Giustizia riparativa 5 – Un’esperienza israelo-palestinese

L’associazione Parents Circle – Families Forum

Un ragazzo rapito e ucciso da Hamas. Un’associazione fondata
dal padre per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Donne
dei «due fronti» che si raccontano in cerchio il conflitto e i loro lutti.
Testimoni che vanno nelle scuole dell’una e dell’altra parte, per far
incrociare i propri occhi palestinesi con gli occhi israeliani dei ragazzi, e
viceversa, e condividere i sogni, le aspirazioni, le vite interrotte dalla
violenza. Esperienze di giustizia riparativa.

«Nel luglio del 1994
mio figlio Arik è stato rapito e poi ucciso da Hamas. Da allora lo scopo della
mia vita è portare la riconciliazione e la pace tra israeliani e palestinesi». Yitzhak
Frankenthal è un ebreo ortodosso, uno da cui, stando a come vanno le cose in
Israele, non ti aspetteresti grandi aperture nei confronti dei palestinesi.
Eppure dopo la morte del figlio durante il servizio militare abbandonò il
lavoro alla ricerca di risposte alla sua tragedia, risposte che nessuno pareva
in grado di dare: «Mio figlio è morto perché non c’è pace nella nostra terra.
Cos’è che ci spinge in continuazione l’uno contro l’altro? Cosa devo fare per
fermare questa spirale di violenza?».

Famiglie in lutto per la pace

Quando iniziò a parlare con gli amici dell’intenzione
d’impegnarsi per una riconciliazione tra i due popoli si ritrovò solo. «Non
riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la
riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una
lettera inviata al primo ministro
Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare la
ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Rabin venne a trovarci a casa,
diventammo amici»1. Erano tempi in cui le speranze suscitate dagli Accordi
di Oslo venivano erose da una realtà fatta di attentati, rappresaglie, morte.

Nel corso del 1995 l’Associazione israeliana dei parenti
delle vittime del terrorismo palestinese protestò fortemente contro gli sforzi
di dialogo politico. Come lo stesso Frankenthal racconta: «Mi recai da Rabin e
gli dissi che quella gente non parlava a mio nome». Così decise di inviare una
lettera a 350 famiglie che avevano subito un lutto a causa del conflitto nei
precedenti 18 anni, proponendo loro di unirsi per chiedere, con l’autorevolezza
morale che la sofferenza conferisce, di interrompere la spirale di vendetta e
intraprendere finalmente la via della pace, del rispetto e della
riconciliazione con i palestinesi. Ricevette un paio di lettere cariche di
insulti, ma ciò che più conta è che 44 famiglie risposero affermativamente. Al
loro primo incontro Frankenthal propose di rivolgersi anche alle famiglie
palestinesi che avevano subito un lutto a causa dell’occupazione israeliana.
Così nacque il Parents Circle – Families Forum (Circolo dei genitori,
forum delle famiglie) chiamato Bereaved families forum (Forum delle
famiglie in lutto), del quale fanno parte oggi circa 600 famiglie palestinesi e
israeliane.

«Io comprendo i tuoi sentimenti»

Nella penombra del salotto di casa sua, la signora M. ci
racconta la sua storia. Alle sue spalle una grande foto di suo figlio, che non
ha mai fatto ritorno dal servizio di leva. L’onda del dolore della madre ci
avvolge, mischiandosi all’aria troppo calda di Gerusalemme. Le domandiamo cosa
l’abbia spinta a entrare nel Parents Circle: «Quando un israeliano parla
con i palestinesi la prima reazione è che loro sono nostri nemici e noi siamo i
loro nemici. È molto importante quindi sedersi e parlare: comunicare è la sola
via per trovare una soluzione. Per me non è stato affatto naturale, è stato un
percorso difficile. Ma ora posso sedere e ascoltare quanto donne e uomini
palestinesi hanno da dire, e posso rispondere: “Io comprendo i tuoi
sentimenti”, e a volte posso anche dire: “Ma non concordo con le tue opinioni”».

Ritroviamo la signora M. a un incontro delle donne
dell’associazione. Carta, stoffa, pennelli e colori permettono di esprimere le
emozioni superando la differenza linguistica e il pudore. Così il desiderio di
pace si trasforma in arcobaleni e mani che si stringono nei disegni sulla
carta. Prendiamo parte alla realizzazione di un cartellone, e l’atmosfera
serena, diremmo giorniosa, ci fa per un attimo dimenticare dove siamo. Ma basta
uno sguardo all’alberello di carta realizzato da alcune donne per ricordarci
che il fratello della giovane che dipinge è morto mentre era soldato di leva,
colpito da un cecchino, che il figlio della signora che le passa i colori è
invece stato ucciso durante un’incursione dell’esercito nel campo profughi.
L’uno israeliano, l’altro palestinese. L’uno potrebbe aver ucciso l’altro, e
viceversa. Così notiamo che le foglie dell’alberello sono in realtà lacrime con
delle scritte: «Mamma, rendimi più forte», «lacrime d’amore», «sto piangendo un
mare di lacrime perché tu non ritorni». Un brivido ci attraversa insieme alla
sensazione di stare assistendo a qualcosa di eccezionale.

Ci disponiamo in cerchio. Una donna palestinese e una
israeliana conducono le attività del gruppo. Ci spiegano che l’elemento più
importante dei loro incontri è la condivisione della propria storia, ovvero il
racconto, semplice e spontaneo, della propria vita e dell’evento luttuoso che
l’ha segnata. Ciascuno ha la possibilità di leggere, con e per gli altri, il
conflitto dal proprio punto di vista, di presentare la vicenda della propria
famiglia e del familiare scomparso restituendole quel calore, quei particolari,
«quell’anima» che le fredde cronache di guerra non conoscono. Non è una terapia
di gruppo ma un incontro di giustizia riparativa, ovvero uno spazio dove,
attraverso il «linguaggio delle emozioni», può avvenire il riconoscimento
dell’umanità del nemico.

Il testimone della parte opposta

Qualche giorno dopo, Rami, un signore israeliano la cui
figlia quattordicenne perse la vita in un attentato suicida, c’invita a un
incontro con un gruppo di giovani. In quell’occasione conosciamo Aisheh, una
giovane donna palestinese il cui fratello, ferito senza motivo da un soldato
israeliano, morì, a distanza di anni, per le conseguenze riportate. Possiamo
così osservare uno dei più di mille incontri che, ogni anno, l’associazione
organizza nelle scuole da entrambi i lati del muro, per i gruppi di israeliani,
palestinesi o stranieri che ne facciano richiesta. Vanno sempre a due a due,
per consentire ai ragazzi di ascoltare, spesso per la prima volta, il punto di
vista dell’altro, e osservare un esempio concreto di dialogo e di
riconciliazione. I «testimoni» svolgono il ruolo di mediatori tra i due popoli
cercando di aprire uno spazio per la condivisione cognitiva ed emozionale di
significati profondi. Gli uditori di una parte possono ritrovare, nel racconto
delle vicende del proprio connazionale, esperienze e vissuti simili ai propri e
sentirsi provocati e incoraggiati dal suo impegno nonviolento e concreto. Ma è
l’incontro con il «testimone» della parte opposta a essere, per alcuni giovani,
un’esperienza folgorante: l’«altro» astratto, stereotipato, odiato, per la
prima volta acquista un volto umano, uno sguardo da guardare e da cui sentirsi
guardati, una storia che interpella. Ascoltare la sua sofferenza, il suo
dramma, i suoi sogni e desideri infranti porta a scoprire che essi sono
inaspettatamente simili ai propri e aiuta a superare i pregiudizi e la
propensione a «gerarchizzare» la sofferenza sminuendo quella altrui. Ciò non
annulla le differenze, ma apre alla comprensione e al riconoscimento.

La giustizia riparativa, che cerca la pace attraverso il
dialogo e la riparazione delle offese piuttosto che la punizione e la
separazione delle parti in lotta può assumere, in Israele e Palestina, la forma
di un alberello di carta, del cerchio in cui siedono vittime che sono anche
nemiche, e di un’accorata e coraggiosa testimonianza davanti agli studenti di
una scuola.

Annalisa
Zamburlini

Note:

1- Le
parole di Yitzhak Frankenthal sono tratte da: B. Bertoncin (a cura di), Per
mano. Per mano dell’altro, per mano con l’altro
, Una Città, Forlì 2005, e
da A. Da Sacco (a cura di), Israele – Yitzhak Frankenthal: la
riconciliazione parla il linguaggio della sofferenza
, in «Bumerang,
grassroot information», 22.02.2007, www.bumerang.it.

 

Annalisa Zamburrini




Giustizia riparativa 6 – Riconoscere le vittime

Nella Colombia del conflitto permanente


Nel paese del narcotraffico e della guerra civile più
duratura dell’America Latina, alcune idee e pratiche di giustizia riparativa si
fanno strada. Anche come strumenti di un’auspicata chiusura del conflitto. E
alcune politiche (troppo ambiziose?) puntano a reintegrare i paramilitari, a
far emergere le verità delle tante violenze, a riconoscere le vittime, alla
restituzione delle terre, a consolidare la memoria.

La
Colombia vanta il caffè migliore del mondo, così come gli smeraldi; è chiamato
il «paese-continente» per il mosaico di climi presenti nel suo territorio;
detiene il primato per la biodiversità per metro quadro. Nonostante questi e
altri elementi, per i quali dovrebbe essere una delle mete più ambite del
turismo mondiale, la Colombia è universalmente nota come il «paese della
cocaina» nel quale si combatte uno dei conflitti armati interni tra guerriglia
e paramilitari/esercito più lunghi della storia dell’America Latina, con
effetti devastanti sulla popolazione civile. Quattro milioni di sfollati
interni, sei milioni di ettari di terra usurpati, 15mila persone torturate,
50mila scomparse, 80mila esecuzioni extragiudiziarie, 1.282 massacri, 11mila
bambini soldato.

La legge di giustizia e pace e la domanda di verità

È interessante allora, e anche sorprendente, notare come
in un paese così scosso dalla violenza si stiano diffondendo iniziative
governative e della società civile improntate ai principi della giustizia
riparativa. Due esempi emblematici sono la Ley de justicia y paz e la Ley
de víctimas y restitución de tierras
. La prima, voluta dal presidente Álvaro
Uribe Vélez nel 2005, che aveva come finalità quella di offrire una fuoriuscita
rapida e indolore ai paramilitari, basandosi sui principi della giustizia
riparativa (pace e riconciliazione), è stata però profondamente innovata dalla
Corte costituzionale sulla base dell’evoluzione del diritto penale
internazionale (non applicazione di indulto e amnistia ai crimini
inteazionali) e della giustizia di transizione, ovvero dei diritti delle
vittime (diritto alla verità, giustizia, riparazione, garanzia di non
ripetizione dei crimini). Tale legge ha permesso a 50mila paramilitari di
smobilitarsi e reintegrarsi nella vita sociale attraverso programmi appositi. A
coloro che invece avevano commesso crimini di guerra e contro l’umanità (4mila
persone) ha dato accesso a un sistema penale ad hoc: al posto di una
pena carceraria di almeno 30 anni, una pena detentiva ridotta a 5-8 anni, alla
condizione di raccontare tutta la verità sui delitti commessi. La principale
particolarità di questo procedimento è che durante le udienze in cui il reo
racconta la verità, le vittime sono presenti in un’altra stanza, hanno la
possibilità di ascoltare in diretta quanto viene confessato, e possono porre
domande ai carnefici in merito alla sorte dei propri cari. Sovente accade che i
rei chiedano perdono per i crimini commessi e che le vittime trovino pace
sentendosi riconosciute, oltreché per essere finalmente divenute consapevoli di
quanto è successo.

Si tratta dunque di un sistema penale alternativo che
affianca alla pena detentiva la ricerca di una risposta alla domanda di verità
delle vittime. In più intende favorire la risocializzazione del reo
permettendogli di riconoscere le sue responsabilità e accompagnandolo nel
percorso di reinserimento nella società.

Vittime e restituzione della terra

La seconda legge, la Ley de víctimas y restitución de
tierras
, entrata in vigore il 1 gennaio 2012, ancor prima di dare
soddisfazione ai diritti delle vittime, dà compimento a quello che è uno degli
obiettivi primari della giustizia riparativa, ovvero il riconoscimento della
voce delle vittime. Per la prima volta in 60 anni il governo ha riconosciuto
l’esistenza di un conflitto armato interno, e dunque l’esistenza di milioni di
vittime di soprusi da parte delle varie fazioni.

Il governo ha capito che la fuoriuscita dal conflitto
non si ottiene solo con lo smantellamento dei gruppi armati, ma anche e
soprattutto attraverso l’attenzione dedicata alle loro vittime.

La Ley de víctimas y restitución
de tierras
, dunque, si pone come finalità principale la ricostruzione del
tessuto sociale e della fiducia reciproca, e quindi la riconciliazione
nazionale. Prevede la creazione di un programma che punti alla riparazione
integrale delle violazioni subite dalle vittime, inglobando anche le iniziative
già presenti: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione. A livello
collettivo la riparazione avverrà tramite il riconoscimento pubblico delle
responsabilità dello stato, atti commemorativi e iniziative simboliche rivolte
alla comunità. Mentre l’intento di restituire 4 milioni di ettari di terra
illegalmente usurpati, e di avviare programmi che agevolino il ritorno alle
terre in totale sicurezza è a dir poco ambizioso. Così come l’intento di
aiutare le vittime a costruirsi un’alternativa di vita attuando programmi per
la creazione di posti di lavoro, sia in ambiente rurale che urbano, e avviando
le vittime senza titoli di studio a corsi di formazione per imparare un
mestiere.

Preservare la memoria

Interessanti, in ottica di giustizia riparativa, sono
infine le iniziative della società civile nazionale e internazionale: il
sostegno alle vittime e alle loro voci, l’impegno a mantenere viva la memoria
del conflitto perché non venga dispersa, le campagne di sensibilizzazione.
Numerosi sono infatti i reports scritti al fine di ricostruire e
preservare la memoria storica del conflitto, perché il popolo colombiano
conosca quanto è successo per più di mezzo secolo nel suo paese e si impegni
per la pace.

In questo filone possono rientrare le molte iniziative
che nascono dal basso: dalle piccole comunità in cui le vittime si riuniscono e
si danno forza a vicenda in gruppi di auto mutuo aiuto, alla costruzione di
musei della memoria. O, ancora, piantare un albero in ricordo dei cari uccisi
dal conflitto, partecipare a laboratori in cui rielaborare il lutto o
semplicemente ricominciare a pensarsi come persone utili.

Carolina
Bedoya Maya

Carolina Bedoya Maya




Decrescita 1: Decresco, quindi sono

Teoria e pratica della «decrescita felice»

di Gabriella Mancini, con la collaborazione di Luca
Cecchetto

Premessa: perché decrescita?
«Non cambierete mai niente lottando contro la realtà
esistente. Cambierà qualcosa solo costruendo un nuovo modello che
renderà quello esistente obsoleto». (Buckminster Fuller)

Se apriamo il vocabolario e cerchiamo «benessere», la
definizione fa riferimento a: stato di buona salute fisica e psichica, felicità,
senso di benessere interiore o prosperità economica, agiatezza. Per società del
benessere si intende la nostra, quella occidentale, caratterizzata da agiatezza
collettiva e un elevato reddito pro capite. Ma siamo proprio sicuri che la
bussola dello sviluppo e del benessere di una società continui a essere solo
determinata dal Pil (Prodotto interno lordo)?

Da queste considerazioni nasce e si sviluppa la teoria
della decrescita che ne vede precursore l’economista rumeno Nicholas
Georgescu-Roegen in particolare per la sfera ecologica. I sostenitori della
decrescita affermano che la crescita economica – intesa proprio come
accrescimento costante del Pil – non porta a un maggior benessere e che il
miglioramento delle condizioni di vita deve essere ottenuto non con l’aumento
della produzione e del consumo di merci ma con il miglioramento dei rapporti
sociali, umani, della qualità ambientale, della collettività e del tempo
liberato. Le parole di Serge Latouche, principale teorico della corrente, ne
sono lo specchio: «La decrescita non è la crescita negativa. Sarebbe meglio
parlare di “acrescita” […]. D’altra parte si tratta proprio dell’abbandono di
una fede o di una religione (quella dell’economia, del progresso e dello
sviluppo). […] Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema
basato su un’altra logica».

Una decrescita che può essere felice solo se non è
subita, se nasce da una scelta consapevole che, se sperimentata, dimostra di
saper dare i suoi buoni frutti.

Questa inchiesta svela che una nuova fetta di umanità si
è già messa in cammino per «reinventare» un modo più critico e consapevole di
esistere. Un percorso inverso, dove recuperare la manualità e le tradizioni può
salvaguardare il proprio destino; dove essere liberi dai condizionamenti
telematici senza risultare disinformati e operare scelte eco-compatibili come
riciclare, riparare, autoprodurre non deve essere l’eccezione ma la regola per
star meglio. Dove, lo spazio per esistere è uno spazio dettato dal dialogo e
non dalla mercificazione dei rapporti. Dove quel «de», davanti al termine «crescita»,
non è svilente ma è la linfa vitale di un altro paradigma: quello della
rinascita di un nuovo umanesimo e della riscoperta di un’economia basata sulla
ragionevolezza.

Gabriella Mancini




Decrescita 2: Produrre sì, ma… «merci» utili

      L’esperto 1/ incontro con Maurizio Pallante                                         
Che differenza c’è tra beni e
merci? Cosa può rendere la vita migliore? Come ridurre il Pil senza andare in
recessione? A queste e altre domande risponde Maurizio Pallante, classe 1947,
laureato in lettere, ex preside, fondatore e «guru» del Movimento per la
decrescita felice
.

L’alternativa alla crescita è la
riduzione degli sprechi. Maurizio Pallante ci racconta il suo cammino verso la «Teoria
della decrescita» partendo dalle sue esperienze ambientaliste degli anni Ottanta:
«Realizzavo già allora che l’alternativa ai combustibili fossili non poteva
essere esclusivamente legata all’utilizzo di fonti rinnovabili ma anche e
soprattutto alla riduzione degli sprechi. Solo in Italia si spreca il 70% di
energia, cioè si produce energia che non serve perché potrebbe essere
risparmiata in vari modi. È necessario dunque ridurre gli sprechi, il consumo “inutile”
e, solo dopo o parallelamente, si può pensare di ricavare energia dalle fonti
rinnovabili, ma solo per le rimanenti necessità».

Negli anni ’90 affronta tematiche legate alle
eco-tecnologie e all’efficienza energetica. Nel libro «Le tecnologie di armonia»
(Bollati Boringhieri 1994) analizza l’inadeguatezza degli indici economici
universalmente riconosciuti quali misura del benessere e valuta le opportunità
legate a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto alle otto ore attuali.

Beni o merci?

Domandiamo a Maurizio Pallante quale sia la sua critica
al Pil (Prodotto interno lordo) come indicatore dello sviluppo economico. «La
crescita economica, che troppo spesso si identifica con benessere, viene
misurata dalla quantità di merci prodotte e scambiate, cioè con il Pil. Questo
indicatore, che è un dogma nella nostra economia, è una falsa misura di
benessere in quanto esistono molte merci che non determinano miglioramenti
reali della qualità della vita. Le merci che non apportano un reale
miglioramento alla vita dell’uomo non possono definirsi “beni” ma sono,
sostanzialmente, “sprechi”».

Esiste dunque un’alternativa a questo stato delle cose? «Concentrarsi
sulla produzione “efficiente” di beni, ossia di merci “buone”, cioè utili. In
questo contesto assumono molta importanza forme come l’autoproduzione e lo
scambio di beni non mercantile, il dono, la reciprocità e la solidarietà. La
decrescita è proprio questo: da un lato la diminuzione della produzione di
merci che non sono “beni”, ossia che non recano un effettivo miglioramento
qualitativo della nostra vita, e dall’altro l’aumento della produzione di beni
che non sono “merci”».

Ma la decrescita si può considerare un fenomeno di
nicchia o di massa? La teoria della decrescita felice viene sviluppata
attraverso la pubblicazione dell’omonimo libro del 2005 che ha venduto, a oggi,
50.000 copie. Il fenomeno, che ha avuto una diffusione lenta, ma costante,
appare oggi in fase di ulteriore espansione. Pallante ci spiega: «Nei frequenti
convegni a cui partecipo, il pubblico è sempre vasto e interessato.
L’associazione stessa (Mdf, cioè Movimento per la decrescita felice) fondata
nel 2007, conta oggi una trentina di circoli e vanta richieste continue di
nuove adesioni tanto da ipotizzare di poterli raddoppiare entro la fine
dell’anno. Il Movimento si propone in ogni caso di creare collegamenti tra
fasce di età, tra giovani e meno giovani, tra liberi pensatori, puntando per
tutti alla valorizzazione delle proprie attitudini e capacità».

Recessione e decrescita

Di questi due termini, spesso confusi, Pallante ci da
due definizioni precise: «La recessione è la diminuzione incontrollata e generalizzata
della circolazione delle merci. La decrescita è invece la riduzione selettiva e
controllata della produzione e circolazione delle merci che non sono beni, ma
piuttosto sprechi. Facciamo un esempio: ci sono due persone che non mangiano,
una perché ha deciso di fare la dieta e l’altra perché non ha proprio da
mangiare. Chi ha deciso di fare la dieta è in fase di decrescita, chi non
mangia perché non ha da mangiare sta vivendo la recessione. In questo senso
decrescita non si confonde con recessione ma ne è addirittura la medicina».
Addirittura? «Sì, perché puntare sulla riduzione degli sprechi significa
dirottare gli investimenti in specifici settori produttivi, quello delle
eco-tecnologie, dell’efficienza, quindi ottenere magari le stesse cose impiegando
meno risorse. Con questo risparmio si può innescare un circuito virtuoso che
permetterebbe a sua volta di pagare i salari dei nuovi lavoratori del settore».

Decrescita fa rima con innovazione o tradizione?

«Anche qui bisogna mettersi d’accordo. L’innovazione non
è un valore in sé, ma è utile quando mirata alla diminuzione degli sprechi di
risorse e di tempo. Diversamente, se punta a indurre un semplice desiderio
consumistico di emulazione, è inutile e dannosa. Lo vediamo ad esempio con i
modelli di smartphone o automobili che escono continuamente sul mercato a parità
sostanziale di funzionalità tra un modello e l’altro. Per il loro acquisto le
persone continuano a indebitarsi o a lavorare molte ore senza realizzare che si
tratta di merci che non aumentano di certo il loro benessere. La tradizione è
buona perché spesso raccoglie la saggezza di secoli di adattamento alla natura
e all’ambiente circostante. Ad esempio nel campo del risparmio energetico, le
cascine costruite nell’Ottocento erano ottimali, in quanto si teneva in gran
conto l’orientamento e l’esposizione al sole dell’abitazione, riducendo le
aperture di porte e finestre sui muri perimetrali del lato nord che invece con
il loro spessore funzionavano da regolatori termici. L’edilizia della seconda metà
del secolo scorso invece, pur essendo considerata innovativa rispetto agli
edifici precedenti, teneva poco o per nulla conto di questi aspetti,
considerando un fattore secondario la dispersione di calore, presupponendo un
facile e poco dispendioso accesso ai combustibili fossili e all’energia
elettrica».

Vado a vivere in campagna

La decrescita si può vivere esclusivamente in un
ambiente rurale? «Considero le città gli ambienti peggiori dal punto di vista
della qualità della vita. In un appartamento è materialmente impossibile fare
delle attività attinenti alla soddisfazione dei propri bisogni. Tutto si compra
col denaro guadagnato spesso facendo dei lavori legati alla produzione di merci
e servizi inutili, come certa “burocrazia”. La campagna, se vissuta come
opportunità di fare autoproduzione o allevamento, va nella direzione della
decrescita. Ma in generale la decrescita attecchisce in una persona consapevole
e sensibile all’idea. Se il decentramento aumenta fortemente le necessità di
spostamenti quotidiani in automobile per raggiungere differenti luoghi di
lavoro potrebbe non essere la soluzione ottimale. Anche la scelta di vita
individuale o comunitaria deve essere lasciata alle attitudini e all’indole di
ognuno di noi, è chiaro che l’isolamento può non favorire lo scambio di beni e
servizi o la reciprocità che è alla base della teoria della decrescita».

Chi abita in città cosa può fare da domani per aderire
in pratica all’idea di decrescita?

«Si possono fare molte cose tra cui: instaurare un
rapporto diretto di collaborazione con i produttori alimentari (i Gas, ndr),
aderire alle banche del tempo, brutto nome per un’ottima idea, che è quella di
scambiare il tempo per aiutarsi. Vedo bene in questo senso creare una rete di
aiuti e di solidarietà all’interno dei condomini in cui si vive. Poi c’è il
filone energetico: fare scelte che comportino risparmi e utilizzi di energie
rinnovabili, pianificare più spostamenti a piedi o in bicicletta. Ognuno deve
trovare la propria misura e il proprio equilibrio. Ridurre al minimo la propria
dipendenza dal mercato, dalle attività inutili e dagli sprechi».

Fare i conti con la crisi

Se si perde il lavoro, cosa si fa? Si mangia pane e
decrescita?

«È fondamentale reagire, conoscersi meglio per
riscoprire le proprie capacità pratico-manuali e i propri talenti. Oggi ci
rendiamo tristemente conto che non sappiamo “fare”, ma dobbiamo acquistare
tutti i beni che ci occorrono. Il modello di giornata che ho in mente dovrebbe
svilupparsi in tre momenti: l’auto produzione di beni, includendo le
riparazioni artigianali e l’orticoltura; il lavoro “esterno”, necessario per
ottenere denaro e acquistare quello che non si può costruire direttamente.
Infine, una parte importante della giornata dedicata alle relazioni umane, alla
spiritualità, al divertimento e all’apprendimento. Molto si può fare
individualmente, vivere il proprio cambiamento e operare contestualmente scelte
di consumo consapevoli, riducendo gli sprechi e gli acquisti inutili. Ma poi ci
vuole una risposta politica e di orientamento dei settori industriali che
mirino all’efficienza, alle energie pulite e alla produzione sostenibile dei
beni strumentali».

La fase di crescita è proprio “esaurita”?

«Io credo che tutti gli sforzi attuali di aumentare
l’occupazione senza porsi la questione dell’utilità di quello che si fa sono
destinati al fallimento. Dobbiamo invertire la tendenza ed entrare in una fase
nuova dell’economia; questa azione non potrà che ripercuotersi beneficamente in
un avanzamento sociale dell’intera umanità».

 
     L’esperto 2/ Jean Louis Aillon                                                             
Decrescita, medicina e giovani

Rimettere al centro l’essere umano, in armonia con la
natura. Una società in cui si possa consumare meno e meglio. E dare più spazio
alle relazioni. Questi e altri gli ingredienti della decrescita felice secondo
il responsabile salute del Movimento.

Jean Louis Aillon è un medico 29enne,
specializzato in psicoterapia dinamica adleriana. Fa parte del direttivo
nazionale del Movimento per la decrescita felice ed è il responsabile del
settore Salute all’interno del Movimento. Jean Louis è una persona estremamente
piacevole che, con una buona dose di profondità e disinvoltura, ci racconta la
sua visione della decrescita ponendo l’accento sulla reale necessità di un
capovolgimento di paradigma in medicina e analizzando l’orizzonte dei giovani.

Jean Louis, decrescere bene e meglio. Ci dai
qualche input in merito?

«L’obiettivo della decrescita è di rimettere
al centro gli esseri umani in un nuovo rinascimento, in armonia con la natura.
In questo stato delle cose, l’economia deve essere semplicemente un mezzo che
garantisca la piena realizzazione degli esseri umani. L’idea sostanziale è: non
si deve fare sempre di più ma fare meglio, non pensare alla quantità ma alla
qualità, consci dei propri limiti e di quelli del pianeta. Una società in cui
si possa consumare meno e meglio, lavorare un po’ meno per dare più spazio alle
relazioni, alla sfera affettiva, spirituale e creativa. In questo senso
ritagliarsi del tempo “liberato” che non è il “tempo libero” catturato dagli
svaghi dell’industria del divertimento ma un tempo prezioso da dedicare a sè
stessi e ai propri cari. Noi siamo stati colonizzati da un’immagine della
crescita che nutre in sé una serie di disvalori: essere sempre in forma,
competitivi sul lavoro, inseguire benessere materiale e successo. Con la
decrescita si intende decolonizzare quest’idea della crescita».

Salute, psiche e crescita dell’uomo. Come può
la decrescita intervenire in questo ambito? «Innanzitutto occorre porsi una
domanda: “Da cosa dipende la nostra salute?”. La risposta è così ripartita: 7%
da fattori genetici, 15% dall’organizzazione sanitaria e il restante 70% dagli
stili di vita che si conducono e dall’impatto ambientale. Una buona rete
sociale accanto a sé, una sana alimentazione e dei ritmi meno pressanti
costituiscono le chiavi per migliorare il nostro stato di salute. La “crescita”
fine a se stessa ha prodotto solo ineguaglianze e stili di vita insalubri. La
depressione nel 2020 sarà la prima patologia per cause di disabilità del mondo,
insieme ad altri malesseri sempre in aumento come l’insonnia e la cefalea.
Decrescere in ambito sanitario, significa, a mio avviso, svincolare la medicina
dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico
basato esclusivamente sulla crescita del Pil; affrancarla da una visione miope
della scienza e del progresso che ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come
gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali, la sua unitarietà e la
sua complessità. La decrescita in questo ambito, come in economia, si propone
di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non
quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico
e promuovendo tutte quelle pratiche che mirano al reale benessere psico-fisico
e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità. Alcuni temi di
carattere generale (su cui vi è un consenso internazionale) che possono essere
affrontati con questo metodo, nell’ottica della decrescita riguardano: gli stili
di vita, la prevenzione, la promozione della salute, l’approccio olistico al
paziente, l’abolizione del consumismo farmaceutico, lo stress stile di vita
odierno, l’ambiente e l’inquinamento, l’approccio al dolore, l’organizzazione
sanitaria e molto altro ancora». 

Chiediamo a Jean Louis Aillon di spiegarci
come rientrano i giovani nella decrescita. «La decrescita è una filosofia che
fa presa su coloro che sono imbrigliati negli ingranaggi della “megamacchina
capitalistica”. Il mondo dei giovani è, però, completamente diverso: il tempo
non manca e le relazioni umane abbondano. Nonostante ciò i giovani non sembrano
affatto così felici.  Attraverso lo
strumento della decrescita, il rivalutare vecchi mestieri, conoscere meglio i
propri talenti e dare un senso alle cose che si fanno, si possono rompere le
catene dell’isolamento e della solitudine e trovare la forza per vivere
diversamente questo mondo». (G.M.)

 
 

Luca Cecchetto e Gabriella Mancini




Decrescita 3: Decrescere fuori, per crescere dentro

             Esperienze 1/ Borgata Liretta                                               
Marito e moglie affiatati. Dopo una vita di lavoro e
volontariato decidono di dedicarsi totalmente agli altri. Ridando vita a una
borgata di montagna e ospitando coppie di sposi in cerca di tranquillità e
riflessione. E foendo un accompagnamento prezioso: calore ed esperienza.
Nell’essenzialità totale.

È sera, piove a
dirotto e il sentirnero verso borgata Liretta scorre in salita lasciando
intravedere, tutt’intorno, una natura selvaggia. È da Montemale (Cn) che
continuiamo a seguire le insegne di legno con raffigurata una piccola casa
tonda, tre finestre e un albero. Dopo qualche peregrinare eccoci giunti a
destinazione. Parcheggiamo l’auto e ci avviamo verso l’unica fonte di luce
circostante. La lucina ci conduce in una sala da pranzo in cui, con un gran sorriso,
ci accolgono Olga e Mario Garrone.

Non siamo soli a Liretta. Oltre la
figlia di Olga e Mario con la sua famiglia, c’è una giovane coppia con una
piccola di sei mesi e Maurizio Nai, responsabile del Circolo della Decrescita a
Cuneo.

È una bella tavolata, l’atmosfera è
calda e la zuppa servita in tavola ha un sapore veramente genuino. Olga ci
spiega qualche segreto culinario anche se il cuoco d’eccezione e per le grandi
tavolate è Mario che, non a caso, indossa un grembiule firmato «Il cuciniere».
La dicotomia è forte: fuori pioggia e fango imperversano, dentro l’umanità si
racconta. La convivialità sembra essere di casa e, approfittando di uno spazio
più appartato della mensa, cerchiamo di capie di più su questo angolo di
vita. La più ciarliera è Olga che, con fare entusiasta si racconta. «Le cose
non accadono mai a caso, Liretta è il frutto di un lungo cammino personale.
Mario e io abbiamo avuto la fortuna di conoscerci giovani e con un lavoro
sicuro. A 22 anni facevo già la maestra e Mario lavorava in banca. Facevamo
parte di un gruppo di giovani universitari post-concilio che si realizzava
fuori dagli schemi parrocchiali. Cercavamo di crescere nella fede e
nell’accoglienza verso gli altri. Il sabato lo dedicavamo all’aiuto dei più
bisognosi: disabili o ragazzi di strada. Il volontariato, l’approfondimento
della spiritualità e l’attenzione verso il prossimo era la molla che ci
accomunava e che non ci ha mai abbandonati».

I primi anni

Mentre Olga si racconta, l’atmosfera della sala da
pranzo si fa più raccolta. I più «piccoli» iniziano a dare cenni di cedimento e
si avviano verso le stanze per la notte. Approfittiamo della sosta per fare un
giro. Legno e pietra rallegrano la borgata anche nel cuore della notte.
L’accoglienza nottua di Liretta si compone di tre stanze dai nomi bizzarri:
oblò, chambre bleu e curiusa. A noi tocca quest’ultima, così
denominata per le sue grandi vetrate che spiano verso la strada. Nell’estrema
sobrietà, tutto è molto curato. Due bagni comuni sono a disposizione degli ospiti,
come anche un’altra piccola cucinotta, adiacente alle camere.

Toiamo nella sala da pranzo, oramai quasi solitaria e
anche Mario si siede al nostro fianco. La storia riparte: «Intoo al 1974,
appena sposati, abbiamo pensato di non chiuderci agli altri ma di essere una
coppia aperta. Abbiamo vissuto gli anni Settanta, anni di rivoluzione sotto
tutti i fronti, intensamente. Un ’68 vissuto al positivo con tutta la fatica di
sradicare un vecchio sistema ma anche il piacere di vivere la ribellione e il
sentirsi diversi. Di quel tempo ci è rimasto addosso il sogno del cambiamento.
Il nostro sentire comune e il nostro desiderio era di rendere il nostro amore
un punto di riferimento per gli altri. Su questo, qualcuno di lassù, ci ha
ascoltati e messi seriamente al lavoro».

Olga e Mario, già da neo sposi iniziano a collaborare
con la Pastorale Famigliare per la Diocesi di Cuneo e a organizzare gli
incontri prematrimoniali per giovani coppie. Quando arrivano i bambini (Olga e
Mario hanno 3 figli), non cessano certo il loro impegno nel sociale, anzi. Olga
e Mario, si ritrovano a dialogare delle loro scelte con i figli e a renderli
partecipi del loro agire. In quest’ottica di apertura, proprio dai figli
adolescenti giunge la richiesta di una maggiore attenzione da parte dei
genitori che per un paio di anni si dedicano così solamente ai loro ragazzi.

La famiglia chiama e Olga e Mario rispondono. Sono gli
anni delle baby pensioni e Olga pur utilizzando questa favorevole opportunità
anticipa la «ritirata» e attende quattro anni prima di percepire la prima
mensilità. Ecco che arrivano le rinunce per star vicino ai figli. «Anche in
questa occasione poter dialogare insieme ai figli è stato fondamentale. Meglio
una mamma più presente, che una serata in più in pizzeria. La vita insegna e in
questa fase abbiamo iniziato a rinunciare a tante piccole cose superflue,
accorgendoci che si viveva benissimo anche con molto meno. Pur non sapendo
nulla sulla decrescita, c’era la volontà di essere “sobri” e di praticare la
semplicità quotidianamente».

Il vero cambiamento

Come si arriva a una trasformazione così radicale della
propria vita? Questa volta a prendere la parola è Mario: «Alla base di tutto c’è
una propensione alla provvisorietà, al cambiamento. Per noi, il desiderio forte
è sempre stato quello della capanna e non del castello. Una dimora semplice,
con pochissime porte per dare la possibilità a tutti di entrare e uscire senza
problemi. La molla è stato il desiderio di scrollarsi di dosso le cose che non
servono, le occasioni di farlo sono giunte lungo nel cammino. Per costruire
qualcosa occorre prendere coscienza delle proprie potenzialità, sapere chi
siamo. In poche parole: conoscersi. Noi sapevamo di essere un punto di
riferimento per le coppie e le famiglie e su questo abbiamo posto le prime
pietre e costruito il nostro futuro. L’umiltà fa il resto».

Olga aggiunge con discrezione: «Una volta cresciuti i
figli ci siamo interrogati su cosa fare delle nostre esistenze e siamo partiti
da un’analisi. I giovani sposi dopo il matrimonio venivano «abbandonati».
Sembrava che tutto accadesse prima: i corsi di formazione, i cammini spirituali
e poi più nulla. Questo ci ha fatto riflettere e capire che il nostro supporto
doveva essere tanto pregnante prima quanto dopo, per non lasciare che tante
coppie si sentissero abbandonate a gestire i primi dissidi familiari.
Continuavamo a fare gli incontri pre matrimoniali in Diocesi ma avvertivamo in
maniera sempre più profonda la mancanza di uno spazio piacevole dove poter
dialogare in armonia. Ed ecco che entra in scena Liretta. Nostra figlia aveva
visto l’annuncio «vendesi intera borgata», ma noi eravamo vincolati
affettivamente a un’altra vallata e non eravamo ancora pronti. Passato un anno
e maturata l’idea di realizzare concretamente qualcosa, ci siamo decisi a
vedere la borgata. Era il 2002, Liretta era abbandonata da 20 anni ed era in
totale rovina ma è bastato uno sguardo per capire che era quello che faceva per
noi. Nella vita bisogna saper trasferire i propri sogni in avanti, essere lungimiranti.
Ci fossimo fermati solo alle macerie che presentava Liretta, saremmo scappati
subito. In quel luogo e in quel primo incontro con la zona, noi abbiamo
avvertito il profumo della trasformazione».

Reinventarsi a 50

Quella di Liretta è stata una scelta meditata e
coraggiosa. Per far tutto questo Mario, dopo 29 anni di banca, ha deciso di
licenziarsi e di reinventarsi a 50 anni di età. Un progetto che, afferma la
coppia all’unisono, non avrebbero mai fatto con i bambini piccoli per non
vincolarli o fargli subire una scelta non loro.

Mentre Olga e Mario raccontano, noi sfogliamo un album
di fotografie che ci rimanda ai primissimi tempi di Liretta. Come è stato
possibile portare avanti questo progetto con così tanto impegno fisico e
pratico? «Abbiamo dato subito accoglienza, seppur nella semplicità. Le giovani
coppie potevano venire in giornata a fare la loro formazione prematrimoniale».
Riprende Olga: «È sorprendente verificare come ci si abitua a vivere con poco.
Nell’autunno avevamo già realizzato un piccolo bagno e potevamo vivere in una
cucinotta della casa che ora è adibita all’ospitalità. Sicuramente è stato un
inverno freddo fuori ma caldo dentro: nel cuore e nelle intenzioni».

Vita «tipica» in borgata

Liretta: «Noi viviamo qui, ci siamo sempre 24 ore su 24
per chi è in difficoltà. La nostra accoglienza si rivolge alle coppie prima e
dopo il matrimonio ma è capitato che ci chiedessero di ospitare qualche
situazione di disagio e, ovviamente, abbiamo aperto la nostra porta. Diamo
conforto, amicizia, ascolto, pranzi e cene pronte e un letto caldo. Coccolare
la coppia e farla sentire a casa è il nostro compito. Attenzione: ci
concentriamo sulla crescita personale della coppia, sull’offrirle uno spazio
esclusivo, perché sono il marito e la moglie che fanno fatica a mettersi in
discussione. Quando i figli crescono e prendono la loro strada, la coppia resta
e se non si è alimentato un rapporto profondo e autentico negli anni, tutto si
sfalda e ci si ritrova soli. Abbiamo anche una buona rete di professionisti
della coppia e, per approfondimenti specifici su coppie in crisi, non esitiamo
a consigliare un parere più professionale del nostro».

Numericamente, quante coppie ospita Liretta? «È
difficile fare una stima numerica per la continua evoluzione degli eventi,
abbiamo iniziato con poche coppie e oggi ne abbiamo otto per il cammino
pre-matrimoniale, altre 15 che seguiamo dopo il matrimonio e tutta
l’accoglienza quotidiana».

Seppur sotto una pioggia incessante, quello che spicca
in armonia con il verde circostante è una piccola cappella di pietra. La
domanda sorge spontanea: a Liretta occorre essere praticanti o l’accoglienza è
per tutti? A rispondere è Mario: «Noi abbiamo deciso di costruire la cappella
per poter praticare la nostra spiritualità ma non obblighiamo nessuno a vivere
della stessa fede: i nostri ospiti devono sentirsi “liberi”. Sono stati i
nostri figli e i loro amici ad aiutarci a creare una dimensione laica ed è
stata proprio questa forma liberale che ha poi favorito un riavvicinamento alla
spiritualità anche da parte di alcuni giovani, da tempo lontani dalla fede».

Desbarasuma: la decrescita non teorizzata

L’accoglienza di Olga e Mario è semplice ma generosa,
anche nella quantità del cibo. Ci chiediamo come facciano con le spese e Olga
ci chiarisce che in ogni camera c’è una busta per le offerte. Ognuno offre il
suo contributo e se non ne ha la possibilità non importa, può offrire un aiuto
pratico viste le continue necessità in borgata. Nel corso degli anni la coppia
sostiene però di aver sperimentato che spesso le persone con maggiori difficoltà
economiche offrono il massimo.

Per Maurizio Pallante (vedi articolo) la
decrescita è una vita in crescita. Crescita di valori, di pienezza di
esperienze, di tempo per dialogare. Prima di ritirarci nel nostro rifugio per
la notte, domandiamo ancora a Olga e Mario di parlarci del loro modo di vivere
secondo la chiave della decrescita. Ci rispondono quasi in coro: «Il denaro e
il successo non ci dava la felicità. La mera produzione per il consumo ci
avviliva. Per noi decrescere è trovare un “posto al sole”, in senso metaforico,
dove star bene e poter aiutare gli altri. Questo esserci per gli altri può
esistere solo se si è raggiunta una certa armonia con se stessi, un equilibrio
che nei ritmi frenetici e nella rete del consumismo fine a se stesso, non
avevamo trovato. Decrescita indica per noi una crescita interiore e di
attenzione verso l’altro. In termini pratici abbiamo una macchina sola che
usiamo il meno possibile per recarci a Cuneo, accumulando più impegni, cinque
galline per le uova, un orto per l’autoproduzione, il riscaldamento a legno con
il camino e la stufa, un pannello solare e un’accuratissima raccolta
differenziata su cui cerchiamo di sensibilizzare il più possibile i nostri
ospiti».

La mattina seguente esce uno spiraglio di luce e Liretta
è allo scoperto. Il belvedere apre una finestra naturale sulle montagne, ancora
leggermente innevate e dall’altura della borgata si intravedono i tetti di
Cuneo. Tutto è in armonia. Entriamo nella cappella dove una vetrata è in
perfetta simbiosi con la natura circostante; una piccola madonna bianca dalle
grandi mani ci guarda da una nicchia e tre piccole finestrelle dipinte indicano
una sorta di cammino verso l’ascensione. Una cura artistica si avverte ovunque,
nelle fioriere multicolore, nei dipinti creati da Olga per le piastrelle dei
bagni e nella gradevole stanza per i giochi dei bambini, realizzata
appositamente per gli ospiti «in erba».

Non possiamo che concludere la visita con uno sguardo più
intenso verso il logo: «Un tetto amico, una casa rotonda perché senza spigoli e
conflitti, tre sole finestre e nessuna porta. Perché a Liretta le porte sono
sempre aperte per chiunque ne abbia bisogno».

 

          Esperienze 2/                                                                
Co-housing

per con-dividere

Per parlare con autenticità della decrescita, occorre
sfatare un mito: decrescere non significa andare a vivere in campagna e
isolarsi tra gli elfi boschivi. Quello che si evince dalle interviste di questo
dossier è che l’assioma decrescita-relazioni umane non si cura dello spazio ma
interviene sul cambiamento più profondo delle persone. Da qualche anno è attiva
un’associazione, Coabitare, che si occupa di fornire conoscenze, informazioni,
idee e strumenti a chi desidera abitare in modo differente e decide di farlo
non solo in ambito rurale. Per strappare qualche curiosità in più
sull’argomento siamo andati a visitare il co-housing
«numero zero» a Torino in via Cottolengo n°4. Un antico edificio ristrutturato
con tutti i crismi ecologici ed estetici dove, da gennaio 2013, vivono otto
nuclei familiari. Fioriere sui balconi e una piacevole galleria di biciclette
parcheggiate all’entrata ci accolgono.

A raccontarci la scelta di una co–abitazione solidale
sono Matteo Nobili, fisico e fotografo 36enne, e Chiara Mossetti, architetto
35enne. Vivere insieme ad altre persone: come nasce questa scelta e perché?
Matteo inizia il racconto: «Sicuramente occorre essere propensi
all’aggregazione. In un co-housing si
condividono pensieri, ideologie e “saper fare”, ma ognuno mantiene la
riservatezza del proprio alloggio. A noi interessava l’ambito urbano, sia per
le nostre occupazioni lavorative e sia perché non concepivamo l’idea di abitar
fuori e poi dover utilizzare la macchina quotidianamente con un’elevata
produzione di CO2. La scelta del centro città è anche e soprattutto per potersi
spostare liberamente in bicicletta o a piedi».

Mentre parliamo del progetto, in uno degli otto
appartamenti è in corso un simpatico pranzo comunitario. Oltre agli
appartamenti privati, il condominio ha a disposizione uno spazioso terrazzo, un
laboratorio, un soggiorno e un’ampia sala semi interrata. La domanda sorge
spontanea: come rientra la scelta di un co-housing
nella decrescita? «Innanzitutto nel ridurre gli sprechi. Questo è alla base
della scelta di una co-abitazione. Nel co-housing
«numero zero» ad esempio la scelta preponderante è stata quella di mantenere
una metratura medio-piccola (circa 70 mq) per tutte le abitazioni ma di
privilegiare l’ampiezza di alcuni spazi comuni». Ma, in pratica, come si
traduce quest’attenzione verso i consumi? «La fortuna è stata avere un
architetto e un ingegnere nel nostro gruppo che ci hanno permesso una
ristrutturazione “secondo natura” e dall’estrema funzionalità. Non a caso rientriamo
nei canoni della bio-edilizia e siamo in classe A. Sempre nell’ottica
ambientalista, siamo provvisti di pannelli solari per l’acqua calda, integrati
con una caldaia a condensazione e, in ogni appartamento, è presente il riscaldamento
a pavimento che diffonde il calore e non comporta inutili dispersioni. Possiamo
usare la metafora del dimezzare: noi siamo in otto nuclei famigliari con due
grosse lavatrici a disposizione per tutti e quattro automobili. Una sorta di car-sharing tra coinquilini!».

Sbirciamo con interesse gli interni delle abitazioni.
Seppure diverse per gusti e personalità, si contraddistinguono tutte per un
buon gusto comune. E le travi di legno dei soffitti aiutano ad armonizzare il
tutto. Nella fattispecie, le pareti di casa di Matteo e Chiara ricordano i
colori del Mali e, infatti, non sono altro che una miscela naturale di argilla,
sabbia e paglia. In co-housing «numero
zero» abitano persone dai 30 ai 60 anni e, come ci spiega Chiara: «Fare una
scelta simile non significa semplicemente farsi casa propria risparmiando un
po’ ma deve includere tanta voglia di scambiarsi competenze. Se ho bisogno di
un orlo ai pantaloni o di una buona ricetta in cucina, posso chiedere a Piera
(che ha qualche anno in più di noi), mentre noi possiamo facilitarle la vita
con i mezzi tecnologici o i lavori più pesanti. C’è uno scambio paritario di
talenti e di competenze ma non è tutto. Per viver bene occorre una buona dose
di socialità: il più delle volte chi arriva prima a casa la sera, prepara cena
per tutti in un’ottica di risparmio del tempo, quello liberato, e di
condivisione».

Ma il «bello» aiuta o è solo vanità? «Decrescere non
significa imbruttirsi, anzi. La bellezza aiuta a vivere meglio e a trovare
anche il giusto equilibrio in noi stessi e con gli altri». (G.M.)

Gabriella Mancini




Decrescita 4: Natura e decrescita

           Esperienze 3/ La «Chabrochanto» in Val Maira                                              
Dalla città alla montagna. Reinventandosi una vita che
pareva decisa. Da subito il superfluo non trova posto. E un quotidiano in
decrescita si realizza prima di ogni teoria. Lei, lui e cinque figli sulle
montagne della Val Maira. Una storia che ha molto da insegnare. Siamo andati a
trovarli.

Grazie al suggerimento del responsabile del Circolo
della Decrescita di Cuneo veniamo a conoscenza di una famiglia che vive in
termini «decrescenti». Si tratta di Marta e Giorgio, un medico e un traduttore
torinesi che dal 1992 abitano in Val Maira. Contrariamente alla tendenza
anagrafica la coppia ha ben 5 figli, la più piccola di 7 anni. Marta e Giorgio,
entrambi 49enni, sono i proprietari dell’azienda agricola Lo Puy che produce
formaggi di capra a latte crudo e si trova in borgata Podio a due chilometri
dal comune di San Damiano Macra. 

La «Chabrochanto» è il loro locale di degustazione e
agriturismo, un luogo non solo gastronomico ma di incontro ed esperienze.

Arriviamo in borgata nel pomeriggio sotto un tiepido
sole e troviamo Marta intenta a dialogare con i suoi figli e con i loro amici.
Marta è una signora interessante, ha mantenuto le caratteristiche cittadine ma
ha assunto la tempra e l’aria sana della vita all’aria aperta.

Il salto nel vuoto

«Quando siamo venuti a vivere qui era il 1992» racconta
Marta: «Avevamo un sogno nel cassetto, in condivisione con il nostro gruppo di
amici torinesi: riabitare una borgata. Era un’idea di stampo antropologico e
sociale, dove aveva la prevalenza un
discorso di buon vicinato con spazi culturali in comune e unità abitative
individuali. L’idea di un trasferimento di gruppo non è mai decollata e alla
fine Giorgio e io abbiamo deciso di tentare il salto da soli. I nostri amici
non ci hanno mai abbandonato idealmente e, anzi, ultimamente hanno comprato
alcune case in borgata nell’ottica di una promozione turistica del territorio».

Da Torino alla Val Maira, dalla città alla comunità
montana. Marta ci racconta del loro amore per la montagna, per la natura e gli
spazi aperti, della fatica del vivere metropolitano. Non ne parla con
aberrazione, ma osservandola in questo contesto si intuisce quanto potesse
sembrargli limitato l’ambiente cittadino. «Appena arrivati qui vivevamo a San
Damiano Macra. Io continuavo a fare il medico negli ambulatori locali e Giorgio
seguiva ancora qualche consulenza come traduttore. Poi, sono arrivati i primi
due bambini e Giorgio è diventato sempre più il punto di riferimento per la
famiglia. Si occupava volentieri di tutto il menage familiare, dell’orto che stavamo iniziando a coltivare e di
proseguire con i suoi studi di arricchimento personale (lo studio dell’arabo,
del cinese e dell’antropologia). Erano anni duri ma pieni, iniziavamo a
delineare in modo più chiaro quello che sarebbe stato il nostro futuro. Nel 1996
abbiamo trovato questa casa in borgata e il progetto di riabitare una comunità
montana ha preso corpo».

Mentre Marta racconta, ci tornano alla mente le immagini
di un film di qualche anno fa «Il vento fa il suo giro» dell’italiano Giorgio
Diritti girato in Val Maira. La storia sembra clonare le esistenze di Giorgio e
Marta: una famiglia con tre figli si trasferisce in una comunità montana per
vivere secondo natura, occupandosi di pastorizia, ma la diffidenza nei
confronti dello straniero non tarda a farsi sentire da parte dei locali. A
questa citazione Marta sorride e commenta: «Volete sapere una curiosità? Le
capre del film sono le nostre. Il film è molto genuino e gli attori non
professionisti rendono l’affresco. Per quel che ci riguarda, però, la comunità
locale non ha mostrato nessuna chiusura nei nostri confronti. Il fatto che io
facessi il medico e lavorassi molto sull’aspetto umano del paziente, ha
favorito una rete di contatti sociali propositivi che ci ha sicuramente
incoraggiati nell’iniziativa».

Arrivano le capre

Medico, madre e costruttrice di una nuova esistenza
improntata sulla socialità, la spinta antropologica e il rispetto ambientale.
Quando è nata l’idea di una proposta anche commerciale? «Dopo i primi tempi in
borgata, anche Giorgio ha iniziato a vedere con più chiarezza quello che
potevamo ideare a livello professionale. Si è specializzato nella pastorizia ed
è andato in Francia per imparare a fare il formaggio. Nel 1999 abbiamo aperto
il caseificio con solo 20 capre. Il lavoro si è fatto sempre più intenso e
quando è arrivata Lara, prima come dipendente e poi come socia, mi sono
permessa una sosta dal lavoro di medico per dedicarmi esclusivamente alla
famiglia e all’attività».

Oggi, 2013, qual è la realtà di borgata Podio e
dell’azienda agricola Lo Puy? «Ad oggi la borgata è abitata dalla nostra
famiglia e da quella di Lara con le sue due bambine. Dal 2011 sono tornata a
lavorare come direttore sanitario in una struttura per anziani, tre giorni alla
settimana. Non ho studiato medicina per caso, era la mia passione pur
dissociandomi dagli aspetti del marketing sanitario. Il mio lavoro contribuisce
alle spese poiché la produzione del nostro formaggio è solo stagionale: da
marzo a novembre. Gli altri quattro mesi sono senza introiti. Anche il nostro
locale «Chabrochanto» contribuisce a rafforzare la nostra idea di rispetto a
360 gradi per la natura».

Marta ci chiarisce che non ama il termine «agriturismo»
in quanto ormai troppo inflazionato e, in troppe situazioni, poco veritiero: «Al
caseificio abbiamo abbinato l’attività della locanda di degustazione.
Proponiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti: formaggi, carne e
capretto, salumi di capra e maiali. Non avendo verdura a sufficienza, ci
foiamo dai produttori locali perché è insito nella nostra filosofia servirsi
a km zero. Non ci sono cartelli che rimandano alla Chaborchanto ma un ottimo
passaparola di clienti fidelizzati ci permette di sopravvivere. Il tutto è
nell’onda della purezza e genuinità».

Abolire il superfluo

Mentre deliziamo il palato con la marmellata di lamponi
e il pane fatto in casa da Marta, non possiamo non domandarci in che misura
rientra la decrescita in questo microcosmo. «Ci ritroviamo nel pensiero della
decrescita da prima che il termine venisse troppo abusato: ridurre il consumo e
il superfluo è la nostra linea quotidiana. Tutto quello che riusciamo a
guadagnare lo reinvestiamo nel nostro territorio, per la nostra famiglia e le
generazioni future che vorranno venire a vivere qui. Trovo personalmente
fallimentari le comunità che vivono nell’eremitaggio, appartandosi dal mondo.
Le scelte troppo radicali non mi appartengono. Cambiare è un progetto graduale
perché penso che, in un modo o nell’altro occorra fare patti con la società in
cui si vive. Non ci sentiamo ad esempio di privare i nostri figli da eventuali
attività sportive o musicali ma cerchiamo di organizzare la logistica in modo
da non creare troppo impatto sull’ambiente».

Sensibilizzare al decrescere. Vi
sentite in parte operatori di questa ideologia? «A questo riguardo il nostro
locale, la Chabrochanto, vuole essere un punto di incontro e confronto di idee
ed esperienze tra persone. Dal 2010, infatti, promuoviamo i «Conviti di
agricoltura»: libere condivisioni di idee sull’agricoltura odiea,
sull’alimentazione, sul mondo contadino e sulla decrescita in generale. Le
tematiche attuali vengono poste come interrogativi su cui riflettere: si può
fare a meno della connessione a Inteet, dei centri commerciali e della
macchina? A questo scambio dialogico si associano piatti sfiziosi».

Baratto del tempo

Non sono solo gli stili di vita e le proposte al
pubblico che indicano uno stile «decrescente». Marta ci racconta che spesso a
Lo Puy si propone uno scambio del tempo. Vitto e alloggio assicurato, in cambio
di un paio di ore nell’orto o di una consulenza professionale in qualche
ambito. Rete e collaborazione sono le parole d’ordine ma anche ambiente. Grazie
alla collaborazione con una Onlus di Racconigi, l’azienda Lo Puy si è potuta
permettere i pannelli fotovoltaici. Questo ha favorito, oltre alla tutela
ambientale, un ottimo rapporto tra produttori e clienti. Il tutto fa parte di
un quadro che fa rima con impegno e anche con sobrietà.

Lasciando Borgata Podio l’impressione è che qui si
respiri un’aria di crescita, non quella del consumo ma quella dell’uomo, al
centro della sua vita in un paradigma «consapevole».

Gabriella Mancini




Decrescita 5: Cliente chiama produttore

Strumenti/ I gruppi di acquisto solidale
I gruppi di acquisto nascono da una consapevolezza e
criticità nei consumi. Puntano a maggiore tutela ambientale e appoggio a
filiere agropastorali. Consumatore e produttore condividono decisioni sul
prodotto finale. Intanto la rete organizzativa è in continuo miglioramento. Ce
ne parla l’esperto Andrea Saroldi.

A raccontarci in maniera chiara ed esaustiva come funzionano
i Gruppi di acquisto solidale (Gas) è Andrea Saroldi, di professione impiegato,
che da anni se ne occupa in modo proattivo. «Intoo al 1994, insieme ad alcuni
amici avevo fondato un gruppo dal nome Cocorico (Consumatori, coscienti,
riciclanti, compatibili): persone attente a scambiarsi le informazioni su come
praticare uno stile di vita più rispettoso, un modo di consumare più
consapevole e compatibile con l’etica e nei confronti dell’ambiente. In questo
contesto abbiamo conosciuto i primi Gas, allora nascenti.  La prima rete nazionale dei Gas è nata nel
1997. Oggi, 2013, i Gas censiti in Italia sono circa 1.000, quelli effettivi
almeno il doppio, il che significa almeno 200.000 persone coinvolte insieme a
diverse migliaia di produttori. Una volta all’anno è organizzato un convegno a
loro dedicato in cui esperienze, evoluzioni e prospettive si incontrano e si
confrontano». 

Come e in che misura rientrano i Gas nell’ambito della
decrescita?

«Nel 1994 il concetto di “decrescita” non era ancora
diffuso e sicuramente non si poneva come orientamento. Si parlava di sobrietà e
di comportamenti equi e solidali. L’attuazione dei Gas confluisce naturalmente
in quello che è il pensiero portante della decrescita. Le idee e le motivazioni
sono le stesse; fanno riferimento a un pensiero ecologico derivante dagli anni
’70 e alla consapevolezza che una dimensione dello sviluppo così come oggi
attuata non può funzionare. I pensieri di fondo sono gli stessi ma i Gas hanno
un taglio più organizzativo e pratico».

Qual è il meccanismo che fa funzionare i Gas?

«Il meccanismo di base è semplice: alcuni cittadini si
organizzano a livello volontario per acquistare dal produttore della stessa
zona, senza passare attraverso l’intermediario commerciale. Il produttore manda
un listino di prodotti a cui segue un ordine complessivo e la spedizione della
merce. Ciò che si verifica è il rapporto a tu per tu tra cliente e produttore».

Quali sono gli articoli che si acquistano principalmente
all’interno di un Gas?

«Si inizia con le cose più semplici: prodotti alimentari
a lunga conservazione, a seguire prodotti freschi, detersivi per la casa,
articoli tessili fino ad arrivare all’acquisto delle energie alternative. Oggi
i Gas si sono evoluti nella direzione di un miglioramento della propria rete
organizzativa che, nell’ottica di una maggior tutela ambientale, appoggia la
filiera agroalimentare e, di comune accordo con il produttore, prende decisioni
sia sul “cosa” sia sul “come” coltivare. È un fenomeno innovativo che apre una
finestra sul domani: non più consumatori alla mercè dei produttori e dei
distributori ma consumatori critici e partecipi».

Quali sono le motivazioni che spingono
le persone ad avvicinarsi a un Gruppo di acquisto solidale. Si può evidenziare
anche una convenienza economica?

«I primi Gas nascevano soprattutto nella testa e poi
nelle azioni di persone impegnate a livello sociale, ambientale ed etico. Oggi
c’è meno intellettualismo ma molta volontà di esser consapevoli e di mangiar
sano e gustoso, scegliendo i prodotti giusti. Trasversale a ogni epoca c’è il
desiderio di fare aggregazione (in particolar modo a livello metropolitano), di
consumare con criticità, di instaurare un rapporto diretto tra produttore e
consumatore, di essere protagonisti delle proprie scelte alimentari e non. Per
quantificare il risparmio economico sui prodotti acquistati bisogna prima
considerare l’alto livello qualitativo dei prodotti trattati. In generale la
convenienza economica è assicurata per quel che concee il settore biologico
ed energetico. Nel caso del biologico, ad esempio, c’è un risparmio del 40%.
Inoltre, un prodotto acquistato tramite canali commerciali tradizionali passa
attraverso parecchi intermediari, mentre, nel caso dei Gas, la distribuzione
diretta aiuta nel poter concordare prezzi favorevoli. Il
discorso economico non è mai comunque il fattore determinante di chi decide di
avvicinarsi ai Gas.
Alla base delle scelte personali c’è sempre un anelito al buen vivir,
viver bene e meglio».

 


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Breve trattato sulla decrescita serena, Serge Latouche
(Bollati Boringhieri, 2008)
La scommessa della decrescita, Serge Latouche (Feltrinelli, 2009)
Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie
sulla decrescita
, Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2012)
Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta
reale
, Tim Jackson (Edizioni Ambiente, 2011)
La decrescita felice. La qualità della vita non
dipende dal Pil
, Maurizio Pallante (Edizioni per la decrescita felice)
Meno è meglio. Decrescere per progredire, Maurizio
Pallante (Bruno Mondadori, 2011) 

SITI

www.retegas.it Rete nazionale dei gruppi di acquisto
solidale
www.unisf.it Università del saper fare
www.decrescitafelice.it Sito del Mdf
www.cohousingnumerozero.org Co-housing nunero zero
www.mdftorino.it Circolo di Torino della Mdf
www.beacon.it/wordpress/sabrco-gas Cronistoria Gas
www.retecosol.org Rete di economia solidale
www.ilcambiamento.it
http://scollocamento.ilcambiamento.it


HANNO CONTRIBUITO A QUESTO DOSSIER

Gabriella Mancini, torinese, giornalista e script editor,
da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.
Luca Cecchetto, torinese, sistemista informatico. Si
occupa di questioni relative alla decrescita. È il marito di Gabriella.
Foto di: Co-housing «numero zero», Marta e Giorgio di Lo
Puy, Gabriella Mancini.
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.

 

Gabriella Mancini




1_Schiavitù: Spezziamo le Catene

Premessa:
Nati uguali e liberi
A 125 anni dalla
campagna antischiavista del Cardinal Lavigerie.

Di Jean-Claude Ceilleier, Richard Nnyombi e redazione
rivista «Africa»;
a cura di Benedetto Bellesi

Un giorno un mio amico
mi raccontò una storia riguardante Davide e il suo amico Stefano. Davide fece
visita a Stefano e tutti e due andarono al cimitero poiché Davide voleva
ossequiare i genitori di Stefano che egli aveva conosciuto molto bene e ora
riposavano nel cimitero.

Appena arrivato, Davide fu impressionato dal fatto che
solo il nome inciso sulla croce distinguesse una tomba dall’altra. Avevano
tutte stessa forma e stesso stile. Quando egli espresse la sua meraviglia e
chiese all’amico Stefano il perché, si sentì rispondere: «Nella nostra città
abbiamo preso la decisione di offrire lo stesso stile di tomba a tutti i nostri
cittadini perché siamo nati uguali e alle fine, di fronte a Dio, siamo uguali.
Siamo tutti figli di Dio bisognosi di amore e comprensione. Nella stessa fila
dei miei genitori ci sono un poliziotto, un sindaco, un prete, ecc. Non lo
sapresti se non ti venisse detto». Con ragione Davide disse: «Nati uguali e
liberi: questa è la nostra sfida».

Il cardinal Lavigerie non fu il primo nella lotta allo
schiavismo, ma il suo ardente impegno nella campagna contro la schiavitù nel
diciannovesimo secolo ha certamente aiutato molta gente a realizzare il sogno
di essere liberi e schiavi di nessuno, così come siamo nati uguali davanti a
Dio.

E oggi, cosa si può fare? Non molto, saremmo tentati di
dire. Ma ricordiamo che la nostra voce in meno in una elezione può significare
perdere un’opportunità di servire gli altri con una certa visione. Conta ogni
voce, ogni occhio, bocca, mente e via dicendo. Se credi che il tuo contributo
non sia importante, osserva un gruppo di formiche, guarda come lavorano insieme
per radunare il cibo dentro il loro granaio. Nessuna è forte abbastanza per
trasportare qualcosa, ma lavorando insieme esse riescono a rotolare dentro il
granaio abbastanza cibo per la stagione magra.

L’impegno nella lotta alla schiavitù continuò anche dopo
Lavigerie, che stimolò altri a partecipare in tale impegno a seconda di come lo
Spirito muoveva la Chiesa e il mondo. Agenti pastorali, da papa Leone XIII fino
alle semplici persone dei lontani villaggi in Africa, continuarono a deplorare
l’ingiustizia di rimuovere migliaia di africani dalle loro case e portarle
altrove.

La celebrazione del 125o anniversario della
partecipazione del cardinal Lavigerie alla campagna antischiavitù, è per tutti
uno stimolo per prendere coscienza delle differenti forme di discriminazioni e
schiavitù che anche oggi negano a milioni di persone la loro uguaglianza
davanti a Dio e agli altri e le deprivano della propria libertà.

La conoscenza è cosa buona ma quando porta ad azioni
significative è anche meglio. Scopo di questo dossier, infatti, non è una
rievocazione storica, per risvegliare la consapevolezza del nostro passato, ma
vuole soprattutto aiutarci ad aprire orecchie, occhi e cuore di fronte alle
situazioni di schiavitù che vediamo ancora oggi attorno a noi e, come
missionari, annunciare un messaggio ben differente al popolo di Dio, che cioè
ognuno è nato uguale e libero. Come i profeti biblici, e come il cardinal
Lavigerie, dobbiamo essere capaci di denunciare le forme odiee della schiavitù
e impegnarci per sradicarle.

Si tratta prima di tutto di cambiare e lottare contro la
mentalità corrente: gli schiavi di oggi sono considerati più in termini
economici che di dignità personale; sono merce e tale mercificazione della
persona umana nega i valori di uguaglianza e libertà, la dignità di figli di
Dio e di nostri fratelli e sorelle.

Fr. Richard
K. Baawobr

Superiore
Generale M.Afr 
 

Richard K. Baawobr




2_Schiavitù: La campagna antischiavista

Un impegno missionario
eccezionale del card. Lavigerie


La campagna umanitaria
lanciata 125 anni fa dal cardinal Lavigerie contro la schiavitù in Africa
costituisce un’iniziativa coraggiosa e rispecchia una strategia straordinaria
sia sotto l’aspetto dell’impegno missionario sia a livello culturale e
politico: il suo piano d’azione, infatti, mira prima di tutto a cambiare
l’opinione pubblica europea e alla ricerca di benefattori per sostenere la sua
campagna; in seguito si indirizza alle potenze politiche del suo tempo,
riuscendo effettivamente a risvegliare qualche coscienza.

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di Jean-Claude Ceilleier

Nato nel Sud Est della Francia nel 1825, Charles Allemand Lavigerie fu un brillante studente nel seminario maggiore e poi in quello dei Carmelitani a Parigi. Giovane prete, diresse con entusiasmo straordinario l’Opera delle Scuole d’Oriente. Lavorò per alcuni anni nella curia romana, finché venne nominato vescovo di Nancy nel 1863, all’età di 38 anni. Fu lì che, senza dubbio, maturò la sua vocazione missionaria, e quando gli fu chiesto di assumere la responsabilità della diocesi di Algeri nel 1867, accettò immediatamente.

Esercitò questo servizio pastorale per un periodo di 25 anni e fu in tale coice che egli aprì il suo ministero a una dimensione missionaria di mirabile ampiezza mai vista in precedenza. Fondatore di due istituti dedicati alla missione in Africa, le Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola) e i Missionari d’Africa (M.Afr), egli si appassionò di questo grande continente (ancora poco conosciuto dal mondo europeo a quell’epoca) per la sua storia, la sua cultura e i suoi popoli. Papa Leone XIII ebbe grande stima di questa personalità eccezionale e lo elevò al rango di cardinale nel 1882. È nel contesto di questo impegno per la missione e per il servizio all’umanità in generale che bisogna collocare la campagna antischiavista di cui trattiamo qui.

interviene presso stati e Papa

Nel 1888 Lavigerie aveva già una conoscenza approfondita di certe realtà che caratterizzavano il continente africano, e tra queste realtà ce n’era una in particolare che maggiormente lo sconvolgeva: lo schiavismo. Era ben informato dalle testimonianze di grandi esploratori; ma anche dalla corrispondenza dei suoi missionari che erano presenti nella regione detta dei Grandi Laghi, fin dall’arrivo della prima carovana nel 1878.

Conosceva l’ampiezza delle razzie, le rotte delle carovane di schiavisti tra i laghi del centro e la costa dell’Oceano Indiano. Conosceva pure le sofferenze inimmaginabili degli schiavi durante queste lunghe marce forzate e il cinismo dei trafficanti. A più riprese, dall’inizio degli anni ’80, Lavigerie cercò in varie occasioni di far intervenire l’una o l’altra delle maggiori potenze europee, specialmente la Gran Bretagna, e perfino la Santa Sede, ma senza alcun risultato.

Nel 1888 si presentò un’altra opportunità per intervenire di nuovo: il Brasile annunciò che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù nel suo territorio e il papa Leone XIII decise di pubblicare un’enciclica per approvare tale decisione. Immediatamente il cardinale Lavigerie gli chiese di menzionare il dramma che l’Africa continuava a vivere in quel momento e il Papa accondiscese.

Al tempo stesso, nel mese di maggio di quell’anno 1888, si stavano preparando grandi festeggiamenti a Roma per celebrare il giubileo d’oro sacerdotale di Leone XIII; Lavigerie sollevò di nuovo il problema: si recò a congratularsi con il Santo Padre accompagnato da un gruppo di giovani neri cristiani e parlò di nuovo in udienza pubblica e privata a favore delle vittime dello schiavismo nel continente africano. Leone XIII, grandemente impressionato, pensò che si dovesse intervenire più apertamente e gli disse: «Noi contiamo su di voi, signor cardinale, per il successo di tale impresa». Questa risposta del Papa ebbe per Lavigerie immediatamente il valore di una missione da compiere, e fu così che prese l’impegno di organizzare una massiccia campagna antischiavista e ne incoraggiò lo sviluppo su più vasta scala possibile.

Guadagnare l’opinione pubblica 

Immediatamente Lavigerie escogitò un piano d’azione su tre fronti: una vasta copertura geografica attraverso l’Europa; interventi per attrarre il grande pubblico mediante conferenze, articoli di stampa e altri metodi; e infine la messa in moto di una rete di associazioni nazionali e locali destinate a mantenere alto l’interesse dei benefattori e sostenere altre attività concrete.

Proprio in ciò che riguarda le azioni pratiche Lavigerie pensò inizialmente di riprendere un progetto da lui concepito alcuni anni prima: il progetto di formare una milizia di laici armati, che avrebbe protetto i centri di rifugio per schiavi fuggiti o affrancati e che potesse intervenire in altre aree secondo le circostanze. Bisogna dire subito che tale progetto non andò mai in porto, principalmente a causa della marcata riluttanza dei poteri coloniali stabilitisi nel continente africano.

La prima manifestazione di questo vasto programma ebbe luogo a Parigi con una conferenza pubblica tenuta il 1° luglio 1888 nella chiesa di San Sulpicio. Dopo una lunga descrizione delle sofferenze subite dagli schiavi, Lavigerie fece appello alla generosità della gente sollecitando donazioni e ai giovani perché avessero il coraggio di arruolarsi per andare a difendere e proteggere quelle vittime.

Lavigerie era un oratore di grande talento; si imponeva per la sua forte personalità e questa prima conferenza ottenne un grande successo, tanto nella stampa che nell’opinione pubblica francese. Nelle settimane seguenti egli intervenne allo stesso modo in Italia, in Gran Bretagna e in Belgio, dove fece una commovente conferenza nella chiesa di san Gudule (Bruxelles) il 15 agosto. Una delle ultime grandi conferenze pubbliche ebbe luogo a Roma nella Chiesa del Gesù il 23 dicembre 1888.

Dappertutto l’opinione pubblica fu sconvolta dalle rivelazioni dell’ampiezza di tale traffico di schiavi nell’Africa Centrale. Le autorità politiche presero anch’esse coscienza del problema e Lavigerie fece del suo meglio per provocare le loro prese di posizione ufficiali; fece perfino diversi passi diplomatici o addirittura militari, per porre fine alla tratta schiavista, specialmente sulla costa dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso.

Le reazioni furono però differenti, secondo gli interessi degli Stati interessati. In Inghilterra ci fu grande sostegno, perché il paese era ben coscientizzato da molto tempo su tale problema. In Belgio re Leopoldo temeva ingerenze nel suo territorio del Congo e Lavigerie dovette tenee conto nelle sue differenti conferenze. Tuttavia, dappertutto l’opinione pubblica approvava e sosteneva la sua campagna; e in questo senso, si può dire che la campagna riportava già un grande successo.

Comitati di sostegno e incontri inteazionali

In questo programma, il cardinale aveva previsto la creazione di comitati di solidarietà su base nazionale e locale. Vari comitati furono fondati nei paesi da lui visitati. In altri paesi dove non poté andare, allacciò contatti, inviò lettere e sostenne la creazione di gruppi di benefattori. In questo modo egli ebbe contatti in Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Spagna e Portogallo. Egli volle estendere il problema ancora più lontano: chiese un congresso internazionale, dove i governi si sarebbero impegnati a cancellare la tratta degli schiavi in Africa. Dopo vari tentativi infruttuosi, questa proposta fu finalmente realizzata dal raduno di un congresso internazionale a Bruxelles nel novembre 1889. Sedici potenze erano rappresentate e il lavoro continuò per molti mesi. Ma non finì ufficialmente che nel luglio 1890. Lavigerie non era presente, ma il suo nome fu frequentemente citato ed egli stesso si dichiarò felice dei risultati, specialmente per la decisione di allestire pattugliamenti marini lungo le coste orientali del continente. Tuttavia egli stesso volle organizzare, sotto la sua personale supervisione, una nuova convenzione comprendente tutte le rappresentanze dei Comitati anti-schiavismo. Tale congresso ebbe luogo a Parigi in settembre 1890 e anche in tale occasione si poté ammirare il talento organizzativo e la forte personalità del cardinale che giocò un ruolo importante nel consolidare le iniziative già prese e nell’assicurare un migliore cornordinamento tra i progetti.

Dopo una visita a Roma, dove rese conto al papa della campagna, ormai consumato da mesi di enormi sforzi, Lavigerie ritoò alla sua diocesi ad Algeri, nell’autunno di quello stesso anno 1890. L’ampiezza di tale campagna e la sua ammirabile organizzazione hanno senza dubbio fatto fare grandi passi a favore della soluzione del problema dello schiavismo. Lo affermò lo stesso Lavigerie nella sua prima conferenza pubblica: un grande grido si è fatto sentire. Grido d’indignazione lanciato dal vecchio cardinale sia in nome dell’umanità che in nome del Vangelo.

 

Date principali nella vita di Charles-Martial Allemand Lavigerie:

1825 - Nasce a Bayonne
1841-49 – Studia a Parigi fino all’ordinazione sacerdotale (1849)
1850 – Dottorato in letteratura
1853 – Insegna alla Sorbona
1857 – Direttore della Oeuvre des Ecoles d’Orient (opera per le scuole d’Oriente)
1860 – Viaggio in Libano e Siria per aiutare le vittime di massacri
1861 – Uditore della Sacra Rota romana
1863 – Nominato vescovo di Nancy (5 marzo) e ordinato a Roma nella chiesa di S. Luigi dei francesi (22 marzo)
1867 – Arcivescovo di Algeri
1868 – Delegato apostolico per il Sahara e il Sudan e fondazione dei Missionari per l’Africa (Padri Bianchi)
1869 – Fondazione delle Suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (Suore Bianche)
1878 - «Memorandum segreto sull’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale»; prima carovana nell’interno dell’Africa;
          I Padri Bianchi prendono residenza a Gerusalemme
1882 – Nominato cardinale
1884 – Ri-erezione della sede (episcopale) di Cartagine; Primate d’Africa
1888 – Inizia la campagna antischiavismo con varie conferenze: chiesa di San Sulpizio a Parigi (1° Luglio); Prince’s Hall a Londra (31 luglio);
            chiesa di san Gudule a Bruxelles (15 agosto); chiesa del Gesù a Roma (23 dicembre)
1889 – Conferenza internazionale per l’abolizione della tratta degli schiavi – Bruxelles, 18 novembre-luglio 1890
1890 – Congresso a Parigi delle Società anti-schiavitù (21-23 settembre); festeggiamento ad Algeri (12 novembre)
1892 – Muore ad Algeri (26 novembre).
Jean-Claude Ceilleier




3_Schiavitù: Sulle orme del Fondatore

Lotta alla schiavitù dei missionari e missionarie d’Africa


La liberazione degli africani dalla schiavitù era parte
essenziale della metodologia di evangelizzazione del cardinal Lavigerie. I suoi
missionari e missionarie a contatto diretto con lo schiavismo lo accompagnarono
nella sua campagna con le opere di carità, riscattando persone, costruendo
orfanotrofi e informando il loro fondatore sulle atrocità di cui erano
testimoni.

Prima della campagna (1868-1888)

La nascita della Società dei Missionari d’Africa, (Padri
Bianchi) in Algeria è strettamente legata alla vocazione di prendersi cura
dell’umanità sofferente. Di fronte al problema delle vittime della carestia in
Algeria (1866-1868) Lavigerie cercò una congregazione religiosa competente per
prendersi cura degli orfani e non essendo riuscito a trovarla cominciò a
pensare di fondae una. Molti dei primi missionari d’Africa ebbero una
esperienza pastorale negli orfanotrofi in Algeria sia durante il loro periodo
di formazione che in seguito.

Il secondo incontro con la miseria umana sotto forma di
schiavitù fu nei posti di missione nel Sahara (Leghouat 1872 e Ouargla 1875).
Lavigerie si domandava come i suoi missionari sarebbero stati coinvolti nella
lotta contro lo schiavismo. Uno dei modi che egli escogitò fu quello di
riscattare gli schiavi, specialmente i ragazzi, educarli e poi rimandarli in
dietro nei loro paesi di origine come agenti di evangelizzazione ed
eventualmente come attivisti dell’antischiavismo. In realtà egli considerava il
lavoro di evangelizzazione in sé, cioè insegnare la fede, la morale e i valori
cristiani, un mezzo efficace a lungo termine di lotta alla schiavitù fin dalle
sue radici.

Così ai missionari della seconda carovana diretta
all’Africa Equatoriale, Lavigerie ebbe a dire questo: «Non siate sorpresi che
io, come vescovo cui è stata affidata dal Santo Padre una parte di queste
immense regioni dove la schiavitù domina ancora, la denunci… Andate, figli
miei, andate e insegnate a queste popolazioni che questo Gesù, la cui croce voi
mostrerete loro, morì su di essa per portare al mondo ogni libertà: libertà
delle anime dal giogo del male, libertà dei popoli dal giogo della tirannia,
libertà delle coscienze dal giogo dei persecutori e libertà del corpo dal giogo
della schiavitù» (Cattedrale di Algeri, 20-6-1878). Inoltre Lavigerie aveva già
considerato la lotta contro la schiavitù come parte del piano generale
dell’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale nel suo «Memoriale segreto»
presentato alla Congregazione di Propaganda il 2 gennaio 1878.

Durante la campagna (1888-1892)

Il cardinal Lavigerie non coinvolse direttamente i
membri della sua Società Missionaria nella sua campagna antischiavista. Ciò può
essere spiegato da due ragioni: la prima perché la sua campagna era indirizzata
per lo più ai paesi europei con lo scopo di forzare i loro governi, mediante
l’influenza dell’opinione pubblica, a prendere iniziative per abolire la
schiavitù in Africa. I pochi missionari della sua Società a quel tempo erano
soprattutto nel continente nero e dovevano come priorità iniziare nuove
missioni per l’evangelizzazione degli Africani.

Secondariamente, per motivi di prudenza; egli temeva le
ripercussioni negative che si sarebbero riversate sui missionari, come
persecuzioni, uccisioni, rifiuto del permesso di stare in quei paesi, impedendo
così di portare avanti l’opera di evangelizzazione, obiettivo principale della
loro presenza in quei paesi. Perciò, Lavigerie giunse fino ad ammonire i suoi
missionari di non scontrarsi con i mercanti di schiavi. Tuttavia, nonostante ciò,
alcuni missionari sfidarono gli schiavisti e sfidarono i capi locali perché
abolissero la schiavitù nelle loro aree.

Anche se i missionari non erano direttamente coinvolti
nella campagna antischiavismo del cardinale, essi vi contribuirono
direttamente, inviandogli informazioni di prima mano sulle atrocità di questo
odioso mercato e le sue conseguenze negative sulla vita sociale in generale e
su quella famigliare in particolare. Tali informazioni erano per lui di grande
utilità nelle sue conferenze e comunicati stampa.

Inoltre il cardinale incoraggiava i suoi missionari a
riscattare gli schiavi, a prendersene cura ed educarli. Perciò gli orfanotrofi
che furono costruiti in quasi tutte le stazioni di missione erano per lo più
riempiti con bambini schiavi riscattati. Questi ragazzi furono considerati la
base della futura comunità cristiana locale ed erano anche visti come una
risorsa a lungo termine per combattere la schiavitù, e distruggere col tempo le
strutture (mentali e sociali) che la favorivano.

Ma anche il problema del riscatto degli schiavi non era
senza difficoltà e opposizione. Alcuni erano contrari al riscatto perché lo
consideravano un incoraggiamento per i trafficanti a continuare in tale odioso
affare. Perfino tra i missionari c’erano delle differenze come nel caso dei
Buganda: il problema fu riferito al cardinale, come testimoniano le lettere
inviate nel 1882 dai padri Livinhac e Lourdel.

Un altro modo in cui i missionari in Africa
contribuirono alla lotta contro la tratta degli schiavi fu il provvedere
sicurezza alla gente nei cosiddetti «villaggi della pace o della libertà», come
quelli fondati nelle località di Karema e Mpala in Tanganika e Kibanga in
Congo.

Donne apostole tra donne

Quando il cardinal Lavigerie fondò la congregazione
delle Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola), nel 1869, voleva donne
apostole che si prendessero cura degli orfani causati dal colera in Algeria,
oltre a partecipare pienamente nell’evangelizzazione del continente africano.
Le «suore bianche», come venivano comunemente chiamate, cominciarono la loro
vita missionaria in Algeria, contribuendo a restituire dignità ai meno
privilegiati. Quando esse partirono per le missioni in differenti parti
dell’Africa, il continente era percorso dalla tratta degli schiavi. Mentre il
loro fondatore era impegnato nella campagna antischiavista, egli esortava le
sue missionarie a impegnarsi totalmente come educatrici e madri di tutte le
donne vittime della schiavitù. E tutte le attività delle suore erano dirette a
rispondere a tale invito.

Fin dall’inizio Lavigerie ricordò alle suore che
dovevano essere «donne apostole tra donne» e madri verso le ragazze vittime
dello schiavismo in Africa Equatoriale. Egli voleva le sue suore totalmente
missionarie, il cui apostolato era complementare a quello dei padri e fratelli,
non solo perché esse potevano entrare in gruppi chiusi ai missionari maschi, ma
anche per la loro abilità di agire da donne tra donne, per trasformare la
società intera.

Faccia a faccia con la schiavitù

Queste donne apostole furono mandate in Africa per
partecipare a modo loro nella lotta contro il commercio di schiavi, mediante il
loro impegno con gli schiavi riscattati (ragazze, donne, ragazzi). Lavigerie
aveva dato anche a loro prudenti linee guida su come comportarsi con bianchi e
neri trafficanti di schiavi. Questi erano troppo potenti e pericolosi per
essere affrontati direttamente da impotenti missionari. Lavigerie raccomandò
loro di mantenere relazioni amichevoli con i proprietari di schiavi, se
volevano continuare i loro impegni apostolici. In compenso, chiese loro di
inviargli relazioni dettagliate sulla tratta… Le suore si conformarono alle
linee guida del loro fondatore.

Esse si dedicarono agli schiavi riscattati e perfino ne
comprarono alcuni, quando potevano permetterselo, come avvenne per esempio in
Baudoinville (Moba) dove arrivarono nel 1895. I diari mostrano che esse non si
occuparono solo di schiavi neri riscattati o liberatisi con le proprie forze,
ma anche di ogni bambino bisognoso, compresi i figli dei mercanti di schiavi,
come si legge nei diari: «Il comandante di Deberghe ci ha mandato due ragazzi.
Il loro padre era un leader arabo della costa del Tanganika, che era stato
ucciso in una incursione. La sua vedova e i figli furono presi dai belgi. La
ragazza si chiama Leonora; è molto intelligente. Il primo giorno del suo arrivo
imparò a fare il segno di croce. L’altro è un bambino di due anni; non sa
ancora parlare ed è il più giovane del Barza» (09-07-1896).

Tutti i ragazzi erano raggruppati nello stesso centro.
Grazie alle suore, schiavi, figli di schiavi e figli di padroni ora vivevano
insieme in pace e fiducia, ricevevano crescendo la stessa educazione e
imparavano ad essere fratelli e sorelle, perché figli dello stesso Dio Padre.
C’è forse un modo migliore per combattere contro la schiavitù?

Dal 1909 nel diario di Tabora si notano alcuni
cambiamenti nel modo di riscattare gli schiavi: «Una vecchia schiava, sorella
di un catecumeno del villaggio, è arrivata qui da pochi giorni, ma il suo
padrone la reclama. Il caso va alla boma (Centro del governo locale) e
il reverendo padre superiore ci suggerisce di tentare un altro modo di
riscatto. Ciò significa che la somma richiesta dal padrone non sarà pagata
immediatamente tutta. La schiava lavorerà e ogni mese pagherà al padrone una
somma convenuta e così comprerà la propria libertà. La proposta fu adottata
dalle tre parti. Questa soluzione ci ha rese molto felici, nel fatto che la
nostra povera vittima può lavorare e perché essa può stare con noi per almeno
dieci mesi finché la somma viene pagata. Questa lunghezza di tempo significa
che la riscattata può seguire le istruzioni e conoscere la nostra religione e
così avere il desiderio di perseverare nel suo catecumenato».

La carità non basta

La storia del cardinal Lavigerie, dei suoi missionari e
missionarie contiene una lunga lista di opere di carità verso le vittime, a
cominciare dal riscatto di schiavi fino a ciò che si sta ancora facendo oggi,
per esempio a favore dei ragazzi di strada, vittime di caccia alle streghe,
guerre, ecc…

Tuttavia tale storia ci insegna che le opere di carità
da sole non possono eliminare la schiavitù dalla nostra società: Lavigerie stesso lo aveva notato, dicendo: «Ma io
ripeto, cari fratelli e sorelle, che la carità, per quanto grande possa essere,
non sarà sufficiente a salvare l’Africa. È necessario un rimedio più sollecito,
più efficace e più decisivo» (St. Sulpice, Parigi, 1° luglio 1888).

Il cardinal Lavigerie insegnava quindi che le opere di
carità devono andare di pari passo con le opere di giustizia; affermava che
l’evangelizzazione procede pari pari con l’attivismo sociale, diventando così
uno strumento efficiente contro lo schiavismo. C’è bisogno di leggi e strutture
sociali per prevenire ed eliminare alla radice le cause della schiavitù. Tale
metodo di evangelizzazione, valido oggi e in futuro (cf Nuova
evangelizzazione
), deve essere adattato alla situazione attuale nella lotta
contro le forme modee di schiavitù.

Come missionari, la preghiera è parte essenziale degli
sforzi nel combattere la schiavitù in qualsiasi forma si manifesti. Lavigerie
considerava la preghiera in generale e la preghiera pubblica in particolare
come mezzo indispensabile per raggiungere lo scopo della sua campagna. Con
queste parole si rivolse ai cristiani in Algeri: «Ho appena scongiurato i
governi in Europa, ma oggi non vi chiedo né l’aiuto delle armi né quello della
carità, come feci in precedenza; è un aiuto più importante che io, vescovo,
chiedo ai cattolici: è l’aiuto della preghiera» (Algeri, 19 aprile 1889). E
continuava spiegando che essa è uno strumento alla portata di tutti e non
esclude alcuno: bambini, giovani, anziani, malati o in buona salute. Tuttavia
anche la preghiera deve andare mano nella mano con i gli sforzi concreti nel
combattere la modea schiavitù. Nel diario di Mpala, lo scrittore, dopo aver
narrato una storia molto difficile sul riscatto di sei anziane donne e due
bambini, conclude dicendo: «Abbiamo fatto ciò che potevamo, Dio farà il resto»
(Diary, Mpala, 3 settembre 1890).


Richard Nnyombi