Eritrea 3: Inferno Sinai

Storie sconvolgenti di migrazione e
mercanti di carne umana.
In questa storia la realtà supera la
fantasia più perversa di un film dell’orrore. Donne, uomini, bambine, bambini
sono rapiti, venduti, torturati. Molti muoiono. Nel silenzio internazionale.
Eppure i dati ci sono, le testimonianze pure. Qualche associazione combatte per
salvae alcuni. E far conoscere le loro storie.

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Il naufragio dei migranti a Lampedusa, il 3 ottobre 2013, con i suoi 396 morti, ha commosso l’Italia. Molti di loro erano eritrei. Ma per quasi tutti quello era solo l’ultimo passaggio di un viaggio terribile iniziato nel loro paese. Un percorso che ha avuto una tappa dolorosa nei «campi di tortura» del Sinai. Dai quali molti altri non sono usciti vivi.

Piccolo migrante

«Ho 11 anni e vivo al Cairo. Non sono egiziano. Non ho né papà né mamma qui. Vivo con mio fratello di 8 anni e le mie sorelle di 13 e 15 anni. Eravamo insieme nel campo di tortura. Ah sì, c’è anche il mio fratello maggiore con noi. Nel mio paese devi fare l’ultimo anno di scuola al servizio militare. Se non vai ti vengono a prendere. Ma i miei genitori avevano sentito brutte cose sul servizio. Così mio padre decise di portarci via, in un luogo sicuro.

Lasciammo mia madre e partimmo nascosti dietro a un pick up. Arrivammo in un altro paese. Non capivo la lingua, ma c’erano molte persone del mio paese. Mio padre andò in una grande città. Ci avrebbe aiutati da laggiù. Quando fummo soli nel campo vennero alcuni uomini e ci obbligarono a partire con loro. Eravamo di nuovo su un’auto e fu un viaggio molto lungo. Il mio fratello maggiore ci disse di stare nella macchina, così non ci avrebbero uccisi. Lui sarebbe scappato per cercare aiuto. Penso che sarebbe stato meglio se fossimo scappati tutti. Nel luogo in cui arrivammo ci picchiarono e ci fecero molto male. Eravamo tutti doloranti. Fecero delle cose con le mie sorelle, ma non posso parlare di questo. Alla fine non potevo neppure piangere, ero troppo stanco.

Poi, un giorno, ci dissero di andare. Mio fratello ci aspettava al Cairo. Si era procurato molto denaro.

Qui adesso abbiamo diversi problemi. Non abbiamo un buon posto dove stare e la gente è sempre arrabbiata con noi. Vengono e prendono le nostre cose.

Abbiamo parlato con mio padre al telefono e ci ha detto di essere coraggiosi. Gli ho chiesto perché non può venire. Mi ha detto che ci vuole tempo per i documenti.  Non capisco, voglio vederlo.

Ho parlato anche con mia madre. Ringraziava Dio che mi stava parlando. Non so perché fosse così contenta. Voglio andare a casa».

Nella rete dei mercanti di uomini

Eritrea. Paese definito «Una grande prigione a cielo aperto», dalla quale tutti cercano di scappare. E sono infatti in maggioranza eritrei coloro che, lasciato il paese a rischio della vita, finiscono nella rete dei trafficanti di esseri umani, venendo venduti da un gruppo all’altro fino ad arrivare nel Sinai. Qui si trovano i «campi di tortura» vergogna dell’umanità.

Quella riportata sopra è solo una delle terribili testimonianze raccolte nel rapporto The human trafficking Cycle: Sinai and Beyond realizzato da due ricercatrici olandesi e da una giornalista eritrea (vedi box). Il rapporto  descrive i meccanismi del traffico, le persone implicate, i luoghi, i numeri. Il 3 dicembre scorso è finito sul tavolo di Cecilia Malmström, commissario europeo per gli Affari interni, e una settimana dopo è stato presentato alla Camera dei deputati a Roma.

I numeri del business dei mercanti di uomini sono impensabili. Il rapporto calcola in 25-30.000 le persone trafficate dal 2009 a oggi, con un «giro d’affari», perché di affari si tratta, dovuto ai riscatti, di oltre 622 milioni di dollari. Ma circa il 25% di chi è finito nei campi di tortura del Sinai non ce l’ha fatta, e sarebbero 5-10.000 persone uccise o morte di torture e maltrattamenti nel periodo considerato. La lista di torture inflitte secondo le testimonianze è agghiacciante. «La mercificazione dell’essere umano, dell’ostaggio, si ottiene anche con atti di violenza che lo “spogliano delle sue qualità umane”» scrivono le ricercatrici.

Un passo indietro

«Negli ultimi 13 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È un paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L’assenza totale di una prospettiva diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c’è totale assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato una schiavitù legalizzata. Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più». Chi parla è don Mussie Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia (vedi box). Don Zerai, che vive tra Roma e la Svizzera, è diventato un riferimento per i migranti eritrei, che gli telefonano dalle situazioni più difficili.

L’inizio della «via del Sinai»

«I primi a contattarci sono state persone respinte dall’Italia verso la Libia. Era il 2009, l’epoca dei respingimenti. Quei migranti avevano cercato un altro percorso, volevano passare da Israele, e sono stati i primi a essere sequestrati nel Sinai. Erano un’ottantina. Quando, sotto tortura, hanno detto loro di chiamare i famigliari per il riscatto, hanno chiamato me, perché eravamo in contatto quando erano in Libia. Così abbiamo scoperto un traffico immane: in quel periodo c’erano più di 1.500 ostaggi in quella zona». I prigionieri sono incatenati nei sotterranei di ville e case delle città del Nord del Sinai, Al Arish, Al Rafah e altre. Qui avvengono violenze, stupri di gruppo e torture. Queste prigioni sono spesso costruite con i soldi del traffico.

«Abbiamo cercato di aiutare le famiglie di quei sequestrati, per salvare soprattutto donne e ragazzine incinte, o che rischiavano di essere vendute nei paesi arabi e finire nel giro della prostituzione o usate come schiave. Abbiamo raccolto fondi ma le richieste sono presto aumentate da 8.000 a 40-50.000 dollari a persona (da 6.000 a 40.000 euro, ndr). Abbiamo aiutato una quarantina di persone a salvarsi.  Ci ha dato una mano anche un beduino contrario al traffico, che di notte faceva fuggire gli ostaggi e noi pagavamo loro il trasporto».

Ma come inizia il terribile viaggio del migrante eritreo? «È una catena che parte dall’Eritrea, al confine con il Sudan, nella regione di Kassala: il primo sequestro avviene lì. Se paghi immediatamente e sei fortunato, ti rilasciano e puoi continuare verso Khartum, se invece non puoi pagare, ma talvolta anche se paghi, ti vendono ad altri gruppi, così il viaggio prosegue verso l’Egitto» continua don Zerai.

Molti rapimenti avvengono nei tre campi profughi di Shagarab, nella provincia di Kassala. L’Unhcr ha registrato 114.500 rifugiati eritrei in Sudan. Senza contare quelli non registrati. Per arrivare lì i migranti hanno già dovuto pagare 2-3.000 dollari ai «contrabbandieri» di esseri umani per farsi portare fuori dall’Eritrea. Altri vengono rapiti nei campi profughi in Etiopia, dove sono presenti oltre 70.000 eritrei.

Ma il rapporto delle ricercatrici racconta anche di sequestri avvenuti  in territorio eritreo, nelle città di confine, come Teseney e Golij, e addirittura in capitale, ad Asmara. Spesso i sequestri di giovani avvengono negli stessi campi militari eritrei e sono auto ufficiali a portarli oltre confine. Nell’ottobre 2013 si sono verificati 211 rapimenti di minori nel campo militare Sawa, per ognuno dei quali è stato richiesto un riscatto di 10.000 dollari. Racconta don Zerai: «Stando alle testimonianze di molti ragazzi ci sono militari eritrei coinvolti negli attraversamenti dei confini: basta pagare e vieni accompagnato con auto di stato fino alla frontiera, in alcuni casi addirittura in territorio sudanese. C’è un business, e qualcuno dei pezzi grossi militari ci sta guadagnando. Questa migrazione, inoltre, viene usata come valvola di sfogo dal regime: tenere tutti i giovani in casa senza cambiamento e prospettive si rischierebbero delle rivolte, come le primavere arabe in Nord Africa».

Esseri umani contro esseri umani

Elementi dell’Unità di controllo dei confini (Border surveillance unit, Bsu) sono coinvolti nel «contrabbando» di persone. I rapporti di monitoraggio delle Nazioni Unite citano il coinvolgimento del governo eritreo e di alti ufficiali nel traffico. In particolare il generale Teklai Kifle (detto Manjus), comandante della Bsu, e il colonnello Fitsum Yishak sono stati identificati dalle Nazioni Unite come i vertici del traffico in Eritrea.

In Sudan i trafficanti sono elementi delle tribù Rashaida e Hidarib, spesso accompagnati da loschi individui eritrei. Queste tribù sono imparentate a livello linguistico ed etnico con i beduini del Sinai ed è con loro che è nata l’intesa per il traffico. I Rashaida rapiscono i migranti eritrei in Sudan (anche dentro i campi profughi gestiti dall’Unhcr) e li trasportano in Egitto dove li vendono ad altri gruppi che li portano nelle prigioni clandestine (i campi di tortura) nel Sinai. Qui i beduini applicano le torture più atroci e obbligano i prigionieri a chiamare parenti e amici per chiedere di mandare i soldi del riscatto. I trasferimenti avvengono tramite Money Transfer verso intermediari in paesi terzi (ad esempio Arabia Saudita) senza alcuna tracciabilità. Nonostante il pagamento talvolta i prigionieri non vengono liberati, ma venduti ad altri trafficanti. Gli ostaggi liberati cercano di andare verso la Libia e poi tentano di attraversare il Mediterraneo con i barconi. Come molti dei morti del 3 ottobre. Altri ancora vanno verso l’Etiopia. In alcuni casi il riscatto viene pagato dai parenti direttamente in Eritrea, e questo fa pensare a coperture altolocate, in un paese dove nulla si muove senza che i servizi segreti lo sappiano.

Negli ultimi mesi del 2013 l’Egitto ha bombardato la zona dei campi di tortura per questioni di sicurezza con Israele. Questo ha fatto sì che alcuni trafficanti li spostassero altrove: «Le nuove “prigioni” sono a Sud dell’Egitto, nel triangolo Libia, Egitto, Sudan ma anche verso il Ciad. I testimoni ci dicono che sono passati di lì, da quell’inferno. Tenuti in container roventi dove venivano torturati per richiedere il riscatto con il solito sistema. Se non paghi ti vendono verso il Ciad. A novembre un somalo è stato arrestato a Lampedusa perché riconosciuto dagli eritrei come collaboratore dei trafficanti che li tenevano prigionieri. Lui li picchiava e abusava delle donne. E questo avveniva al confine Libia-Ciad. Adesso hanno vari punti di prigionia, anche verso il Niger. In Sinai i campi di tortura continuano a funzionare, ma non più come prima». «Sono circa 400 gli eritrei tenuti in ostaggio, oggi in Sinai. Alcuni sono incatenati nelle cantine delle case dei beduini, altri in case e altri ancora in tende nel deserto, ma è difficile localizzarli con esattezza. I metodi di tortura sono sempre gli stessi». Chi parla è Meron Estefanos, giovane giornalista eritrea che ha curato il rapporto citato insieme alle due ricercatrici olandesi.

Perché eritrei?

Il traffico pare molto più redditizio con gli eritrei che con etiopi, somali, sudanesi. Si stima che il 95% degli ostaggi in Sinai siano eritrei. Questo è dovuto a diversi fattori. Intanto la fuga di massa dal paese. Sono circa 5.000 gli eritrei che lasciano il paese ogni mese (4.000 per Unhcr). In secondo luogo i legami famigliari e sociali in Eritrea sono molto forti e la famiglia rimasta in patria mobilita interi villaggi per racimolare i soldi del riscatto. Vengono poi presi di mira figli e parenti di eritrei della diaspora, per la maggiore
disponibilità economica. Molte vittime del traffico sono minori, si contano anche bambini e bambine
piccoli e molti adolescenti in fuga dal servizio militare eritreo. Le ragazzine subiscono i traumi maggiori e spesso restano incinte.

La lotta al traffico di esseri umani non sembra essere prioritaria per i paesi di transito. «Non si può fare affidamento sui governi di Sudan ed Egitto, perché il
sistema è totalmente corrotto». Nel 2010 e 2011 l’Ong di don Zerai raccoglieva indicazioni precise sulle localizzazioni delle prigioni clandestine e le segnalavano alla polizia egiziana: «I militari sapevano dove stavano le prigioni clandestine ma non intervenivano, erano spesso a libro paga dei trafficanti. Inoltre questi ultimi sono molto armati, ed è successo che assaltassero le stazioni di polizia per prendere gli eritrei, profughi arrestati dai militari egiziani mentre cercavano di attraversare illegalmente la frontiera con Israele».

«Gli interessi militari egiziani in Sinai - continua Meron Estefanos - riguardano solo la caccia agli islamisti. Molte case prigioni sono state distrutte e 150 eritrei liberati. Purtroppo gli stessi sono stati poi arrestati dalla polizia egiziana. Il Sudan sta facendo molte promesse di lotta al traffico, ma esso è invece in forte aumento nel paese».

Deboli le voci di Ue e Italia

L’Unione europea e l’Italia non sembrano intervenire. Continua don Zerai: «È dal 2010 che bussiamo alla porta della Ue. All’inizio fecero una risoluzione affinché le autorità egiziane intervenissero contro questi campi di tortura nel loro territorio, ma l’Egitto negava l’esistenza del problema, anzi ci accusava di denigrare l’immagine del paese. Poi ha riconosciuto i fatti, quando Cnn e Bbc hanno documentato corpi martoriati e ferite dei sopravvissuti del Sinai, ma non ha fatto niente. Non vediamo i risultati delle pressioni diplomatiche della Ue. Anche in Italia è lo stesso: ci hanno promesso una commissione d’inchiesta sull’Eritrea. Ma, finora, è una delusione». Rincara Meron: «Non abbiamo avuto reazioni né dalla Ue né dall’Italia. L’unica notizia positiva è che la Svezia, a fine dicembre, ha dato asilo a 54 donne e un bimbo vittime del traffico in Sinai».

L’Italia è uno dei paesi che continua a mantenere contatti con il regime Afewerki. Denuncia ancora don Zerai: «Ue e Usa chiedono all’Italia di non rompere le relazioni, per essere un canale di contatto. Ma secondo quello che ci dicono alla Faesina (ministero degli Esteri italiano, ndr) il rapporto è piuttosto conflittuale. Poi ci sono degli affari loschi tra i due paesi. L’ultimo rapporto dell’inviato speciale dell’Onu accusa l’Italia di aver violato l’embargo sulle armi. Ci sono state vendite strane da parte di aziende e personaggi italiani all’Eritrea. Inoltre, i pezzi grossi del regime sono di casa in Italia quando invece non dovrebbero ricevere i visti. Questo rapporto non è ancora approvato, perché uno dei paesi che ha messo il veto è l’Italia».

Marco Bello

 
       La testimone                               
Interviste che lasciano il segno

«Quello che è duro in questo lavoro è parlare con gli ostaggi, l’attaccamento con loro. Diventano parte della mia famiglia. Sono molto colpita quando qualcuno con cui ho parlato muore. O quando magari sono io che devo comunicarlo alla famiglia. Una donna alla quale mi ero legata morì, e questo mi toccò moltissimo. Piango sempre quando sento il suo nome. Lei era stata rapita con suo figlio ed è stato difficile per me accettare la sua morte. Adesso sto cercando di adottare il suo bimbo. In questo senso la parte più dura del lavoro sono le loro storie. Continuerò a monitorare il traffico finché non finirà».

Meron Estefanos

Meron Estefanos è una giovane giornalista eritrea che vive in Svezia. Attivista dei diritti umani, fin dall’inizio ha lavorato sul traffico di esseri umani in Sinai. È coautrice di Human trafficking in the Sinai: refugees between life and death, e di The human trafficking cycle: Sinai and beyond, insieme a Mirjiam van Reisen e Conny Rijken (entrambe docenti alla Tilburg University, Paesi Bassi) e di numerosi articoli. Meron è cofondatrice della Inteational Commission on Eritrean Refugees in Stoccolma e nel 2011 ha ricevuto il Dawit Isaac Award.

       L’Ong Agenzia Habeshia                     


Una goccia di solidarietà

L’associazione fondata da don Mussie Zerai si chiama Agenzia
Habeshia. È costituita da eritrei e italiani. Oltre alla missione di informare,
fare conoscere le traversie dei migranti eritrei e la situazione dei diritti in
patria, l’associazione è diventata riferimento per rifugiati e richiedenti
asilo.

Dopo aver aiutato a salvarsi diversi migranti finiti nella
rete dei trafficanti del Sinai, oggi concentra le sue attività in progetti di
educazione. Offre borse di studio a giovani eritrei, in particolare donne, nei
campi profughi dell’Etiopia. Lo scopo è permettere loro di studiare per cercare
di costruirsi un futuro.

Don Zerai: «È un tentativo di frenare i giovani che spesso
fanno scelte dettate dalla disperazione. Vivere nei campi profughi vuol dire
stare fermi, senza speranze per il futuro. Più della metà dei morti del 3
ottobre sono partiti dai campi profughi degli eritrei in Etiopia. I giovani
dicono: “Sappiamo che c’è il rischio, ma tra morire lentamente qui e morire
tentando la sorte preferisco questa seconda opzione”».

Facendo visita ai campi don Zerai nota diverse tombe. Gli
dicono che sono ragazze morte di parto all’interno del campo, perché, oltre a
subire le violenze, poi non hanno nemmeno strutture sanitarie a disposizione:
«In un campo di 14.000 persone c’è una sola ambulanza. Perché non formare
infermiere e ostetriche che poi possano tornare nei campi a lavorare? Abbiamo
scelto donne che hanno subito violenze sessuali e abbiamo proposto loro di
studiare tre o quattro anni. Occorrono circa 3.000 euro all’anno per far
studiare una ragazza. «Siamo una goccia» conclude il sacerdote.

Ma.Bel.

Marco Bello




Eritrea 4: Gentili, discreti, educati, disponibili

Asmara: il ricordo di un’italiana.


Un viaggio nel tempo. Una città pulita e
pacifica. Persone oneste, lavoratori. Ma tante storie di sofferenza, di cui
poche a lieto fine. Sono questi i ricordi di una funzionaria delle Nazioni
Unite che ha vissuto e lavorato nel paese per alcuni anni.

Ho
avuto il privilegio di vivere e lavorare in Eritrea dal 2000 al 2004. Arrivai
subito dopo la tregua e la firma degli accordi di pace tra Eritrea ed Etiopia,
a seguito del precedente lungo conflitto per l’indipendenza. Fu un’esperienza
umana e professionale travolgente.

Si respirava e viveva un’atmosfera
unica, con grandi aspettative che rimasero poi purtroppo disattese.

Ricordo ancora, come fosse adesso,
il mio arrivo all’aeroporto di Asmara, i profumi e sentori di quei primi
giorni. L’effervescenza e le nuove iniziative.

L’Eritrea: una giovane nazione
abbastanza atipica rispetto al contesto africano. Asmara: una capitale unica in
Africa, dove puoi tranquillamente camminare per strada, anche di notte, senza
essere infastidito da mendicanti in ogni dove. Molto diverso quindi da quanto
accade dalle nazioni confinanti. Una povertà esistente ma vissuta con molta
dignità e riservatezza.

Asmara: una città dotata di un clima fantastico di
eterna primavera, di una salubrità eccezionale, a meno che si soffra di altitudine
trovandosi a oltre 2000 metri sul livello del mare, e di un’architettura unica.
Senza poi dimenticare gli asmarini: sempre gentili, discreti, educati e
disponibili.

Viaggio nel tempo

La mia prima impressione fu quella di avere fatto un
viaggio nel tempo. Un’incredibile somiglianza con una tipica cittadina
dell’Italia meridionale fotografata a metà degli anni ’60. Vecchie auto e
autocarri Fiat ancora in circolazione, tranquilla atmosfera lavorativa,
impressionante architettura coloniale e post coloniale di evidente stampo
italiano, cucina italiana, parole italiane nel gergo comune. Tutto eredità
della nostra presenza coloniale, certamente da valutare con tutti i pro e
contro. Presenza iniziata durante il periodo coloniale nel 1890, e terminata
nel 1941 con l’arrivo degli inglesi, ma poi protrattasi con le migliaia di
italiani (o meglio «talian», parola tigrina per indicare gli stranieri
in genere) che decisero di rimanere in Eritrea (e analogamente in Etiopia e in
Somalia) sino al 1974. Poche decine, e non con poco coraggio, rimasero dopo
l’ascesa del dittatore etiopico Menghistu che poi requisì le loro attività
industriali e commerciali messe in piedi con tanta fatica e sacrifici. Ho
conosciuto gli ultimi «coloniali» italiani, alcuni dei quali nati e vissuti ad
Asmara. Figli di vecchi imprenditori, oggi morti, che costruirono grandi
fortune. Veri pionieri in un contesto operativo molto difficile.

Gente onesta e lavoratrice

Durante la mia esperienza professionale, ho avuto modo
di affrontare diverse situazioni, di operare con diverse istituzioni, reclutare
e collaborare con personale locale a vari livelli. Mi sono confrontata anche
con difficili situazioni professionali e umanamente coinvolgenti, soprattutto
quando si trattava di famiglie geograficamente separate a causa del lungo
conflitto, famigliari deceduti o detenuti o dispersi durante la guerra.

Il recente episodio di Lampedusa ha attirato
l’attenzione internazionale sui profughi eritrei, ma già nei primi anni 2000
erano numerosi i ragazzi e le ragazze che per evitare il servizio militare
lasciavano clandestinamente il paese. Ne ho conosciuti parecchi. Uno di questi
era un mio collaboratore che, in occasione di una missione di lavoro in
prossimità dell’Etiopia, ne approfittò per dileguarsi oltre il confine. Ora
vive in Germania, dove con l’aiuto di una Ong è riuscito a frequentare
l’università e a ricostruirsi un futuro professionale. Quanto coraggio, ma
anche quanta fortuna. Non tutti sono stati similmente premiati dalla loro
audacia.

Confermo con piacere che mantengo, ancora a distanza di
anni, numerosi contatti con eritrei ai quali sono legata non solo da un
rapporto di amicizia, ma soprattutto di reciproca fiducia e solidarietà.

Forti legami sociali

La cosa che più mi colpì ai tempi e continua a stupirmi è
l’incredibile solidarietà tra gli eritrei espatriati e i residenti che
sopravvivono grazie agli aiuti inviati dai primi. La diaspora eritrea (che
conta più di un milione di persone) è rappresentata da forti e solide comunità
all’estero, che ho avuto modo di conoscere e apprezzare. Queste comunità
mantengono strettissimi rapporti col paese d’origine e, per fare una
similitudine, hanno una grande affinità e somiglianza con le analoghe comunità
di italiani all’estero.

In Eritrea nei mesi di luglio e agosto si raccolgono e
consumano i fichi d’india che si chiamano in tigrino beles. Ed è proprio
con questo appellativo curioso e «stagionale» che sono soprannominati gli
espatriati che rientrano brevemente in vacanza ad Asmara.

Mi ha sempre sorpreso la serietà, onestà, compostezza e
riservatezza del popolo eritreo. Non ho mai sentito uno dei miei collaboratori
lamentarsi o rifiutare un incarico in qualsiasi condizione di lavoro, incluse
quelle spesso proibitive e disagiate lontano dalla ridente e ospitale capitale.

Il coraggio non manca ai giovani eritrei, ma il clima di
terrore artificialmente creato dai primi anni 2000 ha schiacciato e condannato
quasi un’intera generazione.

Un contesto multietnico unico quello eritreo:
linguistico, tribale e religioso. Qui hanno sempre convissuto pacificamente
cristiani (prevalentemente di rito copto) e musulmani. I matrimoni
interreligiosi non sono frequenti ma esistono e sono ben tollerati. Non si
conoscono e non sono concepibili guerre di religione. Un grande esempio di
civilizzazione e tolleranza a livello mondiale.

Barbara Mina
 

CONSIGLI BIBLIOGRAFICI

• Mirjiam van Reisen, Meron Estefanos, Conny Rijken, Human trafficking in the Sinai: refugees
between life and death
, Wolf Legal Publishers, 2012.

• Mirjiam van Reisen, Meron Estefanos, Conny Rijken, The human trafficking cycle: Sinai and
beyond
, Wolf Legal Publishers, 2014.

• Sheila B. Keetharuth,
Report of Special Rapporteur on the situation for human rights in Eritrea
,
Onu, General Assembly, marzo 2013.

• Inteational Crisis Group, Eritrea: scenarios for future transitions, Africa Report n. 200,
marzo 2013.

• Matteo Guglielmo, Il
Coo d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia
, Il Mulino, 2013.

• Il giornale «Avvenire» segue da tempo la tratta dei profughi
nel Sinai.

• Lettera pastorale dei Vescovi Eritrei, Dov’è tuo fratello?, Pasqua 2014

Ringraziamenti

Un ringraziamento per la disponibilità a don Mussie Zerai,
Meron Estefanos, Marilena Terzuolo, Francesca Giaccone e Barbara Mina.

Per le foto: un grazie speciale a Mattia Gisola e Francesca
Giaccone, Angela Lano e Cosimo Caridi.

Gli autori

• Enrico Casale – Gioalista professionista, africanista ed
esperto dell’area del Coo d’Africa.

• Barbara Mina – Funzionaria delle Nazioni Unite, ha
lavorato in diveri paesi africani.

• Marco Bello – 
Redattore MC, cornordinamento editoriale del dossier.

 

Barbara Mina




Giustizia riparativa 6 – Riconoscere le vittime

Nella Colombia del conflitto permanente


Nel paese del narcotraffico e della guerra civile più
duratura dell’America Latina, alcune idee e pratiche di giustizia riparativa si
fanno strada. Anche come strumenti di un’auspicata chiusura del conflitto. E
alcune politiche (troppo ambiziose?) puntano a reintegrare i paramilitari, a
far emergere le verità delle tante violenze, a riconoscere le vittime, alla
restituzione delle terre, a consolidare la memoria.

La
Colombia vanta il caffè migliore del mondo, così come gli smeraldi; è chiamato
il «paese-continente» per il mosaico di climi presenti nel suo territorio;
detiene il primato per la biodiversità per metro quadro. Nonostante questi e
altri elementi, per i quali dovrebbe essere una delle mete più ambite del
turismo mondiale, la Colombia è universalmente nota come il «paese della
cocaina» nel quale si combatte uno dei conflitti armati interni tra guerriglia
e paramilitari/esercito più lunghi della storia dell’America Latina, con
effetti devastanti sulla popolazione civile. Quattro milioni di sfollati
interni, sei milioni di ettari di terra usurpati, 15mila persone torturate,
50mila scomparse, 80mila esecuzioni extragiudiziarie, 1.282 massacri, 11mila
bambini soldato.

La legge di giustizia e pace e la domanda di verità

È interessante allora, e anche sorprendente, notare come
in un paese così scosso dalla violenza si stiano diffondendo iniziative
governative e della società civile improntate ai principi della giustizia
riparativa. Due esempi emblematici sono la Ley de justicia y paz e la Ley
de víctimas y restitución de tierras
. La prima, voluta dal presidente Álvaro
Uribe Vélez nel 2005, che aveva come finalità quella di offrire una fuoriuscita
rapida e indolore ai paramilitari, basandosi sui principi della giustizia
riparativa (pace e riconciliazione), è stata però profondamente innovata dalla
Corte costituzionale sulla base dell’evoluzione del diritto penale
internazionale (non applicazione di indulto e amnistia ai crimini
inteazionali) e della giustizia di transizione, ovvero dei diritti delle
vittime (diritto alla verità, giustizia, riparazione, garanzia di non
ripetizione dei crimini). Tale legge ha permesso a 50mila paramilitari di
smobilitarsi e reintegrarsi nella vita sociale attraverso programmi appositi. A
coloro che invece avevano commesso crimini di guerra e contro l’umanità (4mila
persone) ha dato accesso a un sistema penale ad hoc: al posto di una
pena carceraria di almeno 30 anni, una pena detentiva ridotta a 5-8 anni, alla
condizione di raccontare tutta la verità sui delitti commessi. La principale
particolarità di questo procedimento è che durante le udienze in cui il reo
racconta la verità, le vittime sono presenti in un’altra stanza, hanno la
possibilità di ascoltare in diretta quanto viene confessato, e possono porre
domande ai carnefici in merito alla sorte dei propri cari. Sovente accade che i
rei chiedano perdono per i crimini commessi e che le vittime trovino pace
sentendosi riconosciute, oltreché per essere finalmente divenute consapevoli di
quanto è successo.

Si tratta dunque di un sistema penale alternativo che
affianca alla pena detentiva la ricerca di una risposta alla domanda di verità
delle vittime. In più intende favorire la risocializzazione del reo
permettendogli di riconoscere le sue responsabilità e accompagnandolo nel
percorso di reinserimento nella società.

Vittime e restituzione della terra

La seconda legge, la Ley de víctimas y restitución de
tierras
, entrata in vigore il 1 gennaio 2012, ancor prima di dare
soddisfazione ai diritti delle vittime, dà compimento a quello che è uno degli
obiettivi primari della giustizia riparativa, ovvero il riconoscimento della
voce delle vittime. Per la prima volta in 60 anni il governo ha riconosciuto
l’esistenza di un conflitto armato interno, e dunque l’esistenza di milioni di
vittime di soprusi da parte delle varie fazioni.

Il governo ha capito che la fuoriuscita dal conflitto
non si ottiene solo con lo smantellamento dei gruppi armati, ma anche e
soprattutto attraverso l’attenzione dedicata alle loro vittime.

La Ley de víctimas y restitución
de tierras
, dunque, si pone come finalità principale la ricostruzione del
tessuto sociale e della fiducia reciproca, e quindi la riconciliazione
nazionale. Prevede la creazione di un programma che punti alla riparazione
integrale delle violazioni subite dalle vittime, inglobando anche le iniziative
già presenti: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione. A livello
collettivo la riparazione avverrà tramite il riconoscimento pubblico delle
responsabilità dello stato, atti commemorativi e iniziative simboliche rivolte
alla comunità. Mentre l’intento di restituire 4 milioni di ettari di terra
illegalmente usurpati, e di avviare programmi che agevolino il ritorno alle
terre in totale sicurezza è a dir poco ambizioso. Così come l’intento di
aiutare le vittime a costruirsi un’alternativa di vita attuando programmi per
la creazione di posti di lavoro, sia in ambiente rurale che urbano, e avviando
le vittime senza titoli di studio a corsi di formazione per imparare un
mestiere.

Preservare la memoria

Interessanti, in ottica di giustizia riparativa, sono
infine le iniziative della società civile nazionale e internazionale: il
sostegno alle vittime e alle loro voci, l’impegno a mantenere viva la memoria
del conflitto perché non venga dispersa, le campagne di sensibilizzazione.
Numerosi sono infatti i reports scritti al fine di ricostruire e
preservare la memoria storica del conflitto, perché il popolo colombiano
conosca quanto è successo per più di mezzo secolo nel suo paese e si impegni
per la pace.

In questo filone possono rientrare le molte iniziative
che nascono dal basso: dalle piccole comunità in cui le vittime si riuniscono e
si danno forza a vicenda in gruppi di auto mutuo aiuto, alla costruzione di
musei della memoria. O, ancora, piantare un albero in ricordo dei cari uccisi
dal conflitto, partecipare a laboratori in cui rielaborare il lutto o
semplicemente ricominciare a pensarsi come persone utili.

Carolina
Bedoya Maya

Carolina Bedoya Maya




Giustizia riparativa 1 – Introduzione. Quando al centro c’è la persona

Rispondere ai delitti senza commettee altri.

Introduzione:
Quando al centro c’è la persona.

Venti pagine di dossier per
parlare poco di carceri (nonostante nel mondo siano ben 10,1 milioni le persone
detenute1) e molto di giustizia e dignità. In cerca di risposte alla
domanda che da millenni assilla l’uomo: «Come rispondere a un delitto senza
commettere un altro delitto?».

Normalmente, quando si
parla di giustizia, la prima immagine che viene in mente è quella del carcere.
I mass media in genere affrontano il tema «giustizia» contando gli anni «dati»
al colpevole di tuo.

Negli ultimi mesi si è parlato molto di carceri: a
maggio 2014 l’Italia verrà sanzionata dall’Europa se nel frattempo non rimedierà
alle condizioni disumane in cui vivono quasi 65mila persone, stipate in centri
detentivi che possono ospitae 47mila. Il nostro paese è stato condannato
dalla Corte di Strasburgo (quella che nel Consiglio d’Europa vigila sui diritti
umani) per violazione grave e sistematica del divieto di trattamenti inumani e
degradanti, divieto legato direttamente al diritto alla vita. Per scuotere il
Parlamento dall’inerzia, il presidente Napolitano, per la prima volta in 7
anni, l’8 ottobre scorso, ha inviato alle Camere un messaggio nel quale uno dei
passaggi più importanti era l’invito a «ricorrere il più possibile alle misure
alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso il minimo
ricorso alla carcerazione». Purtroppo in quei giorni si è parlato quasi
esclusivamente, e in forma spesso oppositiva e strumentale, delle «misure
d’emergenza» (indulto e amnistia), e non del fatto che gran parte del problema
del sovraffollamento delle carceri dipende dalle scriteriate politiche
iper-carcerarie degli ultimi anni che, ancora oggi, fanno andare in galera
molte persone non pericolose.

Di giustizia, e non di carceri

In questo dossier parleremo di giustizia senza mettere
il fuoco dell’attenzione sul tema delle carceri, nonostante la sua grande
importanza e la sua urgenza. Riteniamo infatti fondamentale una riflessione più
ampia, che non dia per scontato che la parte più importante del «fare giustizia»
sia la punizione, che provi a mettere in dubbio l’idea di poter «educare al
bene attraverso il male» (rieducare, risocializzare un «delinquente» attraverso
la sofferenza dell’esclusione, della carcerazione).

Abbiamo ascoltato alcune voci di esperti che ci hanno
messo in questione: qual è la nostra idea di persona? È la persona al servizio
della legge, dell’ordine? Oppure è l’ordine al servizio della persona? Domanda
che assomiglia a quella evangelica: l’uomo è stato fatto per il sabato, o il
sabato per l’uomo (cf. Mc 2, 27)? La persona ha un suo valore, una sua dignità
in sé, oppure solo in relazione a ciò che fa (bene o male)?

Negli ultimi decenni una nuova idea e pratica di
giustizia ha iniziato a diffondersi nel mondo: la giustizia riparativa, o
restaurativa. Essa risponde alle domande poste sopra affermando che la persona
ha valore in sé, che non può essere lo strumento, ma il fine, come dicono la
Costituzione italiana e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Essa
esclude che il compito principale della giustizia sia quello di punire, e
afferma, al contrario, che debba restaurare la persona, vittima e colpevole,
insieme alla comunità, alla società (attraverso l’ascolto, l’inclusione, la
responsabilizzazione).

«Dov’è Abele, tuo fratello?»

Tra «gli esperti» interpellati, oltre all’ex magistrato
Gherardo Colombo e alla docente della Cattolica professoressa Claudia
Mazzucato, c’è anche padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata, alle
cui parole affidiamo le ultime righe di questa introduzione: «“Il Signore
impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse”. La pagina
splendida della Genesi al capitolo 4, in una quindicina di righe ci offre
l’affresco più coinvolgente della storia dell’umanità. Non c’è campo per la
vendetta. Il Dio della vita si fà garante dell’assassino, ma non dimentica la
vittima, e ci dice, allora come oggi, che i fratelli sono due e di tutti e due
ci dobbiamo fare carico.

Se pensiamo solo al carcerato e ci interessiamo solo di
lui, potremmo fare la fine del medico che spera non finiscano mai gli ammalati
per non rimanere senza nulla da fare. Il primo compito di un vero operatore
sanitario è di prevenire la malattia. Così il compito principale della
giustizia è di prevenire la devianza. Per fare questo, tra le altre cose, si può
vedere se ci sono delle alternative al carcere.

Quando qualcuno commette un delitto, egli va
innanzitutto contro una persona, non contro una legge. E la riparazione avviene
quando le due persone tornano a incontrarsi in modo positivo.
Questo è impossibile? È un’utopia?
La persona, qualsiasi cosa faccia, anche azioni
distruttive, deve stare al centro del nostro interesse. E la persona ha due
volti: della vittima e del colpevole.

Lo scopo della società è quello di recuperare le persone
in quanto vittime ferite da una azione ingiusta, aiutandole a superare la
“schiavitù” del rancore e del desiderio di vendetta. Allo stesso tempo è quello
di fare in modo che la persona colpevole che ha provocato dei danni senta di
essere capace anche di azioni positive.

Allora la giustizia non serve per “salvare” la legge, ma
per ricostruire la persona. Di qui la giustizia restaurativa, che non è semplicemente
un’alternativa alla giustizia retributiva o rieducativa, ma una modalità di
intervento sulla conflittualità sociale».

Luca Lorusso
Note:

1 – Dato del maggio 2011 ricavato dalla nona
edizione della World Prison Population List dell’Inteational Centre
for Prison Studies
.


              BIBLIOGRAFIA                              
– G. Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle grazie, Milano 2011;
– C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a
partire dalla restorative
justice, in Dignità
e diritto. Prospettive interdisciplinari, Libellula edizioni, Tricase (Le) 2010;
– D. Garland, La
cultura del controllo (2001), Il Saggiatore,
Milano 2004;
– E. Wiesnet, Pena
e retribuzione: la riconciliazione tradita
(1960), Giuffrè, Milano 1987;
– M. Foucault, Sorvegliare
e punire (1975), Einaudi, Torino
1993;
– I. Marchetti e C. Mazzucato, La
pena in «castigo». Un’analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero, Milano 2006;
– G. Mannozzi, La
giustizia senza spada, Giuffrè, Milano 2004;
– P. Massaro, Dalla
punizione alla riparazione, Franco Angeli, Milano
2012;
– Pena, riparazione e riconciliazione, Atti del convegno di studi. Como 2005, Insubria
University Press, Varese 2007;
– Howard Zehr, Changing
Lenses. A New Focus for Crime and Justice,
Herald Press, Scottsdale, 1990;
– C. M. Martini, G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003.
– Film: One Day After Peace, di Erez Laufer e Miri Laufer, Israele-Sudafrica
2012.
Hanno contribuito a questo dossier

Annalisa Zamburlini
Dottoranda in Sociologia e
metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano. Nel
2010 si è laureata con una tesi dal titolo «Il Parents
Circle – Families Forum israelo palestinese,
un’esperienza di giustizia riparativa?».

Carolina Bedoya
Maya

Dottoressa in Scienze politiche e
relazioni inteazionali e in Scienze per il lavoro sociale e per le politiche
di welfare con una tesi dal titolo «Colombia: tentativi di porre fine al
conflitto tra Transitional
Justice e Restorative justice».

Gherardo
Colombo

Pubblico ministero presso la Procura
di Milano dal 1989 al 2005, poi giudice di Cassazione, ha lasciato la
magistratura nel 2007. È oggi presidente della casa editrice Garzanti.

Claudia
Mazzucato

Docente di Diritto penale e
penale minorile all’Università Cattolica. È stata co-fondatrice dell’Ufficio
per la Mediazione penale di Milano. Dal 2002 partecipa a vari progetti di
ricerca e programmi di formazione nazionali e inteazionali sulla giustizia
riparativa.

Gianfranco
Testa
Missionario della Consolata, ha
prestato il suo servizio missionario in diversi contesti dell’America Latina.
Attualmente è impegnato in Italia.

Coordinamento editoriale
Luca
Lorusso, redattore di MC.

 

Luca Lorusso e altri




Giustizia riparativa 2 – Il perdono responsabile

Un dialogo con Gherardo Colombo
Si può educare al bene
attraverso il male? Partendo da questa domandal’ex magistrato Gherardo
Colombo illustra l’inefficacia della risposta punitiva alle
trasgressioni. Per la difesa e la promozione della dignità della persona
(di chiunque, anche dei colpevoli e delle
loro vittime) sono più appropriati e più efficaci,
rispetto alla carcerazione, i programmi della cosiddetta giustizia
riparativa,
che prevedono l’incontro e la responsabilizzazione di rei, vittime e
società. Abbiamo chiesto a Colombo di
parlarci del suo attuale «lavoro» e del tema del perdono responsabile al
centro di uno dei suoi ultimi libri.
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Lo contattiamo via telefono mentre viaggia in treno per raggiungere una scuola superiore in Liguria. Da quando si è dimesso dalla magistratura, Gherardo Colombo spende molte delle sue energie e giornate parlando con giovani e ragazzi di tutta Italia di «regole»1, di cittadinanza responsabile. Ogni tanto la voce cordiale che ci parla sparisce nelle gallerie insieme alla linea telefonica. Ma il messaggio è chiaro: non si può educare al bene attraverso il male. È necessario trovare una strada alternativa alla punizione e alle pene tradizionali, perché queste, la carcerazione in primis, in molti casi non sono condivisibili sul piano ideale e non sono efficaci sul piano pratico.

L’affabilità della voce di Colombo s’intona perfettamente col ricordo di quell’uomo alto e riccioluto, in abbigliamento casual, che nel maggio 2012 presentava il suo volume Il perdono responsabile al Salone del libro passeggiando tra il pubblico e cedendo il microfono a chiunque volesse intervenire. In quell’incontro, così come nelle pagine del libro, l’ex magistrato ha illustrato con semplicità l’opposizione tra due modalità di risposta ai reati, tra due tipi di giustizia: quella «retributiva» e quella «riparativa».

La prima è quella più comune, diffusa a ogni livello, dall’educazione dei figli alle relazioni inteazionali: la punizione è la giusta conseguenza della trasgressione. Alla base della giustizia retributiva c’è l’idea che la persona non ha valore in sé, ma solo in base ai suoi comportamenti «buoni» o «devianti»: se fa bene riceve il premio, se fa male la punizione. Nella visione retributiva, la sofferenza della pena viene inferta per insegnare al colpevole l’obbedienza. Ma chi obbedisce, sostiene Colombo, non è completamente responsabile delle proprie azioni. La pena quindi non crea responsabilità, ma al contrario la distrugge. Le persone seguono le regole non perché le condividano, ma per evitare la punizione, o meritare il premio. Se una regola non è interiorizzata, c’è il forte rischio che essa verrà violata non appena mancherà il controllo, cioè il timore di essere «beccati».

La giustizia «riparativa» fa capo, invece, a una cultura in cui la persona vale in quanto persona, ha dignità - anzi, è dignità - indipendentemente dai suoi comportamenti buoni o cattivi. È la cultura (cui s’ispira la Costituzione italiana e la Dichiarazione Onu sui diritti dell’uomo) per la quale non è la persona a essere finalizzata alla realizzazione dell’ordine, ma è l’ordine a essere finalizzato alla realizzazione della persona. Nella visione «riparativa» il centro è la persona, la sua dignità (che rimane integra anche dopo aver compiuto un crimine), la ricerca dell’inclusione, il recupero, la riconciliazione. E le esperienze di giustizia riparativa realizzate nel mondo dimostrano che l’alternativa al carcere è più efficace anche per la sicurezza sociale.

In più, nella prassi retributiva le vittime vengono in genere dimenticate, perché l’attenzione è esclusivamente sul reato, mentre nella visione riparativa la vittima, insieme alla comunità (anch’essa vittima) e al reo (anch’egli vittima di se stesso), viene coinvolta in prima persona e può davvero trovare un ristoro che non sia la semplice e svilente realizzazione dell’istinto di vendetta, che si esaurisce velocemente lasciando il vuoto ancora più ampio.

Come entra il tema del perdono in tutto questo? In una situazione di rottura di una relazione (tra il reo, la società e la vittima) il perdono, al contrario di ciò che si pensa generalmente, non è uno sgravio di responsabilità, ma al contrario richiama alla responsabilità. La vittima e la comunità hanno la responsabilità di ri-accogliere il reo, il reo ha la responsabilità di riparare in qualche modo la vittima e la comunità. Il perdono rovescia l’ostilità in reciprocità. Questo può avvenire concretamente, ad esempio, nella mediazione penale, una delle pratiche di giustizia riparativa più diffuse in tutto il mondo.

Siamo ancora alla legge del taglione

Proviamo a immaginare l’ex magistrato Gherardo Colombo alle prese con un’assemblea di duecento ragazzi di seconda superiore mentre parla di regole e responsabilità e propone il perdono e la riconciliazione al posto di carcere e punizione. Gli domandiamo se gli capita di trovare ragazzi scettici: «Sì, sì... si arrabbiano anche! Le risposte che le persone hanno a questo mio modo di vedere sono varie. Possiamo dire che più le persone conoscono il carcere (operatori, volontari…), più lo condividono. Mentre invece capita che persone informate sul carcere solo alla lontana, per sentito dire, assumano un atteggiamento di rifiuto. Un rifiuto viscerale di fronte al quale diventa a volte impossibile approfondire l’argomento. Io credo che sia molto comprensibile tutto questo, perché per millenni l’approccio al tema della sanzione è stato molto retributivo. Noi siamo ancora purtroppo alla legge del taglione come impostazione abituale generale. La giustizia retributiva ha come strumento l’eliminazione, l’espulsione, l’allontanamento, l’abbandono della persona che ha commesso il male. C’è in essa l’indisponibilità al recupero di una relazione, se non in modo oneroso. Invece la caratteristica della giustizia riparativa sta nel ritenere che al male commesso da una persona si rimedia attraverso il recupero della persona alla collettività. È un’impostazione inclusiva che si basa sul riconoscimento dell’altro. Solo riconoscendo l’altro, il reo può comprendere la sofferenza causata dalla sua azione, e quindi astenersi dal commettere altre azioni che procurino sofferenza».

La vittima abbandonata

A sentirlo parlare sembra che Colombo sia arrivato a sposare l’idea della giustizia riparativa non a partire dai ragionamenti, ma dall’osservazione della realtà carceraria e dei dati che la riguardano: «Sappiamo che in Italia il 68% delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati: c’è da chiedersi perché. Se fosse vero che il carcere serve a prevenire la commissione di reati il tasso di recidiva sarebbe molto più basso». In più il carcere non aiuta le vittime a superare il trauma, e a ricostruire la propria dignità violata dal reato, istigando, anzi, un istinto basso (e distruttivo per la vittima stessa) come la vendetta: «Nel sistema attuale le vittime sono abbandonate, forse peggio ancora che abbandonate. Alle vittime non si offre null’altro che il soddisfacimento di un desiderio di vendetta. E anzi, sovente, le vittime sono chiamate a rivivere a fini processuali il dolore che era stato loro inferto attraverso la commissione del reato. Ad esempio: una persona che avesse subito uno stupro, poi deve raccontare nei dettagli come sono andate le cose prima davanti alla polizia, poi davanti al pubblico ministero, poi ancora in aula davanti ai giudici e davanti agli imputati e ai loro avvocati, i quali faranno di tutto per metterla in imbarazzo e per contraddirla e screditare la sua versione. Questa è la prospettiva della vittima nel sistema attuale. Invece la giustizia riparativa ha come scopo da una parte quello di responsabilizzare colui che ha commesso il fatto, e dall’altra di riparare, per quanto possibile, la vittima, in modo che essa ricostruisca la dignità che era stata messa in crisi dalla commissione del reato».

Il perdono responsabile

La parola «responsabilizzare» ci fa tornare alla mente il titolo del libro di Colombo: Il perdono responsabile. E allora gli domandiamo: «In che modo si legano i due termini, perdono e responsabilità?». «Il perdono è la disponibilità a riallacciare una relazione interrotta sulla base di una duplice responsabilità. Il perdono in primo luogo non è amnesia, cancellazione del passato, ma anzi presuppone una consapevolezza sicura di ciò che è successo. Data questa consapevolezza il perdono è la disponibilità al recupero di una relazione che si era interrotta con la fiducia che anche dall’altra parte ci sia la medesima disponibilità. Non è uno scambio. Ciascuna delle due parti ha una disponibilità unilaterale. Quindi il perdono coinvolge la responsabilità della persona».

Leggendo la Bibbia

Colombo ci racconta che il suo percorso di avvicinamento al tema della giustizia riparativa è stato lungo: «Ho fatto per più di tre decenni il magistrato. All’inizio della mia attività la mia convinzione era che il carcere fosse utile per assolvere a una funzione educativa, in un quadro di rispetto per la persona. Poi però progressivamente ho riflettuto, ho letto, e ho avuto l’esperienza degli effetti del carcere. L’approfondimento teorico da una parte e l’osservazione della pratica dall’altra». Nel breve riassunto delle tappe del suo percorso, Colombo cita la lettura di Eugene Wiessnet, un gesuita che nel 1960 pubblicò un libro dal titolo Pena e retribuzione nel quale aveva fatto un’analisi del rapporto tra trasgressione e retribuzione nelle Scritture. Infatti, nel leggere il libro di Colombo, siamo rimasti molto colpiti dall’abbondanza dei riferimenti biblici: «Per me è molto importante vedere come ci sia stata un’evoluzione. L’idea retribuzionista parte dalla convinzione che Dio sia un giustiziere, che punisce. La credenza che questo sia il messaggio delle Scritture è piuttosto diffusa. Io penso che ce ne sia un altro. Non solo nel nuovo testamento, ma anche nel vecchio. Nella misura in cui Dio è un Dio amoroso».

Passi concreti, partendo da un’amnistia

Toiamo al piano pratico: nonostante alcune esperienze positive abbiano iniziato a diffondersi, soprattutto in ambito minorile, la giustizia riparativa in Italia è decisamente distante dalla sua realizzazione. Quali passi concreti si possono fare?

«Se vogliamo parlare della situazione attuale, io credo che adesso, vista la condizione di vita delle persone che stanno in carcere, una prima soluzione sia quella di prevedere un’amnistia per i reati di minore gravità. Finché sono così tante le persone in carcere credo che sia impossibile che esse vivano in modo dignitoso, o comunque nei modi suggeriti dalla nostra Costituzione. Ci sono molte persone che stanno in carcere pur non essendo per niente pericolose. Poi credo che sarebbe necessario stimolare la creazione di un sistema di giustizia riparativa, come del resto ci è richiesto dall’Unione europea2: noi siamo inadempienti nei confronti dell’Ue sotto questo profilo. Bisognerebbe che si ricorresse, da parte di chi ha il potere di farlo, molto più frequentemente alle misure alternative piuttosto che non alla detenzione in carcere. Sarebbe però soprattutto necessario operare sul piano culturale, sul piano dell’educazione. Educazione diretta non all’obbedienza, come generalmente succede, ma diretta all’elaborazione di una capacità di gestire consapevolmente, responsabilmente la propria libertà».

Luca Lorusso

Note:

1 - «Quel che faccio più di tutto è girare per l’Italia, nelle scuole e nei circoli, a parlare di giustizia e della relazione tra regole e persone e di come questa relazione influisca sulla vita pratica di ciascuno di noi. […] Ho fatto il magistrato per oltre trentatré anni. […È] progressivamente maturata in me la convinzione che per far funzionare la giustizia fosse necessaria una profonda riflessione sulla relazione tra i cittadini e le regole».
www.sulleregole.it.

2 - È vincolante per gli stati membri dell’Ue la Decisione quadro 2001/220 GAI (sostituita dalla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del consiglio del 25 ottobre 2012) sull’uso della mediazione nelle cause penali.

 
        Il piano pratico. L’inutilità del sistema.                             

Testo tratto e adattato dai cap. 10 e 11 di G. Colombo, Il perdono Responsabile, in cui l’autore elenca alcuni luoghi comuni da sfatare.

1- I detenuti fanno una bella vita. I detenuti (64.758 al 30 settembre 2013, stipati in carceri con capienza di 47.615 posti, ndr.) vivono 22 ore al giorno in celle piccole e sovraffollate, insieme a persone non scelte, a volte arroganti, problematiche, violente. Solo il 13% di loro lavora. Il tempo non passa mai. Possono avere sei colloqui al mese, di un’ora ciascuno, coi famigliari, sotto gli occhi delle guardie, senza intimità alcuna. I colloqui con persone non famigliari sono rare eccezioni. Le condizioni disumane del carcere sono confermate dal numero annuale di suicidi: uno su mille (0,1%, mentre tra le persone libere è 1 su 200mila, lo 0,0005%), di tentati suicidi: uno su cento (1%), di atti di autolesionismo: uno su dieci (10%).

2- La certezza della pena: «Chi ha commesso un omicidio, dopo due giorni è fuori». Non bisogna fare confusione tra la custodia preventiva e la detenzione dopo la condanna. Prima della condanna non si può essere incarcerati senza motivi validi, senza comprovata pericolosità. Quando la condanna è definitiva, la pena si sconta secondo regole prestabilite: quindi è «certa». Le pene alternative sono concesse (dove le risorse lo consentono) solo a persone non pericolose e disposte alla rieducazione. Gli errori sono rari, tanto che fanno quasi sempre notizia. Non è frequente che torni a delinquere chi ha usufruito delle misure alternative al carcere: la recidiva di questi è del 20% contro il 68% di recidiva delle persone che hanno scontato la pena in cella. A giugno 2011: dei 67.394 detenuti, solo 17.582 usufruivano di misure alternative. La pena è certa, ma la certezza non serve ad aumentare la sicurezza dei cittadini perché in carcere si è spesso «dis-educati» a una vita sociale sana.

3- La pena è utile come deterrente. Se si vede che alla violazione segue la pena, per paura della sofferenza della punizione, ci si astiene dal violare la legge. Deterrenza e intimidazione sono inadeguate a stimolare il rispetto della dignità propria e altrui, e quindi delle regole. Incutere paura insegna a obbedire (ostacolando il discernimento e la libertà). L’obbedienza obbliga ma non convince, e se una regola è rispettata per obbligo, il suo rispetto viene meno appena manca il controllo. Quasi tutti rispettiamo le regole perché le condividiamo, non perché temiamo la sanzione. Un killer della mafia non si lascia intimidire. Un tossicodipendente che fa rapine nemmeno, perché ha bisogno della droga. Un omicida per raptus non si ferma per il timore del carcere. Infine la minaccia della pena non intimidisce anche perché la gran parte dei trasgressori sfuggono alla sanzione: solo l’8% delle denunce sono seguite da condanne.

4- Bisogna aumentare il sistema repressivo. Sarebbe un costo insostenibile: più polizia, magistrati, caserme, palazzi di giustizia, processi, carceri, ecc. E poi creerebbe un vero e proprio stato di polizia in cui tutti sarebbero sottoposti a esasperanti controlli. Tutta la vita sociale si bloccherebbe. Non bisogna aumentare la repressione ma diminuire la devianza.

5- I carcerati sono tutti pericolosi. Il carcere attualmente colpisce sia pericolosi che non. A fine 2009 i detenuti «comuni» erano 50mila contro i detenuti «pericolosi» che erano 9mila. A metà 2008 ben 14.743 detenuti sui 55.057 allora reclusi erano tossicodipendenti. Al 30 settembre 2013 solo il 62% dei detenuti aveva una condanna definitiva (il 19% erano in attesa di primo giudizio, un altro 19% erano condannati in primo e secondo grado). Questa iper-carcerazione è costata 29 miliardi di Euro tra il 2000 e il 2010. In più, la nostra cultura esclude non solo i carcerati, ma anche gli ex detenuti, i quali non trovano lavoro, casa, affetti, ecc. ricadendo in nuovi reati.

6- «Ci vorrebbe la pena di morte». Tutti i dati riguardanti la pena capitale mostrano in modo inequivocabile che è inefficace: prova ne sia che negli Usa, paese con popolazione 5,2 volte superiore all’Italia, gli omicidi sono 28 volte più numerosi.

7- «Col carcere almeno si fa giustizia e le vittime sono soddisfatte». Il sistema retributivo non ripara la dignità della vittima. La sofferenza imposta al reo con il carcere procura solo il soddisfacimento dell’istinto di vendetta. La vittima non viene aiutata a superare il trauma, a recuperare l’integrità perduta.

8- «Allora lasciamo circolare liberamente le persone pericolose?». No. Chi è pericoloso deve essere separato, ma la separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Mentre solo una piccola percentuale dei detenuti oggi reclusi (circa il 20%) è effettivamente pericolosa. Non è logico, né utile ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute, all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione.

Luca Lorusso
Il perdono responsabile

Ci può dire in sintesi qual è il contenuto del suo libro? «Il libro si muove su diversi livelli. Il primo è un approccio di tipo più “filosofico”: quali sono le incoerenze della pena rispetto al riconoscimento della vita e dignità della persona? Segue un breve excursus storico sulla cultura retributiva, per arrivare a un’analisi dell’inadeguatezza del carcere così com’è, e quindi della punizione, della sofferenza imposta, per raggiungere lo scopo. Il percorso del libro si conclude con la proposta di una possibile alternativa: quella della giustizia riparativa».

In sintesi, la pena:

• toglie o limita a chi la subisce diritti fondamentali connaturati alla dignità della
persona;
• non svolge funzioni di prevenzione generale (le persone
commettono reati anche se vengono minacciate pene elevate);
• non svolge funzioni di prevenzione speciale (non evita che
persone colpevoli di reati ne commettano altri);
• non serve a riabilitare i rei, visto l’alto tasso di
recidiva;
• ha un peso economico elevato (dal 2000 al 2010 il sistema
penitenziario è costato all’Italia 29 miliardi di Euro);
• non ha capacità riparative nei confronti della vittima.

Luca Lorusso




Giustizia riparativa 3 – Un’idea scandalosa di giustizia

Intervista a Claudia Mazzucato, docente alla Cattolica.

Autori e vittime di reato sono portatori di domande,
bisogni, speranze, aspettative. Com’è possibile che entrambi, e la società,
lavorino sul domani senza scordare il passato? La riparazione è qualcosa che
nasce dal dialogo libero e costruttivo sugli effetti distruttivi del reato. È
dirompente parlare di programmi liberi e consensuali dentro la giustizia penale
che in genere è invece il luogo della coercizione, della privazione della
libertà. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione, che però ha già
prodotto dei grandi risultati: nel Sudafrica dell’apartheid ad esempio.

Professore aggregato di
diritto penale all’Università cattolica di Milano, Claudia Mazzucato si occupa
di modelli alternativi di giustizia penale allo scopo di trovare una coerenza
tra la risposta al reato e i principi della democrazia. Nel corso dei suoi
studi si è imbattuta, nei primi anni ‘90, nel tema della giustizia riparativa,
della mediazione reo-vittima, e da allora ha dedicato la sua vita, non solo
professionale, a questo. È mediatrice volontaria per l’osservatorio del
ministero della Giustizia sulla giustizia riparativa. Ha occasione, quindi, non
solo di studiarla, ma anche di praticarla a titolo volontario. All’Università
segue la formazione degli studenti di giurisprudenza, di sociologia e di
scienze della formazione sui temi del diritto penale e della giustizia
minorile.

Nessuno sa cos’è la Giustizia

La giustizia riparativa suscita
interesse nei suoi studenti?

«Sì moltissimo. Questo tema suscita interesse in tutti.
Da anni io e un gruppo di altre persone teniamo incontri un po’ dappertutto:
scuole, parrocchie, quartieri difficili, fino al Consiglio superiore della
Magistratura. Incontriamo diversi “mondi”, e dovunque troviamo interesse.
Sempre. Anche perché la giustizia riparativa solleva la domanda più generale di
giustizia, che riguarda chiunque.

Il cardinal Martini diceva che nessuno sa bene cosa sia
la giustizia, ma tutti sappiamo molto bene cosa sono le ingiustizie. E la
giustizia riparativa è un itinerario in cerca della giustizia a partire dalle
ingiustizie. Lavora su quello che è andato storto per ripararlo.

Non è un lavoro campato in aria. È, anzi, con i piedi
saldamente per terra. Tanto da occuparsi della quotidianità materiale
dell’autore del reato e della vittima: ci capita negli incontri di mediazione
di dedicare ore a definire le regole di saluto, di distanza o di vicinanza, di
comportamento: “Cosa succede se domani vi incontrate per strada o
sull’autobus?”.

La giustizia riparativa ha anche quest’attenzione: da
domani che cosa succede?

Autori e vittime di reato sono portatori di domande,
bisogni, speranze, aspettative che intrecciano il passato prima del reato, il
momento del reato, il presente e il futuro. Allora noi chiediamo a vittime e
rei di esprimere che cosa c’è nel loro oggi e com’è possibile lavorare
costruttivamente sul domani, senza dimenticare ciò che c’era prima del reato, né
il fatto che un reato è stato commesso, che qualcuno lo ha agito e un altro lo
ha subito».

Risocializzare in gabbia?

«Questo lavoro sul futuro è una cosa che la giustizia
penale tradizionale non può fare perché è tutta retrospettiva: anche quando
condanna una persona all’ergastolo, cioè determina l’interezza del suo futuro, è
tutta ferma sul reato, sul passato. È solo dopo l’inizio della detenzione che
compare un educatore, un assistente sociale che dice: “Beh, adesso pensiamo
alla rieducazione”, che vuol dire ritorno in società. Ma qui spuntano le
incoerenze della giustizia: come parlare di rieducazione a uno che sta in una
gabbia, o di risocializzazione quando tra la persona condannata e la società ci
sono un muro di sei metri, un muro di cinta, uno di intercinta, il blindo, le
sbarre, eccetera? Come si può parlare di risocializzazione se la società è
esclusa dal contatto con il reo?

La riparazione è qualcosa che nasce dall’incontro e dal
dialogo costruttivo sugli effetti distruttivi del reato. Ha l’ambizione di
promuovere responsabilità individuali e collettive per reintegrare il colpevole
e la vittima. Sì, perché anche la vittima ha bisogno di essere risocializzata.
A volte addirittura di essere “rieducata”: può capitare, infatti, che la
vittima appartenga allo stesso mondo deviante del reo. Nell’opinione pubblica
in genere c’è l’immagine della vittima buona, onesta, che subisce
improvvisamente qualche cosa, mentre il reo è cattivo, ma raramente la realtà è
così netta».

Qualcosa di scandaloso

Nel suo saggio Appunti per una
teoria dignitosa del diritto penale
scrive: «La giustizia riparativa può
arrivare addirittura a ridisegnare una nuova geometria della giustizia». È
davvero così rivoluzionaria?

«La giustizia riparativa costringe a guardare al
problema del crimine e al tema della giustizia con occhi nuovi. Essa ha
qualcosa di scandaloso: “Ma come? Reo, vittima e comunità insieme dopo un
reato?”. Tutto l’itinerario millenario della giustizia fino a ora ha diviso il
reo dalla vittima, e ha ripetuto sul reo il male che egli aveva fatto alla
vittima. La giustizia riparativa invece propone: “Mettiamoci insieme,
volontariamente, per pensare a qualcosa di diverso”.

È dirompente parlare di un intervento libero, volontario
e consensuale dentro la giustizia penale, la quale in genere è invece il luogo
della coercizione legittimata, della privazione della libertà. È proprio un
prendere la giustizia così com’è oggi e rovesciarla».

Quali sono gli strumenti della
giustizia riparativa?

«La mediazione diretta, o indiretta, tra autori e
vittime di reati, i community circles, i family group conferences.
Sono programmi costruiti intorno all’incontro a tu per tu, oppure allargato ai
componenti delle famiglie dell’uno e dell’altra, alle comunità. Questi sono gli
strumenti. Ma la cosa fondamentale è che si possa chiamare giustizia riparativa
solo ciò che porta le persone a incontrarsi volontariamente e liberamente.
Quando un magistrato impone un lavoro di pubblica utilità, può fare una cosa
bellissima, ma non è un programma di giustizia riparativa, è una pena. Quando
una persona svolge un lavoro di pubblica utilità che corrisponde a un lavoro
fatto sulla sua dignità, in dialogo con le vittime, con la comunità, e quindi
il soggetto sente di ripararsi, e non solo di riparare, e lo sceglie liberamente
in dialogo con altri, questa è giustizia riparativa. Altro elemento è che gli
incontri sono liberi, aperti, quindi si costruiscono anche in base a ciò di cui
si sente il bisogno. La presenza di un mediatore è importantissima. Anche perché
il facilitatore rappresenta a sua volta la comunità, e fa sì che le persone non
siano sole, sta con loro, e accoglie entrambe le parti con dignità e rispetto,
anche se ha di fronte una persona gravemente colpevole».

Sudafrica: la verità è più importante della pena

Questa nuova idea di giustizia potrà mai realizzarsi?

«Non potremo mai mettere fine al problema della
giustizia. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione. Però ha già
prodotto dei grandi risultati: l’esperienza del Sudafrica, ad esempio. Nel
momento più drammatico in cui, finito l’apartheid, si sarebbe potuta
scatenare una vera guerra civile, Nelson Mandela, e poi Desmund Tutu e gli
altri che hanno costruito la Commissione verità e riconciliazione hanno
sostenuto a gran voce che se gli oppressi si fossero fatti giustizia in modo
“tradizionale” sugli oppressori, avrebbero riprodotto la stessa violenza che
avevano subito, impedendo l’unità del popolo arcobaleno. E quale giustizia
poteva affermare l’unità dopo la separazione e la segregazione dell’apartheid?
Una giustizia non retributiva dove la verità è più importante della pena.

La giustizia punitiva è reo-centrica, ed essendo
punitiva non può chiedere all’autore del reato di dire la verità. Il diritto
dice che l’accusato non è tenuto a dire la verità, perché se la dicesse
andrebbe incontro alla pena.

Il Sudafrica ha dovuto scardinare il meccanismo della
pena per chiedere la verità».

La verità è «terapeutica»?
Affermarla, riconoscere ciò che è accaduto, di per sé realizza la giustizia e
lenisce le ferite?

«Possiamo dire che la verità può fare molto più di una
pena. Poi probabilmente ci sono persone, vittime, comunità che sentono che
nelle sedute della Commissione la verità non è stata detta abbastanza, e che
non si sentono risanati da quella verità. Ciò che possiamo dire senz’altro è
che alle vittime e alle comunità vittimizzate, quel percorso non ha tolto
nulla. Ha aggiunto semmai qualcosa di positivo. Se ci fosse stato un percorso
di giustizia tradizionale quelle persone non avrebbero ottenuto di più. Anche
solo perché la giustizia penale tradizionale è molto selettiva: soprattutto
dove ci sono state delle atrocità massive non può arrivare a processare e a
punire tutti quelli che in una logica retributiva lo meriterebbero».

Una novità antica

La giustizia riparativa è una «scoperta»
recente o se ne conoscono esperienze in tempi e società del passato?

«È una scoperta, però è anche una riscoperta. Della
giustizia riparativa come la conosciamo oggi possiamo identificare l’origine
negli anni ‘70 in Canada con percorsi di incontro tra giovani autori di reato e
le loro vittime. La pratica, che aveva dato buoni risultati, si è poi espansa
nel mondo, a cominciare dagli Usa, dove però rimane una nicchia. Paesi come la
Nuova Zelanda e l’Australia, partendo da modelli riparativi, sono arrivati
addirittura a ricostruire la giustizia. Anche in Europa ci sono molti paesi che
hanno leggi sulla giustizia riparativa o sulla mediazione reo-vittima.

Dall’altro lato però la giustizia riparativa è una
riscoperta: se andiamo a studiare i modelli di giustizia di certe società
tradizionali, constatiamo che dove è necessario tenere unita la comunità
esistono forme di giustizia di tipo relazionale, dialogico, compositivo, e non
retributivo.

Si può supporre che pratiche di giustizia riparativa ci
fossero anche in tempi antichi: per esempio forme di giustizia riparativa si
trovano nella Sacra Scrittura. Nel Nuovo Testamento (amare i propri nemici,
porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette…), ma anche nel Vecchio
Testamento (la lite dialogica per ricostruire l’alleanza). Ci sono studi
biblici stupendi su come, attraverso questo tipo di pratica di giustizia, si
possa leggere il rapporto di Dio con il popolo di Israele: un continuo
richiamare l’altro a rispondere del suo tradimento dell’alleanza in un dialogo
che è molto forte, anche violento a tratti, ma che ha sempre come obiettivo la
ricostruzione della relazione».

I casi di Nuova Zelanda e Australia
sono isolati o ci sono altri paesi che si stanno orientando alla giustizia
riparativa? In Italia cosa si fa?

«In Italia ci sono buone pratiche che si stanno
consolidando soprattutto nella giustizia minorile, la giustizia riparativa però
in generale è molto marginale. La Nuova Zelanda ha ripensato il suo sistema penale
usando moltissimo i programmi riparativi con una dimensione comunitaria come i communities
circles
che coinvolgono la comunità, il vicinato, la famiglia, le famiglie
del reo e della vittima. È stata importante la cultura nativa dei Maori.

Tra le altre esperienze, quella sudafricana è
emblematica. Io sento la presenza di una traiettoria culturale nel mondo. La
giustizia penale non è più ferma sulle risposte punitive tradizionali: è stata
scombussolata, movimentata dall’arrivo del tema della giustizia riparativa. E
un po’ dappertutto tra i paesi democratici sta cambiando qualcosa».

Mass Media e «tolleranza zero»

Come spiega questa crescita di
consenso per la giustizia riparativa in un clima globale in cui domina la «tolleranza
zero»?

«Il consenso globale sulla giustizia riparativa è al
livello di studiosi, di Nazioni unite, di Consiglio d’Europa. Quindi la
traiettoria positiva c’è, ma in un contesto generale che va ancora in
tutt’altra direzione. È vero, infatti, che chiunque oggi pensi alla giustizia
penale, pensa al carcere. Non perché il carcere sia una risposta più
realistica. I media, che hanno un ruolo importantissimo sulla giustizia,
purtroppo la banalizzano: ad esempio fanno pensare che quando una persona va in
carcere è tutto risolto, mentre in quel momento si aprono un’infinità di
problemi. Bisognerebbe fare un lavoro di formazione dei giornalisti. Ad esempio
si sentono chiedere alle vittime: “È di-sposto a perdonare?”. Io penso che una
domanda del genere sia inopportuna. Così come: “È soddisfatto dell’ergastolo?”.
Ma come fa la vittima, con il suo bisogno di sentire la propria dignità
reintegrata, a essere soddisfatta dalla sofferenza imposta al colpevole? Se c’è
una soddisfazione, è momentanea. Poi rimane il vuoto che si aggiunge a un altro
vuoto».

Ci mancano profeti

Ci sono esperienze di paesi che
abbiano dei tratti in comune con quella del Sudafrica?

«Il Sudafrica ha aperto una via perché è stata la prima
esperienza a mettersi in mezzo ai due modelli: quello del colpo di spugna con
le amnistie, e quello dei processi penali da Norimberga in giù. Altri paesi
hanno tentato di fare delle cose simili: in Perù con la Commissione verità e
riconciliazione del 2000, ad esempio. In Ruanda con i tribunali Gacaca per il
genocidio del 1994. Il punto è che nessun’altra esperienza è riuscita a
raggiungere il livello di quella sudafricana che è stata particolarissima per
una serie di situazioni convergenti. Il Sudafrica ha cambiato la Costituzione
alla luce dell’idea di Ubuntu (“Io sono perché noi siamo”), ha prodotto un
diritto nuovo. C’è stato un ruolo della Corte Suprema che credo sia l’unico
tribunale del mondo ad avere come logo un albero sotto al quale ci sono persone
bianche e nere intrecciate, invece della bilancia con la spada… E poi i
sudafricani avevano Mandela e Tutu, cioè due vittime esemplari. Mandela diceva:
“Non bisogna vendicarsi”, e Tutu: “Le persone possono cambiare, e noi dobbiamo
crederlo”. Erano dei pulpiti da cui non venivano delle prediche, ma delle
esperienze che avevano una forza di testimonianza pazzesca. Dove non ci sono
figure profetiche così, diventa molto difficile far passare queste idee a
livello pratico.

Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi.
Certamente nel nostro paese».

Luca Lorusso

        «… E BUTTIAMO VIA LA CHIAVE!»                            

Frasi dal web su carcere e giustizia all’indomani del
messaggio alle camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

«Credo che i lavori forzati nel senso vero della parola sia
l’unica soluzione per eliminare il problema del sovraffollamento. Anche perché
tu che sei stato vittima e vedi che il tuo aguzzino viene liberato non puoi
continuare a credere in un paese come questo. I lavori ci sono di svariati tipi
e modi con orario come dico io dal sorgere del sole al tramonto come facevano i
contadini».

«In Italia ormai da decenni si pensa solo a salvare ed
aiutare i cittadini disonesti e non quelli onesti e, ancora una volta, questo
viene confermato dalle dichiarazioni rilasciate dal capo dello Stato che
dovrebbe essere il garante della Costituzione nonché super partes e non il
difensore di indifendibili, condannati e delinquenti».

«Il carcere serve per lo sconto della pena, la rieducazione
casomai la fanno quando escono dal carcere e prima di inserirsi nella società.
Pene alternative? Come in Alabama ai primi del ‘900, incatenati a tagliare
l’erba sulle strade o rattoppare l’asfalto che ce n’è un gran bisogno!!! Prima
pensare ad aiutare i cittadini onesti e poi, se avanza tempo, si pensa a quelli
disonesti. […] Se l’Europa ci multa perché le nostre carceri non hanno celle
singole con internet e aria condizionata per il benessere dei criminali credo
che dovremmo mandare […a quel paese] l’Europa: non capisco perché dovremmo
avere a cuore i diritti umani di persone che di umano hanno solo la forma! Più
rispetto per le vittime!!!».

(Tre commenti scelti a caso tra i molti in calce a un
articolo sul blog di Beppe Grillo:
http://www.beppegrillo.it/2013/10/il_piano_carceri_del_m5s.html)

Luca Lorusso




Giustizia riparativa 4 – Si tratta di liberare l’uomo

Padre Gianfranco Testa.
Se il mondo missionario s’interessa della persona, il tema
della giustizia riparativa è importante. Si tratta di liberare l’uomo. Parola
di padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata che da decenni si occupa
di perdono e riconciliazione.

Nato a Bra nel 1942,
ordinato nel ’67 a Torino, a 30 anni è partito per l’Argentina. Al tempo dei
generali ha fatto 4 anni di prigione. A 40 anni è andato in Nicaragua, tentando
l’avventura in un paese che in quel momento era per lui molto interessante per
la rivoluzione sandinista, «una rivoluzione cristiano marxista, chiamiamola così,
tanto per spaventare qualcuno», ci ha detto. E poi a 50 anni è partito per la
Colombia. «Adesso, a 70, vado di qua e di là. Sono stato in Albania, in
Palestina. Muovo i miei ultimi passi sempre cercando di riflettere». Di
recente, a Torino, è nata, grazie a lui, l’università del perdono:
www.universitadelperdono.org.

Che senso ha, secondo te, parlare
di giustizia riparativa su una rivista missionaria?

«Se una rivista missionaria s’interessa dell’uomo, della
persona, certamente il tema della giustizia riparativa è importante. Purtroppo
ancora poco dibattuto. Si tratta di liberare l’uomo. Nella giustizia riparativa
il centro di tutto è la persona umana. E mettere l’uomo al centro vuol dire
fare un buon servizio missionario».

Come si sposa la missione della
Chiesa con il tema della giustizia riparativa?

«Io preferisco la parola “restaurativa”. Perché
“riparare” vuol dire mettere le cose a posto, invece qui si tratta di
restaurare la persona, ridarle dignità. Credo che questo discorso sia una sfida
fondamentale per la Chiesa oggi. Un discorso che i politici non sanno fare o non
vogliono fare. È quello per cui l’uomo, nonostante i suoi errori, e anche
l’uomo vittima, viene riconosciuto come persona degna di rispetto, degna di
amore. Oggi, nel sistema di giustizia la vittima scompare, non è importante. La
giustizia cammina da sola senza ascoltare il dolore di chi ha sofferto. Allo
stesso tempo, il colpevole non viene ristabilito come persona. Io penso che la
funzione della giustizia non sia di castigare, ma neppure di essere
indifferente. La funzione della giustizia è di restaurare: la vittima, il
colpevole, la società. Certo, ci sono delle condizioni: se il colpevole non
riconosce quello che ha fatto, allora deve intervenire una giustizia che
diventa “retributiva”. Ma se il colpevole è capace di assumersi la
responsabilità di quello che ha fatto, allora si entra in un dialogo di umanità.
Non di castighi, di leggi, ma di umanità, dove le persone acquistano un rilievo
fondamentale, e ognuno assume le proprie responsabilità, trovando anche le
strade di riparazione».

La Chiesa si è mai espressa in
maniera ufficiale ed esplicita sul tema della giustizia restaurativa?

«No. Finora no. Sarebbe una bella sfida. Penso che
sarebbe bello se ci si sedesse un po’ di teologi, di filosofi, qualche giurista
a pensare, riflettere insieme. L’importante cos’è? È la persona umana! Sempre.
Il cuore della nostra fede non è Dio, di cui possiamo parlare molto poco, ma
siamo noi. Noi che entriamo in noi stessi in profondità, e poi nello spirito,
nella verità, riscopriamo Dio. E siamo capaci anche di perdonare, di restaurare
e di lasciarci restaurare.

Questo mi sembra che sarebbe per la Chiesa un “buon
campo di battaglia”. Aiutare la società ad affrontare la domanda che da 2.800
anni ci si pone: “Come castigare un crimine senza commettee un altro?”. Noi
normalmente perseguiamo i crimini facendo altri crimini. Basti pensare a come
sono gestite le prigioni. Basti guardare la carica di odio, di rancore che si
accumula con la nostra giustizia. Ma che giustizia stiamo facendo? Noi abbiamo,
come Chiesa, un’esperienza di fede, di vita, di sensibilità che è insuperabile.
Forse non abbiamo riflettuto ancora abbastanza su questo tema. Sarebbe un
annunciare un’umanità nuova. La famosa civiltà dell’amore, del rispetto per la
persona, anche per il colpevole, ancora di più per la vittima.

La giustizia restaurativa è, alla fine dei conti, una
prassi quotidiana. Faccio un esempio: in Colombia seguivo dei ragazzi che un
giorno sono entrati in una casa a rubare. Una volta scoperti abbiamo applicato,
in modo informale, tra noi, la giustizia restaurativa: ho proposto loro due
tipi di castighi, oppure di scegliere loro. Il mio castigo sarebbe stato di
farli tornare a casa e di non accettarli più, oppure di non dare loro la prima
comunione alla quale si stavano preparando. E loro, chiamati a partecipare alla
decisione, hanno scelto di lavorare per un certo tempo per la persona che
avevano derubato, di restituire quello che avevano preso. Non è stato un
castigo: quei ragazzi si sono restaurati, hanno assunto le loro responsabilità.
In più abbiamo guadagnato nella vittima un amico, che ha detto: “Questi ragazzi
sono dei disgraziati, dei delinquenti, però sono anche capaci di fare del bene.
Sono capaci di riconoscere il male che fanno”. I ragazzi lavoravano talmente
tanto per “la loro vittima” che doveva fermarli lui stesso. Così si sono
restaurati la vittima, i colpevoli e la comunità.

Ho raccontato questo aneddoto per dire che anche in casa
si può usare la giustizia riparativa. Anche a scuola. Questo è il punto di
arrivo: la giustizia restaurativa non è solo per i palazzi di giustizia, ma
anche per la vita quotidiana. Evitare di castigare. Allo stesso tempo non
lasciare passare mai niente di sbagliato: ogni errore deve essere corretto».

Nella tua vita missionaria sei
stato e vai in diversi paesi del mondo affrontando il tema del perdono e della
riconciliazione. Ci puoi raccontare qualcosa di queste tue esperienze?

«Ieri sono stato in un campo Rom a Collegno (To).
Sappiamo che gli immigrati sono mal visti, ma i Rom sono rifiutati. Certamente
hanno i loro limiti, però mi sono trovato benissimo. Sono stato in Albania a
incontrare cattolici e musulmani sul tema della violenza tradizionale. Tengo
dei corsi sul perdono. Sono dei semi gettati. Non è che si risolvano i
problemi. Ma cerco, insieme ad altri che collaborano con me, una pedagogia del
perdono. Il papa Giovanni Paolo II, per la Giornata mondiale della Pace del
2002, alla fine del suo messaggio chiedeva che si costruisse una pedagogia del
perdono. Noi parliamo sempre del perdono, ma non insegniamo come si fa. Ecco. È
importante tentare di balbettare qualcosa su questa pedagogia del perdono».

Luca Lorusso

SCHEMA COMPARATIVO*

GIUSTIZIA RETRIBUTIVA
GIUSTIZIA RESTAURATIVA
VALORI
Interesse dello STATO al primo posto
Interesse delle PERSONE COINVOLTE e della COMUNITÀ al primo posto
Fuoco sulla PUNIZIONE – prigionia o pene
alternative inefficaci (carità a terzi)
Fuoco sulla RESPONSABILITÀ e sulle
NECESSITÀ delle parti e della comunità

COLPEVOLEZZA
INDIVIDUALE

CORRESPONSABILITÀ
INDIVIDUALE e

COLLETTIVA

Uso
DOGMATICO del Diritto

Uso
CRITICO del Diritto

PROCEDURA
FORMALE, ritualistico / scenario di POTERE
INFORMALE, semplificato / scenario
extragiudiziale o COMUNITARIO

Linguaggio
e regole COMPLESSI

Linguaggio COMUNE e regole FLESSIBILI
Processo decisorio delle AUTORITÀ / operatori giuridici
Processo decisorio CONDIVISO con i coinvolti e la comunità
IMPATTO ED EFFETTI PER LA VITTIMA

MINIMA
PARTECIPAZIONE

VOCE e RUOLO ESSENZIALI nel processo
MINIMA assistenza PSICOSOCIALE e GIURIDICA
Risposta effettiva alle necessità PSICOSOCIALI e GIURIDICHE
INSODDISFAZIONE e FRUSTRAZIONE con il Sistema
SODDISFAZIONE e CONTROLLO sulla situazione, ricupero dell’autostima
IMPATTO ED EFFETTI PER L’ACCUSATO
ALIENATO dal processo, comunicazione tramite l’avvocato

PARTECIPAZIONE
RESPONSABILE nel processo

Necessità
praticamente dimenticate

Necessità
effettivamente considerate

INNACCESSIBILE
e senza interazione

ACCESSIBILE, interagisce con la vittima e la comunità
IMPATTO ED EFFETTI PER LA COMUNITÀ
Restaurazione del tessuto sociale
Reintegrazione dell’accusato e della vittima
Efficacia di un sistema multiporte
Potenziale di riduzione della reincidenza
Pace Sociale con dignità e senza tensioni

* Basato in comparativo schematico di
Renato Sócrates Gomes Pinto, presidente dell’Istituto di Diritto Comparato ed
Internazionale di Brasilia e pensionato dopo una carriera di avvocato,
difensore d’ufficio, promotore e procuratore di giustizia.

Luca Lorusso




Giustizia riparativa 5 – Un’esperienza israelo-palestinese

L’associazione Parents Circle – Families Forum

Un ragazzo rapito e ucciso da Hamas. Un’associazione fondata
dal padre per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Donne
dei «due fronti» che si raccontano in cerchio il conflitto e i loro lutti.
Testimoni che vanno nelle scuole dell’una e dell’altra parte, per far
incrociare i propri occhi palestinesi con gli occhi israeliani dei ragazzi, e
viceversa, e condividere i sogni, le aspirazioni, le vite interrotte dalla
violenza. Esperienze di giustizia riparativa.

«Nel luglio del 1994
mio figlio Arik è stato rapito e poi ucciso da Hamas. Da allora lo scopo della
mia vita è portare la riconciliazione e la pace tra israeliani e palestinesi». Yitzhak
Frankenthal è un ebreo ortodosso, uno da cui, stando a come vanno le cose in
Israele, non ti aspetteresti grandi aperture nei confronti dei palestinesi.
Eppure dopo la morte del figlio durante il servizio militare abbandonò il
lavoro alla ricerca di risposte alla sua tragedia, risposte che nessuno pareva
in grado di dare: «Mio figlio è morto perché non c’è pace nella nostra terra.
Cos’è che ci spinge in continuazione l’uno contro l’altro? Cosa devo fare per
fermare questa spirale di violenza?».

Famiglie in lutto per la pace

Quando iniziò a parlare con gli amici dell’intenzione
d’impegnarsi per una riconciliazione tra i due popoli si ritrovò solo. «Non
riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la
riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una
lettera inviata al primo ministro
Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare la
ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Rabin venne a trovarci a casa,
diventammo amici»1. Erano tempi in cui le speranze suscitate dagli Accordi
di Oslo venivano erose da una realtà fatta di attentati, rappresaglie, morte.

Nel corso del 1995 l’Associazione israeliana dei parenti
delle vittime del terrorismo palestinese protestò fortemente contro gli sforzi
di dialogo politico. Come lo stesso Frankenthal racconta: «Mi recai da Rabin e
gli dissi che quella gente non parlava a mio nome». Così decise di inviare una
lettera a 350 famiglie che avevano subito un lutto a causa del conflitto nei
precedenti 18 anni, proponendo loro di unirsi per chiedere, con l’autorevolezza
morale che la sofferenza conferisce, di interrompere la spirale di vendetta e
intraprendere finalmente la via della pace, del rispetto e della
riconciliazione con i palestinesi. Ricevette un paio di lettere cariche di
insulti, ma ciò che più conta è che 44 famiglie risposero affermativamente. Al
loro primo incontro Frankenthal propose di rivolgersi anche alle famiglie
palestinesi che avevano subito un lutto a causa dell’occupazione israeliana.
Così nacque il Parents Circle – Families Forum (Circolo dei genitori,
forum delle famiglie) chiamato Bereaved families forum (Forum delle
famiglie in lutto), del quale fanno parte oggi circa 600 famiglie palestinesi e
israeliane.

«Io comprendo i tuoi sentimenti»

Nella penombra del salotto di casa sua, la signora M. ci
racconta la sua storia. Alle sue spalle una grande foto di suo figlio, che non
ha mai fatto ritorno dal servizio di leva. L’onda del dolore della madre ci
avvolge, mischiandosi all’aria troppo calda di Gerusalemme. Le domandiamo cosa
l’abbia spinta a entrare nel Parents Circle: «Quando un israeliano parla
con i palestinesi la prima reazione è che loro sono nostri nemici e noi siamo i
loro nemici. È molto importante quindi sedersi e parlare: comunicare è la sola
via per trovare una soluzione. Per me non è stato affatto naturale, è stato un
percorso difficile. Ma ora posso sedere e ascoltare quanto donne e uomini
palestinesi hanno da dire, e posso rispondere: “Io comprendo i tuoi
sentimenti”, e a volte posso anche dire: “Ma non concordo con le tue opinioni”».

Ritroviamo la signora M. a un incontro delle donne
dell’associazione. Carta, stoffa, pennelli e colori permettono di esprimere le
emozioni superando la differenza linguistica e il pudore. Così il desiderio di
pace si trasforma in arcobaleni e mani che si stringono nei disegni sulla
carta. Prendiamo parte alla realizzazione di un cartellone, e l’atmosfera
serena, diremmo giorniosa, ci fa per un attimo dimenticare dove siamo. Ma basta
uno sguardo all’alberello di carta realizzato da alcune donne per ricordarci
che il fratello della giovane che dipinge è morto mentre era soldato di leva,
colpito da un cecchino, che il figlio della signora che le passa i colori è
invece stato ucciso durante un’incursione dell’esercito nel campo profughi.
L’uno israeliano, l’altro palestinese. L’uno potrebbe aver ucciso l’altro, e
viceversa. Così notiamo che le foglie dell’alberello sono in realtà lacrime con
delle scritte: «Mamma, rendimi più forte», «lacrime d’amore», «sto piangendo un
mare di lacrime perché tu non ritorni». Un brivido ci attraversa insieme alla
sensazione di stare assistendo a qualcosa di eccezionale.

Ci disponiamo in cerchio. Una donna palestinese e una
israeliana conducono le attività del gruppo. Ci spiegano che l’elemento più
importante dei loro incontri è la condivisione della propria storia, ovvero il
racconto, semplice e spontaneo, della propria vita e dell’evento luttuoso che
l’ha segnata. Ciascuno ha la possibilità di leggere, con e per gli altri, il
conflitto dal proprio punto di vista, di presentare la vicenda della propria
famiglia e del familiare scomparso restituendole quel calore, quei particolari,
«quell’anima» che le fredde cronache di guerra non conoscono. Non è una terapia
di gruppo ma un incontro di giustizia riparativa, ovvero uno spazio dove,
attraverso il «linguaggio delle emozioni», può avvenire il riconoscimento
dell’umanità del nemico.

Il testimone della parte opposta

Qualche giorno dopo, Rami, un signore israeliano la cui
figlia quattordicenne perse la vita in un attentato suicida, c’invita a un
incontro con un gruppo di giovani. In quell’occasione conosciamo Aisheh, una
giovane donna palestinese il cui fratello, ferito senza motivo da un soldato
israeliano, morì, a distanza di anni, per le conseguenze riportate. Possiamo
così osservare uno dei più di mille incontri che, ogni anno, l’associazione
organizza nelle scuole da entrambi i lati del muro, per i gruppi di israeliani,
palestinesi o stranieri che ne facciano richiesta. Vanno sempre a due a due,
per consentire ai ragazzi di ascoltare, spesso per la prima volta, il punto di
vista dell’altro, e osservare un esempio concreto di dialogo e di
riconciliazione. I «testimoni» svolgono il ruolo di mediatori tra i due popoli
cercando di aprire uno spazio per la condivisione cognitiva ed emozionale di
significati profondi. Gli uditori di una parte possono ritrovare, nel racconto
delle vicende del proprio connazionale, esperienze e vissuti simili ai propri e
sentirsi provocati e incoraggiati dal suo impegno nonviolento e concreto. Ma è
l’incontro con il «testimone» della parte opposta a essere, per alcuni giovani,
un’esperienza folgorante: l’«altro» astratto, stereotipato, odiato, per la
prima volta acquista un volto umano, uno sguardo da guardare e da cui sentirsi
guardati, una storia che interpella. Ascoltare la sua sofferenza, il suo
dramma, i suoi sogni e desideri infranti porta a scoprire che essi sono
inaspettatamente simili ai propri e aiuta a superare i pregiudizi e la
propensione a «gerarchizzare» la sofferenza sminuendo quella altrui. Ciò non
annulla le differenze, ma apre alla comprensione e al riconoscimento.

La giustizia riparativa, che cerca la pace attraverso il
dialogo e la riparazione delle offese piuttosto che la punizione e la
separazione delle parti in lotta può assumere, in Israele e Palestina, la forma
di un alberello di carta, del cerchio in cui siedono vittime che sono anche
nemiche, e di un’accorata e coraggiosa testimonianza davanti agli studenti di
una scuola.

Annalisa
Zamburlini

Note:

1- Le
parole di Yitzhak Frankenthal sono tratte da: B. Bertoncin (a cura di), Per
mano. Per mano dell’altro, per mano con l’altro
, Una Città, Forlì 2005, e
da A. Da Sacco (a cura di), Israele – Yitzhak Frankenthal: la
riconciliazione parla il linguaggio della sofferenza
, in «Bumerang,
grassroot information», 22.02.2007, www.bumerang.it.

 

Annalisa Zamburrini




Decrescita 4: Natura e decrescita

           Esperienze 3/ La «Chabrochanto» in Val Maira                                              
Dalla città alla montagna. Reinventandosi una vita che
pareva decisa. Da subito il superfluo non trova posto. E un quotidiano in
decrescita si realizza prima di ogni teoria. Lei, lui e cinque figli sulle
montagne della Val Maira. Una storia che ha molto da insegnare. Siamo andati a
trovarli.

Grazie al suggerimento del responsabile del Circolo
della Decrescita di Cuneo veniamo a conoscenza di una famiglia che vive in
termini «decrescenti». Si tratta di Marta e Giorgio, un medico e un traduttore
torinesi che dal 1992 abitano in Val Maira. Contrariamente alla tendenza
anagrafica la coppia ha ben 5 figli, la più piccola di 7 anni. Marta e Giorgio,
entrambi 49enni, sono i proprietari dell’azienda agricola Lo Puy che produce
formaggi di capra a latte crudo e si trova in borgata Podio a due chilometri
dal comune di San Damiano Macra. 

La «Chabrochanto» è il loro locale di degustazione e
agriturismo, un luogo non solo gastronomico ma di incontro ed esperienze.

Arriviamo in borgata nel pomeriggio sotto un tiepido
sole e troviamo Marta intenta a dialogare con i suoi figli e con i loro amici.
Marta è una signora interessante, ha mantenuto le caratteristiche cittadine ma
ha assunto la tempra e l’aria sana della vita all’aria aperta.

Il salto nel vuoto

«Quando siamo venuti a vivere qui era il 1992» racconta
Marta: «Avevamo un sogno nel cassetto, in condivisione con il nostro gruppo di
amici torinesi: riabitare una borgata. Era un’idea di stampo antropologico e
sociale, dove aveva la prevalenza un
discorso di buon vicinato con spazi culturali in comune e unità abitative
individuali. L’idea di un trasferimento di gruppo non è mai decollata e alla
fine Giorgio e io abbiamo deciso di tentare il salto da soli. I nostri amici
non ci hanno mai abbandonato idealmente e, anzi, ultimamente hanno comprato
alcune case in borgata nell’ottica di una promozione turistica del territorio».

Da Torino alla Val Maira, dalla città alla comunità
montana. Marta ci racconta del loro amore per la montagna, per la natura e gli
spazi aperti, della fatica del vivere metropolitano. Non ne parla con
aberrazione, ma osservandola in questo contesto si intuisce quanto potesse
sembrargli limitato l’ambiente cittadino. «Appena arrivati qui vivevamo a San
Damiano Macra. Io continuavo a fare il medico negli ambulatori locali e Giorgio
seguiva ancora qualche consulenza come traduttore. Poi, sono arrivati i primi
due bambini e Giorgio è diventato sempre più il punto di riferimento per la
famiglia. Si occupava volentieri di tutto il menage familiare, dell’orto che stavamo iniziando a coltivare e di
proseguire con i suoi studi di arricchimento personale (lo studio dell’arabo,
del cinese e dell’antropologia). Erano anni duri ma pieni, iniziavamo a
delineare in modo più chiaro quello che sarebbe stato il nostro futuro. Nel 1996
abbiamo trovato questa casa in borgata e il progetto di riabitare una comunità
montana ha preso corpo».

Mentre Marta racconta, ci tornano alla mente le immagini
di un film di qualche anno fa «Il vento fa il suo giro» dell’italiano Giorgio
Diritti girato in Val Maira. La storia sembra clonare le esistenze di Giorgio e
Marta: una famiglia con tre figli si trasferisce in una comunità montana per
vivere secondo natura, occupandosi di pastorizia, ma la diffidenza nei
confronti dello straniero non tarda a farsi sentire da parte dei locali. A
questa citazione Marta sorride e commenta: «Volete sapere una curiosità? Le
capre del film sono le nostre. Il film è molto genuino e gli attori non
professionisti rendono l’affresco. Per quel che ci riguarda, però, la comunità
locale non ha mostrato nessuna chiusura nei nostri confronti. Il fatto che io
facessi il medico e lavorassi molto sull’aspetto umano del paziente, ha
favorito una rete di contatti sociali propositivi che ci ha sicuramente
incoraggiati nell’iniziativa».

Arrivano le capre

Medico, madre e costruttrice di una nuova esistenza
improntata sulla socialità, la spinta antropologica e il rispetto ambientale.
Quando è nata l’idea di una proposta anche commerciale? «Dopo i primi tempi in
borgata, anche Giorgio ha iniziato a vedere con più chiarezza quello che
potevamo ideare a livello professionale. Si è specializzato nella pastorizia ed
è andato in Francia per imparare a fare il formaggio. Nel 1999 abbiamo aperto
il caseificio con solo 20 capre. Il lavoro si è fatto sempre più intenso e
quando è arrivata Lara, prima come dipendente e poi come socia, mi sono
permessa una sosta dal lavoro di medico per dedicarmi esclusivamente alla
famiglia e all’attività».

Oggi, 2013, qual è la realtà di borgata Podio e
dell’azienda agricola Lo Puy? «Ad oggi la borgata è abitata dalla nostra
famiglia e da quella di Lara con le sue due bambine. Dal 2011 sono tornata a
lavorare come direttore sanitario in una struttura per anziani, tre giorni alla
settimana. Non ho studiato medicina per caso, era la mia passione pur
dissociandomi dagli aspetti del marketing sanitario. Il mio lavoro contribuisce
alle spese poiché la produzione del nostro formaggio è solo stagionale: da
marzo a novembre. Gli altri quattro mesi sono senza introiti. Anche il nostro
locale «Chabrochanto» contribuisce a rafforzare la nostra idea di rispetto a
360 gradi per la natura».

Marta ci chiarisce che non ama il termine «agriturismo»
in quanto ormai troppo inflazionato e, in troppe situazioni, poco veritiero: «Al
caseificio abbiamo abbinato l’attività della locanda di degustazione.
Proponiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti: formaggi, carne e
capretto, salumi di capra e maiali. Non avendo verdura a sufficienza, ci
foiamo dai produttori locali perché è insito nella nostra filosofia servirsi
a km zero. Non ci sono cartelli che rimandano alla Chaborchanto ma un ottimo
passaparola di clienti fidelizzati ci permette di sopravvivere. Il tutto è
nell’onda della purezza e genuinità».

Abolire il superfluo

Mentre deliziamo il palato con la marmellata di lamponi
e il pane fatto in casa da Marta, non possiamo non domandarci in che misura
rientra la decrescita in questo microcosmo. «Ci ritroviamo nel pensiero della
decrescita da prima che il termine venisse troppo abusato: ridurre il consumo e
il superfluo è la nostra linea quotidiana. Tutto quello che riusciamo a
guadagnare lo reinvestiamo nel nostro territorio, per la nostra famiglia e le
generazioni future che vorranno venire a vivere qui. Trovo personalmente
fallimentari le comunità che vivono nell’eremitaggio, appartandosi dal mondo.
Le scelte troppo radicali non mi appartengono. Cambiare è un progetto graduale
perché penso che, in un modo o nell’altro occorra fare patti con la società in
cui si vive. Non ci sentiamo ad esempio di privare i nostri figli da eventuali
attività sportive o musicali ma cerchiamo di organizzare la logistica in modo
da non creare troppo impatto sull’ambiente».

Sensibilizzare al decrescere. Vi
sentite in parte operatori di questa ideologia? «A questo riguardo il nostro
locale, la Chabrochanto, vuole essere un punto di incontro e confronto di idee
ed esperienze tra persone. Dal 2010, infatti, promuoviamo i «Conviti di
agricoltura»: libere condivisioni di idee sull’agricoltura odiea,
sull’alimentazione, sul mondo contadino e sulla decrescita in generale. Le
tematiche attuali vengono poste come interrogativi su cui riflettere: si può
fare a meno della connessione a Inteet, dei centri commerciali e della
macchina? A questo scambio dialogico si associano piatti sfiziosi».

Baratto del tempo

Non sono solo gli stili di vita e le proposte al
pubblico che indicano uno stile «decrescente». Marta ci racconta che spesso a
Lo Puy si propone uno scambio del tempo. Vitto e alloggio assicurato, in cambio
di un paio di ore nell’orto o di una consulenza professionale in qualche
ambito. Rete e collaborazione sono le parole d’ordine ma anche ambiente. Grazie
alla collaborazione con una Onlus di Racconigi, l’azienda Lo Puy si è potuta
permettere i pannelli fotovoltaici. Questo ha favorito, oltre alla tutela
ambientale, un ottimo rapporto tra produttori e clienti. Il tutto fa parte di
un quadro che fa rima con impegno e anche con sobrietà.

Lasciando Borgata Podio l’impressione è che qui si
respiri un’aria di crescita, non quella del consumo ma quella dell’uomo, al
centro della sua vita in un paradigma «consapevole».

Gabriella Mancini




Decrescita 5: Cliente chiama produttore

Strumenti/ I gruppi di acquisto solidale
I gruppi di acquisto nascono da una consapevolezza e
criticità nei consumi. Puntano a maggiore tutela ambientale e appoggio a
filiere agropastorali. Consumatore e produttore condividono decisioni sul
prodotto finale. Intanto la rete organizzativa è in continuo miglioramento. Ce
ne parla l’esperto Andrea Saroldi.

A raccontarci in maniera chiara ed esaustiva come funzionano
i Gruppi di acquisto solidale (Gas) è Andrea Saroldi, di professione impiegato,
che da anni se ne occupa in modo proattivo. «Intoo al 1994, insieme ad alcuni
amici avevo fondato un gruppo dal nome Cocorico (Consumatori, coscienti,
riciclanti, compatibili): persone attente a scambiarsi le informazioni su come
praticare uno stile di vita più rispettoso, un modo di consumare più
consapevole e compatibile con l’etica e nei confronti dell’ambiente. In questo
contesto abbiamo conosciuto i primi Gas, allora nascenti.  La prima rete nazionale dei Gas è nata nel
1997. Oggi, 2013, i Gas censiti in Italia sono circa 1.000, quelli effettivi
almeno il doppio, il che significa almeno 200.000 persone coinvolte insieme a
diverse migliaia di produttori. Una volta all’anno è organizzato un convegno a
loro dedicato in cui esperienze, evoluzioni e prospettive si incontrano e si
confrontano». 

Come e in che misura rientrano i Gas nell’ambito della
decrescita?

«Nel 1994 il concetto di “decrescita” non era ancora
diffuso e sicuramente non si poneva come orientamento. Si parlava di sobrietà e
di comportamenti equi e solidali. L’attuazione dei Gas confluisce naturalmente
in quello che è il pensiero portante della decrescita. Le idee e le motivazioni
sono le stesse; fanno riferimento a un pensiero ecologico derivante dagli anni
’70 e alla consapevolezza che una dimensione dello sviluppo così come oggi
attuata non può funzionare. I pensieri di fondo sono gli stessi ma i Gas hanno
un taglio più organizzativo e pratico».

Qual è il meccanismo che fa funzionare i Gas?

«Il meccanismo di base è semplice: alcuni cittadini si
organizzano a livello volontario per acquistare dal produttore della stessa
zona, senza passare attraverso l’intermediario commerciale. Il produttore manda
un listino di prodotti a cui segue un ordine complessivo e la spedizione della
merce. Ciò che si verifica è il rapporto a tu per tu tra cliente e produttore».

Quali sono gli articoli che si acquistano principalmente
all’interno di un Gas?

«Si inizia con le cose più semplici: prodotti alimentari
a lunga conservazione, a seguire prodotti freschi, detersivi per la casa,
articoli tessili fino ad arrivare all’acquisto delle energie alternative. Oggi
i Gas si sono evoluti nella direzione di un miglioramento della propria rete
organizzativa che, nell’ottica di una maggior tutela ambientale, appoggia la
filiera agroalimentare e, di comune accordo con il produttore, prende decisioni
sia sul “cosa” sia sul “come” coltivare. È un fenomeno innovativo che apre una
finestra sul domani: non più consumatori alla mercè dei produttori e dei
distributori ma consumatori critici e partecipi».

Quali sono le motivazioni che spingono
le persone ad avvicinarsi a un Gruppo di acquisto solidale. Si può evidenziare
anche una convenienza economica?

«I primi Gas nascevano soprattutto nella testa e poi
nelle azioni di persone impegnate a livello sociale, ambientale ed etico. Oggi
c’è meno intellettualismo ma molta volontà di esser consapevoli e di mangiar
sano e gustoso, scegliendo i prodotti giusti. Trasversale a ogni epoca c’è il
desiderio di fare aggregazione (in particolar modo a livello metropolitano), di
consumare con criticità, di instaurare un rapporto diretto tra produttore e
consumatore, di essere protagonisti delle proprie scelte alimentari e non. Per
quantificare il risparmio economico sui prodotti acquistati bisogna prima
considerare l’alto livello qualitativo dei prodotti trattati. In generale la
convenienza economica è assicurata per quel che concee il settore biologico
ed energetico. Nel caso del biologico, ad esempio, c’è un risparmio del 40%.
Inoltre, un prodotto acquistato tramite canali commerciali tradizionali passa
attraverso parecchi intermediari, mentre, nel caso dei Gas, la distribuzione
diretta aiuta nel poter concordare prezzi favorevoli. Il
discorso economico non è mai comunque il fattore determinante di chi decide di
avvicinarsi ai Gas.
Alla base delle scelte personali c’è sempre un anelito al buen vivir,
viver bene e meglio».

 


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Breve trattato sulla decrescita serena, Serge Latouche
(Bollati Boringhieri, 2008)
La scommessa della decrescita, Serge Latouche (Feltrinelli, 2009)
Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie
sulla decrescita
, Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2012)
Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta
reale
, Tim Jackson (Edizioni Ambiente, 2011)
La decrescita felice. La qualità della vita non
dipende dal Pil
, Maurizio Pallante (Edizioni per la decrescita felice)
Meno è meglio. Decrescere per progredire, Maurizio
Pallante (Bruno Mondadori, 2011) 

SITI

www.retegas.it Rete nazionale dei gruppi di acquisto
solidale
www.unisf.it Università del saper fare
www.decrescitafelice.it Sito del Mdf
www.cohousingnumerozero.org Co-housing nunero zero
www.mdftorino.it Circolo di Torino della Mdf
www.beacon.it/wordpress/sabrco-gas Cronistoria Gas
www.retecosol.org Rete di economia solidale
www.ilcambiamento.it
http://scollocamento.ilcambiamento.it


HANNO CONTRIBUITO A QUESTO DOSSIER

Gabriella Mancini, torinese, giornalista e script editor,
da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.
Luca Cecchetto, torinese, sistemista informatico. Si
occupa di questioni relative alla decrescita. È il marito di Gabriella.
Foto di: Co-housing «numero zero», Marta e Giorgio di Lo
Puy, Gabriella Mancini.
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.

 

Gabriella Mancini