Decrescita 1: Decresco, quindi sono

Teoria e pratica della «decrescita felice»

di Gabriella Mancini, con la collaborazione di Luca
Cecchetto

Premessa: perché decrescita?
«Non cambierete mai niente lottando contro la realtà
esistente. Cambierà qualcosa solo costruendo un nuovo modello che
renderà quello esistente obsoleto». (Buckminster Fuller)

Se apriamo il vocabolario e cerchiamo «benessere», la
definizione fa riferimento a: stato di buona salute fisica e psichica, felicità,
senso di benessere interiore o prosperità economica, agiatezza. Per società del
benessere si intende la nostra, quella occidentale, caratterizzata da agiatezza
collettiva e un elevato reddito pro capite. Ma siamo proprio sicuri che la
bussola dello sviluppo e del benessere di una società continui a essere solo
determinata dal Pil (Prodotto interno lordo)?

Da queste considerazioni nasce e si sviluppa la teoria
della decrescita che ne vede precursore l’economista rumeno Nicholas
Georgescu-Roegen in particolare per la sfera ecologica. I sostenitori della
decrescita affermano che la crescita economica – intesa proprio come
accrescimento costante del Pil – non porta a un maggior benessere e che il
miglioramento delle condizioni di vita deve essere ottenuto non con l’aumento
della produzione e del consumo di merci ma con il miglioramento dei rapporti
sociali, umani, della qualità ambientale, della collettività e del tempo
liberato. Le parole di Serge Latouche, principale teorico della corrente, ne
sono lo specchio: «La decrescita non è la crescita negativa. Sarebbe meglio
parlare di “acrescita” […]. D’altra parte si tratta proprio dell’abbandono di
una fede o di una religione (quella dell’economia, del progresso e dello
sviluppo). […] Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema
basato su un’altra logica».

Una decrescita che può essere felice solo se non è
subita, se nasce da una scelta consapevole che, se sperimentata, dimostra di
saper dare i suoi buoni frutti.

Questa inchiesta svela che una nuova fetta di umanità si
è già messa in cammino per «reinventare» un modo più critico e consapevole di
esistere. Un percorso inverso, dove recuperare la manualità e le tradizioni può
salvaguardare il proprio destino; dove essere liberi dai condizionamenti
telematici senza risultare disinformati e operare scelte eco-compatibili come
riciclare, riparare, autoprodurre non deve essere l’eccezione ma la regola per
star meglio. Dove, lo spazio per esistere è uno spazio dettato dal dialogo e
non dalla mercificazione dei rapporti. Dove quel «de», davanti al termine «crescita»,
non è svilente ma è la linfa vitale di un altro paradigma: quello della
rinascita di un nuovo umanesimo e della riscoperta di un’economia basata sulla
ragionevolezza.

Gabriella Mancini




Decrescita 2: Produrre sì, ma… «merci» utili

      L’esperto 1/ incontro con Maurizio Pallante                                         
Che differenza c’è tra beni e
merci? Cosa può rendere la vita migliore? Come ridurre il Pil senza andare in
recessione? A queste e altre domande risponde Maurizio Pallante, classe 1947,
laureato in lettere, ex preside, fondatore e «guru» del Movimento per la
decrescita felice
.

L’alternativa alla crescita è la
riduzione degli sprechi. Maurizio Pallante ci racconta il suo cammino verso la «Teoria
della decrescita» partendo dalle sue esperienze ambientaliste degli anni Ottanta:
«Realizzavo già allora che l’alternativa ai combustibili fossili non poteva
essere esclusivamente legata all’utilizzo di fonti rinnovabili ma anche e
soprattutto alla riduzione degli sprechi. Solo in Italia si spreca il 70% di
energia, cioè si produce energia che non serve perché potrebbe essere
risparmiata in vari modi. È necessario dunque ridurre gli sprechi, il consumo “inutile”
e, solo dopo o parallelamente, si può pensare di ricavare energia dalle fonti
rinnovabili, ma solo per le rimanenti necessità».

Negli anni ’90 affronta tematiche legate alle
eco-tecnologie e all’efficienza energetica. Nel libro «Le tecnologie di armonia»
(Bollati Boringhieri 1994) analizza l’inadeguatezza degli indici economici
universalmente riconosciuti quali misura del benessere e valuta le opportunità
legate a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto alle otto ore attuali.

Beni o merci?

Domandiamo a Maurizio Pallante quale sia la sua critica
al Pil (Prodotto interno lordo) come indicatore dello sviluppo economico. «La
crescita economica, che troppo spesso si identifica con benessere, viene
misurata dalla quantità di merci prodotte e scambiate, cioè con il Pil. Questo
indicatore, che è un dogma nella nostra economia, è una falsa misura di
benessere in quanto esistono molte merci che non determinano miglioramenti
reali della qualità della vita. Le merci che non apportano un reale
miglioramento alla vita dell’uomo non possono definirsi “beni” ma sono,
sostanzialmente, “sprechi”».

Esiste dunque un’alternativa a questo stato delle cose? «Concentrarsi
sulla produzione “efficiente” di beni, ossia di merci “buone”, cioè utili. In
questo contesto assumono molta importanza forme come l’autoproduzione e lo
scambio di beni non mercantile, il dono, la reciprocità e la solidarietà. La
decrescita è proprio questo: da un lato la diminuzione della produzione di
merci che non sono “beni”, ossia che non recano un effettivo miglioramento
qualitativo della nostra vita, e dall’altro l’aumento della produzione di beni
che non sono “merci”».

Ma la decrescita si può considerare un fenomeno di
nicchia o di massa? La teoria della decrescita felice viene sviluppata
attraverso la pubblicazione dell’omonimo libro del 2005 che ha venduto, a oggi,
50.000 copie. Il fenomeno, che ha avuto una diffusione lenta, ma costante,
appare oggi in fase di ulteriore espansione. Pallante ci spiega: «Nei frequenti
convegni a cui partecipo, il pubblico è sempre vasto e interessato.
L’associazione stessa (Mdf, cioè Movimento per la decrescita felice) fondata
nel 2007, conta oggi una trentina di circoli e vanta richieste continue di
nuove adesioni tanto da ipotizzare di poterli raddoppiare entro la fine
dell’anno. Il Movimento si propone in ogni caso di creare collegamenti tra
fasce di età, tra giovani e meno giovani, tra liberi pensatori, puntando per
tutti alla valorizzazione delle proprie attitudini e capacità».

Recessione e decrescita

Di questi due termini, spesso confusi, Pallante ci da
due definizioni precise: «La recessione è la diminuzione incontrollata e generalizzata
della circolazione delle merci. La decrescita è invece la riduzione selettiva e
controllata della produzione e circolazione delle merci che non sono beni, ma
piuttosto sprechi. Facciamo un esempio: ci sono due persone che non mangiano,
una perché ha deciso di fare la dieta e l’altra perché non ha proprio da
mangiare. Chi ha deciso di fare la dieta è in fase di decrescita, chi non
mangia perché non ha da mangiare sta vivendo la recessione. In questo senso
decrescita non si confonde con recessione ma ne è addirittura la medicina».
Addirittura? «Sì, perché puntare sulla riduzione degli sprechi significa
dirottare gli investimenti in specifici settori produttivi, quello delle
eco-tecnologie, dell’efficienza, quindi ottenere magari le stesse cose impiegando
meno risorse. Con questo risparmio si può innescare un circuito virtuoso che
permetterebbe a sua volta di pagare i salari dei nuovi lavoratori del settore».

Decrescita fa rima con innovazione o tradizione?

«Anche qui bisogna mettersi d’accordo. L’innovazione non
è un valore in sé, ma è utile quando mirata alla diminuzione degli sprechi di
risorse e di tempo. Diversamente, se punta a indurre un semplice desiderio
consumistico di emulazione, è inutile e dannosa. Lo vediamo ad esempio con i
modelli di smartphone o automobili che escono continuamente sul mercato a parità
sostanziale di funzionalità tra un modello e l’altro. Per il loro acquisto le
persone continuano a indebitarsi o a lavorare molte ore senza realizzare che si
tratta di merci che non aumentano di certo il loro benessere. La tradizione è
buona perché spesso raccoglie la saggezza di secoli di adattamento alla natura
e all’ambiente circostante. Ad esempio nel campo del risparmio energetico, le
cascine costruite nell’Ottocento erano ottimali, in quanto si teneva in gran
conto l’orientamento e l’esposizione al sole dell’abitazione, riducendo le
aperture di porte e finestre sui muri perimetrali del lato nord che invece con
il loro spessore funzionavano da regolatori termici. L’edilizia della seconda metà
del secolo scorso invece, pur essendo considerata innovativa rispetto agli
edifici precedenti, teneva poco o per nulla conto di questi aspetti,
considerando un fattore secondario la dispersione di calore, presupponendo un
facile e poco dispendioso accesso ai combustibili fossili e all’energia
elettrica».

Vado a vivere in campagna

La decrescita si può vivere esclusivamente in un
ambiente rurale? «Considero le città gli ambienti peggiori dal punto di vista
della qualità della vita. In un appartamento è materialmente impossibile fare
delle attività attinenti alla soddisfazione dei propri bisogni. Tutto si compra
col denaro guadagnato spesso facendo dei lavori legati alla produzione di merci
e servizi inutili, come certa “burocrazia”. La campagna, se vissuta come
opportunità di fare autoproduzione o allevamento, va nella direzione della
decrescita. Ma in generale la decrescita attecchisce in una persona consapevole
e sensibile all’idea. Se il decentramento aumenta fortemente le necessità di
spostamenti quotidiani in automobile per raggiungere differenti luoghi di
lavoro potrebbe non essere la soluzione ottimale. Anche la scelta di vita
individuale o comunitaria deve essere lasciata alle attitudini e all’indole di
ognuno di noi, è chiaro che l’isolamento può non favorire lo scambio di beni e
servizi o la reciprocità che è alla base della teoria della decrescita».

Chi abita in città cosa può fare da domani per aderire
in pratica all’idea di decrescita?

«Si possono fare molte cose tra cui: instaurare un
rapporto diretto di collaborazione con i produttori alimentari (i Gas, ndr),
aderire alle banche del tempo, brutto nome per un’ottima idea, che è quella di
scambiare il tempo per aiutarsi. Vedo bene in questo senso creare una rete di
aiuti e di solidarietà all’interno dei condomini in cui si vive. Poi c’è il
filone energetico: fare scelte che comportino risparmi e utilizzi di energie
rinnovabili, pianificare più spostamenti a piedi o in bicicletta. Ognuno deve
trovare la propria misura e il proprio equilibrio. Ridurre al minimo la propria
dipendenza dal mercato, dalle attività inutili e dagli sprechi».

Fare i conti con la crisi

Se si perde il lavoro, cosa si fa? Si mangia pane e
decrescita?

«È fondamentale reagire, conoscersi meglio per
riscoprire le proprie capacità pratico-manuali e i propri talenti. Oggi ci
rendiamo tristemente conto che non sappiamo “fare”, ma dobbiamo acquistare
tutti i beni che ci occorrono. Il modello di giornata che ho in mente dovrebbe
svilupparsi in tre momenti: l’auto produzione di beni, includendo le
riparazioni artigianali e l’orticoltura; il lavoro “esterno”, necessario per
ottenere denaro e acquistare quello che non si può costruire direttamente.
Infine, una parte importante della giornata dedicata alle relazioni umane, alla
spiritualità, al divertimento e all’apprendimento. Molto si può fare
individualmente, vivere il proprio cambiamento e operare contestualmente scelte
di consumo consapevoli, riducendo gli sprechi e gli acquisti inutili. Ma poi ci
vuole una risposta politica e di orientamento dei settori industriali che
mirino all’efficienza, alle energie pulite e alla produzione sostenibile dei
beni strumentali».

La fase di crescita è proprio “esaurita”?

«Io credo che tutti gli sforzi attuali di aumentare
l’occupazione senza porsi la questione dell’utilità di quello che si fa sono
destinati al fallimento. Dobbiamo invertire la tendenza ed entrare in una fase
nuova dell’economia; questa azione non potrà che ripercuotersi beneficamente in
un avanzamento sociale dell’intera umanità».

 
     L’esperto 2/ Jean Louis Aillon                                                             
Decrescita, medicina e giovani

Rimettere al centro l’essere umano, in armonia con la
natura. Una società in cui si possa consumare meno e meglio. E dare più spazio
alle relazioni. Questi e altri gli ingredienti della decrescita felice secondo
il responsabile salute del Movimento.

Jean Louis Aillon è un medico 29enne,
specializzato in psicoterapia dinamica adleriana. Fa parte del direttivo
nazionale del Movimento per la decrescita felice ed è il responsabile del
settore Salute all’interno del Movimento. Jean Louis è una persona estremamente
piacevole che, con una buona dose di profondità e disinvoltura, ci racconta la
sua visione della decrescita ponendo l’accento sulla reale necessità di un
capovolgimento di paradigma in medicina e analizzando l’orizzonte dei giovani.

Jean Louis, decrescere bene e meglio. Ci dai
qualche input in merito?

«L’obiettivo della decrescita è di rimettere
al centro gli esseri umani in un nuovo rinascimento, in armonia con la natura.
In questo stato delle cose, l’economia deve essere semplicemente un mezzo che
garantisca la piena realizzazione degli esseri umani. L’idea sostanziale è: non
si deve fare sempre di più ma fare meglio, non pensare alla quantità ma alla
qualità, consci dei propri limiti e di quelli del pianeta. Una società in cui
si possa consumare meno e meglio, lavorare un po’ meno per dare più spazio alle
relazioni, alla sfera affettiva, spirituale e creativa. In questo senso
ritagliarsi del tempo “liberato” che non è il “tempo libero” catturato dagli
svaghi dell’industria del divertimento ma un tempo prezioso da dedicare a sè
stessi e ai propri cari. Noi siamo stati colonizzati da un’immagine della
crescita che nutre in sé una serie di disvalori: essere sempre in forma,
competitivi sul lavoro, inseguire benessere materiale e successo. Con la
decrescita si intende decolonizzare quest’idea della crescita».

Salute, psiche e crescita dell’uomo. Come può
la decrescita intervenire in questo ambito? «Innanzitutto occorre porsi una
domanda: “Da cosa dipende la nostra salute?”. La risposta è così ripartita: 7%
da fattori genetici, 15% dall’organizzazione sanitaria e il restante 70% dagli
stili di vita che si conducono e dall’impatto ambientale. Una buona rete
sociale accanto a sé, una sana alimentazione e dei ritmi meno pressanti
costituiscono le chiavi per migliorare il nostro stato di salute. La “crescita”
fine a se stessa ha prodotto solo ineguaglianze e stili di vita insalubri. La
depressione nel 2020 sarà la prima patologia per cause di disabilità del mondo,
insieme ad altri malesseri sempre in aumento come l’insonnia e la cefalea.
Decrescere in ambito sanitario, significa, a mio avviso, svincolare la medicina
dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico
basato esclusivamente sulla crescita del Pil; affrancarla da una visione miope
della scienza e del progresso che ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come
gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali, la sua unitarietà e la
sua complessità. La decrescita in questo ambito, come in economia, si propone
di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non
quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico
e promuovendo tutte quelle pratiche che mirano al reale benessere psico-fisico
e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità. Alcuni temi di
carattere generale (su cui vi è un consenso internazionale) che possono essere
affrontati con questo metodo, nell’ottica della decrescita riguardano: gli stili
di vita, la prevenzione, la promozione della salute, l’approccio olistico al
paziente, l’abolizione del consumismo farmaceutico, lo stress stile di vita
odierno, l’ambiente e l’inquinamento, l’approccio al dolore, l’organizzazione
sanitaria e molto altro ancora». 

Chiediamo a Jean Louis Aillon di spiegarci
come rientrano i giovani nella decrescita. «La decrescita è una filosofia che
fa presa su coloro che sono imbrigliati negli ingranaggi della “megamacchina
capitalistica”. Il mondo dei giovani è, però, completamente diverso: il tempo
non manca e le relazioni umane abbondano. Nonostante ciò i giovani non sembrano
affatto così felici.  Attraverso lo
strumento della decrescita, il rivalutare vecchi mestieri, conoscere meglio i
propri talenti e dare un senso alle cose che si fanno, si possono rompere le
catene dell’isolamento e della solitudine e trovare la forza per vivere
diversamente questo mondo». (G.M.)

 
 

Luca Cecchetto e Gabriella Mancini




Decrescita 3: Decrescere fuori, per crescere dentro

             Esperienze 1/ Borgata Liretta                                               
Marito e moglie affiatati. Dopo una vita di lavoro e
volontariato decidono di dedicarsi totalmente agli altri. Ridando vita a una
borgata di montagna e ospitando coppie di sposi in cerca di tranquillità e
riflessione. E foendo un accompagnamento prezioso: calore ed esperienza.
Nell’essenzialità totale.

È sera, piove a
dirotto e il sentirnero verso borgata Liretta scorre in salita lasciando
intravedere, tutt’intorno, una natura selvaggia. È da Montemale (Cn) che
continuiamo a seguire le insegne di legno con raffigurata una piccola casa
tonda, tre finestre e un albero. Dopo qualche peregrinare eccoci giunti a
destinazione. Parcheggiamo l’auto e ci avviamo verso l’unica fonte di luce
circostante. La lucina ci conduce in una sala da pranzo in cui, con un gran sorriso,
ci accolgono Olga e Mario Garrone.

Non siamo soli a Liretta. Oltre la
figlia di Olga e Mario con la sua famiglia, c’è una giovane coppia con una
piccola di sei mesi e Maurizio Nai, responsabile del Circolo della Decrescita a
Cuneo.

È una bella tavolata, l’atmosfera è
calda e la zuppa servita in tavola ha un sapore veramente genuino. Olga ci
spiega qualche segreto culinario anche se il cuoco d’eccezione e per le grandi
tavolate è Mario che, non a caso, indossa un grembiule firmato «Il cuciniere».
La dicotomia è forte: fuori pioggia e fango imperversano, dentro l’umanità si
racconta. La convivialità sembra essere di casa e, approfittando di uno spazio
più appartato della mensa, cerchiamo di capie di più su questo angolo di
vita. La più ciarliera è Olga che, con fare entusiasta si racconta. «Le cose
non accadono mai a caso, Liretta è il frutto di un lungo cammino personale.
Mario e io abbiamo avuto la fortuna di conoscerci giovani e con un lavoro
sicuro. A 22 anni facevo già la maestra e Mario lavorava in banca. Facevamo
parte di un gruppo di giovani universitari post-concilio che si realizzava
fuori dagli schemi parrocchiali. Cercavamo di crescere nella fede e
nell’accoglienza verso gli altri. Il sabato lo dedicavamo all’aiuto dei più
bisognosi: disabili o ragazzi di strada. Il volontariato, l’approfondimento
della spiritualità e l’attenzione verso il prossimo era la molla che ci
accomunava e che non ci ha mai abbandonati».

I primi anni

Mentre Olga si racconta, l’atmosfera della sala da
pranzo si fa più raccolta. I più «piccoli» iniziano a dare cenni di cedimento e
si avviano verso le stanze per la notte. Approfittiamo della sosta per fare un
giro. Legno e pietra rallegrano la borgata anche nel cuore della notte.
L’accoglienza nottua di Liretta si compone di tre stanze dai nomi bizzarri:
oblò, chambre bleu e curiusa. A noi tocca quest’ultima, così
denominata per le sue grandi vetrate che spiano verso la strada. Nell’estrema
sobrietà, tutto è molto curato. Due bagni comuni sono a disposizione degli ospiti,
come anche un’altra piccola cucinotta, adiacente alle camere.

Toiamo nella sala da pranzo, oramai quasi solitaria e
anche Mario si siede al nostro fianco. La storia riparte: «Intoo al 1974,
appena sposati, abbiamo pensato di non chiuderci agli altri ma di essere una
coppia aperta. Abbiamo vissuto gli anni Settanta, anni di rivoluzione sotto
tutti i fronti, intensamente. Un ’68 vissuto al positivo con tutta la fatica di
sradicare un vecchio sistema ma anche il piacere di vivere la ribellione e il
sentirsi diversi. Di quel tempo ci è rimasto addosso il sogno del cambiamento.
Il nostro sentire comune e il nostro desiderio era di rendere il nostro amore
un punto di riferimento per gli altri. Su questo, qualcuno di lassù, ci ha
ascoltati e messi seriamente al lavoro».

Olga e Mario, già da neo sposi iniziano a collaborare
con la Pastorale Famigliare per la Diocesi di Cuneo e a organizzare gli
incontri prematrimoniali per giovani coppie. Quando arrivano i bambini (Olga e
Mario hanno 3 figli), non cessano certo il loro impegno nel sociale, anzi. Olga
e Mario, si ritrovano a dialogare delle loro scelte con i figli e a renderli
partecipi del loro agire. In quest’ottica di apertura, proprio dai figli
adolescenti giunge la richiesta di una maggiore attenzione da parte dei
genitori che per un paio di anni si dedicano così solamente ai loro ragazzi.

La famiglia chiama e Olga e Mario rispondono. Sono gli
anni delle baby pensioni e Olga pur utilizzando questa favorevole opportunità
anticipa la «ritirata» e attende quattro anni prima di percepire la prima
mensilità. Ecco che arrivano le rinunce per star vicino ai figli. «Anche in
questa occasione poter dialogare insieme ai figli è stato fondamentale. Meglio
una mamma più presente, che una serata in più in pizzeria. La vita insegna e in
questa fase abbiamo iniziato a rinunciare a tante piccole cose superflue,
accorgendoci che si viveva benissimo anche con molto meno. Pur non sapendo
nulla sulla decrescita, c’era la volontà di essere “sobri” e di praticare la
semplicità quotidianamente».

Il vero cambiamento

Come si arriva a una trasformazione così radicale della
propria vita? Questa volta a prendere la parola è Mario: «Alla base di tutto c’è
una propensione alla provvisorietà, al cambiamento. Per noi, il desiderio forte
è sempre stato quello della capanna e non del castello. Una dimora semplice,
con pochissime porte per dare la possibilità a tutti di entrare e uscire senza
problemi. La molla è stato il desiderio di scrollarsi di dosso le cose che non
servono, le occasioni di farlo sono giunte lungo nel cammino. Per costruire
qualcosa occorre prendere coscienza delle proprie potenzialità, sapere chi
siamo. In poche parole: conoscersi. Noi sapevamo di essere un punto di
riferimento per le coppie e le famiglie e su questo abbiamo posto le prime
pietre e costruito il nostro futuro. L’umiltà fa il resto».

Olga aggiunge con discrezione: «Una volta cresciuti i
figli ci siamo interrogati su cosa fare delle nostre esistenze e siamo partiti
da un’analisi. I giovani sposi dopo il matrimonio venivano «abbandonati».
Sembrava che tutto accadesse prima: i corsi di formazione, i cammini spirituali
e poi più nulla. Questo ci ha fatto riflettere e capire che il nostro supporto
doveva essere tanto pregnante prima quanto dopo, per non lasciare che tante
coppie si sentissero abbandonate a gestire i primi dissidi familiari.
Continuavamo a fare gli incontri pre matrimoniali in Diocesi ma avvertivamo in
maniera sempre più profonda la mancanza di uno spazio piacevole dove poter
dialogare in armonia. Ed ecco che entra in scena Liretta. Nostra figlia aveva
visto l’annuncio «vendesi intera borgata», ma noi eravamo vincolati
affettivamente a un’altra vallata e non eravamo ancora pronti. Passato un anno
e maturata l’idea di realizzare concretamente qualcosa, ci siamo decisi a
vedere la borgata. Era il 2002, Liretta era abbandonata da 20 anni ed era in
totale rovina ma è bastato uno sguardo per capire che era quello che faceva per
noi. Nella vita bisogna saper trasferire i propri sogni in avanti, essere lungimiranti.
Ci fossimo fermati solo alle macerie che presentava Liretta, saremmo scappati
subito. In quel luogo e in quel primo incontro con la zona, noi abbiamo
avvertito il profumo della trasformazione».

Reinventarsi a 50

Quella di Liretta è stata una scelta meditata e
coraggiosa. Per far tutto questo Mario, dopo 29 anni di banca, ha deciso di
licenziarsi e di reinventarsi a 50 anni di età. Un progetto che, afferma la
coppia all’unisono, non avrebbero mai fatto con i bambini piccoli per non
vincolarli o fargli subire una scelta non loro.

Mentre Olga e Mario raccontano, noi sfogliamo un album
di fotografie che ci rimanda ai primissimi tempi di Liretta. Come è stato
possibile portare avanti questo progetto con così tanto impegno fisico e
pratico? «Abbiamo dato subito accoglienza, seppur nella semplicità. Le giovani
coppie potevano venire in giornata a fare la loro formazione prematrimoniale».
Riprende Olga: «È sorprendente verificare come ci si abitua a vivere con poco.
Nell’autunno avevamo già realizzato un piccolo bagno e potevamo vivere in una
cucinotta della casa che ora è adibita all’ospitalità. Sicuramente è stato un
inverno freddo fuori ma caldo dentro: nel cuore e nelle intenzioni».

Vita «tipica» in borgata

Liretta: «Noi viviamo qui, ci siamo sempre 24 ore su 24
per chi è in difficoltà. La nostra accoglienza si rivolge alle coppie prima e
dopo il matrimonio ma è capitato che ci chiedessero di ospitare qualche
situazione di disagio e, ovviamente, abbiamo aperto la nostra porta. Diamo
conforto, amicizia, ascolto, pranzi e cene pronte e un letto caldo. Coccolare
la coppia e farla sentire a casa è il nostro compito. Attenzione: ci
concentriamo sulla crescita personale della coppia, sull’offrirle uno spazio
esclusivo, perché sono il marito e la moglie che fanno fatica a mettersi in
discussione. Quando i figli crescono e prendono la loro strada, la coppia resta
e se non si è alimentato un rapporto profondo e autentico negli anni, tutto si
sfalda e ci si ritrova soli. Abbiamo anche una buona rete di professionisti
della coppia e, per approfondimenti specifici su coppie in crisi, non esitiamo
a consigliare un parere più professionale del nostro».

Numericamente, quante coppie ospita Liretta? «È
difficile fare una stima numerica per la continua evoluzione degli eventi,
abbiamo iniziato con poche coppie e oggi ne abbiamo otto per il cammino
pre-matrimoniale, altre 15 che seguiamo dopo il matrimonio e tutta
l’accoglienza quotidiana».

Seppur sotto una pioggia incessante, quello che spicca
in armonia con il verde circostante è una piccola cappella di pietra. La
domanda sorge spontanea: a Liretta occorre essere praticanti o l’accoglienza è
per tutti? A rispondere è Mario: «Noi abbiamo deciso di costruire la cappella
per poter praticare la nostra spiritualità ma non obblighiamo nessuno a vivere
della stessa fede: i nostri ospiti devono sentirsi “liberi”. Sono stati i
nostri figli e i loro amici ad aiutarci a creare una dimensione laica ed è
stata proprio questa forma liberale che ha poi favorito un riavvicinamento alla
spiritualità anche da parte di alcuni giovani, da tempo lontani dalla fede».

Desbarasuma: la decrescita non teorizzata

L’accoglienza di Olga e Mario è semplice ma generosa,
anche nella quantità del cibo. Ci chiediamo come facciano con le spese e Olga
ci chiarisce che in ogni camera c’è una busta per le offerte. Ognuno offre il
suo contributo e se non ne ha la possibilità non importa, può offrire un aiuto
pratico viste le continue necessità in borgata. Nel corso degli anni la coppia
sostiene però di aver sperimentato che spesso le persone con maggiori difficoltà
economiche offrono il massimo.

Per Maurizio Pallante (vedi articolo) la
decrescita è una vita in crescita. Crescita di valori, di pienezza di
esperienze, di tempo per dialogare. Prima di ritirarci nel nostro rifugio per
la notte, domandiamo ancora a Olga e Mario di parlarci del loro modo di vivere
secondo la chiave della decrescita. Ci rispondono quasi in coro: «Il denaro e
il successo non ci dava la felicità. La mera produzione per il consumo ci
avviliva. Per noi decrescere è trovare un “posto al sole”, in senso metaforico,
dove star bene e poter aiutare gli altri. Questo esserci per gli altri può
esistere solo se si è raggiunta una certa armonia con se stessi, un equilibrio
che nei ritmi frenetici e nella rete del consumismo fine a se stesso, non
avevamo trovato. Decrescita indica per noi una crescita interiore e di
attenzione verso l’altro. In termini pratici abbiamo una macchina sola che
usiamo il meno possibile per recarci a Cuneo, accumulando più impegni, cinque
galline per le uova, un orto per l’autoproduzione, il riscaldamento a legno con
il camino e la stufa, un pannello solare e un’accuratissima raccolta
differenziata su cui cerchiamo di sensibilizzare il più possibile i nostri
ospiti».

La mattina seguente esce uno spiraglio di luce e Liretta
è allo scoperto. Il belvedere apre una finestra naturale sulle montagne, ancora
leggermente innevate e dall’altura della borgata si intravedono i tetti di
Cuneo. Tutto è in armonia. Entriamo nella cappella dove una vetrata è in
perfetta simbiosi con la natura circostante; una piccola madonna bianca dalle
grandi mani ci guarda da una nicchia e tre piccole finestrelle dipinte indicano
una sorta di cammino verso l’ascensione. Una cura artistica si avverte ovunque,
nelle fioriere multicolore, nei dipinti creati da Olga per le piastrelle dei
bagni e nella gradevole stanza per i giochi dei bambini, realizzata
appositamente per gli ospiti «in erba».

Non possiamo che concludere la visita con uno sguardo più
intenso verso il logo: «Un tetto amico, una casa rotonda perché senza spigoli e
conflitti, tre sole finestre e nessuna porta. Perché a Liretta le porte sono
sempre aperte per chiunque ne abbia bisogno».

 

          Esperienze 2/                                                                
Co-housing

per con-dividere

Per parlare con autenticità della decrescita, occorre
sfatare un mito: decrescere non significa andare a vivere in campagna e
isolarsi tra gli elfi boschivi. Quello che si evince dalle interviste di questo
dossier è che l’assioma decrescita-relazioni umane non si cura dello spazio ma
interviene sul cambiamento più profondo delle persone. Da qualche anno è attiva
un’associazione, Coabitare, che si occupa di fornire conoscenze, informazioni,
idee e strumenti a chi desidera abitare in modo differente e decide di farlo
non solo in ambito rurale. Per strappare qualche curiosità in più
sull’argomento siamo andati a visitare il co-housing
«numero zero» a Torino in via Cottolengo n°4. Un antico edificio ristrutturato
con tutti i crismi ecologici ed estetici dove, da gennaio 2013, vivono otto
nuclei familiari. Fioriere sui balconi e una piacevole galleria di biciclette
parcheggiate all’entrata ci accolgono.

A raccontarci la scelta di una co–abitazione solidale
sono Matteo Nobili, fisico e fotografo 36enne, e Chiara Mossetti, architetto
35enne. Vivere insieme ad altre persone: come nasce questa scelta e perché?
Matteo inizia il racconto: «Sicuramente occorre essere propensi
all’aggregazione. In un co-housing si
condividono pensieri, ideologie e “saper fare”, ma ognuno mantiene la
riservatezza del proprio alloggio. A noi interessava l’ambito urbano, sia per
le nostre occupazioni lavorative e sia perché non concepivamo l’idea di abitar
fuori e poi dover utilizzare la macchina quotidianamente con un’elevata
produzione di CO2. La scelta del centro città è anche e soprattutto per potersi
spostare liberamente in bicicletta o a piedi».

Mentre parliamo del progetto, in uno degli otto
appartamenti è in corso un simpatico pranzo comunitario. Oltre agli
appartamenti privati, il condominio ha a disposizione uno spazioso terrazzo, un
laboratorio, un soggiorno e un’ampia sala semi interrata. La domanda sorge
spontanea: come rientra la scelta di un co-housing
nella decrescita? «Innanzitutto nel ridurre gli sprechi. Questo è alla base
della scelta di una co-abitazione. Nel co-housing
«numero zero» ad esempio la scelta preponderante è stata quella di mantenere
una metratura medio-piccola (circa 70 mq) per tutte le abitazioni ma di
privilegiare l’ampiezza di alcuni spazi comuni». Ma, in pratica, come si
traduce quest’attenzione verso i consumi? «La fortuna è stata avere un
architetto e un ingegnere nel nostro gruppo che ci hanno permesso una
ristrutturazione “secondo natura” e dall’estrema funzionalità. Non a caso rientriamo
nei canoni della bio-edilizia e siamo in classe A. Sempre nell’ottica
ambientalista, siamo provvisti di pannelli solari per l’acqua calda, integrati
con una caldaia a condensazione e, in ogni appartamento, è presente il riscaldamento
a pavimento che diffonde il calore e non comporta inutili dispersioni. Possiamo
usare la metafora del dimezzare: noi siamo in otto nuclei famigliari con due
grosse lavatrici a disposizione per tutti e quattro automobili. Una sorta di car-sharing tra coinquilini!».

Sbirciamo con interesse gli interni delle abitazioni.
Seppure diverse per gusti e personalità, si contraddistinguono tutte per un
buon gusto comune. E le travi di legno dei soffitti aiutano ad armonizzare il
tutto. Nella fattispecie, le pareti di casa di Matteo e Chiara ricordano i
colori del Mali e, infatti, non sono altro che una miscela naturale di argilla,
sabbia e paglia. In co-housing «numero
zero» abitano persone dai 30 ai 60 anni e, come ci spiega Chiara: «Fare una
scelta simile non significa semplicemente farsi casa propria risparmiando un
po’ ma deve includere tanta voglia di scambiarsi competenze. Se ho bisogno di
un orlo ai pantaloni o di una buona ricetta in cucina, posso chiedere a Piera
(che ha qualche anno in più di noi), mentre noi possiamo facilitarle la vita
con i mezzi tecnologici o i lavori più pesanti. C’è uno scambio paritario di
talenti e di competenze ma non è tutto. Per viver bene occorre una buona dose
di socialità: il più delle volte chi arriva prima a casa la sera, prepara cena
per tutti in un’ottica di risparmio del tempo, quello liberato, e di
condivisione».

Ma il «bello» aiuta o è solo vanità? «Decrescere non
significa imbruttirsi, anzi. La bellezza aiuta a vivere meglio e a trovare
anche il giusto equilibrio in noi stessi e con gli altri». (G.M.)

Gabriella Mancini




1_Schiavitù: Spezziamo le Catene

Premessa:
Nati uguali e liberi
A 125 anni dalla
campagna antischiavista del Cardinal Lavigerie.

Di Jean-Claude Ceilleier, Richard Nnyombi e redazione
rivista «Africa»;
a cura di Benedetto Bellesi

Un giorno un mio amico
mi raccontò una storia riguardante Davide e il suo amico Stefano. Davide fece
visita a Stefano e tutti e due andarono al cimitero poiché Davide voleva
ossequiare i genitori di Stefano che egli aveva conosciuto molto bene e ora
riposavano nel cimitero.

Appena arrivato, Davide fu impressionato dal fatto che
solo il nome inciso sulla croce distinguesse una tomba dall’altra. Avevano
tutte stessa forma e stesso stile. Quando egli espresse la sua meraviglia e
chiese all’amico Stefano il perché, si sentì rispondere: «Nella nostra città
abbiamo preso la decisione di offrire lo stesso stile di tomba a tutti i nostri
cittadini perché siamo nati uguali e alle fine, di fronte a Dio, siamo uguali.
Siamo tutti figli di Dio bisognosi di amore e comprensione. Nella stessa fila
dei miei genitori ci sono un poliziotto, un sindaco, un prete, ecc. Non lo
sapresti se non ti venisse detto». Con ragione Davide disse: «Nati uguali e
liberi: questa è la nostra sfida».

Il cardinal Lavigerie non fu il primo nella lotta allo
schiavismo, ma il suo ardente impegno nella campagna contro la schiavitù nel
diciannovesimo secolo ha certamente aiutato molta gente a realizzare il sogno
di essere liberi e schiavi di nessuno, così come siamo nati uguali davanti a
Dio.

E oggi, cosa si può fare? Non molto, saremmo tentati di
dire. Ma ricordiamo che la nostra voce in meno in una elezione può significare
perdere un’opportunità di servire gli altri con una certa visione. Conta ogni
voce, ogni occhio, bocca, mente e via dicendo. Se credi che il tuo contributo
non sia importante, osserva un gruppo di formiche, guarda come lavorano insieme
per radunare il cibo dentro il loro granaio. Nessuna è forte abbastanza per
trasportare qualcosa, ma lavorando insieme esse riescono a rotolare dentro il
granaio abbastanza cibo per la stagione magra.

L’impegno nella lotta alla schiavitù continuò anche dopo
Lavigerie, che stimolò altri a partecipare in tale impegno a seconda di come lo
Spirito muoveva la Chiesa e il mondo. Agenti pastorali, da papa Leone XIII fino
alle semplici persone dei lontani villaggi in Africa, continuarono a deplorare
l’ingiustizia di rimuovere migliaia di africani dalle loro case e portarle
altrove.

La celebrazione del 125o anniversario della
partecipazione del cardinal Lavigerie alla campagna antischiavitù, è per tutti
uno stimolo per prendere coscienza delle differenti forme di discriminazioni e
schiavitù che anche oggi negano a milioni di persone la loro uguaglianza
davanti a Dio e agli altri e le deprivano della propria libertà.

La conoscenza è cosa buona ma quando porta ad azioni
significative è anche meglio. Scopo di questo dossier, infatti, non è una
rievocazione storica, per risvegliare la consapevolezza del nostro passato, ma
vuole soprattutto aiutarci ad aprire orecchie, occhi e cuore di fronte alle
situazioni di schiavitù che vediamo ancora oggi attorno a noi e, come
missionari, annunciare un messaggio ben differente al popolo di Dio, che cioè
ognuno è nato uguale e libero. Come i profeti biblici, e come il cardinal
Lavigerie, dobbiamo essere capaci di denunciare le forme odiee della schiavitù
e impegnarci per sradicarle.

Si tratta prima di tutto di cambiare e lottare contro la
mentalità corrente: gli schiavi di oggi sono considerati più in termini
economici che di dignità personale; sono merce e tale mercificazione della
persona umana nega i valori di uguaglianza e libertà, la dignità di figli di
Dio e di nostri fratelli e sorelle.

Fr. Richard
K. Baawobr

Superiore
Generale M.Afr 
 

Richard K. Baawobr




2_Schiavitù: La campagna antischiavista

Un impegno missionario
eccezionale del card. Lavigerie


La campagna umanitaria
lanciata 125 anni fa dal cardinal Lavigerie contro la schiavitù in Africa
costituisce un’iniziativa coraggiosa e rispecchia una strategia straordinaria
sia sotto l’aspetto dell’impegno missionario sia a livello culturale e
politico: il suo piano d’azione, infatti, mira prima di tutto a cambiare
l’opinione pubblica europea e alla ricerca di benefattori per sostenere la sua
campagna; in seguito si indirizza alle potenze politiche del suo tempo,
riuscendo effettivamente a risvegliare qualche coscienza.

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di Jean-Claude Ceilleier

Nato nel Sud Est della Francia nel 1825, Charles Allemand Lavigerie fu un brillante studente nel seminario maggiore e poi in quello dei Carmelitani a Parigi. Giovane prete, diresse con entusiasmo straordinario l’Opera delle Scuole d’Oriente. Lavorò per alcuni anni nella curia romana, finché venne nominato vescovo di Nancy nel 1863, all’età di 38 anni. Fu lì che, senza dubbio, maturò la sua vocazione missionaria, e quando gli fu chiesto di assumere la responsabilità della diocesi di Algeri nel 1867, accettò immediatamente.

Esercitò questo servizio pastorale per un periodo di 25 anni e fu in tale coice che egli aprì il suo ministero a una dimensione missionaria di mirabile ampiezza mai vista in precedenza. Fondatore di due istituti dedicati alla missione in Africa, le Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola) e i Missionari d’Africa (M.Afr), egli si appassionò di questo grande continente (ancora poco conosciuto dal mondo europeo a quell’epoca) per la sua storia, la sua cultura e i suoi popoli. Papa Leone XIII ebbe grande stima di questa personalità eccezionale e lo elevò al rango di cardinale nel 1882. È nel contesto di questo impegno per la missione e per il servizio all’umanità in generale che bisogna collocare la campagna antischiavista di cui trattiamo qui.

interviene presso stati e Papa

Nel 1888 Lavigerie aveva già una conoscenza approfondita di certe realtà che caratterizzavano il continente africano, e tra queste realtà ce n’era una in particolare che maggiormente lo sconvolgeva: lo schiavismo. Era ben informato dalle testimonianze di grandi esploratori; ma anche dalla corrispondenza dei suoi missionari che erano presenti nella regione detta dei Grandi Laghi, fin dall’arrivo della prima carovana nel 1878.

Conosceva l’ampiezza delle razzie, le rotte delle carovane di schiavisti tra i laghi del centro e la costa dell’Oceano Indiano. Conosceva pure le sofferenze inimmaginabili degli schiavi durante queste lunghe marce forzate e il cinismo dei trafficanti. A più riprese, dall’inizio degli anni ’80, Lavigerie cercò in varie occasioni di far intervenire l’una o l’altra delle maggiori potenze europee, specialmente la Gran Bretagna, e perfino la Santa Sede, ma senza alcun risultato.

Nel 1888 si presentò un’altra opportunità per intervenire di nuovo: il Brasile annunciò che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù nel suo territorio e il papa Leone XIII decise di pubblicare un’enciclica per approvare tale decisione. Immediatamente il cardinale Lavigerie gli chiese di menzionare il dramma che l’Africa continuava a vivere in quel momento e il Papa accondiscese.

Al tempo stesso, nel mese di maggio di quell’anno 1888, si stavano preparando grandi festeggiamenti a Roma per celebrare il giubileo d’oro sacerdotale di Leone XIII; Lavigerie sollevò di nuovo il problema: si recò a congratularsi con il Santo Padre accompagnato da un gruppo di giovani neri cristiani e parlò di nuovo in udienza pubblica e privata a favore delle vittime dello schiavismo nel continente africano. Leone XIII, grandemente impressionato, pensò che si dovesse intervenire più apertamente e gli disse: «Noi contiamo su di voi, signor cardinale, per il successo di tale impresa». Questa risposta del Papa ebbe per Lavigerie immediatamente il valore di una missione da compiere, e fu così che prese l’impegno di organizzare una massiccia campagna antischiavista e ne incoraggiò lo sviluppo su più vasta scala possibile.

Guadagnare l’opinione pubblica 

Immediatamente Lavigerie escogitò un piano d’azione su tre fronti: una vasta copertura geografica attraverso l’Europa; interventi per attrarre il grande pubblico mediante conferenze, articoli di stampa e altri metodi; e infine la messa in moto di una rete di associazioni nazionali e locali destinate a mantenere alto l’interesse dei benefattori e sostenere altre attività concrete.

Proprio in ciò che riguarda le azioni pratiche Lavigerie pensò inizialmente di riprendere un progetto da lui concepito alcuni anni prima: il progetto di formare una milizia di laici armati, che avrebbe protetto i centri di rifugio per schiavi fuggiti o affrancati e che potesse intervenire in altre aree secondo le circostanze. Bisogna dire subito che tale progetto non andò mai in porto, principalmente a causa della marcata riluttanza dei poteri coloniali stabilitisi nel continente africano.

La prima manifestazione di questo vasto programma ebbe luogo a Parigi con una conferenza pubblica tenuta il 1° luglio 1888 nella chiesa di San Sulpicio. Dopo una lunga descrizione delle sofferenze subite dagli schiavi, Lavigerie fece appello alla generosità della gente sollecitando donazioni e ai giovani perché avessero il coraggio di arruolarsi per andare a difendere e proteggere quelle vittime.

Lavigerie era un oratore di grande talento; si imponeva per la sua forte personalità e questa prima conferenza ottenne un grande successo, tanto nella stampa che nell’opinione pubblica francese. Nelle settimane seguenti egli intervenne allo stesso modo in Italia, in Gran Bretagna e in Belgio, dove fece una commovente conferenza nella chiesa di san Gudule (Bruxelles) il 15 agosto. Una delle ultime grandi conferenze pubbliche ebbe luogo a Roma nella Chiesa del Gesù il 23 dicembre 1888.

Dappertutto l’opinione pubblica fu sconvolta dalle rivelazioni dell’ampiezza di tale traffico di schiavi nell’Africa Centrale. Le autorità politiche presero anch’esse coscienza del problema e Lavigerie fece del suo meglio per provocare le loro prese di posizione ufficiali; fece perfino diversi passi diplomatici o addirittura militari, per porre fine alla tratta schiavista, specialmente sulla costa dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso.

Le reazioni furono però differenti, secondo gli interessi degli Stati interessati. In Inghilterra ci fu grande sostegno, perché il paese era ben coscientizzato da molto tempo su tale problema. In Belgio re Leopoldo temeva ingerenze nel suo territorio del Congo e Lavigerie dovette tenee conto nelle sue differenti conferenze. Tuttavia, dappertutto l’opinione pubblica approvava e sosteneva la sua campagna; e in questo senso, si può dire che la campagna riportava già un grande successo.

Comitati di sostegno e incontri inteazionali

In questo programma, il cardinale aveva previsto la creazione di comitati di solidarietà su base nazionale e locale. Vari comitati furono fondati nei paesi da lui visitati. In altri paesi dove non poté andare, allacciò contatti, inviò lettere e sostenne la creazione di gruppi di benefattori. In questo modo egli ebbe contatti in Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Spagna e Portogallo. Egli volle estendere il problema ancora più lontano: chiese un congresso internazionale, dove i governi si sarebbero impegnati a cancellare la tratta degli schiavi in Africa. Dopo vari tentativi infruttuosi, questa proposta fu finalmente realizzata dal raduno di un congresso internazionale a Bruxelles nel novembre 1889. Sedici potenze erano rappresentate e il lavoro continuò per molti mesi. Ma non finì ufficialmente che nel luglio 1890. Lavigerie non era presente, ma il suo nome fu frequentemente citato ed egli stesso si dichiarò felice dei risultati, specialmente per la decisione di allestire pattugliamenti marini lungo le coste orientali del continente. Tuttavia egli stesso volle organizzare, sotto la sua personale supervisione, una nuova convenzione comprendente tutte le rappresentanze dei Comitati anti-schiavismo. Tale congresso ebbe luogo a Parigi in settembre 1890 e anche in tale occasione si poté ammirare il talento organizzativo e la forte personalità del cardinale che giocò un ruolo importante nel consolidare le iniziative già prese e nell’assicurare un migliore cornordinamento tra i progetti.

Dopo una visita a Roma, dove rese conto al papa della campagna, ormai consumato da mesi di enormi sforzi, Lavigerie ritoò alla sua diocesi ad Algeri, nell’autunno di quello stesso anno 1890. L’ampiezza di tale campagna e la sua ammirabile organizzazione hanno senza dubbio fatto fare grandi passi a favore della soluzione del problema dello schiavismo. Lo affermò lo stesso Lavigerie nella sua prima conferenza pubblica: un grande grido si è fatto sentire. Grido d’indignazione lanciato dal vecchio cardinale sia in nome dell’umanità che in nome del Vangelo.

 

Date principali nella vita di Charles-Martial Allemand Lavigerie:

1825 - Nasce a Bayonne
1841-49 – Studia a Parigi fino all’ordinazione sacerdotale (1849)
1850 – Dottorato in letteratura
1853 – Insegna alla Sorbona
1857 – Direttore della Oeuvre des Ecoles d’Orient (opera per le scuole d’Oriente)
1860 – Viaggio in Libano e Siria per aiutare le vittime di massacri
1861 – Uditore della Sacra Rota romana
1863 – Nominato vescovo di Nancy (5 marzo) e ordinato a Roma nella chiesa di S. Luigi dei francesi (22 marzo)
1867 – Arcivescovo di Algeri
1868 – Delegato apostolico per il Sahara e il Sudan e fondazione dei Missionari per l’Africa (Padri Bianchi)
1869 – Fondazione delle Suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (Suore Bianche)
1878 - «Memorandum segreto sull’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale»; prima carovana nell’interno dell’Africa;
          I Padri Bianchi prendono residenza a Gerusalemme
1882 – Nominato cardinale
1884 – Ri-erezione della sede (episcopale) di Cartagine; Primate d’Africa
1888 – Inizia la campagna antischiavismo con varie conferenze: chiesa di San Sulpizio a Parigi (1° Luglio); Prince’s Hall a Londra (31 luglio);
            chiesa di san Gudule a Bruxelles (15 agosto); chiesa del Gesù a Roma (23 dicembre)
1889 – Conferenza internazionale per l’abolizione della tratta degli schiavi – Bruxelles, 18 novembre-luglio 1890
1890 – Congresso a Parigi delle Società anti-schiavitù (21-23 settembre); festeggiamento ad Algeri (12 novembre)
1892 – Muore ad Algeri (26 novembre).
Jean-Claude Ceilleier




3_Schiavitù: Sulle orme del Fondatore

Lotta alla schiavitù dei missionari e missionarie d’Africa


La liberazione degli africani dalla schiavitù era parte
essenziale della metodologia di evangelizzazione del cardinal Lavigerie. I suoi
missionari e missionarie a contatto diretto con lo schiavismo lo accompagnarono
nella sua campagna con le opere di carità, riscattando persone, costruendo
orfanotrofi e informando il loro fondatore sulle atrocità di cui erano
testimoni.

Prima della campagna (1868-1888)

La nascita della Società dei Missionari d’Africa, (Padri
Bianchi) in Algeria è strettamente legata alla vocazione di prendersi cura
dell’umanità sofferente. Di fronte al problema delle vittime della carestia in
Algeria (1866-1868) Lavigerie cercò una congregazione religiosa competente per
prendersi cura degli orfani e non essendo riuscito a trovarla cominciò a
pensare di fondae una. Molti dei primi missionari d’Africa ebbero una
esperienza pastorale negli orfanotrofi in Algeria sia durante il loro periodo
di formazione che in seguito.

Il secondo incontro con la miseria umana sotto forma di
schiavitù fu nei posti di missione nel Sahara (Leghouat 1872 e Ouargla 1875).
Lavigerie si domandava come i suoi missionari sarebbero stati coinvolti nella
lotta contro lo schiavismo. Uno dei modi che egli escogitò fu quello di
riscattare gli schiavi, specialmente i ragazzi, educarli e poi rimandarli in
dietro nei loro paesi di origine come agenti di evangelizzazione ed
eventualmente come attivisti dell’antischiavismo. In realtà egli considerava il
lavoro di evangelizzazione in sé, cioè insegnare la fede, la morale e i valori
cristiani, un mezzo efficace a lungo termine di lotta alla schiavitù fin dalle
sue radici.

Così ai missionari della seconda carovana diretta
all’Africa Equatoriale, Lavigerie ebbe a dire questo: «Non siate sorpresi che
io, come vescovo cui è stata affidata dal Santo Padre una parte di queste
immense regioni dove la schiavitù domina ancora, la denunci… Andate, figli
miei, andate e insegnate a queste popolazioni che questo Gesù, la cui croce voi
mostrerete loro, morì su di essa per portare al mondo ogni libertà: libertà
delle anime dal giogo del male, libertà dei popoli dal giogo della tirannia,
libertà delle coscienze dal giogo dei persecutori e libertà del corpo dal giogo
della schiavitù» (Cattedrale di Algeri, 20-6-1878). Inoltre Lavigerie aveva già
considerato la lotta contro la schiavitù come parte del piano generale
dell’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale nel suo «Memoriale segreto»
presentato alla Congregazione di Propaganda il 2 gennaio 1878.

Durante la campagna (1888-1892)

Il cardinal Lavigerie non coinvolse direttamente i
membri della sua Società Missionaria nella sua campagna antischiavista. Ciò può
essere spiegato da due ragioni: la prima perché la sua campagna era indirizzata
per lo più ai paesi europei con lo scopo di forzare i loro governi, mediante
l’influenza dell’opinione pubblica, a prendere iniziative per abolire la
schiavitù in Africa. I pochi missionari della sua Società a quel tempo erano
soprattutto nel continente nero e dovevano come priorità iniziare nuove
missioni per l’evangelizzazione degli Africani.

Secondariamente, per motivi di prudenza; egli temeva le
ripercussioni negative che si sarebbero riversate sui missionari, come
persecuzioni, uccisioni, rifiuto del permesso di stare in quei paesi, impedendo
così di portare avanti l’opera di evangelizzazione, obiettivo principale della
loro presenza in quei paesi. Perciò, Lavigerie giunse fino ad ammonire i suoi
missionari di non scontrarsi con i mercanti di schiavi. Tuttavia, nonostante ciò,
alcuni missionari sfidarono gli schiavisti e sfidarono i capi locali perché
abolissero la schiavitù nelle loro aree.

Anche se i missionari non erano direttamente coinvolti
nella campagna antischiavismo del cardinale, essi vi contribuirono
direttamente, inviandogli informazioni di prima mano sulle atrocità di questo
odioso mercato e le sue conseguenze negative sulla vita sociale in generale e
su quella famigliare in particolare. Tali informazioni erano per lui di grande
utilità nelle sue conferenze e comunicati stampa.

Inoltre il cardinale incoraggiava i suoi missionari a
riscattare gli schiavi, a prendersene cura ed educarli. Perciò gli orfanotrofi
che furono costruiti in quasi tutte le stazioni di missione erano per lo più
riempiti con bambini schiavi riscattati. Questi ragazzi furono considerati la
base della futura comunità cristiana locale ed erano anche visti come una
risorsa a lungo termine per combattere la schiavitù, e distruggere col tempo le
strutture (mentali e sociali) che la favorivano.

Ma anche il problema del riscatto degli schiavi non era
senza difficoltà e opposizione. Alcuni erano contrari al riscatto perché lo
consideravano un incoraggiamento per i trafficanti a continuare in tale odioso
affare. Perfino tra i missionari c’erano delle differenze come nel caso dei
Buganda: il problema fu riferito al cardinale, come testimoniano le lettere
inviate nel 1882 dai padri Livinhac e Lourdel.

Un altro modo in cui i missionari in Africa
contribuirono alla lotta contro la tratta degli schiavi fu il provvedere
sicurezza alla gente nei cosiddetti «villaggi della pace o della libertà», come
quelli fondati nelle località di Karema e Mpala in Tanganika e Kibanga in
Congo.

Donne apostole tra donne

Quando il cardinal Lavigerie fondò la congregazione
delle Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola), nel 1869, voleva donne
apostole che si prendessero cura degli orfani causati dal colera in Algeria,
oltre a partecipare pienamente nell’evangelizzazione del continente africano.
Le «suore bianche», come venivano comunemente chiamate, cominciarono la loro
vita missionaria in Algeria, contribuendo a restituire dignità ai meno
privilegiati. Quando esse partirono per le missioni in differenti parti
dell’Africa, il continente era percorso dalla tratta degli schiavi. Mentre il
loro fondatore era impegnato nella campagna antischiavista, egli esortava le
sue missionarie a impegnarsi totalmente come educatrici e madri di tutte le
donne vittime della schiavitù. E tutte le attività delle suore erano dirette a
rispondere a tale invito.

Fin dall’inizio Lavigerie ricordò alle suore che
dovevano essere «donne apostole tra donne» e madri verso le ragazze vittime
dello schiavismo in Africa Equatoriale. Egli voleva le sue suore totalmente
missionarie, il cui apostolato era complementare a quello dei padri e fratelli,
non solo perché esse potevano entrare in gruppi chiusi ai missionari maschi, ma
anche per la loro abilità di agire da donne tra donne, per trasformare la
società intera.

Faccia a faccia con la schiavitù

Queste donne apostole furono mandate in Africa per
partecipare a modo loro nella lotta contro il commercio di schiavi, mediante il
loro impegno con gli schiavi riscattati (ragazze, donne, ragazzi). Lavigerie
aveva dato anche a loro prudenti linee guida su come comportarsi con bianchi e
neri trafficanti di schiavi. Questi erano troppo potenti e pericolosi per
essere affrontati direttamente da impotenti missionari. Lavigerie raccomandò
loro di mantenere relazioni amichevoli con i proprietari di schiavi, se
volevano continuare i loro impegni apostolici. In compenso, chiese loro di
inviargli relazioni dettagliate sulla tratta… Le suore si conformarono alle
linee guida del loro fondatore.

Esse si dedicarono agli schiavi riscattati e perfino ne
comprarono alcuni, quando potevano permetterselo, come avvenne per esempio in
Baudoinville (Moba) dove arrivarono nel 1895. I diari mostrano che esse non si
occuparono solo di schiavi neri riscattati o liberatisi con le proprie forze,
ma anche di ogni bambino bisognoso, compresi i figli dei mercanti di schiavi,
come si legge nei diari: «Il comandante di Deberghe ci ha mandato due ragazzi.
Il loro padre era un leader arabo della costa del Tanganika, che era stato
ucciso in una incursione. La sua vedova e i figli furono presi dai belgi. La
ragazza si chiama Leonora; è molto intelligente. Il primo giorno del suo arrivo
imparò a fare il segno di croce. L’altro è un bambino di due anni; non sa
ancora parlare ed è il più giovane del Barza» (09-07-1896).

Tutti i ragazzi erano raggruppati nello stesso centro.
Grazie alle suore, schiavi, figli di schiavi e figli di padroni ora vivevano
insieme in pace e fiducia, ricevevano crescendo la stessa educazione e
imparavano ad essere fratelli e sorelle, perché figli dello stesso Dio Padre.
C’è forse un modo migliore per combattere contro la schiavitù?

Dal 1909 nel diario di Tabora si notano alcuni
cambiamenti nel modo di riscattare gli schiavi: «Una vecchia schiava, sorella
di un catecumeno del villaggio, è arrivata qui da pochi giorni, ma il suo
padrone la reclama. Il caso va alla boma (Centro del governo locale) e
il reverendo padre superiore ci suggerisce di tentare un altro modo di
riscatto. Ciò significa che la somma richiesta dal padrone non sarà pagata
immediatamente tutta. La schiava lavorerà e ogni mese pagherà al padrone una
somma convenuta e così comprerà la propria libertà. La proposta fu adottata
dalle tre parti. Questa soluzione ci ha rese molto felici, nel fatto che la
nostra povera vittima può lavorare e perché essa può stare con noi per almeno
dieci mesi finché la somma viene pagata. Questa lunghezza di tempo significa
che la riscattata può seguire le istruzioni e conoscere la nostra religione e
così avere il desiderio di perseverare nel suo catecumenato».

La carità non basta

La storia del cardinal Lavigerie, dei suoi missionari e
missionarie contiene una lunga lista di opere di carità verso le vittime, a
cominciare dal riscatto di schiavi fino a ciò che si sta ancora facendo oggi,
per esempio a favore dei ragazzi di strada, vittime di caccia alle streghe,
guerre, ecc…

Tuttavia tale storia ci insegna che le opere di carità
da sole non possono eliminare la schiavitù dalla nostra società: Lavigerie stesso lo aveva notato, dicendo: «Ma io
ripeto, cari fratelli e sorelle, che la carità, per quanto grande possa essere,
non sarà sufficiente a salvare l’Africa. È necessario un rimedio più sollecito,
più efficace e più decisivo» (St. Sulpice, Parigi, 1° luglio 1888).

Il cardinal Lavigerie insegnava quindi che le opere di
carità devono andare di pari passo con le opere di giustizia; affermava che
l’evangelizzazione procede pari pari con l’attivismo sociale, diventando così
uno strumento efficiente contro lo schiavismo. C’è bisogno di leggi e strutture
sociali per prevenire ed eliminare alla radice le cause della schiavitù. Tale
metodo di evangelizzazione, valido oggi e in futuro (cf Nuova
evangelizzazione
), deve essere adattato alla situazione attuale nella lotta
contro le forme modee di schiavitù.

Come missionari, la preghiera è parte essenziale degli
sforzi nel combattere la schiavitù in qualsiasi forma si manifesti. Lavigerie
considerava la preghiera in generale e la preghiera pubblica in particolare
come mezzo indispensabile per raggiungere lo scopo della sua campagna. Con
queste parole si rivolse ai cristiani in Algeri: «Ho appena scongiurato i
governi in Europa, ma oggi non vi chiedo né l’aiuto delle armi né quello della
carità, come feci in precedenza; è un aiuto più importante che io, vescovo,
chiedo ai cattolici: è l’aiuto della preghiera» (Algeri, 19 aprile 1889). E
continuava spiegando che essa è uno strumento alla portata di tutti e non
esclude alcuno: bambini, giovani, anziani, malati o in buona salute. Tuttavia
anche la preghiera deve andare mano nella mano con i gli sforzi concreti nel
combattere la modea schiavitù. Nel diario di Mpala, lo scrittore, dopo aver
narrato una storia molto difficile sul riscatto di sei anziane donne e due
bambini, conclude dicendo: «Abbiamo fatto ciò che potevamo, Dio farà il resto»
(Diary, Mpala, 3 settembre 1890).


Richard Nnyombi




4_Schiavitù: Vergogna del XXI secolo

Dalla Mostra «spezziamo le catene»  



A 125 anni dalla famosa campagna antischiavista del cardinal
Lavigerie con l’obiettivo di fermare l’ignobile «commercio dei negri»,
nonostante la tratta sia bandita in tutti gli stati del mondo, la schiavitù
continua in altre forme più sottili e più inumane, costituendo uno degli affari
più redditizi. Per ravvivare la denuncia di tale fenomeno, riportiamo alcuni
episodi e forme di schiavitù illustrate dalla mostra «Spezziamo le catene»
organizzata dai Missionari d’Africa e Missionarie di N.S. d’Africa, con la
collaborazione della redazione di Africa, rivista dei Padri Bianchi.

I NUOVI TRAFFICANTI

Una barca stipata di migranti, intercettata da una
motovedetta della Gardia di Finanza a Lampedusa. La crisi economica che
flagella l’Europa meridionale non frena il flusso di gommoni e imbarcazioni
provenienti dalle coste nordafricane. Solo nel 2012 oltre 1400 persone – in
fuga da guerre e povertà – sono giunte via mare in Italia. Almeno 200 sono
morte o rimaste disperse durante la traversata. Le rotte dell’immigrazione
illegale sono controllate da scafisti criminali – i modei trafficanti di
esseri umani – che vendono i «viaggi della speranza» per non meno di 2.500
dollari.

MERCANTI DI BAMBINI

Un camion carico di baby-schiavi, scoperto e bloccato
dalla polizia di frontiera nigeriana. In Africa occidentale prospera ancora
oggi un traffico clandestino di bambini e bambine – provenienti soprattutto da
Togo, Benin e Camerun – che vengono rapiti o acquistati da bande criminali, per
essere smerciati all’estero come servi domestici, operai tuttofare, schiavi
sessuali. Di recente le autorità governative hanno smascherato alcune cliniche
clandestine in cui decine di povere donne mettevano alla luce figli con lo
scopo di venderli ai trafficanti per poche decine di dollari.

BABY-SOLDATI

Nelle guerre civili in Liberia (1989 e 1999) hanno
combattuto circa 20 mila bambini. Anche nel recente conflitto in Sierra Leone
sono stati utilizzati migliaia di minori in divisa. Negli ultimi 30 anni almeno
200 mila baby-soldati hanno combattuto in Angola, Sudan e Uganda. Ancora oggi
miriadi di bambini sono forzatamente arruolati da gruppi ribelli nella
Repubblica democratica del Congo e in Centrafrica. In tutto il mondo sono più
di 250 mila i minori di 18 anni coinvolti nei conflitti armati. La metà si
trova in Africa.

MAURITANIA!

Una famiglia di discendenti haratin,
nella sua baracca a El-Mina, periferia di Nouakchott. In Mauritania la schiavitù
è stata abolita almeno tre volte nel secolo scorso; ma solo sulla carta;
nell’agosto del 2007, fu dichiarata nuovamente illegale e criminalizzato il
possesso di schiavi. Ma i leader politici non hanno mai agevolato i gruppi
inteazionali che cercano di portare alla luce tale pratica. Per cui ancora
oggi migliaia di neri africani – chiamati haratin – sono sfruttati e
maltrattati dai loro padroni di origine araba o berbera. La condizione di
schiavo viene trasmessa per via ereditaria… finché qualcuno non trova il
coraggio di spezzare le catene.

«SPOSE DI DIO»

Un sacerdote tradizionale del Ghana circondato da due
schiave trokosi (spose di Dio). Nei villaggi del popolo ewé
centinaia di bambine e ragazze vergini vengono sacrificate dai genitori e
affidate ai dignitari religiosi. Il motivo? Devono espiare una colpa compiuta
da un familiare e placare le ire del dio Troxovi, una divinità potente e severa
che si aggira lungo le rive del fiume Volta. Le donne ridotte in schiavitù sono
condannate a lavorare tutta la vita come serve per i «preti» locali: obbligate
a soddisfare i loro desideri sessuali, segregate all’interno dei templi sacri e
costrette a procreare il maggior numero possibile di figli (destinati anch’essi
a vivere come schiavi).

Nati con le catene

Alcune donne del Niger attingono acqua da un pozzo
scavato nel deserto. Alla miseria causata dalla situazione del deserto, nel
Niger si aggiunge la pratica secolare della schiavitù. Su una popolazione di
oltre 13 milioni di abitanti si calcola che 900 mila di essi vivano in stato di
schiavitù, 8% della popolazione totale. Una legge del 2003 è tornata a proibire
la riduzione in schiavitù e ai lavori forzati, ma gli schiavi non lo sanno e
nessuno ha interesse a istruirli sui loro diritti alla libertà. Essi nascono
con le catene in testa e se qualche associazione cerca di toglierle loro,
governo e poteri interessati cercano di impedirlo. Tale genere di schiavitù è
diffusa in altre regioni desertiche del Sahel.

SULLA STRADA

Prostitute africane in attesa di clienti. Si stima che
nel mondo circa un milione di esseri umani siano vittime di sfruttamento
sessuale. La metà di esse si trova in Europa. In Italia, dove le prostitute
straniere sono circa 25.000, la mafia nigeriana controlla il traffico
clandestino delle donne (rapite o attirate con l’inganno) provenienti
dall’Africa. Le ragazze vengono obbligate a svendere il proprio corpo per meno
di 30 euro. Devono lavorare anche quando sono malate e avere rapporti sessuali
non protetti; se rimangono incinte sono costrette ad  abortire o vengono sottratti loro i figli e
usati come strumenti di ricatto.

SCHIAVE DEL VUDÙ

Cerimonia di iniziazione nella città di Ouidah, Benin,
culla spirituale del vudù e storico porto d’imbarco delle navi negriere. La
religione vudù, originaria dell’Africa occidentale, si è diffusa durante i
secoli dello schiavismo anche in Brasile e nelle isole caraibiche. Ancora oggi
in Benin e Togo è l’invisibile architrave della società che permea e condiziona
la vita della gente. Talvolta però degenera in pratiche deleterie. Alcuni
sacerdoti vudù complici di trafficanti di esseri umani, sottopongono delle
ragazze a un rito tradizionale – chiamato ju-ju – per assoggettarle ai
loro sfruttatori che le obbligano alla prostituzione sotto la minaccia di
ritorsioni e oscure maledizioni.

LAVORO INFERNALE

Nella regione del Katanga, cassaforte delle ricchezze
congolesi, si trovano i più colossali giacimenti di metalli strategici al
mondo. Ogni giorno migliaia di disperati scavano a mani nude nelle miniere di
questo sperduto Eldorado: armati di picconi e scalpelli, scendono nelle
voragini delle cave, strisciano nei cunicoli di pericolanti gallerie e spaccano
le pietre a martellate. Cercano minerali preziosi per l’Occidente: oro,
diamanti, rame, cobalto, coltan… Ricchezze che grondano sangue. E che riducono
in schiavitù i minatori congolesi.

NULLA DI NUOVO

Nelle miniere del Congo migliaia di bambini setacciano
ogni giorno la terra, immersi in pozze di acqua 
fetida, alla ricerca di pietre preziose. L’Africa continua a rimanere un
territorio di saccheggio come nel passato. Un tempo le potenze coloniali
europee bramavano il controllo di prodotti come la gomma, l’avorio, gli
schiavi. Oggi sono cambiate le materie prime, ma il meccanismo di sfruttamento è
sempre spietato. Scrive il giornalista Raffaele Masto: «Se fra qualche secolo
uno storico dovrà raccontare i nostri tempi, sarà costretto a scrivere che la
schiavitù – ufficialmente abolita nell’Ottocento – è proseguita, in forme più
nascoste e senza la copertura della legge, almeno fino ai primi decenni del
Duemila».

VERGOGNA ITALIANA

Braccianti africani al lavoro nelle campagne pugliesi.
La raccolta stagionale dei pomodori richiama ogni anno migliaia di immigrati,
costretti a lavorare in condizioni di schiavitù sotto i cosiddetti «caporali»,
modei negrieri che assumono i braccianti e ne sfruttano il lavoro. Le paghe
sono da fame: tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300
chili. Due euro a mezzo se si è clandestini. Quattordici ore al giorno di
lavoro sotto il sole. E baracche sovraffollate per dormire. Le stesse
condizioni sono imposte, in varie regioni italiane, ai raccoglitori di meloni,
angurie, agrumi, mele…

FERITE INDELEBILI

Nancy, 16 anni, fu sequestrata da bambina in un
villaggio del nord Uganda dal famigerato Esercito di Resistenza del Signore.
Dal 1987 questo gruppo terroristico, guidato dal sanguinario Joseph Kony, ha
rapito e ridotto in servitù oltre 15.000 bambini per fae dei soldati o
costringerli alla schiavitù sessuale. Nancy è stata fortunata: dopo anni di
prigionia e abusi, è stata liberata dall’esercito ugandese. Sul suo volto resta
la cicatrice di una ferita inflitta dai ribelli. E nei suoi occhi la sofferenza
di un incubo impossibile da dimenticare.

I MENDICANTI DI ALLAH

Un bambino-mendicante. A Dakar se ne vedono tanti:
appostati ai semafori, alle stazioni, nei mercati, davanti alle moschee. Non
hanno più di dieci, dodici anni. Fin dall’alba sono in strada per raccogliere
nelle loro ciotole qualche moneta, un pezzo di pane, qualcosa che possa
sfamarli. Li chiamano talibé (a Bamako, nel confinante Mali, garibus).
Sono i piccoli alunni delle scuole coraniche, obbligati a elemosinare sotto
minaccia da guide spirituali disoneste che sfruttano i bimbi per arricchirsi.
Secondo l’Unicef il loro numero – in preoccupante aumento – supera le centomila
unità: un esercito di piccoli schiavi.

LA MALEDIZIONE DEL CACAO

São Tomé e Príncipe: due operai in pausa in un vecchio
magazzino per il cacao. Il tempo sembra essersi fermato, in questo minuscolo
arcipelago trasformato per quattro secoli dai portoghesi in centro di raccolta
e smistamento per la tratta degli schiavi. Nel periodo coloniale i
conquistadores importarono qui dal Brasile la coltura del cacao, e dall’Angola
migliaia di schiavi per sfruttarli nelle piantagioni. Oggi la recessione in
Occidente ha fatto precipitare il prezzo del cacao, mettendo in ginocchio i
discendenti degli schiavi che lavorano nelle antiche fattorie.

SCHIAVI DEI DEBITI

Un bambino costretto a lavorare sulla strada. Dopo
decenni di guerra civile, l’Angola sta vivendo una stagione di sviluppo, ma i
profitti dei diamanti e del petrolio finiscono nelle tasche della nomenclatura
locale, lasciando nella miseria il 70 per cento della popolazione. Per
sopravvivere molte famiglie sono obbligate a chiedere prestiti, a cui spesso
sono applicati tassi d’interesse da usura. I creditori possono esigere di
essere rimborsati sfruttando il lavoro gratuito di uno o più membri della
famiglia. Oggi in tutto il mondo sono 20 milioni le persone schiave per debiti,
la maggior parte si trova nelle campagne in Africa.

SENZA DIRITTI

Uno dei centri di detenzione di migranti stranieri a
Tripoli. Negli ultimi cinquant’anni in Libia si sono riversati due milioni di
immigrati provenienti dall’Africa nera, costretti a lavorare sottopagati e
senza diritti, alla stregua dei vecchi schiavi. Anche nel resto del Nord
Africa, e in larga parte del Sahel, le oligarchie arabe e berbere hanno imposto
per lungo tempo condizioni di sfruttamento su base etnica alle minoranze nere
originarie dell’Africa subsahariana. In alcune nazioni queste ignobili
condizioni permangono ancora oggi.

NELLE VISCERE DELLA TERRA

Un minatore si cala in una galleria sotterranea per
cercare e raccogliere frammenti di una pietra preziosa conosciuta col nome di
tanzanite. Muniti di una torcia sulla fronte, senza alcuna protezione, anche i
baby- lavoratori riescono a infilarsi nei budelli più stretti e arrivano a
spingersi fino a trecento metri di profondità all’interno di cunicoli che
potrebbero crollare da un momento all’altro. Non di rado restano vittime di
incidenti o di malori: drammi destinati a restare sepolti nelle viscere
profonde dell’Africa.

IL TESORO MALEDETTO

Bambini impegnati a setacciare il terreno alla ricerca
della zoisite, conosciuta anche come tanzanite, una gemma rara e pregiata molto
richiesta dalle giorniellerie occidentali. Nella cava di Mererani (Tanzania) sono
impiegati centinaia di baby-minatori, tra gli otto e i tredici anni, che
lavorano anche dodici ore al giorno per una manciata di soldi. Secondo l’Unicef
oggi nel mondo sono costretti a lavorare 215 milioni di bambini e bambine,
spesso in condizioni disumane e sotto le minacce di un padrone. La gran parte
si trova nelle miniere dell’Africa.

Padri e Suore




1_Orti: Orti Solidali viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale»

Agricoltura sociale, istruzioni per l’uso



Nella vecchia fattoria

Produrre cibo pulito e sano, favorendo al tempo stesso
la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate: disabili,
immigrati, minori a rischio… Sono questi gli obiettivi dell’«agricoltura sociale»,
una pratica che si sta diffondendo in tutta Europa e che in Italia ha già messo
a segno un migliaio di progetti. Tra le regioni in pole position nel settore, il
Piemonte, che nella provincia di Torino ha avviato importanti esperienze di
questo tipo. Siamo andati a conoscerle.

Secondo la definizione del professor Saverio Senni,
docente di Economia e politica dello sviluppo rurale all’Università della
Tuscia (Viterbo) e tra i massimi esperti sul tema, l’agricoltura sociale
consiste in «un insieme di attività a carattere agricolo in senso lato –
coltivazione, allevamento, selvicoltura, trasformazione dei prodotti
alimentari, agriturismo, ecc. – con l’esplicito proposito di generare benefici
per fasce particolari della popolazione». Oltre a produrre beni agroalimentari,
questa pratica svolge dunque una funzione di servizio alle persone, in cui le
attività e il contesto rurale sono rivolti ad alleviare il disagio delle
categorie più svantaggiate: minori a rischio, immigrati, portatori di handicap
fisici o intellettivi, malati psichici, tossicodipendenti, detenuti, ecc.
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) riconosce
questo tipo di agricoltura come una pratica «multifunzionale» che contribuisce
a più obiettivi sociali: terapeutici – si pensi a esperienze quali pet
therapy
, ippoterapia, onoterapia … – formativi, di inserimento
professionale o di «semplice» benessere, per individui a rischio di esclusione
e con un basso potere contrattuale sul mercato del lavoro. L’agricoltura sociale
ha dunque una valenza etica e risponde al modello di «impresa con finalità
sociale», indicato dall’economista e premio Nobel Muhammad Yunus: «Un’impresa
capace di porsi obiettivi diversi da quello del profitto personale, in grado di
dedicarsi anche alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali».

«Buone pratiche» europee

In Europa esistono oltre 6.000 progetti di agricoltura
sociale, di cui 1.000 solo in Italia. Il primo paese a promuovere questa
pratica è stato l’Olanda – dove l’agricoltura sociale è ufficialmente
riconosciuta dal sistema sanitario nazionale – che conta oggi oltre 800 aziende
attive nel settore. Qui, a partire dagli anni ‘90, gli imprenditori agricoli si
sono dati disponibili per progetti terapeutico-riabilitativi destinati a soggetti
svantaggiati, ricevendo in cambio un’integrazione del proprio reddito in base a
un accordo quadro tra ministero dell’Agricoltura e ministero degli Affari
sociali. Analoghi sistemi di green care si sono diffusi anche in Belgio
e in Norvegia, mentre in Francia hanno preso piede i Jardins de Cocagne:
120 realtà agricole specializzate nella produzione biologica, diffuse su tutto
il territorio nazionale e gestite da realtà no profit che favoriscono
l’inclusione sociale e lavorativa di persone senza fissa dimora, disoccupati di lungo periodo, ecc. A differenza dei
sistemi «nordici», dove un ruolo importante è giocato dai finanziamenti
istituzionali, qui la sostenibilità economica si regge tutta sulla vendita
diretta dei prodotti.

In Italia i soggetti promotori dell’agricoltura sociale
sono per lo più aziende agricole o cornoperative sociali, istituite nel 1991 con
la Legge 381, e arrivate a quota 500 in poco più di un decennio.

La forma di aggregazione più diffusa è la «fattoria
sociale»: una fattoria o un allevamento gestiti da uno o più associati, con la
caratteristica di essere economicamente sostenibile. L’azienda agro-sociale
produce per la vendita sul mercato, ma lo fa in maniera «integrata» e a
vantaggio di soggetti deboli o residenti in aree fragili (montagne, centri
isolati), di solito in collaborazione con le istituzioni pubbliche che
finanziano parte delle attività. In Piemonte, una delle regioni più attive nel
settore, esistono numerose iniziative a partecipazione pubblico-privata, in cui
un ruolo di primo piano è giocato dalle realtà aderenti alla Coldiretti. Molte
di queste interessano la provincia di Torino.

Secondo una recente indagine dell’Associazione italiana
per l’agricoltura biologica (Aiab), nel triennio 2007-2010 il numero delle
fattorie sociali nel nostro paese è passato da 107 a 221 unità. Inoltre è
cresciuta l’incidenza delle aziende agricole sul totale dei soggetti che
praticano l’agricoltura sociale: benché la cornoperativa sociale resti infatti la
forma giuridica più diffusa, il settore agricolo privato ha registrato nel 2010
un aumento del 33% del totale degli operatori, rispetto ad esempio al 25% del
2007, con una massiccia presenza di giovani e donne impiegati nel settore.

L’Abc del contadino solidale

Ma quali sono le caratteristiche dell’agricoltura
sociale che favoriscono i percorsi educativi, di riabilitazione e di
inserimento lavorativo? Innanzi tutto la vita a contatto con la natura, che
permette di muoversi in spazi aperti e non costrittivi. Poi la flessibilità
dell’organizzazione del lavoro in termini sia di orario sia di mansioni,
ottenuta anche attraverso una strutturazione in piccoli gruppi; il metodo
biologico o anche di utilizzo di pratiche agro-eco-compatibili, che bandisce le
sostanze tossiche e consente a chiunque di lavorare in sicurezza; la vendita
diretta, che favorisce gli scambi e fa dell’azienda rurale un luogo aperto e
frequentato dalla cittadinanza; la filiera corta, che garantisce il risparmio
per i consumatori e la valorizzazione del territorio; infine la varietà di compiti
legati al corso dei giorni e delle stagioni, con la possibilità per le persone
accolte di partecipare al ciclo produttivo completo, dalla semina alla vendita.

In un periodo di crisi come questo, inoltre,
l’agricoltura sociale si configura come «un percorso di innovazione sociale che
coinvolge un’ampia gamma di soggetti locali per mobilizzare in modo nuovo le
risorse del territorio, dando risposte utili ai bisogni delle persone e delle
comunità», come chiarisce Francesco Di Iacovo, docente di Economia agraria
all’Università di Pisa e tra i massimi esperti europei del settore: «Oggi
abbiamo bisogno di cambiare, molto e molto rapidamente, per ricostruire
opportunità e senso di futuro», spiega il professore. «Per questo l’agricoltura
sociale, capace di creare al tempo stesso valore economico e valore sociale,
acquista una rilevanza strategica. Essa può funzionare come campo di prova del
cambiamento, per ripensare in modo più ampio i principi di funzionamento delle
comunità locali».

Stefania Garini




2_Orti: Matti per le lattughe

Esperienze 1/ La Cooperativa Pier Giorgio Frassati
Un gruppo di agronomi, educatori e
operatori socio assistenziali hanno dato vita a una «Fattoria sociale» alle
porte di Torino. Qui sono attivi quindici «ragazzi» tra i 20 e i 50 anni, con
varie disabilità. Sono arrivati a portare i loro prodotti agricoli al Salone
del Gusto e accolgono scolaresche per visite didattiche.

Una trentina d’anni fa, poco dopo la chiusura dei
manicomi voluta dalla Legge Basaglia, alcuni ex pazienti dell’ospedale
psichiatrico di Mogliano Veneto furono accolti a Torino, nel Centro di attività
diua (Cad) gestito dalla cornoperativa Pier Giorgio Frassati, dove si
svolgevano alcune attività agricole a scopo riabilitativo.

Queste attività sono continuate nel tempo, finché nel
2008 hanno dato vita a un nuovo progetto: la Fattoria sociale P.G. Frassati.
«L’idea di partenza è stata rendere più professionale la coltivazione
ortofrutticola che si svolgeva nel Cad, integrando due componenti importanti,
quella socio-assistenziale e quella tecnico-agronomica», ci spiega Sabrina
Serena Guinzio, giovane agronoma che lavora alla Cascina La Luna. Quest’ultima
sorge su un’area data in concessione dal comune di Torino: 6.000 m² nel cuore
della città, comprensivi di terreno irriguo, quattro tunnel e una serra
climatizzata per coltivare anche nei mesi invernali, primizie e fiori in vaso.

«La nostra è stata la prima fattoria sociale del
Piemonte, nata grazie alla collaborazione tra la Provincia di Torino, il Patto
territoriale della zona Ovest, la Coldiretti e la facoltà di agraria
dell’Università», spiega Guido Pomato, l’altro agronomo della Frassati. «Di
solito esperienze simili, in cui si cerca di stimolare le abilità residue dei
ragazzi disabili, sono affidate unicamente agli educatori, mentre la sfida qui è
stata quella di integrare le diverse professionalità». Per fare questo «all’inizio
tutti noi, educatori, Oss (Operatori socio sanitari) e agronomi facevamo tutto
in maniera intercambiabile, per capire anche il punto di vista degli altri»
racconta Sabrina, «solo quando abbiamo raggiunto un grado sufficiente di
amalgama ognuno è tornato al proprio mestiere».

Due facce della Luna: sociale…

Alle attività della fattoria partecipano, oltre al
personale specializzato e a due operai agricoli diversamente abili, anche gli
utenti del Centro di attività diua. «Una quindicina di “ragazzi” di età
compresa tra i 20 e i 50 anni, alcuni psichiatrici, altri disabili intellettivi
(ad es. con sindrome di Down), mandati qui dalle Asl o dal comune che, a
seconda del progetto terapeutico, possono fermarsi per periodi variabili, anche
diversi anni» ci spiega l’educatore Luigi Piras, 61 anni, che da 30 lavora alla
cornoperativa Frassati.

I ragazzi vivono in famiglia o in comunità, il loro
impegno in fattoria dovrebbe svolgersi dalle 8.30 alle 16.00, «ma alcuni
arrivano in cascina già di buon mattino, perché qui si trovano bene, apprezzano
il lavoro e stare in compagnia degli altri» dice Luigi. «Spesso sono ragazzi
soli, fuori di qui non hanno amici, non sanno cosa fare. Tra loro vanno
d’accordo, ma non riescono a mantenere il rapporto al di là della fattoria,
perché nessuno prende l’iniziativa di organizzare incontri o uscite. Anche se
qualcuno è qui da 10 anni…».

Le loro mansioni sono diverse e commisurate alle capacità:
zappare, seminare, raccogliere la verdura, rastrellare le foglie, aiutare nella
vendita dei prodotti al pubblico, ma anche tenere puliti gli spazi comuni,
apparecchiare per il pranzo (che si consuma tutti insieme), lavare i piatti,
ecc.

«La vita a contatto con la natura è di per sé
riabilitativa, e nel lavoro agricolo i limiti di questi ragazzi risultano meno
evidenti: l’insalata è sempre insalata, che a coltivarla sia o no un disabile»
dice Dario Flego, 46 anni, educatore alla Frassati dal 2000. «Anche se è raro
riuscire a inserire questi ragazzi nel mondo del lavoro “vero”, quello che
fanno qui permette loro di migliorare le proprie competenze e la capacità di
socializzare».

Gabriele, che ha 36 anni e frequenta il Cad da 13,
racconta: «Con i compagni mi trovo bene, tranne quando mi disturbano oppure
sporcano dove ho appena pulito. Mi dà fastidio quando le cose sono troppo
difficili da capire, o quando gli altri mi urlano dietro. Mi piace molto stare
in compagnia e pranzare tutti assieme, ma mi arrabbio quando l’educatrice non
mi dà il bis, se me lo sono meritato lavorando tutta la mattina… La cosa che mi
piace di più è lavorare nelle serre, soprattutto nelle giornate di sole». Anche
Anna, 44 anni di cui 6 trascorsi alla Frassati, dice di andare d’accordo con i «colleghi»,
«benché siano tutti maschi mentre noi ragazze siamo solo due, io e Lucia che ha
20 anni. I ragazzi si comportano bene e sono rispettosi, a me piace molto
venire qui. Però ho anche altre attività, a casa disegno, dipingo, fotografo.
Mi piace pulire, cucinare, fare un po’ di tutto… insomma, mi piace vivere!».

C’è anche chi nel Centro ha trovato l’amore, come
Emilio, che ha 50 anni e lavora alla Frassati da 10, occupandosi dell’orto ma
anche degli interventi da muratore e da imbianchino. «Io abito con mia madre,
in settimana sono impegnato in cascina, poi nel week end mi vedo con la mia
ragazza, che ho conosciuto qui. Adesso lei sta in una comunità, il nostro sogno
è poterci sposare presto».

… e produttiva

I terreni della Fattoria Frassati sono coltivati con
metodi tradizionali e a elevato fabbisogno di manodopera, integrati a sistemi
più innovativi. «Pur non avendo ancora la certificazione biologica», ci spiega
Guido Pomato, «interveniamo sui parassiti e le erbe infestanti attraverso
metodi preventivi e naturali, evitando l’uso di sostanze nocive, sia per la
qualità dei prodotti che per il benessere di chi lavora».

Tra gli obiettivi della Fattoria c’è quello di essere un
luogo dove le persone «entrano ed escono, in modo da integrare l’esperienza di
agricoltura sociale con il territorio» spiega Guido, «per questo pratichiamo la
vendita diretta e curiamo i rapporti con le scuole e i laboratori di formazione
per la cittadinanza». La vendita a «chilometro zero», direttamente dal
produttore al consumatore, avviene attraverso una bottega situata all’interno
della fattoria (aperta al pubblico dal lunedì al venerdì), ma anche tramite i
mercati rionali, le fiere e i punti vendita di altre aziende e cornoperative
sociali del territorio. I clienti vanno dal singolo consumatore ai gruppi
d’acquisto solidale. «Quest’anno per la prima volta abbiamo partecipato al
Salone del Gusto, e abbiamo iniziato a collaborare con altre aziende per far
trasformare i prodotti in esubero, come le melanzane e i peperoni sott’olio»,
dice Pomato. «Noi puntiamo a realizzare un’impresa economicamente sostenibile,
che si regga sulle proprie gambe senza bisogno di finanziamenti pubblici. La
sfida per noi è fare agricoltura sociale all’interno di una vera e propria
azienda agricola, come oggi stanno facendo anche alcune realtà della Coldiretti».
L’obiettivo nel medio-lungo termine sarebbe anche di arrivare a uno scambio di
competenze, «per cui i nostri educatori potrebbero fare accompagnamento alle
aziende agricole interessate ad assumere disabili, viceversa gli agricoltori potrebbero “prestare”
il proprio sapere alle fattorie sociali. Si tratta di costruire un modello
culturale nuovo».

Esperienze didattiche

Per favorire l’osmosi tra l’interno e l’esterno della
fattoria, un aspetto importante è la collaborazione con le scuole. «Proponiamo
percorsi didattici e laboratori», spiega Sabrina Serena Guinzio, «una volta la
settimana vengono in cascina alcune classi di terza e quarta elementare per
imparare a coltivare con i nostri ragazzi. È un’esperienza istruttiva,
soprattutto per le classi dove ci sono alunni disabili. In altri casi invece
gli studenti vengono mandati a lavorare la terra da noi come misura alternativa
alla sospensione, quando hanno combinato qualche guaio…».

Altre volte sono i ragazzi della Frassati che vanno ad
allestire orti o giardini presso qualche istituto scolastico, in collaborazione
con alunni e insegnanti. Oltre alle scuole, sono coinvolti nei percorsi di
formazione gli operatori professionali, i genitori con figli disabili, ecc.
Inoltre, nel corso dell’anno, per favorire la socializzazione dei ragazzi, la
Frassati organizza gite e feste, come quella di primavera dove la
partecipazione raggiunge anche picchi di 200 persone.

 

Stefania Garini




3_Orti: Coltivare l’Integrazione

Esperienze 2/ L’orto dei ragazzi
Rifugiati e richiedenti asilo
africani (e non solo) hanno trovato una nuova vita in Italia. Sulla collina
torinese si occupano di ortaggi, galline e api. C’è anche un campo collettivo
per l’agricoltura partecipata delle famiglie di città. Con lo scopo di formare
consumatori consapevoli.

«Sono arrivato in Italia come
clandestino 14 anni fa, dopo un viaggio in nave dal Marocco durato una
settimana, senza quasi mangiare né bere… In Italia mi sono adattato a fare
diversi lavori: muratore, imbianchino, carrozziere. Poi ho avuto dei guai con
la giustizia e sono entrato in contatto con il Gruppo Abele e altre
associazioni impegnate nel disagio giovanile, grazie a loro
ho conosciuto l’Orto dei ragazzi». A parlare è Mohamed, 38 anni, che oggi abita
a Beinasco, in provincia di Torino, è sposato con un’italiana e lavora in
pianta stabile all’Orto, dove si occupa delle consegne a domicilio di frutta e
verdura. Ubicato sulla collina torinese,
non lontano da Superga, l’Orto fa parte di un più ampio comprensorio: la Città
dei ragazzi, fondata nel 1948 da don Giovanni Arbinolo che, ispirandosi ad
analoghe esperienze diffuse negli Usa, intendeva offrire un’alternativa di vita
e di lavoro agli orfani di guerra, in gravi condizioni di miseria e abbandono.

«I tre pilastri del sistema di don
Arbinolo sono gli stessi che ancora oggi animano il nostro impegno:
l’accoglienza, la formazione professionale, il lavoro», spiega Paolo Orecchia,
39 anni, una laurea in Scienze forestali e ambientali, che dal 2004 cornordina le
attività agricole della Città dei Ragazzi. Qui nel tempo è cambiato il target
degli interventi, dagli orfani di guerra si è passati, negli anni ‘60-’70, ai
ragazzi delle periferie urbane disagiate per arrivare, ai giorni nostri,
all’accoglienza di stranieri, richiedenti asilo o rifugiati.

«I giovani che arrivano da noi
hanno un’età media di 20-30 anni, per la maggior parte provengono dall’Africa
(Somalia, Congo, Costa d’Avorio, Nigeria, Marocco) o comunque da zone di guerra
e di conflitto

più o meno espressi. In questi
mesi ad esempio c’è tra noi un ragazzo afghano» spiega Paolo. Lui è anche
l’attuale vicepresidente di «Uno di Due», cornoperativa di produzione e lavoro
nata un anno e mezzo fa da due realtà preesistenti, l’Orto dei Ragazzi nato in
collaborazione con Cisv e Pampili. Il Comune di Torino mette a disposizione di
questi giovani borse lavoro per la durata di 6 mesi durante i quali, oltre a
imparare un mestiere, acquisiscono anche regole di comportamento come la
puntualità, la continuità dell’impegno, l’abitudine a non usare il cellulare
mentre si lavora… «Per riuscire a essere puntuali molti di loro fanno grossi
sacrifici, perché stanno nei dormitori giù in città e devono alzarsi alle 5 di
mattina per arrivare qui alle 8» spiega Paolo. «A volte sono in Italia da poco
tempo e hanno bisogno di imparare la lingua, a qualcuno insegniamo a usare il
computer. Inoltre cerchiamo di formarli sui diversi aspetti del mondo del
lavoro: i diritti, le norme sulla sicurezza, ecc.».

L’altra faccia di Rosao

Le attività che i «ragazzi» si
trovano a svolgere sono numerose: dall’orticoltura alla vendita e consegna dei
prodotti a domicilio, dalla produzione del miele a quella delle uova. Oltre a
questo devono garantire tutta una serie di servizi a beneficio dell’intero
comprensorio, come il taglio dell’erba o l’abbeveraggio degli asini affidati
loro in comodato d’uso dai contadini del vicinato.

«Io guido il furgone per le
consegne a domicilio, si parte al mattino e si rientra la sera. Smerciamo 300
panieri di frutta e verdura ogni settimana, in tutta la città di Torino e nei
comuni della cintura» dice Mohamed. «I nostri prodotti sono certificati
biologici. Noi qui produciamo soprattutto miele e uova, ma da alcuni anni si è
creata una collaborazione con altre aziende del territorio specializzate in
produzioni diverse, sempre bio. Nessuna realtà locale da sola può produrre
tutto, così noi raccogliamo frutta e verdura da un gruppo di fattorie
selezionate e prepariamo i panieri, garantendo agli acquirenti prodotti sani e
coltivati nel rispetto dell’ambiente».

«Anch’io vado con Mohamed a fare
le consegne, inoltre ho il compito di tenere pulito il pollaio e di raccogliere
le uova: adesso abbiamo 200 galline ruspanti allevate a terra, che producono
120-130 uova ogni giorno» dice orgoglioso Francesco, 24 anni, in attesa di una
borsa lavoro dal Comune. E racconta: «Ho studiato da perito agrario, poi ho
iniziato a collaborare con l’Orto dei Ragazzi. Qui sto imparando tante cose, la
vita a contatto con la natura e con gli animali mi piace molto. Spero di
continuare questo lavoro ancora a lungo. Il mio sogno sarebbe metter su una
piantagione di zafferano insieme ai miei genitori».

Se necessario i ragazzi si fermano
nell’Orto anche per periodi superiori ai 6 mesi della borsa lavoro. «Non
abbiamo fretta di mandarli via, l’importante per noi è che riescano a trovare
una collocazione professionale adeguata, cioè dignitosa e con contratti
regolari», spiega Paolo Orecchia. «Noi vorremmo essere un po’ l’altra faccia di
Rosao. Oggi, malgrado la crisi, il settore agricolo ha bisogno di
manovalanza, ma spesso si preferisce far lavorare le persone in nero, mentre
noi puntiamo a che i nostri ragazzi trovino un lavoro legale e stabile. Per
questo offriamo loro un percorso guidato, in grado di accreditarli agli occhi
delle aziende. Il nostro compito è semplicemente questo: accoglierli,
orientarli e aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro facendo da “garanti”. Se
ci dimostrano di essere in gamba e volonterosi, se si impegnano, noi li
promuoviamo di fronte alla Coldiretti, alle aziende ecc. I ragazzi che hanno
voglia di lavorare riescono a collocarsi abbastanza facilmente». Oggi almeno il
50% dei ragazzi dell’Orto trova un lavoro fisso, «ma prima della crisi si
arrivava anche a percentuali del 60% o superiori. Adesso la maggior parte di
loro si sistema in aziende, cornoperative agricole o nei vivai, ma c’è anche chi
si inserisce in attività diverse. Abbiamo un ragazzo che fa il falegname, un
altro che lavora in un hotel, un altro ancora fa il panettiere…». Spesso i
contatti con i ragazzi continuano anche dopo che hanno lasciato l’Orto, e nel
corso dell’anno si organizzano cene e incontri conviviali per ritrovarsi e
mantenere vivi i legami d’amicizia creatisi durante il tirocinio.

I panieri dell’Orto

Per agevolare gli acquisti, i
clienti dell’Orto possono fare gli ordinativi via Inteet. La consegna a
domicilio avviene a cadenza settimanale mentre il pagamento si effettua con un
bonifico a fine mese, a fronte dell’emissione di una fattura, «sempre
all’insegna della trasparenza e della legalità» tiene a precisare Paolo. I
prezzi variano a seconda del peso e, considerato che è tutto rigorosamente
biologico, risultano più che onesti: un paniere piccolo (4 kg) ad esempio costa
9,5 euro, mentre uno grande (9 kg) 20 euro. Per chi richiede la consegna a
domicilio c’è un costo supplementare di 3 euro, ma è gratis se quattro famiglie
si uniscono per l’acquisto comune di quattro panieri.

Nei panieri si trovano anche
alcuni prodotti di «nicchia» come la farina biologica per la polenta di grano
pignoletto, il parmigiano reggiano proveniente da una cornoperativa sociale di
Reggio Emilia o il pane biologico, lievitato naturalmente e cotto nel foo a
legna in un’agrifoeria delle Valli montane di Lanzo.

«La nostra filiera è certificata e
trasparente» spiega Paolo, «ma per garantire un paniere vario non si può essere
troppo rigorosi sul discorso dei km zero. Da noi in Piemonte, ad esempio, per
avere gli zucchini a km zero si deve aspettare maggio. Nel periodo invernale ci
sono solo cavoli e patate, perciò in quei mesi ci rifoiamo da aziende di
Puglia e Sicilia, sempre selezionate e sempre biologiche».

Agricoltura partecipata

Insieme ai prodotti nei panieri,
viene consegnato un foglio informativo con alcune ricette per cucinare le verdure
di stagione e le ultime novità sulle iniziative dell’Orto. Oltre alla
produzione e commercializzazione, infatti, l’Orto dei Ragazzi svolge tutta una
serie di attività all’insegna dell’agricoltura sociale «partecipata». Come i
percorsi di educazione ambientale per gli alunni delle scuole: «Si tengono
alcuni incontri preparatori nelle classi, poi i bambini vengono all’Orto dove
possono seguire diversi percorsi formativi, ad esempio quello sull’humus, dove
si spiega qual è la funzione dei lombrichi in agricoltura, o quello
sull’apicoltura, per cui possono vedere le aie, assistere alla smielatura,
partecipare a laboratori di lavorazione della cera, ecc.», spiega Paolo.

Oltre a questo, dallo scorso anno è
stato avviato il progetto dell’Orto collettivo: un ettaro di terra messo a
disposizione di alcune famiglie interessate a coltivarsi da sé frutta e verdura
genuina. «Al momento si tratta di una quindicina di persone che vengono per lo
più il sabato a lavorare la terra» continua.

«Anche questo è un servizio di
agricoltura sociale partecipata, offriamo uno spazio di aggregazione, di vita
all’aria aperta, per produrre cibo sano. Per le famiglie è uno svago e
un’esperienza educativa per i loro figli». Oltre al lavoro, ai partecipanti
all’Orto collettivo è richiesto di depositare una certa somma di denaro nella
cassa comune che serve a sostenere le spese vive dell’orto. «Esperienze come
questa servono a coinvolgere i nostri clienti, avvicinandoli al mondo del
sociale e dell’agricoltura. Per lo stesso motivo, due volte l’anno invitiamo
gli acquirenti dei panieri a partecipare a momenti conviviali, può essere una
merenda nell’orto o una chiacchierata con gli agricoltori delle aziende…».

Tra le iniziative ci sono anche le
adozioni: «All’inizio non avevamo i soldi per comprare le api, allora abbiamo
lanciato una sottoscrizione, “Adotta un alveare”. Anche per mettere su il
pollaio, abbiamo proposto ai nostri acquirenti di “adottare” una gallina. In
cambio, una volta avviata l’attività, chi ha contribuito riceve miele o uova».
Sempre per coinvolgere le persone e avvicinarle alla realtà contadina,
periodicamente le si invita a partecipare ad alcune fasi della produzione. «Una
di queste è la smielatura, attualmente abbiamo 50 aie, ognuna produce circa
20-25 kg di miele, per un totale di alcune tonnellate di prodotto ogni anno»
racconta Paolo. «Partecipando alla smielatura i nostri amici imparano cose
nuove, ma soprattutto capiscono quello che sta dietro alla produzione, ad
esempio si rendono conto del perché, se è stata un’annata piovosa, non c’è il
miele di acacia». In questo modo si forma il vero consumatore consapevole.

Una scelta di vita

Per Paolo, sposato e con due
bambine di 9 e 13 anni, l’esperienza nell’Orto non è solo un lavoro, ma una
scelta di vita. «Il lavoro agricolo non prevede orari, sarebbe inimmaginabile
una cascina dove il contadino fa le 8 ore e poi se ne torna a casa», ci
racconta. «Solo per fare un esempio, d’estate le galline razzolano libere fino
alle 21.30 poi bisogna farle rientrare nel pollaio, perciò si è impegnati fino
a tarda sera. Così dopo i primi anni, dove lavoravo 50-60 ore la settimana, mi
sono reso conto che occorreva una presenza più costante, e con la mia famiglia
abbiamo deciso di trasferirci ad abitare nella Città dei Ragazzi».

Ma quali sono i progetti per il
futuro dell’Orto? «Innanzi tutto vorremmo potenziare le attività produttive
legate all’apicoltura, come la pappa reale, il propoli, ecc. Poi abbiamo in
programma una sperimentazione, per cui inseriremo qualche vitello e qualche
vacca che faranno da “taglia-erba” naturali e non inquinanti per il
comprensorio: oltre a tenere sotto controllo il livello della vegetazione, potrà
servire per ottenere un concime biologico…».

Ma quel che più conta, è l’aspetto
sociale e umano dell’Orto: «Qui i ragazzi lavorano a contatto con la natura,
imparano a fare le cose con le proprie mani, conoscono la fatica ma anche la
soddisfazione di raccogliere quel che loro stessi hanno prodotto, e imparano a
prendersi cura degli altri esseri viventi. Ed è questo che rende speciale la
loro esperienza».

 
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La storia di Mohamed

«Mi chiamo Mohamed, arrivo dal Marocco; sono venuto in
Italia in cerca di fortuna per poter aiutare la mia famiglia. Mi sono imbarcato
14 anni fa da Casablanca dentro una nave commerciale che trasportava container.
Quando mi sono infilato di nascosto dentro la canna fumaria ho pensato che
avrei viaggiato al massimo 3 giorni invece il viaggio ne è durato 7. Mi ero
portato dei ceci e una baguette di pane che potevano bastarmi per tre giorni
scarsi… così il mio viaggio verso la Spagna non è stato molto piacevole, ho
vomitato più volte perché ho dovuto bere l’acqua del motore per dissetarmi.

Ma ero determinato a proseguire per aiutare i miei genitori.
Siamo una famiglia di 14 fratelli e mangiamo solo il pane alla menta e qualche
verdura… la carne la vediamo raramente, un etto di pollo o agnello alla
settimana. Sono sceso dalla nave di notte scappando dalla polizia di frontiera.
Sono rimasto un giorno nascosto dentro un camion finché tutto si è calmato. Mi
sono trattenuto in Spagna per una settimana chiedendo aiuto in una chiesa dove
mi hanno sfamato a pane e formaggio.

Poi grazie a passaggi in autostop e in treno, sempre
nascosto nelle tornilette, sono arrivato a Marsiglia. Qui mi sono incontrato con
una persona su una montagna e abbiamo concordato il viaggio fino in Italia dove
avevo alcuni amici miei vicini di casa. Arrivato a Torino sono rimasto da loro
qualche giorno; poi mi sono trasferito per un paio di mesi in una casa abbandonata.
Ho trovato lavoro come carrozziere. D’estate, quando ha chiuso per ferie, sono
andato al mare dove ho iniziato a vendere teli da spiaggia fino a settembre. Al
ritorno non mi hanno ripreso al lavoro perché non avevo i documenti. E così
sono andato avanti ad aggiustarmi con lavoretti come il muratore. Quindi una
persona mi ha parlato della Città dei Ragazzi, lì ho conosciuto Paolo e ho
iniziato questa esperienza. Mi trovo bene con lui, i colleghi e tutti i clienti
ai quali porto la verdura e la frutta. Ringraziando tutti coloro che mi hanno
sostenuto, posso dire che sto bene. Grazie. Mohamed». 

Oggi Mohamed, oltre a lavorare per l’Orto dei Ragazzi, si è
preso la patente e un’automobile, ha ottenuto i documenti e l’estate scorsa è
tornato in Marocco a salutare la famiglia. (Ste.Gar.)

 
 

Stefania Garini