Vangelo ed Educazione,Sviluppo e pace

Rumuruti: Missione di Frontiera

Un dossier narrativo in collaborazione tra la rivista The Seed di Nairobi e MC



Indice:

1. Terra di frontiera
2. La parrocchia Familia Takatifu
3. Un universo multietnico
4. Nomadismo e lavoro minorile
5. Curare fli infermi
6. Un uomo, una missione

 

 


1.

Terra di frontiera, terra di nessuno, terra di tutti
Rumuruti: una cosmopoli «remota»

di Henry Onyango e Gigi Anataloni

Rumuruti si trova pochi decimi di grado sopra l’equatore nel cuore del Laikipia Plateau, distretto di Laikipia Ovest, sulla strada che porta da Nyahururu a Maralal, al termine dei 40 km asfaltati che la separano da Nyahururu, sosta quasi obbligatoria prima di affrontare l’incognita degli altri 120 km di sterrato che portano a Maralal su una strada impegnativa durante il periodo secco e impossibile nella stagione delle piogge.

Il Liakipia Plateu è una immensa area di savana ricchissima di animali: mandrie enormi di zebre, branchi di elefanti che migrano stagionalmente seguendo le piogge, gazzelle e antilopi di ogni tipo, scimmie, serpenti, coccodrilli, leoni e leopardi, e chi più ne ha più ne metta. L’Ewaso Narok è il fiume principale della regione. Nasce dalle falde del Monte Kenya, crea una magnifica cascata, Thomson’s Fall, si disperde nelle zone paludose dette Ewaso Swamp poco più a Nord della cittadina di Rumuruti. Girando lentamente verso Est si unisce alle acque limacciose del fiume Ewaso Nyiro che attraversa il Samburu Park e, passato il ponte di Archer’s Post, continua ancora in una vastissima zona semiarida alimentando le Lorian Swamps. Infine, in Somalia si unisce al Jubba River.

I fiumi e la vicinanza del Monte Kenya, ricco di acque, hanno creato un ambiente ricchissimo di ogni tipo di fauna. Fino alla fine dell’Ottocento gli animali ne erano i padroni assoluti, disturbati di tanto in tanto soltanto dai Maasai o dai Samburu con le loro mandrie, mentre i Kikuyu e i Meru erano arroccati sulle fertili falde del Monte Kenya e dell’Aberdare.

Dal colonialismo all’indipendenza

L’arrivo degli inglesi, all’inizio del secolo scorso, alterò gli equilibri. Cacciati i Maasai, costretti a vivere nel Sud del Kenya, e spinti i Samburu sulle loro aride montagne più a Nord, i coloni bianchi, si stabilirono (settle in inglese, da cui il nome settlers per indicare i coloni) nella zona in maniera esclusiva. Divisa la terra in enormi proprietà di migliaia di ettari, la fecero lavorare da contadini e pastori provenienti da ogni parte del Kenya. Questi lavoratori non erano liberi nei loro movimenti, ma avevano un passaporto speciale da presentare a ogni controllo della polizia. Nessun altro africano, se non i lavoratori, poteva vivere là.

Dopo l’indipendenza, nel 1963, i terreni dei coloni furono riscattati dal governo inglese e ceduti al governo del Kenya. Mentre nelle zone più fertili della Nyandarua County, divisi in piccoli appezzamenti, furono venduti a prezzi simbolici ai contadini kikuyu, nella più arida e disabitata Laikipia County furono accaparrati da grandi latifondisti sia keniani che stranieri.

Si stima che il Laikipia Plateau sia di 10.000 chilometri quadrati, circa 2 milioni e mezzo di acri secondo le misurazioni locali. È l’area con il maggior concentramento di proprietari non africani, soprattutto della nuova «aristocrazia» inglese e americana. Con loro ci sono alcuni baroni locali, politicamente molto influenti. Venti proprietari possiedono il 74% di tutta la terra disponibile. Ci sono circa 36 grandi e piccole proprietà che vanno dai piccoli ranch o fattorie da 5.000 acri (20 km2), a enormi estensioni dagli orizzonti infiniti di oltre 100.000 acri (400 km2). Molte di queste proprietà sono oggi trasformate in santuari per gli animali e meta di turismo. Una delle proprietà più grosse, il Laikipia Ranch, di 100 mila acri (oltre 400 km2, 40.000 ettari, chiamato anche Ol Ari Nyiro Ranch, fattoria delle acque nere), appartiene alla «baronessa» Kuki Gallman, una scrittrice italiana naturalizzata in Kenya, che comperò l’area nel 1974 trasformandola poi in un santuario per gli animali selvatici, con esemplari del raro rinoceronte bianco e della bellissima zebra grevy dalle strisce sottili, che sono a rischio di estinzione. La proprietà confina con la missione di Rumuruti.

Finito il colonialismo, i Maasai e Samburu cominciarono a ritornare con le loro mandrie in quelle terre che loro considerano ancestrali, tollerati dai ricchi latifondisti che chiusero gli occhi al sorgere di piccoli insediamenti ai margini delle loro proprietà, nelle ampie aree riservate alle strade (da costruire), anche per rispondere ai bisogni dei loro lavoratori. Presto tornarono anche altri pastori nomadi, come i Borana e i Somali da Est, i Kalenjin e i Pokot da Ovest, i Turkana e gli Ndorobo (cacciatori e raccoglitori nelle grandi foreste) da Nord, attirati dai grandi pascoli offerti dal plateau. Sorsero qua e là dei piccoli agglomerati di povere costruzioni in legno in stile Far West: qualche bottega in cui si trovava di tutto, gl’immancabili bar, una scuoletta-asilo – che all’occasione diventava anche cappella – costruita dai missionari.

Poi negli anni Ottanta si cominciarono a vendere alcune delle grandi proprietà. Suddivise in centinaia di piccoli appezzamenti per rendee il costo accessibile, furono vendute a società cornoperative di contadini senza terra di ogni provenienza, privilegiando a volte questo o quel gruppo etnico. L’area divenne anche zona di rifugio per tanti altri cacciati dalle proprie regioni a causa dei conflitti etnici che di tanto in tanto ancora oggi infiammano il Kenya. Tra questi, le famiglie di rifugiati provenienti dalla Rift Valley per cui la Conferenza episcopale del Kenya ha acquistato i terreni nel 2008.

 

La «strada remota»

Il tranquillo villaggio di Rumuruti, così racconta la storia, fu scelto dal governo coloniale inglese come stazione amministrativa e sede di una grande prigione per la sua posizione a un importante incrocio di strade. Ma da dove viene questo nome? Si racconta che i coloni bianchi, i quali regolarmente facevano la strada da Nyahururu a Maralal, chiamassero remote route (strada remota) la pista che univa i due centri. I locali trasformarono l’espressione inglese facendola diventare Rumuruti.

Importante un tempo solo come centro per le fattorie dei settlers e punto di entrata controllato al territorio dei Samburu, oggi Rumuruti è la sede amministrativa del distretto. Cresciuto da villaggio a cittadina per l’aumento della popolazione e il nuovo status, non ha però le infrastrutture necessarie, come banche, alberghi, servizi sociali o altre comodità. È certamente in crescita, pur essendo in un ambiente geograficamente difficile e segnato da grandi problemi di convivenza e distribuzione della ricchezza. La posizione geografica ne fa un centro commerciale importante, con un ricco mercato del bestiame che ogni giovedì, in due località della periferia, richiama gente di tutte le tribù.

La popolazione di Laikipia West sembra povera, ma al mercato il denaro che cambia di mano è tanto. La gente arriva un po’ da ogni parte con mezzi di fortuna o mezzi pubblici per vendere e per comperare. Il giovedì Rumuruti prende vita. Anche i pastori che vanno nelle zone più lontane in cerca di pascolo per le loro greggi vi tornano per il giorno di mercato a vendere qualche animale o a comperare tutto quanto è necessario alla loro famiglia.

Il mercato del bestiame (capre, pecore e mucche) apre presto e chiude presto, e nel pomeriggio l’area è deserta. I mercanti contano i loro soldi, e i pastori, anche se stanchi, si mettono sulla via del ritorno per stare con le loro mandrie. Ma dove depositano i nomadi il loro denaro? C’è una sola banca nel paese, e loro non ci mettono mai piede.

Realtà plurietnica

Rumuruti è una realtà plurietnica con due componenti principali: i gruppi etnici dei pastori, attirati dai grandi pascoli offerti da Laikipia Ovest, e i gruppi degli agricoltori che nella vendita dei ranches hanno visto la possibilità di acquistare terre nuove specialmente per le giovani famiglie, ormai impossibilitate a vivere nei sovraffollati campetti dei loro padri nelle regioni di origine.

Mentre i contadini sono più aperti alla novità e al progresso, le comunità di pastori hanno preservato le loro tradizioni secondo le quali è vitale avere grandi mandrie. Questo fa sì che una famiglia di pastori che acquista un campo, non si accontenti mai di avere un numero di capi proporzionato alla proprietà, ma cerchi di moltiplicarlo sentendosi in diritto di invadere i terreni confinanti quando il proprio è esaurito. Creando così infinite ragioni di conflitto. In più, secondo la tradizione, i morans (i giovani guerrieri) una volta potevano far razzie per accumulare la ricchezza personale necessaria per sposarsi. Quelli che tornavano a casa a mani vuote erano considerati buoni a nulla. Così almeno stavano le cose tra i Samburu, Turkana e Pokot (i gruppi etnici più numerosi). Al giorno d’oggi ci sono ancora residui di questa cultura, i cui effetti si vedono nelle razzie locali, come spiega il presidente del Consiglio parrocchiale di Rumuruti, Emmanuel Achila. I conflitti, però, nascono anche per l’accesso alle scarse risorse naturali quali i pascoli e i pozzi. A questo bisogna aggiungere anche il problema dei confini.

 

Mancanza di istruzione

Secondo padre Nicholas Makau, viceparroco di Rumuruti e incaricato dell’ufficio di Giustizia e Pace dei missionari della Consolata, molta violenza giovanile va attribuita anche alla mancanza di istruzione e di lavoro.

Nonostante che le scuole locali siano tra le migliori, il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso perché molti ragazzi di età scolare sono obbligati dalla famiglia a occuparsi del bestiame. Per troppi genitori la ricchezza materiale è più importante dell’istruzione. Altri lamentano che gli studi creano dei giovani ribelli alle tradizioni e mettono idee strane nella testa delle ragazze, in più studiano senza scopo, perché poi non trovano lavoro.

Ignoranza e mancanza di lavoro certamente alimentano le tensioni tribali. Le tribù in cui l’istruzione è ben avviata godono di maggior prestigio. È un fatto, quando si cerca impiego, soprattutto negli enti governativi, chi è andato a scuola è avvantaggiato sugli altri. È facile, allora, vedere che le comunità i cui figli studiano fanno la parte del leone sul mercato del lavoro.

Ma la mentalità degli anziani vuole che le opportunità di impiego siano distribuite proporzionalmente secondo l’appartenenza etnica e non secondo il merito. E qui sta il nocciolo di tanti altri problemi. David Koskey, un membro del «Comitato per la Pace» della missione, ne fa notare l’incongruenza: «La polizia sta per reclutare nuove leve. Secondo gli anziani deve essere arruolato un numero uguale di giovani da ogni tribù per mantenere l’equilibrio». Il rischio è di avere poi dei poliziotti completamente analfabeti e impreparati al loro servizio. Ma una distribuzione di impiego etnicamente non equilibrata genera una disuguaglianza politica, in cui i gruppi più forti tentano di limitare lo sviluppo degli altri.

 
Sedentarizzare

La Chiesa cattolica di Rumuruti incoraggia da sempre i nomadi a diventare sedentari, prendersi un pezzo di terra e imparare l’agricoltura così da ridurre la loro dipendenza dal bestiame. Un certo numero di nomadi ha già cominciato a fare così, per quanto strana sembri la cosa. La Chiesa è intervenuta ad aiutare le vittime della violenza esplosa nel post-elezioni a risistemarsi, altre famiglie hanno acquistato terra diventando azionisti di società create apposta per aquistare i latifondi messi in vendita. Tante vittime della violenza che fece seguito alle elezioni del 2007 trovarono rifugio temporaneo nel recinto della parrocchia, ma dopo l’acquisto di cento acri di terreno la missione poté rilocarne 1.500 di cui la maggioranza ora si dedica all’agricoltura. Padre Makau ci dice che rimane ancora il problema di molti acquirenti che non riescono a prendere pieno possesso delle fattorie, per il fatto che i loro padroni legali non sono presenti e non si sa dove trovarli, per cui la transi-zione di proprietà non può essere completata.

Altri conflitti sorgono quando gli animali dei nomadi invadono i campi dei coltivatori distruggendone il raccolto. Oltre all’invasione accidentale di animali domestici ci sono anche le visite di animali selvatici. Non pochi agricoltori hanno il loro terreno vicino al corridoio di migrazione degli elefanti che quando passano mangiano tutti i raccolti, golosissimi come sono di granoturco.

A Rumuruti i matrimoni tra membri di tribù diverse stanno aumentando e favoriscono la coesione pacifica contribuendo a modificare la mentalità ancestrale che male accettava queste unioni, soprattutto nei tempi di tensione fra le varie tribù. Elizabeth Lomeno, mezza Samburu e Turkana, è ora sposata a un Luya. È già nonna e assicura che le cose sono ora cambiate e che la gente non teme più di sposarsi fuori della propria tribù. «Personalmente, auguro che le mie figlie e nipoti siano sempre libere di sposarsi con chi vogliono», dice Elizabeth.

 


2.

La Parrocchia della santa famiglia Uscire verso i poveri,
Costruire la pace

di Stephen Mukongi

Da cappella sperduta nella savana a fiorente missione e polo di pace e riconciliazione: l’impresa dei missionari della Consolata di trasformare una regione di grandi contrasti e divisioni in una comunità sul modello della Santa Famiglia (Familia Takatifu), cui la missione è dedicata.

L’ombra degli alberi della parrocchia di Rumuruti offre un sospirato sollievo dalla calura insopportabile del plateau a cavallo dell’equatore. Gli alberi piantati da padre Antonio Bianchi (classe 1922) negli anni Novanta, hanno profondamente cambiato l’ecologia del luogo la cui vegetazione, all’arrivo dei missionari della Consolata nel 1991, consisteva sì e no di una mezza dozzina di alberi del pepe (schinus molle) attorno alla casetta di legno in cui abitavano.

Rumuruti è oggigiorno una parrocchia enorme, con un territorio che da Sud-Ovest a Nord-Est misura oltre cento chilometri, e con ben 27 cappelle sparse nella grande piana semiarida che fa da ponte tra gli altipiani della sviluppata e ricca zona agricola centrale attorno al Monte Kenya e l’arido Nord abitato prevalentemente da pastori nomadi e seminomadi.

Nata come cappella di Nyahururu (una missione fondata nel lontano 1954 dai missionari della Consolata, passata poi ai sacerdoti fidei donum della diocesi di Padova e diventata diocesi nel 2002), quando divenne parrocchia nel 1991 aveva già una bella chiesa in muratura dedicata alla Santa Famiglia (Familia Takatifu) e la casetta dei missionari. Da allora la missione ha conosciuto un continuo sviluppo per rispondere alle necessità del luogo. Al presente è una piccola cittadella che comprende un centro pastorale per gli incontri di formazione dei catechisti e dei vari operatori pastorali e leader comunitari, un asilo, una modea scuola con elementari e medie, la scuola secondaria femminile, il dispensario, il convento delle suore Dimesse (fondate a Vicenza nel 1579 dal venerabile Antonio Pagani), la falegnameria, un’officina, un grande orto, diversi campi da gioco, un salone polivalente, più l’indispensabile pozzo per dare acqua potabile a tutto il complesso.

 

Sviluppo umano integrale

Il territorio in cui opera la missione è caratterizzato da tutte le speranze che la frontiera ispira ma anche da tutti i drammi e le conflittualità che una società in continuo cambiamento si porta dietro, accentuate da una natura apparentemente suggestiva ma in realtà segnata dai capricci del tempo, per cui improvvise o prolungate siccità possono distruggere i raccolti o alterare gli equilibri tra pastori e agricoltori. La regione è costantemente provata da tanti mali: razzie di animali, diffusione di armi leggere, povertà endemica, pratiche tradizionali come la mutilazione genitale (che non giunge agli estremi dell’infibulazione) delle donne e i matrimoni precoci, mancanza di abitazioni adeguate, insufficienza di servizi sociali educativi e sanitari, corruzione, stato precario delle strade e insicurezza.

Questo spinge la Chiesa a darsi come compito prioritario la formazione umana e lo sviluppo sociale, come dice padre Mino Vaccari, parroco dal lontano 1994, quando padre Luigi Brambilla, primo missionario della Consolata a Rumuruti, fu trasferito a Nairobi. Suo aiutante attuale è il keniano padre Nicholas Makau, succeduto ai padri Antonio Bianchi, grande pollice verde, Domenico Galbusera (classe 1930) e Juan Puentes (colombiano del 1946, deceduto prematuramente nel 2010).

 
La scuola

Nel programma di sviluppo primeggia l’educazione con la costruzione di scuole, allo scopo di aiutare la popolazione a diventare attiva nella lotta alla povertà. Si comincia con l’asilo perché, se si prendono i bambini fin da piccoli, si mettono delle basi serie per la loro crescita. Poi con la scuola ci deve essere il collegio perché molti ragazzi arrivano da zone molto distanti oppure sono figli di nomadi che si spostano di continuo. Il collegio riesce anche a garantire quell’alimentazione adeguata che troppe famiglie molto povere o impoverite non riescono a provvedere.

L’asilo Familia Takatifu, accanto alla chiesa, è stato una delle prime opere costruite per preparare i piccoli alla scuola primaria. Oggi tutte le 27 cappelle hanno il loro asilo che di domenica serve anche come cappella.

Costruire le scuole è stato relativamente «facile», tenendo conto dell’ampia rete di amici e benefattori che si è creata attorno alla missione. Non così facile è invece far sì che i bambini frequentino regolarmente la scuola. Moltissimi genitori non capiscono ancora i benefici dell’istruzione e ignorano la legge del paese che prevede la scuola obbligatoria per tutti. Presi dai problemi di sopravvivenza, se mandano i figli a scuola, si aspettano che lo stato o la Chiesa li mantengano e li educhino gratuitamente.

Anne Munyi, la segretaria della parrocchia, conferma che oggi la missione aiuta circa mille studenti indigenti, di cui venti sono all’università, una quarantina frequentano varie scuole superiori, una quindicina le scuole tecniche, mentre la maggior parte sono ancora nella scuola primaria o matea. Anne spiega che il programma di aiuto scolastico si occupa delle necessità primarie dei ragazzi, ma quando ci sono situazioni disperate si occupa anche delle loro famiglie.

 

Un modello da imitare

La scuola elementare Familia Takatifu, iniziata con la prima classe nel 1997 come evoluzione necessaria dal primo asilo parrocchiale, è il fiore all’occhiello della missione ed è diventata modello da imitare per tutte le altre scuole dell’area. Quando nel 2005 partecipò per la prima volta agli esami nazionali dell’ottava classe (equivalente alla nostra terza media, ndr), si qualificò terza tra le altre duecento primarie di tutto il distretto, come attesta Peter Mbugua, preside della scuola. Nel 2013 ha migliorato ancora salendo al secondo posto.

Il professor Mbugua attribuisce il successo all’impegno del corpo docente e alla buona disciplina degli scolari. Fa notare quanto la Chiesa abbia contribuito al miglioramento di Rumuruti e riconosce a padre Vaccari il merito di aver voluto la struttura per l’istruzione dei figli della gente locale. «Come questa, anche le altre scuole sostenute dalla parrocchia, hanno validamente contribuito ad affrontare i tanti problemi che ancora sfidano la comunità, come la povertà endemica, l’analfabetismo, e l’ignoranza».

La parrocchia sostiene anche alcune scuole statali. Esempi di questo sono il convitto femminile Maria Consolata presso la scuola di Sosian e il collegio misto di Matigari, pensato appositamente per i figli dei nomadi, per cui la missione ha acquistato il terreno.

Le suore Dimesse dirigono la scuola superiore femminile St. Anthony Pagani che sta davanti alla chiesa parrocchiale. Queste suore, presenti da anni a Nyahururu servivano Rumuruti con una clinica mobile già quando era ancora una semplice cappella. Avendo poi stabilito una sede fissa poco dopo l’arrivo dei missionari della Consolata, ora, oltre alla scuola, dirigono il dispensario della missione e provvedono tanti servizi preziosi per la salute della comunità e nella rete di piccoli dispensari che si vanno creando per rispondere alle esigenze di una popolazione in continua crescita (vedi box).

 
Acqua

La mancanza di acqua potabile è un’altra piaga della regione. La parrocchia ha già provveduto sette pozzi di acqua purificata che garantisce acqua potabile per tutto l’anno. Il primo pozzo fu quello scavato nella missione stessa, profondo oltre cento metri. A esso è collegato un sofisticato sistema di potabilizzazione, perché gran parte delle acque sotterranee di queste aree, che hanno un suolo di origine vulcanica – il grande vulcano spento che è il monte Kenya domina sempre l’orizzonte -, sono molto ricche di fluoro e questo causa gravi problemi ai denti e alla struttura ossea delle persone (osternofluorosi), soprattutto dei bambini.

La parrocchia costituisce anche un punto di riferimento super partes e sicuro, e come tale è diventata il centro di tante attività sociali. L’ampio salone si presta a molteplici attività: campo da gioco per energici toei di pallavolo, teatro per spettacoli scolastici, auditorium per competizioni di cori, sala gioco per bambini, luogo di incontro per riunioni sociali della popolazione locale, dormitorio per i rifugiati, deposito per cibo in periodi di fame e anche magazzino per i fertilizzanti che il governo provvede di tanto in tanto ai contadini del posto.

 

Pace e riconciliazione

La pace e la riconciliazione sono una delle preoccupazioni principali. È prioritario fare di tutto per creare più armonia tra i membri delle varie tribù che vivono in Rumuruti. Ancora di recente (2014) si sono verificati nella zona degli scontri tribali apparentemente pilotati da figure politiche. La tensione è continua e cresce soprattutto in concomitanza di elezioni politiche locali o nazionali.

Durante la quaresima del 2008, oltre 4.000 persone si rifugiarono per mesi nei cortili della missione e nelle aule scolastiche, a causa di scontri e razzie che causarono morti e distruzioni.

Per questo la parrocchia, insieme ad altri gruppi, è seriamente impegnata in attività che promuovano la soluzione dei conflitti e costruiscano una pace duratura sia a Rumuruti che nelle altre zone a rischio. Proprio nel territorio della missione la Conferenza episcopale del Kenya aveva allora acquistato una delle grandi fattorie per sistemarvi più di trecento famiglie che erano state sloggiate a forza dalla loro terra nella Rift Valley durante gli scontri che hanno sconvolto la nazione dopo le elezioni di fine 2007. E la missione, di suo, ha sistemato altre 1.500 persone.

Malgrado i cristiani contribuiscano ai progetti di sviluppo e alle attività ordinarie, la parrocchia è ancora lontana dall’autosufficienza. Senza l’aiuto di una vasta rete di benefattori, l’incredibile sviluppo di Rumuruti non sarebbe stato possibile. E neppure sarebbe possibile quella vasta rete di progetti educativi e sanitari di cui tutti, indistintamente traggono beneficio. «Noi guardiamo ai bisogni della gente, e non alla loro religione», dice con forza padre Mino. «La nostra parrocchia è tutta per i poveri, proprio come vuole papa Francesco».

 


3.

Un universo multietnico Convivere in pace o perire

di Henry Onyango

Una terra contesa da uomini e animali, agricoltori e pastori, latifondisti e senza terra. Ci sono spazi immensi e molte opportunità, angoli di paradiso e distese brulle, ma l’acqua è scarsa e molto dipende dai capricci del tempo. La grande piana che gravita attorno a Rumuruti è una terra di contrasti e tensioni, che hanno già causato morte e distruzioni. L’impegno per la pace e la riconciliazione è essenziale per il suo futuro.

«Ongea lugha ya taifa», parla la lingua della nazione, fu l’invito che padre Mino Vaccari si sentì rivolgere quando, arrivando per la prima volta a Rumuruti, salutò i cristiani in kikuyu, come era abituato a fare a Tetu, vicino a Nyeri, dove era stato parroco per tanti anni. Avrebbe imparato ben presto che la sua nuova parrocchia era abitata da molte comunità provenienti da una ventina di etnie diverse, tutte molto suscettibili a ogni discriminazione tribale.

Rumuruti si trova al centro di un’area abitata da pastori e agricoltori, rinchiusi in piccoli spazi accanto ai grandi latifondi. Nel distretto prevalgono gli agricoltori che occupano altre aree periferiche più fertili, ma nel territorio della missione vivono soprattutto i pastori. Tra questi ultimi ci sono quelli che si sentono i padroni (la «nostra» terra ancestrale, dicono) e trattano tutti gli altri come degli immigrati abusivi. Le razzie di bestiame sono così un metodo convincente per intimidire le comunità arrivate per ultime.

La violenza a volte è tale da tenere in scacco anche la polizia locale. Padre Nicholas Makau pensa che all’origine di questi conflitti si trovino anche pratiche culturali retrograde, mancanza d’istruzione e isolamento. Il padre commenta: «Ci sono giovani che hanno fatto anche l’università, o che sono impiegati governativi, ma quando tornano qui non fanno nulla per aiutare le loro comunità di origine a capire che devono sostenere la pace… ci sono i Turkana che vogliono tagliare tutti gli alberi per produrre carbonella e poi, quando tutto diventa secco, andarsene in altri posti. I Samburu si assicurano i punti di abbeveraggio per i loro animali occupandoli, mentre i Kikuyu e Kalenjin fanno loro guerra per poter usare la stessa acqua per  l’irrigazione dei loro campi. Rifiuto del dialogo e tribalismo intollerante hanno causato morte e distruzione».

 

I Wazee wa Amani

Questa violenza dura da decenni e solo ora alcuni cominciano a capire che non ci sarà modo di sopravvivere se non si accetta di coesistere. Le comunità assistite dalla Chiesa, con l’aiuto di Ong, sono impegnate a lavorare per una pace duratura accettando di controllarsi reciprocamente tramite un comitato locale di anziani col compito di presentare le proprie necessità a un «senato» chiamato Wazee wa Amani, Anziani per la Pace.

David Koskey, uno di essi, conferma che il senato ha già contribuito molto a mettere in moto il processo di pace. «Mentre cinque anni fa membri di tribù diverse si odiavano, oggi le cose sono cambiate per il meglio».

I Wazee wa Amani hanno il compito di prevenire, controllare e risolvere i conflitti facendo dialogare le parti interessate, e monitorando e valutando la situazione. Sono circa settanta anziani, uomini e donne, provenienti da tutto il distretto che si avvalgono di una rete permanente di altri anziani sparsi nei vari villaggi i quali possono facilmente rintracciare il bestiame rubato e provvedere alla restituzione prevenendo in questo modo le possibili vendette.

Lo mzee Koskey dice che collaborano «strettamente anche con gli organi governativi come il Comitato distrettuale per la sicurezza, la polizia locale e il servizio segreto. Ci siamo guadagnati la loro fiducia e così confidiamo che la nostra gente goda sicurezza».

Stando alle parole dell’anziano, l’iniziativa dei Wazee wa Amani ha ridotto in modo significativo le razzie nella regione e assicurato che le varie comunità si proteggano a vicenda. Rimangono ancora piccole trasgressioni, ma senza questa iniziativa le razzie e i conflitti tra i vari gruppi di pastori, e tra questi e i piccoli contadini, avrebbero affondato Laikipia Ovest in un bagno di sangue.

Un cammino lungo

Padre Makau, nel suo realismo, ammette che malgrado gli sforzi fatti resta ancora una mancanza di fondo: non c’è fiducia fra le diverse etnie.

Secondo un ufficiale di polizia le vere razzie che avevano infestato la regione per decenni, ora non ci sono più. Al momento ciò che ancora persiste sono furti di bestiame perpetrati da pochi individui che attaccano qualche casa, soprattutto le più isolate. Dietro queste attività criminali ci sono persone senza scrupoli che pagano della gente locale per rubare il bestiame che poi è venduto a Nairobi o in altre città del Kenya. Il poliziotto, però, riconosce che grazie a una crescente cooperazione delle comunità, attraverso il comitato degli anziani, la polizia può agire con più efficacia nel prevenire i furti e nell’arrestare i colpevoli. Purtroppo non tutti, ancora, cornoperano con le forze dell’ordine rendendo con la loro omertà più arduo il lavoro per garantire sicurezza e pace.

La missione, sostenuta dalla diocesi e dall’istituto della Consolata, è attivamente presente nelle zone dove la violenza è più acuta e dove le forze dell’ordine non osano entrare. Attraverso la Commissione di Giustizia e Pace parrocchiale ha formato i Miviringo ya Mazungumzo ya Amani, cioè i «Circoli di formazione alla pace», e stabilito posti per la discussione pubblica, dove dieci membri di ogni tribù discutono i loro problemi e propongono delle soluzioni.

Padre Nicholas assicura che questi incontri hanno aiutato molto a promuovere la riconciliazione e a superare non poche difficoltà a livello personale e comunitario. Il missionario crede che alla fine, però, saranno i matrimoni misti tra le varie tribù a sanare la situazione. Infatti i matrimoni misti sono in aumento. A Rumuruti risiedono Borana maritati a Kikuyu, Somali sposati con Meru e Pokot con Samburu. Padre Makau conclude: «Alcuni di questi matrimoni misti mi hanno molto sorpreso, perché hanno messo insieme persone di tribù che prima si odiavano profondamente».


4.

Nomadismo e Lavoro Minorile
Una Silenziosa Minaccia

di Lourine Oluoch

Per uno che viaggiasse nelle vaste pianure del Laikipia, non sarebbe difficile incontrare qualche ragazzino o ragazzina sui nove, dieci anni, che, invece di essere a scuola, sta pascolando centinaia di pecore e capre. Non sempre il bestiame è di proprietà della famiglia, spesso il ragazzo è alle dipendenze di qualcuno per questo lavoro.

Le comunità dei pastori nomadi in Kenya hanno tradizioni, come il far sposare ragazze ancora minorenni, la mutilazione genitale e le razzie di bestiame, che fanno a pugni con lo stile di vita di una società multietnica, scolarizzata e sedentarizzata. Ma oggi c’è un altro male silenzioso che sta emergendo, proprio come conseguenza dell’incontro-scontro tra due modi di vita contrastanti, quello tradizionale e quello moderno: il lavoro minorile.

Ogni anno all’apertura della scuola, a gennaio, ci sono presidi che non sono mai sicuri se tutti i loro allievi ritorneranno sui banchi di scuola. Lo stesso accade all’inizio di ogni trimestre a maggio e settembre. La scuola di Matigari, diretta dal professor Hosea Ole Naimado (un maasai), è una primaria mista del tutto speciale nel distretto di Laikipia West. È stata pensata per aiutare i figli dei nomadi dando loro vitto e alloggio mentre le loro famiglie si spostano seguendo le mandrie. Per il preside questa incertezza è causa di grave preoccupazione per il corpo insegnante. Ragazzi e ragazze molto intelligenti, che sono stati nella scuola per un intero trimestre, al successivo non si ripresentano. Potrebbero essere andati in Samburu, a Baragoi o Isiolo (località a oltre 100 km di distanza) seguendo il bestiame di famiglia, ed essere impossibilitati a tornare. Il preside racconta di avere avuto una ragazzina brillante in prima media, era la capoclasse. Ora è scomparsa, e non c’è verso di rintracciarla.

Dove vanno a finire questi ragazzi? Il professore risponde sconsolato: «Per le ragazze c’è il matrimonio precoce; per i ragazzi, invece, se dopo l’iniziazione (il rito di passaggio che li rende moran – guerrieri, ndr) non riescono a mantenersi, si offrono per lavori dipendenti, anche mal pagati, perdendo la possibilità di ricevere una buona istruzione. Crediamo che tutti – volontariamente o forzati dalla miseria – si mettano a lavorare. I ragazzi si prestano a fare qualsiasi tipo di lavoro. Lungo i fiumi dove fiorisce un po’ di agricoltura, è facile vederli lavorare nelle coltivazioni. Sono lavoratori che costano poco».

C’è tutto un mercato per il lavoro minorile. I ragazzini poveri, che non si possono permettere il convitto, sono facilmente indotti a servire come pastori dalla stessa famiglia o da altri. Molti lasciano la scuola per il lavoro non perché non vogliano studiare ma per far fronte alle necessità della famiglia.

«È triste per gli insegnanti perdere degli studenti all’inizio di ogni nuovo semestre e non sapere dove siano finiti. Si può allora capire perché ci pensino due volte prima di lasciare andare a casa uno scolaro a prendere del denaro sia per la tassa scolastica o per comperarsi cose necessarie alla scuola. Il rischio più grande è che il bambino non torni più. Se ci si appella ai genitori, la risposta è che non hanno mezzi sufficienti per mantenere il figlio o la figlia a scuola. Così ci sono insegnanti che spesso si sobbarcano anche le spese del ragazzo: quadei, matite, divisa, e perfino le scarpe», dice la signora Jane Ndegwa, preside della scuola a Simotwa. Succede così che i genitori lascino che i figli frequentino la scuola solo se tutto è gratuito. In questo modo l’alunno diventa in tutto dipendente dall’insegnante o da chi lo aiuta.

Anche Peter Mwangi, incaricato distrettuale per i giovani di Laikipia Ovest, riconosce che la gioventù della regione non ha buoni modelli da seguire: «I ragazzi non trovano nella loro comunità esempi da emulare e con cui identificarsi. Anche le figure politiche locali, quando sono invitate a venire a parlare ai ragazzi, come durante la giornata internazionale della gioventù, evitano il problema. Noi vorremmo che appoggiassero di più il nostro progetto educativo e che dicessero chiaramente alla comunità di finirla con tradizioni arretrate e di impegnarsi di più ad aiutare i loro figli a ricevere l’istruzione di cui hanno diritto per migliorare la loro vita».

Peter Mwangi fa pure notare che i bambini soffrono per la negligenza dei genitori che per ignoranza valutano di più il lavoro che i piccoli possono svolgere a casa che non l’educazione. «L’ottanta per cento della comunità non ha un vero lavoro: o sono pastori nomadi oppure lavoratori avventizi. Nonostante tutto, non si deve dimenticare la Sezione 53 della Costituzione che stabilisce in modo chiaro che i genitori hanno l’obbligo di provvedere per i loro figli. La scusa che non hanno lavoro fisso non tiene, infatti riescono a provvedere alle loro necessità giornaliere e potrebbero risparmiare qualcosa anche per i loro figli». Purtroppo la comunità è anche affetta dalla sindrome di dipendenza ed esige di essere aiutata appena ne vede l’opportunità.

 

Pensata per i nomadi

La Chiesa, per loro fortuna, si è fatta avanti, e per aiutare i bambini dei pastori nomadi ha comperato il terreno dove il governo ha costruito la scuola di Matigari. «Questa è la sola scuola pubblica con convitto nella regione, aperta soprattutto ai bambini maasai, samburu, turkana, pokot, somali e borana. Non ci sono solo gli scolari che risiedono al convitto, ma anche quelli che, vivendo vicino, possono andare e venire dalle loro case».

Nelle vicinanze della scuola si è già stabilita una piccola colonia di nomadi che non potendo pagare le tasse scolastiche hanno costruito le loro capanne permettendo ai figli di venire a scuola senza stare nel convitto. I piccoli sono accuditi dalle nonne mentre i genitori si spostano con gli armenti in cerca di pascoli. Il direttore, che è padre e insegnante, insiste sul fatto che in questa area è urgente soccorrere i bambini che per ragioni varie non vanno a scuola. «Il ragazzino che si deve fare una decina di chilometri per venire a scuola o all’asilo va aiutato. I bambini vogliono imparare ma la povertà è un grosso ostacolo per loro. Se qualcuno potesse aiutarli ad entrare nel convitto, potrebbero essere salvati».


5.
Curare gli infermi
di Cynthia Awor

I pastori nomadi hanno sempre creduto nell’efficacia della medicina tradizionale e nell’uso di erbe medicinali. Ma non tutto si può curare con esse, e allora normalmente sopportano i loro mali in silenzio e solo quando non ne possono più cercano aiuto all’ospedale della missione. Questo è ciò che ci dice suor Anna Muturi (nella foto), delle Suore Dimesse, che dirigono il Dispensario Cattolico a Rumuruti.

Le Suore Dimesse aprirono il Dispensario di Rumuruti nel 1992. Suor Anna dice che «in questa area c’era veramente un grande bisogno di un centro per la salute, così la missione pensò all’ospedaletto che assiste gioalmente i malati. Ogni primo giovedì del mese offriamo servizio oculistico e odontoiatrico. Abbiamo pure un reparto di maternità e pediatria».

Secondo la suora il servizio che il dispensario offre, incontra molti problemi, non ultimo quello finanziario, perché la gente pensa che essendo il dispensario cattolico, i servizi debbano essere gratuiti. Naturalmente tutti gli ammalati vengono curati, e nessuno viene mandato a casa senza essere stato esaminato. Spesso però si presentano persone che, oltre alle medicine, hanno bisogno di altro e allora, quando si può, il dispensario provvede per i più poveri anche vestiti e cibo. Suor Anna dice: «Un gran numero di infermi soffrono di depressione. Allora li ascoltiamo e consigliamo. Parliamo loro di Dio e diamo loro informazioni su come migliorare la loro salute. Questo è il nostro modo di evangelizzare». L’orario del dispensario è molto flessibile e sempre le suore rispondono alle emergenze, sia di giorno che di notte, e sovente perfino durante le funzioni religiose.

In Thome, a sedici chilometri da Rumuruti, c’è un altro piccolo dispensario con tre letti e con un piccolo reparto maternità. È stato fatto nel 2011 grazie all’aiuto di un gruppo di medici italiani di «Africa nel Cuore» che hanno voluto sostenere gli sforzi della missione. Il dispensario ha allargato oggi i suoi servizi in altri settori: una falegnameria, un allevamento di galline, un orto sperimentale e un servizio di acqua potabile.

Ambedue i dispensari, Rumuruti e Thome, offrono servizi di prim’ordine: consulte, analisi, accertamenti, distribuzione di farmaci, e fa l’impegnativa presso altri ospedali regionali nei casi più complessi. Sono dotati anche di farmacie ben foite, grazie all’aiuto di amici e Ong. Ogni dispensario è servito da un’infermiera, un farmacista e un tecnico di laboratorio. Occasionalmente si uniscono anche i medici italiani. Per il futuro, Suor Anna vorrebbe anche un reparto maternità più ampio, in quanto gli ospedali del distretto sono inadeguati e tante donne devono andare fino a Nyahururu.

Questi dispensari cattolici sono orgogliosi dei servizi che offrono alla gente; non trattano solo corpi ma in primo luogo persone. Costituiscono un investimento per il futuro e aiutano a creare stabilità sul territorio. Il loro contributo non si può valutare solo in termini economici, ma va visto e misurato soprattutto col numero di vite che toccano e migliorano.


6.
Un uomo, una missione

Dopo 55 anni di servizio missionario, padre Vaccari è ancora sulla breccia. Con il suo passo quieto, il cuore grande, l’occhio attento ai bisogni delle persone e la capacità di dar fiducia ai collaboratori, continua a camminare con la gente di Rumuruti nell’ostinata ricerca della pace, non fondata sulle promesse dei politici, ma su Cristo Gesù, il solo che può far di tutti un’unica famiglia.

Francesco (per la Chiesa) Mino (per il comune) Vaccari, nato nel 1930 a Baiso (Reggio Emilia), entra ragazzino nei missionari della Consolata il 1° ottobre 1942, durante la guerra. Ordinato sacerdote nel 1959, arriva in Kenya il 28 agosto 1960. Apprendista di lingua e cultura kikuyu a Kiangoni nel Nyeri, conosce due missionari speciali che saranno suoi modelli di vita: padre Enrico Manfredi (1896-1977), vero «uomo di Dio», e padre Bartolomeo Negro (1903-1967), l’«uomo di tutti», che voleva un gran bene alla gente. Nel 1962 è mandato a Nyahururu (sull’equatore) con l’incarico di cornordinare le scuole. Vi rimane fino al 1969, vivendo il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, e lascia il posto a don Luigi Paiaro, sacerdote fidei donum di Padova, che nel 2003 diventerà il primo vescovo di Nyahururu con l’omonima diocesi che comprende la Nyandarua County e il distretto di Laikipia West.

Nel 1970 è trasferito a Tetu (fondata nel lontano 1903), una missione dalla gente «difficile» (si diceva allora), ma non povera, perché grazie alla fertilità dell’ambiente tutti hanno il necessario per vivere. Sono gli anni del post-concilio, tempi di contestazione, sì, ma soprattutto rinnovamento.

Lui, missionario sbarazzino (come lui stesso si definisce), ma dal carattere quieto e tollerante, si butta nella pastorale parrocchiale affascinato dalla nuova visione conciliare di Chiesa «popolo di Dio». Il confronto spirituale con altri missionari amici e l’amore dato alla gente e ricevuto in cambio, lo aiutano a superare anche i momenti più difficili. Rimane a Tetu 17 anni, fino all’87, godendo anche dell’amicizia e stima del vescovo di Nyeri, mons. Cesare Gatimu. Visita tutte le famiglie casa per casa, promuove le piccole comunità cristiane, forma catechisti, leader e animatori della liturgia domenicale e costruisce ben 22 cappelle periferiche, il tutto grazie alla capacità di coinvolgere persone e comunità nel cammino.

Eletto superiore regionale del Kenya nell’ottobre 1987, serve per due mandati e a fine 1993 è nominato parroco di Rumuruti facendo staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939), eletto vice superiore regionale. Abituato a parlare kikuyu, a oltre sessant’anni deve imparare sul campo il kiswahili, la lingua franca necessaria in quella realtà multietnica. L’impatto iniziale è duro: isolamento, comunità sparse, grandi distanze, mancanza di strade, povertà, molti rifugiati interni con tanti orfani, nomadismo. È la missione di frontiera, ai margini delle fiorenti comunità cristiane del Nyeri e del Nyandarua, terra di conflitti e conquista. Si rimbocca le maniche cominciando dalla formazione dei catechisti e focalizzandosi su quello che è più urgente: l’educazione e la lotta alla povertà per costruire una comunità cristiana che viva in pace. Ma non fa tutto da solo, con la sua pacatezza riesce a mobilitare una marea di collaboratori sia in loco che in Italia, soprattutto nelle generose terre dell’Emilia e della Brianza.

Dietro la storia di queste pagine c’è lui, un missionario d’azione e di poche parole. Uno che fa bene il bene, senza far rumore.

Gigi Anataloni

The Seed e Gigi Anataloni




El Salvador 1: Dai massacri alla domanda di giustizia.

Un grido stanco, ma tenace.
Contro l’oblio.

Introduzione: Contro l’oblio.
Camminando per El Salvador
con l’orecchio attento, abbiamo incontrato un grido, sempre più stanco e
flebile, ma tenace. Esso nasce dal decennio di guerra intea degli anni
Ottanta, e dalle violenze e ingiustizie che lo hanno preceduto e seguito.
Chiede verità, giustizia, riconoscimento, riparazione. Proviene dalle anziane
madri degli scomparsi, dai figli dei massacrati, dai sopravvissuti alle torture,
dai bambini sottratti alle famiglie e dai genitori che li cercano, da coloro
che hanno fatto dei diritti umani la loro battaglia di vita. Costoro sono l’umanità sofferente, l’effetto collaterale
che, in ogni parte del mondo, segue sempre un periodo di barbarie.

Vi
sono molti modi per visitare un paese: scoprie le ricchezze artistiche,
godere delle spiagge e della natura, seguire un percorso enogastronomico. Noi
abbiamo deciso di attraversare El Salvador dedicando il nostro sguardo e il
nostro ascolto alla domanda di giustizia che si eleva dalla sua terra.

All’indomani del conflitto, che insanguinò il paese per
tutti gli anni Ottanta, El Salvador scelse la via dell’amnistia, che escluse la
possibilità di celebrare processi e depotenziò radicalmente il lavoro svolto
dalla Commissione per la verità istituita nel 1992. Alla base di questa
strategia, adottata da molti paesi latinoamericani nello stesso periodo, vi era
l’interesse dei vertici politici e militari e di alcuni leader guerriglieri ad
autotutelarsi. Negli anni successivi, la politica del «voltar pagina» prese le
forme del silenzio sul passato, del negazionismo, dell’ostacolare qualsiasi
richiesta delle vittime.

A fronte dell’inerzia (quando non dell’ostilità) dello
stato, il movimento per i diritti umani, che aveva raggiunto l’apice negli anni
della guerra, fece del contrasto all’impunità e della difesa dei diritti delle
vittime una delle sue nuove ragioni d’essere.

Con pochi mezzi e molto coraggio, alle organizzazioni
storiche (i comitati delle Madri, l’Ufficio di tutela legale
dell’Arcivescovado, la Comisión de Derechos Humanos, l’Istituto per i
diritti umani dell’Universidad Centroamericana) se ne affiancarono
alcune nuove, tra cui il Centro Madeleine Lagadec e l’Associazione
Pro-Búsqueda
. Si tratta di piccole organizzazioni che, con modalità diverse
(l’appoggio psicologico ai familiari durante le esumazioni dei caduti, la
rappresentanza giuridica davanti alle istituzioni nazionali e inteazionali,
la ricerca dei bambini scomparsi…), si adoperano per rispondere alle necessità
delle vittime.


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El Salvador: cronistoria:
El pulgarcito
de America

La scrittrice cilena, nobel per la letteratura nel 1945, Gabriela Mistral
lo battezzò el pulgarcito (pollicino) de America. Con 6 milioni
di abitanti e una superficie di 21mila kmq (di poco inferiore a quella
dell’Emilia Romagna, ndr), è il paese più piccolo e densamente popolato
dell’America Centrale. Situato lungo el cinturón de fuego (un «anello»
che borda i margini dell’Oceano Pacifico di attive zone di subduzione – zone di
frizione tra due zolle tettoniche in cui sono frequnti eventi vulcanici e
sismici, ndr), il 90% del suo territorio è formato da materiale
vulcanico, e sei dei suoi ventitre vulcani presentano qualche forma di attività.

San Salvador, la capitale, sorge
alle pendici di un vulcano nella valle cosiddetta «della amache». L’ultimo
devastante terremoto risale al 2001, ma i temblores (tremori della
terra) sono all’ordine del giorno.

El Salvador appare come un paese
dove la natura è matrigna, ma anche madre benigna che impressiona per la
biodiversità della flora e della fauna tropicale, la rigogliosità della
vegetazione, i colori degli uccelli, e l’abbondanza della frutta.

1524 / La
Colonizzazione

All’arrivo dei coloni spagnoli,
nel XVI secolo, la regione dell’odierno El Salvador era abitata dai Pipil,
etnia di origine nahua, e da alcune enclavi minori, di ascendenza maya. I conquistadores,
dopo aver sbaragliato la resistenza autoctona nel giro di quattro anni di guerre
sanguinose (1524-28), s’impadronirono delle terre e fecero della
manodopera indigena la loro principale fonte di arricchimento. Il duro lavoro
nelle piantagioni, le malattie e la diffusione del meticciato eliminarono
progressivamente i tentativi di rivolta. Dopo i conquistadores, anche i misioneros
(missionari appartenenti a diversi ordini religiosi) approdarono in El Salvador
e si dedicarono alla cura pastorale dei coloni e dei creoli e alla conversione
al cattolicesimo degli indios e dei meticci.

1821 / L’indipendenza

El Salvador rimase dipendente
dall’Audiencia del Guatemala, appartenente al vicereame della Nuova Spagna fino
al 1821, quando per l’insofferenza verso le vessazioni economiche della
Casa reale spagnola dichiarò la propria indipendenza partecipando alla
federazione delle Province unite dell’America centrale (1823-39).

Nel 1841, dopo lo
scioglimento della federazione, fu proclamata la repubblica.

A partire dall’indipendenza il
paese fu guidato alternativamente dai conservatori e dai liberali, entrambi
espressione dell’élite creola.

Una ristretta oligarchia
borghese (le cosiddette 14 famiglie), dedita alla produzione di caffè per
l’esportazione, attraverso la corruzione di governatori e alcaldi, le
compravendite legittime e alcune leggi che proibivano il possesso comune della
terra (emanate tra il 1879 e il 1882), si impadronì di gran parte delle
terre coltivabili, trasformando gli indigeni e i contadini meticci in
braccianti sottopagati.

Nel 1913, grazie a brogli elettorali, la dinastia Melendez Quiñónez
salì al potere, avviando il primo, lungo, periodo di dittatura sofferto dal
paese. La politica di repressione della classe lavoratrice favorì la nascita
delle prime organizzazioni sociali e sindacali e gettò il seme per la grande
insurrezione del 1932.

1932 / La Matanza

Nel 1931 un colpo di stato portò al potere il generale
Maximiliano Heández Martínez. La grande depressione economica mondiale non
risparmiò El Salvador, la cui economia dipendeva dalle esportazioni. La
drammatica situazione sociale nelle campagne, dove il 91% dei lavoratori
agricoli non possedeva terra da coltivare per il fabbisogno familiare, e la
cancellazione delle elezioni municipali che il governo golpista aveva inizialmente autorizzato, furono tra i
fattori scatenanti degli scioperi del 1931 e dell’insurrezione dell’anno
seguente.

Quanto avvenne nel 1932 è sovente considerato la «shoa salvadoregna», ed è
indicato con l’espressione la Matanza (il massacro). Nella capitale le rivolte
erano guidate dal Partito comunista di Farabundo Martí, mentre nelle campagne
furono i contadini a sollevarsi. Il regime rispose con inaudita violenza: tra
gennaio e febbraio furono sterminate circa 30mila persone. Autrici dei massacri
furono le forze militari regolari e le formazioni di civili paramilitari,
antesignane degli squadroni della morte che sarebbero poi stati protagonisti
delle violenze degli anni ’70 e ’80.

1932-1977 / Fermenti sociali e repressione

Durante gli anni della sua
dittatura, Martínez si schierò con le potenze dell’Asse prima e con gli Usa
poi. Fu sostituito dal generale S. Castañeda (1945-48) e dai colonnelli Oscar Osorio (1950-56) e J. M. Lemus (1956-60).

Sul fronte interno, una volta
tramontati gli iniziali tentativi riformisti, questi governi optarono per il
soffocamento di qualunque forma di opposizione. Sul piano internazionale, si
posero nella scia degli Usa.

Alcuni ufficiali riformatori
presero il potere per pochi mesi tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961, quando furono sostituiti da una giunta militare
conservatrice, al potere con i colonnelli A. Rivera (1962-67) e F. Sánchez (1967-72). L’azione di questi governi non incise
sulla situazione di grave ingiustizia sociale, data dalla concentrazione della
ricchezza, e in particolare della terra, in poche mani. Grazie ai consueti
brogli elettorali il Pcn (Partido de conciliación nacional), espressione
della destra anticomunista e militarista dei colonnelli, vinse le elezioni
presidenziali del 1972 e del 1977. Nel corso degli anni Sessanta, nell’intera America Latina i fermenti libertari e sociali si erano
fusi con le istanze provenienti dal Concilio Vaticano II e dalla
conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellín, che mettevano il «popolo»
al centro della Chiesa e richiamavano i cristiani all’impegno per la giustizia
sociale.

L’ondata di rinnovamento trovò
in El Salvador un terreno fertile. Il clero più favorevole alle decisioni di
Medellín s’impegnò nella difesa e nella «coscientizzazione» del popolo oppresso,
anche a costo di una profonda divisione intea alla Chiesa.

Nacquero le Comunità
ecclesiali di base
(piccoli gruppi di fedeli che si riunivano per la
lettura comunitaria della Bibbia, considerata uno strumento di comprensione
della realtà e una guida per l’impegno sociale), cui presto si affiancarono
numerose altre organizzazioni sindacali e politiche, d’ispirazione
cristiana, comunista o rivoluzionaria.

La crescente partecipazione
sociale del popolo scatenò una sempre più spietata repressione, che a sua volta
indusse alcune organizzazioni popolari a far nascere veri e propri movimenti
politici d’ispirazione marxista leninista, rivoluzionaria o insurrezionalista,
esplicitamente orientati alla lotta. Questi, allo scoppiare della guerra nel 1980, confluirono nel Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional
(Fmln).

1976-1980 / Rutilio Grande e monsignor Oscar
Romero

Nel 1976 mons. Chávez y González, arcivescovo della capitale,
rassegnò le dimissioni. Alla sua successione non fu nominato il suo ausiliare,
mons. Rivera Damas, ritenuto troppo critico verso il governo, bensì mons. Oscar
Aulfo Romero y Galdamez. Romero era un uomo spirituale, dedito allo studio,
estraneo alla politica e non in contrasto con l’oligarchia e il governo.

Nel febbraio del 1977 la polizia rispose con il fuoco alle proteste contro i
brogli elettorali. Il 12 marzo dello stesso anno, padre Rutilio Grande
fu ucciso in un’imboscata, insieme a due contadini. Nella missione di Rutilio,
la lettura assidua della Bibbia e l’aiuto reciproco avevano portato i campesinos
a prendere consapevolezza dell’inconciliabilità dell’universale pateità di
Dio e della fratellanza tra gli uomini con la situazione di disuguaglianza e
oppressione in cui vivevano. La scoperta dei propri diritti li aveva portati a
protestare per le frodi sul salario e a organizzare il primo sciopero. Rutilio,
per rimanere fedele alla sua linea di adesione univoca e incondizionata al
Vangelo, aveva difeso il diritto dei fedeli a organizzarsi politicamente, rimanendo
estraneo ai raggruppamenti e alle iniziative politiche.

Padre Grande e il neoeletto
arcivescovo di San Salvador erano intimi amici. La morte del gesuita scosse
profondamente mons. Romero e lo spinse a interrogarsi sulla sua missione in
quel preciso momento storico. Egli si sentì chiamato a diventare voce e difesa
del popolo oppresso, a costo dello scontro frontale con il presidente, il
governo e l’oligarchia. Ciò creò una forte unità tra lui e il clero diocesano
che inizialmente non ne aveva apprezzata la nomina.

Romero non giustificò mai alcuna
forma di violenza, nemmeno quella rivoluzionaria, poiché violava la sacralità
della vita umana, rendeva impossibile il dialogo e alimentava la spirale di
vedetta. Non poteva però tacere il fatto che fosse la violenza strutturale e
istituzionalizzata a suscitare quella dei movimenti popolari. L’Arcivescovo non
rifiutò mai il dialogo con gli uni o con gli altri, ascoltando e proponendo la
via cristiana della conversione e della nonviolenza.

Nel 1979, nel vicino Nicaragua la lotta di liberazione dei
sandinisti sconfisse il dittatore Somoza: ciò fece apparire ancora più
insostenibile la dittatura militare salvadoregna, che venne rovesciata con un
golpe quasi incruento. Una giunta rivoluzionaria, composta di esponenti
riformisti dell’esercito e della società civile resistette due mesi e mezzo.
Seguì una seconda giunta rivoluzionaria, ma lo scenario non cambiò: in
città le manifestazioni erano represse nel sangue, nelle campagne l’esercito
e gli squadroni della morte seminavano il terrore tra i contadini. La
guerriglia
, dal canto suo, rispondeva a questa situazione con sequestri e
omicidi di politici e di membri dell’oligarchia, attacchi contro le forze di
sicurezza, occupazioni di edifici, scatenando terribili rappresaglie che
colpivano la popolazione civile.

L’arcivescovo Romero prese
un’iniziativa senza precedenti: scrisse al presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, per chiedere di non inviare più aiuti militari a El Salvador, poiché
questi sarebbero stati utilizzati per la repressione del popolo. La sua
richiesta rimase inascoltata. Un mese più tardi, il 24 marzo 1980, dopo aver ricevuto numerose minacce di
morte dagli ambienti di destra e, in seguito all’appoggio alla prima giunta
rivoluzionaria, anche da quelli di sinistra, l’Arcivescovo Romero fu ucciso
mentre celebrava la Messa nella cappella dell’Ospedale presso cui risiedeva, a
San Salvador.

Le indagini sull’omicidio, a
causa di interruzioni, depistaggi, furti di documenti, uccisioni dei testimoni,
non hanno portato alla celebrazione di un processo. Le investigazioni compiute
da istituzioni nazionali e inteazionali concordano nell’indicare Roberto
D’Aubuisson
, fondatore degli squadroni della morte e del partito di destra
Arena, quale organizzatore dell’attentato, su probabile incarico d’importanti
proprietari terrieri ed esponenti dell’oligarchia.

Il 30 marzo si svolsero i
funerali. Tra le 50 e le 100mila persone affollarono la cattedrale e la piazza
antistante. Non è chiaro se furono i militari o i guerriglieri ad aprire il
fuoco per primi, fatto sta che le esequie interrotte dell’arcivescovo martire,
e i morti calpestati dalla folla terrorizzata segnarono l’inizio di una lunga e
sanguinosa guerra civile.

1980-1992 / La
Guerra Civile

Il 1980 inaugurò l’epoca dei massacri, perpetrati dalle forze
della controinsurgencia ai danni della popolazione rurale per annientare
ogni residua volontà di ribellione e fare «terra bruciata» intorno alla
guerriglia. Il governo, che riceveva grandi quantità di aiuti economici e militari
dagli Usa, su pressione di questi intraprese alcune riforme (a partire da
quella agraria) e avviò il processo di transizione verso un governo civile:
il leader della Democrazia Cristiana (Pdc) José Napoleón Duarte assunse
l’incarico di presidente provvisorio nel dicembre 1980 e nel marzo successivo fu istituita l’Assemblea costituente, nella
quale i partiti di destra (Pcn e Arena) avevano la maggioranza. Nel 1983 venne varata la nuova Costituzione, nel marzo 1984 si svolsero le presidenziali e l’anno successivo le
legislative. Nonostante la vittoria in entrambi gli appuntamenti elettorali, il
Pdc di Duarte non riuscì a percorrere la via delle riforme e della
pacificazione nazionale, non potendo controllare le forze armate e i legami di
queste con gli squadroni della morte. Le elezioni legislative del 1988 videro l’affermazione di Arena (Alianza
republicana nacionalista
), che aveva iniziato la sua scalata politica nel
1984. Nell’89 il leader arenero Alfredo
Cristiani divenne presidente, inaugurando un ventennio di governi del suo
partito.

Nonostante fosse al potere
l’estrema destra di Arena, nel 1990
alcune concause (tra cui il crollo del Muro di Berlino e l’allentarsi della
Guerra Fredda) resero possibile la negoziazione di una soluzione alla guerra,
che aveva ormai assunto un profilo di bassa intensità, anche a causa del
violento terremoto che, nel 1986, aveva seminato morte e
distruzione nel paese già martoriato. Le lunghe trattative tra il governo e
l’Fmln
, mediate dal Segretario generale dell’Onu, portarono alla stesura di
un’agenda di riforme (militare, economica e sociale) e culminarono con gli accordi
di pace firmati a Città di Messico il
16 gennaio 1992. Dopo 12 anni di guerra civile si
contarono circa 75mila
morti, 8mila desaparecidos e un milione di profughi.

1989 / Strage all’Universidad
Centroamericana

Nel 1989, mentre era in corso una forte offensiva della
guerriglia sulla capitale, un battaglione speciale dell’esercito penetrò nel
campus dell’Universidad Centroamericana «José Simeón Cañas» (Uca) e
massacrò il rettore, il padre Ignacio Ellacuría, altri cinque gesuiti che
componevano la direzione dell’ateneo, la loro collaboratrice e la figlia di
questa.

I gesuiti della Uca facevano
parte del settore più progressista della Chiesa. Attraverso l’Uca intendevano
educare i giovani, in particolare i figli delle classi dominanti, alla
responsabilità verso la realtà sociale ed economica del paese. Erano abituati
alle campagne denigratorie condotte contro di loro da esponenti del governo,
dell’esercito e della Chiesa stessa, alle minacce e agli attentati ai danni
dell’Università.

1993 / La commissione per la verità e la legge d’amnistia

Come previsto dagli accordi, fu
istituita una Commissione per la Verità, sotto l’egida delle Nazioni Unite, con
il compito di fare luce sulle violenze perpetrate da entrambi gli schieramenti
in lotta.

La reazione del Goveo di
fronte al dossier elaborato dalla Commissione fu critica e sprezzante. Il presidente
in carica, Alfredo Cristiani, affermò che il report non rispondeva al desiderio
della maggioranza dei salvadoregni, i quali volevano perdonare e dimenticare un
passato tanto doloroso. Cinque giorni più tardi, il 20 marzo 1993, l’Assemblea legislativa emanò una
legge di amnistia generale, che concesse l’impunità a tutti coloro che
avevano commesso delitti relazionati al conflitto armato. Tale legge, tuttora
vigente, permette ai responsabili dei crimini di vivere indisturbati, in alcuni
casi occupando posizioni di prestigio nella vita politica ed economica del
paese e costituisce il principale ostacolo alla ricerca di verità e giustizia
portata avanti dalle vittime del conflitto e dai loro familiari.

1992-2009 / Il post guerra e la destra di Arena

Le due decadi successive al
conflitto videro, sul fronte politico, la supremazia di Arena con i suoi
presidenti Cristiani (1989-94), A. Calderón Sol (1994-99), F. Flores (1999-2004) e E. A. Saca (2004-2009), che puntarono tutto sullo sviluppo
del capitalismo, rifiutandosi di affrontare le cause che avevano portato
alla guerra intea.

Dalla fine della guerra poi, il
problema dell’alto livello di criminalità crebbe sempre più: dal 1994 al
2012 le fonti ufficiali hanno registrato 73.608 omicidi (la guerra civile ne
causò circa 75mila). Le violente bande giovanili, chiamate pandillas
callejeras
o maras, pur non essendo le sole responsabili di tanta
violenza, sono tutt’oggi la principale fonte di allarme sociale.

2009-2014 / l’Fmln al potere: promesse da mantenere

Nel 2009, l’Fmln (trasformatosi in partito con gli accordi di
pace), vinse per la prima volta le elezioni dopo alcuni tui elettorali in cui
aveva guadagnato consensi, al contrario di Arena che ne aveva persi. Mauricio
Funes divenne presidente della Repubblica con promesse e aspettative di
progressi sul fronte della giustizia sociale e dello sviluppo che furono poi
onorate solo in misura moderata.

Lo scorso mese di marzo 2014, dopo una campagna elettorale dominata
dal tema della sicurezza, l’Fmln – con il candidato Salvador Sanchez Cerén, ex
leader guerrigliero – ha vinto nuovamente le elezioni, con un vantaggio di soli
6mila voti su Arena.

A.Z.

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Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 2: Dai massacri alla domanda di giustiziaNé verità, né giustizia


Le Madri dei Desaparecidos.
Dalla penosa, e spesso infruttuosa, ricerca dei loro
figli in caserme, ospedali e cimiteri, alla ricerca della verità e di una
giustizia che, dopo più di venti anni di pace, tardano ad arrivare. Anche il
primo governo dell’Fmln (il Fronte Farabundo Martí per liberazione nazionale,
partito nato dalla guerriglia), subentrato nel 2009 a un ventennio di governi
del partito di destra Arena, ha deluso le speranze delle anziane madri.

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Veniamo accolti da una ventina di donne, con la pelle scura segnata dal tempo e dal dolore, lo sguardo profondo e fiero. Chi vive alle nostre latitudini forse non si è mai chiesto come trascorrano la festa della mamma le madri dei desaparecidos latinoamericani.

Un figlio desaparecido non si dimentica

«Me llamo Cunegonda e sono madre di sette figli: tre sono stati uccisi, uno è desaparecido, uno morto di malattia da bambino, e due figlie sono vive. Il mio figlio scomparso si chiamava Manuel, aveva 21 anni. Era segretario dell’Upt (Unione degli abitanti dei tuguri) e scomparve il 3 giugno 1980, mentre andava a una riunione presso l’Università. Voleva lottare per noi poveri, perché ci trattassero come persone degne di rispetto. Era leader, riuniva gli altri nella nostra casetta, discutevano di quello che noi poveri potevamo fare per farci ascoltare». Cunegonda prende fiato e prosegue. Un fiume di dolore in piena, con voce acuta e dolce. «Mio figlio mi manca. Da quella mattina dell’80 non l’ho più visto. Ogni volta che comparivano cadaveri, io andavo a vederli. L’ho cercato per caserme, ospedali, ovunque, ma non mi sono mai imbattuta nella sua sorte. Un figlio desaparecido non si dimentica un solo istante».

L’assordante rumore del traffico della capitale e la stretta parlata contadina di Cunegonda ci rendono difficile capire. Lei abbassa gli occhi e si sistema i vecchi occhiali: «Se volete, vi racconto un pezzetto della mia storia. Mi vennero a prelevare a casa il 9 marzo del ’77, rimasi in prigione fino al 26 agosto. Durante tutto quel tempo la mia bambina più grande e mio marito si presero cura dei piccoli. In carcere si soffre molto, è terribile stare lì…».

«Perché la arrestarono?», domandiamo.

«Venne la polizia, cercava i miei figli maggiori. Loro non erano in casa, erano a un funerale. Così portarono via me. Al commissariato mi picchiarono ripetutamente. Ancora oggi soffro di fortissimi dolori alla testa e alla schiena per quei colpi. Mi rilasciarono grazie a mons. Romero, che chiese la mia liberazione durante le omelie della domenica, e alla tenacia dei suoi giovani collaboratori. In seguito a questi fatti, non potemmo più vivere nella nostra casa. Dopo la sparizione di Manuel, i miei altri due figli maschi e Isabel, di 16 anni, se fueron a la montaña (si unirono alla guerriglia). Tutti e tre morirono combattendo. Nemmeno loro ho potuto seppellire, però per lo meno non li hanno catturati a casa…».

Alla ricerca di verità e giustizia

Sono trascorsi più di vent’anni dagli accordi di pace. L’attività di Comadres, Codefam e Comafac si è trasformata: l’affannosa ricerca degli scomparsi nelle prigioni e nei cimiteri clandestini ha lasciato il posto a un’altrettanto ardua ricerca di verità e giustizia.

Nessun processo è stato celebrato, nessun archivio è stato aperto. La politica ha imposto il perdono y olvido (oblio). E così le madri sopravvissute, sempre più cariche di anni e di dolore, hanno abbracciato la loro nuova missione. «Ogni anno presentiamo una richiesta all’Assemblea legislativa», ci racconta una madre. «Non ci hanno mai fatto entrare nel palazzo, restiamo fuori nel cortile. Una volta è uscito un impiegato, ha preso il documento che avevamo preparato e l’ha stracciato di fronte a noi. Il governo di Funes (in carica dal 2009 al 2014 dopo quasi due decenni di governi del partito di destra Arena, e sostituito da poche settimane dal governo Cerén della sua stessa parte politica, l’Fmln, ndr) ha fatto qualcosa, ma è troppo poco».

A un certo punto le madri si siedono in cerchio. La stanza è affollata e noi prendiamo posto in un angolo: anche se le nostre ospiti sono accoglienti, ci sentiamo un po’ intrusi.

Al termine della riunione si alzano una a una, lentamente. Ciascuna pronuncia il nome di una compagna scomparsa e le parole «¡creo en tus luchas y seguimos de pié!» (credo nelle tue lotte e proseguiamo in piedi!), poi prende una rosa e la dona a un’altra madre, abbracciandola e sussurrandole un pensiero. Infine, una madre dona una rosa anche a noi.


________________________________________

Comadres e gli altri


Tra commissariati, ospedali e obitori

Comadres (Comitato delle madri e dei familiari dei
prigionieri, degli scomparsi e degli uccisi Mons. Romero), Codefam (Comitato
dei familiari delle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani Marianella
García Villas) e Comafac (Comitato delle madri e dei familiari cristiani dei
detenuti, scomparsi e assassinati Padre Octavio Ortiz – Sorella Silvia Arriola)
sorsero negli anni della violenza di stato e della guerra civile. Il più
antico, Comadres, ebbe origine dalle madri degli studenti prelevati a forza
dall’esercito mentre manifestavano pacificamente per le strade della capitale.

Era il 1975 e, nonostante la feroce repressione, la
guerra sembrava ancora una catastrofe evitabile. Queste donne s’incontrarono
nelle estenuanti ricerche presso i commissariati, gli ospedali e gli obitori e,
superando il clima di generale diffidenza e sospetto, iniziarono a riconoscersi
e ad appoggiarsi l’una all’altra. L’idea del comitato venne al neoeletto
arcivescovo Romero che, dopo aver invitato le madri dei giovani desaparecidos
a trascorrere con lui la vigilia del Natale 1977, suggerì loro di unire gli
sforzi e le voci, affinché fossero più forti. Nemmeno la violenza e la morte
avrebbero più fermato queste modee Antigone. Vestite di nero, un fazzoletto
bianco sul capo, denunciavano al Salvador e al mondo lo strazio del loro paese,
cercavano gli scomparsi, visitavano i prigionieri e percorrevano le strade
all’alba, con il triste compito di fotografare di nascosto i cadaveri che ogni
notte venivano abbandonati, per evitare ad altre madri il penoso, pericoloso e
inutile pellegrinaggio per ospedali e prigioni.

Il numero delle madri cresceva man mano che il paese
sprofondava nella violenza. Comadres e i due comitati che sorsero
successivamente, insieme alle altre organizzazioni sociali, organizzarono
manifestazioni, scioperi della fame, occupazioni di chiese e ambasciate. La
risposta del regime fu sproporzionata: le madri e i loro familiari furono
vittime di sequestri, uccisioni, stupri e torture. Le sedi dei comitati subirono
attentati dinamitardi e saccheggi. Il maggiore D’Aubuisson dichiarò
pubblicamente di voler sgozzare las madres una a una.

A.Z.

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giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 3: Dai massacri alla domanda di giustizia «I nostri morti sono esistiti»

1974: il massacro de la Cayetana

Per fare «terra bruciata» attorno alla guerriglia,
l’esercito salvadoregno sterminò interi villaggi. È stato il caso anche de La
Cayetana, piccola comunità rurale che nel 1974 vide il primo massacro di campesinos.
I corpi delle vittime giacciono ancora nella fossa comune in cui furono gettati
dai soldati della Guardia Nacional. A
distanza di 40 anni, i figli, le madri, le mogli, le sorelle dei massacrati
chiedono ancora di potee riesumare i resti per dare loro una sepoltura
dignitosa e per smentire chi persiste nel negare le atrocità del passato.

Il
pick-up corre sulla strada assolata, costeggiata dai banchetti dei
venditori di cocchi e canne da zucchero. La vegetazione è rigogliosa e il cielo
azzurro, profondo. Seduti sul sedile posteriore, sfogliamo i nostri quadei
carichi di appunti. Vorremmo che i nostri occhi potessero conservare tutte le
immagini e i colori, le nostre menti memorizzare ogni volto, le nostre mani
annotare ogni pensiero. Siamo di ritorno da Tecoluca, paesotto circondato da
innumerevoli villaggi, tra i più massacrati durante la guerra civile. Abbiamo
accompagnato Elí e Claudia, del Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
(Cpdh), a incontrare le vittime della Cayetana,
piccola comunità che, nel 1974, fu teatro del primo massacro di campesinos
compiuto dalla Guardia Nacional, corpo di sicurezza a carattere militare,
anteprima dell’inferno che stava per scatenarsi. Il Cpdh le sta aiutando nel
loro lungo percorso per ottenere l’esumazione dei resti dei loro cari, che
ancora giacciono in una fossa comune non lontana dal villaggio.

Corpi, assassini e dolore

Uno dei primi problemi da risolvere per i congiunti dei
massacrati, oltre a tutti i permessi da ottenere presso le autorità, è
paradossalmente quello di dimostrare che i loro cari sono esistiti. Quasi mai
infatti ci sono atti di nascita o certificati di battesimo. Si tratta di un
procedimento macchinoso e difficile, che re vittimizza i familiari.

Nei giorni che hanno preceduto il nostro viaggio ci
siamo interrogati sul senso di una tale fatica che, a distanza di 40 anni,
potrebbe portare a non trovare nulla o solamente qualche frammento osseo. Ma
ora, ascoltando le storie delle vittime e dei loro cari, vorremmo andare a
scavare assieme a loro.

Vediamo nella concretezza di un luogo, di alcuni
sguardi, di oggetti precisi, quello che i libri dicono a proposito dei crimini
contro l’umanità: annichiliscono, annullano, sfigurano le vittime ai loro
stessi occhi, le privano di un volto e le riducono per sempre al silenzio.

Tutti sanno che quei corpi giacciono lì, eppure per 40
anni è stato negato. Non si potevano nemmeno nominare. E se quei corpi non
esistono, non esistono gli assassini, e non esiste nemmeno la sofferenza dei
familiari, ai quali qualunque diritto è precluso.

Se tutto andrà bene, ci vorrà almeno un anno, forse due,
per ottenere le autorizzazioni necessarie e procedere all’esumazione. Quel
giorno, la psicologa del Cpdh sarà a fianco a Silvia che, bambina, vide
seppellire lì i corpi martoriati del padre e del fratello, consolerà Marta, che
spera di ritrovare i resti del marito, morto tra le sue braccia dopo l’attacco
dei militari. Tutta la comunità si stringerà intorno a loro, adoerà con fiori
e canti la veglia funebre, affiderà i martiri al Dio della vita. Poi
costruiranno un piccolo memoriale, sul quale incideranno i loro nomi, affinché
nessuno possa nuovamente negare. E quel giorno non saranno solo i morti ad
avere finalmente pace.

_________________________________________

Centro per i diritti umani Madeleine Lagadec


Contro violenza e impunità

Il Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
nacque nell’aprile 1992, ossia all’indomani della
firma degli Accordi di pace. Le fondatrici lo dedicarono alla memoria di una
giovane infermiera francese, stuprata, torturata e uccisa dall’esercito
salvadoregno nell’89, nell’ospedale mobile in cui prestava servizio. Anche
all’origine di questa organizzazione vi fu la domanda di giustizia delle
vittime. Il Centro Madeleine Lagadec si dedicò, infatti, a raccogliere le
testimonianze dei sopravvissuti in zone rurali particolarmente colpite,
giungendo a documentare più di duecento omicidi individuali e trentacinque
massacri e a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della
Commissione per la verità dell’Onu. La disillusione – suscitata dal perdurare
della situazione di violenza, impunità e illegalità – spinse il Centro Lagadec
a proseguire il suo impegno. In venti anni di attività, ha formato più di mille
promotori e promotrici comunitari dei diritti umani, ha esumato e restituito
alle famiglie i resti di 650 vittime (alcune delle quali erano annoverate tra i
desaparecidos), ha organizzato 32 comitati per i diritti umani, e
numerosi comitati di familiari delle vittime, ha reso possibile la costruzione
di monumenti, la celebrazione di commemorazioni, e ha offerto un aiuto legale e
psicosociale alle famiglie delle vittime.

A.Z.

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El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 4: Dai massacri alla domanda di giustizia Quasi rinascere

Rintracciare bimbi scomparsi nel conflitto dopo 30
anni
Sottratti con la forza dai militari alle loro
famiglie, smarriti dai genitori nel corso delle fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalla guerriglia, cresciuti in
orfanotrofi, in caserme o avviati all’adozione internazionale da funzionari
corrotti, furono centinaia i bambini salvadoregni di cui si persero le tracce
negli anni della guerra. L’Asociación Pro-Búsqueda, fondata da un sacerdote
gesuita nel 1994, aiuta i genitori nella loro ricerca dei figli desaparecidos.

La
scomparsa di minori nel corso di operazioni militari fu denunciata da alcuni
genitori alla Commissione per la verità ma, in quel contesto, non incontrò
attenzione specifica: i bambini furono semplicemente registrati tra i desaparecidos.
Il gesuita Jon Cortina, docente della Uca (Universidad Centroamericana «José
Simeón Cañas»
) e parroco di Guarjila, nel dipartimento di Chalatenango, e
alcune persone che facevano parte della locale commissione per i diritti umani,
presero a cuore la causa delle famiglie che cercavano i loro figli e iniziarono
ad aiutarle a sporre denuncia ai tribunali competenti, a contattare gli
orfanotrofi del paese e a organizzare iniziative pubbliche.

Asociación Pro-Búsqueda

I primi esiti di questo lavoro si
ebbero già all’inizio del 1994, quando cinque dei cinquanta bambini scomparsi
di Guarjila furono rintracciati in un orfanotrofio e ricongiunti alle loro
famiglie. La notizia del reencuentro si diffuse rapidamente nelle
comunità vicine e incoraggiò altri familiari a intraprendere le ricerche.
Davanti alla totale negligenza delle istituzioni statali, padre Cortina e i
familiari decisero di continuare la lotta in modo più formale e sistematico,
costituendo l’Asociación Pro-Búsqueda de niñas y niños desaparecidos durante
el conflicto armado
(Associazione per la ricerca delle bambine e dei
bambini scomparsi durante il conflitto armato). Attualmente ne fanno parte
anche «bambini» ritrovati (che ora sono adulti di 30-35 anni) e altri che
(consapevoli di essere cresciuti con persone diverse dai genitori biologici)
cercano la loro famiglia d’origine. Pro-Búsqueda conta su un’unità
psicosociale che assiste i familiari e i giovani lungo tutto il percorso di
ricerca, li affianca nel delicato momento del rincontro oppure nella sfortunata
necessità di elaborare il lutto, e dispone di una banca di profili genetici
nella quale è stato raccolto, a oggi, il Dna di circa 1200 familiari di minori
scomparsi e di giovani che cercano le loro famiglie naturali.

Scomparsi e ritrovati

Sottratti con la forza dai militari alle loro famiglie,
smarriti dai genitori nel corso delle estenuanti fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalle cellule della guerriglia,
cresciuti negli orfanotrofi, nelle caserme, o avviati all’adozione
internazionale da avvocati e funzionari corrotti, furono centinaia i bambini
salvadoregni di cui si persero le tracce negli anni della barbarie.

Fino a ora, Pro-Búsqueda ha registrato 925 casi e
ne ha risolti 389. Di questi, 335 giovani sono stati ritrovati vivi (alcuni in
Italia, presso ignari genitori adottivi) e hanno potuto incontrare le loro famiglie
naturali, mentre in 54 casi le indagini hanno accertato la morte del minore,
consentendo perlomeno ai familiari di uscire dall’estenuante condizione di
ricerca e di sospensione. Nonostante il lavoro febbrile e i buoni risultati, il
numero di casi in attesa di soluzione non diminuisce, ma aumenta nella misura
in cui le informazioni riguardanti la possibilità di cercare i bambini
scomparsi raggiungono i villaggi più remoti.

Finalmente una commissione nazionale

Con l’appoggio di Pro-Búsqueda,
i familiari di alcuni dei bambini scomparsi hanno presentato denuncia alle
autorità nazionali e, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti
alle istituzioni inteazionali. Il caso delle sorelle Serrano Cruz ha portato
alla prima condanna dello stato salvadoregno da parte della Corte
interamericana per i diritti umani. Tra le misure di riparazione materiale e
simbolica prescritte dal Tribunale internazionale vi era la creazione di una
Commissione nazionale di ricerca dei bambini scomparsi. Dopo avere a lungo
tergiversato, il governo di El Salvador ha istituito tale Commissione, tuttora
operante.

________________________

La madre ritrovata

«Bienvenido Manuel de Jesús!». Lo striscione
azzurro sulla porta della stanza annuncia quasi una nuova nascita. Il giovane
entra con passo veloce, accompagnato dai suoi figli, vestiti a festa. Si dirige
verso l’anziana signora in sedia a rotelle e l’abbraccia con delicatezza. Anche
i bambini salutano timidamente quella nonna sconosciuta.

Stiamo assistendo a un reencuentro, il reincontro
con la madre di un ex bambino desaparecido durante la guerra. Manuel
sopravvisse nel 1981 al massacro del suo villaggio. Fu trovato solo e
abbandonato e fu adottato da un’altra famiglia. La madre, da lui creduta morta,
l’ha cercato per trent’anni. Nemmeno una foto le era rimasta del figlio
scomparso. Oggi s’incontrano per la prima volta da allora.

Ad assistere all’incontro, frutto del lavoro della Comisión
Nacional de Búsqueda
, sono presenti anche diversi giornalisti che
interrompono l’emozione del momento con domande e flash, e assaltando i due
prima che possano veramente credere in quello che stanno vivendo.

Pensiamo alla loro storia – che è la storia di centinaia
di famiglie salvadoregne – e vorremmo poterci affacciare, per un momento, nel
cuore di quella madre e di quel figlio. È un momento di risurrezione, di
giustizia, di riparazione, come ci hanno detto sia a Pro-Búsqueda che
alla Comisión Nacional de Búsqueda. Nulla restituirà alla madre tutti i
momenti che non ha potuto vivere accanto a suo figlio; niente potrà risarcire
il figlio per il trauma e l’abbandono subito. Ma questo è certamente il giorno
più atteso, dove il dolore trova finalmente sollievo e la verità e la giustizia
si trasformano in ossigeno di vita.

A.Z.

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Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 5: Dai massacri alla domanda di giustiziaPer non essere più «terra bruciata»

Piccole pratiche di giustizia riparativa.



Abbracciare chi ha sofferto, costruendo uno spazio in
cui il suo grido di giustizia possa finalmente esprimersi e trovare ascolto.
Narrare e fare memoria del passato, traendone un monito per il futuro. Chiamare
lo stato a rispondere per le sue azioni e omissioni. Sono alcuni degli intenti
del Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa
, iniziativa privata che intende
restituire una risposta di giustizia alle vittime dei gravi crimini compiuti
nei decenni passati in El Salvador.

«Il
mio nome è José Coelio Chicas, quando si verificò il massacro (il caso
conosciuto come Massacro del Junquillo, avvenuto il 14 marzo 1981 nell’omonimo caserío
– borgo – del municipio di Cacaopera, nel dipartimento di Morazán, ndr)
avevo 27 anni, ora ne ho 58». Stringendo il cappello tra le mani e con la voce
che sussulta, don Coelio racconta la storia di sua madre, di sua moglie, dei
loro quattro bambini – l’ultimo dei quali nato 22 giorni prima -, dei suoi
fratelli con le loro mogli e i loro figli, spazzati via uno a uno dalla
violenza cieca del battaglione Atlacatl, per il folle progetto politico che
pretendeva di eliminare la guerriglia circondandola di «terra bruciata», ossia
sterminando i villaggi contadini in cui i guerriglieri potevano, potenzialmente,
trovare sostegno.

Mentre don Coelio con dolcezza chiama per nome i suoi
bambini, racconta della fuga, degli spari, del maiale che divorava i resti dei
più piccoli e del volo degli avvoltorni sulla sua casa bruciata, l’uditorio lo
ascolta in silenzio, quasi in apnea, e sostiene la sua voce spezzata con la sua
presenza attenta e discreta.

La povertà e il dolore hanno fatto invecchiare
precocemente quest’uomo mite che, tra le lacrime, ringrazia Dio e i presenti
per l’opportunità di parlare. Poi rivolge un pensiero allo stato: «Mi hanno
raccontato che a San Salvador c’è un monumento a Roberto D’Aubuisson. Lo chiamo
con nome e cognome e con la certezza che fu un assassino. È un abuso per me e
per tutta questa gente sopravvissuta. È anche un abuso, io credo, che la terza
brigata del dipartimento di San Miguel sia stata intitolata al colonnello
Domingo Monterrosa: questo vuole dire che nel paese in cui siamo nati noi non
valiamo nulla…».

La denuncia del signor Coelio risuona molte volte nel
corso delle sessioni del Tribunale: le celebrazioni istituzionali dei militari
che furono responsabili dei crimini commessi in El Salvador non possono non
ferire profondamente le vittime. La rimozione di tutte le onorificenze
conferite ai victimarios è una delle forme di riparazione invocate,
insieme alle indagini e ai processi che dovrebbero affermare pubblicamente la
verità su quanto accadde in quegli anni bui, alla ricerca delle persone
scomparse, alle esumazioni, alla nobilitazione pubblica delle vittime, alla
trasmissione della memoria storica alle nuove generazioni, all’indennizzo
economico e all’assistenza sanitaria e psicologica. Il diritto internazionale,
facendo riferimento a queste richieste, che accomunano tutte le vittime di
gravi violazioni, parla di «riparazione integrale» (che si compone di
ristabilimento, risarcimento, riabilitazione, soddisfazione, garanzie di non
ripetizione).

Alcune vittime, con grande coraggio, chiedono di più.
Don Coelio pronuncia parole audaci e sofferte che suonano come un messaggio di
pace: «Come sopravvissuto domando allo stato che indaghi e faccia giustizia.
Alle persone che commisero questo chiedo che, per favore, vengano davanti a noi
e ci chiedano disculpa, dicano chi impartì loro gli ordini. Io
desidererei che il sig. Medina Garay [che ordinò di massacrare gli abitanti del
Junquillo] venisse a questo tribunale e ci dicesse: “Ho commesso un grande
errore e oggi vi chiedo perdono”. Io sono disposto a perdonare questa gente,
però devo vederla!».

______________________________

Tribunal para la justicia restaurativa


Liberare le ferite dal silenzio

Il Tribunal inteacional para la aplicación de la
justicia restaurativa
è un’iniziativa dell’Istituto per i diritti umani
dell’Università Centroamericana «José Simeón Cañas» (Idhuca) e dei comitati
delle vittime del conflitto armato. La sua prima edizione, nel 2009, si svolse
nella cappella «Gesù Cristo Liberatore» dell’Università, dove riposano i resti
mortali dei sei gesuiti, «martiri per la giustizia», trucidati vent’anni prima.
Negli anni successivi, il Tribunal (che è giunto alla sua sesta
edizione) è stato celebrato in differenti località del paese, in prossimità di
luoghi che sono stati scenario di gravissime violazioni dei diritti umani nel
corso del conflitto.

Il termine «tribunale» è utilizzato in senso lato: si
tratta, infatti, di un organismo privo di qualunque riconoscimento legale,
istituito come tentativo dell’Idhuca (con l’appoggio di persone ed enti
stranieri) di iniziare a rispondere all’esigenza di giustizia delle vittime e
della società salvadoregna che è stata fino a questo momento frustrata dallo
stato. Il riferimento alla «giustizia riparativa» segnala che si tratta di una
modalità «non formale» di giustizia, che pone al centro le vittime e non
appiattisce la risposta al loro grido sulla punizione dei colpevoli (Si veda
il dossier di MC dicembre 2013 sul tema della Giustizia riparativa
).

Le vittime, affiancate dai loro familiari, dai comitati e
dalle comunità cui appartengono, sono protagoniste di questa peculiare
iniziativa. Vi sono inoltre alcuni giuristi, docenti universitari, persone
competenti e sensibili provenienti da diversi paesi, che ricoprono il ruolo di «giudici».
Ultimi, ma non meno importanti, gli avvocati e il personale dell’Idhuca,
inclusi i volontari e gli studenti che prestano il loro servizio sociale.

Ogni edizione di questa toccante esperienza prevede tre
giornate di testimonianze, che si concludono con la presentazione delle
richieste che le vittime, per mezzo del Tribunal, rivolgono allo stato e
che possono, anche in questo caso, essere riassunte con le seguenti parole:
verità, giustizia, riconoscimento, riparazione.

Vi è uno spazio anche per gli avvocati dell’Idhuca,
rappresentanti delle vittime, che, attraverso petizioni molto puntuali,
richiamano lo stato all’assunzione delle sue responsabilità e all’adempimento
degli obblighi derivanti dal diritto nazionale e internazionale.

Questa iniziativa si propone di contribuire a «sanare le
ferite» delle vittime e della collettività, attraverso la centralità data alla
narrazione di storie a lungo incarcerate nel loro intimo. L’ascolto attento e
rispettoso dell’uditorio permette a chi, liberamente, ha scelto di prendere la
parola, di sentirsi creduto e «riconosciuto» nella propria dignità e nel proprio
dolore. Il racconto in «prima persona» permette di intrecciare la memoria
personale con la storia del paese, tessendo i fili della memoria storica,
sapienza tanto cara a coloro che qualcuno ha tentato di annullare e far
scomparire.

Inoltre, il Tribunal de justicia restaurativa
intende avvalersi della sua autorità morale per affermare la responsabilità
degli autori dei crimini e dello stato ed emettere un forte richiamo nei loro
confronti. La censura nei confronti dello stato non si limita al fatto che esso
non abbia rispettato e garantito i diritti dei suoi cittadini nel momento in
cui avvennero le violazioni, ma si estende alla mancanza della volontà politica
di investigare e chiamare i colpevoli a rispondere.

Infine, il carattere pubblico di questa iniziativa (è
trasmessa dalla radio dell’università, attraverso Inteet, ed è seguita dalla
stampa nazionale) intende favorire la conoscenza e la solidarietà dell’intera
popolazione nei confronti delle vittime e propiziare il consenso verso misure a
loro favore e contro l’impunità.

A.Z.

El Salvador in cifre

Superficie: 21mila kmq. Capitale:
San Salvador.

Abitanti: 6,2milioni (2012), di cui 86.3% meticci, 12,7% bianchi,
1% indigeni (2007). Urbanizzazione: 64%.

Aspettativa di vita: 74 anni. Mortalità infantile: 1,8%. Adulti alfabetizzati: 84,5%.

Religione: Cattolici romani 57,1%, Protestanti 21,2%, Testimoni di
Geova 1,9%, Mormoni 0,7%, altre religioni 2,3%, non religiosi 16,8% (stime del
2003).

Presidente: Salvador Sanchez Cerén.
Valuta: Dollaro statunitense.
 
Bibliografia

• D. Pompejano, Storia dell’America Latina, Bruno Mondadori,
Milano 2012;
• A. Palini, Oscar Romero: «Ho udito il grido del mio popolo»,
prefazione di M. Chierici, AVE, Roma 2010;
• E. Maspoli, Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador,
prefazione di J. Sobrino, Paoline, Milano 2009;
• ONU, De la locura a la
esperanza: la guerra de los doce años en El Salvador: informe de la Comisión de
la Verdad para El Salvador
, UN Doc. S/25500, San Salvador – Nueva York,
1992-1993 (disponibile in Inteet);
• G. Guzmán Orellana, I. Mendia Azkue, Mujeres con memoria. Activistas
del movimiento de derechos humanos en El Salvador
, Bilbao 2013 (disp. in
Inteet);
• Manlio Argueta, Un giorno nella vita, EMI, Bologna 1992
(romanzo).
• Asociación Pro-Búsqueda de niños y niñas desaparecidos, La Paz
en construcción: un estudio sobre la problemática de la niñez desaparecida por
el conflicto armado en El Salvador
, Asociación Pro-Búsqueda / Save the
Children Suecia, San Salvador 2003;
• Enciclopedia Treccani, Dizionario di storia (2011), voce «El Salvador»;

• Ó. Martínez Peñate (cornord.), El Salvador: historia general,
Nuevo Enfoque, San Salvador 2008;

 
Nota:

Per rispetto della privacy, alcuni nomi
che compaiono in questo dossier sono di fantasia. 

L’autrice del
dossier:

Annalisa Zamburlini ha effettuato studi
di filosofia e discipline umanistiche. È dottoranda di ricerca in Sociologia e
metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano.
Questo dossier è frutto delle ricerche condotte per la tesi di dottorato,
incentrata sui processi e le problematiche delle fasi di transizione post
conflitto e sulla domanda di giustizia delle vittime, con speciale attenzione
al caso salvadoregno. Ha trascorso nel paese centroamericano due periodi di
ricerca, nel 2012 e nel 2014, durante i quali ha potuto collaborare con
l’Idhuca (Instituto de Derechos Humanos de la Universidad Centroamericana
José Simeón Cañas
) di San Salvador.

Coordinamento
editoriale:

Luca Lorusso, redazione MC.

Tags:
El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




L’universo visto dal Cern

Visita al Centro di ricerca di Ginevra.



Nei laboratori del Ce.


Scienza e religione in conflitto?

 
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Il Ce è probabilmente il più prestigioso laboratorio di
fisica delle particelle al mondo. È un’istituzione in cui la ricerca raggiunge
i più alti livelli, ma anche un luogo dove scienziati di tutto il mondo
lavorano in cooperazione. Lo abbiamo visitato in occasione del suo 60.mo
compleanno cercando risposte a una domanda antica e controversa: scienza e
religione sono in conflitto? Al Ce la risposta (unanime) è stata «no». Ma
fuori dai laboratori non tutti concordano.

Il 2015 sarà un anno importante per
la fisica almeno per due motivi: il primo è la celebrazione dell’«Anno
internazionale della luce» indetto dall’Unesco; il secondo riguarderà il Ce,
l’«Organizzazione europea per la ricerca nucleare», il centro di ricerca sulle
particelle che ha sede poco lontano da Ginevra e che nel 2014 ha compiuto 60
anni. Qui, dopo tre anni di manutenzione, ripartirà l’Lhc, il Large Hadron
Collider
(«Grande collisore adronico»), il ciclopico anello dalla
circonferenza di 27 chilometri in cui protoni e ioni pesanti collidono per
dividersi nelle loro particelle elementari: i quark (riquadri a pagg. 42-43).

Sono stati gli esperimenti
effettuati all’Lhc che hanno permesso di verificare nel 2012 l’esistenza di ciò
che i fisici teorici avevano solo ipotizzato sin dagli anni Sessanta: il «bosone
di Higgs» (quella che dai media è stata ribattezzata «la particella di Dio»).

I prossimi anni saranno dedicati
alla ricerca di aspetti della materia che, se confermati dalle sperimentazioni,
rivoluzioneranno totalmente il Modello standard, lo schema matematico che
descrive le particelle fondamentali con le loro interazioni e, quindi, la
nostra visione del mondo.

«L’idea di tutti gli esperimenti
che vengono effettuati dai laboratori dell’Lhc, Alice, Atlas, Cms e Lhcb è
quella di ricercare segnali di fisica che non siano previsti dall’attuale
Modello standard» afferma Monica Pepe-Altarelli, fisica che lavora
all’esperimento Lhcb del Ce.

I fisici, specialmente quelli
teorici, oltre ad essere dei grandi conoscitori della materia, sono anche un
po’ burloni, poeti, filosofi e la caccia a queste particelle ha scatenato la
fervida fantasia dei ricercatori i quali hanno chiamato i corpuscoli con nomi
bizzarri: materia oscura, energia oscura o, ancora, Susy (dalle iniziali di Super
Symmetry
), proprio come una sirenetta a cui piaccia nascondersi tra i
flutti del mare cosmico. 

La scienza, la fede e l’originedell’universo

Frequentare il Ce e i suoi
laboratori è come essere sul set di Guerre Stellari, con la grande differenza
che qui la fantascienza non esiste e la battaglia che si combatte non è quella
per la sopravvivenza, ma per la conoscenza.

«Il Ce è molto più che un luogo
di semplice ricerca. È un centro per l’educazione e la formazione di studenti e
di insegnanti» ribadisce Monica Pepe-Altarelli. «Qui, a differenza di altre
istituzioni, si comunica. E parlo di comunicazione non solo tecnologica, ma
anche culturale e umana. Il Ce è un retaggio di cooperazione pacifica ed
efficiente tra popoli e paesi».

Con il potenziamento dell’Lhc i
ricercatori sperano di riprodurre lo stato di materia che si formò 10-35 secondi1 dopo il Big Bang, il momento in
cui l’universo cominciò ad essere visibile anche ad un ipotetico uomo che lo
avesse potuto guardare, dato che raggiunse la grandezza di una mela, pur
mantenendo una temperatura di 1030 gradi centigradi2. Fu, quella, l’Era dell’inflazione, quando la forza
elettronucleare si separò in due componenti, la forza elettrodebole e la forza
forte dando origine alle coppie di particelle e antiparticelle che si
annichilirono a vicenda.

L’umanità, quindi, farà un
ulteriore passo in avanti (o, se vogliamo, indietro, visto che il nastro degli
accadimenti verrà riavvolto verso l’inizio di tutto), giungendo molto vicina a
quella che fu la nostra nascita galattica, il Big Bang appunto.

«Sarà un viaggio incredibilmente
affascinante che ci permetterà di scoprire nuove frontiere restando comodamente
seduti davanti ai nostri computer» afferma Giulio Aielli, dell’Università di
Tor Vergata di Roma e ricercatore al detector Atlas, uno dei due laboratori del
Ce (l’altro è il Cms) in cui è stata dimostrata l’esistenza del bosone di
Higgs.

In questa Atene della Fisica (non
la sola al mondo) è inevitabile che si concentrino le attenzioni di numerose
istituzioni non solo scientifiche, ma anche umanistiche e, soprattutto,
religiose.

Lo studio dell’imperscrutabile e
dell’essenza di ciò che siamo è, da sempre, stato campo di scontro tra scienza
e teologia. Ma se dalla parte della fisica (il campo di cui ci stiamo
occupando) si riscontra una maggiore apertura verso il dialogo, in alcuni
ambienti teologici sussiste un atteggiamento di diffidenza (se non addirittura
di ostilità) verso la scienza.

Sergio Bertolucci, direttore della
ricerca e calcolo scientifico al Ce di Ginevra (cfr. intervista a pagg.
46-49
) smussa i toni affermando che «Il conflitto tra scienza e religione
non esiste più nella cultura occidentale da almeno trecento anni, dal momento
in cui la gente ha deciso che la fisica ha a che fare con lo spazio e il tempo
e la religione ha a che fare con quello che esiste al di fuori dallo spazio e
dal tempo. Ci sono ambiti come la medicina, in cui questa disputa è ancora
presente perché i confini sono meno separati gli uni dagli altri, ma nel caso
della fisica l’etica non viene modificata».

Eppure ancora oggi c’è chi contesta
questa distinzione: la laicità del Ce è stata oggetto di speculazioni e di
critiche da parte di chi vorrebbe la scienza asservita ai dogmi religiosi.
Durante un recente convegno di creazionisti evangelici americani, un oratore ha
contestato il fatto che al centro di ricerca europeo vi sia solo un simbolo
religioso, per di più non cristiano. Si tratta della statua di Shiva Nataraja,
il Signore della Danza, donata dal governo indiano nel 2004, che simboleggia la
danza della creazione e della distruzione cosmica di Shiva.

«Personalmente avrei preferito un
luogo meno pubblico, più appartato, ma non vi è stata alcuna polemica tra i
fisici per la scelta fatta. La fede è un problema personale, la scienza è un
problema all’interno di una costruzione della conoscenza. Il mio rapporto con
Dio è un problema personale perché nella conoscenza questo rapporto non esiste
dato che non lo posso verificare: o ci credo o non ci credo» spiega ancora
Sergio Bertolucci.


Alla ricerca del «tempo zero»

Per lefebvriani, creazionisti,
Testimoni di Geova e alcuni (per fortuna pochi) ambienti cattolici
integralisti, l’interpretazione della Bibbia viene fatta in modo letterale
dimenticando che è un libro scritto a più mani e redatto in funzione di una
riflessione teologica. Il versetto «Sapienza è riflesso della luce perenne, uno
specchio senza macchia dell’attività di Dio» (Sap 7, 26) viene così
interpretato in modo fondamentalista accettando solo quel tipo di ricerca della
conoscenza che viene fatta in nome di un fine teologico. Tutto quanto viene
proposto in alternativa a questa visione è visto come fumo negli occhi. Una
tesi molto diversa da quella formulata da agostiniani e francescani ancora nel
XIV secolo, che attribuisce una doppia proprietà alla luce parlando di luce
divina (lux divina) e luce contratta (lux contracta) considerano
la prima come la firma permanente di Dio del cosmo e la seconda come
partecipazione limitata della conoscenza di quello stesso Dio tramite la
ricerca scientifica. La luce sarebbe l’entità fisica mediatrice tra uomo e Dio,
secondo la tesi di Nicola Cusano, teologo e scienziato del XV secolo.

L’uomo riuscirà mai a raggiungere
il fatidico «Tempo zero», l’istante esatto da cui tutto ha avuto inizio? «Per
essere pragmatici stiamo parlando di qualcosa che difficilmente potrà accadere
nei prossimi milioni di anni» chiarisce Michelangelo Mangano (la sua
intervista sarà in un prossimo numero di MC, ndr
), uno dei massimi fisici
teorici che ha dedicato la sua vita allo studio delle particelle derivanti
dalle collisioni che avvengono all’interno dell’Lhc. «L’ umanità potrebbe anche
non avere tempo di raggiungere un tale traguardo: la comprensione di cosa sia
successo a T=0 (il punto esatto in cui si è manifestato il Big Bang, ndr);
qualora anche potesse raggiungere questo punto, non vedo uno scenario in cui la
scienza possa dimostrare che non vi sia alcun intervento divino».

In altre parole il versetto biblico
«La tua scienza ricoprì la terra, riempiendola di sentenze difficili» (Sir
47,15) mette alla prova scienziati e ricercatori a cui spetta il compito di «intuire»
queste sentenze difficili. 

Da Einstein a Pierre Teilhard de Chardin

Proprio come affermava Albert
Einstein, Dio, a differenza dell’uomo, non gioca a dadi, perché tutto è
prestabilito e fissato. Paradossalmente è stato proprio questo sottile
ragionamento a far rifiutare al grande scienziato ebreo il modello proposto dal
Big Bang di un universo in continua evoluzione e lo stesso «principio di
indeterminazione» di Heisenberg, secondo cui ogni oggetto è sia particella che
onda e, dunque, non è possibile determinare al tempo stesso posizione e velocità.

Einstein rifiutava l’idea che possa
esistere qualcosa di indeterminato nell’universo: Dio non può aver creato
qualcosa di cui neppure lui può determinare con assoluta certezza tutte le
caratteristiche. «Non posso credere nemmeno per un attimo che Dio giochi a dadi»
scriveva Einstein. «Piantala di dire a Dio che cosa deve fare con i suoi dadi»
gli rispondeva Niels Bohr, altra mente eccelsa della fisica modea.

Paradossalmente, però, è stata
proprio la meccanica quantistica a creare uno squarcio nel materialismo,
ridando vigore a chi crede nell’esistenza di Dio. Eugene Wigner, premio Nobel
per la fisica, ha detto che il materialismo non è una dottrina che regge dopo
l’introduzione della meccanica quantistica e la sua dottrina probabilistica.

«Il mondo, lungi dall’essere originato
dal caos, somiglia a un libro ordinato. Nonostante elementi irrazionali,
caotici e distruttivi intervenuti nel corso della sua trasformazione, resta
leggibile alla mente umana» ha specificato papa Benedetto XVI in un convegno
tenutosi nel 2008. È stato per merito di questo papa, fine teologo e scienziato
della mente umana, il cui pontificato è stato ingiustamente poco apprezzato,
che scienza e fede si sono riavvicinate scatenando le ire di chi si ostina a
vedere la scienza come eterno nemico della fede sino ad arrivare a negare anche
lo stesso Big Bang adducendo questioni puramente ideologiche o dogmatiche.

Una bella svolta rispetto all’Humani
generis
di Pio XII, che nel 1950 criticava la «temerarietà [di coloro che]
sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua
evoluzione».

Era, quello, un attacco neppure
troppo velato verso il gesuita e scienziato Pierre Teilhard de Chardin, che
qualche anno prima aveva cercato di conciliare scienza e religione con la
teoria di una Coscienza suprema, il Punto Omega, che vedeva unire le coscienze
attraverso l’evoluzione. Il Punto Omega altri non è che Cristo («Dio è dunque
l’esito finale dell’evoluzione») che, tramite una forza attrattiva (metafora
della forza gravitazionale), curva le pulsioni dell’uomo (spazio-tempo) sino a
farle convergere in se stesso. Una sorta di Big Crunch
teologico-scientifico.

La Noosfera di Teilhard è il luogo
in cui l’uomo condivide i sentimenti e i desideri con tutto il creato, il
vertice piramidale verso cui convergono tutte le strutture dell’universo. Una
sorta di Dna del cosmo in cui ogni atomo, ogni cellula, è consapevole del
proprio insieme e del Tutto. Teilhard afferma che «spostare un oggetto
all’indietro nel passato equivale a ridurlo nei suoi elementi più semplici. (…)
le ultime fibre del composto umano si confondono con la stoffa stessa
dell’universo».

La stoffa dell’universo sono le
particelle elementari. Insomma, il gesuita fu un precursore degli scienziati
del Ce.


Il dibattito sul Big Bang:


Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Lemaître

«La conoscenza della fisica
progredisce in maniera talmente immensa che, se guardiamo alla scienza di soli
cento anni fa, essa oggi ci sembra primitiva» ricorda Michelangelo Mangano, il
quale continua: «Questo non è vero per la religione. Il sistema religioso può
essere più o meno affinato e raffinato nella maniera in cui si descrivono e si
pongono i concetti. Però i concetti base sono rimasti sempre quelli: non c’è
all’interno del pensiero religioso uno spazio epistemologico. Se, fra qualche
miliardo di anni la scienza avrà fatto dei progressi tali da potersi porre un
problema di questo tipo, non vedo perché questa conoscenza debba, o non debba,
riflettere il concetto di Dio o entità superiore».

Naturalmente la ricerca
scientifica, in quanto ricerca, deve possedere quella che Sergio Bertolucci
definisce «onestà intellettuale, che non è solo prerogativa del Ce, ma deve
essere comune a tutta la scienza. Onestà intellettuale significa che bisogna
evitare i pregiudizi, le scorciatornie, riconoscere costantemente la propria
inadeguatezza nel fatto che non si capisce, ma al tempo stesso non bisogna
perdere l’ottimismo. Se un esperimento non procede nel verso previsto, non
bisogna desistere».

È un concetto, questo, che può essere
espresso con chiarezza dalle parole di papa Giovanni Paolo II al congresso di
cosmologia avvenuto in Vaticano nel 1981 e a cui era stato invitato anche lo
scienziato Stephen Hawking. Durante quel convegno il papa ribadì che la scienza
poteva indagare su quello che era successo dopo il Bing Bang, ma quello che era
successo prima apparteneva a Dio.

Stephen Hawking aveva invece
formulato una teoria per cui il tempo si muoveva in maniera circolare
escludendo, dunque, la necessità di un Dio. Il concetto, poi, è stato ribadito
nel libro Il grande disegno: «Poiché esiste la legge di gravità,
l’universo può crearsi e si crea dal nulla. La creazione spontanea è il motivo
per cui c’è qualcosa anziché nulla, per cui l’universo esiste, per cui noi
esistiamo! Non è necessario invocare Dio».

Questa diversità di vedute non ha
impedito alla Pontificia Accademia delle Scienze di nominare Hawking proprio
membro nel 1986. Una dimostrazione in più, se vogliamo, dei tentativi di
conciliazione post-galileana da parte della Chiesa cattolica.

Ne è passata di acqua dopo il
Concilio e se la religiosa Radio Vaticana, in piena contestazione studentesca
mandava in onda canzoni come Dio è morto di Guccini o Il Testamento
di Tit
o di Fabrizio De André censurate invece dalla vecchia Rai,
altrettanta strada è stata fatta in campo scientifico.

È stato ancora papa Benedetto XVI a
riabilitare Theilhard de Chardin, facendo propria la «visione che poi ha avuto
anche Theilhard de Chardin: alla fine avremo una vera liturgia cosmica, dove il
cosmo diventi ostia vivente».

Naturalmente questa visione è
duramente confutata dai creazionisti, la cui popolarità negli Stati Uniti è
approdata anche nelle serie televisive. In The Big Bang Theory, Sheldon
contesta alla madre, fervente religiosa e creazionista che «L’evoluzione non è
mai stata una opinione, ma un dato di fatto», per poi sentirsi rispondere dalla
stessa madre: «E questa è esclusivamente una tua opinione».

Eppure le prime speculazioni sul
Big Bang sono state sviluppate da due rappresentanti di istituzioni dalle idee
opposte tra loro: un fisico sovietico, Aleksandr Aleksandrovi Friedman
(1888-1925) e da uno scienziato cattolico belga, il gesuita Georges Edouard
Lemaître (1894-1966). Entrambe, sebbene in termini diversi ed in modo
indipendente l’uno dall’altro, elaborarono una teoria rivoluzionaria:
l’universo non è statico e immutabile, bensì in continua evoluzione. Il
sovietico Friedman, pur non arrivando alla conclusione che l’universo fosse in
continua espansione, scrisse che nel tempo passato tutto ebbe inizio da un
singolarità di volume pari a zero. Il gesuita Lemaître invece, basandosi sulla
legge di gravità di Einstein pubblicata nel 1915, postulò l’idea di un universo
in evoluzione che si dilatava in tutte le direzioni con una velocità di recessione
direttamente proporzionale alla distanza delle galassie.

Le congetture di Friedman e Lemaître
vennero considerate con scetticismo dal mondo scientifico fino a quando Edwin
Hubble, nel 1929, all’osservatorio astronomico del Monte Wilson in Califoia,
dimostrò che le galassie si allontanano le une dalle altre ad altissima velocità,
confermando l’ipotesi che Lemaître aveva fatto due anni prima.

Il gesuita, confortato dalla
scoperta di Hubble, si spinse a proporre un modello di creazione dell’universo
veramente rivoluzionario: se le galassie si allontanano, allora riavvolgendone
il corso temporale è possibile risalire ad un punto di inizio in cui tutta la
massa dell’universo attuale era concentrata in un unico atomo, che chiamò atomo
primigenio, o atomo primitivo, contenente tutta la materia di cui è composto
l’intero universo.

Fu questa visione di Lemaître,
espressa il 9 maggio 1931 in un articolo su Nature, che Einstein rigettò.
In seguito lo scienziato ebreo si ravvide definendo questo rifiuto come uno dei
più grandi errori della sua vita.

L’idea dell’uovo cosmico, metafora
attribuita, forse erroneamente, allo stesso Lemaître piuttosto che dell’atomo,
si avvicinava meglio al postulato del prete belga: l’esplosione sarebbe
avvenuta non partendo da una singolarità, come aveva scritto Friedman, ma da un
punto leggermente spostato in avanti nel tempo. In questo modo l’abate
rispettava anche il principio di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa,
che nella Summa Teologica affermava che l’inizio del mondo è
esclusivamente oggetto di fede e nessuna dimostrazione scientifica potrà mai
arrivare a tanto.

Ma Lemaître si spinse oltre: espose
il concetto che l’intero universo fosse permeato da una radiazione di fondo
generata dall’esplosione primordiale. Se si fosse dimostrata l’esistenza di
quella radiazione, si sarebbe avuta la conferma definitiva della creazione da
un unico punto.

Fino agli anni Sessanta Lemaître si
riferiva al suo modello chiamandolo, a seconda dei casi, modello dell’atomo
primitivo o modello dei fuochi artificiali, una metafora che rende
comprensibile, anche a chi è a digiuno di fisica e di astronomia, la nascita
improvvisa ed espansiva dell’universo.

Un universo eterno e immutabile

In alternativa all’archetipo del gesuita
belga, nel 1948 gli scienziati Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold
proposero la teoria dello stato stazionario.

La legge da cui i tre ricercatori
partivano per confermare i loro assunti, era il Principio cosmologico perfetto
secondo cui l’universo è immutabile e identico in ogni punto e in ogni epoca. A
prima vista l’idea di un mondo invariato avrebbe potuto far pensare a un
rimando dogmatico di stampo religioso (ed è per questo che venne accolta con
favore dagli ambienti conservatori cristiani), ma essa era proprio la tesi che
i tre scienziati volevano confutare. Secondo loro l’idea di Lemaître collimava
troppo con la creazione biblica e occorreva riportare la scienza nel suo alveo
neutrale.

La teoria dello stato stazionario
andava a conciliarsi con la Legge di Hubble grazie all’idea di una continua
creazione di materia. In questo modo la densità energetica totale si sarebbe
mantenuta costante. Considerando la grandezza dell’universo e la sua espansione
secondo la costante di Hubble, la creazione di materia necessaria a compensare
la perdita di densità sarebbe stata bassissima: un atomo di idrogeno per ogni
metro cubo di spazio in un miliardo di anni.

Fu durante questa iniziale
controversia che il 28 marzo del 1949 Fred Hoyle, durante un programma
radiofonico alla BBC contestò «l’ipotesi che tutta la materia dell’universo sia
stata creata durante un big bang in un tempo preciso del passato remoto».
L’idea di un improvviso big bang fu talmente efficace che il neologismo,
originariamente creato per screditare il modello di Lemaître, venne adottato
dal mondo scientifico e non. Nel 1993 la rivista astronomica Sky and
Telescope
avviò un concorso mondiale per trovare un nuovo nome alla teoria
del Big Bang. La giuria composta da astronomi, presentatori televisivi e
scrittori di fama mondiale decise che nessuna delle 13.099 proposte pervenute
fosse migliore di Big Bang.

Il modello di Lemaître non
spiegava, però, cosa fosse in realtà l’atomo primigenio, limitandosi a dire che
in quella limitata sfera era racchiusa tutta la massa che avrebbe poi composto
l’universo così come oggi lo vediamo.

Nel 1948 fu Ralph Alpher il primo a
suggerire l’idea di un «brodo primordiale» di fotoni e particelle nucleari da
cui si sarebbe evoluto l’universo. Il 24 aprile 1948 Science News Letter
pubblicò un articolo in cui, parlando della bomba atomica, citò un passo di una
relazione di Alpher, secondo cui «All’inizio di tutto, l’universo aveva densità
infinita concentrata in un singolo punto zero. Poi, appena 300 secondi – cinque
minuti – dopo l’inizio di tutto, ci fu una rapida espansione e raffreddamento
della materia primordiale. I neutroni – le particelle che innescano la bomba
atomica – iniziarono a decadere in protoni costruendo i mattoni per gli
elementi più pesanti (…) Questo atto di creazione degli elementi chimici durò
un tempo sorprendentemente corto, appena un’ora». La Bibbia indica in circa 6
giorni l’atto della creazione.

Teorie e dibattiti

La teoria del Big Bang fu
contrastata dall’Unione Sovietica, che la considerava troppo legata alla
religione e al mito biblico della creazione. Nel 1948 gli scienziati sovietici
si riunirono a Leningrado per cercare una soluzione alternativa e più
materialistica al redshift, o spostamento verso il rosso, il fenomeno
secondo cui la velocità di allontanamento delle galassie comporta uno
spostamento della luce da loro emessa verso il rosso cosa che dimostra la
veridicità della Legge di Hubble.

Nel 1951, durante la Conferenza di
Cosmogonia, il rifiuto del Big Bang si fece più determinato, ma non si
trovarono alternative sufficientemente supportate dalla scienza per contrastare
l’idea dell’origine dell’universo. Solo dopo la morte di Stalin la cosmologia,
l’astrofisica e l’astronomia sovietica cominciarono ufficialmente ad accettare
l’idea del Big Bang. La questione scientifica tenne banco fino al 1965 quando
Ao Penzias e Robert Wilson scoprirono che le loro ricerche erano
continuamente disturbate da un «rumore» di fondo. Da tre anni i due astronomi
avevano notato che un segnale uniforme inquinava il segnale captato dal loro
telescopio. Escludendo un difetto tecnico, interferenze urbane o
extraterrestri, scoprirono che la radiazione si manteneva costante anche
durante le stagioni, eliminando dunque anche la possibilità che fosse originata
da qualche sorgente del sistema solare.

La loro scoperta fu associata al
Big Bang da Robert Dicke e James Peebles dell’Università di Princeton, i quali,
nell’Astrophysical Joual del luglio 1965 scrissero che la «palla di
fuoco primordiale» in cui la materia cessò di essere in equilibrio termico (i
due scienziati non parlarono né di Big Bang, né di creazione o di origine
dell’universo) aveva ora la conferma scientifica preconizzata da Georges
Edouard Lemaître: la radiazione di fondo.

Il Vaticano appoggiò con estrema
cautela la tesi del Big Bang sin dall’inizio, anche se, proprio come diceva
Lemaître, non è una conferma biblica perché, nelle parole di padre José Funes,
direttore della Specola Vaticana «Il Big Bang è, sino ad oggi, la migliore
spiegazione che abbiamo sulla nascita dell’universo: è comprovata
scientificamente da numerose osservazioni e non è in contrasto con la fede. La
Bibbia non è una spiegazione scientifica del mondo: è stata scritta da uomini
ispirati da Dio, migliaia di anni fa».

«La vita ha un orologio?»

L’interesse per il dialogo tra
religione e scienza è aumentato negli ultimi decenni con gran soddisfazione
anche delle case editrici, che hanno visto moltiplicare le vendite di libri che
trattano, direttamente o indirettamente, temi metafisici come Il Codice da
Vinci, Harry Potter, Angeli e Demoni
, quest’ultimo parzialmente ambientato
al Ce, ma come afferma Sergio Bertolucci «anche se la prima parte del film è
sostanzialmente inserita al Ce, non un singolo fotogramma è stato girato al centro
di ricerca».

E quando l’argomento trattato è
troppo specifico e professionale per essere dato in pasto al grande pubblico,
ecco che si trovano furbescamente soprannomi fuorvianti, il cui unico scopo è
quello di fare immediata presa sui mass media e pubblicizzare un prodotto
altrimenti troppo di nicchia. La vicenda del bosone di Higgs – il cui
appellativo è stato cambiato dalla casa editrice Houghton Mifflin Company di
Boston dall’originale Goddam Particle («la particella dannata) a God
Particle
(«la particella di Dio») – è un classico esempio di una maldestra
manipolazione della ricerca scientifica che rischia di increspare ulteriormente
le acque tra scienza e religione.

Come ha giustamente scritto il
fisico Vivek Sharma, uno dei protagonisti della ricerca del bosone di Higgs: «Detesto
il nome “particella di Dio”. Non sono particolarmente religioso, ma trovo il
termine offensivo verso coloro che lo sono. Io sperimento la fisica, non Dio».

Ma mettere d’accordo profitto e
verità, si sa, è un po’ come ritirarsi in Texas a insegnare evoluzionismo ai
creazionisti, come si era provocatoriamente prefisso di fare Sheldon Cooper il
protagonista della serie The Big Bang Theory.

Il Ce resta comunque una preziosa
testimonianza di convivenza pacifica tra i vari popoli e, anche chi non è
particolarmente interessato alla fisica, rimane colpito dalla varietà di
culture, lingue, religioni, stili di vita che si intrecciano quotidianamente al
centro.

Si può affermare, in questo caso,
che la scienza è riuscita a compiere ciò che la religione non ha mai fatto:
unire le persone di così tante e varie culture. È pur vero che si parla di
persone particolarmente mature dal punto di vista culturale e motivate
professionalmente, ma le differenze culturali, religiose, politiche se le
portano comunque appresso ed il fatto che vengano smussate è un traguardo
comunque notevole.

«Questo perché la scienza non si
basa sulla fede acquisita, ma su dati di fatto concreti sui quali si è chiamati
a confrontarsi e su cui tutti convergono». spiega Michelangelo Mangano. «Un
esempio sono gli studenti palestinesi che lavorano al Ce, i quali sono pagati
da borse di studio di fondazioni israeliane. Inoltre ai vari esperimenti
lavorano assieme americani e iraniani, musulmani e ebrei, cattolici e ortodossi».

Un centro non solo di fisica,
quindi, ma anche di sviluppo di cultura umana per cercare di rispondere
all’eterna domanda senza risposta: che cosa è la vita? Una risposta l’ha
tentata la poetessa Raquel Lanseros una dei sei poeti dell’Accademia mondiale
di poesia invitati al Ce per comporre opere ispirate all’infinitamente
piccolo e all’infinitamente grande: «Un giorno nel futuro, in un posto
qualsiasi, un uomo solitario guarderà verso i cieli. Proprio come migliaia e
milioni di anni prima (se “prima” e “dopo” esistono veramente). La vita ha un
orologio? O è la vita il motore dell’orologio?».

Piergiorgio
Pescali


Piergiorgio Pescali




Solo la «Parola» (Do/Rd Congo 3)

Al Centro dell’Africa:


Nel
1998 il desiderio di andare nelle più difficili missioni dell’Alto Uele, su al
Nord, ai confini con Uganda, Sudan e Centrafrica, si realizza. Oltre ogni
aspettativa.

Nel
’98 finalmente mi hanno mandato al Nord, nel centro dell’Africa. Mi è piaciuto
moltissimo. Sono andato a Doruma, vicino al Sudan (vedi MC 4/2014, pag. 57).
Doruma è stata la nostra prima missione nel 1972, insieme a Wamba. Era sede di
diocesi, ma poi, per ragioni di sicurezza e di maggior facilità di
comunicazione, il vescovo ha spostato la sua sede a Dungu. Era una parrocchia
con 75 cappelle disseminate nella foresta, in mezzo agli Azande, un popolo
sparso in tre stati – Centrafrica, Sudan e Congo – dalle spartizioni coloniali
del tempo del congresso di Berlino, quando le potenze hanno diviso l’Africa
senza tener conto dei popoli che ci vivevano.

Mi trovavo finalmente nella missione che avevo sempre
sognato: nella foresta, lontano da tutto, dedito solo ad annunciare il Vangelo.
Invece… in quello stesso anno gli eserciti stranieri che avevano aiutato
Kabila ad arrivare al potere, quando hanno visto che non c’era stata né la
ripartizione di potere né la ricompensa economica che si aspettavano, hanno
ripreso la guerra. Una cosa sporca, in cui erano coinvolte diverse nazioni
africane e, ovviamente, i grandi poteri economici. Kabila ha avuto la meglio.
Ritirandosi verso le loro basi, i militari della Spla (Sudan People
Liberation Army
), ex alleati di Kabila, si sono rifatti saccheggiando anche
tutte le missioni che hanno trovato sulla loro strada.

La foresta, la bicicletta e la Parola

Quando hanno assalito Doruma, non ce lo aspettavamo. Poi
approfittando della loro disattenzione, siamo scappati in foresta con l’aiuto
dei nostri cristiani. Nella giungla, malgrado la paura, siamo stati abbastanza
tranquilli perché i catechisti e giovani vigilavano sulla nostra capanna, una
di quelle che loro usano quando vanno a coltivare nella foresta. Ci siamo stati
un mese. A 7-8 chilometri erano nascoste le suore (agostiniane) che si erano
organizzate meglio di noi uomini e ci hanno mandato dei materassi.

È stata un’esperienza molto bella. Non avevamo niente
perché abbiamo dovuto scappare in fretta e furia. Avevo un paio di ciabatte, i
vestiti che indossavo e la veste bianca che mi ero messo la mattina quando i
sudanesi erano arrivati e mi avevano obbligato ad andare a recuperare nella
foresta dei fusti di benzina che avevamo nascosto. Mi ero messo la veste per
suscitare in loro un po’ di timor di Dio. Anzi, nel tragitto, quando ho
scoperto che erano cattolici, li ho fatti pregare. Ma non è servito a niente,
perché se la preghiera non nasce dal cuore sono solo parole vuote. Infatti poi
hanno saccheggiato e distrutto tutto, portando via ogni cosa. E volevano
portare via anche noi. La gente locale era scappata, ma i guerriglieri hanno
preso i rifugiati sudanesi e, dopo aver bruciato i due campi delle Nazioni
Unite, li hanno forzati a portare il bottino e a rientrare in Sudan. Giunti
alla frontiera hanno obbligato i giovani ad arruolarsi nelle loro file.

Noi siamo ritornati in missione solo dopo un mese. Era
la festa di Tutti i Santi, una domenica. Sono arrivato dalla foresta, nessuno
sapeva del nostro ritorno eccetto qualche catechista. Il paese portava i segni
evidenti del saccheggio fatto dai «fratelli» sudanesi, appartenenti alla stessa
tribù. Ho celebrato la messa. È stata una messa lunga. E ho pianto nel vedere
la gente che, avendo sentito la campana, era venuta fuori dai rifugi nella
foresta e nei campi per riprendere una vita normale.

L’esperienza più bella in quei giorni è stata quella di
girare in bicicletta per visitare le oltre settanta cappelle. Prima, con la
macchina, viaggiavamo sempre con quadei, medicine e merce varia da dare o da
vendere nei villaggi. No, non eravamo commercianti e neppure approfittavamo
della miseria della gente, ma avendo una catena di rifoimento organizzata dai
nostri confratelli di Isiro, riuscivano a procurare provvigioni essenziali
altrimenti introvabili.

Mi sono sentito prete davvero perché con la bicicletta
giravo solo con la Parola di Dio, il pane e il vino per l’eucarestia (si erano
salvati perché i sudanesi non avevano saccheggiato la chiesa), e la gente era
contenta di accogliermi. Mi fermavo due o tre giorni in un villaggio, vivevo in
mezzo a loro, mangiavo come loro, condividevo la loro insicurezza e la gente mi
vedeva proprio per quello che noi dovremmo sempre davvero essere: uomini di
Dio. Non avevo niente, eppure portavo quel che davvero conta: speranza in mezzo
a tanta desolazione, vicinanza a chi è abbandonato da tutti e dimenticato. La
consapevolezza che la Chiesa è lì, con loro. Questo è importante.

Abbiamo ricominciato. Ma a febbraio del ’99 sono tornati
a saccheggiare. La nostra vita là era diventata troppo rischiosa. Bastava che
qualcuno ci facesse avere qualche rifoimento, che un mezzo qualsiasi
arrivasse da Isiro, che subito eravamo assaliti. Così, d’accordo col vescovo,
abbiamo consegnato quella missione alla diocesi e ce ne siamo andati per
sempre, dopo quasi trent’anni di presenza.

Povertà,
forza della missione

Certo quell’esperienza mi ha fatto riflettere. Per una
volta non ero il missionario bianco pieno di soldi cui si può chiedere tutto.
Ero solo un missionario, uomo di Dio, e basta. Probabilmente questa situazione,
unita alla crisi internazionale, fa bene alla missione. In più, le nostre
comunità missionarie sono diventate inteazionali, multietniche e
multiculturali, e i nostri cristiani del Congo vedono che abbiamo già
sacerdoti, fratelli e seminaristi africani e quindi pian piano si sta
abbandonando l’idea che il missionario è solo il bianco e  che essere bianco significa avere potere e
soldi. I nostri cristiani stanno cominciando a capire che devono aiutare i
sacerdoti e prendersi carico di loro. È vero, noi missionari dobbiamo
ringraziare i benefattori e l’istituto, che non ci abbandonano mai. Però il
fatto di non avere più la disponibilità economica di un tempo, aiuta anche la
gente a capire e a crescere nella propria responsabilità.

Certo va anche detto che molti dei progetti di sviluppo
che la Chiesa ha fatto in Congo, li ha dovuti fare perché lo stato era assente,
perché se ci fosse uno stato che fa scuole, ospedali, centri di salute, non ci
fossero ribellioni, ci fosse una vita normale, chiaramente come missionari
saremmo più dedicati alla Parola di Dio, alla comunità, alla formazione, alla
pastorale diretta. Invece il missionario ancora oggi, almeno qui in Congo, deve
continuare a pensare alla scuola, all’ospedale, al pozzo, all’acqua, alla
strada, al ponte perché le autorità locali non si muovono.

Missione e soldi, che fatica

A volte provo frustrazione al pensiero di essere
prigioniero di un meccanismo perverso di «missione – povertà – soldi», di «missionario
– soldi e soluzione a tutti i problemi». Tante volte è difficile far capire
alla nostra gente che se siamo lì insieme dobbiamo camminare insieme, senza
delegare tutto al missionario, restando degli eterni bambini. Però,
onestamente, ci sono delle situazioni di fronte alle quali non puoi stare con
le mani in mano. Per esempio, i nostri giovani che devono andare all’università,
alle volte mancano loro quei 200 o 300 dollari per finire di pagare le tasse;
oppure per l’ospedale: quando non hanno i soldi per pagare le cure e le
medicine e non c’è alcuna assistenza sanitaria, che fai? Li lasci morire così?

Tutti sanno che il Congo è ricchissimo e potrebbe essere
una nazione prospera. Ma tutti rubano; a tutti fa comodo un paese fuori
controllo. Basta guardare la situazione dei Grandi Laghi (*). Chi approfitta
del caos per rapinare le risorse? E così noi missionari continuiamo a chiedere
alla nostra Chiesa d’Europa di aiutarci per portare avanti tanti programmi di
pastorale, educazione, sanità e sviluppo. Veramente ho un po’ di rabbia e di
vergogna nel cuore. Però devo accettare anche questo, perché so bene che quel
che sto chiedendo non è per me, è per la nostra gente, è per aiutare i nostri
giovani che vogliono uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza, dalla spirale
della violenza e della povertà per essere, un giorno, responsabili della loro
vita e del loro paese, il Congo.

 (*) A questo proposito è
sempre valido il numero monografico di MC, «Le mani sul Congo»,
pubblicato nell’ottobre-novembre 2004.

tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, violenze, massacri, Spla, profughi, saccheggi, missione, povertà, annuncio

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Eroi per scelta (Do/Rd Congo 4) 

L’epoca
Mobutu è finita. Kabila ha ufficialmente inaugurato un paese che si dice
democratico. Ma la pace è ancora un sogno e tutta la regione dei Grandi Laghi,
alla cui periferia è l’Alto Uele dove ci sono i missionari della Consolata, è
i di milizie, ribelli, ladroni, sfruttatori vari.


Missionari in guerra: eroi per scelta

Ritorniamo a Doruma. L’avventura è
durata fino al 1999, a febbraio. Io sono stato per undici mesi l’ultimo parroco
della Consolata, e poi abbiamo dovuto chiudere, come ho già raccontato. Siamo
andati allora a Isiro, la capitale dell’Alto Uele, dove noi missionari abbiamo
il nostro centro. La guerra continuava, non c’era più comunicazione con
Kinshasa, il paese era diviso. Noi eravamo sotto gli ugandesi e ruandesi, a
Kinshasa erano sotto Kabila. Per questo abbiamo dovuto dividerci in due gruppi
indipendenti. I missionari della Consolatanella capitale avevano padre Stefano
Camerlengo come superiore e io sono stato eletto superiore del gruppo del
Nordest, e avevo la mia base a Isiro. Ho fatto questo servizio per sei anni.

A Isiro non c’era pace. Un giorno arrivava un gruppo di
ribelli che prendeva il controllo della città, poi arrivavano nuovi ribelli
contro quelli di prima, tutti contro Kabila, ma in lotta tra loro per avere il
controllo della città e soprattutto del suo aeroporto. I ribelli venivano
sempre in casa a chiedere la macchina, la moto… dovevamo sempre avere pronto
qualcosa per tenerli buoni. Nonostante la guerra ci sono stati degli italiani
che sono venuti a trovarci (via Uganda) per realizzare dei pozzi a Bayenga (MC
dicembre 2002, pag. 17
). Mentre erano là è scoppiata la guerra tra due
gruppi di ribelli e loro sono stati presi in mezzo. Sono andato a liberarli ed è
stata tutta un’avventura … veramente il Signore ci ha protetto.

Consolazione

In quel caos come missionari della Consolata abbiamo
fatto la scelta più ovvia: essere presenza di consolazione. Consolare
significava cercare di portare avanti le scuole, l’ospedale di Neisu, il centro
nutrizionale per bambini malnutriti, la pastorale degli studenti. «Prima o poi
la guerra finirà, ci siamo detti, cerchiamo quindi di aiutare i nostri giovani
a proseguire negli studi».

Stato disastroso della scuola

La scuola è stata una delle nostre priorità. Anche se
eravamo in guerra i responsabili della scuola e del ministero dell’educazione
continuavano a esserci. Il potere ugandese pensava solo al controllo e di
sfruttamento delle ricchezze, però tutto quello che era la vita normale: sanità,
scuola, burocrazia, continuavano a modo loro. Chiaramente dovevano dipendere
dal capo dei ribelli, a volte appoggiato dall’Uganda, altre volte dal Ruanda.
Le convenzioni tra Chiese e stato per la scuola erano sempre valide e quindi il
responsabile designato dal vescovo per l’educazione doveva far continuare le
nostre scuole elementari, medie e superiori.

Il finanziamento era un problema. Lì la scuola è sulle
spalle dei genitori da tanto tempo. Noi abbiamo puntato molto sulle adozioni a
distanza per far studiare bambini e giovani. E continuiamo ancora. Lo stato, da
quando è tornata la pace, ha cominciato a pagare alcuni maestri e professori
che sono stati riconosciuti. Però oggi come oggi a Isiro è ancora la famiglia
che paga la maggior parte dei maestri.

Uno dei problemi più gravi era la mancanza di testi. Il
maestro insegnava basandosi sugli appunti che lui aveva preso da studente. Li
scriveva sulla lavagna e i ragazzi li copiavano sui loro quadei.
I quadei arrivano in bicicletta dall’Uganda o dal Sudan. Questo ha creato una
situazione disastrosa. Da anni i maestri si passano gli appunti ricevuti dai
loro maestri, con una moltiplicazione di errori e imprecisioni. La situazione è
così, purtroppo. A Kinshasa so che il governo sta distribuendo dei libri grazie
agli aiuti inteazionali, ma al Nord è difficile vedere libri nelle scuole.
Noi abbiamo fatto dei progetti specifici, come a Neisu e Bayenga: se non un
libro per bambino, almeno uno per maestro, e libri nella biblioteca, così che i
ragazzi siano stimolati a studiare e conoscere. Durante la guerra era quasi
impossibile avere libri. Adesso che i rapporti con Kinshasa sono riaperti va
meglio, ma rimane il problema del costo. Da Kinshasa arriva tutto per aereo a
costi molto alti e questo rende i libri una merce rara e costosa.

Questo era ed è lo stato della scuola. Meglio non
parlare della sanità.

Evangelizzazione e/o sviluppo

Nel Nord del Congo abbiamo ancora quindici missionari in
quattro comunità (Isiro, Bayenga, Neisu e Somana). Anche se la situazione
sociale e politica è molto complicata e gran parte delle nostre energie sono
assorbite nell’affrontare problemi materiali, il centro della nostra azione
rimane l’annuncio del Vangelo. Costruire una scuola, mettere a posto un ponte,
una fontana, una strada sono tutte attività che si fanno insieme alle comunità
di base, al villaggio che si riunisce anzitutto nella chiesa, nella preghiera,
nella messa. L’impegno per migliorare la vita trova la sua radice dall’annuncio
del Vangelo. La nostra presenza è valida. Non siamo semplici operatori di una
Ong. Avessimo più personale… I vescovi ci chiedono di aprire altre missioni in
zone dove non ci sono ancora preti, ma non abbiamo personale. Mancano
missionari che vengano in Congo. È un problema. A dispetto delle difficoltà
economiche e strutturali, lo scopo della nostra presenza è essere in mezzo alla
gente, annunciare il Vangelo, celebrare l’eucarestia, far crescere le comunità
pian piano: questo è il nostro mandato, il nostro essere missionari.

Chiesa è
speranza

Una delle realtà belle di questi anni è stata la
crescita della Chiesa congolese, che – come laici, preti, suore, vescovo – è
stata davvero un’ancora di speranza per il nostro popolo. E continua a esserlo,
una chiesa impegnata nella società civile. Là dove c’è la Chiesa c’è ancora una
speranza.

Quando siamo arrivati nel ’72 non c’erano molti
sacerdoti locali. Adesso tutte le diocesi hanno i loro sacerdoti, e ci sono i
catechisti e le piccole comunità di base. Però è così esteso questo nostro
Congo, che ha ancora bisogno di missionari che collaborino con la chiesa
locale. Di fatto non facciamo più tutto noi da soli come un tempo. Oggi si
collabora strettamente col clero locale, coi vescovi, i catechisti, i laici.
Per questo la formazione dei laici è una delle nostre priorità.

Si pensi solo a un fatto. Quando ci sono state le prime
elezioni democratiche, chi era che arrivava nei paesini a spiegare perché e
come votare? Erano i nostri animatori di base, i nostri cristiani. Le comunità
di base, i catechisti, gli animatori sono la nostra forza. Ma anche le nostre
diocesi sono una forza che dà speranza alla nostra gente. Guai se non ci fosse
la Chiesa. Nonostante le difficoltà, malgrado le deficienze. Però il fatto che
i cristiani siano lì, che i sacerdoti siano lì, che i religiosi siano lì e noi
missionari della Consolata siamo ancora lì, è un segno della presenza del
Signore tra tanta miseria.

Quale futuro

Noi speriamo in un futuro. Il
problema è questa guerra che non finisce mai. Penso solo alla diocesi di Dungu:
c’è stata la presenza dell’Lra, ribelli che venivano dall’Uganda. Adesso non so
quanti gruppi di ribelli ci sono. Ogni tanto ne nasce uno nuovo. Per dominare e
sfruttare. Non hanno interesse per il popolo. Vogliono dominare e avere soldi.
Spesso sono militari mal pagati nell’esercito che disertano con le armi in
mano, diventano ribelli di un gruppo con un capo forte che controlla la
situazione. Ma sono più organizzazioni di ladri e banditi che gruppi politici.
Rubano i minerali (oro, diamanti, coltan) ma anche i raccolti della nostra
gente. E causano migliaia e migliaia di sfollati. Basta ricordare quel che
succede a Goma e Bukavu.

Noi, a Isiro, siamo abbastanza tranquilli. Abbiamo avuto
un po’ paura prima di Pasqua del 2013 perché abbiamo sentito che un gruppo di
ribelli era a circa 200 km, ma poi non sono arrivati. Purtroppo quando arrivano
è dura: applicano tasse, spillano soldi, controllano il commercio,
saccheggiano. Nelle zone di Isiro ci sono delle aree di diamanti e oro. I
nostri giovani, attratti da questo, abbandonano le loro case, il loro lavoro in
campagna e la scuola e vanno in quelle aree, ma non è che tornino poi con dei
soldi, perché chi guadagna non è il povero Cristo, il giovane o ragazzo che va
nelle gallerie o nell’acqua a scavare, sono solo i capi che incamerano tutto.

Il futuro della nostra zona non è nei minerali. Se
vogliamo dar futuro al Nordest del Congo occorrono strade per dare sbocco ai
prodotti agricoli, ché il terreno è fertile. Poi, avendo coltivazioni,
potrebebro anche venire delle fabbriche che diano lavoro… nel futuro. Si
coltiva riso, fagioli, banane, arachidi, olio di palma. Caffè e cotone
purtroppo sono stati completamente abbandonati per la solita cronica mancanza
di strade che ne impedisce il commercio. Una volta c’erano fiorenti piantagioni
di caffè, ora è un degrado completo, a cominciare ancora dai tempi di Mobutu,
quando ha voluto nazionalizzate tutto, comprese le piantagioni di caffè e di
olio di palma.

Avessero ascoltato anche solo il 50%

La Chiesa, come conferenza
episcopale, si raduna due o tre volte l’anno e prende sempre posizione sui
problemi del paese. Quante volte la Chiesa ha parlato contro questa guerra che
vuol balcanizzare il Congo, che è una guerra d’interessi contrapposti
maneggiati da fuori. Anche nel 2012 ad agosto si era fatta una grande
manifestazione in tutta la nazione contro la guerra che è scoppiata con l’M23
che intendeva separare le zone ricche, dividendo il paese.

La Chiesa si fa sentire a tutti i
livelli e con forza. Se i governanti avessero ascoltato anche solo il 50% di
quello che è scritto nei documenti della Chiesa! Perché se c’è una forza locale
che sa leggere la situazione dal punto di vista economico, sociale e politico,
questa è la Chiesa. Dal ’91 la Chiesa ha sempre denunciato questa situazione.
Ma chi l’ascolta?

Il jolly, missionario tappabuchi

Dall’agosto 2008 allo stesso mese del 2011 mi han
chiesto di fare il superiore di tutte le comunità, risiedevo a Kinshasa, ma ero
sempre in movimento anche per seguire il nostro gruppo di Isiro. Finito il mio
compito, ho passato tre anni, fino all’agosto 2013, a fare il tappabuchi.
Avendo esperienza sia del Nord che dell’Est, mi hanno fatto fare il jolly: ho
sostituito i confratelli che andavano in vacanza o avevano problemi di salute a
Kinshasa e a Isiro. Ultimamente ero a Somana, un quartiere popolosissimo di
Isiro che presto sarà parrocchia. È una comunità di periferia con qualche
cappella in piena campagna e nella foresta. Il mio lavoro è stato il solito:
scuola, salute, giovani e in più anche quello degli anziani.

Sì, questa degli anziani è una cosa che devo dire.
Quando studiavo da giovane missionario mi insegnavano che l’anziano africano è
rispettato e riverito. Purtroppo non è più così. Abbiamo tanti, tanti anziani
(a 60 anni sei già vecchio in Africa) che sono abbandonati da tutti, non nei
villaggi dove la vita tradizionale tiene ancora, ma nelle periferie dellà città.
Kinshasa è enorme, ma anche Isiro ha oltre duecentomila abitanti. Ci sono figli
che abbandonano i genitori anziani o li accusano di malocchio e stregoneria, e
questi sono costretti a vivere da soli, senza risorse. Non solo i bambini sono
accusati di stregoneria, ma anche gli anziani. E quindi sono abbandonati. E
quando li incontri, vedi il dolore di questi padri, di queste madri che hanno
allevato cinque o sei figli e si ritrovano lasciati a se stessi in solitudine.

Un missionario contento

Io sono contento di essere missionario in Congo, ormai
sono vent’anni. Rifarei tutto. E ho un sogno: che i nostri ragazzi possano
crescere, andare a una scuola normale, che i padri di famiglia possano lavorare
e possano avere una vita dignitosa. Non chiedo grandi cose: desidero solo la
normalità che invece non c’è. Il sogno che questo paese, così ricco in umanità,
in agricoltura, in foreste, in minerali sia della sua gente, sia un paese dove
si possa lavorare, avere una vita degna, umana. Invece si soffre. Siamo sotto
la soglia del livello di povertà, uno degli ultimi paesi nella graduatoria
mondiale. Eppure è un paese che potrebbe far vivere bene tutti e dae anche
agli altri, con tutte le ricchezze che ci sono. Ho il sogno della quotidianità
più normale dove la nostra gente possa lavorare, guadagnare, vivere con le cose
fondamentali: salute, acqua, lavoro, libertà, mezzi di comunicazione e
trasporto, strade. La quotidianità della pace.

Ai lettori di Missioni Consolata

Leggete Missioni Consolata perché è una porta aperta sul
mondo che ci fa sentire più universali. Il leggere cosa capita nel mondo aiuta
il cristiano italiano a essere più cristiano qui in Italia. Essere cristiani e
aiutare i missionari non è solo mandare dei soldi o pregare per noi, il che è
molto bello e di cui vi ringrazio, ma anche impegnarsi ad accogliere, a
conoscere, a salutare, a non aver paura dello straniero. Accogliere colui che
viene. Perché i nostri fratelli che vengono dall’Africa, dall’Asia o
dall’America Latina, eccetto qualcuno che viene per turismo o opportunismo, per
la gran parte arriva seguendo il sogno di una vita dignitosa. Io capisco i
giovani del Congo che scappano. Pensano di avere in Italia o in Europa un
futuro.

Ai giovani lettori di MC dico
siate contenti di essere lettori di MC e sappiate che l’annuncio del Vangelo
richiede ancora dei giovani capaci di dare tutto. Noi lavoriamo con dei laici,
ed è bellissimo, però abbiamo ancora bisogno di gente capace di lasciare tutto
per il Vangelo. Abbiamo ancora bisogno dei missionari e di missionari della
Consolata con cuore grande che sappiano amare in questo mondo pieno di miseria,
guerre e divisioni, e credere che il bene è sempre più grande. Sono convinto
che anche in Congo, malgrado la situazione, faccia più rumore un albero che
cade, le nostre guerre e la nostra sofferenza, che i mille alberi che stanno
crescendo.

Epilogo

Dopo questa lunga chiacchierata che risale al maggio
2013, padre Rinaldo Do è rientrato in Congo. Dopo alcuni mesi passati come
viceparroco nella parrocchia Mater Dei di Mont Ngafula a Kinshasa, dal marzo
2014 è parroco di Neisu, nel Nordest, dove c’è il grande ospedale fondato da
padre Oscar Goapper, che là è sepolto.

___________________________

MC ha pubblicato molto
sul Rd Congo. Leggendo questo articolo su www.rivistamissioniconsolata.it
trovate i collegamenti a molti degli articoli pubblicati dal 2000 in avanti.
Eccone alcuni:

E sul muro una scatola vuota
A scuola con una bottiglia d’olio
NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»
CONGO – L’amore grande di Anghele
CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove
CONGO, RD – Con le mani nel fango
BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza
NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio attesa
NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione
scottante
Futuro… in costruzione
Piccoli uomini, grandi inquietudini
Congo-Rwanda: guerra infinita
Scomparsi due milioni di voti
Voci dal Congo

Il folle dell’Africa centrale
Nel cuore dell’Africa

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra,
instabilità, decolonizzazione, Kabila, Doruma, povertà, rifugiati, Chiesa, scuola, educazione, riconciliazione, pace

Rinaldo do e Gigi Anataloni




E fu subito insicurezza (Do/Rd Congo 1)

Scegliere l’Africa e ritrovarsi in Congo


Lasciata la Spagna dove faceva una tranquilla vita da animatore
missionario, nel 1991 padre Rinaldo Do arriva a Kinshasa, la capitale dello
Zaire, futura Repubblica Democratica del Congo (Congo RD). Mobutu è ancora al
potere. Sono tempi turbolenti di violenze, disordini e saccheggi. Un
eccezionale battesimo alla vita missionaria. In questa lunga chiacchierata
padre Rinaldo ci rende partecipi di oltre venti anni di emozioni, fatiche,
giornie e speranza. Un’avventura che non è ancora finita.

Era
il 1986 quando sono andato in Congo per la prima volta. Si chiamava ancora
Zaire. È stato un contentino. Ero animatore missionario in Spagna, e mi hanno
permesso di fare un viaggio di tre mesi, per caricarmi.

Ho due ricordi di quel viaggio. Uno negativo: mi ero
messo a fare fotografie nell’aeroporto di Kinshasa dove era proibitissimo.
Quasi mi facevo cacciare ancora prima di entrare! L’altro ricordo è invece
bellissimo: la gioia, la festa delle messe, i canti e le danze, gli incontri
con i confratelli, lo splendido lavoro che stavano facendo a Doruma e a Wamba,
il cantiere per la costruzione della parrocchia di San Mukasa a Kinshasa. Il
Congo mi aveva preso il cuore.

Ma la vera partenza è stata nel 1991. Nell’86 avevo
visitato le missioni. Avevo avuto la possibilità di conoscere un po’ un paese
di missione, una Chiesa giovane. Poi finalmente nel 1991 mi hanno lasciato
partire. Avevo chiesto «Africa» in generale e mi hanno mandato proprio in Zaire
dove mi hanno accolto veramente bene.

Gli anni di Kinshasa

Sono arrivato con l’idea di andare
verso il Nord Est, in mezzo alla foresta, là dove i nostri missionari sono più
isolati. Invece il superiore mi ha proposto di diventare viceparroco a
Kinshasa, proprio nella parrocchia di San Mukasa che avevo visto in costruzione
nell’86. è sembrato un sogno
infranto, invece l’obbedienza si è rivelata una benedizione. Fino allora avevo
vissuto un’esperienza di animazione missionaria senza una responsabilità
diretta in una comunità e l’entrare nella pastorale (comunità di base, gruppi,
giovani, catechesi, scuole…) mi è servito molto. Kinshasa è una diocesi ben
organizzata, dove la presenza dei laici è veramente l’anima della Chiesa. La
forza della nostra enorme parrocchia (che qualche anno dopo è stata consegnata
alla diocesi) erano i laici e padre Santino Zanchetta, che era il parroco,
lavorava molto bene. Sono rimasto là dal ’91 al ’98.

San Mukasa è in un quartiere di
periferia della grande città di Kinshasa che ha oltre dieci milioni di
abitanti. Il quartiere non aveva strade vere e proprie e quella che conduceva
alla parrocchia era orribile, soprattutto durante le piogge. Spesso, come
comunità cristiana, abbiamo cercato di ripararla. Oltre la strada mancavano
l’elettricità, l’acqua potabile, le scuole e i servizi medici e sanitari. La
zona, però, non era il classico slum o bidonville, con case poste
una sull’altra, senza verde e senza ordine. Era una tipica zona di periferia,
con tanto verde, dove ogni famiglia aveva la sua «parcel», un pezzo di terreno
regolarmente assegnato, con la sua casetta. Case e non baracche, frutto del
boom degli anni ’70. Però molte erano incompiute o semi abbandonate perché poi
era arrivata la crisi. La dittatura di Mobutu era in declino e nel ’91, quando
sono arrivato, c’era stata una Conferenza nazionale per cercare di fare una
revisione di tutti quegli anni e prospettare un cammino di democrazia per il
paese.


Tra paura e saccheggi

È stato un periodo duro e turbolento, di saccheggi e
ladri in casa. Ci han preso la macchina e siamo stati fortunati a recuperarla,
dato che per noi era essenziale. La gente faceva la fame perché c’era poco
lavoro, e quello che c’era era poco remunerato. Migliaia erano i disoccupati.
In parrocchia, con l’aiuto di un organismo della Comunità europea, avevamo
trovato un canale per comprare mais e arachidi da rivendere a un prezzo
accessibile e nello stesso tempo sufficiente per darci un piccolo guadagno da
usare in aiuto ai più poveri delle varie comunità di base. La macchina ci
permetteva di rifoirci di cibo, di andare a cercare medicine, di fare tanti
servizi importanti per tutti. Per ben due volte siamo stati attaccati in casa
da gente armata, forse militari, forse no, pericolosi comunque. Grazie a Dio è
andata sempre bene. Tanta paura, certo…

Questo è stato il mio battesimo alla vita missionaria.
Sono arrivato a giugno del ’91 e a settembre c’è stato il grande saccheggio di
Kinshasa che ha lasciato la città in rovina. Non è stato un colpo di stato. A
proposito ci sono diverse teorie. Una dice che i militari non pagati si sono
rivoltati e hanno cominciato a saccheggiare negozi, fabbriche, banche, case di
ricchi e, dietro i militari, naturalmente, c’era anche il popolino, la gente
affamata. È durato per due o tre giorni. Poi Mobutu ha mandato la sua guardia
presidenziale e tutto è finito, come per dire: «Vedete, se c’è qualcuno che può
tenere calmo e sotto controllo lo Zaire, quello sono io». Un’altra teoria dice
che sia stato lo stesso Mobutu a dire ai militari: «Di soldi per pagarvi non ce
ne sono, trovateveli». Ma cambiando i fattori, il risultato è lo stesso. Ho
visto la città distrutta. I nostri ambasciatori avevano messo a disposizione
gli aerei, e chi voleva poteva andare via. Però noi missionari abbiamo deciso
di rimanere. Abbiamo firmato e siamo rimasti per ben due volte.

Rimanere: una presenza che conta

Mi ricordo che era il ’93 quando c’è
stato il secondo saccheggio. L’ambasciatore italiano mi ha detto: «Perché non
andate in altri paesi dove lo stato vi aiuta, dove se dovete costruire una
scuola vi dà un pezzo di terreno, dove non vi mette delle tasse? Qui non solo
non vi aiutano, ma vi rubano e vi saccheggiano». Io ho risposto: «Guardi, sig.
ambasciatore, se fossimo degli impresari come gli altri stranieri che sono
andati via, lei avrebbe perfettamente ragione, perché non conviene investire in
un paese dove non c’è sicurezza. Ma il fatto è che il nostro Capo (e gli facevo
il segno in su!) non la pensa così». Dove c’è miseria, sofferenza, difficoltà,
guerra, e dove la gente soffre, lì il missionario è presente.

E in quegli anni la nostra presenza
era proprio «solo presenza». Come missionari non avevamo grosse possibilità,
non essendo uno di quegli organismi che possono fare grandi cose perché
ricevono sostanziosi aiuti da governi o dall’Onu. Negli anni della guerra, a
Kinshasa o nel ’98 quando ero a Doruma, quel che contava era la presenza: le
persone vedevano che il missionario, il loro sacerdote, il loro prete era in
mezzo a loro. Il semplice fatto di non essere scappati, di restare con la
gente, dava tanta serenità e coraggio.

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu

Tre giorni di fuoco

Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del
quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per
paura di essere presi dai soldati. Donne e bambini, rimasti soli, si
rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro
rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato
ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando
sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.

Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole
fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno
fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano
palpabili. Quando si sparse la notizia
che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a
fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Una fiumana di persone scendeva la
collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una
fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.

Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui
minacciato e molestato più degli altri. […] A uno di quei blocchi non ricordo
cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla
testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i
ribelli. Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità;
poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da
una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o
un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno
attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.

Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto
raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare
con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che
piangevano.

I cannoni sparavano contro la collina. […] La
domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi
della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto
con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i
confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la
mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.

 

Padre Stefano
Camerlengo

(Da MC febbraio 2000, pag.
22-23)

Rinaldo Do e Gigi Anataloni