Da Zaire a RD Congo  Cronostoria (Do/Rd Congo 2)

1960, 30 giugno. La colonia Congo Belga diventa Congo, nazione
indipendente. Ne è presidente Kasavubu, primo ministro Patrice Lumumba e capo
di stato maggiore Joseph Désiré Mobutu. L’11 luglio Moise Tshombe dichiara la
secessione del Katanga.

1961, 18 gennaio. Assassinio di Lumumba. Due anni dopo, le forze delle
Nazioni Unite sconfiggono i secessionisti della ricca regione del Katanga, che
si chiamerà Shaba.

1964, gennaio. I guerrieri simba di Mulele occupano il Nordest
del paese; fra i militanti c’è Laurent Désiré Kabila. Ma l’avventura fallisce:
Mulele è fucilato e Kabila fugge.

1966, 6 gennaio. Deposto con un golpe Kasavubu, Mobutu assume pieni
poteri, e nel 1967 instaura un regime a partito unico (Movimento popolare
rivoluzionario). Il 30 ottobre 1970 Mobutu, unico candidato in lizza, diventa
presidente.

1971, 21 ottobre. Il Congo diventa Zaire. Sull’onda dell’«autenticità»,
Mobutu rinnega il proprio nome cristiano, sostituendolo con Sese Seko.

1975-1990. Tempo di corruzione, mentre il presidente dittatore si
arricchisce. Sono pure anni di guerra e repressione: nel 1977 scoppia il
conflitto dello Shaba, nel quale intervengono Francia e Marocco; nel 1978 un massacro
di europei nello Shaba richiama i parà francesi; l’11 maggio 1990 a Lubumbashi
cadono decine di universitari.

1991, 7 agosto. Mobutu, costretto al multipartitismo, subisce la
Conferenza nazionale, presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo, deputata a
scrivere una nuova Costituzione. Il 2 ottobre Etienne Tshisekedi, capo
dell’opposizione, è primo ministro; il giorno 10 viene destituito. Belgi e
francesi, vista la resistenza di Mobutu alla democrazia, interrompono (a
parole) la cooperazione militare e civile.

1992, 15 agosto. La Conferenza nazionale nomina Tshisekedi primo ministro
di un governo unitario «ombra». Il 6 dicembre nasce il Consiglio della
repubblica, sempre per redigere la Costituzione; lo presiede mons. Monsengwo.

1993-95.
Saccheggi di militari non pagati, diatribe fra Mobutu e Tshisekedi. È disastro
economico. La gente ha esaurito ogni sopportazione. Intanto, nel luglio 1994,
circa due milioni di profughi rwandesi si accampano nello Zaire.

>  1996, Febbraio. Poiché lo Zaire è allo sfascio, il «leopardo» (Mobutu) è
costretto a promettere libere elezioni. Ma in ottobre l’Alleanza delle forze
democratiche, capitanate da Kabila e sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda,
Stati Uniti e da mercenari vari, inizia da Uvira la conquista militare della
nazione. Sono i Banyamulenge, ossia Tutsi del Rwanda e del Burundi
presenti nel paese da due secoli.

1997, 6 gennaio. Mobutu sfida i ribelli: l’integrità territoriale del
paese non si discute. Però i soldati di Kabila avanzano, trovando scarsa
resistenza nelle Forze armate zairesi di Mobutu. Contemporaneamente circa 300
mila profughi hutu ritornano in Rwanda fra indicibili sofferenze.
17 maggio. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri, le
truppe dell’Alleanza entrano vittoriose a Kinshasa. Kabila si autoproclama capo
dello stato. Dallo Zaire si passa alla Repubblica democratica del Congo.
Vietate le attività dei partiti.
16 giugno.
Organismi umanitari sostengono che i soldati di Kabila, durante la conquista
del paese, abbiano sistematicamente massacrato numerosi profughi rwandesi.
7 settembre. Mobutu,
con un cancro alla prostata, muore in Marocco: lascia ai famigliari
(all’estero) un’eredità di 6 miliardi di dollari. Ha tenuto in pugno lo Zaire
per 32 anni, indebitandolo per 14 miliardi di dollari. Kabila sarà migliore?

1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita
a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo
(la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e
Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle sue risorse agricole
e minerarie.

1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in
Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal
paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia.
Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per
l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a
Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che, se il paese verrà diviso
(come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco»,
firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla
periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I
combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la
cattedrale: mille morti, migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in
balia della fame e delle epidemie.
17 giugno. Il
Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e
il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

2001, gennaio. Il presidente Laurent-Désiré Kabila, 62 anni, è
assassinato da una delle sue guardie del corpo (secondo la versione ufficiale).
Dieci giorni dopo, Joseph Kabila, non ancora trentenne, succede al padre. Febbraio:
Joseph Kabila incontra il presidente rwandese Paul Kagame a Washington (Uganda,
Rwanda e le forze ribelli accettano di ritirare le loro truppe dalla linea del
fronte). Maggio: l’agenzia Onu per i rifugiati dice che la guerra, dal
1998, ha ucciso 2,5 milioni di persone. Ottobre: inizia ad Addis Abeba
(Etiopia) il dialogo intercongolese; l’Onu dispiega i primi caschi blu (Monuc).

2002, gennaio. Un’eruzione del vulcano Nyiaragono devasta gran parte
della città di Goma (nell’Est del paese). Dopo due pre-accordi, nei colloqui di
pace in Sudafrica (aprile e luglio) si stabilisce che gli eserciti di Rwanda e
Uganda si ritirino dal territorio congolese; si decide anche il disimpegno
delle truppe di Zimbabwe e Angola. Settembre-ottobre: Uganda e Rwanda
dichiarano di aver ritirato gran parte delle loro truppe dal paese. Dicembre:
a Pretoria è firmato un accordo globale e inclusivo, che prevede due anni di
transizione alla democrazia e, alla fine, elezioni presidenziali e legislative.
Continuano i combattimenti nella regione di Uvira tra i guerriglieri Mayi-Mayi
e le truppe ruandesi. La Monuc schiera 8.700 caschi blu.

2003, aprile. Prende il via il processo di transizione con governo
(presieduto da Kabila con 4 vicepresidenti) e parlamento; è creato un Comitato
internazionale di accompagnamento alla transizione (Ciat); inizia il processo
di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita dei combattenti (i morti
della guerra sono saliti a oltre 3 milioni, in gran parte civili). Maggio:
le ultime truppe ugandesi lasciano il Congo. Luglio: gli effettivi della
Monuc sono 10.800; i leader dei principali ex gruppi ribelli giurano come
vicepresidenti del paese. Agosto: inaugurato il parlamento ad interim. Fine
anno
: i donatori inteazionali, riuniti a Parigi, promettono 3,9 miliardi
di dollari per la ricostruzione.

2004, gennaio-giugno. Inizia la formazione della prima brigata dell’esercito
nazionale integrato. Marzo: fallisce un colpo di stato attribuito a
mobutisti. Giugno: uomini della guardia presidenziale tentano di
rovesciare Kabila; militari Banyamulenge, con il supporto di truppe di
Laurent Nkunda (generale tutsi congolese), occupano la città di Bukavu per una
settimana; la Monuc (16.000 uomini) è contestata per non aver saputo difendere
Bukavu; un rapporto Onu afferma che «il Rwanda destabilizza l’Rd Congo», ma
Kigali rigetta l’accusa.

2005, maggio. Il parlamento adotta la nuova Costituzione. Settembre:
l’Uganda afferma che potrebbe rientrare nell’Rd Congo per inseguire i ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), gruppo ribelle guidato da Joseph
Kony. Dicembre: la nuova Costituzione, già approvata dal parlamento,
supera la prova del referendum.

2006, febbraio. La nuova Costituzione entra in vigore; è adottata una
nuova bandiera; decine di migliaia di donne e ragazze vengono stuprate
dall’esercito e dalle milizie. Luglio: dalle elezioni politiche e
presidenziali (le prime libere in 40 anni) non esce alcun chiaro vincitore:
Joseph Kabila e il candidato dell’opposizione Jean-Pierre Bemba si contendono
il secondo tuo a fine ottobre; forze leali ai due candidati si scontrano
nella capitale. Novembre: Kabila è dichiarato vincitore del secondo
tuo. Dicembre: le forze del generale Laurent Nkunda si scontrano con
l’esercito regolare (sostenuto dalle forze dell’Onu) nel Nord Kivu (50mila
persone costrette a fuggire).

2007, marzo. Nuovi scontri a Kinshasa tra truppe governative e
soldati leali a Bemba. Aprile: Rd Congo, Rwanda e Burundi rilanciano la
Comunità economica delle nazioni dei Grandi Laghi (nell’acronimo francese:
Cepgl); Bemba parte per il Portogallo, dopo essersi rifugiato per tre settimane
nell’ambasciata sudafricana; Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è
assassinato (è il terzo giornalista ucciso nell’Rd Congo dal 2005). Agosto:
Uganda e Rd Congo dicono di volere allentare le tensioni dovute a una disputa
sui confini; aumenta il numero dei rifugiati e sfollati nel Nord Kivu, a causa
della instabilità dovuta alle operazioni del generale dissidente Nkunda. Settembre:
scoppia un’epidemia di ebola.

2008, gennaio. Il governo e le milizie dei ribelli firmano un patto per
porre fine al conflitto nell’Est del paese. Aprile: scontri tra
l’esercito regolare e le milizie hutu (rwandesi). Agosto: nuovi scontri
tra esercito e soldati di Nkunda. Ottobre: le truppe ribelli catturano
la base di Rumangabo; gli scontri si intensificano; l’avanzare delle forze di
Nkunda crea il caos a Goma; le forze dell’Onu ingaggiano scontri diretti con le
forze ribelli, a sostegno dell’esercito regolare. Novembre: nuovo
attacco dei ribelli di Laurent Nkunda; il Consiglio di sicurezza dell’Onu
approva l’aumento temporaneo delle truppe Monuc. Dicembre: operazione
congiunta di Uganda, Sud Sudan e Rd Congo contro le basi dell’Lra nel Nordest
del paese, centinaia di civili uccisi durante gli scontri.

2009, gennaio. Offensiva congiunta (Rd Congo e Rwanda) contro le forze
di Nkunda; Nkunda è arrestato in Rwanda e rimpiazzato da Bosco Ntaganda. Aprile:
riemergono le milizie hutu nell’Est, causando la fuga di decine di migliaia di
persone. Maggio: Kabila concede l’amnistia ai vari gruppi armati, come
tentativo di terminare la guerra. Giugno: la Corte penale internazionale
cita in tribunale l’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba per crimini di guerra;
ammutinamenti di truppe regolari nell’Est per mancanza di paga. Luglio:
una corte svizzera restituisce i conti bancari (congelati) di Mobutu Sese Seko
alla famiglia. Dicembre: l’Onu estende il mandato della Monuc di 5 mesi.

2010, maggio. Il governo preme per il ritiro delle forze dell’Onu. Giugno:
il Consiglio di sicurezza modifica il mandato della Monuc e, avviando una
riduzione del personale, lo proroga fino al 30 giugno 2011. 30 giugno:
celebrazioni per il 50° anniversario dell’indipendenza. Luglio:
offensiva anti-ribelli dell’esercito nel Kivu; creata la nuova commissione
elettorale per preparare le elezioni del 2011; «Operazione Rwenzori» contro i
ribelli filo-ugandesi nel Nord Kivu. Novembre: stupri sistematici
durante le espulsioni in massa di immigrati illegali dall’Angola verso l’Rd
Congo; l’ex vicepresidente dell’Rd Congo, Jean-Pierre Bemba è condotto davanti
alla Corte internazionale dell’Aia; il Club di Parigi cancella metà del debito
estero dell’Rd Congo.

2011, gennaio. Viene cambiata la costituzione. Febbraio: una
corte condanna il colonnello Kibibi Mutware a 20 anni di carcere per stupri di
massa nelle zone orientali del paese. Maggio: il ribelle hutu Ignace
Murwanashyaka è portato davanti a un tribunale in Germania. Luglio: il
colonnello Nyiragire Kulimushi, accusato di aver ordinato stupri di massa
nell’Est del paese, si consegna alle autorità. Settembre: il leader
delle milizie Mai Mai, Gideon Muanga, fugge dalla prigione con 1.000 detenuti. Novembre:
elezioni presidenziali, Kabila ottiene un nuovo mandato.

2012, maggio. Le Nazioni Unite accusano il Rwanda di addestrare
ribelli nell’Est dell’Rd Congo. Luglio: il «signore della guerra» Thomas
Lubanga è condannato dalla Corte penale internazionale. Ottobre: il
Consiglio di sicurezza dell’Onu annuncia l’intenzione di imporre sanzioni
contro i leader del Movimento ribelle 23 Marzo (M23) e contro i violatori
dell’embargo delle armi contro l’Rd Congo; una commissione Onu rivela che
Rwanda e Uganda foiscono l’M23 di armi e supporto logistico.

>  2013, febbraio. In Etiopia firmato un accordo per porre fine al
conflitto nell’Rd Congo; il gruppo ribelle M23 dichiara il cessate il fuoco
alla vigilia dell’accordo. Marzo: il supposto fondatore di M23, Bosco
Ntaganda, si arrende all’ambasciata rwandese ed è trasferito alla Corte penale
internazionale dell’Aia. Agosto: le forze dell’Onu liberano 82 bambini
soldato, arruolati a forza dalla milizia Mai-Mai Bakata-Katanga; intensi
scontri armati tra l’esercito e le milizie del M23. Settembre: oltre 550
bambini lasciano le file dei gruppi armati in Katanga, liberati dalle forze
dell’Onu.

(fonte: MC e
Nigrizia)

 
 
 
tags: Rd Congo, guerra, instabilità, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, M23, Rwanda, Uganda, Lumumba
 
 
 
 
RD Congo

Superficie:
2.345.409 kmq. Capitale: Kinshasa.
Abitanti
: 72
milioni.
Speranza di vita
:
52 anni.
Adulti alfabetizzati
:
67%.
Crescita demografica
:
3%.
Lingua
: francese
(ufficiale); inoltre: swahili, lingala, chiluba, kikongo.
Ordinamento dello
stato
: repubblica semipresidenziale con Joseph Kabila presidente, al
secondo mandato (novembre 2011).

Risorse economiche:
ingenti sia nel settore agricolo (mais, manioca, patate, arachidi, riso, caffè,
ecc.) sia in quello minerario (rame, stagno, petrolio, argento, diamanti,
ecc.). Ma le infrastrutture (specie le strade) sono quasi tutte in stato di
collasso. Cospicue risorse sono sfruttate da compagnie straniere: Lonrho,
Anglo-American e De Beers (sudafricane), Cluff Resources (inglese), American
Mineral Fields (statunitense), Barrick Gold e Lundin Group (canadesi), ecc.

Religione:
cattolici 48%, protestanti 29%. Seguono le religioni tradizionali e l’islam
(1,4%).

Tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, Uganda, Rwanda, Lumumba, M23, sfruttamento minerario, violenze, massacri

MC e Nigrizia




Malindi paradise! Per Chi? (1)

Turismo: l’ultima spiaggia dell’eterna giovinezza
In collaborazione tra la redazione di Out of Italy e di MC – Foto  Stefano Labate


«Out of
Italy» – Gli Italiani in Kenya

In Kenya vive una numerosa comunità italiana.
Probabilmente più di tremila persone, visto che tale è il numero necessario per
costituire i Comites (Comitati per gli Italiani residenti all’estero). La comunità è variegata. Oltre a missionari e
missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci sono gli Italiani nati in
Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la
guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la prigionia, trovarono
lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi»
italiani, un tempo così alto da avere una propria parrocchia italiana con sede
a Nairobi sotto la responsabilità dei missionari della Consolata, oggi è molto
ridotto anche per semplici ragioni anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con
le grandi compagnie industriali italiane come Agip, Alitalia, Impresit e altre,
e si sono stabiliti nel paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e nei
servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e dei vari organismi
inteazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite per
l’Ambiente. Questo personale è in continuo cambiamento e movimento. Non mancano
dei pensionati che si ritirano in Kenya per passare gli ultimi anni della loro
vita in un clima mite come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche,
purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite dalla giustizia italiana e
discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro prosperano
anche i cacciatori di fortuna, gli amanti dell’avventura, gli impresari senza
scrupoli, gli approfittatori, i mafiosi…

A Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una
nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di lungo corso,
ci sono i nuovi arrivati, come quelli che decidono di provare a investire nel
paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i
turisti: quelli che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti di amici
residenti, quelli che vanno nei villaggi vacanze coi viaggi organizzati che
promettono mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e quelli che sbarcano
alla ricerca della vacanza esotica e magari trasgressiva. Una comunità
variegata.

Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono
la presenza di mafiosi e investitori senza scrupoli, hanno fondato una decina
di anni fa il periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa»,
una rivista di 48 pagine a colori che viene pubblicata senza una cadenza troppo
fissa.

Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai
ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’ vecchia maniera e attaccato ai
valori di un tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autornironia. Da alcuni
anni è un attivo membro del Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il
registro degli italiani residenti all’estero) e collabora col consolato di
Malindi per risolvere i problemi di tanti connazionali, turisti e non.

In questo dossier a molte mani, riprendiamo, e
integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy» che stigmatizzano uno dei tratti
più negativi della presenza europea sulla costa del Kenya: il turismo sessuale.
In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un po’ in
autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare
l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che
umiliano il nome del nostro paese, gli autori mettono a nudo una triste realtà.
Pur non condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere
come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya.

Redazione MC


La voce degli onesti


Non solo faccendieri (sulla
costa est)


Chi
sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un
vecchio italiano ci presenta il suo punto di vista, appassionato e anche
orgoglioso. La voce di uno che vive sulla costa keniana da oltre 30 anni e ha
forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e degrado che
attanaglia anche il nostro paese.

Sono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e
discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni
irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non
ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti tra loro, conflitti da cui
i contendenti escono sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non annoverano nei
loro libri paga poliziotti e giudici corrotti.

Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando lavoro a
migliaia di persone e alle loro famiglie. Sono loro che aiutano, senza
ostentazione, la popolazione locale alla quale mettono a disposizione
opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi.

Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni
a connazionali sprovveduti. Hanno investito qui il proprio denaro e i propri
risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato
riposo dopo una vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con
varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai
assunto un carattere squisitamente italiano.

Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano
vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza,
per la fantasia, e per l’eclettismo che ci sono da sempre peculiari.


Cosa sarebbe Malindi senza di loro? La più diretta
risposta la riceviamo dalla popolazione locale: «No Italians, no Malindi».
Ed è una semplice verità.

Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare notizia
di altri comportamenti che offendono la nostra dignità nazionale, siamo ben
consapevoli che le prime vittime di queste immagini deleterie e sventurate sono
proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire
impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva.

Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei giudizi
approssimativi – spesso anche indebitamente malevoli – sa bene che nell’Italia
malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri
senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e quello degli
italiani onesti che hanno il solo torto di non fare notizia.

Ma quanto valgono l’onestà e l’etica? Un giusto criterio di misurazione non può prescindere
dalle condizioni dell’ambiente in cui questi valori si esprimono. È certamente
meno difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in
un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto spesso
addirittura gratificata.

Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge
il vero eroismo.

Franco
Nofori



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Out of Italy e MC




Malindi padadise! Per chi? (2)

Incontri ravvicinati con
ragazze locali
Vivere l’ultima giovinezza
Sono
forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. Il
direttore di «Out of Italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del
turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una
spiegazione. Immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i
rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni
di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di
distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.

Ha dovuto, per l’ennesima volta,
recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni,
e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a
convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.

Il bicchiere di Tusker lo
aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma
che importa? Lui sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è
disposto a sciuparla.

Al tavolo c’è una splendida e
giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi
ammiccanti carichi di prorompente sensualità.

C’è anche un giovane rasta
con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il
merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e
l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato che questa è una
traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore,
ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr).

Si può non essergli riconoscenti?

Siamo onesti. Chi di noi
ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana
mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica
dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure
accorgersi che esistiamo.

È triste, lo so. Soprattutto quando
si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la
loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante,
l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda
questo vecchio porco!».

Lui, l’anziano, non ha neanche la
possibilità di sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo
non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al
poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei – almeno tra quelli
che soffrono della stessa patologia – e lì, tra loro, sfogarsi a dovere
liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più
giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo
nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi
vecchietti!».

È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa
nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che
in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e
di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove
l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso
ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti.

Certo,
lo spettacolo che foiamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così
intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in
Kenya. E si viene qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un
po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non
pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di
tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.

Se la bella «studentessa» nera non cade in totale
deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se
intriso di una certa dose di finzione.

C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto
condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle
panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei
nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate
catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a
scopa e dei «bingo» parrocchiali?

No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da
questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che
ingombranti, inutili fardelli.

Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello
spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa»
ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola
vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.

Smettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in
noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti
non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo
rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o
spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora
non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli,
le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il
nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il
nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici.

Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio,
abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei
si è innamorata perdutamente di noi, allora abbiamo scatenato un vero disastro.
Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait
della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la
stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un
carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo
schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli
veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un
senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella
vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che
spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che
credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e
disperatamente, soli.

Dico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli
ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come
consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi
epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto
uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e
cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta
anche la libertà e la stessa vita.

Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso
fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho
viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove,
anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste
insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli
dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano
di costruirsi una nuova, romantica esistenza.

Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste
irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro
permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni
maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano
la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con
pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!

Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano
d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della
lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno
(compagna) di cui hanno piena e incondizionata fiducia?

E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e
la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora,
la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi
distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.

A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E
quando essi finiscono, finisce tutto.

Ecco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli
della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una
giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.

È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel
briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.

Franco Nofori

 

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Franco Nofori




Malindi padadise! Per chi? (3) 

1. Turismo sessuale, mercato senza frontiere
2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi

3. La diocesi di Malindi contro prostituzione, pedofilia e traffico di persone
4. Per un sorriso: discriminazioni stradali

1. Turismo sessuale, mercato
senza frontiere


Wanja, le altre e gli altri

Il
turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25%
del Pil. Lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle
tradizioni tribali attirano turisti da tutto il mondo. Richiamano grandi
investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti
negativi. Uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera
nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione
alimentata dai facili guadagni. Coinvolgendo anche i minori, sia bambine che
bambini.

A differenza della maggior parte delle ragazze della sua
età, la ventiquattrenne Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come
segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i fine
settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti
che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre crescente di vacanzieri
visita il Kenya specificatamente per sesso, specialmente nelle città costiere
(Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi).

La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età compresa
tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di
riaccendere le loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti con
adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat –
l’organizzazione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
minori – sfata anche alcuni luoghi comuni: soltanto una minima parte dei
turisti sessuali sono patologici, la maggior parte di essi è semplicemente in
cerca di nuove emozioni, approfittando delle situazioni.

Come in molti paesi asiatici e latinoamericani, anche in
Kenya il sesso con minori, sia bambine che bambini, è molto richiesto. Secondo
varie statistiche, sulla costa del paese africano oltre il 30% degli
adolescenti sono coinvolti in modo saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10%
delle ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12 anni. Oltre il 35,5% degli
atti sessuali tra minori e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi.

Se i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti
sono però sotto gli occhi di tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario
comboniano, che ha avviato case per i bambini di strada a Nairobi, ha
raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo la costa nord di Mombasa,
normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della forte presenza di
turisti da quel paese. Era marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo
pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere una birra fresca e siamo stati
colpiti dalle strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi anziani con
ragazze molto giovani o ragazzi adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi
che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro nipoti. Nel giro di poco
tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di
ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere».

Il turismo del sesso si è strutturato in una rete
complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere,
club, bar, sale di massaggio, parrucchieri.

Robert Nyagah, ex giornalista,
oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i
turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come
differenziare una ragazza giovane che sta cercando un compagno per la vita
(turista o no) da una prostituta?».

Eppure, il fascino del turismo del
sesso è reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando
sempre più ragazze – anche sposate – sulla strada della prostituzione. Ci sono
casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per strada «a
offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va
aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è
già in età da matrimonio. La gente locale non capisce quindi dove stia il
problema.

Il commercio non è limitato alle ragazze: anche i
ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti giovani (la maggior parte dei
quali ha interrotto la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite stringendo
amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per
attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni che cercano sesso,
principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate dal mito
della potenza sessuale del maschio africano e arrivano promettendo ai giovani
keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi.

Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche una
prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano
le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in realtà vogliono reclutarle
per l’industria del sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e costrette ad
avere rapporti con clienti sotto la supervisione dei loro «datori di lavoro».

Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il
turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche.
Troppi sono i soldi in gioco.

redazione MC

* Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in
Kenya», pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight against
child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin news, 28 aprile 2011 e da
www.ecpat.net.

2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi


Ammaliatrici ammaliate

Storie
di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di Malindi. Donne di una certa età
in cerca di compagni più giovani. Il fenomeno è più esteso di quanto si
immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. La scrivente, pur
non facendo cenno al punto di vista della popolazione locale, biasima senza
mezzi termini le «turiste» in questione. L’«amara tenerezza» che prova per
quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine
di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del
nostro mondo.

Ho lasciato il Kenya 13 anni fa eppure ogni volta che ci
too continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore» che vi si intrecciano
e da come questi travolgenti sentimenti – che lì sembrano travolgere più che
altrove – si manifestino in immagini concrete, non del tutto edificanti, né di
buon gusto.

È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano
che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano
perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono
si direbbe proprio di sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto sbalorditiva.

Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in
particolare verso le appartenenti al mio stesso sesso. Signore eleganti, spesso
facoltose, che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli
anni e si attaccano con i denti e con le unghie a stagioni definitivamente
perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come
donne fatali, come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»:
spietate ammaliatrici che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla
totale rovina.

Naturalmente quegli uomini più che ingenui erano deboli
e psicolabili. Incapaci di governare gli istinti e di ordinare con
responsabilità la scala dei propri valori di riferimento.

Oggi pare che un folto numero della versione odiea di
quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono
curiosamente invertiti. Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a
essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava
nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e generoso, dottore della
Cittadella di Cronin?

Macché! Il loro moderno ammaliatore è un beach boy,
rasta semianalfabeta che si esprime in un idioma raffazzonato, compendio di
diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul
bagnasciuga delle candide spiagge coralline.

Lui promette amore imperituro e le inonda di rancidi
effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa risplendere pettorali e bicipiti
e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e vanificata dal
caldo e dal sudore.

Dov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile?
Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura? La donna matura,
la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il
trascorrere del tempo e l’esperienza di vita hanno via via valorizzato. Perché
giocarsi tutto nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto
d’ora di spasimo professionalmente provocato?

È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce
come «l’unimento spirituale de l’anima e della persona amata»?

Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal ruolo che
una imperturbabile natura continua comunque ad assegnare loro, in fondo
suscitano una sorta di amara tenerezza.

Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e
dell’emancipazione della donna. Hanno pensato che quell’emancipazione, oltre a
restituire loro i diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la
gioventù perduta.

E questa è forse la più triste delle illusioni.
Monica

3. La diocesi di Malindi


Contro prostituzione,
pedofilia e traffico di persone

Pedofilia,
prostituzione e traffico di esseri umani sono problematiche presenti nella
diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento
del governo. Noi, come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad esempio nessuno
straniero può visitare o fare delle foto nelle nostre scuole senza permesso.

Per il problema della pedofilia la diocesi ha un «Ufficio
per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono
segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta.

Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe
trovare un’alternativa appetibile per le persone coinvolte, al fine di
toglierle dalla strada. Molte prostitute arrivano dall’interno del paese
proprio per fare quello e guadagnare denaro alla svelta.

Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i
bambini delle nostre scuole che l’educazione è importante per il loro futuro.
Loro vedono che quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a trovare un
lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite
migliori.

A
livello operativo la diocesi di Malindi ha messo in campo programmi nei vari
settori: educazione, micro finanza, dialogo e azione, genere e gioventù. Il
settore educazione è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno stile di vita
responsabile fin dalla tenera età. In particolare parliamo loro di
autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e altre
malattie.

Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un
approccio globale di protezione dell’infanzia.
Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è
importante.
Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le
famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di
prostituzione.
Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per
mettere in guardia sui problemi del matrimonio precoce.
Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non solo i
nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la
gioventù».

padre Ambrose Muli
parroco della cattedrale di Malindi

4. Per un sorriso: discriminazioni stradali


Occhio al poliziotto

Il
Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli
italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti
sulla costa del Kenya che lamentano una disparità di trattamento tra loro e gli
autoctoni per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a quelle conceenti
la circolazione su strada.

«Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta,
senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi,
parcheggiano dove pare a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile… Tutto
sotto lo sguardo indifferente della polizia, ma se noi commettiamo anche la più
piccola di queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le manette e le
estenuanti comparizioni in corte. Questa non si chiama discriminazione?».

Sì.
Dovremmo chiamarla proprio così e non si tratta di una gran rivelazione perché
l’esercizio di queste differenze è quotidianamente sotto gli occhi di tutti.

Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi):
nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due,
se non tre, spremuti come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a
condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però,
che la polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche volta ferma anche loro e
applica una modesta tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente rapportata
alle loro tasche. È ovvio che, quando l’infrazione è commessa da un «viso
pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene molto più
rigoroso, ma non direi che si tratta di vera e propria discriminazione basata
sul colore della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al
portafoglio del trasgressore.

Come
possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e
neri, incontrino gli stessi rigori della legge. Sarebbe giusto, ma anche
estremamente faticoso e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più spesso
infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa più semplice e indolore:
rispettare le regole e non metterci dalla parte del torto?

Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa franca
infrangendo la legge, autorizza gli altri a fare impunemente altrettanto.

Artemide
(un italiano in Kenya dagli anni Sessanta)

Redazione MC e Out of Italy




Malindi paradise! Per chi? (4)

In un groviglio di contraddizioni


Un altro turismo è possibile


Malindi
è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e
acqua limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del
commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. Abitata
da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina
cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto italiani e
tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le
tribù vi si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della
grande torta.

Ricordo bene una statistica: ogni giorno-turista equivale
a un giorno-lavoro per un keniano. Più turisti ci sono, più gente lavora.
Niente turisti, niente lavoro. è
una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo
vacilla a causa di disordini, attentati terroristici o gravi eventi inteazionali.

Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di
ogni programma governativo. Malindi, in tale contesto, offre incentivi di
prim’ordine: alle splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo
Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a
iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e a una serie di
servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che,
appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere, coinvolge i visitatori nel sostegno
a progetti di sviluppo in favore della parte più povera della popolazione
locale: scuole, dispensari, centri per bambini abbandonati e denutriti,
esperienze pilota con i disabili, e tanto altro.

Anima di questo turismo diverso spesso sono proprio i
nostri connazionali che vivono sulla costa da anni, facendone la loro seconda
patria.

Ma dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di
travalicare, di corrompere, di prendere scorciatornie è sempre molto forte. Così
Malindi attrae solo persone di sani principi e provata onestà. Speculazione
edilizia, corruzione, gioco d’azzardo, pedofilia, prostituzione, escorts
e droga hanno trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono sia i cosiddetti
investitori stranieri (si dice che la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato
per il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese partecipi dei facili
guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova.

Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli
indigeni pensano a rifornire il mercato di «carne fresca». Salvo l’esplosione,
di tanto in tanto, di qualche campagna anticorruzione o moralizzatrice,
soprattutto nella vicinanza di elezioni.

Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un valore
simbolico.

Un medico italiano gode della fresca compagnia di una
fanciulla locale per un mese pagando 100 dollari. Beneficiario della somma: il
padre della ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo stesso padre offre la
seconda figlia, e in seguito la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per
ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato con gli amici?

Una bambina o un bambino di 10-12 anni con una
prestazione o due la settimana guadagna più di suo padre che sgobba dodici ore
al giorno in un cantiere, a pescare o a far da guardiano alle ville dei ricchi.
E la famiglia è «contenta» perché almeno così tutti mangiano.

Una maman ben vestita e piena di soldi, da aprile
in avanti va nei villaggi più remoti in cerca di fanciulle che hanno appena
saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non hanno la
possibilità di continuare gli studi, per offrire loro un «lavoro sicuro sulla
costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi dopo quelle giovani si
trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di
sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro
famiglie.

Una studentessa universitaria, approfittando delle
vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa per pagarsi gli studi: la famiglia
infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non ha più mezzi
per gli altri sette e la tesi finale.

Un giovanotto di belle speranze di una tribù
dell’interno lascia il suo villaggio di campagna dove non ha prospettive e
sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in visibilio il pubblico
con danze autenticamente tradizionali.

Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu
e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta a un ring
di prostituzione.

Di questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta,
ne avrei ancora molti da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati
per dire che quanto scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma un
problema reale e preoccupante sia a livello keniano che internazionale.

La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di
Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa, l’Associazione nazionale delle suore e
diverse Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in Distress – vedi
box), hanno programmi specifici sia per prevenire che per curare e recuperare.

Non è nostra intenzione puntare il dito contro il
turismo in quanto tale. Desideriamo solo che coloro che vanno in vacanza in
Kenya, o sulle sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si rendano conto
della situazione e vedano la realtà con occhi critici. Il turista non va in
vacanza per fare il missionario e vuole qualità corrispondente ai soldi che
paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone
che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di 80
euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di
candidati pronti a prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è
consderato un ricco agli occhi degli indigeni. La maggior parte di loro non può
permetteri una vacanza, tantomeno in Europa.

Prostituzione, pedofilia, traffico di persone, droga,
gioco d’azzardo, corruzione… sono prodotti di importazione. Essi hanno
attecchito bene, certo, ma prosperano perché la domanda è alimentata da un
mondo in cui con i soldi si pensa di potere avere tutto, anche le persone.

Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti
hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia
del bene a tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto reciproco.

Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con gli
occhi aperti e il cuore in mano.

Gigi
Anataloni

SolWoDi

Solidarity with Women in Distress:

Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa
suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa, opera soprattutto con ragazze ad alto
rischio tra i 6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi, Kwale e
Kilifi.

Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha una vita migliore.
Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini
vittime di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle persone a
ritrovare la propria dignità, migliorare il loro stato legale e
socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro
potenzialità umane».

Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle prostitute;
contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione
dei bambini; sostegno economico e football per ragazze.

Contatto: www.solwodi.co.ke

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Gigi Anataloni




Terra di pescatori e migranti (3)

1. Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo
2. 
L’angelo dei rifugiati
Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo

Un quartiere di Catania oggetto di politiche
di risanamento fin dagli anni Venti del Novecento. Un «porto di mare» che da
decenni accoglie l’umanità più emarginata, dalle prostitute alle trans, dai
tossicodipendenti ai migranti, raccontato da chi lo vive, e da chi, come padre
Giuseppe Gliozzo, parroco del Crocifisso della Buona Morte dal ‘72, lì spende
la sua vita per gli altri.


Oggetto
di scellerati piani di sventramento e risanamento dal «degrado», lo storico
quartiere di San Berillo, a Catania, è invece uno straordinario esempio di come
la convivenza con l’altro non solo è possibile, ma è già una realtà. Come
testimonia padre Giuseppe Gliozzo, parroco della chiesa del Crocifisso della
Buona Morte.

Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli
immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici
che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il
periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da
quel momento entrano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi
nelle nostre città.

A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato
ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio
verso Nord: il quartiere di San Berillo.

Berillo, originario di Antiochia, città dell’allora
provincia romana della Siria, avrebbe portato, secondo la tradizione, il
Cristianesimo in Sicilia, divenendo il primo vescovo della città etnea.

Mentre camminiamo per le vie del quartiere, veniamo
fermati da un uomo distinto che ci avverte, con garbata gentilezza e affabilità
tipicamente siciliane: «Qui ci sono le cocotte». Poi ci prende sotto
braccio, con l’intento di allontanarci da quella zona «poco raccomandabile».
Insiste per offrirci un caffè. Ci sediamo al bar di Piazza Beini, davanti al
Teatro Massimo che è in sciopero: «Un paese senza teatro è un paese morto», c’è
scritto sugli striscioni appesi a un coicione.

Scopriamo così, di fronte a un caffè, la storia del
quartiere più centrale e antico di Catania, oggetto di una serie di piani «sventramento»
e «risanamento» sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando la fiorente industria
dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi della demolizione
radicale: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una
urbanizzazione caotica e fittissima, con la stazione e il porto era troppo
angusto per una città che aspirava a diventare la «Milano del Sud». La II
Guerra Mondiale bloccò il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventramento
venne effettivamente realizzato: i 30.000 abitanti furono deportati a San
Leone, che da quel momento diventò San Berillo Nuovo, e del quartiere
originario rimase solo un pezzetto.

In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e
nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arrivati di recente, o quelli
storici come i senegalesi e i tunisini, convivono pacificamente con un’altra
umanità emarginata: nel 1958, anno della Legge Merlin, si riversarono infatti a
San Berillo le prostitute di tutta Italia, trasformando la zona in uno dei
quartieri a luci rosse più importanti del Mediterraneo. Solo nel 2000 fu
affrontata la questione: un blitz della polizia «ripulì» la zona, e le case
furono murate. Restarono solo le trans e le prostitute residenti.

Da qualche tempo si parla di un ennesimo piano di «risanamento».


Un emblema della diversità

Entrando nel quartiere, incontriamo Franchina che vive a
San Berillo dai primi anni ’80 – quando il «reato di travestimento» era ancora
punito con il carcere -. È l’intellettuale della zona, forse la persona che più
ha coscienza della vita e del futuro di San Berillo. «Risanare vuol dire
inserire il quartiere alla città, farlo uguale, identico, dargli la stessa
faccia… mentre questo quartiere è stato sempre diverso dagli altri e sarebbe
giusto lasciarlo così com’è: San Berillo è come l’elefante in piazza Duomo, un
emblema di Catania».

In Piazza delle Belle c’è un’edicola dove il Cristo
dipinto sul muro ha sembianze femminili. «Ci sentiamo rifiutati dalla gente, ma
amati da Dio. La gente non immagina che anche noi possiamo pregare. Ogni
mercoledì ci riuniamo a casa mia, per recitare il rosario», conclude Franchina.

La messa della domenica alla parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, celebrata da Don Giuseppe Gliozzo, è molto
partecipata dalla comunità locale.

Lungo 50 anni di storia

Nel nostro incontro, padre Gliozzo ripercorre i suoi
cinquant’anni di sacerdozio, di cui più di quaranta passati come parroco a San
Berillo.

I primi anni del suo lungo apostolato li trascorre a
Bronte, suo paese natale, nel seminario minore, dove ricopre il ruolo di
assistente spirituale dell’Azione cattolica. «Feci un’esperienza che non
esisteva: far uscire i ragazzi dal seminario». Nel 1970, passa al seminario
maggiore di Catania dove cerca di applicare quella stessa politica: vuole che i
giovani seminaristi vadano a studiare nei licei, che abbiano la possibilità di
conoscere la vita fuori dal seminario.

L’azione di padre Gliozzo suscita però critiche da parte
delle gerarchie ecclesiastiche locali e non solo. «Aizzarono i ragazzi contro
di me; quando mi incontravano, cambiavano strada. Poi fecero una raccolta firme
e fui costretto a lasciare. Di quel gruppo di 150 seminaristi pochi
intrapresero la strada del sacerdozio, e di quelli che continuarono, molti
l’abbandonarono qualche anno più tardi».


Cosa è successo dopo?

«Nel 1972 mi proposero di prendere in mano la parrocchia
del Crocifisso della Buona Morte, così chiamata perché nella zona sorgeva il
vecchio carcere borbonico, dove i condannati a morte, prima di essere
giustiziati, ricevevano la visita di un cappellano che gli porgeva un
crocifisso affinché, baciandolo, ricevessero l’ultima assoluzione. Lo
sventramento del quartiere di San Berillo si era concluso alcuni anni prima del
mio arrivo, e, quando vi fui mandato, trovai il vuoto, perché i vecchi abitanti
erano stati deportati in altre zone. Corso Sicilia tagliava in due la città e i
borghesi insediatisi nella nuova via signorile non interagivano con la
parrocchia. C’erano solo contrabbandieri di sigarette e prostitute. La chiesa
era in dismissione, trasformata in una specie di bisca dove gli uomini si
riunivano a giocare a carte. Con loro misi su un gruppo di preghiera al sabato
sera: sbadigliavano di continuo e mi chiedevano quanto tempo mancasse alla
fine.

Appena arrivato ridussi le messe da sei a tre, poi ne
lasciai solo una, quella della domenica alle 10 del mattino. Nella cappella
adiacente, dedicata a Sant’Agata martire, si celebra la liturgia con rito
ortodosso: ho voluto fare un passo verso chi ha un altro credo. La numerosa
comunità rumena presente a Catania non aveva ancora un luogo di culto. È venuto
anche il patriarca da Bucarest, ed è rimasto sorpreso da questa accoglienza,
visto che in Romania la chiesa cattolica ha fatto fatica a trovare spazi.

Negli anni ’80 abbiamo iniziato a lavorare con i
tossicodipendenti, e sono arrivato a pensare di aprire una comunità. Ne parlai
anche con Don Ciotti, che mi disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”.
Ma io volevo restare aperto a tutti, non volevo limitarmi a una tematica
specifica.

Vedi, qui è sempre stato un porto di mare. Le
prostitute, i trans più anziani del quartiere, venivano da me spontaneamente, e
cominciai a lavorare anche con loro. Non conoscevo ancora la realtà della
prostituzione.

Dal 1990 la parrocchia diventa punto di riferimento di
un gruppo di omosessuali credenti, i “fratelli d’Elpìs”.

Adesso alla nostra messa partecipano anche tante persone
di altri quartieri, che non trovano risposte nelle parrocchie di appartenenza».

Cosa
ispirava la vostra azione?

«Lo spirito del Concilio. Quell’idea dell’Eucarestia per
tutti. Prima le prostitute non si avvicinavano per rispetto: non si sentivano
degne, in quanto peccatrici. Invece è proprio questo senso di indegnità che le
avvicina a Dio.

Abbiamo adottato una pastorale essenziale fondata sulla
gratuità dei Sacramenti, sull’accoglienza e l’attenzione riguardo alle persone
e alle situazioni più diverse».

Ha
conosciuto direttamente la realtà dell’immigrazione?

«Tra il 1988 e il 1989, sono arrivati i primi senegalesi.
Qui, nella nostra casa, ne abbiamo ospitati una trentina. Era una prima
“emergenza”. Poi sensibilizzammo gli abitanti perché affittassero le loro case
agli stranieri, in città o in campagna. Realizzammo la prima festa degli
immigrati. Molti di loro sono andati via quasi subito, mentre quattro sono
rimasti con noi per un po’. Poi abbiamo inserito anche loro al Nord: uno lavora
in un caseificio in Emilia Romagna e mi manda sempre il parmigiano. Ogni tanto
mi scrive: “Prego per te ogni giorno, per quello che hai fatto per me”. Sposato
con un’italiana, è venuto a trovarmi con i figli.

Una comunità musulmana del Senegal mi ha mandato una
lettera in arabo, per ringraziarmi di aver accolto in quegli anni tanti suoi
membri».

Come
vede questi nuovi arrivi, la situazione dei nuovi migranti?

«È una questione delicata che deve essere gestita dalle
istituzioni. Io sono stanco, non me la sento più di stare in prima linea. A noi
spetta preparare agenti moltiplicatori, sensibilizzare la cittadinanza ad
attivarsi, come facemmo quando arrivarono i senegalesi».

Ha
mai pensato di mettere per iscritto la sua esperienza, per farla conoscere di
più?

«No, Gesù non scriveva. Mi piace raccontare e ascoltare
storie. Spesso mi invitano a parlare sul tema delle tossicodipendenze o
dell’omosessualità come esperto. Ma io non ho competenze specifiche. Tutto
quello che so lo devo all’incontro, all’ascolto. Per me non c’è il
“tossicodipendente”, l’“immigrato”, c’è Francesco e c’è Tarik».

Come
immagina la Chiesa del futuro?

«Come una comunità dove la figura del sacerdote non sarà
più necessaria. Una comunità auto-gestita, che si riunisce per leggere e
ascoltare la parola, come accadeva prima della Chiesa-istituzione. Non siamo più
una minoranza, ma occorre una “maggioranza qualificata”. C’è qualcuno che
ancora resiste. I cambiamenti nella Chiesa oggi sono possibili grazie al lavoro
che noi abbiamo iniziato. Siamo andati avanti come esploratori in
perlustrazione, in avanscoperta, siamo stati un’avanguardia che ha aperto e
illuminato il percorso che ora sta emergendo. Non a caso il Papa si è scagliato
contro la politica dei seminari attuali che formano “piccoli mostri”1.
Abbiamo lavorato in silenzio e poi ci siamo messi a guardare, in attesa di
quello che sta succedendo oggi, perché doveva succedere».

Accolti anche senza essere stati invitati

Non ha fatto carriera, padre Gliozzo. Non gli piace
apparire o fare proclami, e non ama le etichette. Anche quella di «prete di
frontiera» lo lascia perplesso.

Preferisce continuare a fare il suo lavoro nell’ombra,
mischiandosi tra la gente, soprattutto tra i poveri, gli afflitti e i
diseredati.

Prima di salutarci, ci mostra le fotografie che
tappezzano le pareti del parlatorio: sono le tappe più significative del suo
lungo sacerdozio, è un viaggio nel tempo, uno scorcio di storia d’Italia,
attraverso i suoi segmenti più emarginati. Fino a quelle più recenti, scattate
nella sua casa di campagna a Bronte, dove c’è pure Franchina, e dove si è
accolti anche senza essere stati invitati.

Note alle pagine 48-51:

1  Cfr.
La civiltà Cattolica, 3/1/2014. Svegliate il mondo. Colloquio di Papa Francesco
con i Superiori generali.

 


L’angelo dei rifugiati

Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

A bba Mussie Zerai, noto anche come «angelo dei
rifugiati», è stato candidato al Nobel per la pace 2015. Eritreo di nascita, è
arrivato in Italia come richiedente asilo nel 1992. Nel nostro paese ha
frequentato l’università e, nel 2010, è stato ordinato sacerdote. Da anni
denuncia le condizioni disumane che i richiedenti asilo affrontano sul loro
cammino. In particolare dei profughi provenienti dal Coo d’Africa. È grazie
alle sue denunce (e a quelle della suora comboniana Azezet Kidane) che l’azione
dei trafficanti di uomini nel Sinai è divenuta di dominio pubblico e, in parte,
è stata affrontata dall’Egitto. Più volte sentito dall’Alto Commissariato
dell’Onu per i rifugiati, nel 2012 è stato ricevuto dall’allora Segretario di
Stato Usa, Hillary Clinton. Oggi vive in Svizzera dove segue le 14 comunità
eritree sparse nei vari cantoni.

Abba Mussie Zerai da dove provengono i
migranti che dalla Libia cercano di partire verso l’Europa?

«Arrivano dall’Africa orientale (Eritrea, Etiopia,
Somalia, Sudan) e dall’Africa occidentale (Mali, Niger, Nigeria, Ghana, Costa
d’Avorio). I primi passano dal Sudan, i secondi dal Niger».

Una volta entrati in Libia dove si spostano?

«Solitamente convergono verso Tripoli per poi tentare di
imbarcarsi verso Lampedusa. Ma non è così scontato che arrivino a Tripoli.
Alcuni gruppi finiscono in Cirenaica (la regione al confine con l’Egitto).
Difficile dire come arrivino laggiù. Di solito però le guide, per evitare i
posti di blocco organizzati dalle milizie, fanno fare giri molto lunghi ai
gruppi di migranti. Alla fine però vengono presi lo stesso dai miliziani».

Chi gestisce il traffico
dell’immigrazione?

«I trafficanti di uomini portano i migranti dal Sudan o
dal Niger in Libia. Qui entrano in contatto con i libici. I libici, uomini
legati alle milizie, prendono i migranti mettendoli in centri di detenzione e
si fanno pagare un migliaio di dollari a persona per rilasciarli. Una volta
rilasciati i migranti possono continuare il viaggio. Ma se sul loro cammino
trovano altre milizie che li imprigionano, sono costretti a pagare di nuovo».

Quanto costa un
viaggio dall’Eritrea a Lampedusa?

«Costa in media 6-7mila dollari. È una cifra consistente
che si può permettere solo chi ha parenti all’estero disposti a pagare per lui.
Chi non ha parenti all’estero si ferma in tappe intermedie (in Sudan e in
Libia) per lavorare e raccogliere il denaro necessario ad affrontare la tappa
successiva. Per chi ha i soldi, il viaggio può durare anche solo un mese. Chi
non ne ha ci può impiegare cinque o sei anni».

In quali condizioni
vengono tenuti i migranti in Libia?

«I migranti vengono stipati in capannoni industriali,
senza luce, acqua corrente, servizi igienici e, soprattutto, senza la
possibilità di uscire. Dopo pochi giorni le persone sono costrette a vivere tra
i loro escrementi, con un caldo insopportabile e senza potersi lavare. I
miliziani poi sono persone crudeli. Per spaventare i migranti sparano in aria,
li percuotono. Le donne sono vittime di violenze sessuali».

La situazione attuale
è peggiore di quella dei tempi di Gheddafi…

«In passato le violenze erano le stesse. L’unico
vantaggio rispetto a oggi era il fatto che esisteva un’autorità costituita e
centri di detenzione statali. Quindi era possibile, in casi particolari,
inviare i commissari dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i
rifugiati) a fare ispezioni. Oggi invece le milizie sono moltissime e chi vuole
aiutare i migranti non hai mai un punto di riferimento. Anche l’attraversata
del mare è durissima. Ai tempi di Gheddafi, i profughi sceglievano di partire
quando volevano e solitamente lo facevano nella stagione migliore. Adesso le
milizie li costringono a partire quando vogliono loro: anche con il mare
tempestoso e in condizioni climatiche terribili. Da qui gli affondamenti e i
molti morti».

Enrico Casale
 

Per seguire Abba Zerai:
http://habeshia.blogspot.it/ voce della Agenzia Habeshia per la Cooperazione
allo Sviluppo (Ahcs) da lui fondata.
Abba Zerai era stato intervistato da MC per il dossier «2014:
Fuga dall’Eritrea», marzo 2014

 

Silvia Zaccaria e Enrico Casale




La nuova via Birmana – 1

Reportage: Myanmar in transizione

Con passi incerti, ma in cammino

 

Sorridere non basta

La transizione birmana verso la democrazia non è facile, ma sembra procedere, garantita dal presidente Thein Sein. Della partita è ormai parte pure l’eroina birmana per eccellenza: Aung San Suu Kyi. Anche lei però non è rimasta immune da critiche, soprattutto rispetto agli scontri etnici e religiosi che, negli ultimi due anni, hanno avuto luogo in varie zone del Myanmar. Un paese che è un mosaico di ben 135 gruppi etnici differenti.

 

 

Sono trascorsi tre anni dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato a intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale. Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi hanno cominciato ad affacciarsi anche le difficoltà e i primi ostacoli.

Accanto a radicati conflitti etnici e a intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw (l’esercito), ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche.

I primi decreti libertari, voluti dal nuovo governo civile di Thein Sein – con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento -, si sono dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni aspettativa. Ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi.

L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto del confronto interno, ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici.

La capacità di adattarsi con elasticità e immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, determinerà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in programma nel 2015, si confronteranno.

 

Gli scontri tra musulmani e buddisti

Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico (vedere mappa a pag. 39, ndr), che ha monopoliato quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti – iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine – si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in altre regioni del paese. Nel conflitto etnico, invece, Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati al clamore delle armi.

In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati duramente criticati dalle organizzazioni inteazionali che si occupano del rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con sufficiente forza le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate» (a pag. 47 del dossier, ndr).

Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che, proprio sulle questioni portate alla luce dai conflitti, si giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar.

Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità islamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si intravedono elementi che possano giustificare tali dichiarazioni (ad esempio, la conservazione di uno status quo che, anche tramite la dittatura, aveva garantito una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del paese possa favorire una precisa corrente politica.

Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale».

L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) stima che vi siano più di 808.000 Rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai residenti nel paese che possono dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché impossibile da dimostrare visto che la maggior parte dei Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da reperire.

Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che possa definirsi tale (e in effetti tra le 135 etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del tutto illegale.

 

Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio compiuto nel maggio 2012, il 70% dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione del regime possa incoraggiare l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli.

I rapporti delle commissioni di inchiesta inteazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a quelle della commissione governativa, voluta dal presidente Thein Sein per investigare sulla situazione del Rakhine. Di essa facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi. Ma nessun Rohingya è stato inserito nella lista.

Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel «rapido incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in contatto tra loro.

La relazione è stata recepita positivamente dal governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013, circa 75.000 Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui non possono allontanarsi, a differenza di quanto accade per i Rakhine, senza un permesso speciale.

Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni inteazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni, cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono detenuti gli attivisti musulmani, hanno parlato di condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (Msf) ha parlato di emergenza umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le violenze contro i Rohingya.

Queste commistioni hanno creato un senso d’insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine.

 

Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti religiosi buddisti è, però, passato inosservato per la maggioranza dei fedeli e non ha impedito che gli scontri si espandessero in gran parte delle province centrali e meridionali del paese.

Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto affronto, attaccavano e incendiavano negozi e case di famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile.

L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel «Movimento 969», un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico e al suo dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal (dove si vende rispettando le norme islamiche, ndr).

Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico.

L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha (la comunità buddista allargata, ndr) buddista birmana a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un cornordinamento che contrastasse questa insofferenza, creando Pray for Myanmar.

 

Guerra e pace nello stato Kachin

Sugli altri fronti, il governo Thein Sein è riuscito, invece, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare con i Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della Kachin Independence Organization (Kio) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013 ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al Kio di intervenire per evitare l’intensificarsi della guerra.

I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitaria. Persino la presenza di Ha Yawnghwe, in quanto direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles (che la Cina considerava alla stregua di una organizzazione non governativa), è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua partecipazione.

La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri inteazionali, specie se legati ai governo occidentali, è dovuta principalmente a due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici che il paese ha nella regione.

I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il Kio ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui agli occhi di Pechino.

Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza per la sua economia.

 

Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang Mai, in Thailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il Kio e il governo di Nay Pyi Taw, hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la continuazione del dialogo su via politica; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti; il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe del Kachin Independence Army (Kia) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del Kio a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali nei successivi colloqui di verifica.

Tutte le tre principali richieste del Kio, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw, il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico, sono state accolte dalla delegazione birmana.

Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. È importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal Kio perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati.

Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il Kio ha più volte denunciato il disinteresse dei politici Bamar nei confronti della situazione nello stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo stesso Thein Sein è stato costretto a intervenire più volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del Kia. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo controllo che il governo centrale possa avere sui vertici militari.

 

I militari: tra vecchio e nuovo corso

La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione.

L’articolo della Costituzione che garantisce ai militari il 25% dei seggi nel parlamento è sempre stato visto come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in cui sono stati chiamati a esprimere il proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione.

La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente».

Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte (che hanno governato la nazione fino al 2010), è che la ventata di democrazia sul Myanmar possa trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia del loro ruolo e delle fortune economiche familiari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso perché non rispecchiano un clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è, dunque, ancora ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese.

Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in odore di campagna elettorale e in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero» (vedi pag. 49, ndr).

È anche per la paura di una disgregazione nazionale che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione 2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del Pil).

La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce intee (come i conflitti negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle minoranze etniche), contrastava pesantemente con il magro bilancio destinato alla sanità (3,8% del bilancio; 0,9% del Pil) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio; 1,8% del Pil).

Degno infine di un certo interesse è il fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana.

 

Le riforme di Thein Sein, gli investimenti inteazionali e il «Triangolo d’Oro»

Come già evidenziato, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme che hanno interessato vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a quella economica.

Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione pubblica che radunasse più di quattro persone, è stato abrogato così come le norme restrittive in materia di censura di stampa, libertà di espressione e di movimento, già abolite negli anni precedenti.

Tutto questo ha permesso a una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini che erano stati privati – negli anni della dittatura militare – dei loro terreni, di unirsi in associazioni per richiedere la restituzione delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa 4.000 domande di risarcimento. Così come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito.

La commissione d’investigazione – presieduta da Aung San Suu Kyi – è stata costretta a sfoggiare tutta la sua retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una parte ha verificato che il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che lo sfruttamento minerario procedesse al fine di non creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi era di 1.730 dollari Usa per ogni acro) si è scontrata con la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato la protesta.

Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal tema economico. Durante i XXVII Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un crescente malessere che serpeggia tra la popolazione.

 

La bocciatura dello schema protezionista, proposto dal parlamento all’inizio del 2013, per far fronte a eventuali ribassi troppo accentuati del prezzo del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini a un prezzo superiore da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente utilizzato nelle campagne birmane.

In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini. I grandi sovvenzionamenti, elargiti dagli istituti di credito internazionali, sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari per progetti socio economici e il miglioramento della gestione pubblica.

La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove soluzioni d’investimento.

Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia, è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da 40 amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di 1,85 miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva contratto con il governo nipponico e al tempo stesso ad investire 500 milioni di dollari per la costruzione di strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche.

Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un lungo e, a tratti, drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation).

Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni si sia spogliata di numerosi orpelli che la appesantivano.

La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio d’investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio su una classifica che tiene conto di 197 economie mondiali.

Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), che nel suo resoconto ha evidenziato che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta del 26%. Il 92% dei campi coltivati si trova nello stato Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della droga. Il leggendario «Triangolo d’Oro» – l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia – è tornato ad essere l’area dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo il 18% della produzione mondiale, secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’Unodc per evidenziare lo stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza di uno stretto controllo sul territorio da parte dell’esercito birmano.

Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane.

 

I contendenti per le presidenziali del 2015

Tutti questi problemi non potranno essere risolti in breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce, Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento.

Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua candidatura per le file del National League for Democracy (Nld). L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la Costituzione, il cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri (Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non rientrerebbe in questa categoria) e non abbia figli stranieri (i figli avuti dal matrimonio con Michael Aris hanno passaporto britannico e questo potrebbe pregiudicare la candidatura).

Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra gli stati occidentali che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli Stati Uniti, in Oceania, Giappone ed Europa con il dichiarato scopo di chiedere l’emendamento della Costituzione birmana.

Un gesto sicuramente interessato e opinabile, come lei stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una Costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo» (a pag. 48, ndr).

Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’Nld verrà rimosso, la popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale.

Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della Camera bassa che della Camera alta. Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito.

Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale.

Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua a essere presentata dal governo come motivo di miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di 1.141 detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013.

 

 

La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters sans Frontières ha continuato a denunciare la repressione dei media, nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei giornalisti, questi – per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche – si censurano da soli.

Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw. Secondo il Csi alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National Union/Karen National Liberation Army (Knu/Knla) e Karenni National Progressive Party/Karenni Army  (Knpp/Ka) avrebbero avviato un programma con le Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’Unicef ha avviato un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include il «congedo» dei militari bambini.

Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore.

Piergiorgio Pescali

 




La nuova via Birmana – 2

A colloquio con Aung San Suu Kyi

 

Idee e progetti della «Signora»

 

Nell’autunno 2013 Aung San Suu Kyi ha concluso il suo tour europeo in Italia, da cui mancava da quarant’anni. L’abbiamo incontrata prima
della sua partenza per il rientro nel Myanmar. Nel 2015 sarà lei il nuovo presidente del paese?


Signora San Suu Kyi, può fare un bilancio del suo viaggio in Europa?

«Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia, e in altri, come il vostro, da cui mancavo da decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali».

Quando parla di uomini dai profondi principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare?

«Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli. Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per approfondire la conversazione, ma gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti impressi. È una persona con cui mi sono sentita immediatamente in sintonia. Mi piacerebbe incontrarlo ancora».

Lei ha ricevuto tantissime promesse durante la sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso sappia che i politici italiani non hanno la fama di mantenere le promesse fatte e l’Italia ha brillato più per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza nelle vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano?

«Spero vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza il movimento democratico e numerose personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica si sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti umani in Birmania».

A proposito di diritti umani: a che punto siamo nel processo di pacificazione con i gruppi etnici?

«Ci sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il parlamento a discutere la questione etnica. In effetti ci sono diversi membri che rappresentano le etnie nel nostro parlamento ed è per questo che, in questa sede, il dialogo sta già avvenendo. Da parte loro, i gruppi etnici chiedono che la questione sia discussa al di fuori del parlamento e con terze parti che facciano da garanti. Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle sue richieste e questo porta inevitabilmente a uno stallo dei negoziati».

È ciò che sta avvenendo anche nello stato Rakhine tra musulmani e buddisti?

«In un certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti di un conflitto etnico. È un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese, alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità».

La paura è, quindi, secondo lei, una delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso?

«Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico».

Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con  lei e l’hanno anche duramente criticata.

«Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisti e musulmani e non la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare e ancora oggi vivono in campi profughi».

Associazioni e movimenti che si occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di non voler difendere i diritti della comunità islamica per un puro calcolo elettorale in vista delle elezioni presidenziali del 2015.

«Posso rispondere dicendo anch’io che le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia d’immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi estei possano destabilizzare il paese».

È, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza.

«Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate».

 

Qual è, quindi, la soluzione che propone?

«Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo. È semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale e garantire la cittadinanza a chi ne ha diritto».

Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è una strada a vicolo chiuso.

«È per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della Birmania, ma anche con il Bangladesh».

I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più importanti da emendare, come il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in caso di necessità, prendere il comando del governo?

«Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi preoccupa il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento quanto, piuttosto, il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale possa essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo.

Mi permetta anche di evidenziare che l’emendamento della costituzione è solo il terzo punto del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle guerre civili. Sono una politica e come tale ho degli obiettivi. Uno di questi è dare al mio popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto: permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta».

 

Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi?

«Non voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò presidente, il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle guerre civili ed emendare la Costituzione».

Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche.

«Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare. Sotto lo Slorc (State Law and Order Restoration Council, ndr) prima e l’Spdc (State Peace and Development Council, ndr) dopo, non c’è mai stata libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai ottenere il 100% di ciò che si chiede».

Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di 100 prigionieri politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di 2.000. Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico?

«Certamente. È per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le Forze armate, ndr) che si oppongono alle riforme».

Chi potrebbe essere un partner fidato in questa transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti, l’India, l’Asean?

«La Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con la Cina e, personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio paese. Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che siano investimenti non finalizzati a esclusivo vantaggio di un solo paese o di una classe sociale. Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro».

Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon nel 1988 (a cui io ero presente), ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Queste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro che non hanno capito nulla delle sue idee o è lei che ha cambiato le idee?

«Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Sono sempre stata convinta che i militari devono lavorare stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un sentimento particolare per i militari e chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero. Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anch’io mi stupisco di come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per loro. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto molto rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza».

Piergiorgio Pescali




Eritrea. Dal paese senza diritti ai campi di tortura

Fuga dall’Eritrea




 

Prigione a cielo aperto

Venti
anni fa l’Eritrea diventa il cinquantatreesimo stato dell’Africa. Dopo una
lunga guerra d’indipendenza dall’Etiopia. Le speranze sono tante. C’è il
fermento di una nascita, un popolo che anela un futuro di libertà e
autodeterminazione. Ma ben presto il regime dell’ex guerrigliero Isaias
Afewerki diventa il più duro e repressivo del continente. Ogni libertà è
negata. Anche quella fisica. Solo una ristrettissima élite politica e militare
può fare tutto ciò che vuole. E controlla il paese. Così i giovani iniziano a
fuggire, e padri e madri vogliono portare i propri bambini lontano dalla «prigione
a cielo aperto».

Ma il diavolo è anche oltre confine. Nasce e fiorisce un
lucrosissimo commercio di «carne umana». Bambine, bambini, donne, uomini in
fuga dal regime sono rapiti, poi venduti e rivenduti. Fino ad arrivare nei «campi
di tortura» nel Sinai, e altrove. Qui subiscono trattamenti «disumanizzanti».
Perché tutto questo? Per soldi. Un giro d’affari di 622 milioni di euro dal
2009 a oggi. Nel silenzio quasi assoluto dei mezzi di informazione e dei
governi del mondo. Non fa audience, non fa spettacolo. Neppure quando i
sopravvissuti al traffico muoiono a un passo dalla terra promessa: l’Europa.

Marco Bello



Perché oggi si fugge dall’Eritrea

 

Giovane paese senza diritti

Nel 1993 l’Eritrea festeggia l’indipendenza dall’Etiopia. Ma
il suo regime si trasforma nella più feroce dittatura del continente. Un’intera
generazione è piegata e senza speranze. Meglio tentare la fuga, anche se ad
alto rischio.

«La
dittatura ci toglie anche l’aria», è questa la frase che si sente ripetere più
spesso dai ragazzi eritrei che arrivano sulle nostre coste. E niente come
questa espressione racconta meglio l’Eritrea, un paese tenuto in ostaggio da un
presidente-padrone, Isaias Afewerki, che l’ha trasformato in una sorta di
carcere a cielo aperto.

I prodromi

Colonia italiana dal 1899 al 1941 (ma il primo
insediamento italiano ad Assab risale al 1869), diventa quindi protettorato
britannico e poi regione federata all’Etiopia, alla quale viene annessa nel 1962.
Già nel 1961 però il Fronte di liberazione eritreo (Elf) rivendica
l’indipendenza e dà il via alla guerra di liberazione che durerà fino al 1991.
Negli anni Sessanta il movimento indipendentista si spacca e un gruppo di suoi
membri dà vita al Fronte popolare di liberazione eritreo (Eplf), di impronta
socialista. In pochi anni l’Eplf acquisisce forza (anche grazie all’aiuto dei
paesi socialisti) e, nel 1982, affronta e sconfigge sul campo l’Elf.

Nel 1991, il regime etiope di Menghistu cade e Meles
Zenawi, divenuto presidente dell’Etiopia, dà l’assenso a un referendum per
l’autodeterminazione dell’Eritrea. Nella consultazione gli eritrei votano per
il di- stacco dall’Etiopia. Così, il 24 maggio 1993 il paese diventa
indipendente. È in questi anni che Isaias Afeworki, il capo carismatico
dell’Eplf, emerge come leader indiscusso. Sono in molti a pensare che sia
l’uomo adatto per aprire una stagione di democrazia e prosperità per il piccolo
paese sul Mar Rosso. In realtà, Isaias è un capo guerrigliero poco incline ai
metodi democratici che ha gestito con pugno di ferro l’Eplf: nessuna pietà per
i nemici, intransigente con gli oppositori interni. Quando diventa capo dello
Stato non cambia atteggiamento.

Verso la dittatura

Nei primi anni dopo l’indipendenza, l’Eplf si trasforma
in Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj) e, tra il 1994 e il
1997, dà vita a piccole riforme. Il governo promette anche di promulgare una
Costituzione democratica e multipartitica.

Nel 1997 il testo della carta è
pronto, però non entra in vigore e non vengono neppure indette elezioni.
Isaias, si autonomina capo dello stato e comandante supremo delle forze armate,
centralizza i processi decisionali. Il Pfdj diventa l’unico partito ammesso, i
suoi membri devono assicurare fedeltà assoluta al presidente il quale, a sua
volta, utilizza gli iscritti al partito per controllare ogni snodo vitale dello
stato. Anche il sistema giudiziario viene smantellato. I giudici non sono
indipendenti e decidono non in base ai codici (che esistono), ma in base ai
decreti presidenziali. Nel 1996 nasce la Corte speciale, un tribunale composto
da militari che giudicano in udienze segrete e con criteri «politici» chiunque
osi criticare
il regime.

Tutte le forme di dissenso vengono duramente represse.
Il caso più eclatante (e conosciuto) è l’arresto avvenuto il 18 settembre 2001
di un gruppo di ministri e funzionari, rei di aver chiesto l’applicazione della
Costituzione e delle libertà politiche e civili. Tra essi eroi della guerra di
liberazione dell’Etiopia, amici e compagni di Isaias, come Petros Solomon (capo
dell’intelligence, poi ministro degli Esteri e, infine, ministro delle Risorse
marittime), Hailè Woldensaye (ministro degli Esteri), Mohamud Ahmed Sharifo
(ministro dell’Inteo), Ogbe Abraha (Capo di stato maggiore). Di loro non si
saprà più nulla.

Secondo Amnesty Inteational, il governo del
presidente Isaias Afewerki ricorre «sistematicamente ad arresti e detenzioni
arbitrarie per reprimere tutta l’opposizione, mettere a tacere i dissidenti, e
punire chiunque si rifiuti di accettare il sistema repressivo. Migliaia di
prigionieri politici e di coscienza sono scomparsi mentre erano detenuti in
segreto e in isolamento, senza accusa né processo e senza avere contatti con il
mondo esterno. Tra i detenuti ci sono oppositori e critici – reali o sospetti –
del governo, politici, giornalisti, membri di gruppi religiosi registrati e
non, persone che cercavano di sfuggire o disertare il servizio nazionale
obbligatorio a tempo indeterminato o di scappare dal paese».

Chiese e giornalisti

Nella classifica sulla libertà di stampa stilata ogni
anno dall’organizzazione Reporter senza Frontiere, l’Eritrea è
all’ultimo posto. Nel paese non esistono media indipendenti. Televisione e
giornali sono di proprietà dello stato e anche i servers che permettono
il collegamento all’Inteet sono rigidamente controllati dall’autorità
statale.

Il regime non si accanisce solo contro oppositori e
giornalisti. Come molte dittature, non tollera un ruolo attivo delle fedi. A partire
dai copti ortodossi, la Chiesa maggioritaria. Nei primi anni dall’indipendenza,
ai copti viene garantita una certa autonomia di azione, ma quando abuna
Antonio, un prelato critico nei confronti della deriva dittatoriale, viene
nominato Patriarca, il regime reagisce. Dopo varie intimidazioni, nel 2005 abuna
Antonio viene deposto, arrestato e sostituito con abuna Dioscoro. Anche
l’Islam, pur essendo una delle confessioni ammesse dallo stato (oltre alla
Chiesa copta, a quelle cattolica e luterana), sta conoscendo continue
persecuzioni. Il regime si accanisce in particolare contro i musulmani
wahabiti, sospettati di avere contatti con le formazioni fondamentaliste e
dell’opposizione eritrea all’estero. La Chiesa cattolica, che nel paese conta
quattro diocesi, non è indenne dalla repressione. Il governo non vede di buon
occhio un’organizzazione religiosa che opera nel settore sociale e tenta, in
tutti i modi, di limitae i campi di azione. I missionari sono stati espulsi e
il clero eritreo rimasto, oltre a dover adempiere agli obblighi di leva,
subisce controlli e vessazioni continue. Le confessioni più perseguitate sono
però quelle non riconosciute: testimoni di Geova, pentecostali, ecc. Secondo Amnesty
attualmente sarebbero detenuti 1.750 musulmani e cristiani di Chiese non
riconosciute senza alcuna accusa.

Un paese in grigioverde

Solo le forze armate, come osserva il rapporto di Inteational
Crisis Group
dal titolo Eritrea: Scenarios for Future Transition
(2013), mantengono un certo grado di autonomia, poiché Isaias fa peo sui
militari per gestire la nazione: il paese infatti è diviso in cinque regioni,
ciascuna retta da un generale con pieni poteri sul territorio di competenza che
risponde solo al presidente. Per assicurarsi la fedeltà dei militari, Isaias
garantisce loro privilegi economici e materiali e tollera alti livelli di
corruzione. Anche se è proprio in seno all’esercito che è nato il misterioso
tentativo di golpe del 21 gennaio 2013 culminato con l’occupazione del
ministero dell’Informazione e poi subito rientrato.

Da anni Isaias continua a giustificare il mancato
passaggio a un sistema democratico con il permanere dello stato di guerra. Il
dittatore si è infatti circondato di nemici. Nel 1999, a soli cinque anni
dall’indipendenza, è scoppiata una nuova guerra contro l’Etiopia per dispute di
confine che ha fatto decine di migliaia di morti. Ufficialmente le ostilità
sono cessate nel 2000, ma i due paesi vivono una situazione di tensione
latente. Negli anni successivi l’Eritrea ha poi avuto scontri con il Sudan,
accusato di sostenere le milizie islamiche eritree, e con Gibuti, per questioni
di confine.

Per sostenere questo interventismo, Isaias ha dato vita
a un servizio militare a tempo indeterminato. Ragazzi e ragazze vengono
arruolati a 17 anni e non conoscono la data del loro congedo. La leva permette
di controllare le nuove generazioni e di fornire manodopera gratuita nella
costruzione delle infrastrutture pubbliche. Le testimonianze dei giovani
denunciano una disciplina dura, vessazioni da parte degli ufficiali e,
soprattutto, l’impossibilità di continuare gli studi.

Questo sistema di arruolamento sta drenando le migliori
risorse del paese che si sta gradualmente impoverendo. Oggi più del 50% della
popolazione vive al di sotto del livello di povertà. Di fronte a un regime così
duro e intransigente, molti eritrei fuggono. Oggi la diaspora conta circa un
milione e mezzo di persone, quasi un quarto dell’intera popolazione eritrea.
Una cifra enorme se pensiamo che «solo» un sesto dei somali si sono rifugiati
all’estero, nonostante la Somalia sia un paese che vive da più di vent’anni una
terribile guerra civile.

Enrico Casale

 

Enrico Casali, Marco Bello




Eritrea 2: Regime succhia soldi e… 12 ceste di speranza

La tassa sulla diaspora


Si chiama
«diaspora tax». È il controverso tributo che il governo eritreo impone agli
emigrati sui redditi che producono all’estero (e che si aggiunge alle imposte
dovute agli stati che li ospitano).

Questa imposta è stata introdotta nel 1995 con la legge
n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), ma in realtà ha una storia che
affonda le radici nella lotta per l’indipendenza contro l’Etiopia. Per
sostenere i guerriglieri contro l’esercito etiope, i movimenti indipendentisti
chiedono un sostegno economico agli emigrati. Gli espatriati rispondono con
entusiasmo. Ai ribelli arrivano così flussi importanti di denaro. Nel 1993,
raggiunta l’indipendenza, l’Eritrea è un paese distrutto che va ricostruito
dalle fondamenta. Asmara fa un nuovo appello agli emigranti affinché donino il
2% dei loro redditi. Ancora una volta la risposta è generosa.

Nel 1999 però scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia.
Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora, oltre al 2%, una una
tantum
di un milione di lire italiane e un versamento mensile di 50 mila
lire. Il peso di questi contributi inizia a diventare elevato e negli emigrati
sorgono i primi dubbi sull’opportunità di pagare. Il sistema politico si sta
infatti trasformando in una dittatura e nasce il sospetto che i fondi servano
al rafforzamento del regime. Anche perché Asmara non rende conto di come
vengano utilizzati i soldi.

 

Gruppi di
eritrei iniziano così a chiedere di ridurre i contributi. Il regime non cede.
Gli eritrei che non pagano si vedono negata la possibilità di rinnovare i
documenti, compiere atti giuridici in patria (acquistare e vendere immobili,
partecipare alla successione testamentaria, ecc.), inviare aiuti ai familiari,
rientrare nel loro paese. Chi non ha redditi o lavora «in nero» deve dimostrare
la sua condizione con documenti dello stato ospitante o attraverso la
testimonianza di persone di fiducia di ambasciate o consolati.

Per Asmara l’imposta è una fonte di valuta estera che
fluisce nelle sue casse in contanti. Questo flusso di denaro insospettisce
l’Onu. Tanto che, con la risoluzione n. 1907/2009, il Consiglio di sicurezza
indica l’imposta come possibile fonte di finanziamento ai fondamentalisti
islamici somali. Sull’onda di questa risoluzione, Canada, Svezia, Svizzera e
Germania avviano indagini. Anche in Italia qualcosa si muove. Il 4 giugno 2013
l’associazione Eritrean Youth Solidarity for National Salvation invia
una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il 26 luglio
l’onorevole Lia Quartapelle Procopio (Pd) presenta un’interpellanza al
ministero dell’Economia e delle Finanze per chiedere come l’Italia possa
intervenire per bloccare la riscossione. Ma per il momento nessuna iniziativa è
stata ancora assunta.

E.C.

       Storia di un’associazione di cattolici ed
evangelici uniti per l’Eritrea              

12 ceste di speranza ecumenica

L’associazione
Dodiciceste nasce nel 2004 dalla volontà comune di evangelici e cattolici, da
un pastore valdese, Bruno Giaccone, e un sacerdote cattolico, don Gianni Pavin
che ogni anno riunivano i loro fedeli per la preghiera ecumenica. Marilena
Terzuolo, tessitrice, moglie del pastore, ci racconta la genesi: «Un giorno
un’associazione di Padova mi cerca: volevano aiuto per un progetto di tessitura
in Eritrea. Io andai con loro un mese a insegnare alle donne eritree. Ma al
ritorno mi dissi: “facciamo qualcosa, diamo continuità. Fondiamo
un’associazione con i nostri amici cattolici”. E loro si dichiararono subito
disponibili».

L’associazione parte con due motivazioni: portare avanti
un cammino ecumenico e creare lavoro per persone che ne hanno bisogno. «Dodiciceste
è un’associazione ecumenica nata proprio per essere segno di comunione tra
cristiani di confessioni diverse che si riconoscono fratelli tra di loro nel
momento in cui c’è bisogno di mettere insieme quel poco che ognuno ha portato
con sé per condividerlo, dopo aver ascoltato gli insegnamenti del maestro di
Nazaret». Da qui il nome: dalle dodici ceste di avanzi della moltiplicazione
dei pani e dei pesci.

In un villaggio chiamato Segheneiti esisteva già una
scuola di tessitura gestita dalle suore cappuccine.

«Il primo obiettivo era creare dei piccoli gruppi di
lavoro – racconta Marilena -. Tra le donne che terminavano la scuola di
tessitura, a quelle che lo desideravano, l’associazione procurava un locale
dove lavorare pagando l’affitto per un anno, l’acquisto dei telai e un po’ di
materia prima e l’accompagnamento tecnico per i primi mesi».

Un’intuizione
socio-economica vincente: in Eritrea, dopo la lunga guerra con l’Etiopia,
mancavano i Netzelà, il vestito tradizionale indossato da tutte le donne
eritree. Questi erano infatti prodotti solo in Etiopia. Ma era difficile
iniziare un’attività, a causa della mancanza di fondi e di competenze.

Con 5.000 euro si riusciva ad avviare un gruppo di cinque
donne alla produzione di Netzelà, foendo i telai necessari.

«Tutti i gruppi che abbiamo aiutato a partire continuano
a lavorare. Tutto quello che producono lo vendono subito sul mercato locale.
Viene lavorato cotone coltivato nel paese nei telai costruiti localmente» dice
con orgoglio Marilena. «Lavorano senza padroni, senza inquinare l’aria e
l’acqua, senza bisogno di energie che non siano le loro braccia e la loro
intelligenza, senza sfruttamento da parte di nessuno. Ora queste donne possono
procurare un onesto e dignitoso futuro alle loro famiglie numerose».

Sono i gruppi stessi che dopo un anno di affitto
sovvenzionato dicono: «Ce la facciamo da sole, andate ad aiutare altre donne».
E questo è un risultato strabiliante. I gruppi si moltiplicano. A Segheneiti
diventano un centinaio le donne coinvolte.

Le suore
foiscono un valido appoggio logistico e culturale, aiutano Dodiciceste nella
gestione pratica e finanziaria quotidiana. L’associazione le appoggia pagando i
salari delle formatrici delle loro scuole di tessitura.

L’accompagnamento oltre che tecnico è anche
organizzativo. Ad esempio in ogni gruppo si mette in piedi un fondo di
solidarietà, che può servire in caso di necessità a una delle donne.

«Essendo un’associazione ecumenica siamo andati a vedere
cosa facevano gli evangelici in Eritrea. Ad Asmara avevano anche loro una
scuola di tessitura che ospitava ragazze prese dalla strada. Lì il contesto è
molto diverso. Ma non avevano quasi nulla». Dodiciceste fa quindi partire un
progetto anche ad Asmara insieme alla Chiesa evangelica. «Poi ci hanno detto
che a Keren esisteva l’unica scuola di sordi di tutto il paese, gestita dalla
Chiesa evangelica. Anche lì c’era un tentativo corsi di tessitura».

A Keren le suore cappuccine stavano aprendo in quel
momento una nuova casa, e gli evangelici avevano scarsità di insegnanti di
tessitura. «La superiora ha subito detto “possono venire da noi a imparare”. Si
sono impegnate a dare priorità agli insegnanti della scuola evangelica, i quali
in questo modo non si devono spostare in altri villaggi». La collaborazione tra
le due chiese diventa realtà.

«Anche
quando abbiamo lavorato con gli evangelici le suore sono sempre state con noi,
e ci sono stati dei momenti belli e significativi anche dal punto di vista
spirituale, con le preghiere in comune. I pastori della Chiesa evangelica e le
suore non si conoscevano neppure prima e la nostra associazione li ha portati a
collaborare».

Dodiciceste finanzia i progetti grazie ad alcune
fondazioni italiane, all’8×1000 della Chiesa valdese e a donazioni private. I
soci sono una trentina tra cattolici ed evangelici e vivono sparpagliati tra
Asti e Acqui Terme (Al). Continua Marilena: «Poi abbiamo lavorato qualche anno
in Mozambico con un frate cappuccino, appoggiando una falegnameria di base a
Quelimane». Un’esperienza che si è chiusa ma ha dato i suoi frutti perché la
falegnameria funziona e fornisce pure banchi alle scuole. In Eritrea
Dodiciceste lavora con altre due scuole di suore cappuccine nei villaggi di Adi
Quala e Eden: «Diamo un sostegno alla scuola di tessitura, pagando lo stipendio
delle insegnanti o comprando dei materiali».

Marilena
ricorda l’importanza della presenza: «Per la gente con cui realizziamo i
progetti è importante che andiamo in Eritrea. Ci chiedono sempre di andare
lavorare con loro. È una questione di esserci, di contatto, di amicizia. Oltre
che una trasmissione di competenze dal punto di vista tecnico». Ma diventa
sempre più difficile ottenere il visto per viaggiare nel paese africano: «Tempo
fa andavamo anche tre volte all’anno, poi sono passati tre anni prima che
riuscissimo a tornare nel 2013». Mentre è quasi impossibile mandare eritrei a
studiare all’estero, sia per la difficoltà di avere il permesso, e soprattutto
per il timore che non toerebbero più in patria.

La riconoscenza della gente è grande: «Nel luglio scorso
alla riunione a Segheneiti con il vescovo e gli amministratori dell’ospedale ci
hanno detto “ci siete solo voi come associazione che ci sostenete”. Qualche
anno fa c’è stata una carestia, allora abbiamo raccolto fondi per dare da
mangiare ai bambini dell’asilo delle suore, ma anche della scuola pubblica. Così
poi hanno fatto la festa dei bambini, l’8 dicembre, tutti insieme».
L’associazione ha un principio: lavorare con tutti, chiese, pubblico, privato.

Oltre al valore sociale ed economico delle attività di
Dodiciceste, è importante anche il risvolto culturale. Ricorda Marilena: «Se
fossero scomparsi i Netzelà sarebbe finita una tradizione, un modo di
essere, di esistere, che apparteneva proprio a loro e a tutte le donne che le
avevano precedute».

Marco Bello

Marco Bello