4 Iran sulla pelle della gente

Prof.ssa Razie Amani

L’Italia era il primo partner
europeo dell’Iran. Per obbedire all’embargo, ha ridotto progressivamente un
legame commerciale molto importante.
Divenendo complice di un’enorme ingiustizia.

Razie
Amani è una giornalista e docente universitaria iraniana. Ha studiato in Italia
e insegna la lingua italiana in un ateneo di Teheran.

Professoressa Amani, qual è
l’attuale situazione economica dell’Iran dopo le sanzioni inteazionali?

«A causa delle sanzioni l’economia
dell’Iran ha subito forti e innegabili conseguenze negative. Un aumento
drastico dei prezzi e di conseguenza il calo notevole di potere di acquisto
della moneta. I settori economici più toccati sono quello petrolifero e
bancario, ma in generale un po’ tutti. La mancanza di alcuni prodotti pesa
maggiormente. È il caso dei medicinali e dei farmaci indispensabili
(soprattutto per malattie considerate gravi o croniche) e dei pezzi di ricambio
(per le attrezzature ospedaliere, per le auto eccetera), perché la mancanza
incide direttamente sulla produzione e sui costi. In generale, l’embargo va a
colpire soprattutto i più deboli, la fascia medio-bassa della popolazione che
ora si vede costretta al “minimo indispensabile”. Questa è la ragione
principale per la quale la gente non accetta le accuse delle potenze straniere
e i loro ragionamenti; essa si sente vittima diretta e innocente di una
punizione e una pressione economica ingiuste che vorrebbero costringere l’Iran
a cambiare la sua politica estera e intea. Nulla di quello che viene detto
contro l’Iran risulta credibile agli occhi del più semplice cittadino iraniano,
anche quello meno allineato con le politiche dei suoi governanti. In sintesi,
le sanzioni stanno pesando molto sulle spalle della gente, danneggiano
l’economica e le imprese, mettono in seria difficoltà la vita di tutti, ma non
piegano gli Iraniani, anzi li rafforzano».

Come reagisce
la popolazione?

«La popolazione reagisce con
attenzione e intelligenza. Ha una capacità straordinaria di valutare la
situazione politica dell’Iran e del mondo; ha anche la capacità critica di
giudicare la condotta del governo e dello stesso presidente ma non si lascia
ingannare facilmente dalla macchina propagandistica delle potenze occidentali
obbedienti agli Stati Uniti. Sente sulla propria pelle l’arroganza e
l’ingiustizia dei paesi ostili all’Iran e delle ragioni vere di questa ostilità
costruita artificiosamente».

La rielezione di Obama a presidente
degli Stati Uniti ha aperto nuove prospettive per l’Iran?

«Nessun
cambiamento serio. Forse un tono meno aggressivo ma sicuramente un paese come
l’Iran, preso di mira, è difficilmente ingannabile dalle parole e dai media,
siano nazionali che inteazionali. Gli Iraniani sono cittadini di un Paese
culturalmente molto elevato e colto: essi subiscono anche l’ingiustizia
dell’Occidente e ne sono consapevoli; con questo non voglio dire che in Iran
non ci sono opposizioni, dissidenze o persone che vorrebbero un approccio più
morbido del governo con gli Usa e con l’Occidente in generale, ma la
maggioranza ha compreso gli inganni dialettici e gli scopi reali della propaganda
occidentale e si fa poche illusioni. Tuttavia nessuno rinuncia a sperare in una
chiarificazione internazionale e in una pacificazione. Questo è sicuro…»

Lei è vissuta in Italia e ne conosce bene la cultura e la lingua. Quali
sono le relazioni con il suo paese, dopo le sanzioni?

«Le relazioni economiche
Iran-Italia hanno subito anch’esse conseguenze molto negative. E pensare che
l’Italia rappresentava il primo partner economico europeo dell’Iran! Non so se
tale situazione è rimasta immune dalle sanzioni occidentali. Esse, certo,
danneggiano l’Iran, ma anche l’Italia che, purtroppo, deve obbedire. Anche a
costo della bancarotta».

Secondo lei, quali percezioni hanno gli italiani dell’Iran?

«Gli italiani, in generale,
bombardati anche loro dai mass-media non hanno una giusta visione dell’Iran e
degli iraniani, ma questo non rappresenta solo una realtà italiana: riguarda
tutto l’Occidente. Vi sono, tuttavia, italiani informatissimi con i quali ho
avuto la fortuna e il piacere di parlare e scambiare le idee, che conoscono il
mio paese per quello che realmente è. Per la sua incomparabile civiltà e
storia, per la sua gente, rivoluzionaria nel cuore e nella mente, e per le sue
caratteristiche religiose e culturali».

Qual è il ruolo
dei media in relazione all’embargo e all’informazione sull’Iran?

«È stato un ruolo fondamentalmente
distruttivo, se intende quello dei media occidentali mainstream. Si sa che sono
loro che formano la cosiddetta “opinione pubblica” che, in sé, non esiste
autonomamente. È stato fondamentale per rendere passiva, anzi accondiscendente
alle sanzioni, l’opinione pubblica occidentale, senza che ne capisse neppure le
raioni al di là del solito spauracchio delle “armi chimiche” e della “bomba
nucleare”».

L’attuale
guerra in Siria che scenario disegna nei confronti dell’Iran?

«L’Iran è al centro di questa
guerra proprio perché ne è l’obiettivo direi esclusivo. Tuttavia è considerato
anche l’avversario principale e più forte capace di frenare quest’aggressione
internazionale contro la Siria. Di difendere il governo siriano in se stesso
all’Iran può interessare poco; ma vedersi arrivare fuori della porta di casa
quelli che già si sentono “padroni” dell’intera area… renderebbe preoccupato
chiunque. E del resto anche la Russia e la Cina avvertono questo pericolo e
sentono che questa è la vera intenzione degli americani e dei loro alleati.
L’aggressione alla Siria è solo l’inizio perché è vista come una dei componenti
del “Fronte trilaterale della resistenza islamica” composta da Hezbollah, dalla
Repubblica Islamica dell’Iran e, appunto, dalla Siria, contro Israele e
l’imperialismo in generale. Questo dovrebbe apparire chiaro anche a una certa
fascia della popolazione dei paesi arabi, ma i suoi governanti non le danno
spazio per capire a che gioco si sta giocando ai danni dell’intero Islam, e non
solo di quello sciita».

Rimaniamo in
tema di fede religiosa. Come vede l’elezione del nuovo Papa, Francesco?

«È sicuramente un evento molto
importante nella storia della Chiesa cattolica e forse incisivo anche per
l’intero mondo cristiano; ovviamente quello autentico e sincero; e questo, sia
per le dimissioni storiche e senza precedenti del precedente Papa sia per ciò
che dice e promette il nuovo Papa Francesco. Un nome molto amato da tutti
cristiani, al di là delle appartenenze nazionali o di altra natura, ma che
rende più difficile il compito di colui che sembra voler essere vicino a una
certa visione spirituale e a una condotta coerente. Sembra una bella figura che
ispira sincerità». •

Per?Approfondire

•  Angela Lano, E dopo la primavera, arrivò l’inverno, Dossier Missioni Consolata,
gennaio 2013.
•  Marco Perissinotto – Hamid Masoumi Nejad, Iran, un viaggio in Persia tra Oriente e
Occidente
, Edizioni Polaris, Firenze 2013.
•  Alì Reza Jalali, La Repubblica Islamica dell’Iran tra
ordinamento interno e politica internazionale
, Irfan Edizioni, Roma 2013.
•  Matteo Bressan, Hezbollah, Datanews,  Roma 2012.
•  Giorgio Frankel, L’Iran e la bomba, Edizioni Derive e Approdi, Roma 2010.
•  Wael Hallaq, The Origins and Evolution of Islamic Law,  Cambridge University Press, 2005.
•  Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino, Carocci editore, Roma 2001.
•  Henri Laoust, Gli scismi nell’Islam, Ecig, Genova 1990.
•  Joseph Schacht, An Introduction to Islamic Law, Oxford
University Press, 1964.
•  Fulvio Grimaldi, Target Iran, documentario (in Dvd).


 Termini?arabi?e?farsi

Abbiamo scelto una
traslitterazione scientifica parziale per non appesantire con inserzioni
grafiche la lettura.

L’autrice

Angela Lano, giornalista e
scrittrice, orientalista per studi e passione, da molti anni viaggia in Medio
Oriente. Collaboratrice di MC, vive a
Salvador Bahia, Brasile.

Coordinamento editoriale:
Paolo Moiola, redattore MC.

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Angela Lano




N.E.1 – L’indifferenza e il Vangelo Spunti per una «Nuova Evangelizzazione» in Europa

Il Sinodo della Nuova Evangelizzazione


[Nuova Evangelizzazione] Cos’è?

 




L’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi,
che si è tenuta dal 7 al 28 ottobre 2012, ha avuto per tema «La nuova
evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Questo tema è
dibattuto da diverso tempo dentro la Chiesa, ma è diventato di scottante
attualità in questi ultimi anni soprattutto nel mondo Occidentale segnato da
consumismo e secolarizzazione.

Gli
insegnamenti del Magistero

I documenti preparatori al Sinodo dell’ottobre 2012
hanno sottolineato l’urgenza di trovarsi insieme per valutare come la «Chiesa
viv[a] oggi la sua originaria vocazione evangelizzatrice, a fronte delle sfide
con cui è chiamata a misurarsi, per evitare il rischio della dispersione e
della frammentazione» (Instrumentum Laboris [IL] 4).

Indirettamente, questa urgenza evidenzia la presa
di coscienza che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare la sfida della nuova
evangelizzazione nella consapevolezza che le trasformazioni non soltanto
interessano il mondo e la cultura, ma toccano la Chiesa stessa nelle sue
comunità, nelle sue azioni e nella sua identità (cf. IL 16). Inoltre manifesta
la volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei
cristiani e delle loro comunità. Affinché la Chiesa «moltiplichi il coraggio e
le energie a favore di una nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la
gioia di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Non
si tratta di immaginare soltanto qualcosa di nuovo o di lanciare iniziative
inedite per la diffusione del Vangelo, ma di vivere la fede in una dimensione
di annuncio di Dio: “La missione […] rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e
l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si
rafforza donandola!” (Redentoris Missio [RM] 3)» (IL 9).

Sulla scia del Concilio, papa Paolo VI osservava
con lungimiranza che l’impegno dell’evangelizzazione andava rilanciato con
forza e grande urgenza, e, fedele all’insegnamento conciliare, aggiungeva che
l’azione evangelizzatrice della Chiesa «deve cercare costantemente i mezzi e il
linguaggio adeguati per proporre o riproporre […] la rivelazione di Dio e la
fede in Gesù Cristo» (Evangelii Nuntiandi [EN] 56).

Papa Giovanni Paolo II, che fece di questo
impegno uno dei cardini del suo vasto magistero, ha sintetizzato nel concetto
di nuova evangelizzazione il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare
nelle regioni di antica cristianizzazione. Tale programma riguarda direttamente
la sua relazione con l’esterno, ma presuppone, prima di tutto, un costante
rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da
evangelizzata a evangelizzatrice. Basta richiamare alcune sue parole: «Interi
paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto
mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono
ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal
continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si
tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo mondo,
nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose
situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come
se Dio non esistesse”. […] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano
tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma
questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto
di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la
diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la
crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni
una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto
cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto
cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in
queste nazioni» (Christifideles laici 34).

Creando il nuovo «Pontificio Consiglio per la promozione
della nuova evangelizzazione», così Papa Benedetto XVI precisa il
contenuto del termine «nuova evangelizzazione»: «Facendomi dunque carico della
preoccupazione dei miei venerati predecessori, ritengo opportuno offrire delle
risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza
dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio
missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. […] La diversità
delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova
evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula
uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò
di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente
cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova
generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che
il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello
Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il
cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del
Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio» (Ubicumque
et semper
, 21/09/2010).

Nel frattempo, sulla scia della Redemptoris missio
(al numero 33) era intervenuta a precisare il senso del concetto di nuova
evangelizzazione anche la Congregazione per la Dottrina della Fede: «In
senso proprio c’è la missio ad gentes verso coloro che non conoscono
Cristo. In senso lato, si parla di “evangelizzazione” per l’aspetto ordinario
della pastorale, e di “nuova evangelizzazione” verso coloro che non seguono più
la prassi cristiana» (Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione,
3/12/2007, n. 12).

Una
sintesi

Dai vari pronunciamenti del Magistero e dai documenti
preparatori al Sinodo emerge che la nuova evangelizzazione consiste
nell’immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano
alla gente di uscire dal «deserto interiore»
, immagine usata da Papa
Benedetto XVI per raffigurare la condizione umana attuale prigioniera di un
mondo che ha espulso la questione di Dio dal proprio orizzonte. Avere il
coraggio di riportare la domanda su Dio dentro questo mondo; avere il coraggio
di ridare qualità e motivazioni alla fede di molti delle nostre Chiese di
antica fondazione
, questo è il compito specifico della nuova
evangelizzazione.

Il compito della nuova evangelizzazione non può essere
ridotto a un semplice esercizio di aggioamento di alcune pratiche pastorali,
ma richiede una comprensione molto seria e profonda delle cause che hanno
portato l’Occidente cristiano a trovarsi in una simile situazione.

Quindi il termine «nuova evangelizzazione» richiama
l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio
, soprattutto per coloro
che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della
secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in paesi di tradizione
cristiana.

La nuova evangelizzazione è da considerarsi anzitutto
come un’esigenza, poi come un’operazione di discernimento e infine come uno
stimolo alla Chiesa di oggi.

Cosa
s’intende per Nuova Evangelizzazione

Che cos’è la «nuova evangelizzazione»? Il Beato Papa
Giovanni Paolo II nel primo discorso che avrebbe dato notorietà e risonanza a
questo termine, rivolgendosi ai Vescovi del continente latinoamericano, così la
definiva: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione
[dell’America Latina, ndr.] avrà il suo pieno significato se sarà un impegno
vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno
non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel
suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» (Giovanni Paolo II, Discorso
all’Assemblea del Celam, Port-au-Prince
, 9/03/1983, n.3).

La nuova evangelizzazione è «la capacità da parte della
Chiesa di vivere in modo rinnovato la propria esperienza comunitaria di fede e
di annuncio dentro le nuove situazioni culturali che si sono create in questi
ultimi decenni» (IL 47).

Non si tratta di un nuovo modello di azione pastorale,
che si sostituisce semplicemente ad altre forme di azione (la prima
evangelizzazione, la cura pastorale), quanto piuttosto di un processo di
rilancio della missione fondamentale della Chiesa
. Quest’ultima,
interrogandosi sul modo di vivere l’evangelizzazione oggi, non esclude di
verificare se stessa e la qualità dell’evangelizzazione delle sue comunità. La
nuova evangelizzazione impegna tutti i soggetti ecclesiali (singoli,
comunità, parrocchie, diocesi, Conferenze Episcopali, movimenti, gruppi e altre
realtà ecclesiali, religiosi e persone consacrate) a una verifica della vita
ecclesiale e dell’azione pastorale, e richiede un lento ma efficace lavoro di
revisione del modo di essere Chiesa tra la gente, affinché le comunità
cristiane diventino veri centri di irradiazione e di testimonianza
dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro
bisogni.

La nuova evangelizzazione è il nome dato a questo
rilancio spirituale, a questo avvio di un movimento di conversione che la
Chiesa chiede a se stessa, a tutte le sue comunità, a tutti i suoi battezzati

I
Destinatari

Dai vari documenti e dai pronunciamenti del Magistero si
ricava che lo spazio geografico entro cui si sviluppa la nuova
evangelizzazione, senza essere esclusivo, riguarda primariamente l’Occidente
cristiano. Così pure i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono
sufficientemente identificati: si tratta di quei battezzati che nelle nostre
comunità vivono una nuova situazione esistenziale e culturale, dentro la quale
di fatto è compromessa la loro fede e la loro testimonianza.

È chiaro che la nuova evangelizzazione assume
l’Occidente come luogo di «esempio tipico», piuttosto che come obiettivo unico.
Perché l’urgenza della nuova evangelizzazione non può essere ridotta a
situazioni che riguardino esclusivamente l’Europa e il Nord America.

Come afferma Papa Benedetto XVI, «anche in Africa, le
situazioni che richiedono una nuova presentazione del Vangelo, non sono rare. […]
La nuova evangelizzazione è un compito urgente per i cristiani in Africa, perché
anch’essi devono rianimare il loro entusiasmo di appartenere alla Chiesa. Sotto
l’ispirazione dello Spirito del Signore risorto, essi sono chiamati a vivere, a
livello personale, familiare e sociale, la Buona Novella e ad annunciarla con
rinnovato zelo alle persone vicine e lontane, impiegando per la sua diffusione
i nuovi metodi che la Provvidenza divina mette a nostra disposizione» (Africarne
Munus
nn. 165.171).

Il
«che cosa»

In che cosa consiste allora? Perché chiamarla «nuova»? «Non
amo questo aggettivo “nuova”. Sempre la Chiesa ha evangelizzato; se non lo
avesse fatto, non sarebbe più stata la Chiesa di Cristo! Il termine “evangelizzazione”,
poi, contiene già la novità della “buona notizia”; in questo senso
l’espressione “nuova evangelizzazione” è un pleonasma» (Enzo Bianchi).

Naturalmente la novità non intacca il contenuto del
messaggio evangelico che è immutabile. «Nuova evangelizzazione non significa un
“nuovo Vangelo”, perché “Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre” (Eb 13,8)»
(IL 164). Per questo, il Vangelo deve essere predicato in piena fedeltà e
purezza, così come è stato custodito e trasmesso dalla tradizione della Chiesa.
Evangelizzare significa annunciare una persona, che è Cristo. Infatti, «non
c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il
regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati» (En
22). «Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve
annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno
quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (IL 165).

È un dato storico da tutti ammesso che i primi cristiani
erano vivacemente missionari, convinti di dover portare al mondo una notizia
attesa. Questa vivacità nasceva prima di tutto dall’esperienza del loro
personale incontro con Gesù Cristo più che dalla lettura delle molte emergenze
(fame, schiavitù, oppressione politica …) in cui gli uomini del tempo
vivevano. L’urgenza e l’universalità della missione nasce dall’interno, dalla
propria esperienza dell’incontro con Gesù Cristo. I primi cristiani sono
diventati missionari perché hanno fatto un incontro che ha cambiato la loro
vita.

La
novità è Cristo

L’evangelizzazione è sempre l’annuncio della novità di
Gesù Cristo. È questa l’anima profonda di ogni nuova evangelizzazione, che non
voglia essere puramente retorica, o subito vecchia. Quindi parlare di nuova
evangelizzazione significa parlare di una novità che non tocca soltanto il
metodo, ma il Vangelo stesso. Perché oggi il Vangelo deve misurarsi con urgenze
mai incontrate e rispondere a domande inedite. Nuova evangelizzazione è
mostrare che il Vangelo sa rispondere ai problemi della post-modeità.

È un punto importante: non è solo una questione di
adattamento, di forma o di strategia, come purtroppo molti sembrano pensare, ma
di «comprensione» (rispondere alla domanda «cosa significa/mi dice il Vangelo
oggi?»). Le domande che la storia pone in ogni epoca al Vangelo non sono mai, o
quasi mai, semplici occasioni che offrano il destro per un restyling per
adattare il messaggio di sempre ai tempi, alle culture e ai linguaggi di oggi,
ma provvidenziali spiragli che possono aiutare a intravedere contenuti inediti
per fare emergere la sua «perenne» novità anche nell’oggi. Il Vangelo è
quello di sempre, ma nuovo deve essere il modo di comprenderlo, non soltanto il
modo di ridirlo.

In
ascolto della Parola

Chiarito questo, se è vero che l’evangelizzazione è
rivolta a tutti, e nessuno può essee escluso perché la missione della Chiesa,
per volontà del Signore, è universale (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,15; Lc 24,47; At
1,8), è altrettanto vero che essa deve essere evangelizzazione continua
della Chiesa
, intendendo tale genitivo in primo luogo come genitivo
oggettivo
(la Chiesa è evangelizzata, ha bisogno cioè di ridirsi il Vangelo
per comprenderlo in modo nuovo) e solo in seconda istanza come genitivo
soggettivo
(ossia la Chiesa evangelizza gli uomini). Non si possono
dimenticare, al riguardo, le parole profetiche scritte da Paolo VI quasi
quarant’anni fa, nella sua splendida esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi
: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se
stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata,
comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che
deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore.
[…] Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere
evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il
Vangelo» (En 15).

La missione evangelizzatrice della Chiesa consiste nel
farsi eco della Parola perché ogni uomo possa ascoltarla come rivolta a sé,
come Parola salvifica, e lasciarsi illuminare da essa. Nello stesso tempo la
chiesa, se vuole veramente essere annunciatrice di questa Parola, deve in primo
luogo dedicare tutte le sue energie ad ascoltare la Parola stessa, sapendo che «la
fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), deve essere e sentirsi «affidata al
Signore e alla Parola della sua grazia» (At 20,32): solo un’ecclesia audiens
(che ascolta) può anche essere un’ecclesia docens (che insegna), perché la
Parola che la Chiesa annuncia e testimonia non è sua ma di Dio. È Dio che parla
nell’evangelizzatore. Se Dio parla il profeta non può tacere (Is 7,3; Ger 1,4;
18,18; Ez 1,3). Il profeta non parla di Dio, lascia parlare Dio; egli parla
dopo aver ricevuto la Parola di Dio,

Antonio Rovelli


Le sorprese di Dio

«La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci
sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire,
a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre
sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo,
lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con
piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito santo l’anima, la guida della
nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere
strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso,
egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza,
quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità -, trasforma e
chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e
si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè
affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli
Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il
Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la
noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande
durante tutta la giornata» (Francesco, omelia di Pentecoste 2013).

Antonio Rovelli




1. Iran: L’ayatollah e il presidente

L’enigma Iran (dopo le elezioni di giugno). La teocrazia sciita: una lettura
alternativa.


di Angela Lano, orientalista

I «cattivi» hanno un nuovo leader

«Sono
felice che finalmente il sole della razionalità e della moderazione
torni a brillare in Iran», così ha esordito, sorridendo, il neopresidente della
Repubblica islamica dell’Iran, esprimendo il desiderio che l’Occidente assuma
verso il suo paese un atteggiamento diverso dal recente passato, «basato sul
reciproco rispetto e sull’equità».

Dal 15 giugno lo «Stato canaglia» (secondo la
definizione Usa) ha dunque il suo nuovo 
presidente, il settimo (l’11° se contiamo i tre ad interim): è il
clerico sciita Hassan Rohani, colto, poliglotta, conservatore moderato ma
aperto a nuove relazioni con l’Occidente. È stato eletto al primo mandato,
diversamente da come molti si aspettavano, con la maggioranza assoluta dei
voti, raccolti sia tra i sostenitori della linea riformista sia tra i
conservatori.

L’esclusione, da parte della Guida suprema ’Ali
Khamenei, della candidatura, tra le altre, dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi
Rafsanjani, una figura carismatica (ancorché controversa) che avrebbe
probabilmente attratto molte preferenze, ha favorito l’unico rappresentante dei
moderati.

Lo slogan di Rohani è stato: «Moderazione, razionalità e
acume» ed evidentemente è risultato vincente rispetto a quello di altri
candidati, conservatori e piuttosto popolari, come il sindaco di Teheran,
Mohammad Baqer Qalibaf, o l’ex ministro degli Esteri, Ali Akbar Velayati.

L’embargo, e i suoi drammatici effetti sulla vita
economica e sociale del paese, e il boicottaggio internazionale, le sanzioni,
la propaganda occidentale, che descrive l’Iran come una nazione di folli,
saranno tra le questioni principali che il nuovo leader dovrà affrontare, in
quanto centrali per gran parte della popolazione. Nel frattempo, egli ha già
incassato i commenti positivi della Casa Bianca, e soprattutto dichiarazioni di
disponibilità a «impegnarsi con il nuovo governo iraniano per trovare una
soluzione diplomatica sul fronte del nucleare». Anche dall’Europa non sono
mancati commenti favorevoli e di apertura.

Una
società vivace e dinamica

La vittoria di Rohani è stata salutata con entusiasmo
dai sostenitori delle linee riformista e moderata, che vedevano in Khatami,
Karrubi, Rafsanjani, Mussavi dei leader che avrebbero potuto garantire al paese
un’apertura verso la comunità internazionale e un allentamento del controllo
esercitato dal clero, che – per una parte della società iraniana – rappresenta
un motivo di tensione sociale e malcontento.

Gli iraniani non sono, infatti, una massa monolitica e
uniforme, orientata in modo unidirezionale. Si possono trovare tante idee
diverse, sentimenti, bisogni, storie e speranze. Le giovani generazioni, colte,
poliglotte, vogliono poter viaggiare per il mondo, lavorare e fare carriera, e
anche divertirsi. Diversi di loro contestano le rigidità morali e religiose del
regime e vorrebbero più concessioni e più aperture, soprattutto in tema di
relazioni interpersonali, tempo libero, e di comunicazione virtuale  – internet e i social network, che –
dopo la rivolta del 2009 (scatenatasi dopo la rielezione del presidente
Ahmadinejad) – hanno subito un giro di vite, con censure, filtri e controlli.

«In Iran – ci spiega Ali Reza, ricercatore
italo-iraniano di studi geopolitici -, le università sono il luogo prediletto
della militanza, e il clima, al contrario di quello che si pensa, è molto
dinamico. Proprio qualche tempo fa ho potuto constatare come negli atenei vi è
una vivacità politica dei giovani, simile a quella che c’era in Italia negli
anni ‘60 e ‘80. Nelle università iraniane e negli ambienti della militanza
giovanile c’è veramente di tutto. Senza ombra di dubbio l’ambiente più libero
per il dibattito politico in Iran è l’università. Ricordo, addirittura, che
qualche anno fa fu organizzato un concerto di un gruppo heavy-metal nell’auditorium
dell’Università di Teheran. Il tutto ovviamente era illegale, ma si fece
ugualmente. Mi faceva sorridere molto l’immagine dell’imam Khomeini e della
Guida attuale, ayatollah Khamenei, che sovrastava l’ingresso
all’auditorium, con i metallari che lepassavano sotto. Anche questo è l’Iran,
un paese strano. Per ciò che riguarda la libertà religiosa devo dire che in
Iran, in base alla Costituzione, oltre all’Islam (anche sunnita), sono
ufficialmente riconosciute le comunità cristiane, ebraiche e zoroastriane. A
Teheran vi sono diverse chiese. Questo paese, senza ombra di dubbio, non è
retto da un sistema liberaldemocratico, ma il fatto che lo stato sia islamico
non vuol dire per forza che viga un regime talebano».

«Perché vi facciamo paura?»

Quella iraniana è una società accogliente e cordiale,
con un alto livello scolastico, orgogliosa della propria antica civiltà.
L’immagine che si ha viaggiando per il paese, fermandosi a chiacchierare con la
gente, visitando le sue vestigia storiche, e scoprendo la sua millenaria
cultura, è ben diversa da quella dipinta da molti media italiani e occidentali
in generale, e dal film premio Oscar Argo, una produzione politica
hollywoodiana di mera propaganda, che ritrae gli iraniani come dei pazzoidi
barbuti, violenti e pericolosi.

Le domande più frequenti che essi rivolgono a turisti,
amici e giornalisti stranieri sono: «Perché vi facciamo paura?», «Perché ci
odiate?», «Perché ci avete messi sotto embargo?», «Perché pensate che abbiamo
intenzioni belliche nei vostri confronti?».

Vogliono capire, nel modo curioso e simpatico che li
contraddistingue, le ragioni di tanto livore e sfiducia nei loro confronti.
Ragioni a cui non è affatto estranea la controversa «questione nucleare», molto
enfatizzata negli Usa e in Israele e seguita a ruota dall’Europa, e che il
nuovo presidente dovrà affrontare.

Il nucleare, Israele e il mondo 

Spiega bene le cause dei timori occidentali Giorgio
Frankel, storico ebreo torinese (morto l’anno scorso), nel suo interessante
libro L’Iran e la bomba: «Il profilo comportamentale di un futuro Iran
nucleare proposto dai media afferma che l’Iran è irrazionale e fanatico, votato
alla distruzione di Israele e alla conquista del mondo, immune da quella
fondamentale logica della deterrenza che anche durante la Guerra fredda ha
assicurato uno stabile equilibrio nucleare a livello globale, e quindi disposto
a subire devastanti contrattacchi nucleari pur di poter lanciare le sue
(future) armi atomiche contro i suoi avversari. (…) Alcune delle
caratteristiche che quel profilo attribuisce all’Iran, come per esempio
l’irrazionalità, la politica estera dominata dal fanatismo ideologico e
l’espansionismo potrebbero essere semplicemente non vere. L’esperienza storica
suggerisce, infatti, che il regime iraniano si muova razionalmente, conduca una
politica estera cauta e pragmatica e non persegua mire espansionistiche».

L’Iran ha deciso di arricchire l’uranio al 20 per cento
per fini civili, per far funzionare, ad esempio, il Tehran Research Reactor
che produce sostanze mediche per i malati. Sia gli Usa e Israele sia l’Europa
hanno spesso accusato il Paese di perseguire la ricerca nucleare per fini
bellici, nonostante le ripetute smentite di Teheran, che ha ricordato che, in
quanto firmatario del Trattato di non proliferazione (Tnp) e membro dell’Inteational
Atomic Energy Agency
(Iaea), è nel diritto di sviluppare tecnologia
nucleare per scopi pacifici.

Il braccio di ferro tra le richieste occidentali,
pilotate dagli Stati Uniti e Israele, e le rivendicazioni del governo iraniano
hanno portato più volte crisi tali da far intravedere alle porte una svolta
militare, con navi da guerra posizionate nel Golfo Persico, sia da parte
americana sia da parte iraniana.

Dal canto loro, sia il regime di Tel Aviv sia i falchi
del Congresso Usa continuano a spingere verso il conflitto, ma senza convincere
per il momento del tutto né Washington né la comunità internazionale.

La guerra intraislamica e la Siria

L’attuale guerra civile in Siria, oltre a voler
abbattere l’ormai difficilmente difendibile (dal punto di vista etico-morale)
regime di Bashar el-Assad, si inserisce nel contesto dei conflitti regionali
volti a indebolire l’Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah, alleati di
Damasco, e a destabilizzare i grandi interessi russi e cinesi in Medio Oriente.

Il caos creato dalla guerra civile intra-islamica (fitna,
disaccordo, disputa, fino alla guerra) tra sunniti e sciiti, avversari storici
dai tempi della lotta per la successione (khilafa) del profeta Muhammad
(dal 632 d.C. in poi), risulta funzionale alla nuova spartizione
statunitense-europea del Mediterraneo e Medio Oriente.

Il conflitto interno al mondo islamico sta prendendo
sempre più forza e radicalità, grazie ai continui appelli al jihad
(sforzo interiore sulla via del Bene, e anche, come in questo caso, lotta
militare) contro gli alawiti (setta sciita) al potere in Siria, definiti
kuffar (miscredenti) e rafidi (rinnegati), da parte di
telepredicatori salafiti piuttosto popolari tra le comunità islamiche nei paesi
arabi e anche in Europa.

Leggendo qua e là nei siti arabi o su Fb i tanti appelli
e commenti che istigano al conflitto settario si comprende bene la dimensione
della tragedia in corso e la morte di ogni forma di ragione: giovani e adulti
musulmani sunniti, di origini o convertiti, nel XXI secolo hanno ripreso le
armi (anche solo verbali) per la nuova guerra contro gli «eretici», e a nulla
valgono i discorsi dei loro fratelli più informati o semplicemente più
razionali, che tentano di far capire loro la trappola politica in cui sono
cascati.

Un conflitto di natura geo-politica si è dunque
trasformato in guerra di religione, grazie al ruolo e al sostegno economico e
mediatico-dottrinale di Qatar e Arabia Saudita, stretti alleati di Stati Uniti,
Israele ed Europa.

«Il crollo dell’Urss – aggiunge Ali Reza – non ha
modificato l’obiettivo vero degli Usa nel continente eurasiatico, ovvero
l’accerchiamento geopolitico della Russia (e della Cina). In un contesto del
genere l’Iran ha un ruolo importante, in quanto se la Repubblica islamica si
alleasse con la Russia, gli Usa non riuscirebbero a completare l’accerchiamento
di Mosca da sud, in Medio Oriente, dopo che il crollo del blocco sovietico ha
proiettato la Nato a ovest dei confini russi. Le sanzioni all’Iran promosse
dall’Occidente, quindi, non sono nate, come ufficialmente viene detto, per
evitare che il paese mediorientale arrivi alla bomba atomica (esse infatti
vigevano anche prima che si sapesse del programma nucleare), ma solanto per
creare problemi all’economia iraniana, fomentando il caos sociale nella
speranza di una sommossa popolare».

In questo momento storico, dunque, il progetto americano
di destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente è appoggiato, in vario modo e
con consapevolezze diverse, da quel mondo sunnita fondamentalista per cui un «nemico»
esterno è meglio di un «eretico» interno.

Con l’uso della ragione

Tra sunniti e sciiti ci sono basi comuni che poggiano su
Corano e hadith (i detti e fatti del profeta Muhammad) e sviluppi
teologici e giuridici diversi, alcuni quasi contrapposti: oltre alla
fondamentale divergenza sull’imamato (vedi box), esiste anche un
differente peso dato all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Gli sciiti,
infatti, usano lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale» al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh) che si basa sul
principio di analogia per induzione (cioè l’analisi di casi simili nella
produzione di  leggi), utilizzato dai
sunniti. Dal secolo X, sono prevalentemente gli sciiti a far riferimento allo ijtihad,
mentre i sunniti praticano il taqlid, o accettazione, imitazione, e
principio dell’emulazione.

Se per gli sciiti l’uso del ragionamento individuale, e
la ricerca continua che ne deriva, è causa-effetto di maggiore apertura mentale
e vivacità culturale rispetto ai sunniti (e ai fondamentalisti in particolare),
il vilayat-e faqih  (la tutela dei
giuristi), cioè l’autorità di dirigere e governare nella prosecuzione della «vilayat
degli infallibili Imam» (a sua volta continuazione di quella del profeta Muhammad),
va a istituire le linee costitutive della teocrazia.

Per lo sciismo, infatti, a guidare e governare la società
deve essere un conoscitore dell’Islam, che sarà un Infallibile. Se costui non
dovesse essere presente, saranno gli scienziati, giuristi, islamici a svolgere
tale ruolo. Dovere fondamentale del governo è quello di farsi veicolo e tutore
degli ideali e delle leggi divine.

La teocrazia iraniana

La forma di governo iraniana è oggetto di incomprensioni
e speculazioni, e paragoni con i sistemi politici occidentali. Tuttavia, va
sottolineato che i parallelismi non funzionano, in quanto bisogna tenere conto
di una peculiarità: l’Iran è una teocrazia basata su un sistema elettorale
universale democratico. La religione e il clero detengono il vero potere. Nella
Repubblica islamica lo stato e i suoi funzionari sono sottoposti al potere
religioso: la Costituzione, infatti, prevede un sistema misto di democrazia e
teocrazia. Quest’ultima si basa su un concetto giuridico sciita duodecimano (la
forma di sciismo al potere in Iran), il sopracitato vilayat-e faqih,
ripreso da Ruhollah Khomeini dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che scacciò
il regime dello shah Reza Palhavi.

Secondo questo concetto, i giuristi sono gli unici
governanti giusti, in quanto «Dio ha ordinato un governo islamico». Solo gli
esperti in studi religiosi e nella giurisprudenza islamica «possono garantire e
preservare l’ordine islamico e prevenire di deviare dal giusto sentirnero
dell’islam» («Islam and Revolution, Writigns and Declarations of Imam
Khomeini
»).

In base a tali criteri, dunque, anche il presidente
della Repubblica è subordinato all’ordine religioso e alla linea politica
intea ed estera dettata dai Guardiani della rivoluzione, gli ayatollah.

Di per sé, il «piano religioso» non preclude né lo
sviluppo economico né quello scientifico e culturale, e la storia degli antichi
Imperi islamici (ommayyadi, abbassidi, i regni fatimidi, la dinastia Ottomana,
tanto per fare un esempio) lo ha dimostrato, attraverso l’importante e vasto
bagaglio scientifico-filosofico-tecnologico-urbanistico passato all’Europa
Medioevale dal mondo arabo-musulmano.

Nonostante l’embargo

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Iran è la
17ª potenza economica del mondo, e, in base al piano strategico di Tehran
denominato «Iran 2035», nel prossimo ventennio dovrebbe far parte delle prime
sette potenze economiche del mondo. Ci spiega ancora Ali Reza: «Nonostante il
pesante embargo economico e le difficoltà, le statistiche dimostrano che
nell’ultimo ventennio la giustizia sociale è aumentata, così come il benessere
generale. Negli anni ‘80 in Iran c’era un’automobile ogni 27 persone, oggi
invece un’automobile ogni 7. Sull’isolamento politico e diplomatico dell’Iran
bisogna dire che, in primo luogo, la Repubblica islamica è a capo del Movimento
dei paese non allineati, ovvero un gruppo di 120 nazioni. È un paese membro
osservatore del Trattato di Shanghai per la Cooperazione, alleanza eurasiatica
che riunisce Russia, Cina, India e altri paesi di questo agglomerato imponente
di nazioni che vanno dalla Bielorussia all’Estremo Oriente. Entro il 2050
questi paesi, nel loro complesso, produrranno circa la metà del Pil (prodotto
interno lordo), reale e nominale, del mondo intero».

Per lo «Stato canaglia» si profila dunque un presente e
un futuro pieni di sfide che la sua popolazione sembra voler affrontare, e
vincere.•

 
       Hassan Rohani, il presidente                                                                   

Chi è il settimo presidente della Repubblica islamica
dell’Iran? Certamente un ortodosso, ma moderatamente progressista.

A seguito delle elezioni del 14 giugno 2013 Hassan Rohani,
64 anni, è diventato il 7° (11° se si contano gli interim) presidente della
Repubblica islamica dell’Iran. Rohani ha conquistato già al primo tuo il 50,7 per cento
dei voti (18,6 milioni), precedendo il sindaco di Teheran Mohammad Baqer
Qalibaf. Rohani è nato a Sorkheh, nella provincia di Semnan, il 13 novembre del
1948, da una famiglia religiosa. Nel 1972 si è laureato in Legge all’Università
di Teheran, e successivamente ha ottenuto un Master e un PhD alla Glasgow
Caledonian University. Rappresenta il leader della Rivoluzione islamica,
l’ayatollah  Seyyed Ali Khamenei (si veda
box) al Consiglio supremo della sicurezza nazionale. In gioventù aveva preso
parte alle lotte politiche contro lo Shah. Dopo la Rivoluzione islamica del
1979, Rohani fu eletto al Parlamento per cinque mandati consecutivi, fino al
2000, e ricoprì cariche importanti: vice-presidente del Majlis (Consiglio) e
capo dei Comitati di difesa e politica estera. Durante la guerra con l’Iraq
(1980-1988) fu comandante dell’aviazione militare iraniana. Rohani parla
fluentemente inglese, arabo e persiano. Ha scritto oltre un centinaio di libri
e articoli. È stato negoziatore nucleare iraniano negli anni 2003-2005. Nella
campagna elettorale Rohani ha rappresentato riformisti e i moderati; l’altro
candidato riformista, Mohammed Reza Aref, si era ritirato su invito dell’ex
presidente Mohammad Khatami. Rohani ha attratto i voti non solo di quella parte
del paese schierata con riformisti e moderati, ma anche dei cittadini stanchi
degli effetti dell’embargo e dell’isolamento diplomatico del paese. Dei sei
candidati, Rohani era considerato l’unico moderatamente progressista, intenzionato
a liberare i prigionieri politici e a riallacciare i legami con l’Occidente. •

 
       Ayatollah Khamenei, la Guida suprema                                                   

Sopra il presidente della Repubblica c’è il leader
della Rivoluzione islamica. Perché sopra la politica c’è la religione. Questa è
la teocrazia iraniana.

Il leader della Rivoluzione dell’Iran (vali-e faghih-e iran o anche rahbar-e enghelab) è la maggiore autorità
politica e religiosa del paese. Il ruolo fu istituito dalla Costituzione
iraniana in accordo con la Guida dei giuristi islamici, a seguito della
Rivoluzione del 1979, e dal giugno del 1989 è ricoperto dall’ayatollah ‘Ali
Khamenei, che succedette a Ruhollah Khomeini. Il leader supremo è più potente
del presidente della Repubblica. Egli nomina i dirigenti di diversi importanti
incarichi nazionali – militari, governativi, della magistratura, dei mezzi
pubblici di informazione -, orienta la politica estera della nazione e decide
della pace e della guerra. Decide la lista dei nomi dei candidati per le
elezioni del potere esecutivo e legislativo sia a livello nazionale sia locale,
così come nomina 6 dei 12 membri del «Consiglio dei guardiani», una sorta di
Corte suprema, che giudica la costituzionalità delle leggi approvate dal
Parlamento. Il suo potere non può essere messo in discussione, in base al
principio del velayat-e-faqih che
stabilisce la supremazia della religione sulla politica, dell’ambito spirituale
rispetto alle questioni materiali. La Costituzione richiede che il Leader della
Rivoluzione conosca la giurisprudenza islamica, sia giusto e compassionevole,
goda della stima della popolazione. Nella sua storia, la Repubblica islamica
d’Iran ha avuto due Guide supreme: Ruhollah Khomeini e Sayyed Ali Khamenei.

Ayatollah (āyat
Allāh
, segno di Allah). È un titolo onorifico dato agli esponenti di grado
elevato del clero sciita. Si tratta di esperti in giurisprudenza, scienza e
filosofia islamiche. Essi insegnano in hawza,
scuole o seminari islamici. Sotto gli ayatollah ci sono gli hujjat al-Islām (in persiano, hojjatol-eslam, prova o autorità
dell’Islam). Khatami, Rafsanjani e l’attuale presidente Rohani, tra i più noti,
sono hojjatol-eslam.

Gran ayatollah o ayatollah uzma.  È un titolo
garantito a pochi ayatollah, particolarmente seguiti dai fedeli e i cui scritti
sono presi come guida. Un Gran ayatollah è infatti un marja’al-taqlīd, cioè un giurista-teologo dello sciismo duodecimano
che gode di grande autorevolezza nell’esegesi dei testi sacri e che i fedeli
devono imitare.

Le ayatollah. L’Islam sciita contempla
l’esistenza di donne ayatollah, e – anche se in numero ridotto – sono
considerate al pari dei loro colleghi maschi. Sono le mujtahideh. •

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Angela Lano




2. Iran: Sunniti  e Sciiti

Tabella sintetica di paragone tra Sunniti e Sciiti

SUNNITI

Profeta
– Muhammad
(nome completo: Abu- l-Qasim Muhammad ibn ʿAbd Allah ibn ʿAbd al-Muttalib al-Hashimi) nacque
a Mecca intorno al 570 d.C. e morì a Medina nel 632. Era parte del clan
hashimita della potente tribù araba dei Quraysh. Fu il Profeta e il fondatore
della religione musulmana, secondo la tradizione islamica, incaricato da Dio
(Allah), attraverso l’angelo Gabriele (Jibril), di diffondere la sua Parola (il
Corano) tra gli Arabi, allora politeisti.

Nascita
sunniti
– È la corrente che si formò dopo la morte del
profeta Muhammad tra coloro che appoggiarono la nomina a califfo (khalifa,
vicario, successore) di Abu Bakr, uno dei primi compagni, convertiti all’Islam
e uno dei suoceri di Muhammad (era il padre di ‘Aisha, la giovane e battagliera
sposa). I sunniti sono i seguaci della sunna (pratica, tradizione)
secondo quanto raccontato dai compagni del Profeta (sahaba) negli ahadith
(hadith, al singolare), detti e fatti di Muhammad. Essi si considerano
il ramo ortodosso dell’Islam.

Diffusione
– La maggior
parte dei musulmani sono sunniti. Circa l’80% del totale.

Tradizione
– I sunniti,
chiamati anche Ahl al-Sunna, credono che la sunna del Profeta –
di cui sono parte, insieme al Corano, la collezione di ahadith – debba
essere seguita come esempio da tutti i musulmani. Gli ahadith, decine di
migliaia, riportati da amici e compagni della prima ora, furono scelti da
ricercatori e storici dei secoli XI e XII, sulla base di criteri di affidabilità
in una isnad (catena di trasmissione) che doveva arrivare, a ritroso,
fino a Muhammad. I sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal
Profeta e non dei suoi discendenti.

Clero
– Non c’è un
vero e proprio clero. Chiunque, preparato islamicamente, può essere un imam,
cioè colui che guida la preghiera, il culto, o essere chiamato shaykh.
Il mondo arabo sunnita brulica di shuyukh (plurale di shaykh),
perché è sufficiente essere benestante, o anziano, o avere un ruolo di
visibilità e responsabilità in gruppi, associazioni, comunità, o nella società,
per ottenere tale titolo onorifico, in segno di rispetto o deferenza. Sono
invece i saggi, gli studiosi (‘ulema’, mufti, mullah) che dominano il
discorso religioso con le loro prediche, in particolare su internet o in
televisione.

Imam
– È colui che
guida la preghiera, cioè colui che sta davanti ai fedeli e conduce il culto; e
i quattro fondatori delle scuole giuridiche. Il titolo imam era usato
parallelamente a quello di Khalifa.

Testi
sacri
– Sono il
Corano e gli ahadith.

Religione
e politica
– Secondo i
sunniti stato e religione non sono separabili.

Scuole
di giurisprudenza
– I sunniti
prevedono scuole (madhhab, strada, cammino) di giurisprudenza (fiqh),
che seguono le linee di quattro grandi pensatori: malikita, shafi’ita,
hanbalita
e hanafita. Tali scuole giuridiche si formarono entro il
XII secolo: il sunnismo segue un pensiero fermo a quella epoca, con alcune
riforme apportate nei secoli successivi, fino al riformismo islamico
dell’Ottocento-Novecento, quello che portò poi alla formazione del neosalafismo
e del fondamentalismo in generale. Nell’elaborazione delle leggi del diritto
islamico i sunniti praticano il taqlid, inteso come accettazione,
imitazione, emulazione.

Celebrante
– Il
predicatore, khatib, sta in piedi su un pulpito, minbar.

Moschee  – Sono costruzioni semplici e austere. A parte quelle del
passato di architettura arabo-islamica o ottomana.

Pilastri
del culto – Per i sunniti
sono 5: 1) la testimonianza di fede, al-shahada; 2) la preghiera
rituale, al-salah; 3) l’elemosina canonica, al-zakah; 4) il
digiuno durante il mese di Ramadan, sawm o siyam; 5) il
pellegrinaggio a Mecca almeno una volta nella vita, hajj.

Professione
di fede (shahada)
– Si ripete la
formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo
Profeta». Questa frase è ripetuta anche durante il richiamo alla preghiera, l’adhan.

Atteggiamento
nella preghiera
– I credenti
eseguono le preghiere con le mani congiunte all’altezza del diaframma, e su un
tappeto. Stanno l’uno vicino all’altro, e alla fine del ciclo di orazioni,
girano il capo a destra e poi a sinistra.

Donne
–  Il ruolo delle donne e quello
degli uomini, sia nelle società sciite sia in quelle sunnite, differisce in
molti aspetti, e dipende da stato a stato. Alcuni studiosi prevedono lo jihad
al-Nikah
(un «matrimonio temporaneo per il jihad»): tale pratica
legittima la partecipazione femminile al jihad attraverso il proprio
corpo offerto ai jihadisti impegnati nelle guerre contro i nemici. (In
realtà, a fronte di qualche decina di ragazze che si offrono volontarie,
sperando nella ricompensa del paradiso, tale pratica è usata per legittimare
decine di migliaia di stupri commessi – ad esempio – ai danni di bambine e
ragazzine siriane sia in Siria che nei vari campi profughi).

Velo
islamico
–  L’uso del velo per le donne
musulmane è obbligatorio sia nel mondo sunnita sia nel mondo sciita, in base ai
versetti di due sure del Corano (XXXIII, 59 e XXIV, 31).

Feste
– I sunniti
celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di
digiuno, Ramadan, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del
pellegrinaggio (hajj) a Mecca.

Cibi
e bevande
– È vietata la
carne di maiale, così come il consumo di alcolici. •

SCIITI

Profeta
– Nessuna
differenza con i sunniti sulla figura di Muhammad.

Nascita
sciiti
– Da shiʿa, shi‘at ‘Ali, «partito di ‘Ali», cugino e
genero di Muhammad. Si costituì, secondo la tradizione sciita, nel giorno di Ghadir
Khum
, quando Muhammad alzò la mano di ‘Ali mostrando che lui sarebbe stato
il suo successore (khalifa) nella direzione della comunità islamica, umma.
Gli sciiti credono che il califfato spettasse a ‘Ali e che gli fu ingiustamente
sottratto con la nomina di altri tre successori, prima di lui – Abu Bakr, ‘Omar
e ‘Uthman – che loro non riconoscono. Costituiscono il secondo gruppo
dell’Islam.

Diffusione
– Il
10-15% dei musulmani è costituito da
sciiti delle diverse correnti (duodecimana, la principale, e poi ismaelita,
zaidita). Lo sciismo (si veda la cartina) è diffuso in Iran (la
maggioranza della popolazione), Iraq (un terzo della popolazione musulmana),
Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Azerbaigian
(85%), Yemen (50%), Siria, Turchia, e in altre parti del mondo, compreso
l’Occidente.

Tradizione
– Sono chiamati
Ahl al-Bayt, la gente della Casa. Anche loro seguono gli ahadith,
ma accettano anche detti di discendenti del Profeta.

Clero
– Ha un clero
organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche o nelle hawza
(scuole teologiche). Per diventare shaykh c’è bisogno di una cerimonia,
mentre, per salire nella gerarchia, il credente deve continuare a studiare, fino
a diventare mullah e poi ayatollah. Nello sciismo l’ayatollah
(ayatu-l-Lah, segno di Dio) è considerato il più alto dignitario del
clero. È un titolo conferito a coloro che hanno ottenuto meriti, sia per
proclamazione che per nomina da parte di un altro ayatollah. Per
diventare ayatollah, oltre agli studi specifici e una grande conoscenza
della religione, il fedele deve essere un discendente diretto di Muhammad.

Imam
– L’imam
è colui che deve guidare la religione in assenza del Profeta. Per i Duodecimani
sono 12 gli imam, tutti discendenti di Muhammad, e dotati di
infallibilità. Il 12° imam è l’imam occulto, il Mahdi. Quello
dell’imamato è un concetto-chiave che distingue sciiti da sunniti.

Testi sacri – Come i sunniti, con un’estensione
per gli ahadith.

Religione
e politica
– Gli sciiti hanno una tradizione di
indipendenza dei leader religiosi rispetto a quelli politici. Tuttavia, lo
stato è soggetto al clero, il quale monitora e decide se un governante è degno
di governare e se rispetta le linee guida islamiche.

Scuole
di giurisprudenza
–  La maddhab sciita è la jafarita,
ma ce ne sono molte altre, e ogni credente segue le scuole che ritiene meglio,
senza imposizioni preordinate. Lo sciismo non accetta l’imitazione di giuristi
morti, ma segue quelli in vita. Inoltre, i saggi/studiosi sciiti di scienze
religiose divergono dai loro colleghi sunniti perché danno molto più peso
all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Per esempio, al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh, che si basa sul
principio di analogia per induzione, analizzando casi simili), gli sciiti usano
lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale». Rappresenta lo sforzo di
riflessione che gli ‘ulema’ (scienziati, studiosi di scienze islamiche)
o i mufti (accademici islamici cui è riconosciuta la capacità di
interpretare la legge, la shari‘a) intraprendono per interpretare le
fonti della legge (usul al-fiqh) e formare opinioni legali qualificate,
dando regole al fedele e informandolo sulla liceità o meno di un’azione.

Celebrante
– Il
predicatore sta in piedi di fronte alla comunità.

Moschee
– Le moschee
sciite sono decorate finemente, esteticamente accoglienti e attraenti. Si
confronti una qualsiasi moschea dell’Arabia Saudita con quelle di Teheran o
Isfahan, capolavori di bellezza e arte.

Pilastri
del culto
– Nello sciismo
duodecimano ci sono 10 pilastri, chiamati «ausiliari della fede» (furuʿ al-din): 1) al-salah (in
persiano, namaz); 2) sawm; 3) al-zakah (2,5% della
ricchezza; non prevede donazioni in denaro, ma in oro, grano, animali,
prodotti); 4) khums, una tassa annuale del 20% circa del reddito da
donare agli imam e ai bisognosi; 5) hajj; 6) jihad, la lotta
sulla via di Dio (ce ne sono di molte tipologie); 7) amr-bil-Marouf,
incoraggiare, prendere parte a ciò che è buono; 8) nahi anil munkar,
rigettare, proibire ciò che è male; 9) tawalla, esprimere l’amore per il
bene (per gli amici di Dio, i suoi Profeti, coloro che desiderano e sostengono
la giustizia, la verità); 10) tabarra, esprimere odio e rifiuto per il
male (verso i nemici di Dio, dei Profeti e dell’Umanità, e verso gli
oppressori).

Professione
di fede (shahada)
– Gli sciiti
aggiungono «e ‘Ali ibn Abi Talib è amico di Dio».

Atteggiamento
nella preghiera
– Gli sciiti
pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. La
preghiera è realizzata con l’ausilio di una pietra (turbah) su cui va a
posarsi la fronte, nella genuflessione sopra il tappeto. Essa termina
pronunciando tre volte il takbirAllahu akbar», Dio è il più
grande).

Donne
– Per gli
sciiti, due donne sono considerate come modello per tutte, e hanno un ruolo
particolarmente importante: Fatima Zahra (figlia del profeta Muhammad, moglie
di ‘Ali e madre di Hasan e Hussayn) e Zaynab, la figlia di ‘Ali e Fatima. Nel
mondo sciita è permesso il mut‘a: matrimonio a tempo tra un uomo e una
donna non sposata. Il matrimonio, siglato attraverso un contratto e il
pagamento di una somma di denaro a compensazione, può durare da qualche ora a
anni. In realtà si tratta di un’istituzione pre-islamica, condannata dagli ayatollah
iraniani e avversata dal sunnismo che la considera al pari della prostituzione.
Il mut‘a viene riconosciuto come una sorta di salvacondotto legale per i
rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione (prevista all’interno del
matrimonio permanente).

Velo
islamico
–  Cambia soltanto il nome e la
tipologia. Ad esempio, in Iran è diffuso lo chador, un manto che copre
tutto il corpo.

Feste
–  Gli sciiti festeggiano anche: Mawild,
l’anniversario della nascita del Profeta, della figlia Fatima e di tutti e 12
gli imam; l’Eid al-Ghadir, per ricordare la nomina di ‘Ali come
successore di Muhammad; la morte di tutti gli imam, e in particolare Ashura,
in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala. Quaranta giorni dopo Ashura
c’è la festa di ‘Arba‘iyn, a ricordo della visita dei suoi familiari al
sepolcro.

Cibi
e bevande
– Non ci sono
differenze con il sunnismo. •

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Angela Lano




Jihad, Sharia e terrorismo

Il professor Massimo Campanini, orientalista, storico del Vicino oriente arabo e di Filosofia islamica insegna all’Università di Trento. Ci spiega alcuni concetti di base.

Cos’è la jihad, la guerra santa?
Nel corano il termine ha significato di «sforzo». Ovvero impegno, coinvolgimento personale e comunitario sulla via di Dio. Può essere interpretato in senso spirituale (come ad esempio dai sufi), trasformazione del sé, raggiungimento della perfezione spirituale che consente di avvicinarsi a dio. Ha avuto caratterizzazione bellica, che può essere offensiva o difensiva. Offensiva nel senso di estensione della comunità islamica, ma mai come strumento di forzata conversione degli infedeli.
Diventa più aggressiva a partire dagli anni ’70: affermazione di fondamentalismo e radicalismo islamico. I teorici dei movimenti estremisti hanno sostenuto che il dovere jihadistico rivelato all’origine è stato per secoli dimenticato e i contemporanei lo devono rinverdire.
Il jihadismo è un problema contemporaneo. Forma contemporanea di radicalizzazione di alcune frange di islam che trovano riferimenti teologici nel medioevo ma li riadattano a certe prese di posizione e alla necessità della contingenza contemporanea.
I salafiti sono tutti jihadisti?
I salafiti sono una realtà plurale, non sono un blocco omogeneo. Esistono gruppi salafiti jihadisti ma anche gruppi salafiti quietisti, che predicano il non impegno politico, l’islamizzazione delle coscienze dei singoli e non la necessità di impadronirsi dello stato. In Arabia Saudita, convivono entrambe le tendenze.
Perché usano il terrorismo?
Il terrorismo è spesso l’arma di coloro che non hanno la possibilità di mettere in campo eserciti organizzati. Non riduciamo il terrorismo al jihad. Ma è il jihad che usa il terrorismo, è una questione tattica.
Cos’è la Sharia, legge islamica?
Sharia vuol dire «direzione»: ha valore più etico, ideologico che normativo. Nel Corano e nella Sunna (testi fondamentali dell’islam) sono contenute norme civili e penali.
Un conto è la rivelazione, altro è l’interpretazione fatta sulla rivelazione, umana e contestualizzata, a cui è data autorevolezza della sharia fraintendendo e tradendo le aspirazioni originarie.
Quando i gruppi fondamentalisti vogliono applicare la sharia, intendono alcune regole di comportamento, velo, applicazione delle pene corporali. Agitare lo spauracchio della sharia è un problema più formale che sostanziale.
Operano una semplificazione, radicalizzando alcune norme che fanno scalpore e sono anche utilizzate a livello mediatico.
Perché gli islamisti di Ansar Dine hanno distrutto i mausolei a Timbuctu?
Purificazione dell’islam, puritano e rigido, che non sopporta che venga adorato nient’altro accanto a Dio. Questo il senso teologico, malinteso ed esagerato, estremista, fondamentalista. C’è poi la mediatizzazione del fenomeno: allo scopo di trovare altri appoggi, convincere altra gente a seguire una posizione di tipo politico o ideologico. Convincere gli incerti a venire dalla loro parte.

a cura di Marco Bello

Marco Bello




Un politico santo?

Premessa

Makambako (Tanzania), 2 giugno 2011.
Ho appena terminato il presente dossier, mentre in Italia si celebrano i 150 anni della sua unità. Chissà se, accanto a Cavour e compagni, ci sarà pure un pensierino per… Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira. Politici cattolici, che seppero guardare e andare «lontano».
Anche il Tanzania festeggia quest’anno un anniversario significativo: il 50° dell’indipendenza.
E fra gli artefici del nuovo stato svetta Julius K. Nyerere, «il maestro signore».
Incontrai Nyerere nel settembre del 1975 a Dar es Salaam. Entrambi eravamo in auto, affiancati e fermi ad un semaforo della strada che costeggia l’Oceano Indiano. Riconosciutolo, dal finestrino gli sorrisi con circospezione. E lui:
– Sei un padre?
– Sono un missionario della Consolata.
Il semaforo divenne verde e l’auto presidenziale sgommò. Ma si fermò 100 metri più avanti. Nyerere era in piedi sul bordo della strada con la mano alzata. Accostai. Conversammo per 15 minuti. Tra l’altro disse: «Vedi, padre: se, andando alle Poste per comprare francobolli, ti si dice ‘aspetta, bwana, perché l’addetto al servizio è uscito un istante’; se il giorno dopo la scena si ripete e magari si replica una terza volta, sappi che il Tanzania non andrà lontano!».
Nyerere voleva che il Tanzania andasse lontano nello sviluppo, nella giustizia e nella frateità.
Come De Gasperi, La Pira e altri per l’Italia.
Nyerere è pure candidato alla santità, come De Gasperi, La Pira ed altri.
Se sono rose…

                                                                             di Francesco Beardi

Francesco Beardi




Il presidente «per caso»

Tratti biografici

Figlio del capo
Nasce il 13 aprile 1922 nel villaggio di Butiama, a circa 30 chilometri dalla città di Musoma, nel nord del Tanganyika, come si chiamava allora il paese senza Zanzibar. Si chiama Kambarage Nyerere: Kambarage (spirito benefico che vive nella pioggia), perché piove quando nasce; Nyerere, come il padre Burito Nyerere, capo della piccola tribù dei Wazanaki. È uno dei 26 figli di Burito, che vanta almeno 18 mogli(1). Sua madre, Mgaya Wang’ombe, è la quinta consorte del boss.
Fa il pastorello Kambarage. Ma il ragazzo è troppo arguto per accudire soltanto pecore e capre. Così, a 12 anni, impara a leggere e scrivere. Dopo la scuola elementare, frequenta la Tabora School, liceo retto dai Missionari d’Africa. Costoro intuiscono che c’è «ottima farina nel suo sacco» e gli spalancano i battenti dell’università di Makerere, in Uganda, dove l’ex pastore ottiene il diploma in pedagogia.
Nel 1942, a 20 anni, un evento straordinario arricchisce l’esistenza di Kambarage: diventa pure Julius, cattolico. Sua madre lo seguirà con il nome di Cristina(2).
Corre voce che Julius voglia addirittura fare il prete. Intanto insegna biologia e storia alla Saint Mary’s Secondary School di Tabora. Poi, grazie ad una borsa di studio offerta dai soliti missionari, ritorna sugli scranni dell’università, ad Edimburgo (Scozia): vi consegue il master in storia ed economia. è il primo tanzaniano a studiare in un’università britannica. Qui conosce la Fabian Socialist Society: è un movimento sociopolitico, che mira ad elevare le classi lavoratrici per renderle idonee ad usufruire dei mezzi di produzione locale. È «la prima pietra socialista» di Nyerere, destinata a diventare «una casa» in Tanzania.

Il maestro
Nel 1952 ritorna in patria e insegna storia, inglese e swahili al Saint Francis College di Pugu, vicino a Dar es Salaam. È in tale istituto cattolico che Nyerere viene chiamato mwalimu, cioè «il maestro». Il suo insegnamento eccelle per semplicità, qualità e sagacia. Il futuro presidente della nazione sarà sempre «maestro» per vocazione e «politico» per caso(3).
Il 1953 è un anno significativo per Nyerere: primo, perché sposa Maria Gabriel Magige (con la quale avrà otto figli); secondo, perché viene eletto presidente della Tanganyika African Association (Taa), movimento culturale che egli stesso ha promosso all’università di Makerere. L’anno successivo, 1954, Taa diventa Tanu (Tanga-nyika African National Union): un partito dove si inizia a discutere di indipendenza del paese.
Chi sarà «il capo» del Tanganyika indipendente? Ovviamente lui, Julius K. Nyerere, gradito sia alla popolazione sia all’ultimo governatore britannico, Richard Tubull.

Il presidente
La magica ora dell’uhuru (libertà-indipendenza) scocca a mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Nello stadio di Dar es Salaam, gremito di persone in festa, si ammaina la bandiera dell’Impero Britannico, mentre le stelle sorridono a quella inedita del Tanganyika indipendente. Il nuovo stendardo armonizza il nero del volto dei cittadini con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo dell’oro. In primo piano spiccano «lui» e «lei», a rappresentare tutti gli uomini e le donne delle 127 etnie del paese.
Nyerere è acclamato primo ministro del governo e, l’anno seguente, 1962, presidente della repubblica. Veste la casacca di Mao Zedong. Ma le differenze fra i due sono nette. Non è affatto detto che il tanzaniano sia succube o inferiore al cinese, anzi!
Intanto sul Kilimanjaro, il monte più alto del Tanganyika e dell’Africa, arde la fiaccola annunciata da Nyerere stesso. «Vorremmo accendere una candela – dichiara il 22 ottobre 1959 il futuro presidente – e collocarla sulla vetta del Kilimanjaro. Quella luce brillerà oltre i nostri confini e offrirà speranza dove c’era disperazione, amore dove c’era odio, dignità dove c’era umiliazione. Con sincerità, preghiamo il popolo della Gran Bretagna e i popoli di ogni razza e lingua, nostri vicini, di guardare a noi, di guardare al Tanganyika non con imbarazzo, ma con un raggio di speranza»(4).
Grazie anche a Nyerere, l’indipendenza non conosce violenza. Non è poco, se si pensa all’indipendenza insanguinata di altri paesi africani: dal Congo al Mozambico, dal Kenya all’Angola. Senza scordare le tragedie di Burundi e Rwanda e la vergognosa discriminazione razziale in Rodesia e Sudafrica.

La nave va
Con l’indipendenza, la vita di Nyerere cambia. Gli impegni sono fitti, esigenti, complessi: non è più l’insegnante di una scuola, bensì il maestro di un’intera nazione da costruire.
Nel 1961 il Tanganyika, su 10 milioni di abitanti, può contare soltanto su: 1 ingegnere, 9 veterinari, 16 medici, nessun architetto e nessun magistrato. Un paese impreparato all’autonomia? Certo, ma la responsabilità non è degli autoctoni. Al riguardo Nyerere ragiona: «Non abbiamo mai accettato che il popolo fosse impreparato ad autogovernarsi, perché sarebbe come dire: ‘Tu non sei pronto a vivere, tu non sei pronto ad essere uomo’»(5).
Nyerere parla di «indipendenza di bandiera»(6), un punto di partenza per restituire al paese la sua anima. Il presidente non dimentica gli insulti «ehi, tu, bastardo!», subiti dal «bianco»: hanno inoculato nel «nero» il virus del complesso d’inferiorità. Tuttavia, pur comprendendo il risentimento dei connazionali, non approva contro gli europei frasi quali «questi cani!»(7).
La nave dell’indipendenza prende il largo, raggiungendo traguardi significativi fra burrasche e bonacce. Al timone c’è Nyerere, presidente della nazione e del partito TANU (Tanganyika African National Union).

Date significative
26 aprile 1964: nasce il Tanzania dall’unione tra Tanganyika e Zanzibar. Il motto della nuova nazione è «libertà e unità».
5 febbraio 1967: con la dichiarazione di Arusha il Tanzania diventa socialista secondo l’ideale dell’ujamaa. Il termine swahili significa «famiglia allargata» da allargarsi: quindi comunità e fratellanza. Bisogna vivere e lavorare tutti insieme in «villaggi socialisti», scelti liberamente.
1974, agosto e mesi seguenti: poiché i tanzaniani sono reticenti di fronte al progetto «villaggi socialisti», vengono obbligati con la forza a costituirli. È una «tempesta» con gravi disagi. Ma il regime di Nyerere tiene. I risultati economici sono stitici. In compenso l’alfabetizzazione supera il 90%.
5 febbraio 1977: nasce il Partito della Rivoluzione (Chama cha Mapinduzi: CCM). Ha origine dalla fusione del Tanu (partito del Tanzania continentale) con l’Afro Shirazi Party (partito di Zanzibar). Nel paese vige «il sistema del partito unico», senza un’opposizione costituita.
30 ottobre 1978: Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda, invade il Tanzania. Tra i due paesi è guerra. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggia la vittoria. Ma il paese è squattrinato.
1984: anno cruciale per il Tanzania, che rischia di ritornare Tanganyika e Zanzibar, date le spinte separatiste. Il presidente resiste.
25 novembre 1985: dopo 24 anni di potere-servizio, Julius K. Nyerere si ritira. Tuttavia regge il Ccm fino al 1990.
Un giorno confida: «Nel 1997 alla Banca Mondiale di Washington mi chiesero: Perché hai fallito? Risposi dicendo che l’Impero Britannico ci aveva consegnato un paese con l’85% di analfabeti, mentre quando mi ritirai (1985, ndr.) erano il 9% e il reddito pro capite era il doppio di quello attuale (1997, ndr.). Inoltre ricordai che oggi (1998, ndr.) abbiamo un terzo di bambini in meno a scuola, mentre la sanità e i servizi sociali sono in rovina. Eppure, in questi 13 anni, il Tanzania ha fatto tutto ciò che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale gli hanno imposto di fare. Allora fui io a chiedere: Voi, perché avete fallito?»(8).

Gli ultimi anni
Con il nuovo presidente Ali H. Mwinyi e i suoi successori tutto cambia in Tanzania, specialmente dopo il crollo del muro di Berlino (1989). Si instaura il pluripartitismo.
L’ex presidente, dal villaggio natale di Butiama, dove vive nella sobrietà coltivando i campi, non lesina consigli. Ricorda che «la giustizia è la garanzia della pace» e ai giovani addita il servizio civile quale strumento di unità politica e religiosa(9).
A livello internazionale il mwalimu gode di grande prestigio. Ecco perché gli sono affidate «missioni impossibili»: vedi l’intesa fra tutsi e hutu in Burundi, facendo pressione sui primi (in minoranza, ma detentori del potere) per una maggiore giustizia verso i secondi (in maggioranza).
Il 5 marzo 1999 a Dar Es Salaam si inaugura la prima «università popolare aperta» (Open University). È il sogno di Nyerere da 20 anni. Il primo laureato in Lettere, honoris causa, è l’ex presidente, vecchio e ammalato. È l’ultima comparsa in pubblico ad alto livello dell’ex pastore di capre, figlio del capo. Infatti, poco dopo, il 14 ottobre 1999 Julius Kambarage Nyerere muore a Londra di leucemia.
Il giorno seguente il giornalista Tom Porteous scrive: «Non era né arrogante né banale, ma onesto e sincero, dedito alla famiglia e leale (fin troppo) verso gli amici. Il rispetto e la devozione che godeva presso il popolo li ricambiava con una dedicazione totale al suo impegno di capo dello stato. Pronto a riconoscere i suoi errori, era flessibile e pragmatico, senza tuttavia scendere a compromessi con la sua cristallina fede cattolica e con i suoi ideali di umanista e socialista»(10).

Nyerere è uno schiaffo a non pochi leaders, che sottomettono dignità e libertà, giustizia e pace al successo e tornaconto personale attraverso ostentate autocelebrazioni, turpi avventure sessuali, smaccate demagogie, sfrenate ricchezze.
Julius K. Nyerere è il maestro, il presidente, il padre della patria. Qualcuno si spinge molto più in là: auspica che sia proclamato «santo». Se sono rose…

di Francesco Beardi

Note

  1) Secondo E. R. Katare, invece, le mogli di Burito Nyerere furono 22 (cfr. E. R. Katare, Julius Kambarage Nyerere: falsafa zake na dhana ya utukufu, Dar Es Salaam 2007, p. 22).
  2) Il padre di Nyerere, Burito, rimase attaccato alle credenze tradizionali. Il figlio Julius raccontò: «Quando i missionari cristiani cercavano di convertire mio padre, egli prima li ascoltava, poi era lui a far loro la predica ed essi se ne andavano tranquilli. Quando i missionari gli dicevano ‘ama tuo fratello’, egli rispondeva ‘sono d’accordo con voi’. L’unico fatto che i missionari rimproveravano al vecchio erano le sue 21 mogli» (William E. Smith, Nyerere of Tanzania, London 1973, p. 34).
  3) Cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
  4) Julius K. Nyerere, Freedom and Unity / Uhuru na Umoja, Dar Es Salaam 1966, p. 72.
  5) William E. Smith, op. cit., p. 63.
  6) Espressione riportata da www.missionaridafrica.org
  7) Cfr. William E. Smith, op. cit., p. 49.
  8) Da un’intervista a Nyerere (dicembre 1998), riportata da www.culturacattolica.it
  9) Cfr. Sunday News, October 9, 1988, e Daily News, July 9, 1966.
10) The Indipendent, October 15, 1999.

Francesco Beardi




Io resto socialista e tu?

L’impegno politico

Semplicità
Per gli amanti della cabala, Nyerere sarebbe stato certamente baciato dalla fortuna, poiché nacque il giorno «13». Tuttavia, forse, il suo destino era già scritto fra le stelle in modo meno fortunoso, giacché, quando emise il primo vagito, dalle cateratte del cielo si rovesciarono sulla terra torrenti di pioggia. E la pioggia, nell’Africa delle capanne dei pastori e contadini, è la benedizione di Dio più agognata.
La storia dirà se Julius K. Nyerere fu una benedizione per il Tanzania. Oggi, a 50 anni dall’indipendenza del paese, il suo primo presidente resta un personaggio carismatico, un «maestro signore» scevro da ogni culto della personalità: atteggiamento più unico che raro in Africa, e non solo. Ancora vivente, nella città di Mwanza gli dedicarono una strada: Nyerere Street, ma egli dirottò l’onorificenza, dichiarando: «È per mio padre». A Dar es Salaam qualcuno propose di abbattere «il monumento all’askari» (eretto dagli inglesi per ricordare i soldati africani vittime delle due guerre mondiali: 1914-1918 e 1939-1945), sostituendolo con una statua del presidente. L’interessato tagliò corto: «Non se ne parla neppure!»(1).
E il Nyerere semplice?
Padre Giulio Belotti, missionario della Consolata, testimonia: «Durante la festa del Saba Saba (7 luglio), anniversario del 20° della fondazione del partito Tanu svoltasi ad Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima nella scuola di Tosamaganga dove erano due dei suoi figli: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare con le suore»(2). La cordialità del tanzaniano aveva stregato persino il mozambicano. Fatto notevole, giacché Machel non era affatto dolce verso i missionari!

Concretezza
Nyerere non sognava la luna. Affermava: gli americani e i russi stanno raggiungendo la luna, mentre noi dobbiamo accontentarci di assai meno; essi usano il cervello e noi dormiamo; essi lanciano satelliti e noi sopravviviamo con radici selvatiche. Aggiungeva: negli Stati Uniti i coltivatori di tabacco ottengono 10 quintali per acro, mentre in Tanzania il raccolto non arriva a 3 quintali. «Tuttavia nelle piantagioni di tabacco di Urambo si raggiungono già 7 quintali. Non è la luna. Però questo lo possiamo fare (this we can do)»(3).
La concretezza del mwalimu ridimensionava persino la decantata ospitalità africana e gli consentiva di smascherare l’ospite scroccone. Citava con arguzia il seguente proverbio: «L’ospite è tale per due giorni, ma al terzo dagli la zappa»(4). Al lavoro, dunque. Il lavoro è una medicina per sanare la piaga della povertà.
Nyerere sulla povertà non fece sconti. Nel 1967 rammentava ai connazionali: se si raccogliessero in una cesta le ricchezze del Tanzania per distribuirle a tutti in parti uguali, ogni individuo percepirebbe solo l’equivalente di 525 scellini, ossia il reddito di 16 mesi di un lavoratore. «Noi siamo come 10 cacciatori che inseguono una sola lepre» commentava con amara ironia(5).
Con quale progetto sociopolitico far sviluppare il paese indipendente dal 1961? Che fare? Innanzitutto creare una identità nazionale comune fra le 127 etnie.
A tale scopo, Nyerere abolì i poteri tribali e stimolò l’uso della lingua swahili, che divenne ufficiale e nazionale, favorendo la comunicazione fra tutte le tribù. Tradusse in swahili il famoso libro di George Orwell, La fattoria degli animali, e persino alcune tragedie di William Shakespeare, quali Giulio Cesare e Il Mercante di Venezia, e, anni dopo, riscrisse in rima poetica i quattro Vangeli(6).
Fin dagli albori dell’indipendenza, si caratterizzò per una netta presa di distanza da ogni legame economico con le potenze mondiali: Stati Uniti e Unione Sovietica. Per concretare tale obiettivo, Nyerere caldeggiò il socialismo rurale, fondato sulla comunità-famiglia-fratellanza (ujamaa). Un socialismo assai diverso rispetto al modello marxista: senza lotta di classe e senza ateismo. Un socialismo confezionato in casa. Il presidente invitava a riflettere e a chiedersi: le nostre famiglie tradizionali non sono forse da sempre socialiste? Quando le donne, in vista di una festa nel villaggio, preparano insieme il pombe (birra) per tutti, non esprimono forse l’ideale socialista del lavoro comune e dell’attenzione alle esigenze comunitarie?

Alcuni capisaldi
Il socialismo di Nyerere non si tradusse in un’obbedienza cieca ad un rigido schema politico, come avvenne nei paesi del socialismo reale: Unione Sovietica, Cina, Cuba o Mozambico.
Il presidente definì il socialismo «un atteggiamento mentale» o «una fede in un sistema di vita», concepiti e vissuti nella libertà, attraverso i quali ogni individuo si prende cura dei suoi simili, come avviene nella tradizionale «famiglia estesa» o ujamaa.
La magna charta dell’ujamaa fu la «Dichiarazione di Arusha», pubblicata nell’omonima città nel 1967. Alcuni capisaldi(7):
–  ogni cittadino ha diritto alla libertà di parola, associazione, movimento e fede, nel contesto delle leggi vigenti;
–  le ricchezze naturali del paese appartengono a tutti i cittadini, che le trasmettono ai figli e nipoti;
–  il governo deve usare tutte le risorse nazionali per eliminare povertà, ignoranza e malattia;
–  affinché il Tanzania sia socialista, è essenziale che il suo governo sia scelto e guidato da contadini e operai;
–  lo sviluppo inizia dalle campagne, non dalle fabbriche;
–  è stupido puntare sul denaro quale mezzo principale di sviluppo, quando il paese è povero;
–  il popolo e il duro lavoro sono la base dello sviluppo; il denaro è uno dei frutti del lavoro;
–  è giusto essere orgogliosi dei lavoratori, ma vergognarsi dei pigri, dei fannulloni, degli ubriachi;
–  indipendenza è contare sui propri mezzi (self-reliance), non su doni e prestiti monetari estei…

Villaggi socialisti
I passaggi obbligati, per approdare ad una società socialista e raggiungere risultati importanti, furono le nazionalizzazioni delle strutture economiche ed educative del paese, nonché la formazione di «villaggi socialisti» (vijiji vya ujamaa).
Mentre le nazionalizzazioni furono stabilite da norme vincolanti, i villaggi socialisti erano soltanto raccomandati, rispettando la libertà individuale. Tuttavia, poiché la popolazione non mostrava interesse nei villaggi socialisti, il governo fece ricorso alla coercizione: i villaggi si dovevano fare, e subito.
L’operazione scattò, senza preavviso, nell’agosto del 1974, mentre Nyerere era all’estero. Un’esperienza drammatica e convulsa. In pochi giorni migliaia e migliaia di persone furono costrette a sloggiare dalle loro abitazioni, abbandonando tutto, per trovare una sistemazione precaria sotto un albero. In agosto, di notte, il freddo è ancora pungente, specialmente nelle regioni montuose: e aumentava il disagio degli «sfollati», per non parlare della minaccia di leopardi, tigri e leoni.
Ero a Madibira in quel frangente, nella regione di Iringa. Mi impegnai in numerosi traslochi con la Land Rover aperta della missione, carica di granoturco, riso, arachidi, caschi di banane, nonché pentole, secchi, sedie e… qualche bimbo in pianto. Tutto veniva ammassato all’aperto, in un luogo stabilito dagli agenti del partito Tanu, sotto lo sguardo di altre persone che avevano subìto la stessa sorte.
Gli occhi di tutti erano rassegnati, ma anche sdegnati e sospettosi. Un tale si chiedeva: «Ora che faccio se, accanto a me, c’è uno stregone?». Un altro mi confidò: «Padre, tu non puoi immaginare la mia paura. Mi hanno allontanato da tutto, persino dalle tombe dei miei morti. E se mi maledicessero?».
Nel 1981 si contarono 8.180 «villaggi socialisti», abitati da circa 13 milioni di contadini: il 90 per cento della popolazione rurale.
I nuovi villaggi non facevano una grinza in vista dello sviluppo. La popolazione, raggruppata, avrebbe goduto con maggiore facilità di istruzione, sanità e acqua, senza scordare la vicinanza con la chiesa. Si rafforzò «l’identità tanzaniana», grazie alla pacifica convivenza di famiglie appartenenti a etnie diverse e al loro lavoro condiviso. Per incoraggiare la villaggizzazione, negli anni 1967-69 il governo compì sforzi notevoli per dotare le comunità di macchinari agricoli modei; ma diventarono presto ferraglia, abbandonata sul campo per mancanza di tecnici capaci di manutenzione e riparazione.
Inoltre, per assicurare un adeguato introito ai contadini, venne creato l’ammasso dei prodotti agricoli di largo consumo interno e di esportazione. Però tale iniziativa fu gravata da tasse a vantaggio del governo e del partito Tanu. Un segno premonitore di corruzione.

Fallimento
Formati i villaggi dell’ujamaa, la produzione agricola fu così risicata da far scuotere la testa a molti con delusione e disapprovazione(8). Poiché i prodotti erano scarsi, il governo fu costretto ad aumentare le importazioni. Dal 1967 al 1975 l’import di granoturco passò da 14.322 tonnellate a 294.100, quello di riso aumentò da 7.586 tonnellate a 72.600 e quello di frumento da 13.908 tonnellate a 46.500. Mentre l’import aumentava, l’export diminuiva: il cotone da 71 tonnellate a 44 e la canapa da 103 tonnellate a 51. Invece caffè e tè crebbero(9), ma troppo poco per superare l’andamento generale di sfiducia e penuria.
L’ujamaa, sotto l’aspetto economico, fu un fallimento, complici le siccità e la crisi petrolifera internazionale, a tal punto che Nyerere fu costretto addirittura a svuotare le banche nazionalizzate per acquistare derrate alimentari.

Nodi cruciali
In Nyerere non mancarono altri comportamenti di-scutibili. Sono «nodi cruciali», che destarono malumori e resistenze. Ignorarli sarebbe offendere lo stesso mwalimu, amante della verità.
Un nodo cruciale furono le leggi sulla detenzione preventiva di qualche sospettato: leggi approvate dal parlamento dopo l’assassinio del vicepresidente Abeid Karume e un tentato colpo di stato. Tuttavia, a detta di J. Marensin, le detenzioni preventive, anche nel periodo di maggiore rigore, «non hanno toccato più di qualche centinaio di persone»(10).
Discutibile fu l’allontanamento dal Tanzania del politico Oscar Kambona. Fra Julius e Oscar esisteva un rapporto di amicizia. Nel 1967, alcuni mesi prima della rottura finale, Kambona riconosceva ancora in Nyerere due qualità: «Se le conserverà, sarà un grande leader in Africa. La prima qualità è la semplicità, che lo rende capace di comprendere subito il punto di vista dell’altro; la seconda qualità è il distacco dalla ricchezza». La prima volta che Nyerere si presentò alle Nazioni Unite, a New York, vi andò con una valigia rotta.
In seguito Kambona, poco prima del suo esilio a Londra, dichiarò: «Accuso il presidente di nascondersi dietro una parvenza di democrazia; sta diventando un dittatore. Ha la mente di una persona chiusa in una rete di malvagità»(11).
Secondo Nyerere, Kambona era un timido che cercava di piacere a tutti, ma non gradiva la critica. Esiliato, cercò di ritornare in patria. Il presidente non si oppose, a patto che si sottoponesse al giudizio popolare prima di essere riammesso al parlamento, perché «ha imbrogliato il Tanzania e l’Africa intera». Kambona minacciò di «sollevare il coperchio dalla pentola» e di fare rivelazioni clamorose. Al che, il giornale The Nationalist, organo del governo, replicò secco: «Ciò che devi dire dillo, altrimenti sarai marchiato come un vigliacco, un traditore del Tanzania e dell’Africa»(12).
Ancora: Nyerere fu accusato di antidemocrazia perché volle «il sistema del partito unico». Il presidente spiegò: il partito unico è una scelta obbligata, perché il Tanzania non è culturalmente preparato alla democrazia a più partiti; con diversi partiti, infatti, il paese cadrebbe nel marasma politico di altri stati africani, divenendo facile preda di demagoghi abili nel cavalcare malumori tribali o religiosi, che non mancano nel paese…
Il 30 ottobre 1978 Idi Amin Dada, il dittatore dell’Uganda, invase il Tanzania armi in pugno. Tra i due paesi divampò la guerra. L’esercito tanzaniano, sostenuto dall’appoggio di circa 800 mila cittadini (che offrirono carne e farina), cacciò l’invasore e conquistò persino la capitale ugandese Kampala. Fu l’episodio più sconcertante nella vita del mwalimu, uomo di pace. Molti paesi africani presero le distanze da lui, accusandolo di violare i principi dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Il presidente dichiarò guerra, perché prevalse in lui «la ragion di stato» e la consapevolezza che con l’imprevedibile e sanguinario Amin era impossibile ragionare. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggiò la vittoria. Ma la nazione era esausta, perché il conflitto aveva ingoiato quasi tutte le riserve in valuta pregiata (in dollari) e la metà del budget annuale destinato allo sviluppo(13). E imperversava la siccità. Il Tanzania, povero, non poteva concedersi il lusso di una guerra.

E le luci?
I nodi cruciali menzionati avvolgono Nyerere di cortine d’ombra. E le luci?
La stella del presidente brillò allorché offrì asilo ai Movimenti africani di liberazione contro il colonialismo. Nyerere sostenne il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo) nella lotta contro il governo coloniale del Portogallo, appoggiò la resistenza al regime razzista di Jan Smith in Rodesia (Zimbabwe) e denunciò la clamorosa ingiustizia dell’apartheid, imposta dai boeri ai neri del Sudafrica.
Nell’agosto del 1977 Nyerere visitò gli Stati Uniti su invito del presidente Jimmy Carter. In una settimana coprì 51 mila chilometri, volando in aereo per 55 ore. Ad ogni sosta si impegnava in «una crociata» per la liberazione dell’Africa del Sud. Durante una conferenza-stampa un giornalista gli chiese: «Signor presidente, in Rodesia e Sudafrica la guerriglia combatte con armi di Russia e Cina. Si sa che lei ritiene esagerata la paura del comunismo in Africa da parte dell’occidente. Ebbene: perché i regimi comunisti foiscono armi ad altri paesi?».
«Perché diventino loro amici. Ed è la stessa ragione per cui il presidente Carter aiuta noi! Carter afferma: mostriamoci amici con i paesi dell’Africa del Sud, per ottenere in cambio la loro amicizia. Non è serio combattere una dittatura e rimpiazzarla con un’altra. Voi, americani, avete combattuto gli inglesi con le armi dei francesi. Non penso che abbiate voluto liberarvi dei primi per sottomettervi ai secondi. Come minimo spero che gli americani non considerino la guerriglia in Africa come la strada per introdurvi il comunismo»(14).
Parecchi stati africani raggiunsero l’indipendenza negli anni ’60. Se la loro strada verso l’autonomia fu accidentata, quella del post-indipendenza fu minata. Tristemente celebre fu «il caso Burundi», indipendente dal Belgio nel 1962, dilaniato da un feroce tribalismo che opponeva i tutsi agli hutu: minoritari e spesso al potere tramite violenza i primi; maggioritari e sovente sottomessi con umiliazione i secondi. Un esempio tragico: nel 1971 circa 350 mila hutu furono uccisi dalla repressione governativa dei tutsi, mentre altri 70 mila furono costretti all’esilio. Molti trovarono scampo in Tanzania. Nyerere bollò l’olocausto come una vergogna per l’Africa. L’attenzione di Nyerere per il Burundi continuò negli anni successivi, sempre travagliati per le due tribù. Poiché il mwalimu godeva di elevato prestigio internazionale, gli furono affidate complesse missioni di pacificazione fra tutsi e hutu(15). Al di là dei risultati conseguiti, le missioni erano un riconoscimento del suo carisma.

IL Maestro
È il carisma del maestro, che non demorde di fronte alle bocciature dei suoi allievi. Sarà proprio il campo dell’istruzione a vederlo impegnato nell’ultimo tratto della sua vita. A Londra, il 4 giugno 1997, difese gli investimenti in favore della scuola primaria, che non è di serie B rispetto a quella secondaria o universitaria, come alcuni ritenevano attribuendo maggiore urgenza ai licei. «Che cosa avverrà – intervenne Nyerere – della maggioranza dei ragazzi senza istruzione? Non saranno forse causa di problemi, specialmente in città? Allora sì che bisognerà spendere tanti soldi!»(16).
Il 5 marzo 1999 a Dar es Salaam venne inaugurata la prima «università popolare». Nel discorso inaugurale, ricevendo la laurea honoris causa, l’ex presidente, ormai vecchio e ammalato, fu tagliente come una lama d’acciaio, ritornando sul «suo cavallo di battaglia» di sempre: la scuola elementare. Ne stigmatizzò la situazione dolorosa e fallimentare dove solo il 3% degli allievi superava l’esame finale, mentre il 97% lo falliva. «Questo aggettivo fallimentare – incalzò il mwalimu – è intollerabile: aggiunge insulto ad insulto. Così i nostri figli, invece di inviarli a casa sereni, li cacciamo via con il marchio della vergogna, perché sono dei falliti! Un paese povero come il Tanzania non può avere una scuola che favorisca gli egoisti. L’istruzione è un investimento per l’individuo e la comunità intera, completa l’indipendenza, è servizio e il servizio degli altri è parte dell’amore per se stessi»(17).
Nel 1985 Nyerere cessò di essere presidente della repubblica e, nel 1995, abbandonò pure la carica di presidente del Partito della Rivoluzione. Ritiratosi dalla politica, dichiarò: «Nonostante il fallimento, io resterò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania»(18).
Restava socialista, perché l’ujamaa, per questo «maestro signore», era la risposta più concreta alla domanda inquietante: «Caino, dov’è tuo fratello Abele? Cosa hai fatto di lui?» (Cfr. Genesi 4, 9-10).

Di Francesco Beardi

Note
1)   Cfr. William. E. Smith, Nyerere of Tanzania, Victor Gollancz Ltd, London 1973, p. 31.
2)  Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
3)  Cfr. W. E. Smith, op. cit., p. 11.
4)  Il proverbio è: mgeni siku mbili; siku ya tatu mpe jembe (Julius K. Nyerere, Ujamaa, Essays on Socialism, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, p. 5).
5)  Cfr. Ibid., pp. 161 e 159.
6)  La diffusione dello swahili in Tanzania è da ascriversi anche alla colonizzazione tedesca (1885-1914) e all’evangelizzazione dei Benedettini tedeschi, rimpiazzati nel 1919 dai Missionari della Consolata. In italiano pregevoli sono la Grammatica swahili (1953) e il Vocabolario (1978) di Vittorio Merlo Pich, missionario della Consolata, nonché Corso di Lingua Swahili (2002) di Gianluigi Martini, edito dall’Emi.
7)   Cfr. Julius K. Nyerere, Feedom and Socialism / Uhuru na Ujamaa, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, pp. 231-250.
8)   Cfr. Goran Hyden, Beyond Ujamaa in Tanzania, Heinemann, London 1980, p. 152.
9)   Cfr. Ibid., 141 e 146.
10) La citazione è da Missioni Consolata, op. cit., p. 19.
11) W. E. Smith, op. cit., pp. 31-32.
12) Ibid., p. 187.
13) Cfr. Beard Joinet, Tanzanie, Manger d’abord, Khartala, Paris 1981, pp. 16-20.
14) Julius K. Nyerere, Crusade for Liberation, Oxford University Press, Dar es Salaam 1978, pp. 35-36, 65.
15) Cfr. Daily News, June 12, 1996.
16) Cfr. Nyerere on Education / Nyerere kuhusu Elimu, II (Edited by Elieshi Lema, etc.), HakiElimu, Dar es Salaam 2006, pp. 210-211.
17) Julius K. Nyerere, Open University of Tanzania, Education, Dar es Salaam, March 5, 1999.

Francesco Beardi




Tutto di un pezzo … e santo?

La fede cattolica

Un esempio per tutti
È un cattolico praticante che si confessa sovente e fa la comunione quasi tutti i giorni. In chiesa uomini, donne e bambini lo scrutano con ammirazione, perché è il loro mwalimu, il presidente della repubblica, che si inginocchia come loro, e prega: «Dio onnipotente, benedici i tuoi figli del Tanzania. Signore, abbi pietà di me, peccatore!».
Un giorno, poi, si viene a sapere qualcosa di assolutamente inedito per un politico, specialmente in Africa: inizia il processo di «beatificazione» di Julius K. Nyerere; lo annuncia, il 26 gennaio 2006, il cardinale di Dar es Salaam Polycarp Pengo. Dunque: Nyerere sarà dichiarato beato e santo dalla Chiesa cattolica? Come i martiri d’Uganda? Come Bakhita, la schiava del Sudan, e pochissimi altri del continente nero?
«Però l’interessato – si interroga il professor J. M. Lusugga Kironde di Dar es Salaam – cosa direbbe? Sarebbe d’accordo con la decisione della Chiesa?». In altri termini: l’idea di proclamare santo Nyerere come si concilia con il fatto che era presidente di tutti, senza differenze di religione?(1). La domanda evidenzia una preoccupazione: quella che qualcuno (i cattolici soprattutto) voglia impadronirsi di Nyerere e di strumentalizzarlo a proprio vantaggio.
La preoccupazione emerge già alla morte dello statista (14 ottobre 1999). I musulmani si oppongono a che il «padre della patria» sia sepolto nella chiesa cattolica di Butiama, nonostante che Nyerere, da vivo, ne abbia manifestato il desiderio. Così è posto in un mausoleo, vicino casa sua, per consentire a tutti i tanzaniani di rendergli omaggio, senza il disagio di sentirsi in un luogo di culto estraneo al proprio credo religioso(2).
Tuttavia il professor Lusugga riconosce il diritto della Chiesa cattolica di continuare il processo di beatificazione, perché il «padre della patria» non fece mai pesare la sua fede. «I tanzaniani (compresi i musulmani) non vi scorgano un’appropriazione indebita di Nyerere da parte dei cattolici!».
La Chiesa cattolica seguirà la scia del primo presidente. Questi, già alla vigilia dell’indipendenza nel 1961, incontrando i rappresentanti di tutte le religioni, annotava nella sua agenda: «Abbiamo deciso che né il colore, né la tribù, né la religione, né altra cosa potranno mai togliere all’individuo la sua uguaglianza fra tutti nella comunità. Questa è la nostra bussola»(3). Ha sempre mantenuto fede a tale impegno. A prescindere dalla beatificazione, il mwalimu resta un esempio di uomo fedele e onesto per tutti, soprattutto per i leader politici, il cui comportamento spesso è l’esatto contrario di quello di Nyerere. «Beatificando Nyerere – dichiara il cardinale Pengo – miriamo a stimolare i politici, i commercianti e i capi in genere a condurre una vita degna anche di santità»(4).

Tre ragioni
Beard Joinet, dei Missionari d’Africa, elenca tre motivi per cui Nyerere è da additarsi come esempio a tutti(5).
Il primo motivo è la pacifica convivenza (già ricordata) del presidente con l’Islam e le altre religioni. Non vi furono tensioni nella Tanzania continentale (problemi di tolleranza emersero, invece, nelle isole di Zanzibar e Pemba, a grande maggioranza di fede islamica). Non vi fu alcun partito di ispirazione religiosa. Il partito unico Tanu e, successivamente, il Ccm erano aperti anche agli europei ed asiatici; anzi, Nyerere insisteva affinché vi aderissero. Tribalismo e fanatismo religioso, che sono come benzina sul fuoco, furono scongiurati.
Seconda ragione: la libertà di Nyerere di fronte al potere. Quando nel 1985 lasciò la presidenza, resistette all’enorme pressione del popolo che non voleva privarsi del suo «maestro signore». Senza una grinza, ritoò al villaggio natale.
Infine colpisce il distacco dal denaro. Lo statista vestiva sobriamente. Abitava non nel palazzo presidenziale, ma in una villetta con la moglie Maria, che cucinava. I figli non godevano di alcun privilegio. Percepiva uno stipendio di 6 mila scellini, ridotti per sua volontà a 4 mila. «Tale somma – riferisce la figlia Anna – non bastava per mantenere la famiglia e una zia, oltre a rifondere un prestito ottenuto da una banca»(6).
Tali comportamenti erano ispirati da una fede cristiana viva. Il progetto politico dell’ujamaa scaturiva pure dagli Atti degli Apostoli, come rivela un biglietto di auguri del presidente stesso, inviato ai capi di stato nel 1967: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva. Fra loro tutto era in comune» (Atti 4, 32).

Momenti difficili
Di più. Si dice che Nyerere, dovunque andasse, portasse con sé la Bibbia e la «Dichiarazione di Arusha», la magna charta dell’ujamaa. A dieci anni da quella Dichiarazione, il presidente scrisse Arusha Declaration Ten Years After, dove riconobbe alcuni errori: primo fra tutti la costituzione forzata dei «villaggi sociali».
Se la causa di beatificazione di Nyerere proseguirà, «l’avvocato del diavolo» troverà nella villaggizzazione buoni argomenti per incrinare la presunta santità del «socialista», anche perché la Chiesa non è mai stata tenera verso i sistemi socialisti.
Oltre al fallimento economico, la formazione dei villaggi socialisti generò violenze gratuite, spargimenti di sangue e uccisioni (7). Ciò detto, occorre riconoscere che simili «fattacci» non sono riconducibili direttamente a Nyerere, ma ai suoi impiegati troppo zelanti. Il presidente si prefiggeva ben altro! Egli fu schietto al riguardo: «Posso chiedere scusa – confessò a The Vision Newspaper (settembre 1986) – per il modo in cui l’operazione fu condotta da vari funzionari in alcune regioni; ma non posso chiedere perdono per avere cominciato i villaggi socialisti, che sono stati l’inizio dello sviluppo di cui oggi vi vantate».
Nyerere, in alcuni eventi drammatici, pregava, digiunava ed esortava a fare altrettanto. Ricorreva a queste «armi» anche nelle lotte politiche, prima e dopo l’indipendenza.
Nel 1986 egli stesso ricordò un incontro del Tanu, prima dell’indipendenza del Tanganyika, durante il quale dal Kenya giunsero notizie preoccupanti. «Venimmo a sapere che alcuni nostri amici, fra cui Tom Mboya, furono imprigionati, essendo implicati nell’uccisione di Mau Mau (che lottavano armati contro i britannici). Pensammo che il modo migliore per aiutare i nostri compagni fosse il digiuno: non mangiare né bere per un giorno. Chiedemmo che l’intero paese facesse lo stesso»(8).
Il 1978 fu un anno funesto per i tanzaniani, perché lo spregiudicato Idi Amin Dada invase il loro paese. Nyerere usò ancora l’arma del digiuno e sostò in preghiera per vari giorni consecutivi. Ma prevalse la real politik e fu guerra, vinta dall’esercito tanzaniano. Però Nyerere visse quegli interminabili mesi di conflitto con la morte nel cuore. Incontrava i soldati: «Ragazzi, partecipo alla vostra sofferenza. Tutti sono con voi ed io prego [per voi]». Ad un combattente sul fronte disse: «Evita di spargere sangue inutilmente! Non finire la vita di persone senza colpa!».
Quando le truppe tanzaniane entrarono in Uganda, trovarono alcune delle sacche di resistenza che si dovettero eliminare a forza. E Nyerere era presente. Un soldato confessò: «La nostra audacia era finita, per far posto alla pietà. Il mwalimu mormorava fra le lacrime: “Mi dispiace molto. Tanto sangue e la vita di questa gente! Dio ci perdoni, Dio abbia pietà di noi!”. Fu necessario portarlo via (dal teatro di guerra) con la forza…»(9).
In Africa è raro scorgere un adulto che pianga in pubblico, sia pure al cospetto della morte. Julius K. Nyerere piangeva perché era un «maestro signore» davvero speciale. Unico in Tanzania; unico – molto probabilmente – in tutta l’Africa.

di Francesco Beardi

Note

1) Cfr. E. R. Katare, Julius K. Nyerere, falsafa zake na dhana ya utakatifu, Dar es Salaam 2007,  p. V.
2) Cfr. www.culturacattolica.it
3) Parole di Nyerere, riportate da E. R. Katare, op. cit., p. 66; cfr. Ibid., p. VII.
4) Mwenge, aprile 2007, p. 5.
5) Cfr. www.missionaridafrica.org e Missioni Consolata, op. cit., p. 18.
6) Cfr. E. R. Katare, op. cit., p. 78.
7) Cfr. Ibid., p. 114 e 133.
8) Ibid., 28-29. I Mau Mau erano un movimento rivoluzionario clandestino, che lottò in Kenya negli anni ’50. Tom Mboya, sindacalista e politico del Kenya, morì assassinato nel 1969.
9) E. R. Katare, op. cit., pp. 140-141.

PROCESSO DI BEATIFICAZIONE

Butiama, 21 gennaio 2006, inizio del
processo diocesano per la beatificazione
di Julius K. Nyerere

Lanciata da mons. Samba, che ammirava l’onestà e sobrietà di vita e la profonda spiritualità di J. Nyerere, la causa di beatificazione ha perso energia dopo l’improvvisa morte del vescovo stesso nel giugno 2006. Il nuovo vescovo di Musoma, mons. Michael Nsonganzila, intende rilanciare la causa, facendone una priorità per tutta la Chiesa del Tanzania.

Francesco Beardi




L’Incontro (Nohimayou) – 1


50 anni di Catrimani (1965-2015):
Yanomami e Missionari della Consolata.

In questa Prima parte:

Introduzione di Stefano Camerlengo

Presentazione di Paolo Moiola

I TESTIMONI

Testimonianza di Giuglielmo Damioli

La voce di Corrado Dalmonego


Vai alla Seconda parte: I Testimoni:

Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini

Vai alla Terza parte: SCHEDE

Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami

Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO

La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta

Video: “Vennero come amici: 50 anni di Missione a Catrimani tra gli Yanomami”,
realizzato da Yuri Lavecchia e da Daniele Romeo.
Eccezionale testimonianza sui 50 anni dei Missionari della Consolata a Catrimani.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UrVF88Uqf9A?start=14&feature=oembed&w=500&h=281]

 


 Introduzione         

 Una storia che deve continuare

di Stefano Camerlengo

Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.

Come missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato.

Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.

Dialogo senza pregiudizio – Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro giornie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione.

Uno stile rispettoso È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno.

Presenza, denuncia, annuncio – Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come – ad esempio – la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.

Tanti, ma non abbastanza – Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.

Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.

Il dovere «etico» di rimanere – Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.

Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così.

Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.

Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui. 

Stefano Camerlengo

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L’evoluzione del dubbio

Yanomami e napëpë

 di Paolo Moiola

Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.

Boa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo.

Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura.

«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lontano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita – proseguiva il prelato – e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».

Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato-selvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.

«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.

Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per cambiare gli indios – hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6.


La missione in riva al Catrimani, sullo sfondo la maloca Yanomami.

Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.

Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9.

Nelle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata – fisica e culturale – dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat.

Paolo Moiola

Note

(1)  Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2)  Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è andato al riposo eterno nel settembre 2014.
(3)  Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritoo alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5)  Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65.
(6)  Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7)  Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968
(8)  Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9)  Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.


La maloca


  I TESTIMONI                                 

Lo stile nuovo di Catrimani

La cappella non è al centro

 di Guglielmo Damioli

Cinquant’anni fa – era l’ottobre del 1965 – i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.

Da bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano?Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popolato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo.  Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America.


Damioli Guglielmo che rimase venti anni al Catrimani.

Brandendo la croce e la spada

Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù…  sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritoo alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati – Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli – di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.

«Il Dio dei bianchi è cattivo»

Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «… il Dio dei bianchi è cattivo».

Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria.  Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.

Non ricordo i testi  biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «…e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi…».

Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigante-fiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo.

Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani – dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del Cimi) fino a noi – battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentirneri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.

Una breccia mortale: «napë pë mohoti»

Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto…  Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti…».

Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yanomami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.

A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquillizzato gli indios, salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell’equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.

I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.


Sciamano che cura un malato.

Autodifesa: terra, lingua, identità

Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata».

La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.

Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribù attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»).

In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni… La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio.

L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.

Guglielmo Damioli
(Hewësi Par+ki)


Dall’incontro alla condivisione

I nostri primi cinquant’anni

 di Corrado Dalmonego

In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.

 «Molto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi, quando io ero un bambino di circa 10 anni, i padri risalirono il fiume Catrimani […]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. […]». Con queste parole, Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani.


Padre Corrado Dalmonego.

Esotici, strani, misteriosi

Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria.

Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina – allora superiore generale dell’Istituto – aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos – bravos significa selvaggi […]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami – che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni – seguivano le tracce lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.

Secondo: questo trovarsi – seppure segnato da concezioni molto diverse – ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che – nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione – il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte – in una notte di pioggia – a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.

Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.

Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.


Padre Bindo Meldolesi in un viaggio dei primi anna Sessanta.

Invasori e missionari

Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette – per la esiguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli – a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa.

Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» – le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti – come unica possibile forma di azione evangelizzatrice.

La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente.


Ancora padre Bindo Meldolesi sul fiume Catrimani.

La prossimità nel quotidiano

P. Giovanni Calleri a Catrimani.

La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che – all’inizio della presenza missionaria, come oggi – anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comunità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute.

In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.

Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci – soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale – sono molto apprezzate da loro.

La scritta dipinta sulle pareti della prima casetta dei missionari da padre Giovanni Calleri.

Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)

Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.

Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare foendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro).

Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentirneri nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà.

Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato.

Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.

Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre più pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.

Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome – per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente – o festeggiano una nascita.


Padre Silvano Sabatini che ha dedicato la vita alla causa degli Yanomami.

Il segreto sta nella condivisione

Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando – quando accolti – in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione:

– togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti – fra spine, zone allagate, liane – per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo;

– imparando un’altra lingua – che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria – per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;

– cercando di conoscere – condotti dalle nostre guide – la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio – anche se trascendente – ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto;

– apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana – alle volte… troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di manioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;

– imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita.

È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari – fragili messaggeri – scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte.


Suor Florënça Lindey Águida

Avvicinarsi e rimanere

Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che – essendo voi religiosi e conoscendo Dio – Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, così come sono stati creati i non-indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».

Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per… altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante».

 
Corrado Dalmonego
(Hewësi Ihurupë)

Note

(1)  Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2)  Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3)  Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4)  Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5)  Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42,  luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.

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Continua la lettura con la seconda, terza e quarta parte di questo dossier

a cura di Paolo Moiola