbio quando l’educatrice non
mi dà il bis, se me lo sono meritato lavorando tutta la mattina… La cosa che mi
piace di più è lavorare nelle serre, soprattutto nelle giornate di sole». Anche
Anna, 44 anni di cui 6 trascorsi alla Frassati, dice di andare d’accordo con i «colleghi»,
«benché siano tutti maschi mentre noi ragazze siamo solo due, io e Lucia che ha
20 anni. I ragazzi si comportano bene e sono rispettosi, a me piace molto
venire qui. Però ho anche altre attività, a casa disegno, dipingo, fotografo.
Mi piace pulire, cucinare, fare un po’ di tutto… insomma, mi piace vivere!».

C’è anche chi nel Centro ha trovato l’amore, come
Emilio, che ha 50 anni e lavora alla Frassati da 10, occupandosi dell’orto ma
anche degli interventi da muratore e da imbianchino. «Io abito con mia madre,
in settimana sono impegnato in cascina, poi nel week end mi vedo con la mia
ragazza, che ho conosciuto qui. Adesso lei sta in una comunità, il nostro sogno
è poterci sposare presto».

… e produttiva

I terreni della Fattoria Frassati sono coltivati con
metodi tradizionali e a elevato fabbisogno di manodopera, integrati a sistemi
più innovativi. «Pur non avendo ancora la certificazione biologica», ci spiega
Guido Pomato, «interveniamo sui parassiti e le erbe infestanti attraverso
metodi preventivi e naturali, evitando l’uso di sostanze nocive, sia per la
qualità dei prodotti che per il benessere di chi lavora».

Tra gli obiettivi della Fattoria c’è quello di essere un
luogo dove le persone «entrano ed escono, in modo da integrare l’esperienza di
agricoltura sociale con il territorio» spiega Guido, «per questo pratichiamo la
vendita diretta e curiamo i rapporti con le scuole e i laboratori di formazione
per la cittadinanza». La vendita a «chilometro zero», direttamente dal
produttore al consumatore, avviene attraverso una bottega situata all’interno
della fattoria (aperta al pubblico dal lunedì al venerdì), ma anche tramite i
mercati rionali, le fiere e i punti vendita di altre aziende e cornoperative
sociali del territorio. I clienti vanno dal singolo consumatore ai gruppi
d’acquisto solidale. «Quest’anno per la prima volta abbiamo partecipato al
Salone del Gusto, e abbiamo iniziato a collaborare con altre aziende per far
trasformare i prodotti in esubero, come le melanzane e i peperoni sott’olio»,
dice Pomato. «Noi puntiamo a realizzare un’impresa economicamente sostenibile,
che si regga sulle proprie gambe senza bisogno di finanziamenti pubblici. La
sfida per noi è fare agricoltura sociale all’interno di una vera e propria
azienda agricola, come oggi stanno facendo anche alcune realtà della Coldiretti».
L’obiettivo nel medio-lungo termine sarebbe anche di arrivare a uno scambio di
competenze, «per cui i nostri educatori potrebbero fare accompagnamento alle
aziende agricole interessate ad assumere disabili, viceversa gli agricoltori potrebbero “prestare”
il proprio sapere alle fattorie sociali. Si tratta di costruire un modello
culturale nuovo».

Esperienze didattiche

Per favorire l’osmosi tra l’interno e l’esterno della
fattoria, un aspetto importante è la collaborazione con le scuole. «Proponiamo
percorsi didattici e laboratori», spiega Sabrina Serena Guinzio, «una volta la
settimana vengono in cascina alcune classi di terza e quarta elementare per
imparare a coltivare con i nostri ragazzi. È un’esperienza istruttiva,
soprattutto per le classi dove ci sono alunni disabili. In altri casi invece
gli studenti vengono mandati a lavorare la terra da noi come misura alternativa
alla sospensione, quando hanno combinato qualche guaio…».

Altre volte sono i ragazzi della Frassati che vanno ad
allestire orti o giardini presso qualche istituto scolastico, in collaborazione
con alunni e insegnanti. Oltre alle scuole, sono coinvolti nei percorsi di
formazione gli operatori professionali, i genitori con figli disabili, ecc.
Inoltre, nel corso dell’anno, per favorire la socializzazione dei ragazzi, la
Frassati organizza gite e feste, come quella di primavera dove la
partecipazione raggiunge anche picchi di 200 persone.

 

Stefania Garini




3_Orti: Coltivare l’Integrazione

Esperienze 2/ L’orto dei ragazzi
Rifugiati e richiedenti asilo
africani (e non solo) hanno trovato una nuova vita in Italia. Sulla collina
torinese si occupano di ortaggi, galline e api. C’è anche un campo collettivo
per l’agricoltura partecipata delle famiglie di città. Con lo scopo di formare
consumatori consapevoli.

«Sono arrivato in Italia come
clandestino 14 anni fa, dopo un viaggio in nave dal Marocco durato una
settimana, senza quasi mangiare né bere… In Italia mi sono adattato a fare
diversi lavori: muratore, imbianchino, carrozziere. Poi ho avuto dei guai con
la giustizia e sono entrato in contatto con il Gruppo Abele e altre
associazioni impegnate nel disagio giovanile, grazie a loro
ho conosciuto l’Orto dei ragazzi». A parlare è Mohamed, 38 anni, che oggi abita
a Beinasco, in provincia di Torino, è sposato con un’italiana e lavora in
pianta stabile all’Orto, dove si occupa delle consegne a domicilio di frutta e
verdura. Ubicato sulla collina torinese,
non lontano da Superga, l’Orto fa parte di un più ampio comprensorio: la Città
dei ragazzi, fondata nel 1948 da don Giovanni Arbinolo che, ispirandosi ad
analoghe esperienze diffuse negli Usa, intendeva offrire un’alternativa di vita
e di lavoro agli orfani di guerra, in gravi condizioni di miseria e abbandono.

«I tre pilastri del sistema di don
Arbinolo sono gli stessi che ancora oggi animano il nostro impegno:
l’accoglienza, la formazione professionale, il lavoro», spiega Paolo Orecchia,
39 anni, una laurea in Scienze forestali e ambientali, che dal 2004 cornordina le
attività agricole della Città dei Ragazzi. Qui nel tempo è cambiato il target
degli interventi, dagli orfani di guerra si è passati, negli anni ‘60-’70, ai
ragazzi delle periferie urbane disagiate per arrivare, ai giorni nostri,
all’accoglienza di stranieri, richiedenti asilo o rifugiati.

«I giovani che arrivano da noi
hanno un’età media di 20-30 anni, per la maggior parte provengono dall’Africa
(Somalia, Congo, Costa d’Avorio, Nigeria, Marocco) o comunque da zone di guerra
e di conflitto

più o meno espressi. In questi
mesi ad esempio c’è tra noi un ragazzo afghano» spiega Paolo. Lui è anche
l’attuale vicepresidente di «Uno di Due», cornoperativa di produzione e lavoro
nata un anno e mezzo fa da due realtà preesistenti, l’Orto dei Ragazzi nato in
collaborazione con Cisv e Pampili. Il Comune di Torino mette a disposizione di
questi giovani borse lavoro per la durata di 6 mesi durante i quali, oltre a
imparare un mestiere, acquisiscono anche regole di comportamento come la
puntualità, la continuità dell’impegno, l’abitudine a non usare il cellulare
mentre si lavora… «Per riuscire a essere puntuali molti di loro fanno grossi
sacrifici, perché stanno nei dormitori giù in città e devono alzarsi alle 5 di
mattina per arrivare qui alle 8» spiega Paolo. «A volte sono in Italia da poco
tempo e hanno bisogno di imparare la lingua, a qualcuno insegniamo a usare il
computer. Inoltre cerchiamo di formarli sui diversi aspetti del mondo del
lavoro: i diritti, le norme sulla sicurezza, ecc.».

L’altra faccia di Rosao

Le attività che i «ragazzi» si
trovano a svolgere sono numerose: dall’orticoltura alla vendita e consegna dei
prodotti a domicilio, dalla produzione del miele a quella delle uova. Oltre a
questo devono garantire tutta una serie di servizi a beneficio dell’intero
comprensorio, come il taglio dell’erba o l’abbeveraggio degli asini affidati
loro in comodato d’uso dai contadini del vicinato.

«Io guido il furgone per le
consegne a domicilio, si parte al mattino e si rientra la sera. Smerciamo 300
panieri di frutta e verdura ogni settimana, in tutta la città di Torino e nei
comuni della cintura» dice Mohamed. «I nostri prodotti sono certificati
biologici. Noi qui produciamo soprattutto miele e uova, ma da alcuni anni si è
creata una collaborazione con altre aziende del territorio specializzate in
produzioni diverse, sempre bio. Nessuna realtà locale da sola può produrre
tutto, così noi raccogliamo frutta e verdura da un gruppo di fattorie
selezionate e prepariamo i panieri, garantendo agli acquirenti prodotti sani e
coltivati nel rispetto dell’ambiente».

«Anch’io vado con Mohamed a fare
le consegne, inoltre ho il compito di tenere pulito il pollaio e di raccogliere
le uova: adesso abbiamo 200 galline ruspanti allevate a terra, che producono
120-130 uova ogni giorno» dice orgoglioso Francesco, 24 anni, in attesa di una
borsa lavoro dal Comune. E racconta: «Ho studiato da perito agrario, poi ho
iniziato a collaborare con l’Orto dei Ragazzi. Qui sto imparando tante cose, la
vita a contatto con la natura e con gli animali mi piace molto. Spero di
continuare questo lavoro ancora a lungo. Il mio sogno sarebbe metter su una
piantagione di zafferano insieme ai miei genitori».

Se necessario i ragazzi si fermano
nell’Orto anche per periodi superiori ai 6 mesi della borsa lavoro. «Non
abbiamo fretta di mandarli via, l’importante per noi è che riescano a trovare
una collocazione professionale adeguata, cioè dignitosa e con contratti
regolari», spiega Paolo Orecchia. «Noi vorremmo essere un po’ l’altra faccia di
Rosao. Oggi, malgrado la crisi, il settore agricolo ha bisogno di
manovalanza, ma spesso si preferisce far lavorare le persone in nero, mentre
noi puntiamo a che i nostri ragazzi trovino un lavoro legale e stabile. Per
questo offriamo loro un percorso guidato, in grado di accreditarli agli occhi
delle aziende. Il nostro compito è semplicemente questo: accoglierli,
orientarli e aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro facendo da “garanti”. Se
ci dimostrano di essere in gamba e volonterosi, se si impegnano, noi li
promuoviamo di fronte alla Coldiretti, alle aziende ecc. I ragazzi che hanno
voglia di lavorare riescono a collocarsi abbastanza facilmente». Oggi almeno il
50% dei ragazzi dell’Orto trova un lavoro fisso, «ma prima della crisi si
arrivava anche a percentuali del 60% o superiori. Adesso la maggior parte di
loro si sistema in aziende, cornoperative agricole o nei vivai, ma c’è anche chi
si inserisce in attività diverse. Abbiamo un ragazzo che fa il falegname, un
altro che lavora in un hotel, un altro ancora fa il panettiere…». Spesso i
contatti con i ragazzi continuano anche dopo che hanno lasciato l’Orto, e nel
corso dell’anno si organizzano cene e incontri conviviali per ritrovarsi e
mantenere vivi i legami d’amicizia creatisi durante il tirocinio.

I panieri dell’Orto

Per agevolare gli acquisti, i
clienti dell’Orto possono fare gli ordinativi via Inteet. La consegna a
domicilio avviene a cadenza settimanale mentre il pagamento si effettua con un
bonifico a fine mese, a fronte dell’emissione di una fattura, «sempre
all’insegna della trasparenza e della legalità» tiene a precisare Paolo. I
prezzi variano a seconda del peso e, considerato che è tutto rigorosamente
biologico, risultano più che onesti: un paniere piccolo (4 kg) ad esempio costa
9,5 euro, mentre uno grande (9 kg) 20 euro. Per chi richiede la consegna a
domicilio c’è un costo supplementare di 3 euro, ma è gratis se quattro famiglie
si uniscono per l’acquisto comune di quattro panieri.

Nei panieri si trovano anche
alcuni prodotti di «nicchia» come la farina biologica per la polenta di grano
pignoletto, il parmigiano reggiano proveniente da una cornoperativa sociale di
Reggio Emilia o il pane biologico, lievitato naturalmente e cotto nel foo a
legna in un’agrifoeria delle Valli montane di Lanzo.

«La nostra filiera è certificata e
trasparente» spiega Paolo, «ma per garantire un paniere vario non si può essere
troppo rigorosi sul discorso dei km zero. Da noi in Piemonte, ad esempio, per
avere gli zucchini a km zero si deve aspettare maggio. Nel periodo invernale ci
sono solo cavoli e patate, perciò in quei mesi ci rifoiamo da aziende di
Puglia e Sicilia, sempre selezionate e sempre biologiche».

Agricoltura partecipata

Insieme ai prodotti nei panieri,
viene consegnato un foglio informativo con alcune ricette per cucinare le verdure
di stagione e le ultime novità sulle iniziative dell’Orto. Oltre alla
produzione e commercializzazione, infatti, l’Orto dei Ragazzi svolge tutta una
serie di attività all’insegna dell’agricoltura sociale «partecipata». Come i
percorsi di educazione ambientale per gli alunni delle scuole: «Si tengono
alcuni incontri preparatori nelle classi, poi i bambini vengono all’Orto dove
possono seguire diversi percorsi formativi, ad esempio quello sull’humus, dove
si spiega qual è la funzione dei lombrichi in agricoltura, o quello
sull’apicoltura, per cui possono vedere le aie, assistere alla smielatura,
partecipare a laboratori di lavorazione della cera, ecc.», spiega Paolo.

Oltre a questo, dallo scorso anno è
stato avviato il progetto dell’Orto collettivo: un ettaro di terra messo a
disposizione di alcune famiglie interessate a coltivarsi da sé frutta e verdura
genuina. «Al momento si tratta di una quindicina di persone che vengono per lo
più il sabato a lavorare la terra» continua.

«Anche questo è un servizio di
agricoltura sociale partecipata, offriamo uno spazio di aggregazione, di vita
all’aria aperta, per produrre cibo sano. Per le famiglie è uno svago e
un’esperienza educativa per i loro figli». Oltre al lavoro, ai partecipanti
all’Orto collettivo è richiesto di depositare una certa somma di denaro nella
cassa comune che serve a sostenere le spese vive dell’orto. «Esperienze come
questa servono a coinvolgere i nostri clienti, avvicinandoli al mondo del
sociale e dell’agricoltura. Per lo stesso motivo, due volte l’anno invitiamo
gli acquirenti dei panieri a partecipare a momenti conviviali, può essere una
merenda nell’orto o una chiacchierata con gli agricoltori delle aziende…».

Tra le iniziative ci sono anche le
adozioni: «All’inizio non avevamo i soldi per comprare le api, allora abbiamo
lanciato una sottoscrizione, “Adotta un alveare”. Anche per mettere su il
pollaio, abbiamo proposto ai nostri acquirenti di “adottare” una gallina. In
cambio, una volta avviata l’attività, chi ha contribuito riceve miele o uova».
Sempre per coinvolgere le persone e avvicinarle alla realtà contadina,
periodicamente le si invita a partecipare ad alcune fasi della produzione. «Una
di queste è la smielatura, attualmente abbiamo 50 aie, ognuna produce circa
20-25 kg di miele, per un totale di alcune tonnellate di prodotto ogni anno»
racconta Paolo. «Partecipando alla smielatura i nostri amici imparano cose
nuove, ma soprattutto capiscono quello che sta dietro alla produzione, ad
esempio si rendono conto del perché, se è stata un’annata piovosa, non c’è il
miele di acacia». In questo modo si forma il vero consumatore consapevole.

Una scelta di vita

Per Paolo, sposato e con due
bambine di 9 e 13 anni, l’esperienza nell’Orto non è solo un lavoro, ma una
scelta di vita. «Il lavoro agricolo non prevede orari, sarebbe inimmaginabile
una cascina dove il contadino fa le 8 ore e poi se ne torna a casa», ci
racconta. «Solo per fare un esempio, d’estate le galline razzolano libere fino
alle 21.30 poi bisogna farle rientrare nel pollaio, perciò si è impegnati fino
a tarda sera. Così dopo i primi anni, dove lavoravo 50-60 ore la settimana, mi
sono reso conto che occorreva una presenza più costante, e con la mia famiglia
abbiamo deciso di trasferirci ad abitare nella Città dei Ragazzi».

Ma quali sono i progetti per il
futuro dell’Orto? «Innanzi tutto vorremmo potenziare le attività produttive
legate all’apicoltura, come la pappa reale, il propoli, ecc. Poi abbiamo in
programma una sperimentazione, per cui inseriremo qualche vitello e qualche
vacca che faranno da “taglia-erba” naturali e non inquinanti per il
comprensorio: oltre a tenere sotto controllo il livello della vegetazione, potrà
servire per ottenere un concime biologico…».

Ma quel che più conta, è l’aspetto
sociale e umano dell’Orto: «Qui i ragazzi lavorano a contatto con la natura,
imparano a fare le cose con le proprie mani, conoscono la fatica ma anche la
soddisfazione di raccogliere quel che loro stessi hanno prodotto, e imparano a
prendersi cura degli altri esseri viventi. Ed è questo che rende speciale la
loro esperienza».

 
Box
La storia di Mohamed

«Mi chiamo Mohamed, arrivo dal Marocco; sono venuto in
Italia in cerca di fortuna per poter aiutare la mia famiglia. Mi sono imbarcato
14 anni fa da Casablanca dentro una nave commerciale che trasportava container.
Quando mi sono infilato di nascosto dentro la canna fumaria ho pensato che
avrei viaggiato al massimo 3 giorni invece il viaggio ne è durato 7. Mi ero
portato dei ceci e una baguette di pane che potevano bastarmi per tre giorni
scarsi… così il mio viaggio verso la Spagna non è stato molto piacevole, ho
vomitato più volte perché ho dovuto bere l’acqua del motore per dissetarmi.

Ma ero determinato a proseguire per aiutare i miei genitori.
Siamo una famiglia di 14 fratelli e mangiamo solo il pane alla menta e qualche
verdura… la carne la vediamo raramente, un etto di pollo o agnello alla
settimana. Sono sceso dalla nave di notte scappando dalla polizia di frontiera.
Sono rimasto un giorno nascosto dentro un camion finché tutto si è calmato. Mi
sono trattenuto in Spagna per una settimana chiedendo aiuto in una chiesa dove
mi hanno sfamato a pane e formaggio.

Poi grazie a passaggi in autostop e in treno, sempre
nascosto nelle tornilette, sono arrivato a Marsiglia. Qui mi sono incontrato con
una persona su una montagna e abbiamo concordato il viaggio fino in Italia dove
avevo alcuni amici miei vicini di casa. Arrivato a Torino sono rimasto da loro
qualche giorno; poi mi sono trasferito per un paio di mesi in una casa abbandonata.
Ho trovato lavoro come carrozziere. D’estate, quando ha chiuso per ferie, sono
andato al mare dove ho iniziato a vendere teli da spiaggia fino a settembre. Al
ritorno non mi hanno ripreso al lavoro perché non avevo i documenti. E così
sono andato avanti ad aggiustarmi con lavoretti come il muratore. Quindi una
persona mi ha parlato della Città dei Ragazzi, lì ho conosciuto Paolo e ho
iniziato questa esperienza. Mi trovo bene con lui, i colleghi e tutti i clienti
ai quali porto la verdura e la frutta. Ringraziando tutti coloro che mi hanno
sostenuto, posso dire che sto bene. Grazie. Mohamed». 

Oggi Mohamed, oltre a lavorare per l’Orto dei Ragazzi, si è
preso la patente e un’automobile, ha ottenuto i documenti e l’estate scorsa è
tornato in Marocco a salutare la famiglia. (Ste.Gar.)

 
 

Stefania Garini




4_Orti: Contadina Provvidenza

Esperienze 3/ Cooperativa Cavoli Nostri
Dall’incontro tra due religiosi e un gruppo di giovani
nasce un’esperienza sostenibile. Grazie alla produzione orticola rifornisce un
centro per anziani del Cottolengo. Allo stesso tempo impiega persone
svantaggiate, dando loro un salario. Sempre con una grande fiducia nella
provvidenza.

In paese la indicano ancora con il nome antico, la
Colonia: una struttura settecentesca a due passi dal centro di Feletto (To),
circondata da sei ettari di terreno, sede dagli anni ‘40 della Piccola casa
della Divina Provvidenza (uno dei centri del Cottolengo di Torino) per
l’accoglienza di persone sordomute.

Nel tempo il numero di religiosi impegnati nella
struttura si è assottigliato, e i mezzi materiali hanno iniziato a scarseggiare
finché, nel 2007, la direzione della Casa è stata affidata a fratel Umberto
Bonotto, che ha deciso insieme al confratello Marco Rizzonato di «sfruttare» la
campagna a disposizione per rilanciare le attività agricole. Alcuni giovani,
venuti a conoscenza del progetto, si offrono «provvidenzialmente» di
collaborare nel ridare vita agli spazi in abbandono, accompagnati dalla
Coldiretti di Torino. Nasce così, nel 2011, la cornoperativa Cavoli Nostri. «Dopo
le prime perlustrazioni, insieme ad altri amici ci siamo innamorati del posto e
dello spirito che lo animava, e abbiamo iniziato a incontrarci una volta la
settimana per far crescere insieme il sogno di trasformare i terreni della
Piccola casa in qualcosa che, pur mantenendo la vocazione sociale, assumesse
però anche una valenza produttiva» racconta Silvia, 41 anni, socia volontaria
della cornoperativa sgorgata da quel sogno collettivo.

Silvia vive a Torino, dove lavora come psicologa e
collabora con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ma
appena ha un momento libero va a Feletto per fare anche lei la sua parte.
Seminare, zappare, togliere le erbacce, pulire… il lavoro non manca mai e i
volontari non si tirano indietro, qualunque sia la loro competenza
professionale: a parte Stefania, che per «puro caso» è agrotecnica di
professione, e Daniela, che è cresciuta in un’azienda agricola, ci sono
Martina, laureata in giurisprudenza, Elena, un’economista, Davide, impiegato…
13 soci in tutto, tra lavoratori e volontari, inclusi i due religiosi e tre
ospiti della Piccola casa in grado di lavorare.

Ispirazione religiosa, stile laico

Finora Cavoli Nostri ha ridato vita a 2,5 ettari dei sei
disponibili, impiegandoli per la coltivazione ortofrutticola. Il Cottolengo
concede i terreni in comodato d’uso, in cambio la cornoperativa fornisce alla
Piccola casa i prodotti necessari al sostentamento dei suoi ospiti, che oggi
sono una ventina, alcuni molto anziani, e tutti uomini.

«Ci sono anche 5-6 sordomuti, stiamo imparando il
linguaggio dei segni per comunicare meglio con loro» spiega Silvia. Mentre ci
accompagna a visitare le serre (ce ne sono tre già in funzione, ma ne stanno
montando altre per incrementare la produzione), Silvia ci racconta l’origine
del nome Cavoli Nostri. «Ci ha dato lo spunto fratel Marco, raccontandoci un
episodio della vita di San Giuseppe Cottolengo: per assistere i malati
rifiutati dall’ospedale, il Cottolengo aveva preso in affitto due stanzette a
Torino; poi però era scoppiata un’epidemia di colera ed era arrivato lo
sfratto. I volontari che aiutavano il santo erano disperati, non sapevano che
fine avrebbero fatto, ma lui li rassicurò dicendo: “Come il cavolo va
trapiantato per potersi riprodurre, così sarà anche per noi”. Detto fatto: il
Cottolengo prese in affitto un piccolo rustico, che fu all’origine dell’attuale
Casa della Divina Provvidenza di Torino, in grado di ospitare oggi centinaia di
persone».

Anche tra i soci della cornoperativa si respira quella «fiducia
nella Provvidenza» tipica del più genuino spirito cottolenghino: una fiducia
che spinge a non arrendersi davanti alle difficoltà, e a vivere secondo gli
ideali della sobrietà e della solidarietà. «Cerchiamo di fare buon uso delle
risorse a nostra disposizione, senza sprecare nulla, nel rispetto delle persone
e dell’ambiente» spiega Silvia mostrandoci la serra delle fragole: i bancali
con le piantine sono stati ricavati da vecchi letti del Cottolengo dismessi, e
sono rialzati da terra «così da permettere anche a chi ha problemi fisici di
poter lavorare, restando in piedi anziché a terra ginocchioni».

Se Cavoli Nostri continua la tradizione solidaristica
del Cottolengo, lo fa però in uno stile del tutto laico: «La cosa bella è che
pur trovandoci in una struttura religiosa viviamo nella piena libertà
d’espressione, credenti e non» spiega Silvia. «Quello che condividiamo sono valori
umani di solidarietà e di amore per il prossimo».

Ripensare il welfare

Cavoli Nostri è una cornoperativa sociale di tipo b che
cura la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate dai
18 ai 60 anni: disabili psichici e intellettivi, ma anche rifugiati politici. «Oggi,
con la crisi dello stato sociale e il declino di molti servizi essenziali, nel
nostro piccolo vogliamo dimostrare che si può fare welfare in modo nuovo,
raggiungendo la piena sostenibilità economica per uscire dalle logiche
dell’assistenzialismo» spiega Stefania, socia volontaria di Cavoli Nostri. «Adesso
con la vendita ortofrutticola riusciamo a retribuire alcuni dei nostri ragazzi,
anche grazie all’apertura di un punto vendita diretto». Dallo scorso giugno
infatti Cavoli Nostri è aperto al pubblico tutti i sabati mattina (nella bella
stagione anche mercoledì pomeriggio). «Ogni sabato abbiamo una cinquantina di
acquirenti, non è poco se consideriamo che qui in paese quasi ogni abitante ha
il proprio orto», spiega Stefania. «Molti vengono a comperare dalla città,
lavoriamo grazie al passaparola e rifoiamo anche alcuni gruppi d’acquisto. I
nostri prodotti sono molto apprezzati perché, oltre alla componente “sociale”,
sono biologici al 100%; almeno di fatto visto che non abbiamo ancora concluso
le pratiche per la certificazione».

A Torino c’è un ristorante, Le Papille, che ha iniziato
con la passata di pomodoro di Cavoli Nostri e adesso propone ai clienti anche
gli altri prodotti della cornoperativa. «Il nostro sogno sarebbe aprire un
laboratorio per la trasformazione di sughi, conserve, confetture, in modo da
attivare qualche inserimento lavorativo in più» racconta Silvia. Nel frattempo
per trasformare i prodotti, Cavoli Nostri lavora in rete con altre realtà della
provincia, accomunate dalla filosofia dell’agricoltura sociale, come la cascina
Amalterna di Borgiallo, in Valle Sacra, e l’Agricò di Pecetto, che ha vinto
l’Oscar Green 2011 e offre inserimento lavorativo alle vittime di tratta.

Il valore della differenza

«Non è sempre facile far capire ai consumatori il valore
del cibo sano» dice Silvia, «all’inizio qualche cliente, contento di sostenere
il progetto d’inserimento dei ragazzi, si lamentava però dell’aspetto estetico
dei prodotti, dei calibri della frutta, ecc. In questi casi rispondiamo che “per
noi la differenza è un valore, in tutte le sue manifestazioni!”».

Non contenti di produrre cibi buoni e biologici, a
Cavoli Nostri stanno anche studiando le pratiche eco-sostenibili
dell’agricoltura biodinamica. Inoltre, grazie al progetto La Carriola
finanziato dalla Compagnia di S. Paolo, hanno potuto dotare sia l’interno delle
serre sia l’esterno di un nylon biodegradabile per la pacciamatura
(copertura del terreno per mantenere l’umidità del suolo e proteggere dall’erosione)
che non danneggia l’ambiente.

Ma come vivono questa esperienza i ragazzi che ci
lavorano? Paolino, di 35 anni, è tra i più disponibili a raccontarsi: è
arrivato qui da circa un anno, e dopo un tirocinio di sei mesi è stato assunto
dalla cornoperativa. Paolino abita in un paese vicino e due – tre volte la
settimana viene a Feletto in treno per lavorare un paio d’ore, un impegno
compatibile con le sue possibilità. «Prima di questa esperienza non avevo mai
fatto il contadino» ci racconta, «mi piace molto venire qui, stare a contatto
con la natura mi rilassa la mente ed è bello vedere le cose che crescono». Dopo
qualche difficoltà iniziale, Paolino si è perfettamente ambientato e il suo
viso si illumina mentre ci racconta i piccoli-grandi incarichi che svolge nella
cornoperativa. «Tolgo le erbacce, curo le piantine di fragola, raccolgo i
fagiolini… Quel poco che guadagno è una grande soddisfazione, così so che ho
qualche soldo da parte in caso di bisogno». Magari per fare un regalo al
nipotino di 2 anni, per cui Paolino stravede… La chiacchierata s’interrompe,
per Paolino è ora di tornare in stazione. Ci saluta raggiante stringendoci la
mano e ci dice, dopo averci dedicato il suo tempo, «grazie della disponibilità!».

 
Box 2
Agricoltura sociale

Le aree d’intervento dell’agricoltura sociale:
• riabilitazione/cura: per persone con gravi disabilità
(fisica, psichica/mentale, sociale) con una finalità socio-terapeutica;
• formazione e inserimento lavorativo: esperienze orientate
all’occupazione di soggetti a basso potere contrattuale o con disabilità;
• ricreazione e qualità della vita: esperienze rivolte a un
ampio spettro di persone con bisogni speciali, con finalità socio-ricreative
(agriturismo «sociale», fattoria didattica);
• educazione: per soggetti diversi che traggono utilità
dall’apprendere il funzionamento della natura e dei processi produttivi
agricoli;
• servizi alla vita quotidiana: agri-asili, accoglienza
diua, riorganizzazione di reti di prossimità per la cura e il supporto agli
anziani.

 (Fonte: Francesco Di
Iacovo, «Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori», Franco
Angeli 2008).

 

Stefania Garini




5_Orti: Passione e Metodo

L’intervista / Roberto Moncalvo, Coldiretti
Gli agri-asili, le agri-tate,
l’inserimento lavorativo di giovani. In un mondo dove le zone periferiche sono
sempre più sprovviste di servizi, le aziende agricole hanno qualcosa da dire.
L’agricoltura sociale diventa un risparmio per la collettività. Ma sono necessari competenza e
rigore. Parola di Coldiretti.

Roberto Moncalvo, 32 anni, è il
giovane presidente di Coldiretti Piemonte e di Coldiretti Torino. L’agricoltura
sociale è per lui, oltre che un compito istituzionale, una vocazione personale.
Insieme alla sorella Daniela, Roberto è titolare dell’azienda Settimo Miglio
(situata a Settimo Torinese), che in questi anni ha assunto nel proprio
organico un ragazzo psichiatrico, un disabile e un rifugiato politico della
Somalia.

Com’è nata nella Coldiretti l’idea
di aprirsi all’agricoltura sociale?

«In Piemonte nel 2002 abbiamo
iniziato a interrogarci sulla qualità della vita dei nostri associati, e su
come arginare l’abbandono delle terre da parte dei giovani. Attraverso una
mappatura della provincia di Torino ci siamo resi conto della carenza di
servizi sociali, ad esempio gli asili. In molte aree rurali o peri-urbane,
soprattutto a bassa densità di popolazione, c’è carenza di interventi del
pubblico ma a volte anche del terzo settore. Costruire un’impresa nuova
richiede investimenti e, con un numero basso di utenti, non c’è garanzia di
sostenibilità economica. Le imprese agricole invece sono già presenti e quindi
mettono a disposizione una parte dei loro spazi. Così, grazie anche
all’approvazione della legge di Orientamento, i nostri soci si sono attrezzati
per offrire nuovi servizi, dagli agriturismi alle fattorie didattiche. In
questi anni si sono moltiplicate le aziende del territorio che, con altri
attori locali, hanno realizzato diverse sperimentazioni nel campo
dell’agricoltura sociale».

Qualche fiore all’occhiello?

«Sì, per esempio La Piemontesina di
Chivasso (To), il primo agri-nido d’Europa. Si tratta di un asilo situato
all’interno di un’azienda agricola, gestito dall’imprenditrice insieme ad alcuni
educatori. Il progetto formativo è legato ai cicli naturali e alla vita
campestre, i giochi sono costruiti con materiali disponibili in loco. I bambini
possono sperimentare spazi e tempi di vita meno frenetici, più naturali.
Imparano anche a mangiare sano, solo prodotti di stagione, e maturano un
atteggiamento di rispetto verso l’ambiente.

Un’altra esperienza innovativa, nel
cuneese e in tutto il territorio piemontese, è quella delle «agri-tate»,
progetto di Coldiretti Piemonte che vede il coinvolgimento di tre assessorati
regionali: si tratta di imprenditrici, coadiuvanti o anche solo appartenenti a
una famiglia agricola, che dopo un corso di 400 ore (organizzato da Coldiretti)
possono offrire un servizio di cura per bambini fino a 3 anni all’interno dell’impresa
agricola, sperimentando un progetto educativo basato sulla pedagogia della
domesticità.

Così si creano posti di lavoro e si
offre ai bambini un ambiente protetto che ne favorisce la socializzazione. Ci
sono poi aziende che foiscono servizi di Estate ragazzi, andando a colmare il
vuoto dovuto al calo di preti e suore nelle parrocchie. Altre ancora, durante
le vacanze, accolgono i “nonni” che non se la sentono di andare in ferie con i
figli».

Che vantaggi trae da queste pratiche
l’impresa agricola?

«L’azienda ricava maggiore
visibilità e può aumentare il giro di vendite. L’agricoltura sociale funziona
secondo il modello win-win (vincente-vincente, ndr), cioè tutti
ci guadagnano. Prendiamo il caso di chi fa riabilitazione e inserimento dei
ragazzi psichiatrici: l’azienda migliora la sua produttività, i consumatori
mangiano cibi puliti e sani, i ragazzi vedono accrescere il proprio benessere,
le famiglie sono contente… e le Asl risparmiano. Perché se il ragazzo sta
meglio si riducono i costi per i ricoveri, per gli psicofarmaci, ecc.
L’agricoltura sociale è un risparmio per tutta la collettività».

Quali sono i punti di forza delle
aziende agricole?

«Una componente è senz’altro la
dimensione familiare: qui il luogo di lavoro coincide con la casa, con la
famiglia, il che favorisce l’instaurarsi di legami forti tra i residenti e i
ragazzi coinvolti nei progetti di reinserimento. Ma non basta la buona volontà,
servono anche competenza e rigore. Per questo Coldiretti Piemonte ha pubblicato
di recente un manuale di “Agricoltura sociale innovativa”, a cura di Francesco
Di Iacovo, che fornisce gli strumenti scientifici per una corretta valutazione
delle “buone pratiche” di agricoltura sociale».

Bibliografia
e sitografia

Agricoltura
sociale innovativa
, Francesco Di Iacovo (Coldiretti 2012)
La cooperazione
sociale agricola in Italia
, Aa.Vv. (Euricse-Inea 2012)
I buoni frutti:
viaggio nell’Italia della nuova agricoltura civica, etica e responsabile
,
Aa.Vv. (Agra Editrice 2011)
Farm City,
l’educazione di una contadina urbana
, Novella Carpenter (Slow Food 2011)
Mondi agricoli e
rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali
, Aa.Vv.
(Inea 2010)
I nuovi
contadini
, Jan Douwe van der Ploeg (Donzelli 2009)
Linee guida per
progettare iniziative di agricoltura sociale
, Alfonso Pascale (Inea 2009)
Vite contadine.
Storie del mondo agricolo e rurale
, Aa.Vv. (Inea 2009)
Agricoltura
sociale: quando le campagne coltivano valori
, Francesco Di Iacovo (Franco
Angeli 2008)

www.torino.coldiretti.it
www.aiab.it
www.ortietici.it
www.aicare.it
www.fattoriesociali.com
www.lombricosociale.info
http//:sofar.unipi.it

Documentario La buona terra. Esperienze di agricoltura
sociale in Italia, Rai 2011.

 
Hanno contribuito a questo dossier:

Stefania Garini, torinese, ha una laurea in filosofia
con master di specializzazione in Bioetica. Da 15 anni lavora come giornalista,
occupandosi soprattutto di tematiche sociali e ambientali. È volontaria Avo
(Associazione volontari ospedalieri) e presta servizio con i malati
psichiatrici. Da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.

Foto di Stefania Garini, Massimo Maiorino, Cooperativa
Frassati, L’Orto dei ragazzi e Silvia -Venturelli per Cavoli nostri.

Coordinamento editoriale di Marco bello, redattore di
MC.

 

Stefania Garini




1_M: Piccola ma vivace, La Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni

Consolazione in Mongolia

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Dossier di di Benedetto Bellesi, mons. Wenceslao Padilla, Giorgio Marengo La Chiesa cattolica in Mongolia è la più giovane tra le chiese particolari nel mondo: ha appena 20 anni di età e ha festeggiato con meritato orgoglio il suo ventesimo compleanno nel corso del 2012. Ad aprire le celebrazioni nella cattedrale di Ulaanbaatar è stato mons. Savio Hon, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Si tratta di «una Chiesa di piccole dimensioni, ma di grande vitalità» ha affermato il presule. Tale vitalità è stata espressa anche simbolicamente: a conclusione dei festeggiamenti, rispondendo all’invito del loro vescovo mons. Wenceslao Padilla, i cattolici mongoli hanno piantato un albero, come augurio che il Vangelo di Cristo affondi sempre più profondamente le radici nei cuori della popolazione mongola.

Non è la prima volta che la Buona Notizia viene annunciata a questa popolazione. Già nel secolo VI i monaci della Chiesa siriaca orientale (i cosiddetti nestoriani) si erano spinti fino alle steppe dell’Asia orientale, costituendo solide comunità che neppure le persecuzioni del IX secolo riuscirono a soffocare completamente. Nel secolo XIII, in seguito all’espansione dell’impero mongolo creato da Gengis Khan e dai suoi successori, l’evangelizzazione dei mongoli riprese sotto forma di «missioni diplomatiche», affidate ai missionari francescani, fino a costituire la diocesi di Khambaliq (oggi Pechino), con l’arcivescovo che aveva autorità «in toto dominio Tartarorum» (in tutto l’impero dei Tartari). Ma tutto fu troncato a partire dal 1368, quando i cinesi della dinastia Ming posero fine all’impero mongolo.

Dopo oltre sei secoli di vuoto, in cui dall’attuale Mongolia scomparve ogni traccia di presenza cristiana, la Chiesa cattolica è rinata nel 1992, con l’arrivo di tre missionari del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) e ha continuato a crescere in numero e qualità: oggi, dopo 20 anni, la Prefettura apostolica di Ulaanbaatar conta sei parrocchie e numerose iniziative in campo sociale, di promozione umana e di dialogo interreligioso.

Negli ultimi due secoli, in verità, ci furono vari tentativi, promossi da Propaganda Fide, per entrare nell’attuale Mongolia passando dalla Cina. Uno di essi fu programmato dai Cistercensi, che nel 1883 stabilirono la loro comunità a Yang Kia Ping, nel nord della Cina, vicino alla grande muraglia. Il monastero fu intitolato a Nostra Signora della Consolazione, titolo suggerito da Giovanni Bosco, quando il fondatore della trappa, don Ephrem Seignol, priore del monastero di Tamié nella Savoia, prima di partire per la Cina si recò a Torino per salutare il suo amico. In tale occasione, oltre ai consigli, don Bosco gli diede un’immagine della Consolata, con scritto nel retro: «Che Dio benedica voi e le vostre opere, che la Santa Vergine Consolata vi benedica sempre».

Fiorente di vocazioni e attività, agli inizi del XX sec. la trappa contava oltre 100 monaci in maggioranza cinesi, tanto da sentire il bisogno di dare vita a una nuova fondazione. «Consolazione mandò una colonia in una provincia centrale cinese - racconta Thomas Merton - e questo nuovo monastero era stato messo sotto il controllo di un priore titolare Cinese, don Paolino Li... I monaci stavano preparando i piani di espansione nella Mongolia, quando l’esercito rosso occupò entrambe le case e pose fine ad ogni progetto futuro» (T. Merton, Le acque di Siloe, pag. 301).

Erano gli anni 1947-48, durante la guerra tra l’armata rossa di Mao Tze Tung e i nazionalisti di Chiang Kai-shek; i monaci della seconda fondazione si rifugiarono a Hong Kong, ma dei 75 monaci di N. S. della Consolazione, sottoposti a torture inaudibili, 33 morirono e l’abbazia fu rasa al suolo.

Ma la Consolata ha trovato ugualmente le sue vie per entrare in Mongolia: il 27 luglio 2003 atterrarono nella capitale mongola due padri e tre suore della Consolata. Oggi la loro presenza è raddoppiata e quest’anno festeggiano con gioia il decimo anniversario della loro presenza di «Consolazione» in Mongolia.

B.B.
Benedetto Bellesi




2_M: Pericolo Giallo

1245-1368: Missioni e
missionari tra i mongoli


L’espansione dell’impero
mongolo, inglobando quasi tutto il continente asiatico e parte dell’Europa
orientale, nel XIII e XIV secolo, dapprima provocò spavento nella cristianità,
poi si rivelò occasione provvidenziale, garantendo sicurezza e stabilità
economica ai missionari e commercianti che raggiunsero le capitali imperiali.
Purtroppo l’evangelizzazione fu faticosa e poi stroncata nel momento di maggior
successo.

In tutta Europa, nel
1241, risuonava il grido «la cristianità è in pericolo», quando il generale
mongolo Batu, invasa l’Ungheria, distrutta Zagabria, saccheggiata Spalato, si
affacciava sulle sponde dell’Adriatico, mentre l’ala destra del suo esercito
marciava su Vienna. 

In pochi anni, Gengis Khan (1162-1227) e i suoi quattro
figli avevano costruito l’impero più vasto della storia, dalla Corea alla
Polonia, dal Mar Giallo al Golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le
vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) seminava dappertutto
terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come
capre o deportati come schiavi. La stessa sorte era toccata a molti cristiani
russi, polacchi, ungheresi.

Contro il pericolo giallo papa Gregorio IX invocava
invano una crociata: l’imperatore Federico II era in rotta di collisione col
pontefice; i principi cristiani in totale anarchia. Non restava che sperare
nella provvidenza. E infatti, alla fine del 1241, l’improvvisa scomparsa di
Ogodei Khan, successore di Gengis Khan bloccò l’avanzata mongola, poiché
principi e generali dovettero precipitarsi a Karakorum, la capitale dei mongoli
per eleggere il nuovo sovrano.

Ben presto l’impero si divise in quattro regni o
khanati, che nel tempo acquistarono sempre maggiore autonomia.

Missione diplomatica

Al concilio di Lione (1245), la «sevitia Tartarorum»
fu considerata tra i cinque principali dolori che affliggevano la Chiesa, per
cui il «remedium contra tartaros» fu posto subito all’ordine del giorno.
Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vide nell’espansione dei
Mongoli una nuova sfida missionaria e inviò un’ambasceria, con lo scopo di
convertirli al cristianesimo o averli almeno alleati contro i musulmani per
liberare la Terra Santa. La legazione fu affidata al francescano Giovanni da
Pian di Carpine.

«Uomo familiare e spirituale, letterato e grande
prolocutore», come lo definisce Salimbene da Parma, impegnato per vari anni nel
diffondere l’ordine francescano nell’Europa centrale e settentrionale, fra’
Giovanni aveva sviluppato notevoli capacità diplomatiche e temprato fisico e
carattere alle situazioni più impensabili: per papa Innocenzo IV era la persona
ideale per guidare un’ambasciata al gran khan dei Mongoli.

Partito da Lione il 16 aprile 1245, in compagnia di
Stefano di Boemia e più tardi di Benedetto di Polonia in qualità di interprete
di lingue slave, il messo pontificio raggiunse la Polonia e proseguì per Kiev,
dove Stefano di Boemia si ammalò e dovette interrompere il viaggio. Grazie
all’aiuto di principi russi, che procurarono loro dei cavalli tartari, capaci
di brucare l’erba anche sotto la neve, i due religiosi raggiunsero gli
avamposti dei Mongoli sul Volga, dove tradussero in persiano le lettere papali
destinate al Gran Khan.

Dopo aver percorso migliaia di chilometri attraverso le
sterminate steppe centro-asiatiche, «equitando quanti equi poterant ire
trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime
» (stando a
cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… da mattina a sera e
spesso anche di notte), come racconta nella sua Historia Mongalorum,
cibandosi per lo più di miglio con acqua e sale, dopo aver interloquito, di
tappa in tappa, con i principali signori mongoli incontrati nel cammino, il 22
luglio 1246, dopo 15 mesi di viaggio, i due francescani arrivarono
all’accampamento di Guyuk Khan, nipote di Gengis Khan, non lontano dalla città
di Karakorum, proprio mentre fervevano i preparativi per l’incoronazione
ufficiale del nuovo sovrano.

Dopo quattro mesi di attesa, fra’ Giovanni fu finalmente
ammesso alla presenza del Gran Khan e poté consegnare il messaggio papale, che
invitava l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo.
L’accoglienza fu gentile; ma il missionario fu rimandato con un messaggio
inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a
venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci,
non ne vediamo la ragione… Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i
soli a essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi
Dio si degnerà di conferire la sua grazia?». A fra’ Giovanni non restava che
riprendere a ritroso il percorso fatto all’andata; tra infiniti stenti
raggiunse Kiev e da lì Lione, nel novembre del 1247. L’anno seguente fu
nominato arcivescovo di Antivari, in Montenegro, dove morì nel 1252.


Altre legazioni papali e reali

Nonostante la mancata conversione dei Mongoli,
l’esperienza di fra’ Giovanni da Pian del Carpine ebbe una portata storica
impareggiabile: osservatore privilegiato e testimone effettivo del popolo
mongolo, egli fu il primo a farlo conoscere all’Occidente, con la sua «Historia
Mongalorum quos nos Tartaros appellamus
» in cui racconta il suo viaggio e
soprattutto il mondo culturale e religioso della società mongola, la sua
storia, virtù e difetti, loro tecniche militari e perfino l’aspetto fisico (vedi
riquadro
).

Nell’impero mongolo vigeva una certa tolleranza verso
tutte le religioni, benché i Mongoli seguissero prevalentemente credenze
sciamaniche. Anche la risposta del gran khan Guyuk alla missiva del Papa, tutto
sommato, aveva più sapore di orgoglio e indifferenza che di ostilità. Lo stesso
fra’ Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini dei
nestoriani in una cappella che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran
Khan; due ministri dell’impero mongolo erano cristiani nestoriani.

Altri missionari furono inviati con lettere del Papa e
di Luigi re di Francia. Uno di essi fu il domenicano francese Andrea da
Longjumeau: prima fu mandato da Innocenzo IV a evangelizzare i tartari del
khanato di Persia (1245-47), poi, nel 1249, Luigi IX lo inviò al gran khan
Guyuk per chiedere protezione verso i cristiani dell’impero mongolo e la sua
alleanza nella crociata per la liberazione dei luoghi santi. Andrea arrivò a
Karakorum che il Gran Khan era morto da mesi; offrì alla sua vedova, la
reggente Oghul Qaimish, doni preziosi, tra cui una reliquia della Santa Croce,
che accettò volentieri come segno di sottomissione e consegnò al frate una
lettera per Luigi IX, in cui invitava il re di Francia a considerarsi suo
vassallo e pagare un tributo annuo ai Mongoli. Rispetto alla missione di
Giovanni da Pian del Carpine non ci fu quindi alcun progresso. Tuttavia il
frate domenicano toò con molte informazioni sulla neutralità dei Mongoli in
materia religiosa e sulla forte presenza di cristiani nestoriani alla corte
dell’imperatore. Tali informazioni incoraggiarono Luigi IX a inviare un’altra
missione, nella speranza di convertire al cristianesimo tutta l’aristocrazia
mongola.

La nuova missione affidata nel 1253 al francescano fiammingo
Guglielmo di Rubruck, aveva carattere non solo missionario ma anche politico e
scientifico. Nelle sue lettere il re di Francia usò espressioni di cortesia
verso i re tartari, chiedendo che Guglielmo e il suo compagno fra’ Bartolomeo
da Cremona, potessero restare nei paesi da loro governati «per insegnare la
Parola di Dio». Al tempo stesso re Luigi chiese a Guglielmo di scrivere un
rapporto su tutto ciò che avrebbe potuto apprendere sui Mongoli.

Partiti nel 1253 da San Giovanni d’Acri alla volta di
Istanbul, i due missionari proseguirono verso la regione del Volga,
incontrarono il campo militare (orda) di Sartach, poi quello di suo padre Batu,
dove furono accolti con benevolenza, ma vennero indirizzati a Karakorum, poiché
solo il Gran Khan aveva potere di decidere circa le relazioni con i sovrani di
altri popoli. Raggiunto l’accampamento di Mongku, nipote di Gengis Khan e
successore di Guyuk, i due missionari entrarono in Karakorum nell’aprile del
1254. Guglielmo fece moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari,
monaci nestoriani o buddisti, sciamani, prigionieri occidentali… Egli
organizza pubbliche dispute teologiche con sacerdoti buddisti: tutti ascoltano
senza fiatare, ma nessuno diceva di voler essere cristiano. Il missionario
riescì ad amministrare solo sei battesimi, tutti a figli di deportati.

Ammesso alla presenza di Mongku Khan, Guglielmo si sentì
spiegare che il sovrano non aveva bisogno del cristianesimo; gli bastavano gli
indovini, i cui consigli lo facevano vivere bene. A luglio dello stesso anno
ripartì, portando con sé la lettera per il re di Francia in cui Mongku gli
chiedeva la sua sottomissione. Dopo quasi un anno di viaggio, il missionario
raggiunse la Terra Santa, dove scrisse un rapporto preciso e dettagliato del
viaggio in forma di lettera per re Luigi: resoconto vivo e affascinante, uno
dei capolavori della letteratura geografica medioevale, intitolato Itinerarium
fratris Willielmi de Rubruquis
.

Missioni… commerciali

Se dal punto di vista missionario e diplomatico furono
un fallimento, queste ambascerie ebbero altri risvolti positivi: le notizie
raccolte dai missionari svelarono all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le
loro imprese aprirono ai mercanti la strada verso il favoloso Cathay, come era
chiamata la Cina. Dove fallirono le missioni diplomatiche, riuscirono quelle
commerciali.

Nel frattempo, infatti, il nuovo gran khan Kubilai aveva
spostato in Cina la capitale del suo impero, conosciuta dagli europei col nome
turco di Khambaliq (città del khan), l’odiea Pechino. A contatto con
la civiltà cinese la cultura mongola conobbe una nuova fase. È quanto
testimoniano due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo: arrivati nella
capitale nel 1260, trovarono una corte variopinta e un imperatore ben disposto
e curiosissimo: «Dimandò di messere il Papa e di tutte le condizioni della
Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». E quando i due mercanti
ripartirono, dopo nove anni, Kubilai li pregò di ritornare e di portargli «un
po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo», e affidò loro un
messaggio per il Papa, in cui chiedeva 100 uomini di scienza che istruissero i
tartari sulla religione cristiana.

Nel 1271 il papa Gregorio X mandò due domenicani,
insieme ai due mercanti veneziani, cui si era aggiunto il piccolo Marco, autore
del Milione; ma i frati tornarono subito indietro. Sei anni dopo furono
inviati quattro francescani, che sparirono nel nulla.

Nel 1287 un monaco nestoriano, Raban Sauma, arrivò in
Europa come ambasciatore dello stesso Kubilai Khan, per chiedere al re di
Francia un’alleanza contro i turchi e al papa di inviare missionari. Nicolò IV,
primo papa francescano, non esitò un istante: nel 1289 decise di mandare un
missionario già collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.

Giovanni da Montecorvino

Nato nel 1247 a Montecorvino, vicino a Saleo, «dottissimo
ed eruditissimo» come lo definisce il Marignolli, per 10 anni aveva predicato
il vangelo in Armenia, Persia e Tartaria settentrionale, operando migliaia di
conversioni. Tornato a Roma come ambasciatore dei re di quelle regioni presso
il papa, Nicolò IV lo nominò suo legato e lo inviò subito indietro, con 26
lettere credenziali da consegnare a re, dignitari ecclesiastici georgiani,
nestoriani, giacobiti, fino al gran khan della Cina.

Partito il 15 luglio 1289 insieme a un manipolo di
francescani e domenicani e al mercante genovese Pietro Lucalongo, fra’ Giovanni
raggiunse le regioni del suo primo amore missionario, consegnò a principi e
prelati le lettere papali e continuò dappertutto a predicare, istruire,
convertire e organizzare comunità cristiane.

Ripreso il viaggio via mare, si fermò in India per oltre
un anno; poi, sempre via mare, nel 1294 approdò insieme al domenicano Nicola da
Pistornia e a Lucalongo al porto cinese di Zaitung o Quanzhou; risalendo il
Canale imperiale, raggiunse Khambaliq e consegnò la lettera papale a Timur Khan
(Kubilai era morto quello stesso anno).

Come legato del papa, Giovanni da Montecorvino fu
accolto con tutti gli onori; gli fu concesso il privilegio di risiedere nella
città proibita; ebbe piena libertà di annunciare il Vangelo a mongoli e cinesi,
ai membri della famiglia imperiale e ai nestoriani. I frutti arrivarono subito:
una principessa, promessa sposa del gran khan, e il nestoriano principe
Giorgio, re di Tenduk, abbracciarono la fede cattolica.

Ma i nestoriani non gliela perdonarono. Presenti in Cina
da sette secoli e sparsi in 20 province settentrionali e orientali del celeste
impero, essi occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e non avevano
alcuna intenzione di condividere i loro privilegi con l’ultimo arrivato e lo
calunniarono per cinque anni davanti alla corte del gran khan.

Finalmente scagionato da ogni accusa, riprese con
successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. In una lettera ai confratelli
di Tabriz nel 1305, tirava qualche somma del lavoro svolto in 11 anni di
missione. «Ho amministrato il battesimo a 6 mila persone. Se non ci fossero
state le calunnie dei nestoriani, ne avrei battezzate altre 30 mila. E sto sempre
battezzando». Riuscì a convertire anche importanti personalità della corte, ma
non il gran khan, «ormai incallito nell’idolatria» come confessava lo stesso
monarca.

Rimase da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso
fino a erigere altre diocesi suffraganee. Ma in Occidente, con il papa in
esilio ad Avignone, nessuno si ricordava più di quel frate sparito nel nulla,
finché fra’ Tommaso da Tolentino, proveniente dalla Persia, arrivò ad Avignone
durante un concistoro e lesse le lettere di Montecorvino davanti al papa e ai
cardinali. Grande fu lo stupore nel sentire quelle meraviglie d’altro mondo. E
quando le lettere arrivarono nei conventi, molti religiosi si offrirono
volontari per raggiungere l’eroico missionario.

Papa Clemente V nel 1307 inviò alcuni missionari e 7
vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Khambaliq e patriarca di tutto
l’Oriente «in toto dominio Tartarorum»; solo tre di essi giunsero a
destinazione due anni dopo. La consacrazione di fra’ Giovanni avvenne nel 1310
nella chiesa attigua alla reggia, alla presenza di Guluk Khan (succeduto a
Timur nel 1308) e di una folla incontenibile d’ogni razza e religione.

Nel 1325 un altro grande missionario francescano,
Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia
meridionale, raggiunse Pechino e per tre anni aiutò il vecchio Montecorvino.
Tornato in Italia per chiedere rinforzi per la missione in Cina, morì un anno
dopo il suo arrivo. Ma ebbe ancora il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di
Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), un’opera che non ha nulla da invidiare al Milione
di Marco Polo e che diventò subito un best seller, tradotto in italiano,
francese e tedesco.

Fra’ Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, a 81 anni,
compianto da cristiani e pagani, «venerato come santo da Tartari e Alani» come
scriveva Marignolli. Alla sua morte la Chiesa in Cina contava oltre 30 mila
fedeli. La sua opera fu continuata da una cinquantina di confratelli, ma non sopravvisse
per più di 40 anni, sia perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati
minori, impedendo l’invio di nuovi missionari, sia, soprattutto, perché la
dinastia Ming prese il potere (1368) e pose fine all’impero mongolo,
distruggendo la vecchia capitale Karakorum, ma senza riuscire a controllare il
territorio. Al tempo stesso il celeste impero chiuse i confini agli stranieri e
le cristianità si dissolsero, scomparendo lentamente nel nulla.

Benedetto
Bellesi

Scheda 1: Visti da vicino: Aspetto fisico, virtù e
vizi dei Tartari


«Il loro aspetto fisico è
diverso da quello di tutti gli altri uomini. Sono, tra gli occhi e le guance,
più larghi degli altri uomini, e le guance sporgono sulle mascelle. Hanno il
naso piatto e corto, gli occhi piccoli, e le palpebre che salgono sino alle
sopracciglia. Sono assai sottili di cintura, con poche eccezioni. Quasi tutti
sono di statura mediocre. La maggior parte hanno pochissima barba; alcuni
tuttavia hanno sul labbro superiore e sul mento qualche rado pelo che non
tagliano mai. Sulla cima del cranio, hanno una corona di capelli, alla maniera
dei chierici, e da un orecchio all’altro, su una larghezza di tre dita, tutti
si radono i capelli alla stessa maniera, ma lasciano crescere sino alle
sopracciglia i capelli che sono tra la corona e la rasatura; e da una parte all’altra
della fronte, hanno i capelli tagliati più che a metà; per il resto, li
lasciano crescere, alla maniera delle donne, e ne fanno due trecce che annodano
dietro l’orecchio. Hanno i piedi piccolissimi.


I detti uomini, ossia i
Tartari, sono assai più obbedienti verso i loro superiori, di quanto non lo
siano gli altri uomini… e li venerano grandemente, né osano mentire dinanzi a
loro. Contendono di rado a parole e mai con fatti. Guerre, risse, ferimenti,
omicidi, non avvengono mai tra di loro. Predoni e ladri di grandi cose non si
trovano tra di loro, perciò non usano chiudere con serrature o legature le loro
abitazioni e i carri entro i quali racchiudono il proprio tesoro. Se qualche
animale si disperde chiunque lo incontri, o lo lascia dove trovasi o lo
consegna a coloro che sono incaricati di raccoglierli. E i proprietari li
richiedono a questi, ottenendoli di ritorno senza nessuna difficoltà. Si
rispettano molto l’un l’altro e si trattano con grande famigliarità e per
quanto i viveri siano assai scarsi, pure se li passano volentieri… Le loro
mogli sono caste, né si sente mai dir nulla della loro impudicizia…


Essi sono quanto mai
altezzosi e sprezzanti verso gli altri uomini e li considerano pochissimo,
siano nobili, siano ignobili… Sono assai irosi verso gli altri uomini e
sdegnosi ed anche mentitori con gli stranieri…»


(Historia
Mongalorum
, 1247).


Scheda 2: I Nestoriani in Cina

A portare per primi il
Vangelo nell’Estremo Oriente furono missionari comunemente detti nestoriani,
appartenenti alla Chiesa Siriaca d’Oriente, diffusa in Persia e Mesopotamia.
Guidati dal monaco persiano Alopen, essi portarono il cristianesimo in Cina nel
635, durante la dinastia dei «T’ang», alquanto tollerante verso le religioni
non cinesi. Il fatto è testimoniato dalla famosa stele di Si-ngan-fu, eretta
nel 782, scritta in lingua siriaca e caratteri cinesi, scoperta nel 1625.

Caposaldo della
metodologia missionaria dei cristiani orientali erano i monasteri. Si
sforzarono di presentare le verità cristiane, adattandole alla mentalità cinese
e assumendone la lingua; disponevano di una preziosa biblioteca: 230 libri, in
parte tradotti e in parte adattati da esperti. Alcuni di questi scritti furono
ritrovati nel 1908 nelle grotte di Tunhwang (ad esempio il libro Gesù Messia).
Questo primo tentativo di evangelizzazione durò fino all’845, allorché un
editto imperiale e relative persecuzioni ne decretarono la fine.

Ma durante i secoli
XI-XIII, grazie alla «pax mongolica», che garantiva a mercanti e
missionari di viaggiare in sicurezza attraverso l’impero di Gengis Khan, la
Chiesa d’Oriente riprese vigore e fu accolta da diverse tribù turco-mongole
dell’Asia centrale e settentrionale. Gruppi di cristiani orientali furono
segnalati da Marco Polo e dai missionari francescani nell’impero mongolo.

«Sappiate, padri miei –
disse un cristiano orientale nel XIII secolo – che molti dei nostri padri sono
andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che
sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati
che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i
cristiani, e molti di loro sono credenti».

B.B.

Scheda 3: Sei secoli di grande vuoto

Con la perdita del potere per mano
della dinastia cinese dei Ming (1368), l’impero mongolo fu totalmente
disgregato e i clan rivali cominciarono a combattersi tra loro, soprattutto
nelle regioni dove l’impero cinese esercitava meno controllo.

Nel XVI secolo,
sotto Altan Khan, i principi mongoli abbracciarono il buddismo tibetano,
sistema di scrittura compreso, per non essere totalmente assorbiti nell’impero
cinese. Un secolo più tardi, sotto la dinastia Qing (1636-1911), il territorio
abitato dai mongoli fu diviso in due province: Mongolia interiore, rimasta
sempre legata all’impero cinese, e Mongolia esteriore, che ebbe un regime si
semiautonomia e, caduta la dinastia Qing, diventò oggetto di contesa tra cinesi
e russi, riducendosi nei confini attuali. Intanto cresceva il nazionalismo dei
suoi abitanti, che nel 1921, con l’appoggio della Russia, si dichiararono
indipendenti, formarono il proprio governo nel 1924, dando origine alla
Repubblica popolare di Mongolia, di stretto stampo sovietico: per 70 anni i
mongoli subirono l’ingerenza e la dittatura comunista dell’Urss, senza peraltro
entrare a far parte formalmente dell’Unione Sovietica.

Dal 1368 al 1990
nella Mongolia esteriore non si ha alcuna traccia di presenza cristiana. Nel
1864 Propaganda Fide incaricò i missionari Lazzaristi e di Scheut
(Congregazione del Cuore Immacolato di Maria) di evangelizzare l’intera
Mongolia, ma non poterono lavorare che nella Mongolia interiore. Nel 1922 la
Santa Sede eresse la missione sui iuris di Urga (rinominata Ulaanbaatar
dai comunisti), affidandola ai missionari di Scheut, ma il cambiamento politico
impedì loro di entrare. Il nuovo regime cancellò ogni segno religioso,
distrusse luoghi di culto, trucidò migliaia di monaci, abbatté monumenti
storici, sostituendoli con statue di Lenin e Stalin. Fu perfino proibito di
pronunciare il nome di Gengis Khan, eroe nazionale e «divinità» popolare.

Con l’avvento della perestrojka
sovietica, anche in Mongolia iniziò la svolta democratica, con libere elezioni
(1990) e con l’entrata in vigore di una nuova costituzione (12 febbraio 1992),
che garantisce libertà di religione. Nel frattempo una delegazione del governo
mongolo si presentò in Vaticano per chiedere di allacciare relazioni
diplomatiche con la Santa Sede, dicendo che sarebbe stata ben accolta la
presenza e il contributo di missionari cattolici alla ripresa della società
mongola.

Il 4 aprile 1992
Santa Sede e Mongolia stabilirono le relazioni diplomatiche; tre mesi dopo
arrivarono a Ulaanbaatar tre missionari di Scheut per riprendere
l’evangelizzazione del popolo mongolo, colmando così un silenzio storico durato
oltre sei secoli.

B.B.

Benedetto Bellesi




3_M: Torna a rifiorir la steppa

Storia e sfide della
chiesa più giovane del mondo
Con un messaggio
pastorale il prefetto apostolico di Ulaanbaatar, monsignor Wenceslao Padilla, traccia la storia dei primi 20
anni della missione cattolica in Mongolia. Una storia che parte da tre
missionari e arriva a centinaia di fedeli e un buon numero di missionari e
missionarie, diverse strutture e nuove conversioni ogni anno. Oggi, però, con
lo sviluppo economico e l’avvento della democrazia le sfide si moltiplicano.

Il 10 luglio del 1992
una Chiesa è nata nelle steppe dell’Asia Centrale. Ciò avvenne quando tre
missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) misero il
piede sul suolo mongolo. Sembrava quasi un’avventura per i tre religiosi
stabilire una missione là dove la Chiesa non aveva alcuna struttura fisica né
membri da considerare propri. Sin dall’inizio, l’idea di far nascere una Chiesa
dal nulla sembrava un’impresa paurosa, piena di sfide, ma anche eccitante.

Siamo arrivati quando la Repubblica di Mongolia si era
appena liberata dal dominio della Russia Sovietica e la nazione stava tentando
i primi passi per reggersi in piedi da sola. Il governo appena costituito
cercava di rispondere ai vari problemi e necessità della gente e del paese.
C’era una situazione in un certo senso caotica nei luoghi pubblici, come lo «sciopero
della fame» messo in atto davanti al palazzo presidenziale e parlamento, per
chiedere le dimissioni dell’allora primo ministro. A guidare la dimostrazione
c’era anche un coraggioso e impegnato attivista sostenitore della democrazia:
Tsakhiagiin Elbegdorj, attuale presidente del Paese.

I primi contatti

Stando in un appartamento in affitto, abbiamo lentamente
trovato la nostra strada per entrare nel cuore dei mongoli, cercando di vivere
come loro, sperimentando le stesse privazioni e difficoltà di vita di quel
tempo. C’era scarsità di cibo e mancanza di comodità. La Mongolia era un «paese
di stenti», come dicevano molti stranieri incontrati durante i primi giorni
della nostra integrazione. Ben presto, però, dopo aver conosciuto meglio la
gente e il loro stile di vita, e dopo aver imparato un po’ la loro lingua, ci
siamo sentiti più fiduciosi nell’allacciare contatti con i locali.

«Venite e vedete» era la nostra parola d’ordine per far
sentire benvenute e a proprio agio le persone che incontravamo e si avvicinavano
a noi. Alla curiosità di chi si domandava chi eravamo, cosa facevamo, perché
eravamo in Mongolia… rispondemmo piano piano, quando cominciammo a invitare e
radunare la gente per le celebrazioni liturgiche, a organizzare classi di
catechismo e a svolgere attività sociali.

I primi anni sono stati tempi di sopravvivenza,
adattamento e aggiustamento alle realtà fisiche del paese e del suo popolo. Per
quel trio, sono stati anni di vero discernimento, inculturazione e prima
evangelizzazione… i primi contatti della Chiesa istituzionale con i fedeli di
altre credenze e convinzioni religiose.

Non eravamo tanto preoccupati delle difficoltà e delle
sfide che ci circondavano, come invei molto rigidi, barriere linguistiche,
mancanza di comodità, fortissima adesione della popolazione a buddismo,
sciamanesimo e islam, presenza di altre denominazioni e sette cristiane,
assenza di fedeli cattolici locali e di qualsiasi edificio sacro. Personalmente
presi tutto questo come aspetti positivi della vita missionaria. Tali condizioni
ci offrivano una sfida e un’opportunità. Eravamo fortemente convinti che quel
Dio che ci chiamava e ci mandava in Mongolia fosse presente già da tempo nelle
vite ordinarie dei fratelli e sorelle mongoli, anche prima del nostro arrivo.
Tale pensiero era uno sprone per crescere nell’apprezzamento e nella
comprensione delle realtà concrete  del
paese e della gente.

La Chiesa in Mongolia oggi

Guardando indietro a questi primi 20 anni di presenza
della Chiesa cattolica in Mongolia, siamo lieti di ripetere come il salmista: «Grandi
cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (126, 3).

Dai 3 pionieri, siamo passati a 81 missionari di 22
differenti nazionalità e di 13 istituti e gruppi religiosi diversi; da una
popolazione cattolica pari a zero, oggi sono circa 835 i mongoli entrati nella
Chiesa cattolica attraverso l’iniziazione cristiana; molti di più sono quelli
già introdotti nella fede cattolica e che sono accompagnati dai missionari con
differenti programmi di catechesi.

Con il rilevante aumento del personale (missionari e
collaboratori locali) continuano a crescere ed evolversi attività pastorali,
sociali, educative, umanitarie caritative e di sviluppo: tutti progetti diretti
al miglioramento della situazione della povera gente.

Ora la missione può vantarsi di avere 5 parrocchie e
altrettante postazioni missionarie con estesi servizi sociali; 2 centri per i
bambini di strada; una casa per anziani; 2 asili Montessori; 2 scuole
elementari; un centro per bambini disabili; una scuola tecnica; 3 biblioteche
con sale di studio e strutture informatiche; un ostello per giovani
universitarie, anch’esso dotato di sala studio e servizi informatici; vari
centri per attività giovanili; 2 cornoperative agricole; un ambulatorio con
laboratorio; un Centro di ricerca Mostaert; programmi di lingue… La Caritas
Mongolia
porta avanti programmi di escavazione e riparazione di pozzi
profondi, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, servizi e assistenza nelle zone rurali, lotta al traffico di esseri
umani. Inoltre abbiamo un centro per ritiri spirituali, centri con programmi
per alleviare la povertà, offriamo borse di studio a studenti poveri e
meritevoli di città e di campagna.

La celebrazione dei 20 anni di vita della Chiesa
cattolica in Mongolia è stata segnata da altri eventi, come l’inaugurazione
della scuola elementare della Prefettura e l’erezione della quinta parrocchia
intitolata a «Maria Madre della misericordia» (quella di Arvaiheer, vedi
pag. 47-49, ndr
). Inoltre, siamo anche felici che due giovani mongoli sono
oggi in un seminario della Corea del Sud, presso l’Università cattolica di
Daejeon, per prepararsi al sacerdozio.

Con tutto ciò, ora siamo in grado di guardare al futuro
con più fiducia e speranza. Con pazienza e determinazione siamo decisi a
raggiungere altra gente, non solo quelli che si sono già uniti a noi nella
fede, ma anche quelli di cui ci prendiamo cura anche se non sono ancora
battezzati. Tuttavia una frustrazione si sta insinuando in questa Chiesa
adolescente: circa il 23% dei battezzati non frequenta più i riti liturgici;
alcuni hanno già abbandonato la fede; un altro 15% è fuori alla ricerca di
pascoli più verdi, sperando che, dovunque si trovino, continuino a praticare
qualche forma di vita cristiana.

Guardando al futuro e alle sue sfide

Sono passati 20 anni. È difficile ora risalire a punto
in cui abbiamo cominciato. Con le trasformazioni del paese causate dall’avvento
della democrazia e dell’economia di mercato, la Mongolia si affaccia a un
futuro sconosciuto per molte generazioni di mongoli. Al momento il paese si
trova alla ribalta e attrae l’avidità di molti investitori stranieri, data la
sua ricchezza di risorse naturali. L’industria mineraria è esplosa negli ultimi
anni e sta attirando un movimento immigratorio dalle città alle zone rurali. C’è
anche un influsso di esperti e tecnici stranieri che stanno facendo le
infrastrutture e le prime operazioni di scavo.

Con lo sviluppo portato da questo fenomeno, il tenore di
vita della popolazione sta raggiungendo livelli 
elevati; ma il costo della vita e dei beni di prima necessità continua a
crescere. Per affrontare questa situazione la popolazione viene sostenuta con
sussidi da parte del governo, il quale sta già ricevendo somme considerevoli grazie
agli investimenti previsti dalle compagnie estrattive. Si può dire che le
autorità politiche stanno già usando gli «utili non ancora realizzati» dalle
attività minerarie per condividerli con la popolazione. Di conseguenza, la
maggior parte dei dividendi governativi ricavati dai profitti minerari molto
probabilmente toerà nelle tasche degli investitori una volta che le
operazioni saranno in pieno sviluppo e inizieranno a rendere.

Tale situazione pone alla Chiesa sfide tremende. Quello
che sta succedendo potrà essere di aiuto al popolo, ma di sicuro non aiuterà la
comunità cattolica che dipende dagli aiuti e sostegno dall’estero: non abbiamo
alcuna fonte di guadagno locale, dato che siamo qui come «organizzazione non
profit
». L’aumento dei salari del 53% avvenuto nel 2012 ha aggravato fortemente
le difficoltà finanziarie della Chiesa. È molto probabile che i missionari
dovranno tirare la cinghia, ridurre un buon numero di personale o chiudere
alcuni dei loro progetti.

A tutto ciò si aggiunge una considerevole diminuzione
delle donazioni dall’estero per portare avanti i nostri progetti. Le agenzie di
raccolta fondi, colpite dalla recessione economica globale, non sono riuscite a
raggiungere i traguardi degli anni scorsi. Anche i benefattori, che sentono e
leggono la propaganda sulla crescita del benessere della Mongolia danno di
meno. Con questa nuova situazione, la Chiesa deve superare ostacoli sempre più
grandi per sopravvivere.

Un’altra sfida che la Chiesa deve affrontare è la
rinascita dello sciamanesimo, la religione culturalmente radicata nella
popolazione, che propone l’adorazione della natura, cioè il tengerismo
(adorazione dei cieli blu). La gente sta tornando ai suoi costumi culturali
ancestrali e credenze tradizionali.

Infine, data la crescente richiesta di lavoratori nelle
imprese minerarie, suppongo che bisognerà cambiare le strategie di missione
della Chiesa, per aiutare quelle persone che saranno coinvolte nel processo
migratorio dalle città alle campagne.

Cosa può offrire oggi la Chiesa alla Mongolia?

Per essere rilevante, la Chiesa deve guardare più
attentamente al futuro, adattandosi alla società in celere mutamento, sotto la
spinta della democrazia, dell’economia di mercato, del materialismo e del
consumismo. Da una comunità nomade di pastori a una società di residenti urbani
e nei siti minerari, con l’aumento della forma di vita sedentaria, bisogna
adottare un nuovo tipo di apostolato e di servizio, per compiere la missione di
evangelizzazione e diffusione del Vangelo. 
Per essere percepita come necessaria, la Chiesa deve concentrarsi
nell’aiutare la gente a preservare o acquisire i valori della convivenza
civile. Questo, credo, si raggiunge infondendo i valori umani e cristiani e i
relativi comportamenti.

Stiamo attraversando una soglia, laddove la Chiesa ha
concentrato i suoi sforzi in campo sociale, umanitario e di sviluppo. Questi
ambiti di coinvolgimento rimangono attuali, dato che molte persone, sia nelle
zone rurali che tra i nuovi migranti nelle città, incontrano ancora difficoltà
nella vita economica e collettiva, a causa della mancanza di etica sociale e
dell’aumento dei prezzi dei beni essenziali. Ad ogni modo, è arrivato il
momento di rafforzare il ruolo educativo e pastorale della Chiesa. Penso che
l’istruzione, in tutte le sue varie ramificazioni, debba essere prioritaria.
Credo che qualunque sia la direzione che la Mongolia e il suo popolo vogliano
prendere, deve avvenire un cambiamento di mentalità da nomade-rurale a
cittadino sedentario. Questo può avvenire solamente con il giusto approccio e
le giuste conoscenze. La Chiesa può aiutare in questo, rafforzando il proprio
impegno nel campo dell’educazione.

Intanto la Chiesa deve mantenere con sollecitudine la
propria reputazione di comunità di accoglienza e di protettrice dei poveri,
dando sostegno morale ai bisognosi. La vita di testimonianza dei suoi fedeli,
per essere credibile e degna di fiducia, deve mostrare coerenza tra
predicazione e stile di vita cristiano… testimoniare il Vangelo e i suoi valori
con parole e fatti.

Conclusioni

Credo che questa Chiesa fiorisca con lo Spirito di Dio
che la guida. È sopravvissuta ai primi e più difficili anni della sua esistenza
grazie alla dedizione e impegno dei missionari e loro collaboratori laici, e
sono certo che continuerà a crescere con il costante impegno dei suoi agenti
pastorali e collaboratori, unito alla generosità di singoli e gruppi donatori
di altre Chiese di tutto il mondo. Siamo in debito con i nostri benefattori!
Grazie e che Dio vi benedica!

Inoltre, è assolutamente necessario un forte spirito di
collaborazione e organizzazione nell’integrare i nostri differenti carismi di
congregazioni religiose in uno sforzo e visione comune. Lo spirito di unità e
di comunione fra i missionari è un obbligo, ed è la migliore testimonianza che
possiamo offrire e trasmettere al popolo mongolo. Anche la vita personale di
ogni agente pastorale è un modo potente per testimoniare il Vangelo. Le parole
di Paolo VI sono ancora più vere nella nostra situazione: «Uomini e donne oggi
ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri. E se ascoltano i maestri è
perché sono testimoni» (Evangelii nuntiandi 41).

La Missione mongola avanza nel
futuro tenendo ben a mente il «noi» della Chiesa e della fede apostolica.
Ognuno ha un compito diverso nella vigna del Signore, ma siamo tutti compagni
di lavoro. Ciò vale oggi e per il futuro, per ogni singolo cristiano. Siamo
tutti umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo nella misura in cui ci è
consentito, secondo i nostri doni, e chiediamo a Dio che la sua Buona Notizia e
la sua Comunità ecclesiale si sviluppi oggi e nel futuro tramite «noi».

E così, al di là delle nostre funzioni effettive, questa
è la vera sfida nell’essere veri missionari, chiamati ad aiutare a trasformare
la vita di coloro con cui entriamo in contatto, in modo particolare i poveri e
i bisognosi, nel nostro ministero e nella nostra missione.

Mons.
Wenceslao Padilla

Wenceslao Padilla




4_M: Una Storia di Provvidenza

Da 10 anni i missionari
della Consolata in Mongolia
Arrivati senza progetti
prefabbricati, hanno cercato la loro via attraverso il confronto, dialogo e
discernimento: oggi i missionari e le missionarie della Consolata in Mongolia
sono 11, distribuiti in due comunità, nella capitale e nella cittadina di Arvaiheer.

Nudee adesso ha 10
anni. Il suo è un soprannome e si riferisce agli occhietti vispi che spiccano
sul suo volto minuto. Lo abbiamo conosciuto quando lottava per sopravvivere,
tra gli stenti di una famiglia troppo provata; oggi è un ragazzino vivace e
sano che ha ripreso a vivere e sperare. Guardandolo, ci viene da pensare che la
nostra presenza in Mongolia ha la sua stessa età. Compiamo anche noi 10 anni di
Mongolia: quella che ci sembra una giornata ininterrotta, neanche poi così
lunga, negli occhi di Nudee è già una vita. Breve, ma intensa, ricca di
incontri, esperienze e strade percorse.

I primi inizi

Prima di partire da Roma, di mons. Padilla sapevamo solo
che era il Prefetto Apostolico di 
Ulaanbaatar che aveva benevolmente accolto la delegazione dei missionari
e missionarie della Consolata nel 2002, di ritorno dalla Cambogia, la quale
inizialmente sembrava dovesse essere il nostro nuovo campo di apostolato. E qui
già una sorpresa, la prima di tante che la Provvidenza ha seminato nella nostra
storia: invece che in Cambogia, i nostri due Istituti scelsero la Mongolia, la
cui situazione richiedeva forze missionarie che si dedicassero
all’evangelizzazione, al dialogo interreligioso e alla consolazione dei poveri;
queste le uniche grandi linee-direttrici consegnate al primo gruppo di
partenti: i padri Juan Carlos Greco e Giorgio Marengo, le suore Lucia
Bortolomasi, Maria Ines Patino e Giovanna Maria Villa. Sì, un gruppo misto, per
espressa volontà dei due Istituti, che intendevano riprendere quella comunione
di vita e missione che li aveva visti nascere dal beato Allamano. Il gruppetto
si trovò per un mese di convivenza tra Nepi (Viterbo) e Roma, nella primavera
del 2003. E già in quei primi passi di conoscenza reciproca e formazione
sperimentò il passaggio della croce per la malattia improvvisa di padre Paolo
Fedrigoni, anch’egli destinato alla Mongolia, ma sostituito da padre Eesto
Viscardi, che raggiunse il gruppo a inizio 2004. Anche suor Sandra Garay, pur
avendo partecipato al cammino di preparazione, si unì al gruppo qualche mese più
tardi.

Il mandato delle due Direzioni Generali era essenziale:
iniziare questa nuova presenza puntando sulla comunione tra di noi e senza
troppi traguardi da raggiungere, perché quelli li avremmo scoperti insieme, sul
posto. E così partimmo: era il luglio 2003. I nostri confratelli della Corea
furono i primi a accoglierci in terra asiatica, mentre sbrigavamo le formalità
per ottenere il visto dall’ambasciata mongola di Seoul. Durante quei giorni
ricevemmo una chiamata di mons. Padilla: «Abbiamo trovato per voi due alloggi
in affitto nello stesso condominio; vi aspettiamo all’aeroporto». Pochi giorni
dopo volammo verso  Ulaanbaatar: sentendo
gli annunci in mongolo delle assistenti di volo ci chiedevamo quando mai
avremmo imparato a esprimerci in una lingua così difficile…

Fu proprio la lingua la priorità alla quale dedicammo i
primi tre anni di presenza nella capitale: tornammo sui banchi di scuola per
cercare di assimilare suoni impronunciabili e capie la grammatica, oltre che
per introdurci al mondo culturale di questo poco conosciuto paese dell’Asia
Centrale.

Vivevamo in due alloggi nello stesso condominio, nella
zona est di  Ulaanbaatar. Fu spontaneo
impostare i ritmi quotidiani su alcuni appuntamenti fissi condivisi: preghiera,
pasti preparati a tuo, incontri di formazione e valutazione. Nascevano
momenti di condivisione spontanea, vitali per persone che, provenienti da paesi
diversi e con alle spalle esperienze di missione piuttosto eterogenee, dovevano
imparare a orientarsi in un mondo del tutto nuovo e piuttosto insolito. Allora
forse non lo sapevamo, ma si stava definendo uno stile che avrebbe poi
caratterizzato questa missione: la frateità vera, declinata al maschile e al
femminile, e che supera la semplice «collaborazione», per diventare spirito di
famiglia, responsabilità condivisa nelle scelte, esperienza di crescita umana e
spirituale.

Qualcuno tra i missionari di altre congregazioni già sul
campo si stupì che non fossimo arrivati con un progetto già ben definito,
magari una scuola o un centro di salute: «E poi cosa farete? Di che cosa vi
occuperete?» era la domanda più ricorrente. Ma fu proprio questa libertà da
schemi predefiniti che ci permise di metterci in atteggiamento di attenzione e
discernimento di quale fosse la volontà di Dio per noi.

Alcune scelte importanti

Nel frattempo mons. Padilla era stato ordinato vescovo e
la piccola chiesa locale provava a darsi una prima organizzazione ufficiale.
Negli anni a seguire avremmo poi offerto un contributo determinante in questo
processo, al punto che uno di noi, padre Eesto Viscardi, è oggi Prefetto
delegato, ossia vicario generale del vescovo. Ciò che diventava gradualmente più
chiaro era la necessità di spingerci al di fuori della capitale, fino ad allora
unico vero campo di apostolato della Chiesa. In questo enorme Paese, grande 5
volte l’Italia, la Chiesa non aveva alcuna presenza stabile in zone rurali o
nei centri delle 21 regioni amministrative, eccetto un asilo infantile nella
città settentrionale di Erdenet.

Anche in questo caso non ricevemmo «ricette già pronte»;
il vescovo ci invitò a guardarci attorno, a esplorare il khudoo,
l’immensa campagna mongola. Durante le vacanze dalla scuola di lingua, in
inverno e in estate, organizzammo viaggi con fuori strada presi a noleggio e
visitammo almeno 10 regioni, quelle che ritenemmo più realistico prendere in
considerazione, situate in un raggio di 400-600 chilometri dal centro. A ogni
viaggio seguiva un incontro di valutazione, finché nel 2006 giungemmo alla
scelta di Uvurkhangai, nel suo capoluogo di Arvaiheer.

Con la presenza ad Arvaiheer si avviò una nuova fase:
l’inserimento diretto nel vissuto di una comunità. Non avevamo precedenti. Si
dovettero ottenere i permessi da parte dell’autorità locale. In Mongolia
infatti, benché la costituzione riconosca la libertà di culto, l’esercizio di
attività religiose è strettamente regolamentato da una serie di restrizioni.
Eravamo gli unici stranieri stabilmente residenti nella cittadina. Bisognava
tessere reti di relazioni amichevoli con persone di vari ambienti e
provenienze.

Tale situazione ci fece capire concretamente che
l’annuncio evangelico deve necessariamente prendere carne nella persona degli
annunciatori, accettando la gradualità e i condizionamenti di qualsiasi
relazione autenticamente umana; dovevamo renderci conto di essere «pellegrini e
ospiti» e quindi dipendenti anche noi dall’accettazione degli altri.

Nacquero piccole iniziative di avvicinamento alla vita
del paese: collaborazioni in progetti di sviluppo lanciati dagli enti locali,
insegnamento dell’inglese, volontariato in un asilo. E intanto ci chiedevamo
che forma potesse eventualmente prendere la nostra presenza, qualora ci
avessero dato il permesso. Il governo regionale si pronunciò a favore, dandoci
come una chance per verificare se davvero valeva la pena lasciarci
operare nella loro giurisdizione. Un pezzo dopo l’altro si veniva componendo un
mosaico, che capimmo solo dopo: ci diedero in uso un terreno a ridosso della
strada statale, all’ingresso del paese; pochi mesi dopo cambiarono idea e
finimmo dove sorge ora la missione: una zona periferica e piuttosto isolata, ma
che si sta progressivamente popolando. Poi la grande gher della cappella
e quella del doposcuola (2007), il centro missionario in muratura (2008), il
locale per le docce pubbliche (2010) e infine gli spazi per gli incontri e
l’ospitalità (2012).

Il frutto più bello di questo cammino è la nascita della
piccola comunità cristiana, fatta di persone che dalla curiosità sono passate alla
ricerca e infine al catecumenato e al battesimo. Il 17 giugno il vescovo l’ha
elevata a parrocchia, dedicandola a «Maria, Madre di Misericordia». E così
abbiamo scoperto quanto sia attraente il Vangelo e come lo Spirito di Dio parli
nell’intimo dei cuori, per condurre alla pienezza di vita nella fede. Storie a
volte incredibili di persone che si sentono attratte dal Signore, sperimentano
una pace «diversa» quando vengono a pregare nella grande tenda-cappella,
scoprono la riconciliazione reciproca e con Dio e riescono a uscire dalla
schiavitù dell’alcornol: solo Dio può tessere così la trama delle nostre vite e
noi siamo qui a riconoscere il suo passaggio e renderlo manifesto.

Dal centro alla periferia

Contemporaneamente agli sviluppi di Arvaiheer, la comunità
di Ulaanbaatar accoglieva le missionarie e i missionari in arrivo e li
accompagnava nel primo inserimento. Ma già fin dai primi anni ci misurammo con
la formazione di una piccola comunità cristiana nascente, in un quartiere
periferico della capitale, vicino all’aeroporto. Anche qui si creò un gruppo,
che faceva capo alla parrocchia più vicina, nel territorio in cui viviamo;
diverse di quelle persone divennero poi punti di riferimento perché altre
incontrassero il Vangelo: due ragazze sono oggi in formazione nelle Filippine,
per diventare catechiste qualificate a servizio della Prefettura Apostolica.

Oltre allo studio della lingua e cultura, abbiamo sempre
cercato di offrire un contributo qualificato alle attività della Chiesa locale:
catechesi, incontri formativi, assistenza ai poveri, collaborazioni con gli
uffici della Prefettura. Nel tempo ci sembò che il nostro servizio in città
potesse anche prendere la forma di un apostolato diretto, in una zona dove non
ci fossero ancora presenze cattoliche.

Anche questa volta portammo avanti una riflessione
comunitaria, per pianificare la nuova apertura in contesto cittadino. Facemmo
un’accurata ricerca sul campo, che ci portò a individuare nella periferia nord
della città l’area di un futuro inserimento. Solo recentemente abbiamo concluso
una lunga trattativa per l’acquisizione di un terreno in quella zona, piuttosto
degradata, dove speriamo di avviare presto la nostra presenza; la
frequentazione della gente del luogo e il vivere lì ci daranno elementi validi
per disceere come realizzare il centro di «spiritualità ed evangelizzazione»
che ci sembra di poter offrire alla Chiesa in Mongolia. Quando le forze
missionarie lo consentiranno, esso potrà offrire occasioni di primo annuncio e
attenzione ai poveri; nelle nostre intenzioni rappresenterà anche la possibilità
di ritirarsi dal caos del centro cittadino per ritrovare se stessi nella
preghiera e condivisione.

La tenda della Consolata

Dieci anni di presenza in un paese dalla storia
millenaria sono come una goccia d’acqua. Intanto però la Consolata ha potuto
piantare la sua tenda nella terra di Gengis Khan. È questo un paese dove
l’inserimento può essere pesantemente condizionato dal clima molto freddo,
dalla peculiarità e complessità dei riferimenti culturali (p. es. la lingua) e
dal carattere rarefatto delle relazioni, vista la bassissima densità di
popolazione. Il senso di isolamento che si avverte può essere molto forte.
Eppure ci sentiamo enormemente arricchiti da tutto questo.

L’immagine biblica che forse più ci accompagna è quella
del piccolo seme gettato nel campo; essa esprime bene quello che sperimentiamo
di fronte alla sproporzione tra le esigenze della missione e la nostra povertà.
Ma abbiamo toccato con mano quanto tale povertà possa diventare feconda, se
messa nelle mani di Colui che guida la storia e le nostre vite. E allora
continuiamo il cammino, da fratelli e sorelle, sperando di incrociare un giorno
lo sguardo adulto del nostro Nudee.

P. Giorgio
Marengo

Giorgio Marengo