N.E.2 – Dove la religione diventa irrilevante

Scenari in Europa


Alcune note molto sintetiche per capire la realtà
europea attraversata da profondi cambiamenti di carattere culturale e religioso
dalle conseguenze inedite sulla vita della Chiesa. La religione cristiana non
solo deve competere con le altre religioni, ma è sempre più ridotta alla
dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita sociale. Senza una vera
comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova evangelizzazione» resta
astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi schemi e metodi
di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però lasciano
tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di vera
evangelizzazione.
Tempo di crisi

Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate
della nuova evangelizzazione le chiese di antica cristianità (soprattutto
europee). Questo interpella direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi
e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione battesimale siamo i
primi annunciatori della Buona Notizia proprio in questa nostra Europa. È
un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni
cambiamenti soprattutto di carattere culturale e religioso, che hanno investito
le nostre nazioni.

Forse, guardandoci intorno, contandoci – diminuiscono i
sacerdoti e le persone impegnate nella vita consacrata, si chiudono o vendono
le chiese e, pur avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e pratica
si ritrova ormai ridotto a una minoranza sempre più emarginata -, aumenta il senso
di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa esperienza di «spiazzamento»
dovremmo provarla nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e
globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento non più un moto
temporaneo, ma il vero «il modo di essere» della realtà. Sì, l’Europa sta
cambiando, e se non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di
noi.

Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo
essee convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in questo tempo. Cogliere quest’ora
(kairos, tempo della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa
quindi essenziale per disceere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in
questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante.

La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può
svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal
rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a
uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario,
impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo
dati. Dipende molto da come viviamo e gestiamo la crisi.

Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della
crisi in cui viviamo.

Pluralizzazione
dei riferimenti culturali

Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo
definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si
articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle
loro definizioni di base.

Il primo è la secolarizzazione che non significa
automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi la definiscono come «il
processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose
perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono che «la
secolarizzazione non spinge via la religione dalla società modea, ma
piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione
importante per l’intera società».

Il secondo è il processo di privatizzazione che
accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre
prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede, ormai
relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da
altre priorità.

Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle
offerte
a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di
scelta e di cambiamento. Questo produce anche modi diversi di vivere la
religione e le culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di
cambiare idea, prodotti, consumi e costumi.

Un ultimo aspetto merita di essere considerato, anche se
non frequentemente collegato ai fenomeni già citati: quella che qualcuno ha
chiamato rivoluzione mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e
differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari,

in rivista di Sociologia Urbana e Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p.
27-43 ), ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in
fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le
migrazioni, dunque, che ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare
ulteriormente i fenomeni citati.

Migrazioni e cambiamenti

La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in
Europa non è solo un fatto quantitativo, di numeri che possono impressionare e
preoccupare. La presenza di popolazioni immigrate, con diverso background
storico, culturale, religioso e sociale, di fatto, ha prodotto «un’Europa
plurale» molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di fatto
l’immigrazione produce anche un cambiamento qualitativo. Infatti la
presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli
immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni
del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali,
immagini e simboli.

Segnali
di un ritorno della domanda religiosa

In controtendenza con il secolarismo, il tracciato
culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di senso con l’aiuto
della religione. Si tratta però di una religione essenzialmente autoreferenziale,
sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del benessere
individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo
sociale. Anche i riti e le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono
utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per ritrovare la pace, la
serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si
è aperto un grande supermarket del religioso accessibile a tutti anche grazie
all’internet e alla televisione.

Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente
europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere
senza credere
e, d’altra parte, su un credere senza appartenere:
all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla sua parrocchia succede
quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla
ricerca delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi bisogni di
sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente
questo ha poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera
a Diogneto
che riportiamo a pag. 34, ndr.].


Indifferenza

Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della
maggior parte degli uomini delle nostre società post–cristiane. L’indifferenza
religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza
e inutilità. È una sorta di indifferenza generalizzata di chi è deluso
dalla politica e dalle ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di
rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore delle ipotesi, si trasformano
in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo il
ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle feste liturgiche,
rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni
(beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate mondiali) o
marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e
privilegiando luoghi come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a
scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale
parrocchiale.

La
de-cristianizzazione

Sfida intea, e di non poco conto, può essere
considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o paganesimo in
Europa. Sembra che il cristianesimo sia sconfitto nell’ambito della vita
quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che va
oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle nuove generazioni
dalla Chiesa e dalla sua dottrina è evidente, e le conseguenze di questo
fenomeno non sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra pratica
religiosa e vissuto quotidiano.

Come la Roma antica, l’Europa modea sembra simile a un
pantheon, a un grande «tempio» in cui tutte le «divinità» sono presenti,
o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia.

Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di
fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da parte della maggioranza
degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani.

I
Giovani

Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i
giovani. È praticamente impossibile definire in modo univoco e statico la
condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura
pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un lato cercano
appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza
d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere,
delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico. Con un futuro,
soprattutto lavorativo, estremamente incerto.

Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e
priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente
sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità
incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla
scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare”
dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico,
affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità
e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono
dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del
loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa
il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo,
dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente
socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi
va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura»
(Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del
Congresso «Nuove Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio 1997, n. 1.c).

Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o
nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d’essa, smarriti lungo
sentirneri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.
Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una
fotocopia del presente.

Nuove
divisioni nella Società

La società oggi si divide su questioni diverse da quelle
del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche
diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà…),
oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione,
spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi,
ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali,
culturali o pseudo-culturali.

La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o
addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali
(inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni
dagli altri, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti
al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in
discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci
pensano nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di
cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi
e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque aperti al dialogo, e
coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo
immaginare.

La diffusione della paura nelle nostre società,
la sua strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato anche economico,
sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per
definizione, qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada,
in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i
nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e
filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati,
nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare
grandi timori fra i cittadini, anzi.

Fortress Europe

Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al
respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo
dell’Europa. La firma dell’accordo di Schengen nel 1995 compie due operazioni:
abolisce i controlli alle frontiere intee e sposta i controlli alle frontiere
estee. Resta quindi nitida l’immagine di una Fortezza Europa impermeabile
dall’esterno, soprattutto dal continente africano.

«Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa
libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a
Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti dei
sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di repressione della libertà di
movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo. Dal
1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui
2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012» (http://fortresseurope.blogspot.it/).

Povertà

In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia
milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone che sono esposte al rischio di povertà
o di esclusione sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave
indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il rischio di povertà
o di esclusione sociale è molto più alto del resto della popolazione (27%
rispetto al 23% della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone
a una deprivazione materiale che va al di là della malnutrizione. Ad esempio,
5,7 milioni di bambini non possono permettersi indumenti nuovi e 4,7 milioni di
bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi
il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo un paio di scarpe per il
brutto tempo. I bambini che soffrono di deprivazione materiale producono
risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono
poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti.

Una forma particolarmente grave di deprivazione
materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la cui entità è
difficile da quantificare. Le stime di cui si dispone indicano però che in
Europa nel 2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei
senzatetto è aumentato di recente a causa dell’impatto sociale della crisi
economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor più
preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie con bambini, giovani e
migranti.

Esclusione
sociale

Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine «esclusi»
a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia, gli esclusi, oggi, sono dei
nostri. L’esclusione sociale è un fenomeno relativamente nuovo per la sua
radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio,
perché uno soffre in quanto è parte del sistema. L’escluso è semplicemente
ignorato;
né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da
rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione
degli esclusi, perché si tratta di un investimento non redditizio; gli esclusi
non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono
non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di più, nella
situazione di occupare il margine, come quello della pagina. Ma bisogna
ricordare che il margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente,
l’esclusione è un’inclusione nel margine stesso. L’escluso viene collocato al
suo posto, gioca il suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta
il valore del lavoro agli occhi di tutti gli altri. Egli è il cattivo esempio.
L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano,
nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in una periferia della geografia
urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi.

La
frantumazionedei legami sociali

Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in
apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido», descrive il carattere
fluido della nostra società, con la sua assenza totale di «consistenza», di
stabilità, e il carattere effimero, incapace di durata, non solo delle nostre «cose»,
ma anche (e soprattutto) delle nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre
più rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso letterale del
termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza
sul «usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si estende ai rapporti
interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve
produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta, per cercare emozioni
altrove e con qualcun altro.

Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro dal
titolo significativo, tradotto in italiano come se esprimesse un desiderio: «Voglia
di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese, suona
molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità –
comunità mancante
).

Il
proliferare dei «nonluoghi»

Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato
una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodeità» (Eleutera editrice, Milano
1993, nuova edizione 2009).

Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai
luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non
essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture
necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni: autostrade,
svincoli, aeroporti, stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali,
eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza
entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di
accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un cambiamento (reale o
simbolico).

I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra
epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel
campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un
individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi
abita. Insomma sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e
frequentati.

Morte del prossimo

Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e
svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa
frase riassume bene il messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel suo
libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009). Perché si è distanti dal vicino
e vicini al lontano.

Nelle società globalizzate il vicino è un nemico
potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la
globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone
lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive
nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. «Dopo la morte di
Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale
dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano
senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo
Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino.
È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma
anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i
morti causa turbamento».

Epoca
delle passioni tristi

Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag
filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno
scritto un libro: «L’epoca delle passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro
tesi è che la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata
da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia».

Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul
presente motivando impegno, applicazione, entusiasmo, slancio, prospettiva, ma
fa implodere ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A
che scopo?», «perché?». Siamo quindi al nichilismo, che più di un secolo
fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro, così definendolo: «Nichilismo:
manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi perdono ogni valore».

Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema.
La storia registra le sue scansioni proprio grazie al crollo di certi valori e
all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso
dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo
appiattiti su un «eterno presente» che, non offrendo prospettive credibili, va
vissuto in tutta la sua intensità (tutto e subito) quando se ne ha la forza, o
in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un tarlo, ha fatto
breccia nell’anima.

Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso molto
bene quando ammoniva le chiese dell’Europa «Spesso tentate da un offuscamento
della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono
proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano
disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi
stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo
millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il quale, pur nel pieno
possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una
convivenza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che
la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi
popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale Ecclesia in
Europa
, 28/06/2003, n.7).

Antonio Rovelli




N.E.3 – Sulle tracce del «sogno di Dio»

Qualche
suggerimento operativo

Alcuni spunti, non esaustivi e solo accennati, per
continuare a riflettere/pensare insieme sulla missione – nuova evangelizzazione
in Europa oggi.

Pellegrini
«con» Gesù in Europa

«La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si
realizza questo diventare uomo? Come si impara l’arte di vivere? Qual è la
strada della felicità? Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada,
insegnare l’arte di vivere. Gesù dice all’inizio della sua vita pubblica: “Sono
venuto per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); questo vuol dire: io ho la
risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita,
la strada alla felicità, anzi: io sono questa strada, il Vangelo, la buona
notizia in persona» (La Nuova Evangelizzazione, Joseph Ratzinger,
10/12/2000).

Prima di tutto va ricordata una cosa fondamentale per
ripensare la missione in Europa: occorre ripartire da Cristo. «Non ci
seduce certo, scrive Giovanni Paolo II, la prospettiva ingenua che, di fronte
alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non
una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci
infonde: io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo
programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e
dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso,
da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e
trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste.
È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se
del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione
efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo
Millennio Ineunte
, 29).

Occorre dunque ritornare alla scuola di Gesù itinerante
per le strade della Palestina.

I Vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il
gruppo in missione. La comunità dei discepoli è itinerante come il
Maestro. Gesù e i discepoli sono costantemente davanti alla folla. È stando con
Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare, dove e per quale
annuncio. Ma è andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita,
infatti, è itinerante, senza fissa dimora. Non si tratta di una tecnica
pedagogica secondaria, ma di una questione d’identità: se la comunità non va in
missione, se non sta sempre davanti alla folla, mostra di non aver capito (e
accolto) l’evento di Gesù e non si fa più segno nel mondo di quell’evento. Il
sale non è più sale.

Un altro luogo privilegiato per l’incontro con Gesù è
la strada
: quella in cui incontra Zaccheo, e i lebbrosi, e il cieco, quella
che percorre insegnando e guarendo, quella che lo conduce a Gerusalemme dove si
compiranno i suoi giorni. Gesù sa cos’è la strada. Ha cominciato a muoversi
prima ancora di nascere, nel grembo della madre. E se non ha «una pietra dove
posare il capo», non gli è mai mancata una strada dove camminare. Gesù è un
pellegrino, un viaggiatore, come il samaritano. Ha la strada nel sangue. è sulla strada che incontra la gente, che
guarisce, che si commuove, che predica e prega e sfama la folla.

«(Gesù) non sceglie di portare il suo insegnamento
innanzitutto e soprattutto nei luoghi di culto o nei luoghi della cultura, né
in quelli della politica o in quelli del mercato. Sceglie prioritariamente la
strada: il traffico della strada, dove la sorpresa è sempre di casa. Non si può
scegliere chi incontrare né da chi lasciarsi incontrare. Non puoi nasconderti
sulla strada; sei esposto ed esponi gli altri al tuo sguardo. Vi è una presenza
(quasi) nuda di noi stessi. Una presenza precaria, ma – è questo il punto – già
aperta, disponibile all’altro, allo sconosciuto, allo straniero, incontrando il
quale e lasciandosi incontrare dal quale possiamo forse cogliere quello
sconosciuto che abita in noi e divenire perciò più coscienti di noi stessi» (A.
Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e
non credenti
, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p.25-26).

La
missione «di strada» di Gesù

La missione di Gesù è stata una missione popolare tra la
gente e per la gente. La dedizione di Gesù per la gente è lo specchio luminoso
dell’amore di Dio per tutti: malati, peccatori, stranieri, gente disorientata
come pecore senza pastore. Tutta la miseria del popolo si dispiega davanti a
Gesù. È a questo popolo che Egli annuncia – con le parole e le guarigioni – il
Regno.

L’atteggiamento di Gesù verso la gente nasce da una sua
profonda «compassione» (cioè da un amore profondo, preoccupato, partecipativo e
quasi materno che tende a dare/suscitare la vita) e manifesta la sua totale
dedizione.

Il «come» Gesù ha vissuto
concretamente l’amore è il modello chiaro per chi vuole seguirlo sulla strada
dell’annuncio della buona notizia del Regno.

Innanzitutto Gesù si è «spogliato» per entrare in dialogo con le
persone: nella pratica dell’incontro interpersonale egli ha vissuto la
dimensione dialogica, sempre accompagnata dalla dimensione di auto-svuotamento,
di condiscendenza. Gesù non ha mai consegnato a chi incontrava una verità astratta
o generica, ma ha instaurato con le persone una relazione umana, che diventava
per l’interlocutore un tempo favorevole e decisivo per orientare il senso della
vita. Il suo comunicare «in situazione» era preceduto da un cammino di
abbassamento, di condiscendenza, che rinnovava quel cammino di kenosis
(auto-svuotamento) da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di
uomo come noi (cfr. Fil 2,6-7).

Un’altra caratteristica dell’annuncio del Regno
praticato da Gesù era la sua capacita di accoglienza. Gesù sapeva
incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto
del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cfr. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea
(cfr. Mc 15,42 43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cfr. Mt
8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cfr. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli
uomini giusti come Natanaele (cfr. Gv 1,45-51), o i peccatori pubblici e le
prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cfr.
Mc 2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1).

Com’era possibile questo? Perché Gesù era capace di non nutrire prevenzioni,
sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare
senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Gesù creava uno spazio
accogliente tra se stesso e colui con il quale entrava in dialogo; faceva
questo mettendosi innanzitutto in ascolto dell’altro in quanto persona come
lui, in quanto membro dell’umanità dotato di un volto, di una storia e di un
nome precisi, e cercando dunque di percepire cosa gli stava a cuore, qual era
il suo bisogno.

Ha saputo vedere:

• un uomo dove gli altri vedevano
un pubblico peccatore (cfr. Lc 5,29-30);
• una donna dove gli altri vedevano
una prostituta (cfr. Lc 7,36-50);
• la salvezza all’opera dove gli
altri vedevano solo vizio e peccato (cfr. Lc 19,1-10).

È in questo modo che Gesù ha vissuto la sua intera
esistenza come capolavoro d’amore, e così ha compiuto pienamente la volontà di
Dio, è stato «l’uomo secondo il cuore di Dio».

Il
senso umano della sequela di Gesù

Si tratta oggi di dare carne al comandamento
dell’amore
così come Gesù ce lo ha indicato e mostrato, comprenderlo in
modo rinnovato, adoperandosi per far emergere quella che si potrebbe definire
una «grammatica umana dell’amore». E questo insieme a una riscoperta della prossimità:
le due istanze sono strettamente interrelate e vanno di pari passo.

Allora «chi ha spirito missionario sente l’ardore di
Cristo per le anime e ama la Chiesa come Cristo. Il missionario è spinto dallo
zelo per le anime, che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di
attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento
ai problemi della gente» (Rm 89).

Noi siamo chiamati in Europa a imparare il linguaggio
degli uomini di questo tempo. O, forse, prima del linguaggio, dobbiamo anche
imparare l’alfabeto col quale balbettare le parole del cuore e della simpatia,
prima che della ragione, delle regole e proibizioni.

Questo perché l’evangelizzazione non batta sentirneri
aridi, ma sappia respirare a pieni polmoni il vissuto degli uomini, nostri
fratelli e sorelle, perché l’evangelo non sia ridotto alla sola dimensione
morale o legale, perché la spiritualità cristiana non sia declinata in
opposizione alla realtà umana e materiale.

Occorre recuperare il senso umano, umanissimo, della
sequela di Cristo, la quale non è riducibile al rispetto di norme, a un
affannarsi a tempo pieno, a un’attività pastorale frenetica, ma esige la
gratuità dell’amore. Questo perché, attraverso di noi e la nostra
testimonianza, il Vangelo non diventi sale scipito, ma conservi il suo sapore,
non opacizzi la luce, ma continui a illuminare.

Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione:
in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e
risorto in forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare non è
anzitutto portare una dottrina, comunicare della verità: è raccontare Gesù
Cristo
come colui che ha evangelizzato «Dio» – ha, cioè, reso Dio
una buona notizia – e ha evangelizzato l’uomo vivendo egli stesso nella
storia e nella condizione umana, e rivelando a ciascuno la sua autentica natura
di «salvato».

Questo è il contributo specifico del missionario – pellegrino nel suo cammino in compagnia degli uomini:
vivere, rendendola visibile e tangibile questa prassi missionaria di Gesù. In
questo modo saprà rispondere al grido, spesso in forma di gemito, che
percepiamo venire dall’Europa oggi: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21), come i
pagani chiesero ai discepoli in occasione della sua ultima pasqua a
Gerusalemme.

Questo è il contributo di ogni cristiano, perché la nuova evangelizzazione non è un «affare»
esclusivo degli uomini e donne di Chiesa, ma è la missione di ogni battezzato
che ha incontrato Gesù nella sua vita. Come i primi cristiani che, cacciati
fuori da Gerusalemme dalla persecuzione «andavano per il paese e diffondevano
la Parola di Dio» (At 8,4) e liberi da schemi e tradizioni, animati dallo Spirito,
seppero evangelizzare in modi nuovi e creativi (come ad Antiochia, dove per la
prima volta il Vangelo fu annunciato specificamente ai non ebrei. Vedi At
11,19-21).

Imparare
a sognare

Si tratta allora di imparare di nuovo a «sognare» per
intravedere una nuova visione/immaginazione evangelica che si traduca in azione
e significhi una nuova operatività missionaria, entro il contesto, a un tempo
plurale e globale, dell’Europa di oggi.

Per questo prima di tutto occorre superare
l’autoreferenzialità
, cioè, il ripiegamento su noi stessi, sui nostri
limiti, paure e debolezze. Basta piangerci addosso, pensare che tutto dipenda
da noi. Dobbiamo sollevare lo sguardo e lasciarci guidare dal sogno di Dio per
l’umanità e in particolare per questo nostro Continente. Abbiamo bisogno del
coraggio di sognare con Dio.

Secondo, dobbiamo ricordarci che è un cammino
graduale
da portare con pazienza, perseveranza e umiltà. Esige tempo,
riflessione, dialogo, voglia e passione per annunciare Cristo, anche oggi, in
questa Europa, da ritenersi vera e propria terra di missione a tutti gli
effetti.

In terzo luogo, capire che far/essere nuova
evangelizzazione non è mai una rottura con il passato, ma si colloca
nella logica del piano di Salvezza che celebriamo nella Liturgia attraverso
l’Eucarestia. Siamo in un cammino che è allo stesso tempo «continuità e
cambiamento, fedeltà al passato e coraggio di affrontare il futuro, costanza e
contingenza, tradizione e trasformazione». La memoria del passato vissuta nel
presente attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e l’ascolto della Parola,
ci dà la forza di «dar ragione della nostra speranza» (1Pt 3,15) in questo oggi
orientato al futuro.

Quarto, la nuova visione non deve essere pensata e
progettata come semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente,
ma deve essere aperta all’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi,
che determinano un sostanziale mutamento qualitativo. Sotto il segno della
pienezza, dell’impossibile divenuto possibile, e non semplicemente della
ripetitività, delle previsioni rispettate.

Questo è il grande balzo che siamo chiamati a compiere,
l’altra riva a cui tendere, la Gerusalemme a cui ritornare, correndo, pieni di
gioia, dopo l’incontro con il Risorto sulla strada di Emmaus.

Insomma, per concludere, si tratta di imparare a
contemplare l’oltre verso cui l’evangelizzazione in Europa deve protendersi.
Animati dalla certezza che il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e
nei contesti in cui operiamo in Europa, non può essere considerato come il
modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto
di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che
contenutistico.

_______________________________________________


BIBLIOGRAFIA

La bibliografia su questo argomento è immensa. Oltre ai
documenti e libri già menzionati nel dossier, segnaliamo qui solo alcuni dei più
recenti.

Zolli F. (a cura di), Essere Missione Oggi, EMI, 2012
AA.VV., La nuova Evangelizzazione, in Credere Oggi, 191 – 5/12, Edizioni Messaggero Padova,
2012
Bianchi E., Nuovi Stili di Evangelizzazione, San Paolo,
2012
Caramazza G., Dio Pensa Positivo,Fondamenti e prospettive della Missione “ai popoli”, EMI, 2012
Meddi L., La parrocchia cambia parroco, una risorsa per
la pastorale
, Cittadella, 2012
Meddi L., Dotolo C., Evangelizzare la vita cristiana, Cittadella, 2012
Albanese G., Missione XL, per un Vangelo senza confini, Edizioni Messaggero
Padova, 2012
Maggioni B., Nuova Evangelizzazione, forza e bellezza
della Parola
, Edizioni Messaggero Padova, 2012
Casale G., Guai a me se non annuncio il Vangelo, Meridiana, 2012
Barreda J-A., Europa e Nuova Evangelizzazione, UUP, 2012
Colzani G., Pensare la Missione, UUP, 2012
Enchiridion della Nuova Evangelizzazione, Editrice
Vaticana, 2012
Sieveich M., La Missione Cristiana, Queriniana, 2012
Aranda A., Una “nuova” Evangelizzazione. Che fare? Come
fare?
, Ares, 2012
Kasper W., Augustin G., La sfida della nuova
evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede
, Queriniana, 2012
 
L’AUTORE

Antonio Rovelli, missionario della Consolata nativo
della Brianza. Studi a Londra, prete nel 1984, missionario in Uganda dal 1988
al 1996, economo di Casa Madre a Torino fino al 2000, responsabile
dell’animazione missionaria fino al 2008, fondatore della «Scuola per
l’alternativa», è ora responsabile dell’ufficio cooperazione di Missioni
Consolata Onlus, segretario nazionale del Suam (Segretariato Unitario di
Animazione Missionaria
) e vice direttore dell’ufficio della pastorale migranti
della diocesi di Torino.

Coordinamento editoriale
Gigi Anataloni, direttore di MC
 

Antonio Rovelli




3. Iran: La forza di un popolo giovane e colto

Intervista con
Davood Abbasi
A Teheran abbiamo incontrato il direttore dell’edizione
italiana di Radio Irib, l’emittente dello stato iraniano ascoltabile anche in
Italia. L’embargo (occidentale), la guerra in Siria, le relazioni
inteazionali, l’Islam, l’origine e il ruolo dei gruppi salafiti, i rapporti
con il mondo cristiano, ma anche i progressi scientifici e il nucleare. Ecco i
punti salienti di una conversazione a 360 gradi.

Teheran. Il compound della Radio e Tv di stato iraniana
occupa una vasta area della collina a nord della città. I controlli all’entrata
sono severi e anche l’abbigliamento deve essere adeguato. Qui non si ammettono
licenze in fatto di capigliatura, tollerate fuori, e i capelli devono essere
ben nascosti sotto un foulard o un chador. Gentili e accoglienti, le addette
alla sicurezza ci accolgono, ci perquisiscono e ci indirizzano verso la
redazione di «Radio Irib» (http://italian.irib.ir), in un dedalo di
stanze e sale di trasmissione, dove ci aspetta il giovane direttore
dell’edizione italiana, Davood Abbasi, giornalista ma anche ingegnere
aerospaziale.

Direttore Abbasi, l’Iran è sotto
embargo da molto tempo, ma negli ultimi anni le sanzioni si sono fatte più
pesanti. I cittadini come affrontano la situazione?

«La situazione dell’Iran sotto
embargo è ormai consolidata. Nel senso che quando contro un paese sono in
vigore sanzioni da oltre 30 anni, la questione non è certo una novità. Nel
corso degli anni l’embargo è stato però graduale e ciò ha dato al popolo
iraniano e naturalmente alle autorità la possibilità di sviluppare le proprie
difese e di mettere a punto le dovute contromisure. L’Iran sopravvive, ma
soprattutto progredisce perché l’embargo (box di pagina 37) non è “internazionale”
quanto piuttosto “occidentale”. Inoltre, molti paesi del fronte “occidentale”,
alla fine, non riescono ad attenervisi e continuano a fare affari con noi».

L’embargo colpisce però la vera
ricchezza dell’Iran: il petrolio.

«Prima dell’inizio del contenzioso
sul nucleare, gli Stati Uniti hanno cercato di penalizzare l’Iran a più riprese.
Nel 1996 approvarono la legge Ilsa
(Iran and Libya Sanctions Act). Ancora prima cercarono di interrompere
le relazioni Iran/Europa con la farsa del caso tedesco Mykonos, un attentato di
cui vennero incolpate le autorità iraniane senza uno straccio di prova. Accuse,
sanzioni, misure hanno indotto diverse volte le compagnie energetiche e
petrolifere occidentali come la Siemens, l’Eni, la Total, l’Ansaldo a lasciare
l’Iran per poi ritornarvi. In questi continui tira e molla l’Iran ha imparato a
fidarsi sempre di più di partner di altre parti del mondo, come delle compagnie
provenienti da Malesia, Indonesia, Cina, India, e delle proprie compagnie
private.

Gli Usa da anni vietano la vendita
all’Iran di pezzi di ricambio di aerei e l’Iran ha imparato a procurarseli dal
mercato nero pagando qualcosa in più, o utilizzando compagnie estere come
prestanome.

L’ultima fase riguarda gli otto
anni di governo dell’ (ex) presidente Ahmadinejad, che, mossa dopo mossa, è
riuscito a prevedere i passi dell’Occidente impedendo il collasso della
nazione.

Quando i paesi occidentali
sventolarono la probabilità di interrompere la vendita di benzina all’Iran, lui
cambiò velocemente i sistemi di diverse raffinerie che invece di altri prodotti
iniziarono a produrre il combustibile. Egli applicò, inoltre, il razionamento
della benzina e così non solo rese l’Iran autosufficiente nella produzione, ma
lo trasformò in un esportatore».

Il petrolio iraniano continua ad
essere una carta pesantissima nei rapporti inteazionali del suo paese…

«Certamente. Prendiamo la Turchia.
Ankara può anche pensarla diversamente rispetto all’Iran in questioni come la
Siria, ma sia l’Iran che la Turchia sanno benissimo di essere legati a doppio
filo per via dell’esportazione del gas iraniano, una vera e propria linfa
vitale per l’economia turca senza la quale Erdogan non può nemmeno immaginare
di sopravvivere. Lo stesso vale per Iraq, Repubbliche Centro-asiatiche e
Afghanistan. Con questi paesi ci sono scambi di energia elettrica, con alcuni
stati della regione, come il Kuwait, persino quelli di acqua potabile. Il
Pakistan, entro un anno, con il completamento del “gasdotto della pace”, sarà
collegato a Teheran ed è in fase di studio anche la costruzione di un oleodotto
che colleghi le due capitali. La Cina ha già annunciato il proprio per
l’ampliamento di entrambi i progetti verso il suo suolo, concedendo persino una
linea di credito al Pakistan.

Dall’altra parte c’è un’India che
dipende dal petrolio iraniano in maniera considerevole e che ha più volte dichiarato
di non volervi rinunciare. Nel lontanto est-asiatico ci sono la Corea del Sud e
il Giappone, due alleati Usa che però sono troppo collegati al mercato
iraniano. In particolare la Corea del Sud dipende dal greggio dell’Iran e
rivende una quantità incredibile di automobili ed elettrodomestici nel mercato
iraniano.

Sommando l’Africa, l’America Latina
e alcuni paesi dell’Europa con maggiore indipendenza, l’Iran ha ancora una
buona fetta di comunità internazionale con cui commerciare e trattare. È forse vero
che la popolazione, in questo periodo, ha sentito l’effetto dell’embargo
obamiano in maniera più consistente del passato. In effetti mai era stato
proibito l’acquisto del petrolio e mai era stata boicottata la banca centrale
iraniana, ma anche in questo caso la dirigenza ha trovato le soluzioni. Da
Turchia e India si fa dare l’oro, dalla Cina riceve merce, con ogni nazione ha
trovato la sua formula ideale. Le navi iraniane vanno a vendere il petrolio in
alto mare. Insomma, l’Iran è diventato ancora più forte ed è poco obiettivo
sostenere che sia stato messo in ginocchio dall’embargo. La conclusione è che
oggi la nazione va avanti nonostante le sanzioni. Se qualcuno lo vuole proprio
fuori dai giochi, dovrà pensare a qualcos’altro».

Come reagiscono i giovani iraniani
davanti alle sanzioni che colpiscono il loro paese?

«L’Iran ha un numero elevato di
laureati e specializzati, e il lavoro abbonda per questa generazione dato che
c’è tanto da fare e costruire. Per questo la quasi totalità dei giovani si
impegna e dà vita a quello che, senza esagerazioni, bisogna chiamare il “prodigio
tecnologico e scientifico” dell’Iran.

Nel 2012 le organizzazioni
inteazionali hanno proclamato l’Iran la nazione al mondo con il più veloce
progresso scientifico dato che il numero di pubblicazioni di studiosi iraniani,
nel giro di 10 anni, era aumentato di 11 volte. Oggi, nella regione, la nazione
supera pure la Turchia e ha ottenuto il primato. Nella classifica mondiale
generale è al 14esimo posto secondo alcune classifiche, al 17esimo secondo
altre. E questo non è l’identikit di una nazione isolata.

Una nazione che clona gli animali,
che manda nello spazio i suoi satelliti autonomamente, che padroneggia la
tecnologia nucleare, che vince l’Oscar con i suoi film, che eccelle pure nelle
discipline sportive, o non è isolata, o come minimo ha saputo reagire bene a
tutti i tentativi di isolarla».

Nel novembre 2012 Barack Obama è
stato rieletto presidente degli Stati Uniti. Vede, in prospettiva, un
cambiamento di linea politica nei vostri confronti?

«È inutile nascondere che Barack
Obama, con tutta una serie di azioni di basso profilo, sta cercando di
preparare al meglio una vera e propria guerra all’Iran. Al contrario della sua
parvenza pacifica, Obama ha imposto contro il nostro paese le sanzioni più dure
della storia, ossia il divieto di acquisto del petrolio, nostra principale
fonte di reddito, e poi il boicottaggio della Banca centrale iraniana. Per
essere chiari, sono misure che distano solo un passo dalla guerra vera e
propria. Questo l’Iran lo ha capito e non a caso nei mesi scorsi autorità
politiche e militari di Teheran hanno informato che sarebbero pronte a chiudere
lo Stretto di Hormuz nel caso di un’aggressione militare. Attraverso questo
stretto passa gioalmente qualcosa come il 40% del greggio mondiale ed è
naturale che basterebbe una chiusura anche temporanea per far schizzare a cifre
impensabili il suoprezzo. Naturalmente ne conseguirebbe un contraccolpo
economico spaventoso che l’Occidente – già oggi alle prese con una pesantissima
crisi – non sarebbe in grado di assorbire. 
Obama è il paziente stratega che nel corso di anni ha preparato l’azione
finale contro l’Iran1». 

Quali sono i legami tra la guerra
civile in Siria e le minacce all’Iran?

«Come ho spiegato prima non credo
che i venti di guerra contro l’Iran si siano placati ed anzi, in Siria, gli Usa
hanno scelto probabilmente di combattere una guerra per procura anche contro
l’Iran. Loro stanno agendo per conto di Israele, che in pratica considera
nemica la Siria solo per il fatto che Damasco rivendica la proprietà delle
alture del Golan, zone effettivamente siriane occupate da Israele con la “Guerra
dei Sei giorni” (1967).

Come ha fatto notare alle Nazioni
Unite il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, l’accanimento contro la
Siria è dovuto all’alleanza di Damasco con l’Iran. È notorio che nei primi mesi
del conflitto in Siria, ad Assad era giunta una proposta da parte
dell’Occidente: l’alleanza con il suo governo in cambio dell’interruzione delle
relazioni con l’Iran.

Il motivo è semplice. L’alleanza
non solo politica ma anche militare dell’Iran con la Siria, l’Iraq e il Libano,
rende di fatto impensabile per l’Occidente un’azione ai danni di Teheran. Perché
– con la collaborazione di questi alleati – l’Iran potrebbe colpire
tranquillamente e dolorosamente sia Israele che le basi Usa e Nato nel
Mediterraneo e nel Golfo Persico».

Dunque, secondo lei, la guerra in
Siria è soltanto un tassello di una partita contro l’Iran che vede in campo
numerosi attori. È così?

«Arabia Saudita e Qatar hanno
voluto creare una “primavera” fasulla in Siria per evitare che si sviluppasse
la primavera autentica che si stava creando e che c’è ancora nei loro
territori. L’est dell’Arabia Saudita, la regione di Qatif, ed il Bahrain sono
da oltre due anni teatro di moti popolari anti-monarchici e l’Arabia Saudita ha
cercato di soffocarli nel sangue. In più ha sguinzagliato estremisti religiosi,
criminali comuni, e terroristi provenienti da diverse nazioni arabe in Siria,
nella speranza che questa fasulla “primavera” potesse allontanare l’attenzione
mondiale e le forze che contano nella regione dai suoi territori. Poi c’è la
Turchia che si è lasciata ingannare dalle promesse di “potere” fattele dagli
Usa. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu è un teorico del pensiero
neo-ottomano2, che crede nella possibilità di
ridare vita all’Impero Ottomano di un tempo. Per questo si notano, nell’ultimo
periodo, le politiche aggressive di Ankara non solo nei confronti della Siria,
ma anche dell’Iraq. In più non bisogna ignorare gli sforzi della Turchia, negli
ultimi anni, di proporsi come un modello per tutte le nazioni del Nordafrica e
di improvvisarsi come un sostenitore sincero persino per la Palestina. In
questo senso anche il Qatar ha cercato di avvicinarsi ai palestinesi.

Purtroppo Davutoglu ha letto la
storia a metà e non si ricorda che uno dei motivi che portò l’Impero Ottomano
alla rovina furono le sue guerre contro l’Impero Persiano. Oggi, stiamo
assistendo ai famosi corsi e ricorsi storici teorizzati da Giambattista Vico.
Nella regione mediorientale ci sono due potenze emergenti, Iran e Turchia, ed
il bene di entrambe sarebbe cornoperare. Già una volta, in passato, questi due
centri di civiltà caddero in rovina, dato che attori stranieri riuscirono a
creare divergenze tra di loro. L’Iran comprende benissimo questa situazione e
lo ha dichiarato più volte. Ahmadinejad disse chiaramente che “certi paesi
saranno importanti per l’Occidente fino a quando ci sarà un governo
indipendente a Damasco. Se questo governo crollerà, altri paesi della regione
non varranno più nemmeno un fazzolettino di carta e toccherà a loro essere
attaccati”.

La Turchia non si accorge che dopo
Siria e Iraq, ammesso che in questi due paesi crollino gli attuali governi
indipendenti, l’obiettivo sarà proprio Ankara. In generale si può dire che
l’azione contro la Siria è l’inizio di tutta una serie di azioni successive.
Probabilmente contro l’Iraq, contro la Turchia stessa, e – perché no? – anche
contro l’Arabia Saudita.

Dopo aver disegnato una nuova
cartina della regione, gli americani cercheranno probabilmente di sferrare il
colpo finale anche contro Teheran. Per loro l’Iran è importante per due motivi
basilari. In primis, esso è il punto, probabilmente l’ultimo autentico, di
forza del mondo islamico: senza l’Iran sarebbe credibile la previsione di
Samuel Huntington3 che dava per condannata alla
scomparsa la civiltà islamica. In secondo luogo, è l’ultima tappa che precede
il grande duello, teorizzato da Huntington e altri, tra civiltà occidentale e
civiltà confuciana, cioè tra Usa e Cina».

Il neo-salafismo è un fenomeno in
crescita, costituendo una reale minaccia per molti Paesi.

«Credo che il neo-salafismo sia
frutto del pensiero di alcuni paesi arabi, Arabia Saudita in primis, che ha
cercato in qualche modo di salvarsi dalla morte. Spiego perché. Nel 1979,
quando in Iran vinse la rivoluzione islamica guidata dall’Imam Khomeini,
l’intero mondo islamico rimase a guardare stupito quella novità: quell’Islam
che voleva riportare in vita gli insegnamenti degli albori del profeta e che
non era corrotto, laico o occidentalizzato come quello di altre nazioni.

L’Islam iraniano ha veramente
rivoluzionato la scena politica della regione. È inutile negare che la regione
mediorientale del 1970 è molto differente rispetto a quella del 2000 e ciò
soprattutto per merito dell’Iran. Una nazione che nonostante l’aggressione
dell’Iraq di Saddam, nonostante le sanzioni e nonostante il “no” grande e grosso
detto sempre a Usa e Israele, ha costruito la sua fortuna contando sulla forza
della sua gente. Se tutte le nazioni della regione e persino in Europa
comprendessero che, per essere una nazione forte e indipendente, e non c’è
bisogno di essere sudditi di una qualsiasi potenza del momento, gli Usa
perderebbero il dominio su tante nazioni del mondo».

Ma a chi giova la diffusione del
fondamentalismo salafita?

«L’estremismo islamico è nato come
pensiero alternativo e alternativa politica al pensiero sciita iraniano. Per
questo gli Usa, con la cooperazione di Arabia Saudita e servizi d’intelligence
di altri paesi, hanno inventato i talebani, i salafiti, i gruppi di combattenti
estremisti.  Questi gruppi sostengono di
essere rivoluzionari, di combattere contro l’ingiustizia, contro le dittature,
certe volte anche contro gli stranieri, ma sono manovrati e gestiti proprio da
loro. Essi, tra l’altro, non possono nemmeno essere definiti islamici perché  l’Islam ha una radice che significa “pace” e
loro uccidendo persino musulmani di altre confessioni (sciiti, sufi, ecc.)
hanno dimostrato di non essere assolutamente degni di tale appellativo.

I gruppi estremisti salafiti,
impiegati in Libia, e poi esportati in Siria, e strumentalizzati pure in Mali,
hanno una duplice funzione: 1) sono strutture che possono arruolare giovani
ignoranti e poveri nei paesi arabi, impedendo loro di trovare vere vie di
liberazione dei propri paesi. In questo modo si garantisce la forza delle
monarchie filo-occidentali come quella saudita. 2) Questi gruppi hanno ai loro
vertici agenti della Cia, del Mossad e dell’MI6 o sono comunque molto vicini ai
servizi occidentali. Per questo possono essere usati e strumentalizzati per
giustificare azioni militari.

In pratica gli Usa formano queste entità
e le mantengono più o meno attive per impedire che nel mondo islamico si
formino autentiche forze rivoluzionarie. In più, possono usare questi “falsi
islamici” per azioni di terrorismo che poi servono per giustificare le campagne
militari di conquista». 

Qual è il ruolo di Arabia Saudita e
Qatar nell’attuale scenario mediorientale?

«Arabia Saudita e Qatar sono due
monarchie traballanti e sanno molto bene che mantenere un simile sistema di
governo nella regione del Golfo Persico tra popolazioni musulmane è tutt’altro
che semplice.

È noto che dopo il crollo
dell’Impero Ottomano, gli inglesi cercarono di costruire su modello della
Corona inglese degli imperi nella regione ed oggi in nazioni come Arabia
Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati, Oman, Giordania osserviamo più o meno la
stessa cosa.

L’Arabia Saudita, storicamente, ha
sempre cercato di impedire l’ingresso di onde modeizzatrici nel suo
territorio e nelle nazioni circostanti. A questo ruolo dei sauditi si è unito
quello svolto dal Qatar. Entrambi i paesi cercano di alimentare l’estremismo
salafita per salvaguardare la propria monarchia. Infatti, in una situazione di
normalità e assenza di conflitti nella regione, la situazione in Arabia Saudita
sarebbe difficilmente sostenibile. Già oggi le regioni orientali sono quasi
gioalmente teatro di proteste.

Le donne hanno una condizione
insostenibile; nonostante i grandi introiti petroliferi la povertà in Arabia
Saudita è a livelli allarmanti, molte città non hanno nemmeno la rete fognaria;
a Mecca e Medina, negli ultimi 25 anni, il 90% dei luoghi sacri islamici sono
stati distrutti. I prigionieri politici sono oltre 30 mila, la gente inizia ad
essere insoddisfatta anche delle politiche della monarchia che risulta sempre
più una pedina degli Usa nella regione.

Il salafismo è la risposta che
queste monarchie oscurantiste e retrograde danno. Facciamo attenzione perché
stanno tentando di diffondere in diverse regioni del mondo l’azione di questo
pensiero: Turchia, Qatar e Arabia Saudita stanno cercando di impiantare reti
salafite anche in Europa e in zone remote del globo, come in alcune aree della
Cina.

Obiettivamente però credo che pure
Arabia Saudita e Qatar avranno una loro data di scadenza e, dopo aver svolto il
proprio compito, verranno riciclati dagli stessi alleati occidentali. Si veda
il comportamento del Qatar: compra di quà e di là nel mondo, credendo così di
ipotecare per sé una sorta di stabilità, ma si sbaglia di grosso. Come accadde
a Gheddafi, quando i suoi averi all’estero faranno abbastanza gola, si troverà
un bel pretesto per attaccarlo e toglierglieli. La scusa potrebbe essere quello
stesso salafismo che oggi il Qatar sostiene in Siria».

L’Iran non ha la bomba nucleare, ma
le attività di arricchimento dell’uranio a scopi pacifici proseguono. Possiamo
definire il Paese, «potenza nucleare»?

«Nel periodo della guerra fredda, “potenza
nucleare” si diceva di una nazione che possedeva la bomba.

L’Iran non possiede la bomba e
sbaglierebbe di grosso a possederla. Per questo la Guida suprema della nazione,
l’Ayatollah Khamenei, ha persino emesso un editto religioso, una Fatwa,
che proibisce la fabbricazione di armi nucleari.L’Iran sa benissimo di potersi
difendere senza bisogno di armi nucleari. Il nucleare è visto soltanto come
un’opportunità per produrre energia elettrica in abbondanza e dare inizio a un
grande progresso economico e industriale.

Con la sua giovane popolazione di
77 milioni di persone, il paese mira a raggiungere il benessere generalizzato
nei prossimi anni. Oggi sfrutta al minimo tantissime opportunità e potenzialità
economiche esistenti al suo interno. Un territorio immenso dove si continuano a
costruire con un ritmo frenetico dighe, edifici, dove vengono inaugurati
progetti di ampliamento, industrie, fabbriche. La vera “potenza nucleare”
dell’Iran è la vitalità, il livello di cultura e la forza di un popolo che sta
attraversando passo dopo passo la via del progresso. L’Iran oggi è ancora
dipendente dal suo petrolio, ma anche solo usando il suo turismo – è tra i
paesi dove si trovano il maggior numero di reperti storici del Patrimonio
culturale mondiale -, potrebbe ottenere guadagni ingenti.

Pochi infine sanno che con
l’allentamento delle sanzioni l’Iran potrebbe svolgere il ruolo di hub aereo
della regione e crocevia del trasporto di passeggeri e merci. È anche il
tragitto ideale per far passare gli idrocarburi del Mar Caspio e portarli fino
ai mari del Golfo Persico.

A mio avviso, l’Iran diventerà uno
dei paesi maggiormente industrializzati, una delle potenze della regione e
probabilmente del mondo. Gli americani e gli israeliani questo lo sanno e non
vogliono che accada».

I cristiani cattolici hanno un nuovo
Papa, che ha scelto un nome ricco di significati positivi: Francesco. Francesco
d’Assisi è amato per la sua semplicità, la vicinanza agli ultimi e l’amicizia
con il Sultano musulmano. Cosa ne pensa?

«Nel Corano, nel versetto 82 della
sura Al Maeda (o della Tavola Imbandita, la quinta del Corano) si legge questo
consiglio rivolto da Dio ai musulmani: “… e troverai che i più prossimi
all’amore per i credenti sono coloro che dicono: “In verità siamo nazareni”,
perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna
superbia”.

Il fatto che i cristiani siano
potenziali amici e alleati dei musulmani, è una verità risaputa. Quando
Mohammad, il profeta dell’Islam, era un bambino e accompagnava lo zio in un
viaggio, venne riconosciuto dal monaco cristiano Bahìra a Basra4 che vide in lui i segni citati da Gesù per il profeta
che sarebbe venuto in futuro. Ci sono tanti altri tratti della storia che
potrebbero testimoniare la vicinanza tra Islam e Cristianesimo. Secondo
l’Islam, almeno, tutti i profeti della tradizione ebraica e cristiana, più
altri presentati dal Corano, sono messaggeri di un unico Dio e hanno invitato
tutti a un’unica religione.

Nel mondo di oggi, Papa Francesco
(o qualsiasi altro uomo di religione, veramente amante della pace) può fare
molto per la nostra Terra. Il mondo è così pieno di ingiustizia, corruzione e
male che basta solo fare qualche passo in avanti per poter dare vita a grandi
cambiamenti. Io posso solo sperare che il nuovo Papa si adoperi per la pace e
prego Dio affinché possa guidare al meglio i fedeli cattolici in un mondo che
pare ancora riservarci troppe guerre e ingiustizie». •

Note:

(1) 
Davood Abbasi, Usa/Iran: ecco la guerra che Obama ha scatenato
(italian.irib.ir/analisi/commenti/item/122913).
(2) 
Si veda: Angela Lano, Dossier primavere arabe, Missioni Consolata,
gennaio 2013, reperibile sul nuovo sito web della rivista.
(3) 
Samuel Huntington (1927-2008), politologo statunitense, famoso
soprattutto per la sua tesi sullo «scontro di civiltà».
(4) Gabriel Mandel Khan, Dizionari
delle Religioni
, Islam, Electa, p.26.

 
       1979-2013 – Un  embargo lungo 34 anni                                                       

Contro l’Iran sono in vigore
sanzioni economiche, commerciali, scientifiche e militari. Sono state imposte
dal governo degli Stati Uniti o, sotto la sua pressione, dalla comunità
internazionale attraverso il Consiglio di sicurezza dell’Onu.  Comprendono, tra le altre cose, un embargo
nei rapporti commerciali con gli Usa e un divieto di vendere aerei o pezzi di
ricambio all’aviazione iraniana. Nel 1979, dopo un tentativo di golpe statunitense
per rimettere al potere lo shah Reza Pahlavi, un gruppo di studenti islamici
occupò l’ambasciata Usa a Teheran, tenendo sotto sequestro lo staff
diplomatico. L’allora presidente Jimmy Carter emise un ordine che prevedeva il
congelamento di circa 12 miliardi di dollari di beni iraniani (depositi
bancari, oro e altro), 10 dei quali sono ancora in mano agli Usa.

Nel 1984 le sanzioni aumentarono
dopo l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq (settembre 1980 – agosto 1988),
prevedendo il divieto di vendita di armi, e dei prestiti bancari da parte delle
istituzioni finanziarie inteazionali. Nel 1987, il presidente Usa Ronald
Reagan emise un decreto che proibiva attività di import-export con l’Iran per
qualsiasi tipo di prodotto o servizio .

Durante il governo del presidente
iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani (un conservatore centrista aperto al libero
mercato interno e un moderato a livello di relazioni inteazionali, favorevole
alla distensione dei rapporti con gli Usa e l’Occidente) le sanzioni furono
durissime: nel 1995, il presidente Bill Clinton emise un ordine che proibiva,
prima, le transazioni con le industrie petrolifere iraniane, poi ogni tipo di
scambio commerciale. In quell’anno ebbero dunque termine le relazioni di affari
tra Usa e Iran. Nel 1996, il Congresso Usa approvò l’Atto delle sanzioni contro
Iran e Libia (Ilsa) in base al quale le compagnie petrolifere straniere che
investissero in Iran oltre i 20 milioni di dollari sarebbero state soggette a
penalità, tra le quali il rifiuto del credito da parte di istituzioni
finanziare statunitensi e dell’assistenza bancaria per l’import-export.

Quando fu eletto il presidente
riformista Mohammad Khatami, Clinton alleggerì le sanzioni, ma nel 2001 l’Ilsa
fu rinnovato e ratificato dal presidente George Bush.

Il presidente Mahmoud Ahmadinejad,
eletto nel 2005, riprese l’arricchimento dell’uranio, sospeso in base a un
accordo con Francia, Germania e Gran Bretagna. Da allora gli Usa spingono perché
le Nazioni Unite sanzionino l’Iran sul suo programma nucleare.

Tra il 2006 e il 2010, il Consiglio
di sicurezza dell’Onu adottò le risoluzioni 1737, 1747, 1893, 1929 che
impongono nuove sanzioni o l’inasprimento di quelle già in atto, per punire il
programma nucleare iraniano.

Nel luglio del 2010, il presidente
Barack Obama ratificò il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and
Divestment Act»: tali restrizioni comprendono la cancellazione
dell’autorizzazione per l’importazione di articoli di origine iraniana
(tappeti, pistacchi, caviale, eccetera).

Un discorso a parte meritano le
sanzioni in campo bancario. Le istituzioni finanziarie iraniane hanno il
divieto di accedere direttamente al sistema finanziario statunitense. Sanzioni
vennero imposte nel 2006 alla Bank Saderat Iran in quanto accusata di aver
trasferito fondi al movimento di resistenza libanese Hezbollah. Nel novembre
del 2007, altre banche iraniane entrarono nel mirino dell’embargo Usa. Vennero
inserite nella lista speciale dell’Ofac (Office of Foreign Assets Control), che
riguarda nazioni o entità a cui è negato l’accesso al sistema finanziario
statunitense.

Le restrizioni bancarie hanno
costretto cittadini e piccoli imprenditori iraniani a rivolgersi al mercato
hawala*, per bypassare l’embargo e portare avanti le proprie transazioni
economiche e finanziare. •

(*) Si tratta di
un sistema alternativo e informale di trasferimento della valuta basato su un
network di brokers. È diffuso in Africa, India e Medio Oriente.

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Angela Lano




4 Iran sulla pelle della gente

Prof.ssa Razie Amani

L’Italia era il primo partner
europeo dell’Iran. Per obbedire all’embargo, ha ridotto progressivamente un
legame commerciale molto importante.
Divenendo complice di un’enorme ingiustizia.

Razie
Amani è una giornalista e docente universitaria iraniana. Ha studiato in Italia
e insegna la lingua italiana in un ateneo di Teheran.

Professoressa Amani, qual è
l’attuale situazione economica dell’Iran dopo le sanzioni inteazionali?

«A causa delle sanzioni l’economia
dell’Iran ha subito forti e innegabili conseguenze negative. Un aumento
drastico dei prezzi e di conseguenza il calo notevole di potere di acquisto
della moneta. I settori economici più toccati sono quello petrolifero e
bancario, ma in generale un po’ tutti. La mancanza di alcuni prodotti pesa
maggiormente. È il caso dei medicinali e dei farmaci indispensabili
(soprattutto per malattie considerate gravi o croniche) e dei pezzi di ricambio
(per le attrezzature ospedaliere, per le auto eccetera), perché la mancanza
incide direttamente sulla produzione e sui costi. In generale, l’embargo va a
colpire soprattutto i più deboli, la fascia medio-bassa della popolazione che
ora si vede costretta al “minimo indispensabile”. Questa è la ragione
principale per la quale la gente non accetta le accuse delle potenze straniere
e i loro ragionamenti; essa si sente vittima diretta e innocente di una
punizione e una pressione economica ingiuste che vorrebbero costringere l’Iran
a cambiare la sua politica estera e intea. Nulla di quello che viene detto
contro l’Iran risulta credibile agli occhi del più semplice cittadino iraniano,
anche quello meno allineato con le politiche dei suoi governanti. In sintesi,
le sanzioni stanno pesando molto sulle spalle della gente, danneggiano
l’economica e le imprese, mettono in seria difficoltà la vita di tutti, ma non
piegano gli Iraniani, anzi li rafforzano».

Come reagisce
la popolazione?

«La popolazione reagisce con
attenzione e intelligenza. Ha una capacità straordinaria di valutare la
situazione politica dell’Iran e del mondo; ha anche la capacità critica di
giudicare la condotta del governo e dello stesso presidente ma non si lascia
ingannare facilmente dalla macchina propagandistica delle potenze occidentali
obbedienti agli Stati Uniti. Sente sulla propria pelle l’arroganza e
l’ingiustizia dei paesi ostili all’Iran e delle ragioni vere di questa ostilità
costruita artificiosamente».

La rielezione di Obama a presidente
degli Stati Uniti ha aperto nuove prospettive per l’Iran?

«Nessun
cambiamento serio. Forse un tono meno aggressivo ma sicuramente un paese come
l’Iran, preso di mira, è difficilmente ingannabile dalle parole e dai media,
siano nazionali che inteazionali. Gli Iraniani sono cittadini di un Paese
culturalmente molto elevato e colto: essi subiscono anche l’ingiustizia
dell’Occidente e ne sono consapevoli; con questo non voglio dire che in Iran
non ci sono opposizioni, dissidenze o persone che vorrebbero un approccio più
morbido del governo con gli Usa e con l’Occidente in generale, ma la
maggioranza ha compreso gli inganni dialettici e gli scopi reali della propaganda
occidentale e si fa poche illusioni. Tuttavia nessuno rinuncia a sperare in una
chiarificazione internazionale e in una pacificazione. Questo è sicuro…»

Lei è vissuta in Italia e ne conosce bene la cultura e la lingua. Quali
sono le relazioni con il suo paese, dopo le sanzioni?

«Le relazioni economiche
Iran-Italia hanno subito anch’esse conseguenze molto negative. E pensare che
l’Italia rappresentava il primo partner economico europeo dell’Iran! Non so se
tale situazione è rimasta immune dalle sanzioni occidentali. Esse, certo,
danneggiano l’Iran, ma anche l’Italia che, purtroppo, deve obbedire. Anche a
costo della bancarotta».

Secondo lei, quali percezioni hanno gli italiani dell’Iran?

«Gli italiani, in generale,
bombardati anche loro dai mass-media non hanno una giusta visione dell’Iran e
degli iraniani, ma questo non rappresenta solo una realtà italiana: riguarda
tutto l’Occidente. Vi sono, tuttavia, italiani informatissimi con i quali ho
avuto la fortuna e il piacere di parlare e scambiare le idee, che conoscono il
mio paese per quello che realmente è. Per la sua incomparabile civiltà e
storia, per la sua gente, rivoluzionaria nel cuore e nella mente, e per le sue
caratteristiche religiose e culturali».

Qual è il ruolo
dei media in relazione all’embargo e all’informazione sull’Iran?

«È stato un ruolo fondamentalmente
distruttivo, se intende quello dei media occidentali mainstream. Si sa che sono
loro che formano la cosiddetta “opinione pubblica” che, in sé, non esiste
autonomamente. È stato fondamentale per rendere passiva, anzi accondiscendente
alle sanzioni, l’opinione pubblica occidentale, senza che ne capisse neppure le
raioni al di là del solito spauracchio delle “armi chimiche” e della “bomba
nucleare”».

L’attuale
guerra in Siria che scenario disegna nei confronti dell’Iran?

«L’Iran è al centro di questa
guerra proprio perché ne è l’obiettivo direi esclusivo. Tuttavia è considerato
anche l’avversario principale e più forte capace di frenare quest’aggressione
internazionale contro la Siria. Di difendere il governo siriano in se stesso
all’Iran può interessare poco; ma vedersi arrivare fuori della porta di casa
quelli che già si sentono “padroni” dell’intera area… renderebbe preoccupato
chiunque. E del resto anche la Russia e la Cina avvertono questo pericolo e
sentono che questa è la vera intenzione degli americani e dei loro alleati.
L’aggressione alla Siria è solo l’inizio perché è vista come una dei componenti
del “Fronte trilaterale della resistenza islamica” composta da Hezbollah, dalla
Repubblica Islamica dell’Iran e, appunto, dalla Siria, contro Israele e
l’imperialismo in generale. Questo dovrebbe apparire chiaro anche a una certa
fascia della popolazione dei paesi arabi, ma i suoi governanti non le danno
spazio per capire a che gioco si sta giocando ai danni dell’intero Islam, e non
solo di quello sciita».

Rimaniamo in
tema di fede religiosa. Come vede l’elezione del nuovo Papa, Francesco?

«È sicuramente un evento molto
importante nella storia della Chiesa cattolica e forse incisivo anche per
l’intero mondo cristiano; ovviamente quello autentico e sincero; e questo, sia
per le dimissioni storiche e senza precedenti del precedente Papa sia per ciò
che dice e promette il nuovo Papa Francesco. Un nome molto amato da tutti
cristiani, al di là delle appartenenze nazionali o di altra natura, ma che
rende più difficile il compito di colui che sembra voler essere vicino a una
certa visione spirituale e a una condotta coerente. Sembra una bella figura che
ispira sincerità». •

Per?Approfondire

•  Angela Lano, E dopo la primavera, arrivò l’inverno, Dossier Missioni Consolata,
gennaio 2013.
•  Marco Perissinotto – Hamid Masoumi Nejad, Iran, un viaggio in Persia tra Oriente e
Occidente
, Edizioni Polaris, Firenze 2013.
•  Alì Reza Jalali, La Repubblica Islamica dell’Iran tra
ordinamento interno e politica internazionale
, Irfan Edizioni, Roma 2013.
•  Matteo Bressan, Hezbollah, Datanews,  Roma 2012.
•  Giorgio Frankel, L’Iran e la bomba, Edizioni Derive e Approdi, Roma 2010.
•  Wael Hallaq, The Origins and Evolution of Islamic Law,  Cambridge University Press, 2005.
•  Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino, Carocci editore, Roma 2001.
•  Henri Laoust, Gli scismi nell’Islam, Ecig, Genova 1990.
•  Joseph Schacht, An Introduction to Islamic Law, Oxford
University Press, 1964.
•  Fulvio Grimaldi, Target Iran, documentario (in Dvd).


 Termini?arabi?e?farsi

Abbiamo scelto una
traslitterazione scientifica parziale per non appesantire con inserzioni
grafiche la lettura.

L’autrice

Angela Lano, giornalista e
scrittrice, orientalista per studi e passione, da molti anni viaggia in Medio
Oriente. Collaboratrice di MC, vive a
Salvador Bahia, Brasile.

Coordinamento editoriale:
Paolo Moiola, redattore MC.

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Angela Lano




N.E.1 – L’indifferenza e il Vangelo Spunti per una «Nuova Evangelizzazione» in Europa

Il Sinodo della Nuova Evangelizzazione


[Nuova Evangelizzazione] Cos’è?

 




L’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi,
che si è tenuta dal 7 al 28 ottobre 2012, ha avuto per tema «La nuova
evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Questo tema è
dibattuto da diverso tempo dentro la Chiesa, ma è diventato di scottante
attualità in questi ultimi anni soprattutto nel mondo Occidentale segnato da
consumismo e secolarizzazione.

Gli
insegnamenti del Magistero

I documenti preparatori al Sinodo dell’ottobre 2012
hanno sottolineato l’urgenza di trovarsi insieme per valutare come la «Chiesa
viv[a] oggi la sua originaria vocazione evangelizzatrice, a fronte delle sfide
con cui è chiamata a misurarsi, per evitare il rischio della dispersione e
della frammentazione» (Instrumentum Laboris [IL] 4).

Indirettamente, questa urgenza evidenzia la presa
di coscienza che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare la sfida della nuova
evangelizzazione nella consapevolezza che le trasformazioni non soltanto
interessano il mondo e la cultura, ma toccano la Chiesa stessa nelle sue
comunità, nelle sue azioni e nella sua identità (cf. IL 16). Inoltre manifesta
la volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei
cristiani e delle loro comunità. Affinché la Chiesa «moltiplichi il coraggio e
le energie a favore di una nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la
gioia di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Non
si tratta di immaginare soltanto qualcosa di nuovo o di lanciare iniziative
inedite per la diffusione del Vangelo, ma di vivere la fede in una dimensione
di annuncio di Dio: “La missione […] rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e
l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si
rafforza donandola!” (Redentoris Missio [RM] 3)» (IL 9).

Sulla scia del Concilio, papa Paolo VI osservava
con lungimiranza che l’impegno dell’evangelizzazione andava rilanciato con
forza e grande urgenza, e, fedele all’insegnamento conciliare, aggiungeva che
l’azione evangelizzatrice della Chiesa «deve cercare costantemente i mezzi e il
linguaggio adeguati per proporre o riproporre […] la rivelazione di Dio e la
fede in Gesù Cristo» (Evangelii Nuntiandi [EN] 56).

Papa Giovanni Paolo II, che fece di questo
impegno uno dei cardini del suo vasto magistero, ha sintetizzato nel concetto
di nuova evangelizzazione il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare
nelle regioni di antica cristianizzazione. Tale programma riguarda direttamente
la sua relazione con l’esterno, ma presuppone, prima di tutto, un costante
rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da
evangelizzata a evangelizzatrice. Basta richiamare alcune sue parole: «Interi
paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto
mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono
ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal
continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si
tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo mondo,
nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose
situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come
se Dio non esistesse”. […] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano
tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma
questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto
di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la
diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la
crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni
una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto
cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto
cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in
queste nazioni» (Christifideles laici 34).

Creando il nuovo «Pontificio Consiglio per la promozione
della nuova evangelizzazione», così Papa Benedetto XVI precisa il
contenuto del termine «nuova evangelizzazione»: «Facendomi dunque carico della
preoccupazione dei miei venerati predecessori, ritengo opportuno offrire delle
risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza
dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio
missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. […] La diversità
delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova
evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula
uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò
di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente
cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova
generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che
il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello
Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il
cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del
Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio» (Ubicumque
et semper
, 21/09/2010).

Nel frattempo, sulla scia della Redemptoris missio
(al numero 33) era intervenuta a precisare il senso del concetto di nuova
evangelizzazione anche la Congregazione per la Dottrina della Fede: «In
senso proprio c’è la missio ad gentes verso coloro che non conoscono
Cristo. In senso lato, si parla di “evangelizzazione” per l’aspetto ordinario
della pastorale, e di “nuova evangelizzazione” verso coloro che non seguono più
la prassi cristiana» (Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione,
3/12/2007, n. 12).

Una
sintesi

Dai vari pronunciamenti del Magistero e dai documenti
preparatori al Sinodo emerge che la nuova evangelizzazione consiste
nell’immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano
alla gente di uscire dal «deserto interiore»
, immagine usata da Papa
Benedetto XVI per raffigurare la condizione umana attuale prigioniera di un
mondo che ha espulso la questione di Dio dal proprio orizzonte. Avere il
coraggio di riportare la domanda su Dio dentro questo mondo; avere il coraggio
di ridare qualità e motivazioni alla fede di molti delle nostre Chiese di
antica fondazione
, questo è il compito specifico della nuova
evangelizzazione.

Il compito della nuova evangelizzazione non può essere
ridotto a un semplice esercizio di aggioamento di alcune pratiche pastorali,
ma richiede una comprensione molto seria e profonda delle cause che hanno
portato l’Occidente cristiano a trovarsi in una simile situazione.

Quindi il termine «nuova evangelizzazione» richiama
l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio
, soprattutto per coloro
che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della
secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in paesi di tradizione
cristiana.

La nuova evangelizzazione è da considerarsi anzitutto
come un’esigenza, poi come un’operazione di discernimento e infine come uno
stimolo alla Chiesa di oggi.

Cosa
s’intende per Nuova Evangelizzazione

Che cos’è la «nuova evangelizzazione»? Il Beato Papa
Giovanni Paolo II nel primo discorso che avrebbe dato notorietà e risonanza a
questo termine, rivolgendosi ai Vescovi del continente latinoamericano, così la
definiva: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione
[dell’America Latina, ndr.] avrà il suo pieno significato se sarà un impegno
vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno
non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel
suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» (Giovanni Paolo II, Discorso
all’Assemblea del Celam, Port-au-Prince
, 9/03/1983, n.3).

La nuova evangelizzazione è «la capacità da parte della
Chiesa di vivere in modo rinnovato la propria esperienza comunitaria di fede e
di annuncio dentro le nuove situazioni culturali che si sono create in questi
ultimi decenni» (IL 47).

Non si tratta di un nuovo modello di azione pastorale,
che si sostituisce semplicemente ad altre forme di azione (la prima
evangelizzazione, la cura pastorale), quanto piuttosto di un processo di
rilancio della missione fondamentale della Chiesa
. Quest’ultima,
interrogandosi sul modo di vivere l’evangelizzazione oggi, non esclude di
verificare se stessa e la qualità dell’evangelizzazione delle sue comunità. La
nuova evangelizzazione impegna tutti i soggetti ecclesiali (singoli,
comunità, parrocchie, diocesi, Conferenze Episcopali, movimenti, gruppi e altre
realtà ecclesiali, religiosi e persone consacrate) a una verifica della vita
ecclesiale e dell’azione pastorale, e richiede un lento ma efficace lavoro di
revisione del modo di essere Chiesa tra la gente, affinché le comunità
cristiane diventino veri centri di irradiazione e di testimonianza
dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro
bisogni.

La nuova evangelizzazione è il nome dato a questo
rilancio spirituale, a questo avvio di un movimento di conversione che la
Chiesa chiede a se stessa, a tutte le sue comunità, a tutti i suoi battezzati

I
Destinatari

Dai vari documenti e dai pronunciamenti del Magistero si
ricava che lo spazio geografico entro cui si sviluppa la nuova
evangelizzazione, senza essere esclusivo, riguarda primariamente l’Occidente
cristiano. Così pure i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono
sufficientemente identificati: si tratta di quei battezzati che nelle nostre
comunità vivono una nuova situazione esistenziale e culturale, dentro la quale
di fatto è compromessa la loro fede e la loro testimonianza.

È chiaro che la nuova evangelizzazione assume
l’Occidente come luogo di «esempio tipico», piuttosto che come obiettivo unico.
Perché l’urgenza della nuova evangelizzazione non può essere ridotta a
situazioni che riguardino esclusivamente l’Europa e il Nord America.

Come afferma Papa Benedetto XVI, «anche in Africa, le
situazioni che richiedono una nuova presentazione del Vangelo, non sono rare. […]
La nuova evangelizzazione è un compito urgente per i cristiani in Africa, perché
anch’essi devono rianimare il loro entusiasmo di appartenere alla Chiesa. Sotto
l’ispirazione dello Spirito del Signore risorto, essi sono chiamati a vivere, a
livello personale, familiare e sociale, la Buona Novella e ad annunciarla con
rinnovato zelo alle persone vicine e lontane, impiegando per la sua diffusione
i nuovi metodi che la Provvidenza divina mette a nostra disposizione» (Africarne
Munus
nn. 165.171).

Il
«che cosa»

In che cosa consiste allora? Perché chiamarla «nuova»? «Non
amo questo aggettivo “nuova”. Sempre la Chiesa ha evangelizzato; se non lo
avesse fatto, non sarebbe più stata la Chiesa di Cristo! Il termine “evangelizzazione”,
poi, contiene già la novità della “buona notizia”; in questo senso
l’espressione “nuova evangelizzazione” è un pleonasma» (Enzo Bianchi).

Naturalmente la novità non intacca il contenuto del
messaggio evangelico che è immutabile. «Nuova evangelizzazione non significa un
“nuovo Vangelo”, perché “Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre” (Eb 13,8)»
(IL 164). Per questo, il Vangelo deve essere predicato in piena fedeltà e
purezza, così come è stato custodito e trasmesso dalla tradizione della Chiesa.
Evangelizzare significa annunciare una persona, che è Cristo. Infatti, «non
c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il
regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati» (En
22). «Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve
annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno
quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (IL 165).

È un dato storico da tutti ammesso che i primi cristiani
erano vivacemente missionari, convinti di dover portare al mondo una notizia
attesa. Questa vivacità nasceva prima di tutto dall’esperienza del loro
personale incontro con Gesù Cristo più che dalla lettura delle molte emergenze
(fame, schiavitù, oppressione politica …) in cui gli uomini del tempo
vivevano. L’urgenza e l’universalità della missione nasce dall’interno, dalla
propria esperienza dell’incontro con Gesù Cristo. I primi cristiani sono
diventati missionari perché hanno fatto un incontro che ha cambiato la loro
vita.

La
novità è Cristo

L’evangelizzazione è sempre l’annuncio della novità di
Gesù Cristo. È questa l’anima profonda di ogni nuova evangelizzazione, che non
voglia essere puramente retorica, o subito vecchia. Quindi parlare di nuova
evangelizzazione significa parlare di una novità che non tocca soltanto il
metodo, ma il Vangelo stesso. Perché oggi il Vangelo deve misurarsi con urgenze
mai incontrate e rispondere a domande inedite. Nuova evangelizzazione è
mostrare che il Vangelo sa rispondere ai problemi della post-modeità.

È un punto importante: non è solo una questione di
adattamento, di forma o di strategia, come purtroppo molti sembrano pensare, ma
di «comprensione» (rispondere alla domanda «cosa significa/mi dice il Vangelo
oggi?»). Le domande che la storia pone in ogni epoca al Vangelo non sono mai, o
quasi mai, semplici occasioni che offrano il destro per un restyling per
adattare il messaggio di sempre ai tempi, alle culture e ai linguaggi di oggi,
ma provvidenziali spiragli che possono aiutare a intravedere contenuti inediti
per fare emergere la sua «perenne» novità anche nell’oggi. Il Vangelo è
quello di sempre, ma nuovo deve essere il modo di comprenderlo, non soltanto il
modo di ridirlo.

In
ascolto della Parola

Chiarito questo, se è vero che l’evangelizzazione è
rivolta a tutti, e nessuno può essee escluso perché la missione della Chiesa,
per volontà del Signore, è universale (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,15; Lc 24,47; At
1,8), è altrettanto vero che essa deve essere evangelizzazione continua
della Chiesa
, intendendo tale genitivo in primo luogo come genitivo
oggettivo
(la Chiesa è evangelizzata, ha bisogno cioè di ridirsi il Vangelo
per comprenderlo in modo nuovo) e solo in seconda istanza come genitivo
soggettivo
(ossia la Chiesa evangelizza gli uomini). Non si possono
dimenticare, al riguardo, le parole profetiche scritte da Paolo VI quasi
quarant’anni fa, nella sua splendida esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi
: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se
stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata,
comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che
deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore.
[…] Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere
evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il
Vangelo» (En 15).

La missione evangelizzatrice della Chiesa consiste nel
farsi eco della Parola perché ogni uomo possa ascoltarla come rivolta a sé,
come Parola salvifica, e lasciarsi illuminare da essa. Nello stesso tempo la
chiesa, se vuole veramente essere annunciatrice di questa Parola, deve in primo
luogo dedicare tutte le sue energie ad ascoltare la Parola stessa, sapendo che «la
fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), deve essere e sentirsi «affidata al
Signore e alla Parola della sua grazia» (At 20,32): solo un’ecclesia audiens
(che ascolta) può anche essere un’ecclesia docens (che insegna), perché la
Parola che la Chiesa annuncia e testimonia non è sua ma di Dio. È Dio che parla
nell’evangelizzatore. Se Dio parla il profeta non può tacere (Is 7,3; Ger 1,4;
18,18; Ez 1,3). Il profeta non parla di Dio, lascia parlare Dio; egli parla
dopo aver ricevuto la Parola di Dio,

Antonio Rovelli


Le sorprese di Dio

«La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci
sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire,
a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre
sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo,
lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con
piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito santo l’anima, la guida della
nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere
strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso,
egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza,
quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità -, trasforma e
chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e
si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè
affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli
Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il
Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la
noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande
durante tutta la giornata» (Francesco, omelia di Pentecoste 2013).

Antonio Rovelli




Un politico santo?

Premessa

Makambako (Tanzania), 2 giugno 2011.
Ho appena terminato il presente dossier, mentre in Italia si celebrano i 150 anni della sua unità. Chissà se, accanto a Cavour e compagni, ci sarà pure un pensierino per… Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira. Politici cattolici, che seppero guardare e andare «lontano».
Anche il Tanzania festeggia quest’anno un anniversario significativo: il 50° dell’indipendenza.
E fra gli artefici del nuovo stato svetta Julius K. Nyerere, «il maestro signore».
Incontrai Nyerere nel settembre del 1975 a Dar es Salaam. Entrambi eravamo in auto, affiancati e fermi ad un semaforo della strada che costeggia l’Oceano Indiano. Riconosciutolo, dal finestrino gli sorrisi con circospezione. E lui:
– Sei un padre?
– Sono un missionario della Consolata.
Il semaforo divenne verde e l’auto presidenziale sgommò. Ma si fermò 100 metri più avanti. Nyerere era in piedi sul bordo della strada con la mano alzata. Accostai. Conversammo per 15 minuti. Tra l’altro disse: «Vedi, padre: se, andando alle Poste per comprare francobolli, ti si dice ‘aspetta, bwana, perché l’addetto al servizio è uscito un istante’; se il giorno dopo la scena si ripete e magari si replica una terza volta, sappi che il Tanzania non andrà lontano!».
Nyerere voleva che il Tanzania andasse lontano nello sviluppo, nella giustizia e nella frateità.
Come De Gasperi, La Pira e altri per l’Italia.
Nyerere è pure candidato alla santità, come De Gasperi, La Pira ed altri.
Se sono rose…

                                                                             di Francesco Beardi

Francesco Beardi




Il presidente «per caso»

Tratti biografici

Figlio del capo
Nasce il 13 aprile 1922 nel villaggio di Butiama, a circa 30 chilometri dalla città di Musoma, nel nord del Tanganyika, come si chiamava allora il paese senza Zanzibar. Si chiama Kambarage Nyerere: Kambarage (spirito benefico che vive nella pioggia), perché piove quando nasce; Nyerere, come il padre Burito Nyerere, capo della piccola tribù dei Wazanaki. È uno dei 26 figli di Burito, che vanta almeno 18 mogli(1). Sua madre, Mgaya Wang’ombe, è la quinta consorte del boss.
Fa il pastorello Kambarage. Ma il ragazzo è troppo arguto per accudire soltanto pecore e capre. Così, a 12 anni, impara a leggere e scrivere. Dopo la scuola elementare, frequenta la Tabora School, liceo retto dai Missionari d’Africa. Costoro intuiscono che c’è «ottima farina nel suo sacco» e gli spalancano i battenti dell’università di Makerere, in Uganda, dove l’ex pastore ottiene il diploma in pedagogia.
Nel 1942, a 20 anni, un evento straordinario arricchisce l’esistenza di Kambarage: diventa pure Julius, cattolico. Sua madre lo seguirà con il nome di Cristina(2).
Corre voce che Julius voglia addirittura fare il prete. Intanto insegna biologia e storia alla Saint Mary’s Secondary School di Tabora. Poi, grazie ad una borsa di studio offerta dai soliti missionari, ritorna sugli scranni dell’università, ad Edimburgo (Scozia): vi consegue il master in storia ed economia. è il primo tanzaniano a studiare in un’università britannica. Qui conosce la Fabian Socialist Society: è un movimento sociopolitico, che mira ad elevare le classi lavoratrici per renderle idonee ad usufruire dei mezzi di produzione locale. È «la prima pietra socialista» di Nyerere, destinata a diventare «una casa» in Tanzania.

Il maestro
Nel 1952 ritorna in patria e insegna storia, inglese e swahili al Saint Francis College di Pugu, vicino a Dar es Salaam. È in tale istituto cattolico che Nyerere viene chiamato mwalimu, cioè «il maestro». Il suo insegnamento eccelle per semplicità, qualità e sagacia. Il futuro presidente della nazione sarà sempre «maestro» per vocazione e «politico» per caso(3).
Il 1953 è un anno significativo per Nyerere: primo, perché sposa Maria Gabriel Magige (con la quale avrà otto figli); secondo, perché viene eletto presidente della Tanganyika African Association (Taa), movimento culturale che egli stesso ha promosso all’università di Makerere. L’anno successivo, 1954, Taa diventa Tanu (Tanga-nyika African National Union): un partito dove si inizia a discutere di indipendenza del paese.
Chi sarà «il capo» del Tanganyika indipendente? Ovviamente lui, Julius K. Nyerere, gradito sia alla popolazione sia all’ultimo governatore britannico, Richard Tubull.

Il presidente
La magica ora dell’uhuru (libertà-indipendenza) scocca a mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Nello stadio di Dar es Salaam, gremito di persone in festa, si ammaina la bandiera dell’Impero Britannico, mentre le stelle sorridono a quella inedita del Tanganyika indipendente. Il nuovo stendardo armonizza il nero del volto dei cittadini con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo dell’oro. In primo piano spiccano «lui» e «lei», a rappresentare tutti gli uomini e le donne delle 127 etnie del paese.
Nyerere è acclamato primo ministro del governo e, l’anno seguente, 1962, presidente della repubblica. Veste la casacca di Mao Zedong. Ma le differenze fra i due sono nette. Non è affatto detto che il tanzaniano sia succube o inferiore al cinese, anzi!
Intanto sul Kilimanjaro, il monte più alto del Tanganyika e dell’Africa, arde la fiaccola annunciata da Nyerere stesso. «Vorremmo accendere una candela – dichiara il 22 ottobre 1959 il futuro presidente – e collocarla sulla vetta del Kilimanjaro. Quella luce brillerà oltre i nostri confini e offrirà speranza dove c’era disperazione, amore dove c’era odio, dignità dove c’era umiliazione. Con sincerità, preghiamo il popolo della Gran Bretagna e i popoli di ogni razza e lingua, nostri vicini, di guardare a noi, di guardare al Tanganyika non con imbarazzo, ma con un raggio di speranza»(4).
Grazie anche a Nyerere, l’indipendenza non conosce violenza. Non è poco, se si pensa all’indipendenza insanguinata di altri paesi africani: dal Congo al Mozambico, dal Kenya all’Angola. Senza scordare le tragedie di Burundi e Rwanda e la vergognosa discriminazione razziale in Rodesia e Sudafrica.

La nave va
Con l’indipendenza, la vita di Nyerere cambia. Gli impegni sono fitti, esigenti, complessi: non è più l’insegnante di una scuola, bensì il maestro di un’intera nazione da costruire.
Nel 1961 il Tanganyika, su 10 milioni di abitanti, può contare soltanto su: 1 ingegnere, 9 veterinari, 16 medici, nessun architetto e nessun magistrato. Un paese impreparato all’autonomia? Certo, ma la responsabilità non è degli autoctoni. Al riguardo Nyerere ragiona: «Non abbiamo mai accettato che il popolo fosse impreparato ad autogovernarsi, perché sarebbe come dire: ‘Tu non sei pronto a vivere, tu non sei pronto ad essere uomo’»(5).
Nyerere parla di «indipendenza di bandiera»(6), un punto di partenza per restituire al paese la sua anima. Il presidente non dimentica gli insulti «ehi, tu, bastardo!», subiti dal «bianco»: hanno inoculato nel «nero» il virus del complesso d’inferiorità. Tuttavia, pur comprendendo il risentimento dei connazionali, non approva contro gli europei frasi quali «questi cani!»(7).
La nave dell’indipendenza prende il largo, raggiungendo traguardi significativi fra burrasche e bonacce. Al timone c’è Nyerere, presidente della nazione e del partito TANU (Tanganyika African National Union).

Date significative
26 aprile 1964: nasce il Tanzania dall’unione tra Tanganyika e Zanzibar. Il motto della nuova nazione è «libertà e unità».
5 febbraio 1967: con la dichiarazione di Arusha il Tanzania diventa socialista secondo l’ideale dell’ujamaa. Il termine swahili significa «famiglia allargata» da allargarsi: quindi comunità e fratellanza. Bisogna vivere e lavorare tutti insieme in «villaggi socialisti», scelti liberamente.
1974, agosto e mesi seguenti: poiché i tanzaniani sono reticenti di fronte al progetto «villaggi socialisti», vengono obbligati con la forza a costituirli. È una «tempesta» con gravi disagi. Ma il regime di Nyerere tiene. I risultati economici sono stitici. In compenso l’alfabetizzazione supera il 90%.
5 febbraio 1977: nasce il Partito della Rivoluzione (Chama cha Mapinduzi: CCM). Ha origine dalla fusione del Tanu (partito del Tanzania continentale) con l’Afro Shirazi Party (partito di Zanzibar). Nel paese vige «il sistema del partito unico», senza un’opposizione costituita.
30 ottobre 1978: Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda, invade il Tanzania. Tra i due paesi è guerra. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggia la vittoria. Ma il paese è squattrinato.
1984: anno cruciale per il Tanzania, che rischia di ritornare Tanganyika e Zanzibar, date le spinte separatiste. Il presidente resiste.
25 novembre 1985: dopo 24 anni di potere-servizio, Julius K. Nyerere si ritira. Tuttavia regge il Ccm fino al 1990.
Un giorno confida: «Nel 1997 alla Banca Mondiale di Washington mi chiesero: Perché hai fallito? Risposi dicendo che l’Impero Britannico ci aveva consegnato un paese con l’85% di analfabeti, mentre quando mi ritirai (1985, ndr.) erano il 9% e il reddito pro capite era il doppio di quello attuale (1997, ndr.). Inoltre ricordai che oggi (1998, ndr.) abbiamo un terzo di bambini in meno a scuola, mentre la sanità e i servizi sociali sono in rovina. Eppure, in questi 13 anni, il Tanzania ha fatto tutto ciò che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale gli hanno imposto di fare. Allora fui io a chiedere: Voi, perché avete fallito?»(8).

Gli ultimi anni
Con il nuovo presidente Ali H. Mwinyi e i suoi successori tutto cambia in Tanzania, specialmente dopo il crollo del muro di Berlino (1989). Si instaura il pluripartitismo.
L’ex presidente, dal villaggio natale di Butiama, dove vive nella sobrietà coltivando i campi, non lesina consigli. Ricorda che «la giustizia è la garanzia della pace» e ai giovani addita il servizio civile quale strumento di unità politica e religiosa(9).
A livello internazionale il mwalimu gode di grande prestigio. Ecco perché gli sono affidate «missioni impossibili»: vedi l’intesa fra tutsi e hutu in Burundi, facendo pressione sui primi (in minoranza, ma detentori del potere) per una maggiore giustizia verso i secondi (in maggioranza).
Il 5 marzo 1999 a Dar Es Salaam si inaugura la prima «università popolare aperta» (Open University). È il sogno di Nyerere da 20 anni. Il primo laureato in Lettere, honoris causa, è l’ex presidente, vecchio e ammalato. È l’ultima comparsa in pubblico ad alto livello dell’ex pastore di capre, figlio del capo. Infatti, poco dopo, il 14 ottobre 1999 Julius Kambarage Nyerere muore a Londra di leucemia.
Il giorno seguente il giornalista Tom Porteous scrive: «Non era né arrogante né banale, ma onesto e sincero, dedito alla famiglia e leale (fin troppo) verso gli amici. Il rispetto e la devozione che godeva presso il popolo li ricambiava con una dedicazione totale al suo impegno di capo dello stato. Pronto a riconoscere i suoi errori, era flessibile e pragmatico, senza tuttavia scendere a compromessi con la sua cristallina fede cattolica e con i suoi ideali di umanista e socialista»(10).

Nyerere è uno schiaffo a non pochi leaders, che sottomettono dignità e libertà, giustizia e pace al successo e tornaconto personale attraverso ostentate autocelebrazioni, turpi avventure sessuali, smaccate demagogie, sfrenate ricchezze.
Julius K. Nyerere è il maestro, il presidente, il padre della patria. Qualcuno si spinge molto più in là: auspica che sia proclamato «santo». Se sono rose…

di Francesco Beardi

Note

  1) Secondo E. R. Katare, invece, le mogli di Burito Nyerere furono 22 (cfr. E. R. Katare, Julius Kambarage Nyerere: falsafa zake na dhana ya utukufu, Dar Es Salaam 2007, p. 22).
  2) Il padre di Nyerere, Burito, rimase attaccato alle credenze tradizionali. Il figlio Julius raccontò: «Quando i missionari cristiani cercavano di convertire mio padre, egli prima li ascoltava, poi era lui a far loro la predica ed essi se ne andavano tranquilli. Quando i missionari gli dicevano ‘ama tuo fratello’, egli rispondeva ‘sono d’accordo con voi’. L’unico fatto che i missionari rimproveravano al vecchio erano le sue 21 mogli» (William E. Smith, Nyerere of Tanzania, London 1973, p. 34).
  3) Cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
  4) Julius K. Nyerere, Freedom and Unity / Uhuru na Umoja, Dar Es Salaam 1966, p. 72.
  5) William E. Smith, op. cit., p. 63.
  6) Espressione riportata da www.missionaridafrica.org
  7) Cfr. William E. Smith, op. cit., p. 49.
  8) Da un’intervista a Nyerere (dicembre 1998), riportata da www.culturacattolica.it
  9) Cfr. Sunday News, October 9, 1988, e Daily News, July 9, 1966.
10) The Indipendent, October 15, 1999.

Francesco Beardi




Io resto socialista e tu?

L’impegno politico

Semplicità
Per gli amanti della cabala, Nyerere sarebbe stato certamente baciato dalla fortuna, poiché nacque il giorno «13». Tuttavia, forse, il suo destino era già scritto fra le stelle in modo meno fortunoso, giacché, quando emise il primo vagito, dalle cateratte del cielo si rovesciarono sulla terra torrenti di pioggia. E la pioggia, nell’Africa delle capanne dei pastori e contadini, è la benedizione di Dio più agognata.
La storia dirà se Julius K. Nyerere fu una benedizione per il Tanzania. Oggi, a 50 anni dall’indipendenza del paese, il suo primo presidente resta un personaggio carismatico, un «maestro signore» scevro da ogni culto della personalità: atteggiamento più unico che raro in Africa, e non solo. Ancora vivente, nella città di Mwanza gli dedicarono una strada: Nyerere Street, ma egli dirottò l’onorificenza, dichiarando: «È per mio padre». A Dar es Salaam qualcuno propose di abbattere «il monumento all’askari» (eretto dagli inglesi per ricordare i soldati africani vittime delle due guerre mondiali: 1914-1918 e 1939-1945), sostituendolo con una statua del presidente. L’interessato tagliò corto: «Non se ne parla neppure!»(1).
E il Nyerere semplice?
Padre Giulio Belotti, missionario della Consolata, testimonia: «Durante la festa del Saba Saba (7 luglio), anniversario del 20° della fondazione del partito Tanu svoltasi ad Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima nella scuola di Tosamaganga dove erano due dei suoi figli: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare con le suore»(2). La cordialità del tanzaniano aveva stregato persino il mozambicano. Fatto notevole, giacché Machel non era affatto dolce verso i missionari!

Concretezza
Nyerere non sognava la luna. Affermava: gli americani e i russi stanno raggiungendo la luna, mentre noi dobbiamo accontentarci di assai meno; essi usano il cervello e noi dormiamo; essi lanciano satelliti e noi sopravviviamo con radici selvatiche. Aggiungeva: negli Stati Uniti i coltivatori di tabacco ottengono 10 quintali per acro, mentre in Tanzania il raccolto non arriva a 3 quintali. «Tuttavia nelle piantagioni di tabacco di Urambo si raggiungono già 7 quintali. Non è la luna. Però questo lo possiamo fare (this we can do)»(3).
La concretezza del mwalimu ridimensionava persino la decantata ospitalità africana e gli consentiva di smascherare l’ospite scroccone. Citava con arguzia il seguente proverbio: «L’ospite è tale per due giorni, ma al terzo dagli la zappa»(4). Al lavoro, dunque. Il lavoro è una medicina per sanare la piaga della povertà.
Nyerere sulla povertà non fece sconti. Nel 1967 rammentava ai connazionali: se si raccogliessero in una cesta le ricchezze del Tanzania per distribuirle a tutti in parti uguali, ogni individuo percepirebbe solo l’equivalente di 525 scellini, ossia il reddito di 16 mesi di un lavoratore. «Noi siamo come 10 cacciatori che inseguono una sola lepre» commentava con amara ironia(5).
Con quale progetto sociopolitico far sviluppare il paese indipendente dal 1961? Che fare? Innanzitutto creare una identità nazionale comune fra le 127 etnie.
A tale scopo, Nyerere abolì i poteri tribali e stimolò l’uso della lingua swahili, che divenne ufficiale e nazionale, favorendo la comunicazione fra tutte le tribù. Tradusse in swahili il famoso libro di George Orwell, La fattoria degli animali, e persino alcune tragedie di William Shakespeare, quali Giulio Cesare e Il Mercante di Venezia, e, anni dopo, riscrisse in rima poetica i quattro Vangeli(6).
Fin dagli albori dell’indipendenza, si caratterizzò per una netta presa di distanza da ogni legame economico con le potenze mondiali: Stati Uniti e Unione Sovietica. Per concretare tale obiettivo, Nyerere caldeggiò il socialismo rurale, fondato sulla comunità-famiglia-fratellanza (ujamaa). Un socialismo assai diverso rispetto al modello marxista: senza lotta di classe e senza ateismo. Un socialismo confezionato in casa. Il presidente invitava a riflettere e a chiedersi: le nostre famiglie tradizionali non sono forse da sempre socialiste? Quando le donne, in vista di una festa nel villaggio, preparano insieme il pombe (birra) per tutti, non esprimono forse l’ideale socialista del lavoro comune e dell’attenzione alle esigenze comunitarie?

Alcuni capisaldi
Il socialismo di Nyerere non si tradusse in un’obbedienza cieca ad un rigido schema politico, come avvenne nei paesi del socialismo reale: Unione Sovietica, Cina, Cuba o Mozambico.
Il presidente definì il socialismo «un atteggiamento mentale» o «una fede in un sistema di vita», concepiti e vissuti nella libertà, attraverso i quali ogni individuo si prende cura dei suoi simili, come avviene nella tradizionale «famiglia estesa» o ujamaa.
La magna charta dell’ujamaa fu la «Dichiarazione di Arusha», pubblicata nell’omonima città nel 1967. Alcuni capisaldi(7):
–  ogni cittadino ha diritto alla libertà di parola, associazione, movimento e fede, nel contesto delle leggi vigenti;
–  le ricchezze naturali del paese appartengono a tutti i cittadini, che le trasmettono ai figli e nipoti;
–  il governo deve usare tutte le risorse nazionali per eliminare povertà, ignoranza e malattia;
–  affinché il Tanzania sia socialista, è essenziale che il suo governo sia scelto e guidato da contadini e operai;
–  lo sviluppo inizia dalle campagne, non dalle fabbriche;
–  è stupido puntare sul denaro quale mezzo principale di sviluppo, quando il paese è povero;
–  il popolo e il duro lavoro sono la base dello sviluppo; il denaro è uno dei frutti del lavoro;
–  è giusto essere orgogliosi dei lavoratori, ma vergognarsi dei pigri, dei fannulloni, degli ubriachi;
–  indipendenza è contare sui propri mezzi (self-reliance), non su doni e prestiti monetari estei…

Villaggi socialisti
I passaggi obbligati, per approdare ad una società socialista e raggiungere risultati importanti, furono le nazionalizzazioni delle strutture economiche ed educative del paese, nonché la formazione di «villaggi socialisti» (vijiji vya ujamaa).
Mentre le nazionalizzazioni furono stabilite da norme vincolanti, i villaggi socialisti erano soltanto raccomandati, rispettando la libertà individuale. Tuttavia, poiché la popolazione non mostrava interesse nei villaggi socialisti, il governo fece ricorso alla coercizione: i villaggi si dovevano fare, e subito.
L’operazione scattò, senza preavviso, nell’agosto del 1974, mentre Nyerere era all’estero. Un’esperienza drammatica e convulsa. In pochi giorni migliaia e migliaia di persone furono costrette a sloggiare dalle loro abitazioni, abbandonando tutto, per trovare una sistemazione precaria sotto un albero. In agosto, di notte, il freddo è ancora pungente, specialmente nelle regioni montuose: e aumentava il disagio degli «sfollati», per non parlare della minaccia di leopardi, tigri e leoni.
Ero a Madibira in quel frangente, nella regione di Iringa. Mi impegnai in numerosi traslochi con la Land Rover aperta della missione, carica di granoturco, riso, arachidi, caschi di banane, nonché pentole, secchi, sedie e… qualche bimbo in pianto. Tutto veniva ammassato all’aperto, in un luogo stabilito dagli agenti del partito Tanu, sotto lo sguardo di altre persone che avevano subìto la stessa sorte.
Gli occhi di tutti erano rassegnati, ma anche sdegnati e sospettosi. Un tale si chiedeva: «Ora che faccio se, accanto a me, c’è uno stregone?». Un altro mi confidò: «Padre, tu non puoi immaginare la mia paura. Mi hanno allontanato da tutto, persino dalle tombe dei miei morti. E se mi maledicessero?».
Nel 1981 si contarono 8.180 «villaggi socialisti», abitati da circa 13 milioni di contadini: il 90 per cento della popolazione rurale.
I nuovi villaggi non facevano una grinza in vista dello sviluppo. La popolazione, raggruppata, avrebbe goduto con maggiore facilità di istruzione, sanità e acqua, senza scordare la vicinanza con la chiesa. Si rafforzò «l’identità tanzaniana», grazie alla pacifica convivenza di famiglie appartenenti a etnie diverse e al loro lavoro condiviso. Per incoraggiare la villaggizzazione, negli anni 1967-69 il governo compì sforzi notevoli per dotare le comunità di macchinari agricoli modei; ma diventarono presto ferraglia, abbandonata sul campo per mancanza di tecnici capaci di manutenzione e riparazione.
Inoltre, per assicurare un adeguato introito ai contadini, venne creato l’ammasso dei prodotti agricoli di largo consumo interno e di esportazione. Però tale iniziativa fu gravata da tasse a vantaggio del governo e del partito Tanu. Un segno premonitore di corruzione.

Fallimento
Formati i villaggi dell’ujamaa, la produzione agricola fu così risicata da far scuotere la testa a molti con delusione e disapprovazione(8). Poiché i prodotti erano scarsi, il governo fu costretto ad aumentare le importazioni. Dal 1967 al 1975 l’import di granoturco passò da 14.322 tonnellate a 294.100, quello di riso aumentò da 7.586 tonnellate a 72.600 e quello di frumento da 13.908 tonnellate a 46.500. Mentre l’import aumentava, l’export diminuiva: il cotone da 71 tonnellate a 44 e la canapa da 103 tonnellate a 51. Invece caffè e tè crebbero(9), ma troppo poco per superare l’andamento generale di sfiducia e penuria.
L’ujamaa, sotto l’aspetto economico, fu un fallimento, complici le siccità e la crisi petrolifera internazionale, a tal punto che Nyerere fu costretto addirittura a svuotare le banche nazionalizzate per acquistare derrate alimentari.

Nodi cruciali
In Nyerere non mancarono altri comportamenti di-scutibili. Sono «nodi cruciali», che destarono malumori e resistenze. Ignorarli sarebbe offendere lo stesso mwalimu, amante della verità.
Un nodo cruciale furono le leggi sulla detenzione preventiva di qualche sospettato: leggi approvate dal parlamento dopo l’assassinio del vicepresidente Abeid Karume e un tentato colpo di stato. Tuttavia, a detta di J. Marensin, le detenzioni preventive, anche nel periodo di maggiore rigore, «non hanno toccato più di qualche centinaio di persone»(10).
Discutibile fu l’allontanamento dal Tanzania del politico Oscar Kambona. Fra Julius e Oscar esisteva un rapporto di amicizia. Nel 1967, alcuni mesi prima della rottura finale, Kambona riconosceva ancora in Nyerere due qualità: «Se le conserverà, sarà un grande leader in Africa. La prima qualità è la semplicità, che lo rende capace di comprendere subito il punto di vista dell’altro; la seconda qualità è il distacco dalla ricchezza». La prima volta che Nyerere si presentò alle Nazioni Unite, a New York, vi andò con una valigia rotta.
In seguito Kambona, poco prima del suo esilio a Londra, dichiarò: «Accuso il presidente di nascondersi dietro una parvenza di democrazia; sta diventando un dittatore. Ha la mente di una persona chiusa in una rete di malvagità»(11).
Secondo Nyerere, Kambona era un timido che cercava di piacere a tutti, ma non gradiva la critica. Esiliato, cercò di ritornare in patria. Il presidente non si oppose, a patto che si sottoponesse al giudizio popolare prima di essere riammesso al parlamento, perché «ha imbrogliato il Tanzania e l’Africa intera». Kambona minacciò di «sollevare il coperchio dalla pentola» e di fare rivelazioni clamorose. Al che, il giornale The Nationalist, organo del governo, replicò secco: «Ciò che devi dire dillo, altrimenti sarai marchiato come un vigliacco, un traditore del Tanzania e dell’Africa»(12).
Ancora: Nyerere fu accusato di antidemocrazia perché volle «il sistema del partito unico». Il presidente spiegò: il partito unico è una scelta obbligata, perché il Tanzania non è culturalmente preparato alla democrazia a più partiti; con diversi partiti, infatti, il paese cadrebbe nel marasma politico di altri stati africani, divenendo facile preda di demagoghi abili nel cavalcare malumori tribali o religiosi, che non mancano nel paese…
Il 30 ottobre 1978 Idi Amin Dada, il dittatore dell’Uganda, invase il Tanzania armi in pugno. Tra i due paesi divampò la guerra. L’esercito tanzaniano, sostenuto dall’appoggio di circa 800 mila cittadini (che offrirono carne e farina), cacciò l’invasore e conquistò persino la capitale ugandese Kampala. Fu l’episodio più sconcertante nella vita del mwalimu, uomo di pace. Molti paesi africani presero le distanze da lui, accusandolo di violare i principi dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Il presidente dichiarò guerra, perché prevalse in lui «la ragion di stato» e la consapevolezza che con l’imprevedibile e sanguinario Amin era impossibile ragionare. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggiò la vittoria. Ma la nazione era esausta, perché il conflitto aveva ingoiato quasi tutte le riserve in valuta pregiata (in dollari) e la metà del budget annuale destinato allo sviluppo(13). E imperversava la siccità. Il Tanzania, povero, non poteva concedersi il lusso di una guerra.

E le luci?
I nodi cruciali menzionati avvolgono Nyerere di cortine d’ombra. E le luci?
La stella del presidente brillò allorché offrì asilo ai Movimenti africani di liberazione contro il colonialismo. Nyerere sostenne il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo) nella lotta contro il governo coloniale del Portogallo, appoggiò la resistenza al regime razzista di Jan Smith in Rodesia (Zimbabwe) e denunciò la clamorosa ingiustizia dell’apartheid, imposta dai boeri ai neri del Sudafrica.
Nell’agosto del 1977 Nyerere visitò gli Stati Uniti su invito del presidente Jimmy Carter. In una settimana coprì 51 mila chilometri, volando in aereo per 55 ore. Ad ogni sosta si impegnava in «una crociata» per la liberazione dell’Africa del Sud. Durante una conferenza-stampa un giornalista gli chiese: «Signor presidente, in Rodesia e Sudafrica la guerriglia combatte con armi di Russia e Cina. Si sa che lei ritiene esagerata la paura del comunismo in Africa da parte dell’occidente. Ebbene: perché i regimi comunisti foiscono armi ad altri paesi?».
«Perché diventino loro amici. Ed è la stessa ragione per cui il presidente Carter aiuta noi! Carter afferma: mostriamoci amici con i paesi dell’Africa del Sud, per ottenere in cambio la loro amicizia. Non è serio combattere una dittatura e rimpiazzarla con un’altra. Voi, americani, avete combattuto gli inglesi con le armi dei francesi. Non penso che abbiate voluto liberarvi dei primi per sottomettervi ai secondi. Come minimo spero che gli americani non considerino la guerriglia in Africa come la strada per introdurvi il comunismo»(14).
Parecchi stati africani raggiunsero l’indipendenza negli anni ’60. Se la loro strada verso l’autonomia fu accidentata, quella del post-indipendenza fu minata. Tristemente celebre fu «il caso Burundi», indipendente dal Belgio nel 1962, dilaniato da un feroce tribalismo che opponeva i tutsi agli hutu: minoritari e spesso al potere tramite violenza i primi; maggioritari e sovente sottomessi con umiliazione i secondi. Un esempio tragico: nel 1971 circa 350 mila hutu furono uccisi dalla repressione governativa dei tutsi, mentre altri 70 mila furono costretti all’esilio. Molti trovarono scampo in Tanzania. Nyerere bollò l’olocausto come una vergogna per l’Africa. L’attenzione di Nyerere per il Burundi continuò negli anni successivi, sempre travagliati per le due tribù. Poiché il mwalimu godeva di elevato prestigio internazionale, gli furono affidate complesse missioni di pacificazione fra tutsi e hutu(15). Al di là dei risultati conseguiti, le missioni erano un riconoscimento del suo carisma.

IL Maestro
È il carisma del maestro, che non demorde di fronte alle bocciature dei suoi allievi. Sarà proprio il campo dell’istruzione a vederlo impegnato nell’ultimo tratto della sua vita. A Londra, il 4 giugno 1997, difese gli investimenti in favore della scuola primaria, che non è di serie B rispetto a quella secondaria o universitaria, come alcuni ritenevano attribuendo maggiore urgenza ai licei. «Che cosa avverrà – intervenne Nyerere – della maggioranza dei ragazzi senza istruzione? Non saranno forse causa di problemi, specialmente in città? Allora sì che bisognerà spendere tanti soldi!»(16).
Il 5 marzo 1999 a Dar es Salaam venne inaugurata la prima «università popolare». Nel discorso inaugurale, ricevendo la laurea honoris causa, l’ex presidente, ormai vecchio e ammalato, fu tagliente come una lama d’acciaio, ritornando sul «suo cavallo di battaglia» di sempre: la scuola elementare. Ne stigmatizzò la situazione dolorosa e fallimentare dove solo il 3% degli allievi superava l’esame finale, mentre il 97% lo falliva. «Questo aggettivo fallimentare – incalzò il mwalimu – è intollerabile: aggiunge insulto ad insulto. Così i nostri figli, invece di inviarli a casa sereni, li cacciamo via con il marchio della vergogna, perché sono dei falliti! Un paese povero come il Tanzania non può avere una scuola che favorisca gli egoisti. L’istruzione è un investimento per l’individuo e la comunità intera, completa l’indipendenza, è servizio e il servizio degli altri è parte dell’amore per se stessi»(17).
Nel 1985 Nyerere cessò di essere presidente della repubblica e, nel 1995, abbandonò pure la carica di presidente del Partito della Rivoluzione. Ritiratosi dalla politica, dichiarò: «Nonostante il fallimento, io resterò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania»(18).
Restava socialista, perché l’ujamaa, per questo «maestro signore», era la risposta più concreta alla domanda inquietante: «Caino, dov’è tuo fratello Abele? Cosa hai fatto di lui?» (Cfr. Genesi 4, 9-10).

Di Francesco Beardi

Note
1)   Cfr. William. E. Smith, Nyerere of Tanzania, Victor Gollancz Ltd, London 1973, p. 31.
2)  Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
3)  Cfr. W. E. Smith, op. cit., p. 11.
4)  Il proverbio è: mgeni siku mbili; siku ya tatu mpe jembe (Julius K. Nyerere, Ujamaa, Essays on Socialism, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, p. 5).
5)  Cfr. Ibid., pp. 161 e 159.
6)  La diffusione dello swahili in Tanzania è da ascriversi anche alla colonizzazione tedesca (1885-1914) e all’evangelizzazione dei Benedettini tedeschi, rimpiazzati nel 1919 dai Missionari della Consolata. In italiano pregevoli sono la Grammatica swahili (1953) e il Vocabolario (1978) di Vittorio Merlo Pich, missionario della Consolata, nonché Corso di Lingua Swahili (2002) di Gianluigi Martini, edito dall’Emi.
7)   Cfr. Julius K. Nyerere, Feedom and Socialism / Uhuru na Ujamaa, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, pp. 231-250.
8)   Cfr. Goran Hyden, Beyond Ujamaa in Tanzania, Heinemann, London 1980, p. 152.
9)   Cfr. Ibid., 141 e 146.
10) La citazione è da Missioni Consolata, op. cit., p. 19.
11) W. E. Smith, op. cit., pp. 31-32.
12) Ibid., p. 187.
13) Cfr. Beard Joinet, Tanzanie, Manger d’abord, Khartala, Paris 1981, pp. 16-20.
14) Julius K. Nyerere, Crusade for Liberation, Oxford University Press, Dar es Salaam 1978, pp. 35-36, 65.
15) Cfr. Daily News, June 12, 1996.
16) Cfr. Nyerere on Education / Nyerere kuhusu Elimu, II (Edited by Elieshi Lema, etc.), HakiElimu, Dar es Salaam 2006, pp. 210-211.
17) Julius K. Nyerere, Open University of Tanzania, Education, Dar es Salaam, March 5, 1999.

Francesco Beardi




Tutto di un pezzo … e santo?

La fede cattolica

Un esempio per tutti
È un cattolico praticante che si confessa sovente e fa la comunione quasi tutti i giorni. In chiesa uomini, donne e bambini lo scrutano con ammirazione, perché è il loro mwalimu, il presidente della repubblica, che si inginocchia come loro, e prega: «Dio onnipotente, benedici i tuoi figli del Tanzania. Signore, abbi pietà di me, peccatore!».
Un giorno, poi, si viene a sapere qualcosa di assolutamente inedito per un politico, specialmente in Africa: inizia il processo di «beatificazione» di Julius K. Nyerere; lo annuncia, il 26 gennaio 2006, il cardinale di Dar es Salaam Polycarp Pengo. Dunque: Nyerere sarà dichiarato beato e santo dalla Chiesa cattolica? Come i martiri d’Uganda? Come Bakhita, la schiava del Sudan, e pochissimi altri del continente nero?
«Però l’interessato – si interroga il professor J. M. Lusugga Kironde di Dar es Salaam – cosa direbbe? Sarebbe d’accordo con la decisione della Chiesa?». In altri termini: l’idea di proclamare santo Nyerere come si concilia con il fatto che era presidente di tutti, senza differenze di religione?(1). La domanda evidenzia una preoccupazione: quella che qualcuno (i cattolici soprattutto) voglia impadronirsi di Nyerere e di strumentalizzarlo a proprio vantaggio.
La preoccupazione emerge già alla morte dello statista (14 ottobre 1999). I musulmani si oppongono a che il «padre della patria» sia sepolto nella chiesa cattolica di Butiama, nonostante che Nyerere, da vivo, ne abbia manifestato il desiderio. Così è posto in un mausoleo, vicino casa sua, per consentire a tutti i tanzaniani di rendergli omaggio, senza il disagio di sentirsi in un luogo di culto estraneo al proprio credo religioso(2).
Tuttavia il professor Lusugga riconosce il diritto della Chiesa cattolica di continuare il processo di beatificazione, perché il «padre della patria» non fece mai pesare la sua fede. «I tanzaniani (compresi i musulmani) non vi scorgano un’appropriazione indebita di Nyerere da parte dei cattolici!».
La Chiesa cattolica seguirà la scia del primo presidente. Questi, già alla vigilia dell’indipendenza nel 1961, incontrando i rappresentanti di tutte le religioni, annotava nella sua agenda: «Abbiamo deciso che né il colore, né la tribù, né la religione, né altra cosa potranno mai togliere all’individuo la sua uguaglianza fra tutti nella comunità. Questa è la nostra bussola»(3). Ha sempre mantenuto fede a tale impegno. A prescindere dalla beatificazione, il mwalimu resta un esempio di uomo fedele e onesto per tutti, soprattutto per i leader politici, il cui comportamento spesso è l’esatto contrario di quello di Nyerere. «Beatificando Nyerere – dichiara il cardinale Pengo – miriamo a stimolare i politici, i commercianti e i capi in genere a condurre una vita degna anche di santità»(4).

Tre ragioni
Beard Joinet, dei Missionari d’Africa, elenca tre motivi per cui Nyerere è da additarsi come esempio a tutti(5).
Il primo motivo è la pacifica convivenza (già ricordata) del presidente con l’Islam e le altre religioni. Non vi furono tensioni nella Tanzania continentale (problemi di tolleranza emersero, invece, nelle isole di Zanzibar e Pemba, a grande maggioranza di fede islamica). Non vi fu alcun partito di ispirazione religiosa. Il partito unico Tanu e, successivamente, il Ccm erano aperti anche agli europei ed asiatici; anzi, Nyerere insisteva affinché vi aderissero. Tribalismo e fanatismo religioso, che sono come benzina sul fuoco, furono scongiurati.
Seconda ragione: la libertà di Nyerere di fronte al potere. Quando nel 1985 lasciò la presidenza, resistette all’enorme pressione del popolo che non voleva privarsi del suo «maestro signore». Senza una grinza, ritoò al villaggio natale.
Infine colpisce il distacco dal denaro. Lo statista vestiva sobriamente. Abitava non nel palazzo presidenziale, ma in una villetta con la moglie Maria, che cucinava. I figli non godevano di alcun privilegio. Percepiva uno stipendio di 6 mila scellini, ridotti per sua volontà a 4 mila. «Tale somma – riferisce la figlia Anna – non bastava per mantenere la famiglia e una zia, oltre a rifondere un prestito ottenuto da una banca»(6).
Tali comportamenti erano ispirati da una fede cristiana viva. Il progetto politico dell’ujamaa scaturiva pure dagli Atti degli Apostoli, come rivela un biglietto di auguri del presidente stesso, inviato ai capi di stato nel 1967: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva. Fra loro tutto era in comune» (Atti 4, 32).

Momenti difficili
Di più. Si dice che Nyerere, dovunque andasse, portasse con sé la Bibbia e la «Dichiarazione di Arusha», la magna charta dell’ujamaa. A dieci anni da quella Dichiarazione, il presidente scrisse Arusha Declaration Ten Years After, dove riconobbe alcuni errori: primo fra tutti la costituzione forzata dei «villaggi sociali».
Se la causa di beatificazione di Nyerere proseguirà, «l’avvocato del diavolo» troverà nella villaggizzazione buoni argomenti per incrinare la presunta santità del «socialista», anche perché la Chiesa non è mai stata tenera verso i sistemi socialisti.
Oltre al fallimento economico, la formazione dei villaggi socialisti generò violenze gratuite, spargimenti di sangue e uccisioni (7). Ciò detto, occorre riconoscere che simili «fattacci» non sono riconducibili direttamente a Nyerere, ma ai suoi impiegati troppo zelanti. Il presidente si prefiggeva ben altro! Egli fu schietto al riguardo: «Posso chiedere scusa – confessò a The Vision Newspaper (settembre 1986) – per il modo in cui l’operazione fu condotta da vari funzionari in alcune regioni; ma non posso chiedere perdono per avere cominciato i villaggi socialisti, che sono stati l’inizio dello sviluppo di cui oggi vi vantate».
Nyerere, in alcuni eventi drammatici, pregava, digiunava ed esortava a fare altrettanto. Ricorreva a queste «armi» anche nelle lotte politiche, prima e dopo l’indipendenza.
Nel 1986 egli stesso ricordò un incontro del Tanu, prima dell’indipendenza del Tanganyika, durante il quale dal Kenya giunsero notizie preoccupanti. «Venimmo a sapere che alcuni nostri amici, fra cui Tom Mboya, furono imprigionati, essendo implicati nell’uccisione di Mau Mau (che lottavano armati contro i britannici). Pensammo che il modo migliore per aiutare i nostri compagni fosse il digiuno: non mangiare né bere per un giorno. Chiedemmo che l’intero paese facesse lo stesso»(8).
Il 1978 fu un anno funesto per i tanzaniani, perché lo spregiudicato Idi Amin Dada invase il loro paese. Nyerere usò ancora l’arma del digiuno e sostò in preghiera per vari giorni consecutivi. Ma prevalse la real politik e fu guerra, vinta dall’esercito tanzaniano. Però Nyerere visse quegli interminabili mesi di conflitto con la morte nel cuore. Incontrava i soldati: «Ragazzi, partecipo alla vostra sofferenza. Tutti sono con voi ed io prego [per voi]». Ad un combattente sul fronte disse: «Evita di spargere sangue inutilmente! Non finire la vita di persone senza colpa!».
Quando le truppe tanzaniane entrarono in Uganda, trovarono alcune delle sacche di resistenza che si dovettero eliminare a forza. E Nyerere era presente. Un soldato confessò: «La nostra audacia era finita, per far posto alla pietà. Il mwalimu mormorava fra le lacrime: “Mi dispiace molto. Tanto sangue e la vita di questa gente! Dio ci perdoni, Dio abbia pietà di noi!”. Fu necessario portarlo via (dal teatro di guerra) con la forza…»(9).
In Africa è raro scorgere un adulto che pianga in pubblico, sia pure al cospetto della morte. Julius K. Nyerere piangeva perché era un «maestro signore» davvero speciale. Unico in Tanzania; unico – molto probabilmente – in tutta l’Africa.

di Francesco Beardi

Note

1) Cfr. E. R. Katare, Julius K. Nyerere, falsafa zake na dhana ya utakatifu, Dar es Salaam 2007,  p. V.
2) Cfr. www.culturacattolica.it
3) Parole di Nyerere, riportate da E. R. Katare, op. cit., p. 66; cfr. Ibid., p. VII.
4) Mwenge, aprile 2007, p. 5.
5) Cfr. www.missionaridafrica.org e Missioni Consolata, op. cit., p. 18.
6) Cfr. E. R. Katare, op. cit., p. 78.
7) Cfr. Ibid., p. 114 e 133.
8) Ibid., 28-29. I Mau Mau erano un movimento rivoluzionario clandestino, che lottò in Kenya negli anni ’50. Tom Mboya, sindacalista e politico del Kenya, morì assassinato nel 1969.
9) E. R. Katare, op. cit., pp. 140-141.

PROCESSO DI BEATIFICAZIONE

Butiama, 21 gennaio 2006, inizio del
processo diocesano per la beatificazione
di Julius K. Nyerere

Lanciata da mons. Samba, che ammirava l’onestà e sobrietà di vita e la profonda spiritualità di J. Nyerere, la causa di beatificazione ha perso energia dopo l’improvvisa morte del vescovo stesso nel giugno 2006. Il nuovo vescovo di Musoma, mons. Michael Nsonganzila, intende rilanciare la causa, facendone una priorità per tutta la Chiesa del Tanzania.

Francesco Beardi




Jihad, Sharia e terrorismo

Il professor Massimo Campanini, orientalista, storico del Vicino oriente arabo e di Filosofia islamica insegna all’Università di Trento. Ci spiega alcuni concetti di base.

Cos’è la jihad, la guerra santa?
Nel corano il termine ha significato di «sforzo». Ovvero impegno, coinvolgimento personale e comunitario sulla via di Dio. Può essere interpretato in senso spirituale (come ad esempio dai sufi), trasformazione del sé, raggiungimento della perfezione spirituale che consente di avvicinarsi a dio. Ha avuto caratterizzazione bellica, che può essere offensiva o difensiva. Offensiva nel senso di estensione della comunità islamica, ma mai come strumento di forzata conversione degli infedeli.
Diventa più aggressiva a partire dagli anni ’70: affermazione di fondamentalismo e radicalismo islamico. I teorici dei movimenti estremisti hanno sostenuto che il dovere jihadistico rivelato all’origine è stato per secoli dimenticato e i contemporanei lo devono rinverdire.
Il jihadismo è un problema contemporaneo. Forma contemporanea di radicalizzazione di alcune frange di islam che trovano riferimenti teologici nel medioevo ma li riadattano a certe prese di posizione e alla necessità della contingenza contemporanea.
I salafiti sono tutti jihadisti?
I salafiti sono una realtà plurale, non sono un blocco omogeneo. Esistono gruppi salafiti jihadisti ma anche gruppi salafiti quietisti, che predicano il non impegno politico, l’islamizzazione delle coscienze dei singoli e non la necessità di impadronirsi dello stato. In Arabia Saudita, convivono entrambe le tendenze.
Perché usano il terrorismo?
Il terrorismo è spesso l’arma di coloro che non hanno la possibilità di mettere in campo eserciti organizzati. Non riduciamo il terrorismo al jihad. Ma è il jihad che usa il terrorismo, è una questione tattica.
Cos’è la Sharia, legge islamica?
Sharia vuol dire «direzione»: ha valore più etico, ideologico che normativo. Nel Corano e nella Sunna (testi fondamentali dell’islam) sono contenute norme civili e penali.
Un conto è la rivelazione, altro è l’interpretazione fatta sulla rivelazione, umana e contestualizzata, a cui è data autorevolezza della sharia fraintendendo e tradendo le aspirazioni originarie.
Quando i gruppi fondamentalisti vogliono applicare la sharia, intendono alcune regole di comportamento, velo, applicazione delle pene corporali. Agitare lo spauracchio della sharia è un problema più formale che sostanziale.
Operano una semplificazione, radicalizzando alcune norme che fanno scalpore e sono anche utilizzate a livello mediatico.
Perché gli islamisti di Ansar Dine hanno distrutto i mausolei a Timbuctu?
Purificazione dell’islam, puritano e rigido, che non sopporta che venga adorato nient’altro accanto a Dio. Questo il senso teologico, malinteso ed esagerato, estremista, fondamentalista. C’è poi la mediatizzazione del fenomeno: allo scopo di trovare altri appoggi, convincere altra gente a seguire una posizione di tipo politico o ideologico. Convincere gli incerti a venire dalla loro parte.

a cura di Marco Bello

Marco Bello