Perché lo avete fatto?

La testimonianza di un sopravvissuto a S-21


«Perché lo avete fatto?»

Il pittore Vann Nath, morto nel 2011, è stato
rinchiuso nella prigione S-21. L’intervistatore è stato talmente colpito dalla
sua storia che gli ha dedicato un romanzo, S-21. Nella prigione di Pol Pot.

 

S-21 era
il nome di una ex scuola di Phnom Penh convertita in prigione dai Khmer Rossi.
Il suo direttore era Kaing Guek Eav, conosciuto
come Duch. In essa, principalmente tra
il 1976 e il 1978, vennero reclusi gli oppositori del regime di Pol Pot.

Vann Nath, pittore, è stato uno dei pochi prigionieri
sopravvissuti alla S-21. Quella che segue è un’intervista concessa poco prima
della sua morte, avvenuta nel 2011, in una galleria che esponeva i suoi quadri,
osservati dagli sguardi attoniti dei visitatori: «Comprendo la loro incredulità,
ma tutto ciò che ho dipinto è accaduto veramente», ha esclamato d’un tratto
Nath mentre mi accompagnava nella stanza in cui viveva e lavorava. Dal 1979,
anno in cui era stato liberato dall’incubo, Nath ha dedicato la sua vita a
testimoniare la sua esperienza nella S-21.

Quando e perché è stato arrestato?

«Sono stato arrestato alla fine del 1977,
ufficialmente per aver offeso l’Angkar (l’organizzazione politica dei Khmer Rossi, ndr). Ricordo che, per settimane intere, ho cercato di
ripercorrere ogni parola, ogni mio gesto per risalire all’attimo in cui è stato
deciso il mio arresto. Ma non sono riuscito a individuarlo. Ero un artista e
questo bastava per essere catalogato come nemico».

Delle 196 prigioni esistenti in Kampuchea Democratica, la S-21 è stata
la più «letale». Chi vi entrava poteva uscie solo morto. Che cosa l’ha
salvata?

«Mi ha salvato Pol Pot!» – dice ridendo -. «Sì, è vero,
Pol Pot mi ha salvato. Duch aveva notato la mia abilità artistica e Nuon Chea (numero 2 nella scala gerarchica dei Khmer Rossi, ndr) gli aveva commissionato un monumento plastico
raffigurante Pol Pot in marcia davanti a un gruppo di rivoluzionari. Avrebbe
dovuto essere costruito al posto del Wat Phnom (un tempio buddista, ndr).
Nel frattempo dovevo dipingere ritratti di Pol Pot».

Ha mai incontrato Pol Pot?
«Mai. L’ho visto solo in fotografia».
Il regime di vita è sempre stato brutale?

«No, verso la fine del 1978 il regime si fece
improvvisamente più rilassato e non c’erano quasi più torture. Anche le guardie
si mostravano più gentili. Penso che il regime avvertisse l’imminenza della
guerra con il Vietnam e cercava appoggi all’estero».

Dopo la sua liberazione ha dipinto quadri che raffiguravano scene di
vita quotidiana all’interno della prigione. È stato testimone diretto di tutto
ciò che ha rappresentato?

«La maggior parte le ho viste direttamente: i prigionieri
sdraiati e incatenati, quelli stremati e affamati, le unghie strappate durante
gli interrogatori, i morsi dei serpenti o degli scorpioni, le scosse
elettriche. Sentivo le urla di dolore, i pianti dei neonati e delle loro madri.
Vedevo i prigionieri caricati sui camion e portati a Choeung Ek. I camion
tornavano vuoti e tutti capivamo che fine avremmo fatto. Altre, invece, mi sono
state raccontate da altri sopravvissuti, come il dipinto del khmer rosso che
uccide un neonato sbattendolo contro un albero».

Pensa di essere stato obiettivo nelle sue rappresentazioni o ha in
qualche modo esagerato?

«È una domanda che continuo a farmi ed è un peccato che
nessun giornalista, fino a oggi me lo abbia chiesto. Sono stato “onesto”? Non
so. Per ciò che ho visto posso dire di sì».

Ha mai incontrato i suoi carcerieri?

«Sì. Ho incontrato Him Huy. Ha detto che se non avesse
fatto quello che gli era stato ordinato di fare, sarebbe lui stesso stato
ucciso. Ma ricordo che nei suoi occhi non vedevo alcuna pietà per i prigionieri
da lui torturati».

Recentemente è iniziato il processo ai dirigenti superstiti di
Kampuchea Democratica. Che effetto le ha fatto vedere Duch, il direttore della
S-21, alla sbarra?

«Non ho provato odio, voglia di rivalsa. Voglio solo
capire quale sia stato il meccanismo che ha prodotto tale regime, tale fobia
del nemico. Voglio capire. Non voglio vendetta. Penso di avere diritto a una
spiegazione. Non mi interessa neppure che vengano condannati. Fosse per me li
lascerei liberi a patto che ci diano delle spiegazioni. Perché è stato fatto
tutto questo? Solo così potremmo evitare il ripetersi di questi drammi. Voglio
che le future generazioni siano immuni da questi pericoli. Ma servono risposte.
Se il processo si limita solo a condannare, allora è tutto inutile».

Piergiorgio
Pescali

 

Piergiorgio Pescali




Mondo. Biodiversa è meglio

Manaus 2015: Forum sulla Biodiversità

Sommario
1. Difendiamo i colori
del mondo

2.
La biodiversità  indigena
3. 
Aree protette e
popoli indigeni

4.
La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

5.
Lince pardina chiama
tonno rosso


 

Biodiversità e Popoli indigeni

1. Difendiamo i colori
del mondo

Per parlare di
biodiversità l’Amazzonia è il luogo ideale. Non esiste altro posto al mondo che
ne ospiti di più. L’Amazzonia e la sua biodiversità sono però in grave
pericolo, a causa dell’azione umana. Preservare la diversità della vita è
sempre più complicato, ma forse non impossibile. Il primo passo è il rispetto
dei popoli indigeni, per i quali la natura è una «casa» e non una «miniera» da
sfruttare.

Manaus. Sono parecchie le donne indigene
venute al Fórum social mundial da biodiversidade pensando di vendere i
loro prodotti artigianali (bigiotteria, oggetti in legno, tessuti), ma l’evento
non ha richiamato molta gente. Il Centro de convenções Vasco Vasques di Manaus,
costruito a lato della Arena Amazonas (lo stadio degli ultimi campionati
mondiali di calcio), è accogliente, luminoso e funzionale, ma partecipanti e
visitatori quasi si perdono negli spazi della struttura.

Un vero peccato, perché le
tematiche messe in agenda dagli organizzatori sono del massimo interesse:
difesa dell’Amazzonia e della biodiversità, diritti umani, cambiamenti
climatici, agroecologia, sicurezza e sovranità alimentare, economia solidale e
lavoro degno, bioetica, ambiente e progetti idroelettrici. Organizzato da una
serie di realtà sindacali, movimenti sociali e cornoperative, il Forum sulla
biodiversità si inserisce nella tradizione dei Forum sociali mondiali nati nel
2001 a Porto Alegre, nello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.

Da qui proviene Lélio Luzardi Falcão, già proiettato
sugli eventi futuri: a gennaio 2016 il Forum toerà infatti a Porto Alegre. Più
concentrata sul presente è Rosane Pinheiro da Silva, che nega la scarsa
partecipazione all’evento di Manaus: «Abbiamo fatto tutto senza soldi e senza
l’aiuto che sponsor e autorità ci avevano promesso. Nonostante ciò siamo
riusciti a coinvolgere 5 mila persone». Probabilmente i numeri non sono quelli
della vulcanica Rosane. Certamente al Forum sulla biodiversità la
partecipazione degli indigeni è significativa. Sono venuti per parlare, per
ascoltare o anche soltanto per vendere, ma tutti con l’orgoglio
dell’appartenenza.

La lotta dei
Munduruku contro la prepotenza del potere

Da anni in Brasile si litiga sulla
proliferazione delle grandi centrali idroelettriche (usinas hidrelétricas)
previste dal Pac, il Piano di accelerazione della crescita (Programa de
aceleração do crescimento
) ideato dal governo Lula e proseguito da Dilma.
Molte centrali sono già in funzione, altre sono in costruzione o in fase di
progetto, sempre in un mare di polemiche, principalmente per due motivi: perché
le opere producono grandi impatti ambientali e perché troppo spesso sono localizzate
in terre abitate da popolazioni indigene. La questione non poteva dunque
mancare al Forum di Manaus.

Roseninho Saw è un giovane indigeno
munduruku. Il popolo dei Munduruku conta circa 12 mila persone. Vive negli
stati di Amazonas e Mato Grosso, ma soprattutto nella regione Sud del Pará
lungo il fiume Tapajós e i suoi affluenti. Sul Tapajós il governo di Brasilia
ha in programma la costruzione della centrale di São Luiz, che dovrebbe
diventare la terza più grande del paese. L’opera comporterà l’allagamento della
terra Sawré Muybu, appartenente ai Munduruku (anche se essa non è ancora
ufficialmente demarcata). Oltre a ciò, sconvolgerà le modalità di vita della
popolazione, considerando che si inserisce in un progetto complessivo che, nel
bacino idrografico del Tapajós e del Tele Pires, prevede la costruzione di ben
nove centrali.

Roseninho Saw parla senza alzare la
voce, ma le sue parole sono dure come pietre. «Io chiedo: se il governo
considera l’energia tanto importante, perché non fa un progetto migliore, che
non preveda la distruzione della nostra foresta? Il governo sta cercando di
dividere il nostro popolo: comunità contro comunità, associazioni contro
associazioni. Ma noi indigeni parliamo una sola lingua e abbiamo il consenso
anche della popolazione ribeirinha e di quella che vive nei municipi
coinvolti». Roseninho parla di diritti non rispettati, ad iniziare dall’obbligo
di consultazione, previsto dalla Convenzione 169 sui popoli indigeni.

«Ci dicono – conclude il giovane
leader munduruku – che l’energia andrà anche a nostro beneficio. Ma non è così:
l’energia sarà per gli imprenditori, i proprietari terrieri e i produttori di
soia. Per noi la foresta è vita, casa, piante medicinali. Per tutto questo la
lotta non può fermarsi». Il pubblico presente, composto in buona parte da
indigeni, apprezza salutando l’oratore con applausi e rulli di tamburi.

Se la biodiversità  sta (anche) nel nome

Meno arrabbiate di Roseninho Saw
Munduruku sono tre simpatiche signore indigene che hanno allestito banchetti
artigianali negli ampi spazi del Centro di convenzioni Vasco Vasques. Indossano
copricapi, orecchini e collane, tutti coloratissimi. Sono meno arrabbiate, ma
non meno orgogliose del loro essere indigene.

Maria Valda Feitosa (Martequi, in
lingua indigena) è tikuna. «Nella nostra comunità – dice – siamo più di mille
persone. Non c’è acqua potabile, la luce è una calamità e il medico viene
soltanto una volta alla settimana quando non è impegnato altrove. Se abbiamo
necessità di una cosa urgente, è necessario venire a Manaus. Per raggiungerla
dobbiamo prendere la lancia che, andata e ritorno, costa 12 reais a persona.
Come può sostenere questo costo una famiglia?».

Maria do Carmo Rarê (Hari Wor) è sateré mawé. «Non è
vero che le istituzioni pubbliche aiutano gli indigeni. La sanità è gratuita,
ma pessima. I medici non hanno mai le medicine. Come le nostre scuole non danno
mai la merenda ai nostri ragazzi». E aggiunge: «Siamo discriminati in quanto
indigeni. Ad esempio, se io salgo su un autobus di Manaus con questi vestiti e
queste pitture sulla pelle, la gente si dà delle gomitate. Pensa che sia una
cosa da drogati, mentre per noi dipingersi è un atto di felicità. Anni fa,
quando io avevo circa 30 anni, feci un colloquio di lavoro e lo superai. Quando
mi presentai per iniziare, il datore di lavoro vide i miei tattuaggi e con una
scusa mi disse di tornare a casa e che mi avrebbe richiamato più avanti. Ci
rimasi malissimo dato che avevo bisogno di quel lavoro. Tuttavia, non mi sono
mai arresa davanti alle avversità perché sono una guerriera come la gran parte
delle donne indigene». Una guerriera divenuta sportiva: Hari Wor è stata più
volte campionessa indigena della specialità «arco e freccia». Come dice lei,
scherzando sulla sua età, è la «vovó de arco e flecha», la nonna dell’arco e
della freccia.

Wall França (Wytá) viene da una
famiglia con papà xavante e mamma sateré mawé. «Sì, è vero, spesso c’è
discriminazione nei confronti di noi indigeni. Anche per questo sono grata agli
organizzatori del Forum sociale che ci hanno dato la possibilità di venire qui
a far conoscere il nostro lavoro artigianale».

Le tre donne appartengono a gruppi
etnici diversi, ma i loro nomi indigeni fanno tutti riferimento alla natura:
Martequi significa «macchia di leopardo», Hari Wor indica la «termite bianca»,
Wytá sta per «uccellino». Non si tratta di una banale tradizione, ma di un dato
culturale che evidenzia l’intima connessione dei popoli indigeni con la madre
terra. Stesso discorso vale per i prodotti artigianali che le signore indigene
vendono. Tutti rimandano alla natura dell’Amazzonia. O perché sono fatti con
materie vegetali o perché raffigurano animali.

La foresta: come «casa»
o come «miniera»

Ezequiel Feandes André – in
lingua indigena Yauatucü, «foglia verde» – è un giovane tikuna di Tabatinga. È
venuto a Manaus per studiare psicologia all’Università.

«Nei nostri confronti ci sono
preconcetti e discriminazioni. E razzismo. Inoltre, la mia gente patisce lo
shock culturale di trovarsi schiacciata tra due filosofie, quella indigena e
quella dei non indigeni. Io ho scelto di studiare psicologia anche per riuscire
a capire gli uni e gli altri».

In quest’ottica delle due filosofie
Ezequiel spiega la diversa attitudine nei confronti della biodiversità. «Per
esempio, a differenza del capitalismo, noi dobbiamo preservare la natura e
avere cura della nostra casa che è la foresta da cui noi ricaviamo alimenti e
benessere».

Anche Henoc Pinto Neves, 33 anni, è
tikuna. «Sono tikuna nell’anima e nel sangue – dice -. Non mi vergogno a
esserlo, né a dirlo a chiunque». Magari anche a quel sindaco che, qualche anno
fa, gli disse che un indio non ha la capacità di diventare dottore. Nel 2012
Henoc si è laureato in biomedicina e oggi è un analista clinico.

Con le idee chiare anche sull’Amazzonia,
«un patrimonio da difendere strenuamente. Noi indigeni abbiamo cura della
natura ed essa ci ricompensa ampiamente quando peschiamo, cacciamo e
coltiviamo. Al contrario di noi, il bianco pensa soltanto a sfruttae le
risorse senza preoccuparsi del futuro».

Eledilson Corrêa Dias, genitori
kaixana e tikuna, si nota più degli altri. Alto, magro, torso nudo, una grossa
e rumorosa collana di conchiglie al collo, un copricapo di piume in testa, ma
soprattutto il volto dipinto di color nero pece. Proviene dall’Alto Solimões,
municipio di Santo Antônio do Içá, ma adesso risiede con la famiglia alla
periferia di Manaus.

«Sono venuto a Manaus perché voglio
che i miei tre figli studino. Perché, dopo gli studi, possano far valere i
nostri diritti come promotori di giustizia, avvocati o giudici. Il governo
brasiliano deve ricordare che noi siamo popoli originari e che stiamo qui da più
di 600 anni. In passato ci hanno ucciso e massacrato. Oggi ci disprezzano.
Vogliamo che i nostri diritti passino dalla carta alla pratica».

Anche dalle sue parole esce una
foresta intesa come «casa», lontanissima dalla concezione dei bianchi, che la
vedono invece come una «miniera» da sfruttare.

In lingua indigena il nome di
Eledilson è Kauixe, che – tanto per confermare la simbiosi con la natura –
significa «albero grande e forte». «Noi siamo nati nella natura. Noi facciamo
parte di essa. Se la distruggiamo, distruggiamo noi stessi». •


 

 

LA?TESTIMONIANZA
2. La biodiversità  indigena
di Paolo Moiola

Sono tempi duri per i
popoli indigeni del Brasile. Le loro terre sono invase o sotto assedio. Le loro
modalità di vita si stanno perdendo o vengono messe in discussione. Difendere i
popoli indigeni significa difendere anche la biodiversità. Al loro fianco, in
una battaglia che pare improba, si sono schierati Laurindo e Gilmara, una
coppia di volontari rispettosa delle diversità, competente e appassionata. Ecco
cosa ci hanno raccontato.

Tabatinga. Gilmara Feandes e Laurindo Lazzaretti sono una di quelle coppie che ti
fanno dire: «Si sono trovati». Tanta è la complicità, il desiderio di camminare
assieme verso una meta comune: la difesa dei popoli indigeni e delle loro
modalità di vita. Hanno chiamato il loro figlio – oggi ha un anno – Giovani
Kamuu, dove la seconda parola significa «sole» in lingua wapixana. Dopo varie
esperienze a Roraima, Gilmara e Laurindo ora lavorano con il Conselho
indigenista missionário
(Cimi) nella Vale do Javari, una terra indigena
abitata da vari popoli: Matsés, Matis, Kulina-Pano, Korubo, Marubo, Kanamari e
anche alcune etnie isolate.

Secondo voi, in Amazzonia quali sono i
maggiori pericoli per la biodiversità?

«La domanda
mondiale di beni naturali, le cosiddette materie prime, fa sì che l’Amazzonia
sia vista come una grande fonte di guadagni. L’intervento umano per l’apertura
di strade, la fondazione di centri urbani, la costruzione di enormi dighe per
la produzione di energia elettrica, la sfrenata ricerca di minerali di tutti i
tipi, l’occupazione di spazi per la produzione di alimenti destinati al mercato
mondiale rappresentano una grande minaccia per i differenti biomi dell’Amazzonia.
È necessario trovare modalità diverse d’azione altrimenti tutto è a rischio, a
iniziare dalla stessa sopravvivenza della specie umana».

È giusto affermare che i popoli indigeni
sono i primi difensori della biodiversità? E che, proteggendo le loro caratteristiche
esistenziali, si difende al tempo stesso la biodiversità?

«Per i popoli
indigeni i fiumi, i laghi, le montagne, le pietre hanno vita. La foresta è
piena di spiriti della vita. Difendere questo spazio sacro significa dunque
difendere la continuità dell’esistenza.

Le vite degli
animali della foresta, di pesci e tartarughe nei fiumi e nei laghi sono
sinonimo di più vita umana. La morte o la scomparsa di altre specie significa
mettere a rischio anche la vita umana e l’esistenza di un popolo. Per i popoli
indigeni la vita umana è inconcepibile senza la diversità di altre vite attorno
a essa. Per loro è vitale e unico difendere la biodiversità, perché è la
garanzia per continuare a esistere sulla terra.

Ci sono popoli
che sono stati sradicati dal loro ambiente e adesso vagano da un luogo a un
altro, senza meta, senza gioia, senza speranza. Altri hanno dovuto adattarsi
per sopravvivere. Tutti hanno in comune il sogno di tornare un giorno nella
loro terra promessa dove c’è vita in abbondanza. Possiamo qui ricordare la
tristissima vicenda dei Guarani Kaiowá, che sono stati espulsi dalle loro
terre, in cui abitavano lungo la costa del Brasile e nella parte centrale. Oggi
vivono in campi ai margini delle autostrade (è l’etnia indigena con il più
alto tasso di suicidio, ndr
)».

Sembra che i governi Lula e Dilma abbiano
lavorato per favorire l’agrobusiness (soia, allevamenti, piantagioni, ecc.) e
lo sfruttamento delle risorse naturali (foreste, sottosuolo, ecc.) a discapito
degli ecosistemi e dei diritti dei popoli indigeni. Qual è la vostra opinione
al riguardo?

«Noi avevamo
una grande speranza nella piattaforma di governo del Partito dei lavoratori (Partido
dos trabalhadores
, Pt). I valori fondamentali erano l’eguaglianza delle
opportunità e la lotta alle disparità che rendono i ricchi sempre più ricchi e
i poveri sempre più poveri.

Il Brasile
usciva da governi per i quali le privatizzazioni rappresentavano l’unica
opzione di politica economica. In quel contesto aveva assunto il comando del
paese prima il governo Lula (dal 2003 al 2010) e poi Dilma (dal 2011).
Molte cose buone sono state fatte, ma davanti alle ingiustizie dei grandi
capitalisti ci sono state troppe battute d’arresto. In nome della governabilità
sono stati concessi spazi ancora più vantaggiosi alle grandi imprese. In nome
di una certa idea di sviluppo finiscono per aprire spazi nella legislazione a
imprenditori che non si fermano davanti agli ecosistemi, spinti come sono
dall’unico desiderio di massimizzare i loro profitti. Pressioni inteazionali
e dell’oligarchia nazionale rendono il governo debole, non rappresentativo e
sempre coinvolto in scandali. Questa posizione fa sì che le classi più
svantaggiate si sentano di nuovo completamente impotenti. La grande delusione,
quindi, nasce dal fatto che il partito e i suoi eletti non hanno risposto alle
aspettative. Per esempio, realizzare finalmente la tanto attesa riforma agraria
e garantire i diritti alle popolazioni indigene di questo paese. Purtroppo,
niente di tutto questo accadrà e quindi dovremo continuare a lottare e a
sognare.

Oggi il
governo Dilma è fortemente legato ai gruppi agricoli, ai grandi proprietari
terrieri e ai produttori di monocoltura, come dimostra il curriculum della
nuova ministra dell’agricoltura (la latifondista Kátia Abreu, ndr).
Contando i parlamentari evangelici, la camera e il senato federale sono in mano
ai rappresentanti dei gruppi politici ed economici che vedono i popoli indigeni
e le loro terre come un ostacolo allo sviluppo del Brasile. Nel corso degli
ultimi quattro anni, grandi lotte sono state combattute in campo legislativo e
giudiziario per abbattere o quantomeno ridurre i principali diritti dei popoli
indigeni, come ad esempio la garanzia sulle proprie terre.

La
Costituzione federale ha festeggiato il suo 27mo anno di promulgazione: con
essa, nel 1988, i popoli indigeni cominciarono a essere riconosciuti (articolo
231). È proprio per difendere quanto conquistato che oggi il movimento indigeno
si è organizzato e unito nella lotta».

Dire che l’invasione fisica e culturale dei
bianchi è passata anche attraverso un uso distorto della religione è
un’affermazione veritiera?

«Qualsiasi
presenza religiosa che non riconosca e non rispetti le modalità di vita dei
popoli indigeni è nociva. In molti hanno eliminato simboli religiosi, credenze
profonde, luoghi sacri, lasciando i popoli indigeni in un vuoto esistenziale
che li ha spesso condotti ai bordi delle strade o delle discariche, o nelle
periferie delle città. Gli evangelici sono i primi responsabili, ma in passato lo
hanno fatto anche molti cattolici».

Voi lavorate con il Cimi, un’istituzione
della chiesa cattolica brasiliana molto nota per la sua combattività. Per
evitare gli errori del passato, in che modo vi relazionate con i popoli
indigeni?

«Oggi la
chiesa cattolica e il Cimi lavorano per la formazione delle coscienze, per il
rispetto della diversità della vita sulla terra e per la costruzione dei
diritti in uno stato rappresentativo e rispettoso. Noi lavoriamo anche per
organizzare la speranza e per non lasciare che le forze che distruggono la vita
prevalgano sul bene.

In
particolare, nel nostro servizio ai popoli indigeni, noi cerchiamo di
sviluppare un dialogo interreligioso, di rispetto e valorizazione dei costumi,
di promozione della dignità, dell’autonomia e del protagonismo dei popoli
indigeni affinché essi siano soggetti della loro storia.

Continueremo a
essere una voce che grida nel deserto o nel mezzo della foresta. Per dire che
l’ultima parola non è quella del mercato che tutto trasforma in merce o quella
dei prepotenti che vogliono dominare su tutto e tutti. La nostra meta è la vita
nel senso più ampio, completo e profondo. In una parola, il Bem viver».

Se ragioniamo però facendo prevalere il
pessimismo, il «Bem viver» pare soltanto uno slogan, magari bello e romantico
ma sempre slogan. Un po’ come «Um outro mundo é possível» dei Forum sociali
mondiali. Che potete dire al riguardo?

«Il Bem
viver
è una proposta di vita presente in ciascun popolo indigeno. In essa
si ritrovano lingua, credenze, costumi, organizzazione sociale, consonanza con
la biodiversità.

Con la sua
prepotenza e il suo desiderio di universalità, il progetto economico
capitalista introduce nelle altre culture concetti e modi di vita estranei a
quelle popolazioni, rompendo l’armonia. Cercare il Bem viver significa
riprendere le vere tradizioni spirituali, economiche e organizzative.

Secondo noi,
il Bem viver sarà la salvezza dell’umanità, del pianeta terra, della
biodiversità». •


 

Aree protette e
popoli indigeni

3. I parchi hanno
bisogno
dei Popoli

di Francesca Casella
(Survival Inteational)*

In nome della
«conservazione», molti popoli indigeni sono stati sfrattati da aree naturali di
cui da sempre sono i migliori custodi. Si tratta di una scelta profondamente
sbagliata: per i popoli e per l’ambiente.

Quasi tutte le aree protette del
mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le
terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel
nome della «conservazione». Questi sfratti possono distruggere sia la vita dei
popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per
generazioni.

Spesso, le terre indigene sono
erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le
hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree
di cosiddetta wildeess, governi, società, associazioni e altre
componenti dell’industria della conservazione si adoperano per fae «zone
inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto
può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono
l’autosufficienza. E mentre prima prosperavano, spesso si ritrovano poi a
vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di
reinsediamento. Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani
indigeni, inoltre, anche l’ambiente può finire per soffrire perché il
bracconaggio, lo sfruttamento eccessivo delle risorse e i grandi incendi
aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

Con la campagna Parks Need
Peoples
, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni

Survival Inteational denuncia il lato oscuro della
conservazione e spiega perché parchi e riserve hanno bisogno dei popoli
indigeni oggi più che mai.

 

Contro
i «selvaggi»

L’idea di preservare le aree di wildeess
attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX
secolo. Si fondava su una lettura arrogante della terra che mancava
completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmarla
e alimentarla. La convinzione era quella che a sapere cosa fare per il bene
dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il
diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano. A promuovere
questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Usa Theodore
Roosevelt (1858-1919), secondo il quale «la più giusta fra tutte le guerre è
quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e
disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende
l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti… È d’importanza
incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro
proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle
razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della
storia è stato quello di Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel
1872, ai nativi che vi vivevano da secoli fu inizialmente permesso di restare,
ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra
le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In
una sola e singola battaglia si dice siano morte 300 persone. Dettagli storici
come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del
parco. Tuttavia, tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è
diventato consuetudine in tutto il mondo e la visione di Roosevelt continua a
influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti
devastanti non soltanto per i popoli indigeni, ma anche per la natura. In
un’intervista rilasciata nel 2003, Mike Fay, un influente ecologista della Wildlife
Conservation Society
(www.wcs.org), dichiarava: «Nel 1907, quando gli Stati
Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino
del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di
aree protette facendone un pilastro della sua [politica intea]… In pratica,
il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il
modello statunitense in Africa». E se qualcuno fosse tentato di pensare che in
questo processo non si siano ripetuti gli eccessi che hanno flagellato i popoli
del Nord America, gli basterà una rapida scorsa alla storia recente di
persecuzione delle tribù pigmee dell’Africa Centrale per cambiare idea. A mero
titolo d’esempio, tra gli anni ’60 e ’80 le autorità congolesi hanno espulso almeno 6mila Batwa
dal «Kahuzi-Biega National Park». Un rapporto suggerisce che la metà di queste
persone sia morta in seguito agli sfratti, mentre i sopravvissuti versano in
cattive condizioni di salute (A. K. Barume, Heading Towards Extinction?, 2000).

 

DallAsia
all
Africa, laltra
faccia delle aree protette

Nel mondo esistono oggi oltre
120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa. Anche se è impossibile
fare stime precise, le persone che sono state sfrattate dalle loro case nel
nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto,
sono molti milioni. La maggior parte sono popoli tribali.

Le aree protette si differenziano
per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle
risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli
tribali devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i
territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta
che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Un caso esemplare è quello dei
Wanniyala-Aetto dello Sri Lanka, conosciuti anche con il nome di Vedda. Nel 1983,
i Wanniyala-Aetto, o «popolo della foresta», furono sfrattati dalla loro patria
che oggi prende il nome di Maduru Oya National Park. La tribù aveva già subito
ingenti perdite di terra a causa di dighe, coloni e deforestazione: il Maduru
Oya era il loro ultimo rifugio. Una volta estromessi dalla foresta dovettero
cambiare tutto, dal modo di vestirsi a quello di vivere, e furono costretti a
conformarsi alla società dominante, mentre i loro vicini e le autorità li
trattavano come «demoni» e «primitivi». La loro autosufficienza, legata alle
foreste, è andata perduta e oggi stentano a sopravvivere alla povertà e a tutti
i problemi ad essa connessi.

Poche comunità sono disposte a
rinunciare volontariamente a tutto il loro mondo per far spazio ai parchi. Ma
quando resistono, le conseguenze sono gravi. Ovunque, i popoli indigeni
denunciano pestaggi, arresti arbitrari, persecuzioni e persino torture.

Nelle terre dei Baka del Camerun
sudorientale sono state istituite alcune aree protette – comprendenti sia
parchi nazionali sia riserve di caccia sportiva – senza il loro consenso. Le
eco-guardie, in parte finanziate dal «Fondo mondiale per la natura» (Wwf) e dal
governo tedesco, non permettono ai Baka di praticare la caccia e la raccolta
nelle foreste che un tempo erano la loro casa, o addirittura di entrarvi.

Le eco-guardie, talvolta
accompagnate da personale militare, minacciano, arrestano e picchiano uomini,
donne e addirittura i bambini baka accusandoli di bracconaggio. Interi villaggi
sono stati rasi al suolo e molte persone baka sono state torturate. Secondo
varie testimonianze, anche fino a morie.

Nel maggio 2013, la Commissione
nazionale del Camerun per i diritti umani e la Fusion-Nature hanno
denunciato un raid anti-bracconaggio durante il quale sono stati torturati
dieci Baka, uomini e donne. Mancando strumenti concreti a difesa dei Baka,
nella maggior parte dei casi le eco-guardie possono agire impunemente.

Oltre ad avere l’effetto di
alienarsi le popolazioni locali, questa gestione militarizzata dei programmi di
conservazione non riesce a contrastare le cause politiche del mercato della
selvaggina e la corruzione che spesso lo sorreggono. Il bracconaggio
finalizzato al commercio della carne è organizzato da un network che include
personaggi influenti, che spesso usano il loro potere per mantenere i loro
circuiti di traffico liberi dai controlli. Benché esistano organizzazioni che
lottano contro il bracconaggio dei «colletti bianchi», l’obiettivo principale
delle eco-guardie rimangono le popolazioni locali. Essendo i meno potenti, i
Baka sono quelli colpiti più duramente.

Drammatica anche la situazione dei
Boscimani del Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano
cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette
ad abbandonare questo stile di vita, ma la «Central Kalahari Game Reserve» del
Botswana è ancora la casa degli ultimi Boscimani a vivere in gran parte di
caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta
Corte ha confermato il loro diritto di vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza dell’Alta
Corte, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della
tribù nemmeno una singola licenza. Di conseguenza, la caccia di sussistenza
praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A
decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro
famiglie.

Survival riceve segnalazioni di
Boscimani torturati sin dagli anni ‘90 e recentemente ha pubblicato un rapporto
che documenta più di 200 casi di abusi violenti registrati tra il 1992 e il
2014, tra cui un Boscimane morto a seguito delle torture e un bambino ferito
allo stomaco da un colpo di pistola dopo che il padre si era rifiutato di far
entrare la polizia nella sua capanna senza un mandato. Nel 2012, due Boscimani
sopravvissero alle torture inflitte loro delle guardie del parco perché avevano
ucciso un’antilope. Pare che uno dei due uomini, Nkemetse Motsoko, rischiò di morire
quando la polizia lo prese alla gola per soffocarlo, e lo seppellì vivo. Nel
2014 si è verificato un altro terribile attacco. «Mentre mi aggredivano – ha
raccontato Mogolodi Moeti a Survival – mi dissero che persino il presidente
sapeva quel che stava succedendo, che potevano uccidermi senza essere accusati
di nulla, perché quello che mi stavano facendo era per ordine del governo. Mi
dissero che volevano usarmi come esempio, per dissuadere gli altri dal
ritornare nella Central Kalahari Game Reserve e mancare di rispetto al governo».

Il diritto dei Boscimani del
Kalahari a cacciare per nutrirsi è un diritto umano fondamentale e il
comportamento del governo è stato duramente criticato da varie istituzioni
inteazionali tra cui l’Onu e la Commissione africana per i diritti umani e
dei popoli. Ciò nonostante, recentemente il presidente Khama ha anche vietato,
illegalmente, la caccia in tutto il paese a eccezione, però, che per i ricchi
cacciatori di trofei. Continua a giustificare la persecuzione di questo popolo
unico nel nome della «conservazione», ma allo stesso tempo permette
l’estrazione di diamanti e il fracking (modalità di estrazione di
idrocarburi dalle rocce, ndr) nella riserva, creata nel 1961 come «santuario»
proprio per permettere ai Boscimani di mantenere il loro stile di vita. Non
avendo alcuna possibilità di procurarsi cibo nella terra ancestrale, molti sono
costretti a vivere nei campi di «reinsendiamento» governativi, da loro definiti
come «luoghi di morte».

Una situazione inaccettabile e paradossale
se si pensa che, per stessa ammissione dei funzionari governativi, i Boscimani
non cacciano con armi, e non esistono prove che il loro modo di cacciare non
sia sostenibile. Anzi, come la maggior parte dei popoli indigeni del mondo, i
Boscimani sono più motivati di chiunque altro a proteggere l’ambiente che
abitano da tempo immemorabile.

E devono farlo: per vivere e
prosperare dipendono da esso.

 

Dove
sta la biodiversità

Se l’80% della biodiversità
terreste si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande
maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terra indigena, non è
un caso. Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che
abitano e amano, i popoli tribali hanno contribuito direttamente all’altissima diversità
di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni. Ma i popoli indigeni
sono anche i migliori custodi del mondo naturale. In Amazzonia, per esempio,
studi scientifici dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto
dell’Amazzonia brasiliana, costituiscono una barriera estremamente efficace
alla deforestazione e agli incendi. Le immagini satellitari sono
impressionanti: in molti casi la deforestazione si ferma esattamente là dove
iniziano le aree indigene. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia
boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie,
e in Guatemala (venti volte minore). I popoli indigeni conoscono la loro terra
intimamente.

«Non stiamo rispolverando il mito
del buon selvaggio. Non stiamo dicendo che i popoli indigeni siano tutti
eccellenti custodi delle loro terre – puntualizza Stephen Corry, direttore
generale di Survival -. Quello che sosteniamo, dopo un’attenta valutazione
delle prove, è che in generale loro sappiano conservare i loro ambienti meglio
di quanto abbiamo mai fatto noi». È un dato di fatto. Nel corso di generazioni
hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna
autoctone, nonché delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i
più efficienti ed efficaci manager delle loro terre. Questa tesi è sostenuta
oggi anche da alcune organizzazioni responsabili dello sfratto dei popoli
indigeni. La Banca Mondiale è stata una delle istituzioni più distruttive degli
ultimi decenni, eppure uno dei suoi studi dimostra che nei luoghi in cui vivono
i popoli indigeni, la deforestazione è minore. Il Wwf afferma che l’80% delle «ecoregioni»
più ricche del pianeta sono la casa dei popoli indigeni e che questo «testimonia
l’efficacia dei sistemi di gestione delle risorse adottati dagli indigeni».

È dunque tempo di mettere fine alle
gravi violazioni dei diritti umani compiute nel nome dell’ambiente, e fare in
modo che i diritti dei popoli indigeni, incluso quello di consultazione, siano
pienamente rispettati così come sancito anche dall’Onu e da molti codici di
condotta adottati, in linea teorica, dalle stesse associazioni
conservazioniste, ma spesso del tutto ignorati o raggirati nella pratica. Se si
vuole realmente proteggere l’ambiente, si devono esplorare soluzioni innovative
fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo quello alla
proprietà collettiva della terra e quello a proteggere e alimentare le terre
natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione
delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti e
aiutati a confermarsi come i migliori guardiani delle loro terre e, di
conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo. •


 

 

4. La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

«Stiamo lavorando per
voi»

Itaipu è la seconda centrale idroelettrica al mondo. Belo
Monte sarà la terza. Il Brasile (come altri paesi) vuole sfruttare le risorse
idriche dell’Amazzonia per produrre energia. Il futuro della produzione
dell’energia dai fiumi non risiede però nei grandi progetti, ma in impianti di
piccole dimensioni, meno dannosi dal punto di vista umano e ambientale.

Manaus. «Nella regione della centrale di Belo Monte abbiamo
già investito 2 miliardi (di reais, circa 570 milioni di euro, ndr) in progetti
socioambientali». Alcuni numeri: «90% di riduzione dei casi di malaria nella
regione del Xingu, 205 milioni investiti nelle comunità indigene, 26 mila
ettari di area di preservazione o recupero ambientale, 27 punti di salute, 3
ospedali, 458 milioni investiti in strutture fognarie, 95 milioni in azioni per
rafforzare la sicurezza nella regione del Xingu». E ancora: «Andremo a generare
energia pulita e rinnovabile con rispetto dell’ambiente e delle persone. Belo
Monte è un esempio di sviluppo sostenibile per il mondo». Essere d’accordo con
queste affermazioni risulta impossibile, ma sono alcuni stralci di una pagina
pubblicitaria inserita in una rivista brasiliana e firmata da Norte Energia, il
consorzio di imprese pubbliche e private che sta costruendo una centrale
destinata a diventare la terza al mondo, dopo quella cinese delle Tre gole e
quella brasiliana di Itaipu.

La centrale di Itaipu, situata sul fiume Paraná, al confine
tra Paraguay e Brasile, è in funzione dal 1984. Sul proprio sito, l’impresa si
vanta di essere la più grande produttrice di energia pulita e rinnovabile del
pianeta.

Al Forum di Manaus incontriamo Jair Kotz, responsabile della
gestione ambientale di Itaipu e gerente esecutivo del programma Cultivando Agua
Boa.

Ci racconti in due
parole le dimensioni di Itaipu.

«Itaipu genera il 20 per cento della energia consumata dal
Brasile e il 95 per cento di quella consumata in Paraguay. Fino al 2013 era il
più grande produttore di energia elettrica del mondo».

Perché un’impresa
idroelettrica come la vostra ha deciso di presenziare a un evento come il Forum
sulla biodiversità?

«Siamo qui perché dal 2003 stiamo portando avanti un
progetto di sviluppo territoriale sostenibile che ha l’acqua come elemento
centrale. Il progetto include 65 azioni su tutto il territorio e coinvolge
tutta la gente che su quel territorio vive. Esso tocca ogni tipo di aspetto:
economico, sociale, culturale, ambientale e ovviamente quello della
biodiversità».

In Brasile, ovunque
ci siano progetti di centrali idroelettriche, ci sono proteste, in particolare
da parte dei popoli indigeni.

«Secondo una nostra inchiesta dell’anno scorso, il 95% delle
persone del territorio in cui operiamo considera Itaipu essenziale per lo
sviluppo della regione. Si tratta della prova che un’impresa può e deve essere
strategica per il luogo dove va ad operare. Può e deve portare benefici per le
persone che vi abitano, siano esse brasiliane, giapponesi, italiane o indigene.
Noi lo abbiamo fatto attraverso Cultivando Agua Boa».

Produzione e ambiente
possono coesistere?

«Noi pensiamo che sia possibile conciliare la produzione di
energia con le esigenze di preservazione ambientale. Una volta si riteneva che
l’ambiente fosse un nemico dello sviluppo. Oggi la visione è cambiata:
l’ambiente è essenziale per la sostenibilità di oggi e di domani».

Perché prevale sempre
e comunque lo stesso modello di sviluppo?

«Noi abbiamo invitato a parlare personaggi come Leonardo
Boff (teologo ed ecologista, ndr).
Per noi discutere il modello è fondamentale. Lo dimostra il fatto che abbiamo
introdotto nel dibattito temi quali il cambio climatico e la “felicità intea
lorda”».

Se i progetti socioambientali attuati nell’ambito del
programma Cultivando Agua Boa sembrano interessanti (non abbiamo però avuto
modo di verificarli sul campo), non possiamo dimenticare alcuni fatti storici.

Per esempio che, per costruire Itaipu, furono sacrificate le
cascate di Guaira, considerate le maggiori del mondo per portata d’acqua, e
obbligate al trasferimento decine di comunità guarani, mai indennizzate.
D’altra parte, oggigiorno anche la comunità scientifica internazionale è concorde
nell’affermare che il futuro per l’energia idroelettrica risiede in impianti di
piccole dimensioni. Troppe infatti sono le conseguenze negative prodotte dalle
grandi dighe sulle persone e sull’ambiente. Forse il governo di Brasilia
dovrebbe capire che è giunto il tempo di tornare al dialogo, mettendo da parte
prepotenza e arroganza.

Paolo Moiola


 

22 maggio: «Giornata
mondiale della biodiversità»

5. Lince pardina chiama
tonno rosso

Mai come oggi la diversità biologica del pianeta è stata in
pericolo. La globalizzazione mercantilista ha aumentato a dismisura i fattori
di pressione. Gli stessi che minacciano la diversità culturale. In un caso e
nell’altro, si dimentica che la diversità è ricchezza.

Pare che della lince pardina rimangano circa 150 esemplari,
della foca monaca 350-450 (Commissione europea, Natura 2000), dei gorilla di
montagna 880 (Wwf, Living Planet). Per salvare queste specie animali una
persona comune può al massimo aderire a qualche campagna internazionale. In
generale, se si ha a cuore la biodiversità, esistono però anche ambiti d’azione
più diretti. Il tonno rosso, pescato anche nel mar Adriatico, è un pesce in
pericolo d’estinzione. Non richiederlo nei ristoranti di sushi che lo offrono
(soltanto i più esclusivi, considerato il costo del piatto) è un gesto di
protesta piccolo ma significativo. Stessi problemi vigono per le piante. In
Europa si sta assistendo alla progressiva riduzione della diversità vegetale.

Questi sono soltanto alcuni esempi di biodiversità in
pericolo. Per rendersi conto dell’entità del problema è sufficiente visitare il
sito dell’«Unione internazionale per la conservazione della natura»
(www.iucn.org). L’organizzazione pubblica regolarmente una «lista rossa» delle
specie minacciate, divisa in 9 categorie a seconda della portata del rischio
d’estinzione.

Una definizione e
qualche numero

Una prima definizione di biodiversità viene dall’etimologia
del termine: biodiversità è «diversità della vita». Secondo l’articolo 2 della
«Convenzione sulla diversità biologica», firmata (da quasi tutti i paesi) a Rio
de Janeiro nel 1992, la biodiversità include gli organismi viventi di ogni
origine (animali, piante, microrganismi, geni in essi contenuti), ma anche le
differenze tra individui della medesima specie e tra gli ecosistemi. Gli
scienziati hanno fino a oggi catalogato circa 1.900.000 specie viventi diverse.
Si ritiene però che il loro numero effettivo sia molto superiore: ci sono stime
che indicano in 100 milioni gli organismi viventi.

La biodiversità consente la vita umana. Da essa dipendono
infatti il cibo, l’energia, i medicinali, le materie prime: tutto ciò che ci
permette di vivere. Eppure il tasso d’estinzione delle specie è in continuo
aumento. Detta in altri termini, oggi la biodiversità si riduce a un ritmo ben
più elevato del normale tasso d’estinzione.

 

I fattori di
distruzione

Esistono diversi fattori che determinano – da soli o più
spesso in combinazione – la perdita di biodiversità. I ricercatori del Living
Planet Index hanno individuato 7 minacce principali: il degrado e la perdita
degli habitat, lo sfruttamento attraverso caccia e pesca indiscriminate, il
cambiamento climatico, l’introduzione e la diffusione di specie aliene,
l’inquinamento, le malattie.

L’esempio più eclatante di degrado o perdita di habitat
riguarda le foreste tropicali, localizzate soprattutto in Indonesia, Congo e
Amazzonia (Brasile, in primis). La
distruzione di queste foreste per fare posto a monocolture (soprattutto di
soia), per prelevare legname o minerali, per allevare bestiame o per costruire
dighe, produce enormi perdite di biodiversità di cui queste aree sono molto
ricche. «Il danno non si limita alla sola perdita di biodiversità. A?causa
della distruzione delle foreste si liberano in atmosfera enormi quantità di
gas-serra, responsabili del riscaldamento globale» (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

Altro fattore di distruzione è l’introduzione di specie
aliene (alloctone), che entrano in competizione con quelle autoctone e che
possono diffondere patologie sconosciute. È importante ad esempio ricordare che
le foreste native (con i loro serbatorni di biodiversità) non potranno mai essere
recuperate con piantagioni di Eucalyptus grandis o di Acacia mangium: «green
deserts», le chiama Rainforest News, l’organizzazione internazionale di
salvaguardia delle foreste.

Negli ultimi anni hanno assunto sempre più importanza i
cambiamenti climatici in tutte le loro manifestazioni: aumento delle
temperature medie, alterazione del regime delle piogge, innalzamento del
livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai, maggiore frequenza di eventi
estremi (alluvioni, siccità, cicloni, ecc.). Le mutate condizioni climatiche
stanno producendo importanti effetti su animali, vegetali ed ecosistemi. «La
rondine anticipa la data media di arrivo alle nostre latitudini», ma
soprattutto in Europa, negli ultimi 10 anni, è diminuita del 40% (Lipu-BirdLife).
Quanto alle piante: «Alcune specie di salice presenti sulle Alpi stanno
conquistando fasce altitudinali mai colonizzate in precedenza» (Lipu,
Cambiamenti climatici e biodiversità).

L’altra diversità

«La diversità culturale è, per il genere umano, necessaria
quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita». Così afferma l’articolo 1
della «Dichiarazione universale sulla diversità culturale», adottata
dall’Unesco nel 2001. E seguita, nel 2005, dalla «Convenzione per la protezione
e la promozione delle espressioni culturali» che tra l’altro riconosce
«l’importanza del sapere tradizionale, in particolare per quanto riguarda i
sistemi di conoscenze dei popoli indigeni».

La relazione tra diversità biologica e diversità culturale è
analizzata da Vandana Shiva. «La diversità biologica  – scrive la nota scienziata indiana (spesso
oggetto di attacchi a causa della sua battaglia contro gli Ogm) – ha plasmato
le diverse culture del mondo. L’erosione della diversità biologica e l’erosione
della diversità culturale costituiscono le due facce di un unico problema.
Entrambe sono minacciate dalla globalizzazione di una cultura industriale
basata su conoscenze riduzionistiche, su tecnologie meccanicistiche e sulla
mercificazione delle risorse».

Paolo Moiola
 

Tags: biodiversità, popoli indigeni, ambiente, Amazzonia, foreste, parchi, conservazione

Paolo Moiola e Francesca Casella




Terra viva di pescatori e migranti (1)

Reportage dalla Sicilia sull’«emergenza sbarchi»

Sicilia, tappa di un’umanità in fuga


Dove gli eroi non sono dèi

 

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo. Ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri, così come i confini tra i
gesti degli dei dell’antichità classica e quelli dell’umanità ferita che oggi
nell’isola di Verga vive e resiste. In quel mare nostrum si mescolano i destini
dei pescatori siciliani con quelli dei migranti. Lì si consuma quel fenomeno
strutturale, inarrestabile e prevedibile che impropriamente politici e media
chiamano «emergenza sbarchi».

Ad
Aci Trezza, in provincia di Catania, tutti conoscono «Grillo» il pescatore. «Da
giovane mi chiamavano Fellini», dice accennando un sorriso sotto la barba
bianca. Quando lo vediamo uscire dall’acqua con la sua preda, a noi ricorda
piuttosto Tritone, il figlio del dio del mare, per metà uomo e per metà pesce.

Carlo Levi, durante uno dei suoi viaggi nella Sicilia
del secondo dopoguerra, esperienza da cui nacque il libro Le parole sono
pietre
(1955), ebbe modo di visitare il borgo marinaro immortalato da Verga
ne I malavoglia e da Visconti ne La terra trema, e raccolse le
impressioni di una signora straniera che, come lui, viaggiava alla scoperta
dell’isola: «Camminando per le vie di Aci Trezza, le era parso “di passare in
mezzo a un popolo di dèi tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi
gesti, le sue vicende, il suo destino, erano fissati ed eterni, non seguendo
una storia individuale ma uno stile o un costume a tutti comune ed immutabile.
Non mi sembrano uomini, donne, bambini di oggi, ma alberi di una foresta, o
esseri antichi, come gli dèi. Mi pare che qui tutto debba essere sempre stato
così e che sarà sempre così”».

Grillo-Fellini ha catturato da poco una murena: «Nel
mese di maggio – spiega ai turisti che si accalcano curiosi attorno a lui – le
vipere in calore si spingono sugli scogli e si accoppiano con certe specie di
pesci e così nascono le murene».

Nella cultura popolare gli eroi non sono dèi, ma piccoli
uomini, persone comuni le cui gesta però, nel momento in cui essi superano il
confine dei mondi, assumono contorni mitici. Mito e fiaba, infatti, raccontano,
in modo più o meno diretto, soprattutto viaggi di scoperta, in cui la
conoscenza di sé e la generosa apertura verso l’Altro a volte costa il
sacrificio dei loro protagonisti. Così, se nella mitologia greca Tritone può
trascinare fino al Mediterraneo la nave Argo arenata nel deserto della Libia
grazie ai suoi poteri soprannaturali, nella leggenda sicula, Colapesce, un
pescatore di Messina1 trasformato in una creatura anfibia da una maledizione,
può salvare la Sicilia decidendo di rimanere per sempre in fondo al mare per
sostituirsi a una delle colonne che sorreggono l’isola, quella consumata dal
fuoco dell’Etna2, e per essere d’aiuto ai marinai.

Per la gente di Sicilia «Colapisci» non è morto, e un
giorno toerà sulla terra: quando nessun uomo soffrirà più per dolore o per
castighi, per quell’atavica condizione d’ingiustizia che Levi trovò radicata nella terra siciliana, «antica, composita,
enormemente stratificata che forze etee, oscure e prepotenti tengono da
sempre in soggezione». Lo scrittore riteneva di poter comprendere quella terra «solo
indugiando su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, di violento
investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di mitico-storico-poetico torna
alla memoria».

Tappa di un’umanità
in fuga

Tappa di passaggio per naviganti della mitologia antica,
l’isola è oggi sulle rotte di un’umanità in fuga «che si imbarca, senza
geografia, da qualunque spiaggia, verso qualunque approdo»3,
estremo baluardo, suo malgrado, di quella «fortezza Europa»4
che proprio nel mito classico va a cercare i nomi per le sue operazioni di
controllo delle frontiere, forse nell’intento di dare un’aura eroica alle
imprese poco gloriose del presente: Hermes, Aeneas, Poseidon, fino all’ultima
Triton, che però, per l’appunto, della divinità benevola, capace di calmare le
acque e d’indicare la rotta agli Argonauti, non ha nulla.

Con questa stessa retorica classicheggiante era cominciata
anche Mare Nostrum, la missione militare e umanitaria tutta italiana di «sorveglianza
e soccorso in mare», inaugurata pochi giorni dopo il naufragio in cui morirono
annegate, a largo di Lampedusa, più di 360 persone, e chiusa il primo novembre
scorso, sostituita dalla più modesta missione europea Triton.

È il 3 ottobre 2014, primo anniversario della tragedia:
la commemorazione ufficiale si svolge sull’isola con la passerella delle
autorità e le contestazioni delle associazioni locali (Askavusa, «a piedi
scalzi» in dialetto lampedusano, in primis), mentre i parenti delle vittime e i
superstiti5 sono ricevuti dal Papa. In piazza dell’Esquilino, a
Roma, si tiene una sommessa cerimonia interreligiosa: un imam legge un passo
del Corano, un prete ivoriano intona l’Ave Maria e un esponente delle «religioni
tradizionali» suona una specie di olifante come a evocare gli spiriti dei
morti. Si leggono le testimonianze dei sopravvissuti e poesie di scrittori
africani: «Per ognuno di noi c’è una stella nel cielo, ogni persona che muore è
una stella che non sopravvive». Le donne eritree, avvolte in un leggero panno
bianco, con cui nascondono il viso dai fotografi, hanno in mano una candela
accesa. La sera c’è l’anteprima del film documentario Io sto con la sposa,
dove il senso dell’incredibile viaggio di un gruppo di profughi palestinesi e
siriani attraverso le frontiere europee è espresso nei versi di un poeta
tunisino: «Se devi vivere, vivi libero. Se devi morire, muori come un albero,
immobile».

E mentre ancora si commemorano le vittime di Lampedusa,
alle operazioni di controllo e soccorso in mare si affiancano quelle di
monitoraggio delle frontiere «estee», aeree, marittime e terrestri: Mos
Maiorum6 (letteralmente «costume degli antenati», locuzione che
nell’antica Roma indicava i valori cui conformarsi per essere parte della
civiltà romana, ndr) è lo slogan della maxi retata lanciata tra il 13 e
il 26 ottobre 2014 dal ministero dell’Inteo italiano, in collaborazione con
l’Agenzia europea Frontex, per schedare gli immigrati irregolari presenti sul
nostro territorio europeo. Il richiamo al «costume dei padri», quasi a indicare
una presunta – ma fittizia – identità culturale comune a tutti i paesi membri
dell’Ue, assume inquietanti connotazioni xenofobe.

Fenomeno strutturale,
non emergenza

Al mercato del pesce di Aci Trezza il signor Liberato prepara le reti per l’indomani. Gli diciamo che siamo in Sicilia per
seguire l’«emergenza sbarchi». «Ma è vero – ci chiede – che Mare Nostrum costa
all’Italia 9 milioni di Euro al mese?».

«Tempo fa», racconta Liberato, «trovai una barca in
avaria con dei clandestini a bordo vicino a Cassibile. Chiamai la polizia marittima di Siracusa. Mi risposero: “Siamo in zona!”. Ma arrivarono quattro ore dopo e
trovarono solo il capitano. I clandestini erano già stati caricati su una barca
più piccola e portati fino alla costa. Mi chiamarono addirittura dal tribunale
per farmi l’interrogatorio: “Quanti erano?”. Ma io ci dissi: “Mentre li
salvavo, non li contavo mica”. Lo sa che c’è, signora? La prossima volta mi
faccio i fatti miei. La giornata di lavoro persa non me la paga nessuno». (Cfr.
Box pagina 35
)

La risposta alla domanda sul costo di Mare Nostrum del
signor Liberato si trova scritta a chiare lettere sul sito della Camera dei
deputati7, nel quale si legge che l’operazione è stata finanziata
per un terzo «dalle entrate dell’Inps derivanti dagli oneri di regolarizzazione
degli immigrati» dell’ultima sanatoria8, nonché da «corrispondente
riduzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di
tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura», la quale ha comportato
un taglio senza precedenti proprio nella Regione chiave di Cosa Nostra.

Spenti i riflettori sull’operazione Mare Nostrum,
sostituita da Triton, si è interrotta anche la «cronaca degli sbarchi» che
riportava, come un bollettino di guerra, il numero dei dispersi e dei salvati.
(Cfr. Box in questa pagina)

L’uso improprio del termine «sbarco» da parte dei media
e della politica, automaticamente collegato nell’immaginario collettivo
all’immigrazione irregolare, ha alimentato la retorica del «flusso
straordinario e fuori controllo», e quindi dell’«invasione», legittimando la
dichiarazione di «stato d’emergenza» che dal 2002 viene prorogato di anno in
anno da tutti i governi che si sono susseguiti9.
Quello degli «sbarchi», come il flusso migratorio in generale, è invece un
fenomeno strutturale, fortemente esposto alle variazioni del contesto
geopolitico, il cui andamento somiglia a un fiume carsico, con stagioni di
particolare dinamismo e improvvisa accelerazione, come quella attuale, seguite
da fasi di quiete.

Morire lontano dai
sassi che ti conoscono

Nel suo viaggio nel paese dei Malavoglia, Levi
era rimasto colpito dall’atteggiamento dei pescatori di fronte alla vita e alla
morte, dalla loro tenace accettazione di un destino stretto tra mare e vulcano.
«Un mondo pieno di luce, calmo e chiuso in gesti armoniosi», come quelli dei
marinai che riparano le reti o di quel vecchio che col pennello rinfresca la
vernice della sua barca dipinta:

«Eravamo scesi intanto tra le barche, tirate in secco
sulla spiaggia tra le grandi pietre violette e levigate, l’una vicina
all’altra, sì da rendere difficile il passaggio: erano come fiori colorati,
come carri siciliani senza ruote». Sulla prua, al posto dei Paladini di Francia
raffigurati sulle miriadi di carretti che Levi vedeva passare per le strade «come
una continua emigrazione di un popolo che non può star fermo», c’era San
Francesco da Paola, protettore dei pescatori, e l’immancabile occhio «scaccia
guai», che, oltre alla funzione apotropaica (di allontanare le influenze
maligne), aveva quella di elevare la barca a rango di persona umana.

Allo scalo di Aci Trezza, di quelle imbarcazioni
variopinte del tempo che fu, quando la pesca era abbondante e il mare faceva
ancora paura – e quindi il pescatore, per ingraziarselo, dava il meglio di sé
oando la propria barca come una «zita» («promessa sposa», in dialetto
siciliano) -, ce ne sono rimaste solo due: Venere e, naturalmente, Provvidenza,
che però stanno lì solo per bellezza, decorate da qualche amatore nostalgico.

Al porticciolo turistico oggi c’è movimento: vicino alla
banchina si scorge la sagoma sinistra di un peschereccio quasi completamente
sott’acqua con la scritta, ancora leggibile a poppa, «Water World»: il destino
nel nome. «Era tutto di legno, di legno buono. Forse era libico», commentano i
pescatori dilettanti che la sera si ritrovano sul molo, come Maurizio, il quale
di giorno fa l’operatore ecologico a San Berillo, nel centro di Catania. «C’è
crisi. Almeno per cena mi faccio una bella zuppa cu sauru».

Quando è stato ritrovato in mare aperto, all’interno del
peschereccio c’erano ancora abiti, pacchetti di sigarette. Ora una scarpa
spaiata galleggia sullo scafo. E un giornale locale titola: «È affondato il
barcone dei clandestini»10.

Ad Aci Trezza non si costruiscono più pescherecci, anzi
una ventina di essi sono stati «rottamati» per ottemperare a una normativa Ue.
Lo storico cantiere dei Rodolico, famiglia di maestri d’ascia che fece della
marineria trezzota una delle più importanti della Sicilia e di tutto il
Mediterraneo, somiglia a un museo privato di tradizioni marinare, che al
tramonto diventa il ritrovo degli anziani del paese. Loro sono sempre lì: in
silenzio, l’uno accanto all’altro, a fissare l’orizzonte. Sono quelli che non
se ne sono mai andati, ligi al monito di verghiana memoria: «Per me io voglio
morire dove sono nato. Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e
guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono».

Il continente
liquido: confine di mescolamento tra Nord e Sud

Fino a tempi recenti, erano pochi i pescatori che
sapessero nuotare, come i migranti che oggi affrontano il mare senza averlo mai
visto, immaginandolo come il Niger, il Gambia, o come il fiume del loro
villaggio.

«Contadini del mare» vennero definiti i pescatori da De
Seta in un documentario del 1955. Le loro sortite infatti non erano che un
intervallo o un secondo lavoro rispetto a quello del contadino. «Perché il mare
è amaro e incute timore, il mare è fatica e insicurezza, il mare è guerra».

Come «la guerra del pesce»11
che i pescatori siciliani combattono da quarant’anni nel canale di Sicilia, in
cui, per una tragica ironia della sorte, i loro destini s’incrociano con quelli
dei migranti, e che dal 2011, anno dell’«emergenza Nord Africa», si è
aggravata: a sequestrare le unità da pesca italiane in acque inteazionali ora
sono anche le motovedette foite tempo fa a Gheddafi dal governo italiano per
contrastare l’immigrazione clandestina. Il maggiore ambito di azione nelle
acque inteazionali riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ha dato il
colpo di grazia a un settore come quello ittico già messo in ginocchio dalla
concorrenza spietata di paesi poco regolamentati (come il Giappone) e dalle
stringenti regole provenienti da Bruxelles, nonché all’intera marineria
siciliana, sui cui pescherecci sono imbarcati, da ormai quasi mezzo secolo,
anche numerosi lavoratori tunisini.

L’immigrazione tunisina in Sicilia però ha poco a che
vedere con il complessivo fenomeno della globalizzazione e va inquadrata
piuttosto nel contesto di una lunga storia tutta mediterranea. Bisogna
ricordare infatti che in passato i siciliani avevano formato una consistente
comunità nello stato maghrebino, prima e anche dopo che diventasse protettorato
francese nel 1881.

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo; ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri. Il mare non conosce
discontinuità né cesure e quel breve tratto di poche miglia è sempre stato
parte capitale del «continente liquido» descritto da Ferdinand Braudel, spazio
di comunicazione e di scambio, terra di mezzo12.
«Il mare – scrive Verga – non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo
stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole».

Uno su dieci si perde
sul fondo

Non assomigliano di certo alle «zite» le «carrette del
mare», rese «umane» solo dalle pene degli uomini che vi hanno viaggiato. Vita e
morte si stringono dentro questi scafi. Il costo di un viaggio in coperta, «al
sicuro», può costare fino a cinquemila dollari; «solo» duecento per i bambini.
Molto minore il prezzo della stiva, il luogo più pericoloso, riservato
solitamente ai subsahariani, dove in caso di incidente nessuno sopravvive.

«Di questi viaggi, uno su dieci si perde sul fondo»13.
Come quello dei genitori di A., profughi siriani rifugiati in Sudan, dove il
nonno paterno fa il manager per una importante compagnia aerea araba, ai quali
non bastava appartenere a una famiglia benestante ed essere scampati alla
guerra per sentirsi liberi. Il sogno di ottenere la cittadinanza europea, una
qualsiasi, aveva spinto la coppia – con un bambino non ancora adolescente e A.,
che aveva meno di due anni – a recarsi in Libia, e lì a salire su una barca
diretta in Italia.

C’erano anche loro tra le vittime del naufragio del 24
agosto 2014, costato la vita a 24 persone. Del suo nucleo familiare, A. è
l’unica sopravvissuta: ritrovata miracolosamente aggrappata a una tavola e
tratta in salvo da un connazionale. Affidata per quattro mesi alle cure di una
coppia di Augusta, è stata rintracciata dal nonno, anche grazie all’intervento
di Save the Children, e riportata in Sudan.

Anche Sarjo è scampato a un naufragio.
«Che si fa in quelle circostanze?», gli chiediamo.

«Preghiamo! In barca, in mare aperto, si prega cinque
volte al giorno».

Era partito nell’agosto 2013 dal Gambia; aveva percorso
a piedi il Senegal, il Mali, prima di entrare a Sebha, in Libia, e di lì
arrivare a Tripoli. Un libico ha pagato il prezzo della traversata come
compenso per il lavoro che aveva fatto per lui. Adesso, dopo più di un anno dal
suo arrivo a Catania, Sarjo ha in tasca un permesso di soggiorno per motivi
umanitari. Alla commissione che ha esaminato la sua richiesta, ha raccontato
una storia fantasiosa: «“Sono rimasto orfano e nella famiglia adottiva c’erano
due fratelli che mi picchiavano – ha mostrato una ferita sulla tibia dovuta a
una caduta nell’infanzia – e allora sono scappato”. Ho dovuto raccontare questa
storia perché un giorno voglio tornare in Gambia»14.
«Dove pensi di andare adesso?», gli chiediamo.

Svezia, Germania, Svizzera, sono le destinazioni più
ambite dai migranti per le migliori condizioni di welfare offerte da quei
paesi.

«Anywhere, but not in Italy», dovunque, ma non in
Italia, ci risponde lui.

 

Note alle pagine
34-41:

1  Si
tratta di uno dei racconti popolari più noti e antichi della Sicilia
(risalirebbe al XII sec.) giunto a noi in tante versioni differenti: secondo
quella ripresa da Italo Calvino in Fiabe italiane, Colapesce è nato a
Messina. In altre versioni è originario di Napoli, Catania, Bari, Genova, ma lo
ritroviamo anche in Francia, Spagna, Grecia e addirittura sull’altra sponda del
Mediterraneo.

2  È
Colapesce, costretto dalla fatica a cambiare la mano di sostegno, a provocare
di tanto in tanto le scosse telluriche.

Cfr.
Erri De Luca, In mezzo a questo mare nostro, in «Ventiquattro»,
21/03/2007.

4
Definizione elaborata da Saskia Sassen in Migranti, coloni,
rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa
, Feltrinelli,
Milano 1999. Secondo Asher Colombo (cfr. Fuori controllo? Miti e realtà
dell’immigrazione in Italia
, Il Mulino, Bologna 2012) la «fortezza Europa» è
un’immagine più che altro suggestiva, che sopravvaluta il grado di
impenetrabilità e chiusura del continente.

I
superstiti, quasi tutti eritrei, furono iscritti nel registro degli indagati e
accusati di reato di clandestinità. Nessuna inchiesta o indagine è stata aperta
invece in merito a eventuali errori o ritardi nei soccorsi.

6  «In
linea con analoghe attività pianificate a livello comunitario […], la
Presidenza italiana del Gruppo Frontiere/Comitato Misto ha programmato, dal 13
al 26 ottobre 2014, l’operazione “Mos Maiorum” […]. Scopo principale
dell’operazione sarà quello di raccogliere informazioni sui flussi migratori
nei paesi dell’Ue, con particolare riguardo alla pressione nei singoli stati
membri, alle principali rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani, le
principali mete di questi ultimi, i paesi di origine e transito, i luoghi di
rintraccio e i mezzi di trasporto utilizzati». Dal sito web della presidenza
italiana del consiglio dell’Unione europea,
http://italia2014.eu/it/news/post/ottobre/mos-maiorum/

7  Cfr.
www.camera.it/leg17/465?tema=immigrazione_clandestina.

8  Nel
2012, con il nome di «ravvedimento oneroso», si è dato avvio a un nuovo
provvedimento di emersione dei lavoratori non comunitari irregolarmente attivi
sul nostro territorio. Il dossier Unar 2013 sottolinea come lo stato italiano
abbia fatto ricorso ordinario a uno strumento «straordinario» per definizione.
La sanatoria prevedeva il versamento di 1.000 Euro più le somme dovute a titolo
retributivo, contributivo e fiscale, per un periodo non inferiore a 6 mesi.
Conseguenze: traffico di falsa documentazione e consolidamento della prassi per
la quale sono i migranti stessi a pagare gli oneri della regolarizzazione, e
non i datori di lavoro.

Nei
primi mesi del 2011, in piena «emergenza Nord Africa», per l’arrivo di 15.000
profughi soprattutto a seguito della rivoluzione dei gelsomini e dell’inizio
della guerra civile in Libia, esponenti del governo allora in carica parlarono
di «catastrofe», «tsunami umano», «esodo biblico».

10  Nel
2008, l’Ordine dei giornalisti, condividendo le preoccupazioni dell’Alto
Commissariato per i Rifugiati, ha firmato un Protocollo d’intesa denominato «Carta
di Roma», cioè un codice deontologico che obbliga a usare in modo opportuno i
termini «rifugiato», «richiedente asilo», «migrante forzato», «migrante» tout
court (chi lascia il proprio paese per ragioni economiche), «immigrato
irregolare». Nel linguaggio giornalistico dei paesi del Maghreb i migranti
illegali sono definiti harraga, letteralmente «quelli che bruciano» (le
frontiere, oppure i documenti per evitare il rimpatrio).

11  Una
guerra costata diversi morti tra i pescatori siciliani, feriti, 130 pescherecci
sequestrati dai militari dei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, 150
marittimi detenuti, anche a lungo, nelle carceri tunisine, libiche, egiziane e
algerine.

12  Cfr.
www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-e-dinamiche-linguistiche-una-ricerca-a-mazara-del-vallo.

13  Erri
de Luca, In mezzo a questo mare nostro.

14  Il
Gambia, nazione di poco più di un milione di abitanti, che gli opuscoli
turistici britannici descrivono come «The smiling coast of Africa», la costa
ridente dell’Africa, si rivela a sorpresa uno dei principali paesi di
provenienza dei minori non accompagnati: il 29% degli 11.000 segnalati in
Italia nel 2014.

Silvia Zaccaria




Terra viva di pescatori e migranti (2)

Storie di «ordinaria»
migrazione

Libertà a caro prezzo
Nei centri di prima
accoglienza le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata in mesi di
attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. Mustaqim dal
Bangladesh, Sheriff dal Gambia raccontano un pezzo delle loro storie. Bakari è
«rinchiuso» nel centro di accoglienza di Mineo da più di un anno. Mammut vi è
stato trasferito da appena due mesi, dalla tendopoli di Messina, e già pensa
alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro attende da più di tre anni una risposta
sul proprio destino. Rifugiati, perseguitati, migranti in cerca di una vita
migliore, sopravvissuti all’indicibile, sono condannati a una vita sospesa.

Dopo
lo sbarco, i minori stranieri sono condotti nei centri di prima accoglienza: a
Pozzallo, in un palazzetto dello sport messo a disposizione per la stagione
estiva da un privato, dove una trentina di ragazzi egiziani dormono su
materassi di gommapiuma e il loro unico svago è ballare al ritmo della musica
rap araba trasmessa da due grandi amplificatori, e ad Augusta, in una scuola in
disuso. Per le centinaia di ragazzi che arrivano nel porto della città a bordo
delle navi della Marina militare, nel cortile della «Scuola Verde» sono state
predisposte brandine di fortuna, mentre al piano superiore le aule sono state
adibite a camerate, ciascuna occupata da otto ragazzi, divisi per nazionalità.

Nella stanza dei bengalesi, considerata la più pulita e
ordinata, ci riceve Mustaqim il «retto». Indossa una maglietta con la scritta
United Colours of Benetton; non sa nulla del crollo del Rana Plaza, la fabbrica
tessile alla periferia di Dacca che nell’aprile del 2013 era costato la vita a
più di 1.000 suoi connazionali. Doveva essere già in viaggio. È pettinato come
uno studente di un college inglese, forse per apparire più giovane. In effetti
aspetta un permesso per minore età. Mostra la foto dei genitori: la mamma,
avvolta in un sari viola, sembra piuttosto anziana. Comunque Mustaqim è il
maggiore di nove fratelli e spetta a lui il compito di mantenerli. Dice che la
sua famiglia ha chiesto un prestito in banca per pagare il costo del viaggio.
Ma è più probabile che dietro ci sia una catena transnazionale di «imprenditori»
del traffico di persone che chiede ai migranti e alle loro famiglie interessi
esosi.

È un universo «invisibile» quello dei migranti dal
Bangladesh, da cui si registrano i primi arrivi in Italia già nel 1982. Non
possono chiedere lo status di rifugiato politico – ciò creerebbe all’Italia
tensioni con un governo democraticamente eletto – né di profugo ambientale –
categoria che non gode ancora di un riconoscimento giuridico -, definizione che
calzerebbe perfettamente su coloro che fuggono dal paese asiatico, il cui
territorio, notoriamente, è flagellato da pesanti inondazioni e ora sempre più
soggetto a periodi di siccità.

Le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata
in mesi di attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. La «Scuola
Verde» non è certamente il luogo più adatto a ospitare dei minori: era già
stata dichiarata non agibile, e i ragazzi sono lasciati soli nelle ore
nottue. Molti di loro però hanno costruito relazioni positive con il
territorio: operatori, volontari, tutori che li hanno avuti in consegna per
mesi.

Il mattino del 21 ottobre arriva il trasferimento
a sorpresa: saranno portati tutti in una nuova struttura, un altro centro di
prima accoglienza a Melilli, nella frazione Città Giardino.

Proprio come Kunta
Kinte

Sheriff arriva dal Gambia, dal villaggio di Badibù, lo
stesso di Sarjo, ma lui è partito prima.

Appartiene al gruppo etnico Mandinka, proprio come Kunta
Kinte, il protagonista di Radici, fortunato film per la televisione
tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore afroamericano Alex Haley. Erano gli
anni ’70 e un’intera generazione di ragazzi italiani fece il tifo per quel nero
forte e coraggioso che lottava per i suoi diritti. Per Sheriff, Kunta Kinte è
esistito davvero: «È il nostro eroe nazionale», dice. Lui ha seguito il destino
del suo illustre antenato imbarcandosi su una modea nave negriera, verso un
luogo in cui la libertà si conquista ancora a caro prezzo.

Anche il suo è stato un viaggio lungo e difficile.
Sheriff mostra un tesserino da giornalista e racconta che, grazie a una borsa
di studio, aveva iniziato uno stage presso la radio privata «Kids with talents»
(Kwt 107.6 fm) che si occupava di sport e giovani di talento. Sheriff aveva
visitato alcune comunità rurali per raccogliere le opinioni degli abitanti
sulla decisione del presidente Jammeh Yahya1 di vietare il gioco del calcio
durante la stagione delle piogge – giugno-ottobre – per indurre i giovani a
lavorare nei campi di arachidi, principale prodotto di esportazione. Un
intervistato aveva espresso delle critiche, e Sheriff poco tempo dopo aveva
ricevuto una telefonata: la cosa era arrivata alle orecchie di Yahya, che non
aveva gradito il contenuto dell’intervista. Avrebbe potuto mandare i suoi jungullers
(una specie di milizia privata al soldo del dittatore) a ucciderlo. Sheriff
allora non ha perso tempo ed è fuggito. Ha percorso 200 km a piedi per entrare
in Senegal, di lì in Mauritania, e poi in Marocco da dove ha tentato più volte
di raggiungere l’Europa. Per pagare il resto del viaggio, ha lavorato per un
periodo come muratore a Tangeri, dove viveva in edifici abbandonati alla
periferia della città. Ma una notte è stato costretto a scappare per una retata
della polizia. Raggiunta Tetouàn, si è nascosto nella foresta di Cassiago, dove
erano accampate centinaia di «fratelli» di altri paesi del West Africa.
Per entrare a Ceuta, l’enclave spagnola, ci sono due modi: attraversare a nuoto
quel lembo di mare che la separa dal Marocco, oppure scavalcare il muro fatto
di recinzioni alte sei metri e sormontato da reticolati di filo spinato2.
Sheriff era su quel muro quando è stato catturato. In prigione, i poliziotti
marocchini gli gridavano sporco negro e lo hanno lasciato senza mangiare per
due giorni. Al secondo tentativo è stato deportato alla frontiera con
l’Algeria. Superato il confine, è stato nuovamente arrestato a Maghnia, dove è
stato costretto a passare la notte dentro a una buca. Fuggito di là, ha capito
che la sua ultima speranza era la Libia.

Ora vive con Sekou «il Saggio», che ha incontrato a
Tripoli ed era con lui sulla barca che lo ha portato in Sicilia, in un
appartamento dello Sprar (il Sistema di Protezione per Migranti e Richiedenti
Asilo) ad Aci Sant’Antonio, proprio sotto al Vulcano. «La notte sembra che la
casa si muova e abbiamo paura».

Sekou, che ha una brutta ferita sul viso ed è orfano di
entrambi i genitori, parla bene italiano, ma fa finta di non capire. Dice di
essere in contatto diretto con Ousainou Darboe, un avvocato per i diritti
umani, leader del principale partito dell’opposizione in Gambia. Sekou e
Sheriff sarebbero potuti rientrare nel loro paese prima del previsto se il
colpo di stato, tentato nella notte tra il 29 e il 30 dicembre scorso, non
fosse fallito.

C’è ancora qualcuno
che nasce o muore nel centro di Mineo

Sheriff e Sekou sanno di essere stati comunque più
fortunati di tanti loro compagni di viaggio. Bakari è «rinchiuso» nel centro di
accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara)3
di Mineo da più di un anno. Mammut vi è stato trasferito da appena due mesi,
dalla tendopoli di Messina, e già pensa alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro
attende da più di tre anni una risposta sul proprio destino. Malgrado il
recente scandalo denominato dalla stampa «Mafia capitale» che ha riguardato
l’intero «sistema italiano dell’accoglienza» e, in particolare, proprio la
gestione del centro nato nel 2011 sull’onda dell’ennesima emergenza, c’è ancora
qualcuno che a Mineo nasce o muore.

Pochi chilometri separano il centro dalla base
aeronavale Usa di Sigonella. Percorriamo la statale che da Catania porta a
Caltagirone, e di lì a Gela. Alla nostra destra c’è la distesa di filo spinato
che protegge la base, interrotta solo da qualche cespuglio dove si nascondono
le prostitute, tutte ragazze africane ospiti del Cara. Più avanti, sulla
sinistra, vediamo sbucare all’improvviso un gruppo di villette tutte uguali,
color pastello e, poco oltre, un agrumeto. Ha il nome bucolico di Residence
degli aranci, ma per entrare ci vuole «un’autorizzazione speciale», dicono i
funzionari all’ingresso. Anche per uscire, gli ospiti devono passare il badge e
sono obbligati a rientrare entro 48 ore.

Il primo centro abitato sulla strada, Mineo appunto, è
arroccato sulla collina ed è difficilmente raggiungibile a piedi. Sulla
striscia d’asfalto che separa il centro dai campi lasciati incolti, un pastore
pascola le pecore, sorvegliate da un cane che zoppica. Mentre la foto,
pubblicata sul web, che mostra i migranti appesi al «muro» di Ceuta e gli
spagnoli, dall’altra parte, che giocano a golf, fa il giro del mondo, sulla
strada del ritorno, anche noi abbiamo un flash: dietro la recinzione che cinge
il perimetro di Sigonella, un militare in maniche corte passeggia con la figlia
– i capelli biondi e lo stesso diafano pallore – su un prato all’inglese
perfettamente curato e di un verde talmente intenso da sembrare finto.

Ci giriamo un’ultima volta verso il «villaggio della
solidarietà» (il Cara di Mineo è stato chiamato anche così) dove centinaia di
uomini e donne nel fiore dell’età, dopo essere sopravvissuti all’indicibile,
sono condannati a una vita sospesa, che ha più il sapore di una morte lenta che
di una seconda nascita a un’esistenza nuova, dall’altro lato di questo mare nostro.

Note alle pagine
44-47:

1
Jammeh Yahya era balzato agli onori della cronaca nel 2013 per aver
definito, nel corso di un’assemblea generale dell’Onu, i propri concittadini
omossessuali una «sciagura», e l’omosessualità la «maggiore minaccia per l’esistenza
umana». Per rimanere su questo tema, già nel 2008 aveva ammonito gay e lesbiche
a lasciare il paese, se non volevano vedere le loro teste tagliate. Nel
febbraio 2014, parlando alla televisione di stato dichiarava: «Combatteremo
questi animali infestanti chiamati omosessuali nello stesso modo in cui stiamo
combattendo le zanzare portatrici di malaria». Lo scorso agosto l’assemblea
nazionale del Gambia ha approvato un disegno di legge che prevede l’ergastolo
per il reato di «omosessualità aggravata», ovvero per coloro che ripetono il
presunto crimine in forma recidiva, e per le persone che hanno contratto l’Hiv.


Ceuta e Melilla, enclave spagnole in territorio marocchino, hanno
rappresentato per tutti gli anni Novanta due porte d’ingresso per l’Unione
europea. Per questo sono state separate dal Marocco da una doppia rete
metallica alta inizialmente tre metri, e poi raddoppiata a sei. Nell’estate e
autunno del 2005 le due enclave sono state oggetto di veri e propri assalti di
migranti che tentavano, in alcuni casi riuscendoci, di scavalcare il muro.
All’inizio del 2014, l’uso di proiettili di gomma e il lancio di lacrimogeni da
parte della Guardia Civil spagnola avrebbero causato la morte di 15 migranti.
Il nuovo giro di vite spagnolo ha fatto storcere il naso all’Unione europea,
che pure aveva finanziato, con 20 milioni di Euro, la recinzione.


Riprendendo alcune intuizioni di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben,
alcuni studiosi di scienze sociali hanno mostrato come ci sia una continuità di
logica tra i campi di concentramento e i vari centri di identificazione,
detenzione e accoglienza, in quanto spazi in cui viene normalizzata una
condizione di eccezione al diritto, essendovi reclusi soggetti che non hanno
commesso alcun reato.

Decisamente rilevante,
a questo riguardo, è la difficoltà, anche per parlamentari, giornalisti e
avvocati, di essere ammessi in queste strutture.

Silvia Zaccaria




Vangelo ed Educazione,Sviluppo e pace

Rumuruti: Missione di Frontiera

Un dossier narrativo in collaborazione tra la rivista The Seed di Nairobi e MC



Indice:

1. Terra di frontiera
2. La parrocchia Familia Takatifu
3. Un universo multietnico
4. Nomadismo e lavoro minorile
5. Curare fli infermi
6. Un uomo, una missione

 

 


1.

Terra di frontiera, terra di nessuno, terra di tutti
Rumuruti: una cosmopoli «remota»

di Henry Onyango e Gigi Anataloni

Rumuruti si trova pochi decimi di grado sopra l’equatore nel cuore del Laikipia Plateau, distretto di Laikipia Ovest, sulla strada che porta da Nyahururu a Maralal, al termine dei 40 km asfaltati che la separano da Nyahururu, sosta quasi obbligatoria prima di affrontare l’incognita degli altri 120 km di sterrato che portano a Maralal su una strada impegnativa durante il periodo secco e impossibile nella stagione delle piogge.

Il Liakipia Plateu è una immensa area di savana ricchissima di animali: mandrie enormi di zebre, branchi di elefanti che migrano stagionalmente seguendo le piogge, gazzelle e antilopi di ogni tipo, scimmie, serpenti, coccodrilli, leoni e leopardi, e chi più ne ha più ne metta. L’Ewaso Narok è il fiume principale della regione. Nasce dalle falde del Monte Kenya, crea una magnifica cascata, Thomson’s Fall, si disperde nelle zone paludose dette Ewaso Swamp poco più a Nord della cittadina di Rumuruti. Girando lentamente verso Est si unisce alle acque limacciose del fiume Ewaso Nyiro che attraversa il Samburu Park e, passato il ponte di Archer’s Post, continua ancora in una vastissima zona semiarida alimentando le Lorian Swamps. Infine, in Somalia si unisce al Jubba River.

I fiumi e la vicinanza del Monte Kenya, ricco di acque, hanno creato un ambiente ricchissimo di ogni tipo di fauna. Fino alla fine dell’Ottocento gli animali ne erano i padroni assoluti, disturbati di tanto in tanto soltanto dai Maasai o dai Samburu con le loro mandrie, mentre i Kikuyu e i Meru erano arroccati sulle fertili falde del Monte Kenya e dell’Aberdare.

Dal colonialismo all’indipendenza

L’arrivo degli inglesi, all’inizio del secolo scorso, alterò gli equilibri. Cacciati i Maasai, costretti a vivere nel Sud del Kenya, e spinti i Samburu sulle loro aride montagne più a Nord, i coloni bianchi, si stabilirono (settle in inglese, da cui il nome settlers per indicare i coloni) nella zona in maniera esclusiva. Divisa la terra in enormi proprietà di migliaia di ettari, la fecero lavorare da contadini e pastori provenienti da ogni parte del Kenya. Questi lavoratori non erano liberi nei loro movimenti, ma avevano un passaporto speciale da presentare a ogni controllo della polizia. Nessun altro africano, se non i lavoratori, poteva vivere là.

Dopo l’indipendenza, nel 1963, i terreni dei coloni furono riscattati dal governo inglese e ceduti al governo del Kenya. Mentre nelle zone più fertili della Nyandarua County, divisi in piccoli appezzamenti, furono venduti a prezzi simbolici ai contadini kikuyu, nella più arida e disabitata Laikipia County furono accaparrati da grandi latifondisti sia keniani che stranieri.

Si stima che il Laikipia Plateau sia di 10.000 chilometri quadrati, circa 2 milioni e mezzo di acri secondo le misurazioni locali. È l’area con il maggior concentramento di proprietari non africani, soprattutto della nuova «aristocrazia» inglese e americana. Con loro ci sono alcuni baroni locali, politicamente molto influenti. Venti proprietari possiedono il 74% di tutta la terra disponibile. Ci sono circa 36 grandi e piccole proprietà che vanno dai piccoli ranch o fattorie da 5.000 acri (20 km2), a enormi estensioni dagli orizzonti infiniti di oltre 100.000 acri (400 km2). Molte di queste proprietà sono oggi trasformate in santuari per gli animali e meta di turismo. Una delle proprietà più grosse, il Laikipia Ranch, di 100 mila acri (oltre 400 km2, 40.000 ettari, chiamato anche Ol Ari Nyiro Ranch, fattoria delle acque nere), appartiene alla «baronessa» Kuki Gallman, una scrittrice italiana naturalizzata in Kenya, che comperò l’area nel 1974 trasformandola poi in un santuario per gli animali selvatici, con esemplari del raro rinoceronte bianco e della bellissima zebra grevy dalle strisce sottili, che sono a rischio di estinzione. La proprietà confina con la missione di Rumuruti.

Finito il colonialismo, i Maasai e Samburu cominciarono a ritornare con le loro mandrie in quelle terre che loro considerano ancestrali, tollerati dai ricchi latifondisti che chiusero gli occhi al sorgere di piccoli insediamenti ai margini delle loro proprietà, nelle ampie aree riservate alle strade (da costruire), anche per rispondere ai bisogni dei loro lavoratori. Presto tornarono anche altri pastori nomadi, come i Borana e i Somali da Est, i Kalenjin e i Pokot da Ovest, i Turkana e gli Ndorobo (cacciatori e raccoglitori nelle grandi foreste) da Nord, attirati dai grandi pascoli offerti dal plateau. Sorsero qua e là dei piccoli agglomerati di povere costruzioni in legno in stile Far West: qualche bottega in cui si trovava di tutto, gl’immancabili bar, una scuoletta-asilo – che all’occasione diventava anche cappella – costruita dai missionari.

Poi negli anni Ottanta si cominciarono a vendere alcune delle grandi proprietà. Suddivise in centinaia di piccoli appezzamenti per rendee il costo accessibile, furono vendute a società cornoperative di contadini senza terra di ogni provenienza, privilegiando a volte questo o quel gruppo etnico. L’area divenne anche zona di rifugio per tanti altri cacciati dalle proprie regioni a causa dei conflitti etnici che di tanto in tanto ancora oggi infiammano il Kenya. Tra questi, le famiglie di rifugiati provenienti dalla Rift Valley per cui la Conferenza episcopale del Kenya ha acquistato i terreni nel 2008.

 

La «strada remota»

Il tranquillo villaggio di Rumuruti, così racconta la storia, fu scelto dal governo coloniale inglese come stazione amministrativa e sede di una grande prigione per la sua posizione a un importante incrocio di strade. Ma da dove viene questo nome? Si racconta che i coloni bianchi, i quali regolarmente facevano la strada da Nyahururu a Maralal, chiamassero remote route (strada remota) la pista che univa i due centri. I locali trasformarono l’espressione inglese facendola diventare Rumuruti.

Importante un tempo solo come centro per le fattorie dei settlers e punto di entrata controllato al territorio dei Samburu, oggi Rumuruti è la sede amministrativa del distretto. Cresciuto da villaggio a cittadina per l’aumento della popolazione e il nuovo status, non ha però le infrastrutture necessarie, come banche, alberghi, servizi sociali o altre comodità. È certamente in crescita, pur essendo in un ambiente geograficamente difficile e segnato da grandi problemi di convivenza e distribuzione della ricchezza. La posizione geografica ne fa un centro commerciale importante, con un ricco mercato del bestiame che ogni giovedì, in due località della periferia, richiama gente di tutte le tribù.

La popolazione di Laikipia West sembra povera, ma al mercato il denaro che cambia di mano è tanto. La gente arriva un po’ da ogni parte con mezzi di fortuna o mezzi pubblici per vendere e per comperare. Il giovedì Rumuruti prende vita. Anche i pastori che vanno nelle zone più lontane in cerca di pascolo per le loro greggi vi tornano per il giorno di mercato a vendere qualche animale o a comperare tutto quanto è necessario alla loro famiglia.

Il mercato del bestiame (capre, pecore e mucche) apre presto e chiude presto, e nel pomeriggio l’area è deserta. I mercanti contano i loro soldi, e i pastori, anche se stanchi, si mettono sulla via del ritorno per stare con le loro mandrie. Ma dove depositano i nomadi il loro denaro? C’è una sola banca nel paese, e loro non ci mettono mai piede.

Realtà plurietnica

Rumuruti è una realtà plurietnica con due componenti principali: i gruppi etnici dei pastori, attirati dai grandi pascoli offerti da Laikipia Ovest, e i gruppi degli agricoltori che nella vendita dei ranches hanno visto la possibilità di acquistare terre nuove specialmente per le giovani famiglie, ormai impossibilitate a vivere nei sovraffollati campetti dei loro padri nelle regioni di origine.

Mentre i contadini sono più aperti alla novità e al progresso, le comunità di pastori hanno preservato le loro tradizioni secondo le quali è vitale avere grandi mandrie. Questo fa sì che una famiglia di pastori che acquista un campo, non si accontenti mai di avere un numero di capi proporzionato alla proprietà, ma cerchi di moltiplicarlo sentendosi in diritto di invadere i terreni confinanti quando il proprio è esaurito. Creando così infinite ragioni di conflitto. In più, secondo la tradizione, i morans (i giovani guerrieri) una volta potevano far razzie per accumulare la ricchezza personale necessaria per sposarsi. Quelli che tornavano a casa a mani vuote erano considerati buoni a nulla. Così almeno stavano le cose tra i Samburu, Turkana e Pokot (i gruppi etnici più numerosi). Al giorno d’oggi ci sono ancora residui di questa cultura, i cui effetti si vedono nelle razzie locali, come spiega il presidente del Consiglio parrocchiale di Rumuruti, Emmanuel Achila. I conflitti, però, nascono anche per l’accesso alle scarse risorse naturali quali i pascoli e i pozzi. A questo bisogna aggiungere anche il problema dei confini.

 

Mancanza di istruzione

Secondo padre Nicholas Makau, viceparroco di Rumuruti e incaricato dell’ufficio di Giustizia e Pace dei missionari della Consolata, molta violenza giovanile va attribuita anche alla mancanza di istruzione e di lavoro.

Nonostante che le scuole locali siano tra le migliori, il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso perché molti ragazzi di età scolare sono obbligati dalla famiglia a occuparsi del bestiame. Per troppi genitori la ricchezza materiale è più importante dell’istruzione. Altri lamentano che gli studi creano dei giovani ribelli alle tradizioni e mettono idee strane nella testa delle ragazze, in più studiano senza scopo, perché poi non trovano lavoro.

Ignoranza e mancanza di lavoro certamente alimentano le tensioni tribali. Le tribù in cui l’istruzione è ben avviata godono di maggior prestigio. È un fatto, quando si cerca impiego, soprattutto negli enti governativi, chi è andato a scuola è avvantaggiato sugli altri. È facile, allora, vedere che le comunità i cui figli studiano fanno la parte del leone sul mercato del lavoro.

Ma la mentalità degli anziani vuole che le opportunità di impiego siano distribuite proporzionalmente secondo l’appartenenza etnica e non secondo il merito. E qui sta il nocciolo di tanti altri problemi. David Koskey, un membro del «Comitato per la Pace» della missione, ne fa notare l’incongruenza: «La polizia sta per reclutare nuove leve. Secondo gli anziani deve essere arruolato un numero uguale di giovani da ogni tribù per mantenere l’equilibrio». Il rischio è di avere poi dei poliziotti completamente analfabeti e impreparati al loro servizio. Ma una distribuzione di impiego etnicamente non equilibrata genera una disuguaglianza politica, in cui i gruppi più forti tentano di limitare lo sviluppo degli altri.

 
Sedentarizzare

La Chiesa cattolica di Rumuruti incoraggia da sempre i nomadi a diventare sedentari, prendersi un pezzo di terra e imparare l’agricoltura così da ridurre la loro dipendenza dal bestiame. Un certo numero di nomadi ha già cominciato a fare così, per quanto strana sembri la cosa. La Chiesa è intervenuta ad aiutare le vittime della violenza esplosa nel post-elezioni a risistemarsi, altre famiglie hanno acquistato terra diventando azionisti di società create apposta per aquistare i latifondi messi in vendita. Tante vittime della violenza che fece seguito alle elezioni del 2007 trovarono rifugio temporaneo nel recinto della parrocchia, ma dopo l’acquisto di cento acri di terreno la missione poté rilocarne 1.500 di cui la maggioranza ora si dedica all’agricoltura. Padre Makau ci dice che rimane ancora il problema di molti acquirenti che non riescono a prendere pieno possesso delle fattorie, per il fatto che i loro padroni legali non sono presenti e non si sa dove trovarli, per cui la transi-zione di proprietà non può essere completata.

Altri conflitti sorgono quando gli animali dei nomadi invadono i campi dei coltivatori distruggendone il raccolto. Oltre all’invasione accidentale di animali domestici ci sono anche le visite di animali selvatici. Non pochi agricoltori hanno il loro terreno vicino al corridoio di migrazione degli elefanti che quando passano mangiano tutti i raccolti, golosissimi come sono di granoturco.

A Rumuruti i matrimoni tra membri di tribù diverse stanno aumentando e favoriscono la coesione pacifica contribuendo a modificare la mentalità ancestrale che male accettava queste unioni, soprattutto nei tempi di tensione fra le varie tribù. Elizabeth Lomeno, mezza Samburu e Turkana, è ora sposata a un Luya. È già nonna e assicura che le cose sono ora cambiate e che la gente non teme più di sposarsi fuori della propria tribù. «Personalmente, auguro che le mie figlie e nipoti siano sempre libere di sposarsi con chi vogliono», dice Elizabeth.

 


2.

La Parrocchia della santa famiglia Uscire verso i poveri,
Costruire la pace

di Stephen Mukongi

Da cappella sperduta nella savana a fiorente missione e polo di pace e riconciliazione: l’impresa dei missionari della Consolata di trasformare una regione di grandi contrasti e divisioni in una comunità sul modello della Santa Famiglia (Familia Takatifu), cui la missione è dedicata.

L’ombra degli alberi della parrocchia di Rumuruti offre un sospirato sollievo dalla calura insopportabile del plateau a cavallo dell’equatore. Gli alberi piantati da padre Antonio Bianchi (classe 1922) negli anni Novanta, hanno profondamente cambiato l’ecologia del luogo la cui vegetazione, all’arrivo dei missionari della Consolata nel 1991, consisteva sì e no di una mezza dozzina di alberi del pepe (schinus molle) attorno alla casetta di legno in cui abitavano.

Rumuruti è oggigiorno una parrocchia enorme, con un territorio che da Sud-Ovest a Nord-Est misura oltre cento chilometri, e con ben 27 cappelle sparse nella grande piana semiarida che fa da ponte tra gli altipiani della sviluppata e ricca zona agricola centrale attorno al Monte Kenya e l’arido Nord abitato prevalentemente da pastori nomadi e seminomadi.

Nata come cappella di Nyahururu (una missione fondata nel lontano 1954 dai missionari della Consolata, passata poi ai sacerdoti fidei donum della diocesi di Padova e diventata diocesi nel 2002), quando divenne parrocchia nel 1991 aveva già una bella chiesa in muratura dedicata alla Santa Famiglia (Familia Takatifu) e la casetta dei missionari. Da allora la missione ha conosciuto un continuo sviluppo per rispondere alle necessità del luogo. Al presente è una piccola cittadella che comprende un centro pastorale per gli incontri di formazione dei catechisti e dei vari operatori pastorali e leader comunitari, un asilo, una modea scuola con elementari e medie, la scuola secondaria femminile, il dispensario, il convento delle suore Dimesse (fondate a Vicenza nel 1579 dal venerabile Antonio Pagani), la falegnameria, un’officina, un grande orto, diversi campi da gioco, un salone polivalente, più l’indispensabile pozzo per dare acqua potabile a tutto il complesso.

 

Sviluppo umano integrale

Il territorio in cui opera la missione è caratterizzato da tutte le speranze che la frontiera ispira ma anche da tutti i drammi e le conflittualità che una società in continuo cambiamento si porta dietro, accentuate da una natura apparentemente suggestiva ma in realtà segnata dai capricci del tempo, per cui improvvise o prolungate siccità possono distruggere i raccolti o alterare gli equilibri tra pastori e agricoltori. La regione è costantemente provata da tanti mali: razzie di animali, diffusione di armi leggere, povertà endemica, pratiche tradizionali come la mutilazione genitale (che non giunge agli estremi dell’infibulazione) delle donne e i matrimoni precoci, mancanza di abitazioni adeguate, insufficienza di servizi sociali educativi e sanitari, corruzione, stato precario delle strade e insicurezza.

Questo spinge la Chiesa a darsi come compito prioritario la formazione umana e lo sviluppo sociale, come dice padre Mino Vaccari, parroco dal lontano 1994, quando padre Luigi Brambilla, primo missionario della Consolata a Rumuruti, fu trasferito a Nairobi. Suo aiutante attuale è il keniano padre Nicholas Makau, succeduto ai padri Antonio Bianchi, grande pollice verde, Domenico Galbusera (classe 1930) e Juan Puentes (colombiano del 1946, deceduto prematuramente nel 2010).

 
La scuola

Nel programma di sviluppo primeggia l’educazione con la costruzione di scuole, allo scopo di aiutare la popolazione a diventare attiva nella lotta alla povertà. Si comincia con l’asilo perché, se si prendono i bambini fin da piccoli, si mettono delle basi serie per la loro crescita. Poi con la scuola ci deve essere il collegio perché molti ragazzi arrivano da zone molto distanti oppure sono figli di nomadi che si spostano di continuo. Il collegio riesce anche a garantire quell’alimentazione adeguata che troppe famiglie molto povere o impoverite non riescono a provvedere.

L’asilo Familia Takatifu, accanto alla chiesa, è stato una delle prime opere costruite per preparare i piccoli alla scuola primaria. Oggi tutte le 27 cappelle hanno il loro asilo che di domenica serve anche come cappella.

Costruire le scuole è stato relativamente «facile», tenendo conto dell’ampia rete di amici e benefattori che si è creata attorno alla missione. Non così facile è invece far sì che i bambini frequentino regolarmente la scuola. Moltissimi genitori non capiscono ancora i benefici dell’istruzione e ignorano la legge del paese che prevede la scuola obbligatoria per tutti. Presi dai problemi di sopravvivenza, se mandano i figli a scuola, si aspettano che lo stato o la Chiesa li mantengano e li educhino gratuitamente.

Anne Munyi, la segretaria della parrocchia, conferma che oggi la missione aiuta circa mille studenti indigenti, di cui venti sono all’università, una quarantina frequentano varie scuole superiori, una quindicina le scuole tecniche, mentre la maggior parte sono ancora nella scuola primaria o matea. Anne spiega che il programma di aiuto scolastico si occupa delle necessità primarie dei ragazzi, ma quando ci sono situazioni disperate si occupa anche delle loro famiglie.

 

Un modello da imitare

La scuola elementare Familia Takatifu, iniziata con la prima classe nel 1997 come evoluzione necessaria dal primo asilo parrocchiale, è il fiore all’occhiello della missione ed è diventata modello da imitare per tutte le altre scuole dell’area. Quando nel 2005 partecipò per la prima volta agli esami nazionali dell’ottava classe (equivalente alla nostra terza media, ndr), si qualificò terza tra le altre duecento primarie di tutto il distretto, come attesta Peter Mbugua, preside della scuola. Nel 2013 ha migliorato ancora salendo al secondo posto.

Il professor Mbugua attribuisce il successo all’impegno del corpo docente e alla buona disciplina degli scolari. Fa notare quanto la Chiesa abbia contribuito al miglioramento di Rumuruti e riconosce a padre Vaccari il merito di aver voluto la struttura per l’istruzione dei figli della gente locale. «Come questa, anche le altre scuole sostenute dalla parrocchia, hanno validamente contribuito ad affrontare i tanti problemi che ancora sfidano la comunità, come la povertà endemica, l’analfabetismo, e l’ignoranza».

La parrocchia sostiene anche alcune scuole statali. Esempi di questo sono il convitto femminile Maria Consolata presso la scuola di Sosian e il collegio misto di Matigari, pensato appositamente per i figli dei nomadi, per cui la missione ha acquistato il terreno.

Le suore Dimesse dirigono la scuola superiore femminile St. Anthony Pagani che sta davanti alla chiesa parrocchiale. Queste suore, presenti da anni a Nyahururu servivano Rumuruti con una clinica mobile già quando era ancora una semplice cappella. Avendo poi stabilito una sede fissa poco dopo l’arrivo dei missionari della Consolata, ora, oltre alla scuola, dirigono il dispensario della missione e provvedono tanti servizi preziosi per la salute della comunità e nella rete di piccoli dispensari che si vanno creando per rispondere alle esigenze di una popolazione in continua crescita (vedi box).

 
Acqua

La mancanza di acqua potabile è un’altra piaga della regione. La parrocchia ha già provveduto sette pozzi di acqua purificata che garantisce acqua potabile per tutto l’anno. Il primo pozzo fu quello scavato nella missione stessa, profondo oltre cento metri. A esso è collegato un sofisticato sistema di potabilizzazione, perché gran parte delle acque sotterranee di queste aree, che hanno un suolo di origine vulcanica – il grande vulcano spento che è il monte Kenya domina sempre l’orizzonte -, sono molto ricche di fluoro e questo causa gravi problemi ai denti e alla struttura ossea delle persone (osternofluorosi), soprattutto dei bambini.

La parrocchia costituisce anche un punto di riferimento super partes e sicuro, e come tale è diventata il centro di tante attività sociali. L’ampio salone si presta a molteplici attività: campo da gioco per energici toei di pallavolo, teatro per spettacoli scolastici, auditorium per competizioni di cori, sala gioco per bambini, luogo di incontro per riunioni sociali della popolazione locale, dormitorio per i rifugiati, deposito per cibo in periodi di fame e anche magazzino per i fertilizzanti che il governo provvede di tanto in tanto ai contadini del posto.

 

Pace e riconciliazione

La pace e la riconciliazione sono una delle preoccupazioni principali. È prioritario fare di tutto per creare più armonia tra i membri delle varie tribù che vivono in Rumuruti. Ancora di recente (2014) si sono verificati nella zona degli scontri tribali apparentemente pilotati da figure politiche. La tensione è continua e cresce soprattutto in concomitanza di elezioni politiche locali o nazionali.

Durante la quaresima del 2008, oltre 4.000 persone si rifugiarono per mesi nei cortili della missione e nelle aule scolastiche, a causa di scontri e razzie che causarono morti e distruzioni.

Per questo la parrocchia, insieme ad altri gruppi, è seriamente impegnata in attività che promuovano la soluzione dei conflitti e costruiscano una pace duratura sia a Rumuruti che nelle altre zone a rischio. Proprio nel territorio della missione la Conferenza episcopale del Kenya aveva allora acquistato una delle grandi fattorie per sistemarvi più di trecento famiglie che erano state sloggiate a forza dalla loro terra nella Rift Valley durante gli scontri che hanno sconvolto la nazione dopo le elezioni di fine 2007. E la missione, di suo, ha sistemato altre 1.500 persone.

Malgrado i cristiani contribuiscano ai progetti di sviluppo e alle attività ordinarie, la parrocchia è ancora lontana dall’autosufficienza. Senza l’aiuto di una vasta rete di benefattori, l’incredibile sviluppo di Rumuruti non sarebbe stato possibile. E neppure sarebbe possibile quella vasta rete di progetti educativi e sanitari di cui tutti, indistintamente traggono beneficio. «Noi guardiamo ai bisogni della gente, e non alla loro religione», dice con forza padre Mino. «La nostra parrocchia è tutta per i poveri, proprio come vuole papa Francesco».

 


3.

Un universo multietnico Convivere in pace o perire

di Henry Onyango

Una terra contesa da uomini e animali, agricoltori e pastori, latifondisti e senza terra. Ci sono spazi immensi e molte opportunità, angoli di paradiso e distese brulle, ma l’acqua è scarsa e molto dipende dai capricci del tempo. La grande piana che gravita attorno a Rumuruti è una terra di contrasti e tensioni, che hanno già causato morte e distruzioni. L’impegno per la pace e la riconciliazione è essenziale per il suo futuro.

«Ongea lugha ya taifa», parla la lingua della nazione, fu l’invito che padre Mino Vaccari si sentì rivolgere quando, arrivando per la prima volta a Rumuruti, salutò i cristiani in kikuyu, come era abituato a fare a Tetu, vicino a Nyeri, dove era stato parroco per tanti anni. Avrebbe imparato ben presto che la sua nuova parrocchia era abitata da molte comunità provenienti da una ventina di etnie diverse, tutte molto suscettibili a ogni discriminazione tribale.

Rumuruti si trova al centro di un’area abitata da pastori e agricoltori, rinchiusi in piccoli spazi accanto ai grandi latifondi. Nel distretto prevalgono gli agricoltori che occupano altre aree periferiche più fertili, ma nel territorio della missione vivono soprattutto i pastori. Tra questi ultimi ci sono quelli che si sentono i padroni (la «nostra» terra ancestrale, dicono) e trattano tutti gli altri come degli immigrati abusivi. Le razzie di bestiame sono così un metodo convincente per intimidire le comunità arrivate per ultime.

La violenza a volte è tale da tenere in scacco anche la polizia locale. Padre Nicholas Makau pensa che all’origine di questi conflitti si trovino anche pratiche culturali retrograde, mancanza d’istruzione e isolamento. Il padre commenta: «Ci sono giovani che hanno fatto anche l’università, o che sono impiegati governativi, ma quando tornano qui non fanno nulla per aiutare le loro comunità di origine a capire che devono sostenere la pace… ci sono i Turkana che vogliono tagliare tutti gli alberi per produrre carbonella e poi, quando tutto diventa secco, andarsene in altri posti. I Samburu si assicurano i punti di abbeveraggio per i loro animali occupandoli, mentre i Kikuyu e Kalenjin fanno loro guerra per poter usare la stessa acqua per  l’irrigazione dei loro campi. Rifiuto del dialogo e tribalismo intollerante hanno causato morte e distruzione».

 

I Wazee wa Amani

Questa violenza dura da decenni e solo ora alcuni cominciano a capire che non ci sarà modo di sopravvivere se non si accetta di coesistere. Le comunità assistite dalla Chiesa, con l’aiuto di Ong, sono impegnate a lavorare per una pace duratura accettando di controllarsi reciprocamente tramite un comitato locale di anziani col compito di presentare le proprie necessità a un «senato» chiamato Wazee wa Amani, Anziani per la Pace.

David Koskey, uno di essi, conferma che il senato ha già contribuito molto a mettere in moto il processo di pace. «Mentre cinque anni fa membri di tribù diverse si odiavano, oggi le cose sono cambiate per il meglio».

I Wazee wa Amani hanno il compito di prevenire, controllare e risolvere i conflitti facendo dialogare le parti interessate, e monitorando e valutando la situazione. Sono circa settanta anziani, uomini e donne, provenienti da tutto il distretto che si avvalgono di una rete permanente di altri anziani sparsi nei vari villaggi i quali possono facilmente rintracciare il bestiame rubato e provvedere alla restituzione prevenendo in questo modo le possibili vendette.

Lo mzee Koskey dice che collaborano «strettamente anche con gli organi governativi come il Comitato distrettuale per la sicurezza, la polizia locale e il servizio segreto. Ci siamo guadagnati la loro fiducia e così confidiamo che la nostra gente goda sicurezza».

Stando alle parole dell’anziano, l’iniziativa dei Wazee wa Amani ha ridotto in modo significativo le razzie nella regione e assicurato che le varie comunità si proteggano a vicenda. Rimangono ancora piccole trasgressioni, ma senza questa iniziativa le razzie e i conflitti tra i vari gruppi di pastori, e tra questi e i piccoli contadini, avrebbero affondato Laikipia Ovest in un bagno di sangue.

Un cammino lungo

Padre Makau, nel suo realismo, ammette che malgrado gli sforzi fatti resta ancora una mancanza di fondo: non c’è fiducia fra le diverse etnie.

Secondo un ufficiale di polizia le vere razzie che avevano infestato la regione per decenni, ora non ci sono più. Al momento ciò che ancora persiste sono furti di bestiame perpetrati da pochi individui che attaccano qualche casa, soprattutto le più isolate. Dietro queste attività criminali ci sono persone senza scrupoli che pagano della gente locale per rubare il bestiame che poi è venduto a Nairobi o in altre città del Kenya. Il poliziotto, però, riconosce che grazie a una crescente cooperazione delle comunità, attraverso il comitato degli anziani, la polizia può agire con più efficacia nel prevenire i furti e nell’arrestare i colpevoli. Purtroppo non tutti, ancora, cornoperano con le forze dell’ordine rendendo con la loro omertà più arduo il lavoro per garantire sicurezza e pace.

La missione, sostenuta dalla diocesi e dall’istituto della Consolata, è attivamente presente nelle zone dove la violenza è più acuta e dove le forze dell’ordine non osano entrare. Attraverso la Commissione di Giustizia e Pace parrocchiale ha formato i Miviringo ya Mazungumzo ya Amani, cioè i «Circoli di formazione alla pace», e stabilito posti per la discussione pubblica, dove dieci membri di ogni tribù discutono i loro problemi e propongono delle soluzioni.

Padre Nicholas assicura che questi incontri hanno aiutato molto a promuovere la riconciliazione e a superare non poche difficoltà a livello personale e comunitario. Il missionario crede che alla fine, però, saranno i matrimoni misti tra le varie tribù a sanare la situazione. Infatti i matrimoni misti sono in aumento. A Rumuruti risiedono Borana maritati a Kikuyu, Somali sposati con Meru e Pokot con Samburu. Padre Makau conclude: «Alcuni di questi matrimoni misti mi hanno molto sorpreso, perché hanno messo insieme persone di tribù che prima si odiavano profondamente».


4.

Nomadismo e Lavoro Minorile
Una Silenziosa Minaccia

di Lourine Oluoch

Per uno che viaggiasse nelle vaste pianure del Laikipia, non sarebbe difficile incontrare qualche ragazzino o ragazzina sui nove, dieci anni, che, invece di essere a scuola, sta pascolando centinaia di pecore e capre. Non sempre il bestiame è di proprietà della famiglia, spesso il ragazzo è alle dipendenze di qualcuno per questo lavoro.

Le comunità dei pastori nomadi in Kenya hanno tradizioni, come il far sposare ragazze ancora minorenni, la mutilazione genitale e le razzie di bestiame, che fanno a pugni con lo stile di vita di una società multietnica, scolarizzata e sedentarizzata. Ma oggi c’è un altro male silenzioso che sta emergendo, proprio come conseguenza dell’incontro-scontro tra due modi di vita contrastanti, quello tradizionale e quello moderno: il lavoro minorile.

Ogni anno all’apertura della scuola, a gennaio, ci sono presidi che non sono mai sicuri se tutti i loro allievi ritorneranno sui banchi di scuola. Lo stesso accade all’inizio di ogni trimestre a maggio e settembre. La scuola di Matigari, diretta dal professor Hosea Ole Naimado (un maasai), è una primaria mista del tutto speciale nel distretto di Laikipia West. È stata pensata per aiutare i figli dei nomadi dando loro vitto e alloggio mentre le loro famiglie si spostano seguendo le mandrie. Per il preside questa incertezza è causa di grave preoccupazione per il corpo insegnante. Ragazzi e ragazze molto intelligenti, che sono stati nella scuola per un intero trimestre, al successivo non si ripresentano. Potrebbero essere andati in Samburu, a Baragoi o Isiolo (località a oltre 100 km di distanza) seguendo il bestiame di famiglia, ed essere impossibilitati a tornare. Il preside racconta di avere avuto una ragazzina brillante in prima media, era la capoclasse. Ora è scomparsa, e non c’è verso di rintracciarla.

Dove vanno a finire questi ragazzi? Il professore risponde sconsolato: «Per le ragazze c’è il matrimonio precoce; per i ragazzi, invece, se dopo l’iniziazione (il rito di passaggio che li rende moran – guerrieri, ndr) non riescono a mantenersi, si offrono per lavori dipendenti, anche mal pagati, perdendo la possibilità di ricevere una buona istruzione. Crediamo che tutti – volontariamente o forzati dalla miseria – si mettano a lavorare. I ragazzi si prestano a fare qualsiasi tipo di lavoro. Lungo i fiumi dove fiorisce un po’ di agricoltura, è facile vederli lavorare nelle coltivazioni. Sono lavoratori che costano poco».

C’è tutto un mercato per il lavoro minorile. I ragazzini poveri, che non si possono permettere il convitto, sono facilmente indotti a servire come pastori dalla stessa famiglia o da altri. Molti lasciano la scuola per il lavoro non perché non vogliano studiare ma per far fronte alle necessità della famiglia.

«È triste per gli insegnanti perdere degli studenti all’inizio di ogni nuovo semestre e non sapere dove siano finiti. Si può allora capire perché ci pensino due volte prima di lasciare andare a casa uno scolaro a prendere del denaro sia per la tassa scolastica o per comperarsi cose necessarie alla scuola. Il rischio più grande è che il bambino non torni più. Se ci si appella ai genitori, la risposta è che non hanno mezzi sufficienti per mantenere il figlio o la figlia a scuola. Così ci sono insegnanti che spesso si sobbarcano anche le spese del ragazzo: quadei, matite, divisa, e perfino le scarpe», dice la signora Jane Ndegwa, preside della scuola a Simotwa. Succede così che i genitori lascino che i figli frequentino la scuola solo se tutto è gratuito. In questo modo l’alunno diventa in tutto dipendente dall’insegnante o da chi lo aiuta.

Anche Peter Mwangi, incaricato distrettuale per i giovani di Laikipia Ovest, riconosce che la gioventù della regione non ha buoni modelli da seguire: «I ragazzi non trovano nella loro comunità esempi da emulare e con cui identificarsi. Anche le figure politiche locali, quando sono invitate a venire a parlare ai ragazzi, come durante la giornata internazionale della gioventù, evitano il problema. Noi vorremmo che appoggiassero di più il nostro progetto educativo e che dicessero chiaramente alla comunità di finirla con tradizioni arretrate e di impegnarsi di più ad aiutare i loro figli a ricevere l’istruzione di cui hanno diritto per migliorare la loro vita».

Peter Mwangi fa pure notare che i bambini soffrono per la negligenza dei genitori che per ignoranza valutano di più il lavoro che i piccoli possono svolgere a casa che non l’educazione. «L’ottanta per cento della comunità non ha un vero lavoro: o sono pastori nomadi oppure lavoratori avventizi. Nonostante tutto, non si deve dimenticare la Sezione 53 della Costituzione che stabilisce in modo chiaro che i genitori hanno l’obbligo di provvedere per i loro figli. La scusa che non hanno lavoro fisso non tiene, infatti riescono a provvedere alle loro necessità giornaliere e potrebbero risparmiare qualcosa anche per i loro figli». Purtroppo la comunità è anche affetta dalla sindrome di dipendenza ed esige di essere aiutata appena ne vede l’opportunità.

 

Pensata per i nomadi

La Chiesa, per loro fortuna, si è fatta avanti, e per aiutare i bambini dei pastori nomadi ha comperato il terreno dove il governo ha costruito la scuola di Matigari. «Questa è la sola scuola pubblica con convitto nella regione, aperta soprattutto ai bambini maasai, samburu, turkana, pokot, somali e borana. Non ci sono solo gli scolari che risiedono al convitto, ma anche quelli che, vivendo vicino, possono andare e venire dalle loro case».

Nelle vicinanze della scuola si è già stabilita una piccola colonia di nomadi che non potendo pagare le tasse scolastiche hanno costruito le loro capanne permettendo ai figli di venire a scuola senza stare nel convitto. I piccoli sono accuditi dalle nonne mentre i genitori si spostano con gli armenti in cerca di pascoli. Il direttore, che è padre e insegnante, insiste sul fatto che in questa area è urgente soccorrere i bambini che per ragioni varie non vanno a scuola. «Il ragazzino che si deve fare una decina di chilometri per venire a scuola o all’asilo va aiutato. I bambini vogliono imparare ma la povertà è un grosso ostacolo per loro. Se qualcuno potesse aiutarli ad entrare nel convitto, potrebbero essere salvati».


5.
Curare gli infermi
di Cynthia Awor

I pastori nomadi hanno sempre creduto nell’efficacia della medicina tradizionale e nell’uso di erbe medicinali. Ma non tutto si può curare con esse, e allora normalmente sopportano i loro mali in silenzio e solo quando non ne possono più cercano aiuto all’ospedale della missione. Questo è ciò che ci dice suor Anna Muturi (nella foto), delle Suore Dimesse, che dirigono il Dispensario Cattolico a Rumuruti.

Le Suore Dimesse aprirono il Dispensario di Rumuruti nel 1992. Suor Anna dice che «in questa area c’era veramente un grande bisogno di un centro per la salute, così la missione pensò all’ospedaletto che assiste gioalmente i malati. Ogni primo giovedì del mese offriamo servizio oculistico e odontoiatrico. Abbiamo pure un reparto di maternità e pediatria».

Secondo la suora il servizio che il dispensario offre, incontra molti problemi, non ultimo quello finanziario, perché la gente pensa che essendo il dispensario cattolico, i servizi debbano essere gratuiti. Naturalmente tutti gli ammalati vengono curati, e nessuno viene mandato a casa senza essere stato esaminato. Spesso però si presentano persone che, oltre alle medicine, hanno bisogno di altro e allora, quando si può, il dispensario provvede per i più poveri anche vestiti e cibo. Suor Anna dice: «Un gran numero di infermi soffrono di depressione. Allora li ascoltiamo e consigliamo. Parliamo loro di Dio e diamo loro informazioni su come migliorare la loro salute. Questo è il nostro modo di evangelizzare». L’orario del dispensario è molto flessibile e sempre le suore rispondono alle emergenze, sia di giorno che di notte, e sovente perfino durante le funzioni religiose.

In Thome, a sedici chilometri da Rumuruti, c’è un altro piccolo dispensario con tre letti e con un piccolo reparto maternità. È stato fatto nel 2011 grazie all’aiuto di un gruppo di medici italiani di «Africa nel Cuore» che hanno voluto sostenere gli sforzi della missione. Il dispensario ha allargato oggi i suoi servizi in altri settori: una falegnameria, un allevamento di galline, un orto sperimentale e un servizio di acqua potabile.

Ambedue i dispensari, Rumuruti e Thome, offrono servizi di prim’ordine: consulte, analisi, accertamenti, distribuzione di farmaci, e fa l’impegnativa presso altri ospedali regionali nei casi più complessi. Sono dotati anche di farmacie ben foite, grazie all’aiuto di amici e Ong. Ogni dispensario è servito da un’infermiera, un farmacista e un tecnico di laboratorio. Occasionalmente si uniscono anche i medici italiani. Per il futuro, Suor Anna vorrebbe anche un reparto maternità più ampio, in quanto gli ospedali del distretto sono inadeguati e tante donne devono andare fino a Nyahururu.

Questi dispensari cattolici sono orgogliosi dei servizi che offrono alla gente; non trattano solo corpi ma in primo luogo persone. Costituiscono un investimento per il futuro e aiutano a creare stabilità sul territorio. Il loro contributo non si può valutare solo in termini economici, ma va visto e misurato soprattutto col numero di vite che toccano e migliorano.


6.
Un uomo, una missione

Dopo 55 anni di servizio missionario, padre Vaccari è ancora sulla breccia. Con il suo passo quieto, il cuore grande, l’occhio attento ai bisogni delle persone e la capacità di dar fiducia ai collaboratori, continua a camminare con la gente di Rumuruti nell’ostinata ricerca della pace, non fondata sulle promesse dei politici, ma su Cristo Gesù, il solo che può far di tutti un’unica famiglia.

Francesco (per la Chiesa) Mino (per il comune) Vaccari, nato nel 1930 a Baiso (Reggio Emilia), entra ragazzino nei missionari della Consolata il 1° ottobre 1942, durante la guerra. Ordinato sacerdote nel 1959, arriva in Kenya il 28 agosto 1960. Apprendista di lingua e cultura kikuyu a Kiangoni nel Nyeri, conosce due missionari speciali che saranno suoi modelli di vita: padre Enrico Manfredi (1896-1977), vero «uomo di Dio», e padre Bartolomeo Negro (1903-1967), l’«uomo di tutti», che voleva un gran bene alla gente. Nel 1962 è mandato a Nyahururu (sull’equatore) con l’incarico di cornordinare le scuole. Vi rimane fino al 1969, vivendo il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, e lascia il posto a don Luigi Paiaro, sacerdote fidei donum di Padova, che nel 2003 diventerà il primo vescovo di Nyahururu con l’omonima diocesi che comprende la Nyandarua County e il distretto di Laikipia West.

Nel 1970 è trasferito a Tetu (fondata nel lontano 1903), una missione dalla gente «difficile» (si diceva allora), ma non povera, perché grazie alla fertilità dell’ambiente tutti hanno il necessario per vivere. Sono gli anni del post-concilio, tempi di contestazione, sì, ma soprattutto rinnovamento.

Lui, missionario sbarazzino (come lui stesso si definisce), ma dal carattere quieto e tollerante, si butta nella pastorale parrocchiale affascinato dalla nuova visione conciliare di Chiesa «popolo di Dio». Il confronto spirituale con altri missionari amici e l’amore dato alla gente e ricevuto in cambio, lo aiutano a superare anche i momenti più difficili. Rimane a Tetu 17 anni, fino all’87, godendo anche dell’amicizia e stima del vescovo di Nyeri, mons. Cesare Gatimu. Visita tutte le famiglie casa per casa, promuove le piccole comunità cristiane, forma catechisti, leader e animatori della liturgia domenicale e costruisce ben 22 cappelle periferiche, il tutto grazie alla capacità di coinvolgere persone e comunità nel cammino.

Eletto superiore regionale del Kenya nell’ottobre 1987, serve per due mandati e a fine 1993 è nominato parroco di Rumuruti facendo staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939), eletto vice superiore regionale. Abituato a parlare kikuyu, a oltre sessant’anni deve imparare sul campo il kiswahili, la lingua franca necessaria in quella realtà multietnica. L’impatto iniziale è duro: isolamento, comunità sparse, grandi distanze, mancanza di strade, povertà, molti rifugiati interni con tanti orfani, nomadismo. È la missione di frontiera, ai margini delle fiorenti comunità cristiane del Nyeri e del Nyandarua, terra di conflitti e conquista. Si rimbocca le maniche cominciando dalla formazione dei catechisti e focalizzandosi su quello che è più urgente: l’educazione e la lotta alla povertà per costruire una comunità cristiana che viva in pace. Ma non fa tutto da solo, con la sua pacatezza riesce a mobilitare una marea di collaboratori sia in loco che in Italia, soprattutto nelle generose terre dell’Emilia e della Brianza.

Dietro la storia di queste pagine c’è lui, un missionario d’azione e di poche parole. Uno che fa bene il bene, senza far rumore.

Gigi Anataloni

The Seed e Gigi Anataloni




El Salvador 1: Dai massacri alla domanda di giustizia.

Un grido stanco, ma tenace.
Contro l’oblio.

Introduzione: Contro l’oblio.
Camminando per El Salvador
con l’orecchio attento, abbiamo incontrato un grido, sempre più stanco e
flebile, ma tenace. Esso nasce dal decennio di guerra intea degli anni
Ottanta, e dalle violenze e ingiustizie che lo hanno preceduto e seguito.
Chiede verità, giustizia, riconoscimento, riparazione. Proviene dalle anziane
madri degli scomparsi, dai figli dei massacrati, dai sopravvissuti alle torture,
dai bambini sottratti alle famiglie e dai genitori che li cercano, da coloro
che hanno fatto dei diritti umani la loro battaglia di vita. Costoro sono l’umanità sofferente, l’effetto collaterale
che, in ogni parte del mondo, segue sempre un periodo di barbarie.

Vi
sono molti modi per visitare un paese: scoprie le ricchezze artistiche,
godere delle spiagge e della natura, seguire un percorso enogastronomico. Noi
abbiamo deciso di attraversare El Salvador dedicando il nostro sguardo e il
nostro ascolto alla domanda di giustizia che si eleva dalla sua terra.

All’indomani del conflitto, che insanguinò il paese per
tutti gli anni Ottanta, El Salvador scelse la via dell’amnistia, che escluse la
possibilità di celebrare processi e depotenziò radicalmente il lavoro svolto
dalla Commissione per la verità istituita nel 1992. Alla base di questa
strategia, adottata da molti paesi latinoamericani nello stesso periodo, vi era
l’interesse dei vertici politici e militari e di alcuni leader guerriglieri ad
autotutelarsi. Negli anni successivi, la politica del «voltar pagina» prese le
forme del silenzio sul passato, del negazionismo, dell’ostacolare qualsiasi
richiesta delle vittime.

A fronte dell’inerzia (quando non dell’ostilità) dello
stato, il movimento per i diritti umani, che aveva raggiunto l’apice negli anni
della guerra, fece del contrasto all’impunità e della difesa dei diritti delle
vittime una delle sue nuove ragioni d’essere.

Con pochi mezzi e molto coraggio, alle organizzazioni
storiche (i comitati delle Madri, l’Ufficio di tutela legale
dell’Arcivescovado, la Comisión de Derechos Humanos, l’Istituto per i
diritti umani dell’Universidad Centroamericana) se ne affiancarono
alcune nuove, tra cui il Centro Madeleine Lagadec e l’Associazione
Pro-Búsqueda
. Si tratta di piccole organizzazioni che, con modalità diverse
(l’appoggio psicologico ai familiari durante le esumazioni dei caduti, la
rappresentanza giuridica davanti alle istituzioni nazionali e inteazionali,
la ricerca dei bambini scomparsi…), si adoperano per rispondere alle necessità
delle vittime.


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El Salvador: cronistoria:
El pulgarcito
de America

La scrittrice cilena, nobel per la letteratura nel 1945, Gabriela Mistral
lo battezzò el pulgarcito (pollicino) de America. Con 6 milioni
di abitanti e una superficie di 21mila kmq (di poco inferiore a quella
dell’Emilia Romagna, ndr), è il paese più piccolo e densamente popolato
dell’America Centrale. Situato lungo el cinturón de fuego (un «anello»
che borda i margini dell’Oceano Pacifico di attive zone di subduzione – zone di
frizione tra due zolle tettoniche in cui sono frequnti eventi vulcanici e
sismici, ndr), il 90% del suo territorio è formato da materiale
vulcanico, e sei dei suoi ventitre vulcani presentano qualche forma di attività.

San Salvador, la capitale, sorge
alle pendici di un vulcano nella valle cosiddetta «della amache». L’ultimo
devastante terremoto risale al 2001, ma i temblores (tremori della
terra) sono all’ordine del giorno.

El Salvador appare come un paese
dove la natura è matrigna, ma anche madre benigna che impressiona per la
biodiversità della flora e della fauna tropicale, la rigogliosità della
vegetazione, i colori degli uccelli, e l’abbondanza della frutta.

1524 / La
Colonizzazione

All’arrivo dei coloni spagnoli,
nel XVI secolo, la regione dell’odierno El Salvador era abitata dai Pipil,
etnia di origine nahua, e da alcune enclavi minori, di ascendenza maya. I conquistadores,
dopo aver sbaragliato la resistenza autoctona nel giro di quattro anni di guerre
sanguinose (1524-28), s’impadronirono delle terre e fecero della
manodopera indigena la loro principale fonte di arricchimento. Il duro lavoro
nelle piantagioni, le malattie e la diffusione del meticciato eliminarono
progressivamente i tentativi di rivolta. Dopo i conquistadores, anche i misioneros
(missionari appartenenti a diversi ordini religiosi) approdarono in El Salvador
e si dedicarono alla cura pastorale dei coloni e dei creoli e alla conversione
al cattolicesimo degli indios e dei meticci.

1821 / L’indipendenza

El Salvador rimase dipendente
dall’Audiencia del Guatemala, appartenente al vicereame della Nuova Spagna fino
al 1821, quando per l’insofferenza verso le vessazioni economiche della
Casa reale spagnola dichiarò la propria indipendenza partecipando alla
federazione delle Province unite dell’America centrale (1823-39).

Nel 1841, dopo lo
scioglimento della federazione, fu proclamata la repubblica.

A partire dall’indipendenza il
paese fu guidato alternativamente dai conservatori e dai liberali, entrambi
espressione dell’élite creola.

Una ristretta oligarchia
borghese (le cosiddette 14 famiglie), dedita alla produzione di caffè per
l’esportazione, attraverso la corruzione di governatori e alcaldi, le
compravendite legittime e alcune leggi che proibivano il possesso comune della
terra (emanate tra il 1879 e il 1882), si impadronì di gran parte delle
terre coltivabili, trasformando gli indigeni e i contadini meticci in
braccianti sottopagati.

Nel 1913, grazie a brogli elettorali, la dinastia Melendez Quiñónez
salì al potere, avviando il primo, lungo, periodo di dittatura sofferto dal
paese. La politica di repressione della classe lavoratrice favorì la nascita
delle prime organizzazioni sociali e sindacali e gettò il seme per la grande
insurrezione del 1932.

1932 / La Matanza

Nel 1931 un colpo di stato portò al potere il generale
Maximiliano Heández Martínez. La grande depressione economica mondiale non
risparmiò El Salvador, la cui economia dipendeva dalle esportazioni. La
drammatica situazione sociale nelle campagne, dove il 91% dei lavoratori
agricoli non possedeva terra da coltivare per il fabbisogno familiare, e la
cancellazione delle elezioni municipali che il governo golpista aveva inizialmente autorizzato, furono tra i
fattori scatenanti degli scioperi del 1931 e dell’insurrezione dell’anno
seguente.

Quanto avvenne nel 1932 è sovente considerato la «shoa salvadoregna», ed è
indicato con l’espressione la Matanza (il massacro). Nella capitale le rivolte
erano guidate dal Partito comunista di Farabundo Martí, mentre nelle campagne
furono i contadini a sollevarsi. Il regime rispose con inaudita violenza: tra
gennaio e febbraio furono sterminate circa 30mila persone. Autrici dei massacri
furono le forze militari regolari e le formazioni di civili paramilitari,
antesignane degli squadroni della morte che sarebbero poi stati protagonisti
delle violenze degli anni ’70 e ’80.

1932-1977 / Fermenti sociali e repressione

Durante gli anni della sua
dittatura, Martínez si schierò con le potenze dell’Asse prima e con gli Usa
poi. Fu sostituito dal generale S. Castañeda (1945-48) e dai colonnelli Oscar Osorio (1950-56) e J. M. Lemus (1956-60).

Sul fronte interno, una volta
tramontati gli iniziali tentativi riformisti, questi governi optarono per il
soffocamento di qualunque forma di opposizione. Sul piano internazionale, si
posero nella scia degli Usa.

Alcuni ufficiali riformatori
presero il potere per pochi mesi tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961, quando furono sostituiti da una giunta militare
conservatrice, al potere con i colonnelli A. Rivera (1962-67) e F. Sánchez (1967-72). L’azione di questi governi non incise
sulla situazione di grave ingiustizia sociale, data dalla concentrazione della
ricchezza, e in particolare della terra, in poche mani. Grazie ai consueti
brogli elettorali il Pcn (Partido de conciliación nacional), espressione
della destra anticomunista e militarista dei colonnelli, vinse le elezioni
presidenziali del 1972 e del 1977. Nel corso degli anni Sessanta, nell’intera America Latina i fermenti libertari e sociali si erano
fusi con le istanze provenienti dal Concilio Vaticano II e dalla
conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellín, che mettevano il «popolo»
al centro della Chiesa e richiamavano i cristiani all’impegno per la giustizia
sociale.

L’ondata di rinnovamento trovò
in El Salvador un terreno fertile. Il clero più favorevole alle decisioni di
Medellín s’impegnò nella difesa e nella «coscientizzazione» del popolo oppresso,
anche a costo di una profonda divisione intea alla Chiesa.

Nacquero le Comunità
ecclesiali di base
(piccoli gruppi di fedeli che si riunivano per la
lettura comunitaria della Bibbia, considerata uno strumento di comprensione
della realtà e una guida per l’impegno sociale), cui presto si affiancarono
numerose altre organizzazioni sindacali e politiche, d’ispirazione
cristiana, comunista o rivoluzionaria.

La crescente partecipazione
sociale del popolo scatenò una sempre più spietata repressione, che a sua volta
indusse alcune organizzazioni popolari a far nascere veri e propri movimenti
politici d’ispirazione marxista leninista, rivoluzionaria o insurrezionalista,
esplicitamente orientati alla lotta. Questi, allo scoppiare della guerra nel 1980, confluirono nel Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional
(Fmln).

1976-1980 / Rutilio Grande e monsignor Oscar
Romero

Nel 1976 mons. Chávez y González, arcivescovo della capitale,
rassegnò le dimissioni. Alla sua successione non fu nominato il suo ausiliare,
mons. Rivera Damas, ritenuto troppo critico verso il governo, bensì mons. Oscar
Aulfo Romero y Galdamez. Romero era un uomo spirituale, dedito allo studio,
estraneo alla politica e non in contrasto con l’oligarchia e il governo.

Nel febbraio del 1977 la polizia rispose con il fuoco alle proteste contro i
brogli elettorali. Il 12 marzo dello stesso anno, padre Rutilio Grande
fu ucciso in un’imboscata, insieme a due contadini. Nella missione di Rutilio,
la lettura assidua della Bibbia e l’aiuto reciproco avevano portato i campesinos
a prendere consapevolezza dell’inconciliabilità dell’universale pateità di
Dio e della fratellanza tra gli uomini con la situazione di disuguaglianza e
oppressione in cui vivevano. La scoperta dei propri diritti li aveva portati a
protestare per le frodi sul salario e a organizzare il primo sciopero. Rutilio,
per rimanere fedele alla sua linea di adesione univoca e incondizionata al
Vangelo, aveva difeso il diritto dei fedeli a organizzarsi politicamente, rimanendo
estraneo ai raggruppamenti e alle iniziative politiche.

Padre Grande e il neoeletto
arcivescovo di San Salvador erano intimi amici. La morte del gesuita scosse
profondamente mons. Romero e lo spinse a interrogarsi sulla sua missione in
quel preciso momento storico. Egli si sentì chiamato a diventare voce e difesa
del popolo oppresso, a costo dello scontro frontale con il presidente, il
governo e l’oligarchia. Ciò creò una forte unità tra lui e il clero diocesano
che inizialmente non ne aveva apprezzata la nomina.

Romero non giustificò mai alcuna
forma di violenza, nemmeno quella rivoluzionaria, poiché violava la sacralità
della vita umana, rendeva impossibile il dialogo e alimentava la spirale di
vedetta. Non poteva però tacere il fatto che fosse la violenza strutturale e
istituzionalizzata a suscitare quella dei movimenti popolari. L’Arcivescovo non
rifiutò mai il dialogo con gli uni o con gli altri, ascoltando e proponendo la
via cristiana della conversione e della nonviolenza.

Nel 1979, nel vicino Nicaragua la lotta di liberazione dei
sandinisti sconfisse il dittatore Somoza: ciò fece apparire ancora più
insostenibile la dittatura militare salvadoregna, che venne rovesciata con un
golpe quasi incruento. Una giunta rivoluzionaria, composta di esponenti
riformisti dell’esercito e della società civile resistette due mesi e mezzo.
Seguì una seconda giunta rivoluzionaria, ma lo scenario non cambiò: in
città le manifestazioni erano represse nel sangue, nelle campagne l’esercito
e gli squadroni della morte seminavano il terrore tra i contadini. La
guerriglia
, dal canto suo, rispondeva a questa situazione con sequestri e
omicidi di politici e di membri dell’oligarchia, attacchi contro le forze di
sicurezza, occupazioni di edifici, scatenando terribili rappresaglie che
colpivano la popolazione civile.

L’arcivescovo Romero prese
un’iniziativa senza precedenti: scrisse al presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, per chiedere di non inviare più aiuti militari a El Salvador, poiché
questi sarebbero stati utilizzati per la repressione del popolo. La sua
richiesta rimase inascoltata. Un mese più tardi, il 24 marzo 1980, dopo aver ricevuto numerose minacce di
morte dagli ambienti di destra e, in seguito all’appoggio alla prima giunta
rivoluzionaria, anche da quelli di sinistra, l’Arcivescovo Romero fu ucciso
mentre celebrava la Messa nella cappella dell’Ospedale presso cui risiedeva, a
San Salvador.

Le indagini sull’omicidio, a
causa di interruzioni, depistaggi, furti di documenti, uccisioni dei testimoni,
non hanno portato alla celebrazione di un processo. Le investigazioni compiute
da istituzioni nazionali e inteazionali concordano nell’indicare Roberto
D’Aubuisson
, fondatore degli squadroni della morte e del partito di destra
Arena, quale organizzatore dell’attentato, su probabile incarico d’importanti
proprietari terrieri ed esponenti dell’oligarchia.

Il 30 marzo si svolsero i
funerali. Tra le 50 e le 100mila persone affollarono la cattedrale e la piazza
antistante. Non è chiaro se furono i militari o i guerriglieri ad aprire il
fuoco per primi, fatto sta che le esequie interrotte dell’arcivescovo martire,
e i morti calpestati dalla folla terrorizzata segnarono l’inizio di una lunga e
sanguinosa guerra civile.

1980-1992 / La
Guerra Civile

Il 1980 inaugurò l’epoca dei massacri, perpetrati dalle forze
della controinsurgencia ai danni della popolazione rurale per annientare
ogni residua volontà di ribellione e fare «terra bruciata» intorno alla
guerriglia. Il governo, che riceveva grandi quantità di aiuti economici e militari
dagli Usa, su pressione di questi intraprese alcune riforme (a partire da
quella agraria) e avviò il processo di transizione verso un governo civile:
il leader della Democrazia Cristiana (Pdc) José Napoleón Duarte assunse
l’incarico di presidente provvisorio nel dicembre 1980 e nel marzo successivo fu istituita l’Assemblea costituente, nella
quale i partiti di destra (Pcn e Arena) avevano la maggioranza. Nel 1983 venne varata la nuova Costituzione, nel marzo 1984 si svolsero le presidenziali e l’anno successivo le
legislative. Nonostante la vittoria in entrambi gli appuntamenti elettorali, il
Pdc di Duarte non riuscì a percorrere la via delle riforme e della
pacificazione nazionale, non potendo controllare le forze armate e i legami di
queste con gli squadroni della morte. Le elezioni legislative del 1988 videro l’affermazione di Arena (Alianza
republicana nacionalista
), che aveva iniziato la sua scalata politica nel
1984. Nell’89 il leader arenero Alfredo
Cristiani divenne presidente, inaugurando un ventennio di governi del suo
partito.

Nonostante fosse al potere
l’estrema destra di Arena, nel 1990
alcune concause (tra cui il crollo del Muro di Berlino e l’allentarsi della
Guerra Fredda) resero possibile la negoziazione di una soluzione alla guerra,
che aveva ormai assunto un profilo di bassa intensità, anche a causa del
violento terremoto che, nel 1986, aveva seminato morte e
distruzione nel paese già martoriato. Le lunghe trattative tra il governo e
l’Fmln
, mediate dal Segretario generale dell’Onu, portarono alla stesura di
un’agenda di riforme (militare, economica e sociale) e culminarono con gli accordi
di pace firmati a Città di Messico il
16 gennaio 1992. Dopo 12 anni di guerra civile si
contarono circa 75mila
morti, 8mila desaparecidos e un milione di profughi.

1989 / Strage all’Universidad
Centroamericana

Nel 1989, mentre era in corso una forte offensiva della
guerriglia sulla capitale, un battaglione speciale dell’esercito penetrò nel
campus dell’Universidad Centroamericana «José Simeón Cañas» (Uca) e
massacrò il rettore, il padre Ignacio Ellacuría, altri cinque gesuiti che
componevano la direzione dell’ateneo, la loro collaboratrice e la figlia di
questa.

I gesuiti della Uca facevano
parte del settore più progressista della Chiesa. Attraverso l’Uca intendevano
educare i giovani, in particolare i figli delle classi dominanti, alla
responsabilità verso la realtà sociale ed economica del paese. Erano abituati
alle campagne denigratorie condotte contro di loro da esponenti del governo,
dell’esercito e della Chiesa stessa, alle minacce e agli attentati ai danni
dell’Università.

1993 / La commissione per la verità e la legge d’amnistia

Come previsto dagli accordi, fu
istituita una Commissione per la Verità, sotto l’egida delle Nazioni Unite, con
il compito di fare luce sulle violenze perpetrate da entrambi gli schieramenti
in lotta.

La reazione del Goveo di
fronte al dossier elaborato dalla Commissione fu critica e sprezzante. Il presidente
in carica, Alfredo Cristiani, affermò che il report non rispondeva al desiderio
della maggioranza dei salvadoregni, i quali volevano perdonare e dimenticare un
passato tanto doloroso. Cinque giorni più tardi, il 20 marzo 1993, l’Assemblea legislativa emanò una
legge di amnistia generale, che concesse l’impunità a tutti coloro che
avevano commesso delitti relazionati al conflitto armato. Tale legge, tuttora
vigente, permette ai responsabili dei crimini di vivere indisturbati, in alcuni
casi occupando posizioni di prestigio nella vita politica ed economica del
paese e costituisce il principale ostacolo alla ricerca di verità e giustizia
portata avanti dalle vittime del conflitto e dai loro familiari.

1992-2009 / Il post guerra e la destra di Arena

Le due decadi successive al
conflitto videro, sul fronte politico, la supremazia di Arena con i suoi
presidenti Cristiani (1989-94), A. Calderón Sol (1994-99), F. Flores (1999-2004) e E. A. Saca (2004-2009), che puntarono tutto sullo sviluppo
del capitalismo, rifiutandosi di affrontare le cause che avevano portato
alla guerra intea.

Dalla fine della guerra poi, il
problema dell’alto livello di criminalità crebbe sempre più: dal 1994 al
2012 le fonti ufficiali hanno registrato 73.608 omicidi (la guerra civile ne
causò circa 75mila). Le violente bande giovanili, chiamate pandillas
callejeras
o maras, pur non essendo le sole responsabili di tanta
violenza, sono tutt’oggi la principale fonte di allarme sociale.

2009-2014 / l’Fmln al potere: promesse da mantenere

Nel 2009, l’Fmln (trasformatosi in partito con gli accordi di
pace), vinse per la prima volta le elezioni dopo alcuni tui elettorali in cui
aveva guadagnato consensi, al contrario di Arena che ne aveva persi. Mauricio
Funes divenne presidente della Repubblica con promesse e aspettative di
progressi sul fronte della giustizia sociale e dello sviluppo che furono poi
onorate solo in misura moderata.

Lo scorso mese di marzo 2014, dopo una campagna elettorale dominata
dal tema della sicurezza, l’Fmln – con il candidato Salvador Sanchez Cerén, ex
leader guerrigliero – ha vinto nuovamente le elezioni, con un vantaggio di soli
6mila voti su Arena.

A.Z.

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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 2: Dai massacri alla domanda di giustiziaNé verità, né giustizia


Le Madri dei Desaparecidos.
Dalla penosa, e spesso infruttuosa, ricerca dei loro
figli in caserme, ospedali e cimiteri, alla ricerca della verità e di una
giustizia che, dopo più di venti anni di pace, tardano ad arrivare. Anche il
primo governo dell’Fmln (il Fronte Farabundo Martí per liberazione nazionale,
partito nato dalla guerriglia), subentrato nel 2009 a un ventennio di governi
del partito di destra Arena, ha deluso le speranze delle anziane madri.

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Veniamo accolti da una ventina di donne, con la pelle scura segnata dal tempo e dal dolore, lo sguardo profondo e fiero. Chi vive alle nostre latitudini forse non si è mai chiesto come trascorrano la festa della mamma le madri dei desaparecidos latinoamericani.

Un figlio desaparecido non si dimentica

«Me llamo Cunegonda e sono madre di sette figli: tre sono stati uccisi, uno è desaparecido, uno morto di malattia da bambino, e due figlie sono vive. Il mio figlio scomparso si chiamava Manuel, aveva 21 anni. Era segretario dell’Upt (Unione degli abitanti dei tuguri) e scomparve il 3 giugno 1980, mentre andava a una riunione presso l’Università. Voleva lottare per noi poveri, perché ci trattassero come persone degne di rispetto. Era leader, riuniva gli altri nella nostra casetta, discutevano di quello che noi poveri potevamo fare per farci ascoltare». Cunegonda prende fiato e prosegue. Un fiume di dolore in piena, con voce acuta e dolce. «Mio figlio mi manca. Da quella mattina dell’80 non l’ho più visto. Ogni volta che comparivano cadaveri, io andavo a vederli. L’ho cercato per caserme, ospedali, ovunque, ma non mi sono mai imbattuta nella sua sorte. Un figlio desaparecido non si dimentica un solo istante».

L’assordante rumore del traffico della capitale e la stretta parlata contadina di Cunegonda ci rendono difficile capire. Lei abbassa gli occhi e si sistema i vecchi occhiali: «Se volete, vi racconto un pezzetto della mia storia. Mi vennero a prelevare a casa il 9 marzo del ’77, rimasi in prigione fino al 26 agosto. Durante tutto quel tempo la mia bambina più grande e mio marito si presero cura dei piccoli. In carcere si soffre molto, è terribile stare lì…».

«Perché la arrestarono?», domandiamo.

«Venne la polizia, cercava i miei figli maggiori. Loro non erano in casa, erano a un funerale. Così portarono via me. Al commissariato mi picchiarono ripetutamente. Ancora oggi soffro di fortissimi dolori alla testa e alla schiena per quei colpi. Mi rilasciarono grazie a mons. Romero, che chiese la mia liberazione durante le omelie della domenica, e alla tenacia dei suoi giovani collaboratori. In seguito a questi fatti, non potemmo più vivere nella nostra casa. Dopo la sparizione di Manuel, i miei altri due figli maschi e Isabel, di 16 anni, se fueron a la montaña (si unirono alla guerriglia). Tutti e tre morirono combattendo. Nemmeno loro ho potuto seppellire, però per lo meno non li hanno catturati a casa…».

Alla ricerca di verità e giustizia

Sono trascorsi più di vent’anni dagli accordi di pace. L’attività di Comadres, Codefam e Comafac si è trasformata: l’affannosa ricerca degli scomparsi nelle prigioni e nei cimiteri clandestini ha lasciato il posto a un’altrettanto ardua ricerca di verità e giustizia.

Nessun processo è stato celebrato, nessun archivio è stato aperto. La politica ha imposto il perdono y olvido (oblio). E così le madri sopravvissute, sempre più cariche di anni e di dolore, hanno abbracciato la loro nuova missione. «Ogni anno presentiamo una richiesta all’Assemblea legislativa», ci racconta una madre. «Non ci hanno mai fatto entrare nel palazzo, restiamo fuori nel cortile. Una volta è uscito un impiegato, ha preso il documento che avevamo preparato e l’ha stracciato di fronte a noi. Il governo di Funes (in carica dal 2009 al 2014 dopo quasi due decenni di governi del partito di destra Arena, e sostituito da poche settimane dal governo Cerén della sua stessa parte politica, l’Fmln, ndr) ha fatto qualcosa, ma è troppo poco».

A un certo punto le madri si siedono in cerchio. La stanza è affollata e noi prendiamo posto in un angolo: anche se le nostre ospiti sono accoglienti, ci sentiamo un po’ intrusi.

Al termine della riunione si alzano una a una, lentamente. Ciascuna pronuncia il nome di una compagna scomparsa e le parole «¡creo en tus luchas y seguimos de pié!» (credo nelle tue lotte e proseguiamo in piedi!), poi prende una rosa e la dona a un’altra madre, abbracciandola e sussurrandole un pensiero. Infine, una madre dona una rosa anche a noi.


________________________________________

Comadres e gli altri


Tra commissariati, ospedali e obitori

Comadres (Comitato delle madri e dei familiari dei
prigionieri, degli scomparsi e degli uccisi Mons. Romero), Codefam (Comitato
dei familiari delle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani Marianella
García Villas) e Comafac (Comitato delle madri e dei familiari cristiani dei
detenuti, scomparsi e assassinati Padre Octavio Ortiz – Sorella Silvia Arriola)
sorsero negli anni della violenza di stato e della guerra civile. Il più
antico, Comadres, ebbe origine dalle madri degli studenti prelevati a forza
dall’esercito mentre manifestavano pacificamente per le strade della capitale.

Era il 1975 e, nonostante la feroce repressione, la
guerra sembrava ancora una catastrofe evitabile. Queste donne s’incontrarono
nelle estenuanti ricerche presso i commissariati, gli ospedali e gli obitori e,
superando il clima di generale diffidenza e sospetto, iniziarono a riconoscersi
e ad appoggiarsi l’una all’altra. L’idea del comitato venne al neoeletto
arcivescovo Romero che, dopo aver invitato le madri dei giovani desaparecidos
a trascorrere con lui la vigilia del Natale 1977, suggerì loro di unire gli
sforzi e le voci, affinché fossero più forti. Nemmeno la violenza e la morte
avrebbero più fermato queste modee Antigone. Vestite di nero, un fazzoletto
bianco sul capo, denunciavano al Salvador e al mondo lo strazio del loro paese,
cercavano gli scomparsi, visitavano i prigionieri e percorrevano le strade
all’alba, con il triste compito di fotografare di nascosto i cadaveri che ogni
notte venivano abbandonati, per evitare ad altre madri il penoso, pericoloso e
inutile pellegrinaggio per ospedali e prigioni.

Il numero delle madri cresceva man mano che il paese
sprofondava nella violenza. Comadres e i due comitati che sorsero
successivamente, insieme alle altre organizzazioni sociali, organizzarono
manifestazioni, scioperi della fame, occupazioni di chiese e ambasciate. La
risposta del regime fu sproporzionata: le madri e i loro familiari furono
vittime di sequestri, uccisioni, stupri e torture. Le sedi dei comitati subirono
attentati dinamitardi e saccheggi. Il maggiore D’Aubuisson dichiarò
pubblicamente di voler sgozzare las madres una a una.

A.Z.

Tags:
El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 3: Dai massacri alla domanda di giustizia «I nostri morti sono esistiti»

1974: il massacro de la Cayetana

Per fare «terra bruciata» attorno alla guerriglia,
l’esercito salvadoregno sterminò interi villaggi. È stato il caso anche de La
Cayetana, piccola comunità rurale che nel 1974 vide il primo massacro di campesinos.
I corpi delle vittime giacciono ancora nella fossa comune in cui furono gettati
dai soldati della Guardia Nacional. A
distanza di 40 anni, i figli, le madri, le mogli, le sorelle dei massacrati
chiedono ancora di potee riesumare i resti per dare loro una sepoltura
dignitosa e per smentire chi persiste nel negare le atrocità del passato.

Il
pick-up corre sulla strada assolata, costeggiata dai banchetti dei
venditori di cocchi e canne da zucchero. La vegetazione è rigogliosa e il cielo
azzurro, profondo. Seduti sul sedile posteriore, sfogliamo i nostri quadei
carichi di appunti. Vorremmo che i nostri occhi potessero conservare tutte le
immagini e i colori, le nostre menti memorizzare ogni volto, le nostre mani
annotare ogni pensiero. Siamo di ritorno da Tecoluca, paesotto circondato da
innumerevoli villaggi, tra i più massacrati durante la guerra civile. Abbiamo
accompagnato Elí e Claudia, del Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
(Cpdh), a incontrare le vittime della Cayetana,
piccola comunità che, nel 1974, fu teatro del primo massacro di campesinos
compiuto dalla Guardia Nacional, corpo di sicurezza a carattere militare,
anteprima dell’inferno che stava per scatenarsi. Il Cpdh le sta aiutando nel
loro lungo percorso per ottenere l’esumazione dei resti dei loro cari, che
ancora giacciono in una fossa comune non lontana dal villaggio.

Corpi, assassini e dolore

Uno dei primi problemi da risolvere per i congiunti dei
massacrati, oltre a tutti i permessi da ottenere presso le autorità, è
paradossalmente quello di dimostrare che i loro cari sono esistiti. Quasi mai
infatti ci sono atti di nascita o certificati di battesimo. Si tratta di un
procedimento macchinoso e difficile, che re vittimizza i familiari.

Nei giorni che hanno preceduto il nostro viaggio ci
siamo interrogati sul senso di una tale fatica che, a distanza di 40 anni,
potrebbe portare a non trovare nulla o solamente qualche frammento osseo. Ma
ora, ascoltando le storie delle vittime e dei loro cari, vorremmo andare a
scavare assieme a loro.

Vediamo nella concretezza di un luogo, di alcuni
sguardi, di oggetti precisi, quello che i libri dicono a proposito dei crimini
contro l’umanità: annichiliscono, annullano, sfigurano le vittime ai loro
stessi occhi, le privano di un volto e le riducono per sempre al silenzio.

Tutti sanno che quei corpi giacciono lì, eppure per 40
anni è stato negato. Non si potevano nemmeno nominare. E se quei corpi non
esistono, non esistono gli assassini, e non esiste nemmeno la sofferenza dei
familiari, ai quali qualunque diritto è precluso.

Se tutto andrà bene, ci vorrà almeno un anno, forse due,
per ottenere le autorizzazioni necessarie e procedere all’esumazione. Quel
giorno, la psicologa del Cpdh sarà a fianco a Silvia che, bambina, vide
seppellire lì i corpi martoriati del padre e del fratello, consolerà Marta, che
spera di ritrovare i resti del marito, morto tra le sue braccia dopo l’attacco
dei militari. Tutta la comunità si stringerà intorno a loro, adoerà con fiori
e canti la veglia funebre, affiderà i martiri al Dio della vita. Poi
costruiranno un piccolo memoriale, sul quale incideranno i loro nomi, affinché
nessuno possa nuovamente negare. E quel giorno non saranno solo i morti ad
avere finalmente pace.

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Centro per i diritti umani Madeleine Lagadec


Contro violenza e impunità

Il Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
nacque nell’aprile 1992, ossia all’indomani della
firma degli Accordi di pace. Le fondatrici lo dedicarono alla memoria di una
giovane infermiera francese, stuprata, torturata e uccisa dall’esercito
salvadoregno nell’89, nell’ospedale mobile in cui prestava servizio. Anche
all’origine di questa organizzazione vi fu la domanda di giustizia delle
vittime. Il Centro Madeleine Lagadec si dedicò, infatti, a raccogliere le
testimonianze dei sopravvissuti in zone rurali particolarmente colpite,
giungendo a documentare più di duecento omicidi individuali e trentacinque
massacri e a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della
Commissione per la verità dell’Onu. La disillusione – suscitata dal perdurare
della situazione di violenza, impunità e illegalità – spinse il Centro Lagadec
a proseguire il suo impegno. In venti anni di attività, ha formato più di mille
promotori e promotrici comunitari dei diritti umani, ha esumato e restituito
alle famiglie i resti di 650 vittime (alcune delle quali erano annoverate tra i
desaparecidos), ha organizzato 32 comitati per i diritti umani, e
numerosi comitati di familiari delle vittime, ha reso possibile la costruzione
di monumenti, la celebrazione di commemorazioni, e ha offerto un aiuto legale e
psicosociale alle famiglie delle vittime.

A.Z.

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El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
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Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 4: Dai massacri alla domanda di giustizia Quasi rinascere

Rintracciare bimbi scomparsi nel conflitto dopo 30
anni
Sottratti con la forza dai militari alle loro
famiglie, smarriti dai genitori nel corso delle fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalla guerriglia, cresciuti in
orfanotrofi, in caserme o avviati all’adozione internazionale da funzionari
corrotti, furono centinaia i bambini salvadoregni di cui si persero le tracce
negli anni della guerra. L’Asociación Pro-Búsqueda, fondata da un sacerdote
gesuita nel 1994, aiuta i genitori nella loro ricerca dei figli desaparecidos.

La
scomparsa di minori nel corso di operazioni militari fu denunciata da alcuni
genitori alla Commissione per la verità ma, in quel contesto, non incontrò
attenzione specifica: i bambini furono semplicemente registrati tra i desaparecidos.
Il gesuita Jon Cortina, docente della Uca (Universidad Centroamericana «José
Simeón Cañas»
) e parroco di Guarjila, nel dipartimento di Chalatenango, e
alcune persone che facevano parte della locale commissione per i diritti umani,
presero a cuore la causa delle famiglie che cercavano i loro figli e iniziarono
ad aiutarle a sporre denuncia ai tribunali competenti, a contattare gli
orfanotrofi del paese e a organizzare iniziative pubbliche.

Asociación Pro-Búsqueda

I primi esiti di questo lavoro si
ebbero già all’inizio del 1994, quando cinque dei cinquanta bambini scomparsi
di Guarjila furono rintracciati in un orfanotrofio e ricongiunti alle loro
famiglie. La notizia del reencuentro si diffuse rapidamente nelle
comunità vicine e incoraggiò altri familiari a intraprendere le ricerche.
Davanti alla totale negligenza delle istituzioni statali, padre Cortina e i
familiari decisero di continuare la lotta in modo più formale e sistematico,
costituendo l’Asociación Pro-Búsqueda de niñas y niños desaparecidos durante
el conflicto armado
(Associazione per la ricerca delle bambine e dei
bambini scomparsi durante il conflitto armato). Attualmente ne fanno parte
anche «bambini» ritrovati (che ora sono adulti di 30-35 anni) e altri che
(consapevoli di essere cresciuti con persone diverse dai genitori biologici)
cercano la loro famiglia d’origine. Pro-Búsqueda conta su un’unità
psicosociale che assiste i familiari e i giovani lungo tutto il percorso di
ricerca, li affianca nel delicato momento del rincontro oppure nella sfortunata
necessità di elaborare il lutto, e dispone di una banca di profili genetici
nella quale è stato raccolto, a oggi, il Dna di circa 1200 familiari di minori
scomparsi e di giovani che cercano le loro famiglie naturali.

Scomparsi e ritrovati

Sottratti con la forza dai militari alle loro famiglie,
smarriti dai genitori nel corso delle estenuanti fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalle cellule della guerriglia,
cresciuti negli orfanotrofi, nelle caserme, o avviati all’adozione
internazionale da avvocati e funzionari corrotti, furono centinaia i bambini
salvadoregni di cui si persero le tracce negli anni della barbarie.

Fino a ora, Pro-Búsqueda ha registrato 925 casi e
ne ha risolti 389. Di questi, 335 giovani sono stati ritrovati vivi (alcuni in
Italia, presso ignari genitori adottivi) e hanno potuto incontrare le loro famiglie
naturali, mentre in 54 casi le indagini hanno accertato la morte del minore,
consentendo perlomeno ai familiari di uscire dall’estenuante condizione di
ricerca e di sospensione. Nonostante il lavoro febbrile e i buoni risultati, il
numero di casi in attesa di soluzione non diminuisce, ma aumenta nella misura
in cui le informazioni riguardanti la possibilità di cercare i bambini
scomparsi raggiungono i villaggi più remoti.

Finalmente una commissione nazionale

Con l’appoggio di Pro-Búsqueda,
i familiari di alcuni dei bambini scomparsi hanno presentato denuncia alle
autorità nazionali e, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti
alle istituzioni inteazionali. Il caso delle sorelle Serrano Cruz ha portato
alla prima condanna dello stato salvadoregno da parte della Corte
interamericana per i diritti umani. Tra le misure di riparazione materiale e
simbolica prescritte dal Tribunale internazionale vi era la creazione di una
Commissione nazionale di ricerca dei bambini scomparsi. Dopo avere a lungo
tergiversato, il governo di El Salvador ha istituito tale Commissione, tuttora
operante.

________________________

La madre ritrovata

«Bienvenido Manuel de Jesús!». Lo striscione
azzurro sulla porta della stanza annuncia quasi una nuova nascita. Il giovane
entra con passo veloce, accompagnato dai suoi figli, vestiti a festa. Si dirige
verso l’anziana signora in sedia a rotelle e l’abbraccia con delicatezza. Anche
i bambini salutano timidamente quella nonna sconosciuta.

Stiamo assistendo a un reencuentro, il reincontro
con la madre di un ex bambino desaparecido durante la guerra. Manuel
sopravvisse nel 1981 al massacro del suo villaggio. Fu trovato solo e
abbandonato e fu adottato da un’altra famiglia. La madre, da lui creduta morta,
l’ha cercato per trent’anni. Nemmeno una foto le era rimasta del figlio
scomparso. Oggi s’incontrano per la prima volta da allora.

Ad assistere all’incontro, frutto del lavoro della Comisión
Nacional de Búsqueda
, sono presenti anche diversi giornalisti che
interrompono l’emozione del momento con domande e flash, e assaltando i due
prima che possano veramente credere in quello che stanno vivendo.

Pensiamo alla loro storia – che è la storia di centinaia
di famiglie salvadoregne – e vorremmo poterci affacciare, per un momento, nel
cuore di quella madre e di quel figlio. È un momento di risurrezione, di
giustizia, di riparazione, come ci hanno detto sia a Pro-Búsqueda che
alla Comisión Nacional de Búsqueda. Nulla restituirà alla madre tutti i
momenti che non ha potuto vivere accanto a suo figlio; niente potrà risarcire
il figlio per il trauma e l’abbandono subito. Ma questo è certamente il giorno
più atteso, dove il dolore trova finalmente sollievo e la verità e la giustizia
si trasformano in ossigeno di vita.

A.Z.

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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 5: Dai massacri alla domanda di giustiziaPer non essere più «terra bruciata»

Piccole pratiche di giustizia riparativa.



Abbracciare chi ha sofferto, costruendo uno spazio in
cui il suo grido di giustizia possa finalmente esprimersi e trovare ascolto.
Narrare e fare memoria del passato, traendone un monito per il futuro. Chiamare
lo stato a rispondere per le sue azioni e omissioni. Sono alcuni degli intenti
del Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa
, iniziativa privata che intende
restituire una risposta di giustizia alle vittime dei gravi crimini compiuti
nei decenni passati in El Salvador.

«Il
mio nome è José Coelio Chicas, quando si verificò il massacro (il caso
conosciuto come Massacro del Junquillo, avvenuto il 14 marzo 1981 nell’omonimo caserío
– borgo – del municipio di Cacaopera, nel dipartimento di Morazán, ndr)
avevo 27 anni, ora ne ho 58». Stringendo il cappello tra le mani e con la voce
che sussulta, don Coelio racconta la storia di sua madre, di sua moglie, dei
loro quattro bambini – l’ultimo dei quali nato 22 giorni prima -, dei suoi
fratelli con le loro mogli e i loro figli, spazzati via uno a uno dalla
violenza cieca del battaglione Atlacatl, per il folle progetto politico che
pretendeva di eliminare la guerriglia circondandola di «terra bruciata», ossia
sterminando i villaggi contadini in cui i guerriglieri potevano, potenzialmente,
trovare sostegno.

Mentre don Coelio con dolcezza chiama per nome i suoi
bambini, racconta della fuga, degli spari, del maiale che divorava i resti dei
più piccoli e del volo degli avvoltorni sulla sua casa bruciata, l’uditorio lo
ascolta in silenzio, quasi in apnea, e sostiene la sua voce spezzata con la sua
presenza attenta e discreta.

La povertà e il dolore hanno fatto invecchiare
precocemente quest’uomo mite che, tra le lacrime, ringrazia Dio e i presenti
per l’opportunità di parlare. Poi rivolge un pensiero allo stato: «Mi hanno
raccontato che a San Salvador c’è un monumento a Roberto D’Aubuisson. Lo chiamo
con nome e cognome e con la certezza che fu un assassino. È un abuso per me e
per tutta questa gente sopravvissuta. È anche un abuso, io credo, che la terza
brigata del dipartimento di San Miguel sia stata intitolata al colonnello
Domingo Monterrosa: questo vuole dire che nel paese in cui siamo nati noi non
valiamo nulla…».

La denuncia del signor Coelio risuona molte volte nel
corso delle sessioni del Tribunale: le celebrazioni istituzionali dei militari
che furono responsabili dei crimini commessi in El Salvador non possono non
ferire profondamente le vittime. La rimozione di tutte le onorificenze
conferite ai victimarios è una delle forme di riparazione invocate,
insieme alle indagini e ai processi che dovrebbero affermare pubblicamente la
verità su quanto accadde in quegli anni bui, alla ricerca delle persone
scomparse, alle esumazioni, alla nobilitazione pubblica delle vittime, alla
trasmissione della memoria storica alle nuove generazioni, all’indennizzo
economico e all’assistenza sanitaria e psicologica. Il diritto internazionale,
facendo riferimento a queste richieste, che accomunano tutte le vittime di
gravi violazioni, parla di «riparazione integrale» (che si compone di
ristabilimento, risarcimento, riabilitazione, soddisfazione, garanzie di non
ripetizione).

Alcune vittime, con grande coraggio, chiedono di più.
Don Coelio pronuncia parole audaci e sofferte che suonano come un messaggio di
pace: «Come sopravvissuto domando allo stato che indaghi e faccia giustizia.
Alle persone che commisero questo chiedo che, per favore, vengano davanti a noi
e ci chiedano disculpa, dicano chi impartì loro gli ordini. Io
desidererei che il sig. Medina Garay [che ordinò di massacrare gli abitanti del
Junquillo] venisse a questo tribunale e ci dicesse: “Ho commesso un grande
errore e oggi vi chiedo perdono”. Io sono disposto a perdonare questa gente,
però devo vederla!».

______________________________

Tribunal para la justicia restaurativa


Liberare le ferite dal silenzio

Il Tribunal inteacional para la aplicación de la
justicia restaurativa
è un’iniziativa dell’Istituto per i diritti umani
dell’Università Centroamericana «José Simeón Cañas» (Idhuca) e dei comitati
delle vittime del conflitto armato. La sua prima edizione, nel 2009, si svolse
nella cappella «Gesù Cristo Liberatore» dell’Università, dove riposano i resti
mortali dei sei gesuiti, «martiri per la giustizia», trucidati vent’anni prima.
Negli anni successivi, il Tribunal (che è giunto alla sua sesta
edizione) è stato celebrato in differenti località del paese, in prossimità di
luoghi che sono stati scenario di gravissime violazioni dei diritti umani nel
corso del conflitto.

Il termine «tribunale» è utilizzato in senso lato: si
tratta, infatti, di un organismo privo di qualunque riconoscimento legale,
istituito come tentativo dell’Idhuca (con l’appoggio di persone ed enti
stranieri) di iniziare a rispondere all’esigenza di giustizia delle vittime e
della società salvadoregna che è stata fino a questo momento frustrata dallo
stato. Il riferimento alla «giustizia riparativa» segnala che si tratta di una
modalità «non formale» di giustizia, che pone al centro le vittime e non
appiattisce la risposta al loro grido sulla punizione dei colpevoli (Si veda
il dossier di MC dicembre 2013 sul tema della Giustizia riparativa
).

Le vittime, affiancate dai loro familiari, dai comitati e
dalle comunità cui appartengono, sono protagoniste di questa peculiare
iniziativa. Vi sono inoltre alcuni giuristi, docenti universitari, persone
competenti e sensibili provenienti da diversi paesi, che ricoprono il ruolo di «giudici».
Ultimi, ma non meno importanti, gli avvocati e il personale dell’Idhuca,
inclusi i volontari e gli studenti che prestano il loro servizio sociale.

Ogni edizione di questa toccante esperienza prevede tre
giornate di testimonianze, che si concludono con la presentazione delle
richieste che le vittime, per mezzo del Tribunal, rivolgono allo stato e
che possono, anche in questo caso, essere riassunte con le seguenti parole:
verità, giustizia, riconoscimento, riparazione.

Vi è uno spazio anche per gli avvocati dell’Idhuca,
rappresentanti delle vittime, che, attraverso petizioni molto puntuali,
richiamano lo stato all’assunzione delle sue responsabilità e all’adempimento
degli obblighi derivanti dal diritto nazionale e internazionale.

Questa iniziativa si propone di contribuire a «sanare le
ferite» delle vittime e della collettività, attraverso la centralità data alla
narrazione di storie a lungo incarcerate nel loro intimo. L’ascolto attento e
rispettoso dell’uditorio permette a chi, liberamente, ha scelto di prendere la
parola, di sentirsi creduto e «riconosciuto» nella propria dignità e nel proprio
dolore. Il racconto in «prima persona» permette di intrecciare la memoria
personale con la storia del paese, tessendo i fili della memoria storica,
sapienza tanto cara a coloro che qualcuno ha tentato di annullare e far
scomparire.

Inoltre, il Tribunal de justicia restaurativa
intende avvalersi della sua autorità morale per affermare la responsabilità
degli autori dei crimini e dello stato ed emettere un forte richiamo nei loro
confronti. La censura nei confronti dello stato non si limita al fatto che esso
non abbia rispettato e garantito i diritti dei suoi cittadini nel momento in
cui avvennero le violazioni, ma si estende alla mancanza della volontà politica
di investigare e chiamare i colpevoli a rispondere.

Infine, il carattere pubblico di questa iniziativa (è
trasmessa dalla radio dell’università, attraverso Inteet, ed è seguita dalla
stampa nazionale) intende favorire la conoscenza e la solidarietà dell’intera
popolazione nei confronti delle vittime e propiziare il consenso verso misure a
loro favore e contro l’impunità.

A.Z.

El Salvador in cifre

Superficie: 21mila kmq. Capitale:
San Salvador.

Abitanti: 6,2milioni (2012), di cui 86.3% meticci, 12,7% bianchi,
1% indigeni (2007). Urbanizzazione: 64%.

Aspettativa di vita: 74 anni. Mortalità infantile: 1,8%. Adulti alfabetizzati: 84,5%.

Religione: Cattolici romani 57,1%, Protestanti 21,2%, Testimoni di
Geova 1,9%, Mormoni 0,7%, altre religioni 2,3%, non religiosi 16,8% (stime del
2003).

Presidente: Salvador Sanchez Cerén.
Valuta: Dollaro statunitense.
 
Bibliografia

• D. Pompejano, Storia dell’America Latina, Bruno Mondadori,
Milano 2012;
• A. Palini, Oscar Romero: «Ho udito il grido del mio popolo»,
prefazione di M. Chierici, AVE, Roma 2010;
• E. Maspoli, Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador,
prefazione di J. Sobrino, Paoline, Milano 2009;
• ONU, De la locura a la
esperanza: la guerra de los doce años en El Salvador: informe de la Comisión de
la Verdad para El Salvador
, UN Doc. S/25500, San Salvador – Nueva York,
1992-1993 (disponibile in Inteet);
• G. Guzmán Orellana, I. Mendia Azkue, Mujeres con memoria. Activistas
del movimiento de derechos humanos en El Salvador
, Bilbao 2013 (disp. in
Inteet);
• Manlio Argueta, Un giorno nella vita, EMI, Bologna 1992
(romanzo).
• Asociación Pro-Búsqueda de niños y niñas desaparecidos, La Paz
en construcción: un estudio sobre la problemática de la niñez desaparecida por
el conflicto armado en El Salvador
, Asociación Pro-Búsqueda / Save the
Children Suecia, San Salvador 2003;
• Enciclopedia Treccani, Dizionario di storia (2011), voce «El Salvador»;

• Ó. Martínez Peñate (cornord.), El Salvador: historia general,
Nuevo Enfoque, San Salvador 2008;

 
Nota:

Per rispetto della privacy, alcuni nomi
che compaiono in questo dossier sono di fantasia. 

L’autrice del
dossier:

Annalisa Zamburlini ha effettuato studi
di filosofia e discipline umanistiche. È dottoranda di ricerca in Sociologia e
metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano.
Questo dossier è frutto delle ricerche condotte per la tesi di dottorato,
incentrata sui processi e le problematiche delle fasi di transizione post
conflitto e sulla domanda di giustizia delle vittime, con speciale attenzione
al caso salvadoregno. Ha trascorso nel paese centroamericano due periodi di
ricerca, nel 2012 e nel 2014, durante i quali ha potuto collaborare con
l’Idhuca (Instituto de Derechos Humanos de la Universidad Centroamericana
José Simeón Cañas
) di San Salvador.

Coordinamento
editoriale:

Luca Lorusso, redazione MC.

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guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
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Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini