Sono anch’io Italia

Sogni non impossibili
Racconti di donne «straniere»

di Rahma Nur, Federica Ramella Bon, Chou Mei
Chen Susanna,
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba
Per gentile concessione del «Concorso
letterario nazionale Lingua Madre»

Questo Dossier narrativo, curato da Gigi Anataloni per MC, è
dedicato a tutte quelle donne coraggiose che, sradicate spesso a forza dalla
loro terra, lottano per un futuro di pace, armonia e frateità in questo
nostro paese di grande generosità e accoglienza, ma attraversato da pericolosi
brividi di intolleranza e razzismo.

Le foto delle autrici dei racconti sono state foite da
Lingua Madre. Tutte le altre foto sono puramente simboliche e non strettamente
connesse con le storie raccontate.

 
Indice


Volevo essere miss Italia


Spazio arcobaleno


Panini verdi


Con gli occhi di Keréne
       Lingua Madre
 
Volevo essere miss Italia
Rahma Nur [Somalia](*)

Denny
Mendez sorrideva anche se le lacrime di gioia e sorpresa le rigavano il bel
viso da adolescente. La sua bella e scura massa di morbidi capelli ricci era in
contrasto con quella coroncina di luci brillanti da Miss che cercava di tenere
in equilibrio sulla testa, mentre le altre ragazze del concorso la assalivano
per congratularsi con lei, invidiose e sorprese anche loro che avesse vinto!
Lei, una Miss Nera! Ma mica siamo in America qui, ma cosa sta succedendo mai?

Io e mia madre non eravamo così
appassionate di concorsi televisivi, men che meno di Miss Italia. Ma quell’anno
ci mettemmo davanti alla TV ogni sera, incuriosite da quella ragazza dominicana
che cercavamo con lo sguardo durante il programma. Non sapevamo se tifare per
lei o no, ma stavamo lì a guardare trepidanti. Poi scoprii che mia madre tifava
eccome! Era orgogliosissima di vedere finalmente una ragazza nera che competeva
con le classiche bellezze italiane. Io ero scettica, forse anche un po’
invidiosa. Be’, non è che io avessi mai parteggiato per i concorsi di bellezza,
li trovavo anche mortificanti a dirla tutta. Ero solo invidiosa di questa
ragazza dominicana, arrivata in Italia solo pochi anni prima, che ancora non
parlava un italiano fluente e probabilmente non sapeva nulla né di Manzoni né
di Lucio Battisti! Ma che diritto aveva? Mi sentivo defraudata, di cosa ancora
non lo sapevo, ma ero un po’ scocciata. Speravo che a rappresentare la parte più
colorata di tanti italiani come me fosse proprio una ragazza italiana, nata o
cresciuta qui come me e tanti altri immigrati di seconda generazione. Invece,
guarda un po’ chi era riuscita ad arrivare fino a lì!
Ok a livello fisico non potevo proprio competere con la bella Denny. Lei era
una giovane adolescente, alta, magra, bella, con splendidi capelli lunghi. Ora,
non è che io fossi brutta, anzi, a detta di molti ero una bella giovane donna
somala, con i classici lineamenti somali: bocca piccola, naso piccolo e occhi
scuri; una caagione color cioccolato Lindt; ma avevo superato da qualche anno
l’età massima per essere accettata ad un concorso di bellezza; poi c’erano
alcuni problemi tecnici come la mia altezza che era ben al di sotto del minimo
richiesto ed altre piccole cosette, nonché, last but not least, non
credo che due superbe stampelle azzurre e un’elegante camminata claudicante
fossero nella lista dei requisiti per diventare una Miss. Forse avrei potuto
aspirare a Miss Disabile…!

Con questo non pensate che io ce l’avessi con Denny
Mendez, forse un pochino sì, ma poi, chi sono io per giudicare una ragazzina in
cerca del suo momento di celebrità?

Il
giorno dopo, i giornali erano pieni di immagini di Denny. C’era chi giorniva
perché sembrava che in Italia qualcosa stesse per cambiare: finalmente si erano
accorti che c’erano persone diverse, ragazze bellissime anche se non
esattamente come le solite copie di Sofia Loren o Gina Lollobrigida; ma c’era
anche chi polemizzava e vedeva questa vincita come un’ingiustizia. Io mi
trovavo tra due fuochi; se qualcuno si diceva contrario, io mi arrabbiavo e confutavo
che oramai in Italia c’erano italiani diversi e che era ora di aprire gli occhi
alla realtà dell’immigrazione e che Denny era un’apripista per tutti noi (anche
se sotto sotto, la vedevo come un’usurpatrice: io ero più italiana di lei!).

Un giorno mi trovai con una mia cara amica e iniziammo a
parlare del concorso; pensavo che lei fosse felice che avesse vinto Denny
Mendez, essendo mia amica; invece la trovai molto critica su questo argomento.
Disse che non era giusto che avesse vinto perché lei non rappresentava la
classica bellezza italiana, la cultura e la storia italiane. Mi sentii
sprofondare: rimasi senza parole. Di certo non mi aspettavo una critica così
dura da una mia amica. Allora le chiesi: se avessi partecipato io, con la mia
lunga storia di immigrata, arrivata in Italia da piccolissima, cresciuta a
spaghetti, Battisti e letteratura italiana, sarebbe stato meglio?

Lei rispose che era la stessa cosa: non rappresentavo la
classica bellezza italiana; anche io come Denny ero nera, ricciolina e
proveniente da un altro continente! Mi offesi a morte: ma come? Ai suoi occhi
non ero più italiana di Denny Mendez? Non dissi una parola, mi sentivo
profondamente ferita, discriminata e disillusa. Eppure parlavamo di musica, di
film, di libri e ci trovavamo così simili, così complementari. Avevamo
respirato la stessa aria, ascoltato le stesse canzoni, studiato gli stessi
autori e amato le stesse storie. Eravamo affini in tantissime cose. Avevamo
trascorso ore e ore a parlare di tutto; anche se io provenivo da una famiglia
diversa, somala, africana; anche se io mangiavo a volte cibi diversi che lei
aveva imparato ad assaporare; anche se la mia famiglia aveva una religione
diversa, tradizioni diverse, io e lei ci ritrovavamo in tante cose. Parlavamo
anche di politica e anche lì le nostre idee combaciavano. Com’era possibile che
ora, per un banale concorso di bellezza, ci fosse una differenza così abissale
tra di noi? Non ero anch’io italiana come lei?

In
quel momento ripercorsi la mia storia come un veloce flashback. L’Italia
ero anch’io, mia cara! Molto più di tante persone di mia conoscenza. L’Italia
ero anche io perché l’amore per questa terra me lo ero conquistato giorno dopo
giorno con le difficoltà che ho dovuto affrontare fin dall’età di cinque anni
mezzo, quando il fato mi aveva condotta qui molti anni fa. L’Italia ero anch’io
in fila davanti alla questura di Roma per rinnovare il permesso di soggiorno e
poter continuare a frequentare la scuola dove studiavo i classici latini o lo
Stil Novo; le regioni e i fiumi italiani; la Giovine Italia e le Guerre
d’Indipendenza. L’Italia ero anch’io quando salivo sull’autobus strapieno e a
volte mi capitava di urtare la solita vecchietta petulante che, appena si
girava verso di me, stringeva la borsetta e borbottava: «’Sti negri, ma perché
non se ne tornano a casa loro!», e io rispondevo freddamente astiosa: «Mi
dispiace per lei ma casa mia è proprio a due fermate da qui, scendo subito non
si preoccupi!». L’Italia ero anch’io quando, in Canada in vacanza, soffrivo le
pene dell’inferno perché non riuscivo a trovare i pomodori pelati giusti per
fare un bel ragù e mangiare le tagliatelle come avevo imparato da mia mamma o
cercavo canzoni italiane alla radio e trovavo solo nostalgiche note cantate da
Mino Reitano o Peppino di Capri che non amavo particolarmente, invece di
Baglioni o Battisti che avevano accompagnato la mia adolescenza. L’Italia ero
anch’io quando, dopo tanti anni di permessi di soggiorno rinnovati finalmente
ero riuscita ad ottenere la cittadinanza. Per anni mi ero sentita né carne né
pesce, né somala né italiana. Ero straniera nella mia stessa terra; se volevo
andare a fare un corso all’estero non potevo perché non mi rilasciavano il
visto; se pensavo di cercarmi un lavoro, desistevo subito: chi mai avrebbe
assunto una straniera e per di più disabile? L’Italia ero anch’io e forse anche
di più quando arrivò il momento del giuramento e l’ufficiale comunale mi fece
alzare la mano destra, sentii il cuore accelerare il battito e la gola seccarsi
– «Ripeta dopo di me», disse il messo comunale, ed io con voce tremante recitai
dopo di lui: «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservae
lealmente la Costituzione e le leggi, riconoscendo la pari dignità sociale di
tutte le persone». Parole bellissime che ripeterni lentamente, assaporandone il
significato, pensando agli articoli della Costituzione Italiana da cui erano
stati presi e che avevo studiato a scuola nelle lezioni di educazione civica;
che menti illuminate avevano redatto una sessantina di anni prima, quando
l’Italia si stava riprendendo dalla disperazione, dalla devastazione della
Seconda guerra mondiale; quando quelle stesse menti di giovani uomini avevano
lottato per la libertà di pensiero ed espressione, per l’uguaglianza tra gli
uomini e le donne. Forse quelle stesse parole che avevo appena detto,
dovrebbero essere recitate da tutti gli italiani che nascono e crescono in
questa meravigliosa terra e non si rendono conto della ricchezza e della
profondità che si cela dietro quel trascurato libro che raccoglie gli articoli
della Costituzione.

Io
sono l’Italia, quella di oggi, modea, multiculturale e multietnica, ricca di
sfumature e diversità, «bianca, nera, rossa, gialla perché, Lui ci vede uguali
davanti a sé» come recita una canzone che cantavo da bambina.

L’Italia sono anche io e non importa il colore della mia
pelle o le mie origini; non importa se non rappresento il classico canone di
bellezza italiana perché ci sono altri canoni che rappresento: quelli
culturali, quelli di pensiero, quelli di educazione e di vita trascorsa: ho
tutti i diritti di essere Miss Italia, perché è l’Italia di oggi che
rappresento!

L’Italia sono anch’io e siete tutti voi, italiani da
generazioni o da prime, seconde, terze generazioni.

___________________

 (*)   Rahma Nur, Volevo essere Miss Italia, pubblicato su Lingua
Madre Duemiladodici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni
SEB27.
Il racconto di Rahma Nur ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole
Antonelliana
al VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre, 2012.

RAHMA NUR nasce a
Mogadiscio, in Somalia, il 14 dicembre 1963. Arriva in Italia nel 1969 in cerca
di cure mediche a causa di un serio problema di salute. Qui, infine, si
stabilisce e nel 1989 riesce ad acquisire la cittadinanza italiana. Vive e
studia a Roma e dal 1993 insegna in una scuola primaria statale.

 
Spazio arcobaleno

Federica Ramella Bon [Italia](*)
In collaborazione con le alunne del CTP di Cuneo

Viaggio introspettivo
tra piccoli miracoli


Il mio registro è
colorato, parla lingue sconosciute, racconta storie lontane e vicine, di vite
nuove, spezzate, appena nate. Il mio registro canta con voce potente, con
melodie roche, con tristi nenie. Il mio registro sono loro, donne, madri,
figlie, nonne. Vite intrecciate, vite rallentate, vite accelerate, vite
esagerate. Vite di donne in cammino.

Olivia

«Da grande farò la scienziata. Sì, voglio studiare la Terra,
la luce, l’acqua. Voglio analizzare le particelle che compongono una bolla di
sapone, voglio contare le linee di simmetria di un fiocco di neve e ammirae
ogni volta la perfezione».

Questi pensieri mi hanno tenuto compagnia durante il
volo Belfast-Torino, lo scorso agosto. Guardavo giù: il lago Neagh si
allontanava e i soffici monti Moue sembravano ormai tane di lepri. Quando poi
anche il Foyle si è mostrato in tutta la sua interezza, ho capito che l’Irlanda
era ormai lontana e il sogno Italia più vicino. «It’s a miracle!»1.
Un anno intero. Trecentosessantacinque giorni e forse qualcosa in più.
Incognite, quante incognite. L’idea di dedicare un anno della mia vita
all’Italia mi è venuta due anni fa, nel giorno del mio ventiquattresimo
compleanno. Sul cartoncino di auguri di Sean c’era scritto «Fly over the moon,
Olivia!». Vola oltre la luna. Mi spiegò che nella vita aveva imparato ad
allargare i confini, a dilatare spazio e tempo e a rimpicciolire le paure. Ma
non aveva mai voluto cancellare i suoi sogni. Sean aveva vissuto i Troubles2,
e i Troubles avevano fatto di lui un uomo.

Dall’alto le nuvole mi ricordavano la panna montata e
l’aereo diventava un cucchiaino d’argento che si tuffava e si riempiva ingordo.
È iniziata così la mia avventura italiana, con ingordigia, sulla scia di
quell’aereo.

Ed eccomi qui: ragazza alla pari presso la casa di
un’ostetrica, madre di due gemelli. Non appena acclimatata con le mie nuove
mansioni di cuoca-baby-sitter-donna di servizio, ho cercato una scuola che
potessi frequentare per imparare l’italiano. Ora, seduta su questa sedia
ballerina, mi accarezzo un ricciolo guardandomi intorno: questa classe è troppo
piccola per ospitare tutto questo mondo. Si sentono accenti africani, sapori
arabi, profumi orientali; si respira quella tipica complicità di chi condivide
uno spazio neutro, nuovo, tutto da gustare. Mi sento piccola tra queste donne,
io che ho potuto scegliere di venire qua. Il cucchiaio d’argento sprofonda
sempre di più nell’universo di panna montata, nel punto in cui diventa densa,
nel punto in cui sente di dover tollerare un peso, prima di riemergere carico.
Nel banco accanto al mio è seduta Malaika, una giovanissima capoverdiana,
incinta all’ottavo mese. Chissà, magari anche in Africa chi scorge il primo
dentino del neonato deve comprargli un paio di scarpette. Arrossisco, incredula
di aver davvero formulato questo pensiero innocente. Sposto lo sguardo oltre a
questo pancione coperto di rosso e osservo le mani delle altre compagne, le
loro rughe, le loro scarpe, i loro sguardi disorientati, i loro monili di
legno. L’insegnante inizia a fare l’appello ed è come se capissi che tutto il
mondo non è paese, che il segreto è nella scoperta, nella tacita convivenza in
questo spazio arcobaleno di storie non raccontate, di desideri inseguiti, di
tenacia. E di nostalgie addomesticate.

 
Inese

Sta scorrendo
l’elenco, ecco, ci siamo quasi. «Ines?»… Lo sapevo. Scontato. «Inese. Mi chiamo Inese!». L’insegnante prende
dall’astuccio una matita e traccia un piccolo segno orizzontale sul registro,
forse proprio sotto quella “e” del mio nome che gli italiani non vogliono pronunciare.

Oggi è il mio primo giorno di scuola, di scuola
italiana. Mio marito Giorgio mi ha proposto questo corso di alfabetizzazione,
ma io sono scettica, decisamente scettica. Conosco un solo linguaggio
importante, quello della musica, quello che da Riga mi ha catapultata fin qua,
sulle arie di Enescu, di Ravel, di Brahms. Quel linguaggio che da bambina mi ha
affascinata così tanto da obbligarmi a vendere i pattini da ghiaccio per tre
lezioni di solfeggio in più; quel mondo che poi, da adolescente, mi ha permesso
di ricomprarli, quei pattini, con i guadagni dei concerti al Teatro dell’Opera
Lettone.

Ho quarant’anni e quattro figli, rimasti a Jourmala con
i nonni. Ora sono parcheggiata qui, “mamma-musicista-sognatrice utopica”. Una
bellissima donna, mi dicono. Un enigma impossibile, ribatto io. Mi manca il
Golfo di Riga, con quella sua macchia scura centrale a forma di cuore: quanta
vita ho dedicato ad ammirare quel piccolo isolotto, Ruhnu, immaginando le sue
spiagge deserte, il gusto del freddo e di una skābputra3
fumante, sorseggiata in silenzio. Quel silenzio. Brīnums4,
mi veniva da pensare, era un miracolo. Seguivo il volo delle cicogne e cercavo
le ali degli angeli tra le nuvole. Non avrei mai creduto di avere il coraggio
di abbandonare tutto.

Italia per me significa amore, rinascita, speranza. Ma
significa anche abbandono, rischio. Fallimento. Il mio ego musicista ha trovato
l’Eden: uno spazio per esprimersi, per mettersi in gioco, per farsi adulare e
applaudire. Una parte del mio cuore è riuscita a scorgere un nido, ad
assaporae il tepore, a desiderae la protezione come una droga; cosa rimane
invece della Inese mamma? Cosa rimane di quella donna dolce e premurosa, quella
che il sabato preparava gli sklandu rauši5
per i suoi bambini? Mi sento svuotata. Svuotata come una cartuccia di
inchiostro rosso appena finita, in cui il colore ha lasciato traccia di sé;
presto però non ne rimarrà che l’involucro, uno sterile pezzo di plastica.
Capricciosa ed egoista. Questo è il mio pensiero mentre l’insegnante mi scruta,
sono stata egoista.

Non riesco a spostare lo sguardo: la massa di riccioli
fulvi che cadono a grappoli sulle spalle della ragazza seduta davanti a me, mi
cattura, mi penetra negli occhi. Quella ribellione di forma e colore mi ricorda
una sonata di Hindemith, note intrecciate in tempesta, da districare con il mio
archetto con movimenti secchi, il gomito alto e lo sguardo fiero. La ragazza
parla di sé in un italiano piuttosto incomprensibile, ma l’espressività dei
suoi occhi mi basta per capire che in lei c’è trasparenza, c’è bontà, c’è un
animo ancora innocente. Ora tocca a me, devo presentarmi e non c’è un direttore
d’orchestra a indicarmi il tempo da seguire.

 
Luciana

Il chiarore lunare
emanato dal volto della mia vicina di banco mi fa male agli occhi. Perché è così timida? Perché ha detto solo tre
parole, perché tocca già a me? Che cosa posso dire io, ora? Questa Inese ha
raccontato che è una musicista, che suona la viola all’Opera, che è madre… E
io? Sarò concisa, sarò sincera. Questo corso di Italiano io lo devo fare. Sono
obbligata a venire a scuola tre volte alla settimana, dopo o prima del tuo.
Se voglio tenermi stretto il lavoro all’ospedale devo imparare a parlare questa
lingua. Me l’ha detto tante volte la Signora Mirella: «Luciana, ieri ti ho
detto di andare nel reparto F, non di pulire gli uffici del terzo piano! Se
continui a non capire ciò che ti dico, ti dovrò sostituire». E allora
impariamolo questo italiano, questa musica in «a» e in «e», queste parole
lunghissime e queste frasi romanzate. Lo so, non mi sono mai sforzata, cercavo
di capire con gli occhi, di cogliere tra le sfumature degli sguardi ciò che la
gente aveva intenzione di dirmi. Sul lavoro però non ha mai funzionato, bisogna
essere veloci, nessuno ripete, nessuno scandisce lentamente la frase «I bagni
del reparto ortopedia sono ancora da pulire», oppure «La mensa è un inferno,
corri a sistemarla». Un inferno, chiamare la mensa un inferno… Questa è
bella… Trenta milioni di poveri in Colombia, l’ho letto lunedì su El
Espectator. Io sono stata obbligata a partire. Li ricordo bene quei giorni:
all’improvviso tutto è diventato insustancial, impalpable6. Era come correre dietro ad un sasso lanciato con rabbia nel
Caquetà. E io correvo, correvo, sapevo di doverlo prendere ma come in un incubo
i miei piedi erano pesanti, ancorati al rosso stridente della mia terra; il
fiume non rallentava la sua corsa, anzi, scorreva sempre più rapido e pareva
ridesse mentre i miei occhi tentavano di penetrae le acque, cercando quel
sassolino tra una miriade di altri sassolini. Impossibile. Serviva un milagro7.

Un giorno poi un aereo è decollato e atterrato. Per tre
volte. Italia, freddo, ciao Orinoco, ciao Antioquia. Vagavo tra i ricordi, mi
perdevo tra gli scai rimasugli del mio io, mi sforzavo di sentire nella bocca
il sapore salato della pelle di mia madre, volevo toccarla, volevo pizzicarla,
fingevo di farmi trasportare dagli alisei oltre al Maracaibo. Ma no, nulla, di
fronte a me. Solo grigio, fumo, macchine, grigio, freddo, fumo. E ancora
grigio, e ancora fumo.

Sono passati tre anni e adesso, in questa classe,
circondata da altre donne che hanno sensazioni comuni alle mie, sento di voler
essere felice mentre tento di presentarmi. «Ciao a tutte, sono Luciana e sono
colombiana. Sono arrivata da Bogotà tre anni fa e il mio sogno più grande è
quello di entrare ancora una volta nel santuario di Las Lajas per mano a mia
madre, durante la processione del Corpus Cristi. Per me Italia significa
ossigeno, dopo una lunga apnea. Un po’ come gustare una fetta di lechona8
sorseggiando un tinto9 bollente».

Teste che si voltano verso di me, mi sento studiata e
provo disagio, ma in un attimo tutto cambia e tutto l’universo femminile
racchiuso qui mi dà pace, mi dà conforto, mi aiuta a liberarmi dal fantasma del
fiume che scorre veloce, dalla mia corsa senza fiato, dal muro nero che mi
aspetta sempre alla fine di quella pazza corsa. I miei occhi vagano nella
classe, tra capelli ispidi e treccine, tra niqab e dashiki, tra maglie di
cachemir e unghie laccate di rosso; mi blocco sulle braccia muscolose di
Judith, una donna namibiana che trasmette energia, le cui vibrazioni positive
giungono fino a me e mi pervadono di quella magia che solo l’armonia può
creare. Il muro nero diventa luce, la luce diventa sentimento, il sentimento
diventa azione. E l’azione mi rende donna, tra altre donne, in corsa per mano
alla vita.

Kim ovvero Suor
Marie-Agnes

Forse
ho sbagliato a venire. Ma no, no! Non devo demoralizzarmi così. Ho imparato
tante cose nella vita senza perdermi d’animo, imparerò anche l’italiano. Ma è
così difficile, sarà un’impresa ardua. Suor Zyma mi ha avvisata, «Vedrai,
all’inizio ti sembrerà impossibile riuscire a capire qualcosa, figurati
parlare!», non si sbagliava. Non c’è nulla che accomuni il coreano
all’italiano, nulla, non un suono, non una parola, non un gesto. Una cantilena,
ecco cosa mi ricorda sentire parlare questi italiani, una di quelle cantilene
che le nonne sussurrano ai nipoti per farli addormentare, sugli argini del
fiume Han. Analizzo chi mi sta di fronte, chi mi sta accanto, chi mi sorride
mentre io faccio finta di comprendere ciò che sta avvenendo qui, intorno a me,
elargendo sorrisi compiaciuti a tutti. A tuo le mie compagne di classe parlano,
chi sorridendo, chi arrossendo, chi con uno sguardo severo. La donna che ha
parlato per ultima ha dei lunghi capelli lucenti, scuri come il sesamo nero che
noi coreani mettiamo un po’ dappertutto. Gli occhi di questa giovane donna
sorridevano, poi si sono riempiti di nero per intenerirsi di nuovo dopo un
breve istante. Chissà cos’ha raccontato, vedevo la sua mente vagare tra i
ricordi, le sue mani accartocciarsi una sull’altra, le sue dita fremere; ho
letto la sua storia attraverso quelle unghie rosicchiate, come in segreto. Ora
però tutti gli occhi sono puntati verso di me, l’insegnante mi sorride, mi
chiama per nome e con la mano fa un gesto che interpreto come: «Tocca a te, Kim».
E allora io raddrizzo le spalle, mi accomodo meglio sulla sedia, mi schiarisco
la voce, faccio finta di non capire che tocca proprio a me e guardo la mia
vicina di banco con sguardo interrogativo. Lei con un’occhiata mi rimanda
all’insegnante e allora decido di dire le tre parole che so, quelle che ho
voluto conoscere subito, appena arrivata a Milano, dopo un volo di diciotto ore
proveniente da Seoul. «Io sono Marie-Agnes, suora missionaria, perché Dio è
amore». Sorridono tutte, come inebriate dalla mia rivelazione, come se un
anelito della mia devozione le avesse avvolte in un abbraccio caldo, come se il
nome del nostro Dio fosse solo Amore, carità, fratellanza. Mi scrutano,
impazienti che il mio racconto si gonfi di particolari ma «Non so italiano»,
bisbiglio. Nasce forte in me il desiderio di raccontarmi, di aprirmi a loro; il
potere del sorriso delle mie nuove amiche riesce ad allontanarmi dall’odore
della violenza che la mia Terra ha subito, il ricordo di tutti quei poveri e
della loro corsa verso il buio, nelle braccia putrefatte della segregazione.
Qui c’è dolcezza, c’è un nido per un piccolo che sta per emettere il suo primo
vagito, c’è forza, c’è coraggio. Vorrei raccontare a tutte loro che anch’io un
giorno sono stata coraggiosa e ho voluto inseguire Gesù, fino in fondo. Fino a
Cuneo. Proprio qui, dove il Movimento Contemplativo Missionario ha accettato la
mia richiesta di permanenza, dove i miei sessanta anni non hanno spaventato
nessuno, dove la mia esperienza è necessaria e il mio aiuto importante. Qui,
dove sto dimenticando il sapore del Kimchi e mi sto arricchendo di nuove
sensazioni, qui dove nessuno vende bachi da seta ai lati delle strade e dove le
formiche rosse sono un pericolo, non un sollievo per il mal di stomaco, qui
dove i fiori non si mangiano ma si mettono nei vasi. Qui, uno spazio nuovo,
colorato, dove l’insegnante mi guarda e con un gesto accarezza tutte noi. E io
dico: «Qui è gijeok10, qui è miracolo».

 


Malaika


Mi guardo le mani, le
mie mani callose, ora umide, ora gelide. Stringo tra le dita una penna nuova di zecca e aspetto il mio tuo, qui, in
quest’angolo di pace. Mi sembra che i miei polmoni necessitino di più ossigeno,
adesso che Malik sta per affacciarsi sul mondo. Oggi scalcia più del solito e
nemmeno la radice di zenzero mi aiuta a calmarlo. Poso la penna, dopo aver
scritto «Scuola-Italiano» sulla prima pagina di questo quaderno sgangherato. Mi
piace proprio essere dove sono, anche se le mie mani non hanno fermezza; le
guardo e penso a tutti gli anni in cui mi hanno seguita, in cui hanno raccolto
fagioli, bacche di caffè, hanno pulito pesci, aragoste, hanno lavato conchiglie
e coralli, hanno asciugato lacrime e hanno stretto altre mani con passione.

Il corallo, che incanto il corallo. Mi porto le dita al
naso ma non è rimasto nulla di quell’odore di sale, di schiuma, di mare. Sogno
spesso di essere ancora sulla barchetta di legno di John: il silenzio navigava
con noi, seduto sulla cassa dipinta di giallo, rispettato come un ospite atteso
da tempo. Quando raggiungevamo il luogo scelto iniziavamo a canticchiare e
andavamo avanti per ore, finché il buio non ci intimava di tornare a riva.

Mio figlio invece non crescerà con il mare
all’orizzonte, mio figlio nascerà in questa città piena di luci e di rumori,
piena di macchine che corrono, piena di persone che si svegliano in un luogo
chiuso per recarsi in un altro luogo, ancora più chiuso. Proprio questo mi
manca: lo spazio aperto che mi riempiva gli occhi e più guardavo il cielo e più
forte respiravo, tanto da sentire nei polmoni, nelle ossa, in ogni mia vena,
tutto quell’universo che brillava intorno a me. Non c’era un momento della
giornata che preferivo per avvicinarmi al mare e guardare lontano: l’alba era
magica, con quella luce chiara e splendente, il mattino si accompagnava con i
canti degli uccelli che volavano paralleli al mare. A mezzogiorno poi, il
colore del cielo era così intenso che tutto pareva diventare blu; era magnifico
stare seduti sulla sabbia, con le mie sorelle e i miei fratelli, tenendo fra le
ginocchia una ciotola di kacthupa. Al tramonto il blu diventava arancio
e il mare era così calmo che sembrava una coperta soffice, sulla quale era
facile immaginare di rotolare, facendosi avvolgere da quel colore bollente, era
un milagre11 essere al mondo. Rotolavamo, rotolavamo, e i nostri
capelli ci coprivano il viso, non riuscivamo più a vedere il cielo, ma
guardavamo giù, nel mare, vedevamo i pesci, imitavamo i loro movimenti, li
seguivamo e cercavamo di prenderli. Poi ci svegliavamo da questo stato di sonno
immaginario e tornavamo a casa.

Quando qui mi chiedono da dove provengo e io rispondo
Cabo Verde, tutti mi sorridono, adottando quell’espressione di chi sogna di
vedere quei luoghi, prima o poi.

Ho salutato casa mia, un giorno. Era buio, c’era anche
il vento. Il vento, già… È stato come se volesse portarci via ancora più in
fretta. Ci spingeva, ci incoraggiava, ci sussurrava piano che avremmo visto
luoghi migliori, tempi migliori. Mi sforzo per rivivere quelle mie ultime ore
da «capoverdiana-che-vive- nella-sua-terra». Avrei voluto riempirmi la bocca
del sapore delle banane fresche, avrei voluto trattenere sulla pelle il profumo
del mio sole e qualche granello di sabbia tra le dita dei piedi. Sono in Italia
da ormai otto anni e ancora oggi, prima di entrare in casa, mi tolgo le scarpe,
le scrollo sul pavimento desiderosa di veder scendere un piccolo granello di
sabbia luccicante.

Il mio registro non
si chiude, le parole delle mie alunne lo tengono sempre aperto, dando voce a
quell’infinito di emozioni, ricordi, desideri e obiettivi che le rendono vive.
Grazie a Olivia, Inese, Luciana, Kim, Malaika, ma anche a Kristine, Rosa,
Danielle, Aisha, Sandy, Judith, Spresa, Rukya, Vera, Marina… Donne capaci di
piccoli, grandi miracoli.

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(*) Federica Ramella Bon, Spazio Arcobaleno,
pubblicato su Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne straniere in
Italia
, Edizioni Seb27.
Il racconto di Federica Ramella Bon ha vinto il Premio Sezione Speciale
Donne Italiane
del VIII Concorso letterario nazionale Lingua Madre,
2013.

FEDERICA RAMELLA-BON nasce a Cuneo nel 1979. Docente di lingue straniere presso le
scuole secondarie di primo e di secondo grado; per alcuni anni ha insegnato in
diversi Ctp (Centri territoriali permanenti) della provincia, venendo così a
contatto con aspetti della multiculturalità che – dice – non conosceva e che
l’hanno appassionata. Da sempre ama scrivere e raccontare, le piace la
letteratura, l’arte e la psicologia sociale, soprattutto quella legata ai
fenomeni migratori. Compone poesie per la rivista letteraria online «Peripheral
Surveys».

Note
1     «It’s a miracle»: è un miracolo.

2     Troubles: è il nome con cui si indica la
cosiddetta «guerra a bassa intensità» che si è svolta tra la fine degli anni
‘60 e la fine degli anni ‘90 in Irlanda del Nord.

3     Skābputra: zuppa di orzo acido.
4     Brīnums: miracolo.
5     Sklandu rauši: tortini a base di patate.

6     Insustancial, impalpable: inconsistente,
impalpabile (lasciato volutamente in lingua originale).

7     Milagro: miracolo.
8     Lechona: piatto tipico colombiano a base di
carne di maiale.
9     Tinto: caffè.
10   Gijeok: 기적, miracolo.
11   Milagre: miracolo.
 
Panini verdi
Chou Mei Chen Susanna [Cina](*)

La
signora Qin era entusiasta, aveva appena sentito per telefono suo fratello
minore, che quel giorno era diventato nonno; stava raccontando del lieto evento
a sua figlia maggiore, Anna Lin, sperando di darle una spinta affinché anche
lei si decidesse a sposarsi e darle un nipotino. Anna Lin sapeva come si
sarebbe svolto il dialogo e, con rassegnazione, ascoltava la madre, fissando le
statuine rappresentanti dame dell’antica Cina, intente a suonare una il pi’pa,
l’altra il guzheng, una terza lo er-hu1,
e l’altra il flauto traverso, circondate da alberi con foglie di giada e fiori
di agata dai diversi colori, poste sui ripiani nella parete verde acqua di
fronte al divano blu sul quale era seduta.

– Sai, il tuo cuginetto Roby ha avuto una figlia, l’hanno chiamata Kate!

– Kate?!? –, le aveva risposto Anna Lin con
un’espressione divertita, pensando a quanto fossero oramai altri tempi quei
lontani Anni ‘80, quando i cinesi che venivano in Italia, per facilitare la
comunicazione nei diversi ambiti di scambio quotidiano, che fosse scuola o
lavoro, sceglievano anche dei nomi italiani per sé e per i loro figli: Paolo,
Maria, Michele, Sara, Giovanni, Lucia.

– Effetti della globalizzazione –, riprese Anna Lin.

– Cosa vuol dire globa… – le aveva chiesto la Signora
Qin, sapendo che non poteva trattarsi di nulla di troppo positivo, visto il
tono snob con cui l’aveva detto sua figlia.

– In cinese è 全球化,
quanqiuhua. Quando dei gusti diventano uguali per tutti –, le aveva
risposto un po’ superficialmente sua figlia, preoccupandosi più che altro di
arrivare al nocciolo della questione e poco di approfondire il significato del
termine «globalizzazione».

– Beh, almeno lui si è sposato prima di te ed è già
diventato papà. Tuo cuginetto Roby ha solo 21 anni, tu invece, che ne hai 32,
ancora niente.

Ed eccola – stava pensando Anna Lin – che riparte con la
solita tiritera: e quando ti sposi? Oramai sei vecchia, guarda che più aspetti
più potresti avere dei problemi ad avere figli, potrebbero essere deboli,
oppure potresti non avee proprio, mica rimani giovane per sempre! Un getto
continuo di parole, tante parole.

– Come sarebbe bello se diventassi nonna anch’io; sono
la sorella maggiore e sarò l’ultima a diventarlo, se mai lo diventerò! Eppure,
Anna Lin, non sei brutta, insomma, c’è di peggio.

– Grazie mamma.
– Com’è possibile che non riesci a trovare nessuno?

Anna Lin sapeva che la madre una volta presa quella
strada non l’avrebbe lasciata tanto facilmente, le prossime frasi sarebbero
state sui suoi fallimenti in tutti i settori: non sei sposata, non hai figli,
ma non hai nemmeno un lavoro fisso.

– Nonostante tutti questi anni passati a studiare per
laurearti, non hai trovato un lavoro decente.

«Come Volevasi Dimostrare», adesso partirà con l’elenco
dei figli delle sue amiche o parenti lontanissimi, che hanno tutti dei lavori
bellissimi, super pagati, in giro per il mondo, e tutto questo senza essere
laureati!

– La mia amica Alian mi ha detto che sua figlia ha
trovato lavoro per una banca, è sempre in trasferta, a te piace viaggiare no? E
la pagano bene.

– Sì sì mamma, immagino. Come la figlia dell’amica della
mamma di Lisa, che poi si è scoperto avere un contratto di apprendistato.
Adesso
l’hanno lasciata a casa, vero? Al suo posto non hanno preso una neo-laureata,
che non sa nemmeno leggere una fattura, che sia in italiano o in cinese?

Anna Lin doveva sempre controbattere, questo lo sapeva
bene la Signora Qin, con sua figlia non era facile.

– Accompagnami a Porta Palazzo2,
devi aiutarmi a fare la spesa.

– Va bene –, rispose Anna Lin, pensando che sua madre
fosse molto abile a cambiare argomento e che per il momento l’assalto era
rimandato, almeno fino al prossimo invito per matrimonio o nascita di bebè.

Quand’era piccola, Anna Lin andava tutti i giorni al
mercato di Porta Palazzo con sua nonna Elena. Gli amici cinesi di famiglia
quando la vedevano le dicevano che era il sacchettino profumato della nonna, un
modo poetico per dirle che le era sempre attaccata.

Con
la nonna avevano dei giri di commissioni quotidiane: panettiere, lattaio, «campagnini»
(così li chiamava la nonna) che avevano una loro sezione del mercato, dietro la
tettornia dell’orologio, con le bancarelle di prodotti che negli ultimi anni
venivano definiti a chilometro zero. La nonna Elena passeggiava tra le
bancarelle sorridente, chiacchierava coi commercianti, che fossero cinesi o
italiani, pugliesi o piemontesi, la sua gentilezza era un linguaggio
universale. Anche la Signora Qin accompagnava spesso la suocera a fare la
spesa; quando, all’inizio degli Anni ‘80, appena arrivata, ancora non sapeva
una parola di italiano e si sentiva così lontana dalla sua terra, il mercato le
ricordava un po’ casa; aveva imparato a mangiare nuovi cibi, come i formaggi,
il sugo di pomodoro, il gelato; o a sentire come i sapori di prodotti comuni
anche con la Cina fossero comunque diversi. Ma non aveva rinunciato a portare
nella nuova casa alcune tradizioni culinarie del suo paese.

Negli ultimi anni al mercato di Porta Palazzo riusciva a
trovare quasi tutto, perché avevano aperto molti negozi di alimentari cinesi e
dai «campagnini» c’erano bancarelle di frutta e verdura orientali coltivati da
contadini cinesi nelle terre del torinese.

– Cosa dobbiamo comprare? –, chiese Anna Lin, più per
spezzare il silenzio tra lei e la madre che per reale desiderio di sapere,
mentre camminavano nel viale alberato dove le fermate dei mezzi pubblici erano
affollate da quei volti della multiculturalità che a lei piacevano tanto, perché
così non si sentiva più una dei pochi a essere straniera. Perché pur essendo
nata in Italia, pur avendo una parte genetica anche italiana, pur avendo più
amici italiani che cinesi, agli occhi dei più era sempre una straniera. Quando
parlava la gente le diceva stupita: «Ma come parli bene italiano!», nello
stesso modo in cui in Francia le facevano i complimenti per come parlasse bene
il francese, in Germania il tedesco o in Inghilterra l’inglese. Peccato che lei
fosse italiana, non solo ma anche.

– Un po’ di cose per fare i panini verdi –, le rispose
la signora Qin.

– Entriamo prima qui –, disse la signora Qin alla
figlia, davanti all’ingresso del primo negozio cinese della via, le cui vetrine
erano ricoperte di annunci colorati, scritti coi caratteri cinesi: parrucchiere
in via YZ, si vendono schede telefoniche scontate, prenotazione biglietti aerei
per Shanghai/Beijing (Pechino)/Wenzhou, signora 50enne cerca lavoro come
baby-sitter, e altri.

La signora Qin analizzava i prodotti esposti sugli
scaffali: la farina di riso lì costava circa venti centesimi in più rispetto al
negozio accanto; però c’era il preparato per barbecue di quella marca
che gli altri negozi non avevano, quindi ne prese due bustine.

– Ah Signora Qin! Come stai? – disse avvicinandosi una
signora magra, dalle gote arse dal sole, come solo chi lavora all’aperto sotto
il sole può avere.

– Ah buongiorno Yujing! Come stai? –, le rispose la
Signora Qin.

– Bene. Stai facendo la spesa? Cosa compri?
– Alcune cose per la festa Qing Ming3.

– Tu fai dei panini verdi buonissimi! A me non vengono
così bene, il ripieno è meno saporito e il colore dell’impasto mi viene
pallido.

– Devi usare gli spinaci, danno un colore più acceso.
Nel ripieno metti del bambù, dei funghi secchi e anche dei fagiolini secchi se
li hai. I tuoi figli stanno bene? La maggiore sta per partorire vero?

– Sì, le voglio cucinare degli spaghettini col vino di
riso.

– Mamma –, la interruppe Anna Lin. La signora Qin ignorò
sua figlia. In realtà non lo faceva di proposito, in famiglia glielo facevano
sempre notare, che quando parlava con qualcuno in cinese, o guardava la tv
cinese (che fosse film, o concerto, o telegiornale) non era «impostata» nella
modalità «lingua italiana».

– Mammmma! Vanno bene questi bambù? – le chiese Anna Lin
mostrandole un barattolo dall’etichetta verde con l’immagine di germogli di
bambù gialli.

– No, quelli sono tagliati a fette. Prendi il barattolo
con l’etichetta bianca, quelli sono interi.

– Chi è quella ragazza, signora Qin? –, chiese curiosa
Yujing.

– Mia figlia maggiore.

– Oh, non ti assomiglia per niente. In realtà non sembra
nemmeno cinese… È sposata?

– No e non ci pensa proprio.

– Se vuoi ti presento il figlio di Miyan, ha quasi la
sua età, anche lui non è ancora sposato, sta studiando medicina; forse è del
segno del bue4, va bene con tua figlia no?

– Mia figlia non vuole queste cose combinate… Adesso
devo andare a finire la spesa. Ci vediamo Yujing.

Tra
uno scaffale e l’altro dei tre negozi cinesi e tra una chiacchierata con un
conoscente e l’altro, madre e figlia avevano comprato tre pacchetti di farina
di riso, uno di funghi secchi, due confezioni di pasta di riso, due di
preparato per salsa barbecue, uno di pasta di farina di patate dolci, un
barattolo di germogli di bambù (di cui Anna Lin si lamentava per il peso) e una
bottiglia formato famiglia di salsa agro-piccante.

Dai «campagnini» invece, aveva comprato due chili di
cime di rape, le melanzane lunghe e i cavoletti cinesi.

– Per pranzo fai il riso con le cime di rapa, mamma?

– Se vuoi. Dopo pranzo però tu e tua sorella mi dovete
aiutare a fare i panini verdi.

Anna Lin sapeva che sua madre in realtà non aveva
bisogno del loro aiuto, che se la cavava benissimo anche da sola; lo faceva per
insegnare alle figlie come prepararli.

Stava riflettendo che, in effetti,
avrebbe dovuto imparare a cucinare alcuni determinati piatti, almeno per
mantenere le tradizioni. Sarebbe mai riuscita a cucinare da sola i panini
verdi? O a preparare il vino di riso? O dei semplici panini bianchi al vapore?
Tutte le tradizioni della cultura di sua madre, e quindi anche della sua,
sarebbero andate perse. Come avrebbe cresciuto i suoi figli? Ma forse il punto
era davvero un altro, quello su cui sua madre insisteva tanto: avrebbe mai
avuto dei figli?

Dopo
pranzo, mentre nella cucina di casa disponeva sul tavolo in file composte i
panini verdi, Anna Lin notò la loro irregolarità: quelli di sua madre erano
tutti della stessa dimensione, i suoi no: qualcuno era più pieno, qualcuno
sgonfio, qualcuno più tondo; e fu colta da un angosciante senso di vuoto, la
consapevolezza che le mancava qualcosa, non sapeva definire di preciso cosa, ma
sentiva di non aver più tempo, di doversi affrettare per imparare, per
recuperare, per ottenere ciò che non aveva.

___________________

(*) Chou Mei Chen Susanna, Panini verdi,
pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne
straniere in Italia
, Edizioni Seb27.

MEI CHEN SUSANNA CHOU nasce il 24 novembre 1976 a Che-Kiang (Repubblica Popolare
Cinese). Laureata in Lingue e Letterature Straniere (cinese e tedesco) presso
l’Università di Torino, dopo varie esperienze in ambito turistico-commerciale,
inizia a lavorare, in Germania, nel settore dell’organizzazione culturale,
proseguendo poi la sua attività in Italia. Ha organizzato festival musicali in
Piemonte, con particolare riguardo verso le sonorità inteazionali.
Parallelamente all’attività culturale (www.asiae.org) collabora con diverse
associazioni, occupandosi anche di traduzione.

 
Note
1     Strumenti a corde della tradizione cinese.
2     Porta Palazzo: il più grande mercato di Torino.

3     La Festa Qing Ming (清明节, Qing
Ming Jie) è la festa cinese della pulizia delle tombe, che ricorre generalmente
nel mese di Aprile del calendario gregoriano.
4     Uno dei dodici segni dello zodiaco cinese,
suddiviso per anni e non per mesi.

 
Con gli occhi di Keréne
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba [Italia e Congo](*)
 

Il
volo era durato appena venti minuti, Pantelleria vista dall’alto aveva la forma
di un rene umano, ma la cosa più inquietante è che appariva piccolissima: non
avrei mai creduto che il pilota, dopo averci miracolato evitando con cura i
cocuzzoli delle montagne limitrofe, sarebbe anche riuscito a centrare quella
pista così piccola da ricordare le portaerei in uso durante la Seconda guerra
mondiale!

Non sapevo dove andare, ma non mi preoccupavo più di
tanto: mi avevano detto che per giungere alla scuola del paese, sarebbe stato
sufficiente chiedere un passaggio ad uno di quei panteschi molto
disponibili che passano casualmente dalle parti dell’aeroporto proprio all’ora
degli arrivi, e che per soli cinque o dieci euro ti fanno il «favore» di
accompagnarti in macchina, persino davanti alla scuola.

In effetti, in 5 minuti ero già arrivata. Dopo le
pratiche di segreteria e le presentazioni col personale della scuola e con il
preside, al suono della campanella finalmente era giunto il momento di entrare
in classe.

Per rompere il ghiaccio cominciai a presentarmi
scrivendo il mio nome sulla lavagna e parlando un po’ di me. Ero riuscita ad
attirare la loro attenzione, adesso toccava a loro presentarsi. Mentre i più
audaci facevano a gomitate nel contendersi la parola, non poté passare
inosservata, seduta al primo banco della fila centrale, una ragazza dagli occhi
grandi e scuri: era magrolina, ben vestita, e sembrava molto riservata.

La presentazione della classe procedeva rapida e
ordinata: tutti volevano fare bella figura!

Dulcis in fundo
toccò a Keréne, la ragazza al primo banco, che timidamente sorrise e dopo un
paio di tentativi, lodevoli ma buffi, rinunciò alla sua impresa.

I compagni mi spiegarono che non parlava bene l’italiano
perché era arrivata in Italia da pochi mesi.

La mattina seguente, misi sul banco di Keréne il
dizionario di francese. Avevo un’intera classe da seguire e non avrei potuto
dedicare troppo tempo a lei, che comunque sembrava aver gradito la novità.

Per sondare la classe e le eventuali lacune
grammaticali, decisi di assegnare un tema.

Volendo dare a tutti la possibilità di scrivere senza
problemi, scelsi un titolo aperto:
«Una giornata indimenticabile…»

Keréne, si tuffò sul dizionario e per due lunghe ore non
staccò mai gli occhi dal foglio. Tutti si fermarono per la ricreazione, ma lei,
caparbia, continuò a scrivere. Quella che per tutti gli altri era la lingua
madre per lei era un ostacolo da dover aggirare!

A fine giornata, dopo aver ritirato tutti gli elaborati,
mi avviai verso casa.

Tra un panino e un caffè, cominciai la correzione dei
temi della III B.

In quei fogli c’era di tutto: da Disneyland alle
Piramidi, dal primo bacio alla Play-Station II.

Ma ad un tratto il registro cambiò: il tema di Keréne si
presentava con una grafia pulita ed ordinata…

«Sono
nata in Congo, giunta a Pantelleria per caso: ho una sorella poco più grande di
me e tre fratellini piccoli e vivaci. Mia mamma è sempre riuscita a far fronte
a tutte le esigenze familiari: è una donna in gamba e non si è tirata indietro
quando papà le ha proposto di spostarsi più a Nord nella speranza di garantire
a noi un futuro migliore. Mio papà è un insegnante di francese ed ha deciso di
raggiungere la Libia per migliorare le aspettative di vita dell’intera
famiglia: lì ci sono scuole che meglio retribuiscono i loro docenti. Così
decidiamo di partire, il viaggio è lungo ma ne vale la pena. Giunti lì ci
inseriamo molto bene: siamo una famiglia numerosa, benestante e felice. Tutto
sembra aver preso una giusta piega ma nell’aria c’è un nuovo fermento di libertà:
sta per iniziare la “primavera araba”, che per noi è semplicemente un’altra
guerra. Dopo giorni di terrore sotto i bombardamenti, papà decide di partire
per l’Italia, trovando posto su uno di quei famigerati barconi che solcano
copiosi il Mediterraneo. Siamo in sette e quindi paghiamo una somma ingente,
ma, a differenza di tanti altri disperati, papà ha i soldi per acquistare i
biglietti. Nel cuore della notte, nascondendoci dalla sorveglianza militare
armata, riusciamo ad imbarcarci e, tra lo schianto delle bombe ed altre mille
paure, a prendere il largo.

Il mare sembra agevolare la nostra fuga, il vento è buono.

Oggi è mercoledì 13 aprile 2011, sono le 5:00.

Il sole non è ancora sorto, attorno c’è buio fitto, dopo
cinque giorni di navigazione qualcuno dice che siamo vicini ad uno scoglio: no,
non è uno scoglio, è Pantelleria.

Il mare è agitatissimo e ci fa sbattere l’uno contro
l’altro; il barcone, carico di 192 persone, sembra impazzito, sbattuto da onde
minacciose che ci sommergono da tutti i lati.

Il barcone è sempre più vicino agli scogli, l’impatto è
orrendo e devastante, ho il cuore in gola, per davvero lo sento palpitare
proprio lì: e pensare che fino a quel momento avevo sempre creduto che quello
fosse soltanto un modo di dire!

Uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. La paura è
grande e, sperando che sia tutto finito, accenno una preghiera di ringraziamento:
«Dio mio, spero che questo non si ripeta mai più nella mia vita…», ma non
immagino minimamente quello che ancora mi aspetta.

Improvvisamente siamo catapultati letteralmente in mare:
i più fortunati rimangono attaccati al barcone, altri sono ormai in balìa delle
onde… E molti di noi non sanno nuotare.

Solo grazie all’aiuto della guardia costiera e dei
volontari che si prodigano tirandoci fuori dall’acqua, io, i miei fratelli, mia
sorella e mio padre ce la caviamo.

La mia mamma purtroppo no! Lei non ce la fa… Non sa
nuotare e le onde non le lasciano scampo. Forse, se avessi saputo nuotare,
l’avrei potuta salvare io. Il dolore, lo sconforto, sono grandissimi. L’inferno
non può essere peggio di questo, ed io ci sono stata!

Nel frattempo perdo i sensi, vengo salvata a fatica: ho
promesso alla mamma che saremmo rimasti tutti uniti e che mi sarei occupata dei
bambini.

Ci ricoverano per alcuni giorni in ospedale; gli
abitanti della piccola isola non ci fanno mancare nulla; i medici, appena
possibile, ci portano in obitorio per salutare per l’ultima volta la mamma. I
nostri cuori sono straziati dal dolore, sono ferite difficili da rimarginare,
ti segnano la vita, anzi te ne tolgono anche un po’.

La mia mamma, la mia giovane e bellissima mamma… Non la
rivedrò mai più.

Devo però aiutare i miei fratellini che forse soffrono
più di me.

Al funerale ci sono tante persone, i militari, il
sindaco e tutti i superstiti alla sciagura.

Appena dimessi dall’ospedale, una famiglia ci ospita
nella propria abitazione: stiamo bene con Giuseppina e Mariano, ci trattano
come figli, non dimenticherò mai la loro accoglienza.

Nel mese di maggio andiamo a Trapani per ricevere i
documenti necessari alla nostra permanenza a Pantelleria. Al nostro ritorno da
Trapani ci sistemiamo in una casa che papà ha preso in affitto.

Io e mia sorella Aicha, anche se di diverse età, ci
iscriviamo a scuola: purtroppo ci inseriscono in terza media perché non abbiamo
con noi alcuna attestazione scolastica; i miei fratellini Vianì e Raìs alla
scuola elementare, ed il piccolo Eest all’asilo.

Col passare dei giorni conosciamo tanti ragazzi e
ragazze. I primi momenti a scuola sono difficili, non riusciamo a comunicare
con gli altri e ho tante difficoltà anche nel relazionarmi con i professori.

Mi piacerebbe un giorno continuare i miei studi
frequentando l’università, vorrei studiare per poter realizzare il mio sogno
che è quello di diventare una pediatra per aiutare i bambini a crescere e per
soccorrere coloro che hanno più bisogno. Un giorno toerò nella mia Africa per
dare una mano ai più bisognosi».

Avevo
letto quel tema tutto d’un fiato, asciugandomi di continuo gli occhi per
riuscire a decifrare le parole che si sfocavano dentro le mie lacrime.

Un senso di colpa mi assalì improvvisamente pensando
alla sofferenza che le avevo procurato assegnando la stesura di quel tema.

D’improvviso mi sembrò di vedere i suoi occhi limpidi,
trasparenti e pieni di luce.

Con il passare dei giorni, osservavo i progressi che
faceva la piccola Keréne: si impegnava moltissimo, stava mettendo a frutto la
sua intelligenza ma ancora di più la sua voglia di vivere.

Ogni giorno, tornando a casa, pensavo a lei e a come
avrei potuto aiutarla senza sembrare invadente. Non perché avesse bisogno
d’aiuto materiale, quello non le mancava, era ben voluta da tutti. Keréne aveva
bisogno d’amore, di un abbraccio, di una carezza, di una parola affettuosa. Lo
scorso giugno ha conseguito la licenza media col massimo dei voti.

Quest’estate è venuta a casa mia in vacanza: pur avendo
terrore del mare, ha desiderato fortemente che le insegnassi a nuotare…

Mi ha detto: «Prof, sogno ogni notte la mamma che mi
chiede aiuto e non riesco mai a tirarla fuori dall’acqua, scompare sempre tra
le onde… Ma se imparo a nuotare, un giorno riuscirò finalmente a salvarla».

L’ho abbracciata piangendo, ma lei scostandosi mi ha
stretto le mani e guardandomi intensamente, mi ha sorriso.

————————————

(*) Marika Sanna e
Keréne Fuamba, Con gli occhi di Keréne, pubblicato su Lingua Madre
Duemilatredici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni SEB27. Il racconto di Marika Sanna e Keréne Fuamba è stato selezionato al VIII
Concorso letterario nazionale Lingua Madre
, 2013.

KERÉNE FUAMBA nasce nel
1996, in Congo. Per sfuggire alla guerra civile la sua famiglia si trasferisce
in Libia, appena prima della «fioritura» della primavera araba. In fuga verso
l’Italia, nel 2011, naufraga sulle coste di Pantelleria, perdendo la mamma.
Comincia così a frequentare la scuola in Italia: nel 2012 consegue la Licenza
Media con il massimo dei voti. Frequenta attualmente con profitto il Liceo
delle Scienze Umane, collaborando attivamente con l’Associazione Teatro
Instabile
di Sicilia nella difesa dei diritti e dell’impegno civile.
Nell’estate del 2012 ha presentato l’evento culturale «Teatro tra sole e sale»
e la performance teatrale La mafia uccide, il silenzio pure, ispirata
all’omicidio di Peppino Impastato. Vorrebbe presto realizzare il suo sogno,
diventare pediatra, per tornare in Congo e aiutare i bambini bisognosi della
sua terra.

MARIA ENRICA SANNA vive a Erice Casa Santa, in Sicilia. Laureata in Lettere e
specializzata in Tecniche innovative nella didattica, è una «docente precaria»,
che insegna nelle scuole medie e superiori. Da sempre impegnata nel sociale,
cornordina progetti di recupero rivolti a soggetti svantaggiati. Ha acquisito
qualifiche professionali nel campo teatrale e culturale. Attualmente si occupa
in modo particolare di formazione dei giovani e del loro impegno civico.

 
Lingua Madre

Il concorso letterario nazionale Lingua Madre,
ideato da Daniela Finocchi, giornalista da sempre interessata ai temi inerenti
il pensiero femminile, nasce nel 2005 e trova subito l’approvazione e il
sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di
Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente
dedicato alle donne straniere – anche di seconda o terza generazione –
residenti in Italia che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè
l’italiano), vogliono approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo
«altro». Una sezione speciale è riservata alle donne italiane che vogliano
raccontare storie di donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e
che hanno saputo trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità
per dar voce a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare
le donne che nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due
volte. Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette
ma incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso
l’uso della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Pubblichiamo i racconti di queste pagine per
gentile concessione del «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», a cui
vanno i nostri ringraziamenti più sinceri.
Chi volesse partecipare al concorso può inviare i
racconti e/o le fotografie a:

Concorso letterario nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427
Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro
 
Tags: donne, migranti, integrazione, accoglienza

Varie Autrici




Missione e Creazione

Ecologia: nuove e vecchie sfide all’evangelizzazione

Vai al dossier nello sfogliabile, cliccando sulla foto.

Tag: Ecologia, missione, evangelizzazione, ambiente

Ugo Pozzoli e Luis Ventura Feandez




Ebola: Prigionieri di un incubo

Paesi e popolazioni
allo sbaraglio.

Govei e popolazioni di Sierra Leone, Guinea, Liberia e
Nigeria sono alle prese con un’emergenza sanitaria probabilmente senza
precedenti. In paesi con strutture sanitarie inesistenti o inadeguate,
l’epidemia di Ebola potrebbe avere conseguenze difficilmente immaginabili.
Soltanto l’intervento internazionale può evitare che la situazione precipiti.
In attesa di un vaccino che ancora non esiste. Nel frattempo il virus è
arrivato in Spagna e negli Stati Uniti.

Leggi tutto il dossier sul pdf sfogliabile. Clicca qui.

Anno
2013. Inizio di dicembre. Il piccolo di due anni non sta bene, ha la febbre, è
molto debole, sembra gli facciano male i muscoli, la testa, la gola. È piccolo:
difficile capire. Potrebbe essere un’infezione virale, passerà. Ma poi compare
vomito, diarrea. Sarà una forma gastrointestinale, ce ne sono spesso in giro,
meglio portarlo dal pediatra. Il bambino però non è in Italia, è in Africa:
vive in Guinea, Guéckédou, una regione boschiva. Non è così facile portarlo da
qualcuno che lo visiti. E possono essere tante le cause del suo malessere:
potrebbe essere malaria, tifo, colera, meningite o una delle altre patologie
infettive diffuse in questo continente, spesso con nomi sconosciuti o
dimenticati da molti nel Nord del mondo.

La situazione non migliora perché questa non è una delle
solite malattie con cui quotidianamente la popolazione si confronta, spesso
avendo la peggio.

Ecco, si potrebbe immaginare così l’inizio dell’ultima
epidemia di Ebola, una febbre emorragica causata da un virus che l’Africa ha già
conosciuto. La prima volta è stata nel 1976. Poi l’Ebola si è ripresentata, con
epidemie mortali in alta percentuale. Questa volta, dalla vittima morta
a dicembre e identificata (ma soltanto il 22 marzo) come il «caso indice» (noto
anche come «paziente zero»), il primo dell’epidemia (forse)1,2,3,
l’infezione si è diffusa con velocità, dimensioni e portata assai maggiori
rispetto alle occasioni precedenti, passando dalla Guinea ai paesi vicini,
Liberia e Sierra Leone, e poi arrivando anche in Nigeria e Senegal.

Secondo i dati diffusi all’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms)4, al 7 settembre 2014 i casi (tra probabili, confermati
e sospetti) in Africa occidentale erano quasi 4.400, con circa 2.200 morti,
praticamente uno su due. Nel continente non c’è però un sistema sanitario che
permetta di avere dati certi che coprano tutto il territorio, comprese le zone
rurali più distanti. E poi la gente ha paura e non tutti – lo vedremo più
avanti – vanno a farsi visitare. Per questo le cifre potrebbero essere
incomplete o non precise. Senza contare che sarebbero da aggioare ogni giorno
(dati più recenti a pag. 43).

Dopo Guinea, Liberia e Sierra Leone, a fine luglio 2014
l’infezione è arrivata anche in Nigeria, con la morte di un paziente liberiano
arrivato in aereo a Lagos. Nell’ultimo rapporto dell’Oms in Nigeria sono stati
contati 21 casi (tra confermati, probabili e sospetti) e 8 morti4.
Infine, è stato segnalato un caso anche in Senegal, a fine agosto: un paziente
arrivato a Dakar dalla Guinea. Al 7 settembre i casi erano tre, nessun morto.
L’8 agosto, a nove mesi dall’ipotizzato inizio dell’epidemia, il direttore
generale dell’Oms ha dichiarato l’Ebola un’emergenza di sanità pubblica di
rilevanza internazionale5 e il 28 agosto ha pubblicato una roadmap per
assistere governi e partner nei piani di risposta all’epidemia e cornordinare il
supporto internazionale6.

All’inizio di agosto sono stati segnalati casi anche
nella Repubblica Democratica del Congo, ma a inizio settembre l’Oms ha
affermato che quest’epidemia è slegata da quella che sta flagellando l’Africa
occidentale da fine 20137. In ogni caso, anche in Congo R.D. l’Ebola ha seminato
morte, con 35 decessi (7 fra operatori sanitari) su 62 casi8.

 
Quel fiume in Congo

Era il 1976 quando, nella Repubblica Democratica del
Congo e in Sudan, fu identificato per la prima volta il virus responsabile
della malattia. Allora si era trattato di due epidemie contemporanee, causate
da due sottotipi diversi (sono in tutto cinque) del virus: quello chiamato «Zaire»,
responsabile anche dell’epidemia attuale, e il tipo «Sudan»9.

Il nome Ebola deriva dall’omonimo fiume, vicino alla
zona del Congo ove si era verificata l’epidemia (Yambuku). Da allora varie
segnalazioni di casi singoli e di epidemie (24, la maggior parte causate dal
sottotipo Zaire) si sono succedute in diversi paesi africani. Le ultime
segnalazioni del 2012 provenivano dall’Uganda e ancora dalla Repubblica
Democratica del Congo. La letalità è stata diversa, passando dalla più bassa
del 25 per cento (dunque, un malato morto ogni quattro) alla più alta del 90
per cento (nove morti ogni dieci malati).

Cosa favorisce la
diffusione

Riguardo all’epidemia attuale – iniziata in Guinea
sudorientale nel dicembre 2013 -, sembra che i primi pazienti si siano ammalati
perché esposti a cacciagione locale infetta e che la diffusione sia poi stata
veicolata dalla partecipazione a cerimonie funebri che hanno portato al
contatto con persone morte per l’Ebola o con persone già infettate10.
L’Oms ha segnalato tre fattori principali responsabili della diffusione
dell’Ebola11. In primis, aspetti culturali come la mancanza di
fiducia, preoccupazione e resistenza nei confronti delle raccomandazioni di
sanità pubblica volte a prevenire la diffusione e bloccare il contagio. Rientra
in questo anche la mancata ricerca dell’assistenza sanitaria (in paesi in cui
la rete sanitaria è fragile e precaria), la scelta di curare i malati a casa e
di tenerli nascosti, la partecipazione a cerimonie funebri con rituali che
espongono al contagio. Un altro aspetto critico è rappresentato dai massicci
spostamenti delle persone sia all’interno dei paesi che attraverso le
frontiere. Un terzo fattore è venuto dalla non completa copertura dell’epidemia
con misure di contenimento efficaci, quindi una risposta inadeguata alla
dimensione e diffusione del contagio. 

La trasmissione

Il virus dell’Ebola causa una febbre emorragica molto
pericolosa e spesso fatale negli esseri umani, tanto da poter uccidere fino a
nove persone su dieci infettate12. Finora le epidemie si sono
verificate in villaggi isolati, vicino alle foreste tropicali, in Africa
centrale e dell’Ovest. Il virus viene trasmesso alle persone da animali e un
tipo particolare di pipistrello – appartenente alla famiglia Pteropodidae
– ne viene considerato l’ospite naturale (si veda l’infografica a pag. 42).
L’infezione viene trasmessa dal contatto con sangue, secrezioni o altri fluidi
del corpo di animali infettati dal virus. Una volta passato dall’animale
all’uomo, il virus si trasmette da una persona all’altra secondo modalità
analoghe, attraverso il contatto diretto o indiretto con sangue e fluidi del
corpo13.

I riti attorno al
defunto

Uno dei problemi affrontati dagli operatori sanitari
nella prevenzione della diffusione del virus, è quello delle cerimonie di
sepoltura, come racconta Maria Cristina Manca, antropologa di Medici senza
frontiere
, che ha lavorato diverse settimane in Guinea, proprio a Guéckédou
dove pare tutto sia iniziato. «Le ritualità intorno alla morte – ci racconta –
sono fondamentali. Sia i malati, sia i morti, vengono appoggiati, seguiti,
aiutati da tutte le persone che sono loro vicine. Per i malati ciò accade a causa
della mancanza di un servizio sanitario. L’unico servizio presente è a
pagamento: per questo le persone non vanno a farsi curare o comunque ci vanno
soltanto se sono molto gravi. Quando arriva la morte, vi sono una serie di
congiunti che lavano il corpo, lo vestono, lo abbracciano, lo baciano. Più
l’individuo deceduto era importante, più cresce il numero di soggetti
coinvolti. Addirittura, se il morto era influente nel villaggio, la salma viene
portata a “salutare” una serie di persone. Tutto questo significa circolazione
del virus tra chi lava il corpo, chi si trova nel luogo in cui viene portato,
chi arriva da lontano per salutarlo: a questa mobilità enorme corrisponde
un’enorme diffusione. Per il rischio di contagio, è chiaro che il corpo non si
deve né toccare, né lavare, né abbracciare. Ci sono tuttavia alcune cose che si
possono fare. L’Ebola è una malattia terribile, che obbliga a soluzioni
drastiche. Personalmente, quello che ho cercato di fare è stato di non vietare
il rito ma di trasformarlo, nei limiti del possibile. Per esempio, nel sacco
bianco, dove bisogna porre il corpo del malato morto di Ebola, si possono
collocare gli oggetti rituali che in genere vengono messi nella tomba; le
persone, con guanti e protezioni adeguate, possono prendere il sacco e
tumularlo; si può anche esporre il corpo, purché a metri di distanza e con le
precauzioni del caso; infine si può concedere un ultimo saluto, un’ultima
preghiera prima che il sacco venga chiuso».

Senza medici e
infermieri

L’incubazione della malattia – dal momento
dell’infezione all’inizio dei sintomi – può variare da 2 a 21 giorni. I sintomi
comprendono febbre, debolezza intensa, dolori muscolari, mal di testa e mal di
gola, cui seguono vomito, diarrea, segni sulla pelle, malfunzionamento di reni
e fegato e in alcuni casi, sanguinamenti sia estei sia interni (grafico
dei sintomi a pag. 43
). Le persone sono infettive finché il sangue e le
secrezioni contengono il virus, che può rimanere per un certo periodo anche
dopo la guarigione14. In questa epidemia è stato alto il prezzo pagato da
chi lavora per curare gli ammalati. Infatti, proprio la modalità di
trasmissione dell’infezione espone a un alto rischio il personale sanitario,
anche a causa dei sintomi che all’inizio sono poco specifici (la conferma di
infezione da Ebola è possibile solo tramite esami di laboratorio). Al 7
settembre erano 144 gli operatori sanitari deceduti in Guinea, Liberia e Sierra
Leone su 301 casi di contagio15. E questo in paesi dove vi è una
scarsità di base di personale sanitario, sia medico che infermieristico: già
prima della morte degli operatori sanitari, vi erano soltanto 90 medici in
Liberia e 136 in Sierra Leone, paesi che ne avrebbero bisogno rispettivamente
per circa dieci e venti volte di più. E in Guinea la situazione è solo
lievemente migliore, con 1.000 medici per più di 11 milioni di persone16.

Clara Frasson, di Medici con l’Africa-Cuamm,
all’ospedale di Pujehun in Sierra Leone per un progetto di aiuto a mamme e
bambini, descrive la devastazione di un paese in ginocchio: «A causa
dell’epidemia, il sistema sanitario, messo in piedi con grandi sforzi, è in
crisi. Le mamme non fanno più le visite prenatali, non portano i bambini a
vaccinare; le gravide riprendono a partorire in casa senza assistenza; i
malnutriti non vanno più ai centri dove potrebbero essere nutriti
correttamente, curati e salvati. Questa emergenza è paragonabile alla guerra.
L’economia del paese è allo stremo, il commercio è interrotto, le compagnie
aeree non fanno più scalo a Freetown. Molte zone del paese sono chiuse e la
popolazione non può più muoversi liberamente. Il cibo comincia a scarseggiare,
non è ancora la stagione del raccolto e purtroppo le persone stanno usando le
scorte alimentari destinate alla vendita o alle sementi. Tutte le persone
(familiari, amici, ecc.) che hanno avuto contatto con un malato vengono poste
in quarantena per 24-25 giorni. Con il team sanitario del distretto noi
organizzazioni distribuiamo cibo, che però non è mai sufficiente. I prelievi di
sangue di persone con sintomi di Ebola vengono portati a Kenema, dove c’è
l’unico laboratorio nazionale in grado di testare il virus. Se il risultato è
positivo, il paziente viene trasferito in uno dei due centri di trattamento del
paese, che non bastano più. È stato programmato un controllo casa per casa in
tutta la Sierra Leone per trovare tutti i malati di Ebola, dato che purtroppo
si nascondono, e tutte le persone e familiari che sono stati a contatto con
loro e che sicuramente verranno contagiati. Qui la foresta è grande ed è facile
nascondersi. Per fermare questa epidemia l’unica soluzione è trovare le persone
malate, isolarle, trattarle e cercare di tenerle in vita. Abbiamo visto che, se
si cura precocemente, la sopravvivenza è alta. Usiamo tutti i mezzi possibili
per informare la popolazione, perché abbia fiducia nel sistema sanitario: non è
facile ma è la nostra sfida. Un sistema che ora è al collasso e che, dopo
l’Ebola, bisognerà riorganizzare completamente. Questa nuova emergenza ha
portato ancora povertà, morte e disperazione. I nostri colleghi africani hanno
paura che ce ne andiamo. Ogni giorno ci cercano, se non ci vedono mandano
messaggi, telefonano, chiedono dove siamo. Per loro siamo una speranza ed è per
questo che teniamo duro: rimaniamo nonostante il rischio reale».

Costruire il presente
e il futuro

Oltre alla difficile diagnosi, alla modalità di
diffusione, alla mortalità alta, al rischio per il personale sanitario in paesi
dove la situazione assistenziale di base è già assai precaria, si aggiunge un
altro punto critico di questa infezione: la mancanza di una terapia specifica.
Al momento non vi sono infatti vaccini disponibili (anche se sono allo studio),
non vi sono farmaci, e quelli sperimentali provati non hanno ancora dato
risultati certi e non sono diffusamente disponibili17,18.
Al momento quindi la terapia possibile è solo quella di reidratazione, supporto
e assistenza del paziente. La prevenzione, il monitoraggio, il controllo
rappresentano quindi una strada fondamentale da percorrere per arginare e
interrompere le epidemie da Ebola, e far sì che una diffusione del genere non
si ripeta.

Questa tragedia ha sottolineato ancora una volta la
debolezza e fragilità dei sistemi sanitari africani. E la necessità di
investire nel loro rinforzo perché possano far fronte alle emergenze, ma anche
ai bisogni sanitari della quotidianità.

Valeria
Confalonieri


Fonti bibliografiche

1 – Ebola: a failure of
inteational collective action
, The Lancet (editoriale), 23 agosto 2014.
2 – Gostin LO, Ebola: towards an Inteational
Health Systems fund
, The Lancet, 5 Settembre 2014.
3 – «Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute», www.epicentro.iss.it.
4 – World
Health Organization, Ebola Response
Roadmap Situation, Report 3, 12 September,
www.who.int.
5 – World
Health Organization, Who Statement on
the Meeting of the Inteational Health Regulations Emergency Committee
Regarding the 2014 Ebola Outbreak in West Africa.
6 – World
Health Organization, Ebola response
roadmap, 28 agosto 2014.
7 – World Health Organization, Virological analysis: no link between Ebola outbreaks in west Africa and Democratic Republic of Congo.
8 – World
Health Organization, Ebola virus disease
– Democratic Republic of Congo, 10 settembre 2014.
9 – World
Health Organization, Ebola virus disease. Fact sheet N. 103.
10 – Fonte
citata, nota 3.
11 – World
Health Organization, Ebola virus disease, West Africa – update. Disease
outbreak news
, 3 July 2014.
12 – Fonte
citata, nota 9.
13 – World
Health Organization, Frequently asked questions on Ebola virus disease.
14 – Fonte
citata, nota 9.
15 – Fonte
citata, nota 4.
16 – Fonte
citata, nota 2.
17 – Fauci
AS, Ebola –
Underscoring the Global Disparities, in
Health Care Resources, New England Joual of Medicine, 13 agosto 2014,
www.nejm.org.
18 – Goodman
JL., Studying “Secret
Serums” – Toward Safe, Effective Ebola Treatments,
New England Joual of Medicine, 20 agosto 2014, www.nejm.org.

Info
e aggioamenti:

• World Health Organization: www.who.int

• Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza
e Promozione della Salute: www.epicentro.iss.it
• Centers for Disease Control and Prevention
(Atlanta, Usa): www.cdc.gov.

L’autrice
dell’articolo:

Di formazione medico, dopo alcuni anni di esperienza in
ospedale, Valeria Confalonieri (1965) ha deciso di dedicare il suo lavoro
esclusivamente al giornalismo medico-scientifico. Si occupa in particolare di
argomenti sanitari e sociali nei paesi impoveriti e in generale di diritto e
accesso alla salute delle popolazioni più vulnerabili. Su tali temi ha
collaborato con diverse testate on line e cartacee e alla scrittura di libri. È
membro dell’«Osservatorio italiano sulla salute globale».

Interviste a cura
di:

Marco Bello, redazione MC.

Le foto delle
copertine:

• In prima pagina: Guinea, Conakry, personale con indumenti protettivi
trasporta una vittima dell’Ebola nel centro gestito da Medici senza frontiere, vicino
all’ospedale Donka (settembre 2014).
• In ultima pagina: Costa D’Avorio, Abidjan, bambini osservano il poster
sui sintomi dell’Ebola in una scuola del quartiere di Koummassi (settembre
2014).

Dossier a cura di:
Paolo Moiola, redazione MC.

Valeria Confalonieri




Ebola: Virus di famiglia

Testimoni da Guinea e Liberia
Sembra il virus fatto per
l’Africa: dove la famiglia si prende cura del malato. Dove i legami famigliari
sono più importanti di tutto. Dove ci si dà la mano ogni momento. E così il
contagio è assicurato. L’Ebola cambierà i costumi sociali degli africani? La
famiglia allargata sopravvivrà?

Guinea


Colpevoli di solidarietà

Simona Guida è un’operatrice della
Ong Cisv, è rientrata a fine agosto dalla Guinea dove è stata per una missione
breve. Responsabile di alcuni progetti del consorzio di Cisv con l’Ong Lvia, ci
racconta la situazione che ha trovato: «Fin da marzo è stata presa la decisione
di non sospendere le attività e di non evacuare il personale espatriato, anche
se ci era stato consigliato di farlo. Gli stessi cooperanti del consorzio, in
servizio nel paese, hanno detto per primi che volevano rimanere, che potevano
prendere tutte le precauzioni e gestire la psicosi da epidemia».

I progetti di Cisv-Lvia in Guinea sono in campo agricolo
e ambientale. «In effetti non sono attività
che mettono direttamente a rischio gli operatori. Però abbiamo rallentato le
riunioni, gli incontri, gli scambi tra diversi gruppi». L’epidemia sembrava
arginata a maggio, ma non è stato così, e un mese dopo ha ripreso a
diffondersi. A luglio il governo ha decretato lo stato di emergenza, con un
certo ritardo. Simona racconta: «Respiravo una doppia sensazione. Da una parte
quella che il governo non avesse fatto abbastanza. Non è stato proibito cibarsi
di cacciagione, portatrice del virus, come invece le autorità hanno fatto in
Burkina Faso con un decreto ad hoc. Non c’è stata comunicazione tempestiva,
come sulle norme di igiene, per esempio lavare la frutta dagli escrementi dei
pipistrelli, ecc.».

«La seconda considerazione è che la
paura dipende dal luogo in cui sei e se hai incontrato direttamente la malattia
oppure no. La differenza la fa la sfiducia in questo stato da sempre debole e
lontano dai cittadini. Chi si fida prende le precauzioni, chi si sente isolato
gestisce la cosa a modo suo. Ci sono storie di villaggi in cui c’è stato un
malato che è stato isolato bene, in altri casi la famiglia ha voluto fare in
modo diverso e la malattia si è propagata».

Simona: «Quello che ho percepito è
l’inumanità, “l’inafricanità” della malattia. La famiglia in molti paesi
africani è l’unico vero luogo di cura, e l’Ebola costringe la famiglia a non
prendersi cura del malato per il rischio contagio. Le strutture sanitarie non
sono all’altezza: in Guinea ci vai a morire in ospedale. Prima si cerca di
guarire in casa, poi dal guaritore tradizionale».

La gente è convinta che l’Ebola non
lasci scampo. Anche per questo i malati non vengono portati nelle strutture. «Si
sta facendo comunicazione per spiegare che si può guarire, che bisogna curarsi».

«Ma con l’Ebola non puoi curare il
familiare e non puoi neppure fare il funerale come la ritualità vorrebbe. Due
grandi fattori emotivi per cui non si riesce a dare uno stop alla propagazione
del virus in certe zone più tradizionali, più isolate».

In effetti il grande problema è
proprio quello del contagio famigliare, dovuto a queste abitudini.

A Conakry, la capitale, sono
spuntati ovunque, all’ingresso di uffici e servizi, bidoni con acqua e
candeggina per lavarsi le mani. «Ho anche notato che le persone tendono a non
darsi più la mano».

Simona pensa che l’epidemia sarà
fermata, ma anche che potrebbe lasciare dei segni di cambiamento sociale.

In capitale ci sono stati molti
casi di malati, perché la gente arriva da tutto il paese. Simona ha constatato
che la paura dell’epidemia è palpabile, soprattutto per chi abita in un
quartiere in cui l’Ebola è presente, o per chi lavori a contatto con persone più
esposte.

«Il nostro partner Sabou guinéen,
è un’associazione guineana che ha aperto diversi centri per bambini che si
spostano in Africa dell’Ovest per motivi vari, in particolare per studi
coranici. Adesso ha bloccato l’accoglienza.

In Africa dell’Ovest la mobilità di
persone è molto elevata, ed è impossibile chiudere veramente le frontiere.
Senegal e Mali hanno preso misure protettive e questo ha ridotto le loro
importazioni danneggiando la già fragile economia guineana.

Simona spiega come la presenza
degli operatori sia motivo di speranza: «I nostri partner sono molto contenti
che non abbiamo chiuso i progetti. Vuol dire che non c’è solo l’Ebola in
Guinea. Loro hanno la sensazione di essere stigmatizzati: c’è una malattia
importante e non la sanno gestire. Il problema è che non hanno i mezzi e le
competenze, mentre occorre un buon dispositivo sanitario. Solo negli ultimi
tempi la comunità internazionale sta stanziando ingenti somme per fermare
l’epidemia, mentre su malattie endemiche come malaria e tubercolosi, per le
quali la gente muore, i soldi non ci sono».

In Guinea l’Ebola ha fatto ancora
più sentire la di-sparità tra due mondi: «La gente capisce che c’è un
intervento solo perché europei e statunitensi hanno paura che la malattia
arrivi nei loro paesi».

Inoltre: «Si sentono quasi in colpa
per il loro sentimento di solidarietà, come dire: non riusciamo a bloccare la
malattia perché siamo così. Mentre invece è un loro punto di forza».


 
Liberia


L’esercito contro il virus
 

La Liberia è un piccolo paese in
Africa dell’Ovest con una superficie che è circa un terzo di quella
dell’Italia. Ha una storia singolare perché è nata da una strana
ricolonizzazione, iniziata nel 1821, da parte di schiavi emancipati
statunitensi su un territorio già colonia britannica. Negli Usa solo gli stati
del Nord avevano abolito la schiavitù, che sarebbe stata eliminata anche al Sud
dopo la guerra civile (1861-1865). I neri americani giunti in Liberia erano
molto diversi dagli africani, per lingua, usi e cultura. Costituirono l’élite
di potere e sfruttarono i nativi. La Liberia di oggi mantiene un legame molto
stretto con gli Usa. È il paese più colpito dall’epidemia di Ebola e Barak
Obama ha annunciato l’invio di 3.000 soldati e l’apertura di una base di
comando regionale a Monrovia, la capitale. La base dipenderà da Africom, il
comando Usa per l’Africa. Nel suo discorso del 16 settembre scorso, Obama ha
paragonato questo intervento a quello Usa ad Haiti, all’indomani del terremoto
del 2010. Anche quella fu un’operazione di forza, completamente ingiustificata.
Oggi suona strano che per combattere un evento sanitario servano i marines,
considerando poi che i soldati sono l’unica risorsa che negli stati africani
non manca.

Suor Annella Gianoglio, missionaria
della Consolata di Savigliano (Cn), vive nel paese dal 1977. «Siamo in tre
missioni – ci racconta -: Ganta al confine tra Guinea e Liberia, Harbel a 80 km
da Monrovia e Buchanan». In tutti i posti si è propagata l’epidemia. «Il primo
morto lo abbiamo avuto ad Harbel. Una donna era andata ad assistere un
ammalato, così ha preso l’Ebola. Aveva figli e marito. Poi sembrava che
l’epidemia si fosse fermata, allora la gente non aveva molta paura, poi invece è
esplosa. Adesso c’è ovunque in Liberia. Abbiamo una clinica a Buchanan: è morta
una persona, poi l’infermiera che l’assisteva».

«La gente pensa sempre che la morte
naturale non esista, ma sia causata da qualcuno. Il giu giu, una specie
di malocchio. Ad esempio a una convention di una chiesa protestante ci
sono stati 36 morti. Il pastore aveva negato che fosse l’Ebola, dicendo che
l’acqua del pozzo era stata avvelenata.

Per questo motivo all’inizio
nessuno seguiva le precauzioni. Adesso almeno bruciano i cadaveri.

Un altro problema è che continuano
ad andare a cacciare e pescare e a nutrirsi di selvaggina. E questo è fonte di
contagio».

Suor Annella ha una profonda
conoscenza del popolo liberiano, e si vede che anche lei è spiazzata di fronte
al fenomeno. «Quando la prendi è molto probabile morire. Ma c’è anche molta
confusione con altre malattie. Nell’ospedale cattolico in cui è morto il padre
spagnolo, di cui si è parlato, sono morte otto persone. Adesso cercano di
riorganizzarlo».

Intanto sono stati creati centri
sanitari per l’Ebola in diverse zone. Sono tende nelle quali si isolano i casi
e si impediscono i contatti con il resto della popolazione. «Però vengono
trascurati gli altri malati. Si continua a morire di malaria».

In Liberia lo stato ha preso in
mano la situazione utilizzando l’esercito. Le scuole sono rimaste chiuse, i
raduni sono proibiti, e si cerca di non far spostare la gente.

«I soldati hanno circondato intere
zone, villaggi dove magari c’è stato un caso. E sparano a vista contro chi
volesse entrare o uscire. Così diventa difficile trovare da mangiare, o andare
a vendere i propri prodotti agricoli. L’economia informale è rallentata e la
povertà aumenta. Anche noi siamo bloccate nelle missioni. A Ganta abbiamo il
centro dei lebbrosi e tubercolotici. Vi lavorano due suore, una volontaria e un
dottore. Cercano di non muoversi e non far entrare gente dall’esterno. Un po’
ovunque sono stati messi secchi con acqua e candeggina per lavarsi le mani». A
livello sociale l’epidemia è «un disastro, divide le famiglie». Continua suor
Annella: «Un ragazzo che lavora in missione ha il villaggio isolato, e non può
tornare a casa da settimane. Una donna che si è ammalata è stata portata in un
centro, ma i suoi figli li hanno tutti isolati per paura che siano già
contagiati».

I liberiani hanno appreso che sono
state testate delle medicine su malati occidentali e si sono convinti che i
ricchi le possono avere e loro no. Poi però hanno visto che anche gli stranieri
muoiono. «Qui ci sono pochissimi mezzi. Non hanno ambulanze, tute di isolamento.
È una spesa enorme che deve venire da fuori».

Le missionarie della Consolata sono
presenti in Liberia da 50 anni. Oggi sono in 10 nelle tre missioni.

«Lo stato liberiano è rovinato
dalla dipendenza dagli Usa. Non prende iniziative, aspetta sempre un’imbeccata.
L’attuale presidente, Ellen Johnson Sirleaf, è liberiana ma di origini
statunitensi».

Tanti liberiani hanno amici e
parenti in Usa, e adesso cercano di lasciare il paese in attesa che passi un
po’ di tempo e l’epidemia.

Marco Bello

Marco Bello




Sventola Bandiera Nera

L’Islam e la guerra del Califfo.

Dietro lo «Stato
islamico» (IsIslamic State)

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Nessuna compassione per
gli «infedeli»

L’islamismo radicale
si sta diffondendo in molte regioni. Gli attori sono molti, ma oggi il
principale si chiama «Stato islamico» (Is). Guidato dal califfo
(autoproclamato) al-Baghdadi, l’Is si basa su alcuni concetti chiave: l’Islam è
la soluzione e l’Is ne è l’unico vero custode; i paesi occidentali, guidati da
miscredenti, sono responsabili dei problemi in Medio Oriente; i governanti
locali sono agenti cornoptati dall’Occidente. In queste pagine cercheremo di
capire perché e come nasce l’Is. Tra alleanze cangianti e propaganda mediatica,
le sorprese non mancano. 

Azioni di guerra, conquiste
territoriali, decapitazioni, esecuzioni, rapimenti, violenze di ogni genere.
L’islamismo radicale e conquistatore, si potrebbe dire «colonizzatore», si sta
diffondendo nel Maghreb, nell’Africa subsahariana e in ampie regioni
mediorientali, dalla Siria all’Iraq.

Il network di al-Qa‛ida (per comodità, d’ora in poi: al-Qaida) e le
sue nuove filiazioni, comprese le antagoniste (come vedremo), stanno diventando
un potentato, grazie alla conquista dei pozzi petroliferi in varie aree e alle
armi ricevute dai paesi occidentali (Stati Uniti, Europa) e sunniti (Turchia,
Qatar, Arabia Saudita).

In particolare, il 2014 è stato
segnato dalle gesta del gruppo che, lo scorso giugno, ha annunciato la nascita
dello «Stato islamico di Iraq e Siria»1 (Is, da Islamic State, come si legge anche in Dabiq,
la rivista in lingua inglese e grafica modea edita dall’organizzazione), e ha
invitato al-Qaida e altri gruppi a stipulare un’alleanza per una «nuova era di
jihad internazionale».

Quello attuale è un caso complesso
di fondamentalismo, nel quale si mescolano religione (nella sua visione più
oscurantista, arretrata e reazionaria), un uso sfrontato dei mezzi di
comunicazione di massa (video, internet, social network, riviste come il già
citato Dabiq), un ampio arsenale bellico, ingenti capitali provenienti
anche dall’accaparramento delle fonti petrolifere, rabbia e aggressività verso
l’Occidente invasore e «infedele» (kafir), odio settario contro le
minoranza religiose e etniche, e contro gli apostati (kuffar e murtadin)
musulmani (tutti coloro, cioè, che non condividono la linea politico-religiosa
dell’Is), lotte intee, vendette e orgoglio sunnita dopo anni di dominazione
sciita e alawita in Iraq e Siria, e altro ancora. Si tratta di un fenomeno
aggressivo, spettacolare fino alla teatralità più macabra che riscuote successo
sia nel mondo arabo-islamico sia in Occidente, in particolare tra le giovani
generazioni di immigrati musulmani.

Così, tra i jihadisti, troviamo:
benestanti e laureati (molti arrivano dall’Europa e dagli Usa); giovani
emarginati delle periferie urbane occidentali e arabe alla ricerca della
propria identità e dai progetti di integrazione falliti; poveri e disperati
delle città e villaggi del mondo arabo-islamico invaso dalle truppe americane;
oppressi da regimi dispotici locali o stranieri; notabili e membri di tribù
sunnite che vogliono vendicarsi dei loro vicini o di leader di altre fazioni
islamiche; ovviamente mercenari e larghe schiere di criminali e psicopatici. È
un «melting pot» trasversale a luoghi, censo e età, e catalizzatore di
sentimenti e aspirazioni contrastanti e differenti. Indubbiamente, ciò che li
contraddistingue è la rabbia e la ferocia con la quale si abbattono su città e
villaggi e su chi osa rifiutarli, e contro le minoranze etniche e religiose.

Il nuovo
fondamentalismo dell’Is

Questo fondamentalismo non è più
solo un luogo semantico in cui sono verbalizzate le differenze tra Occidente e
Oriente, tra «voi» e «noi», tra «infedeli» e «credenti». È una separazione
materiale, un’esclusione e eliminazione fisica della «differenza», dell’alterità,
nel nome di una credenza soggettiva di un’appartenenza a un gruppo religioso
ritenuto «eletto» e per tanto migliore e più fedele alla «Verità» rispetto a
tutti gli altri. È un’adesione a una linea di «parentela» religiosa stretta,
escludente e discriminante, che, attraverso un «patto» di fedeltà, crea una
sorta di «coscienza storica» di gruppo che include chi vi aderisce rispettando
alla lettera norme e vincoli, e elimina chiunque non vi si riconosca del tutto.

Tuttavia, il patto in sé può non
essere sufficiente. L’unità della «comunità» deve fondarsi su un insieme di
riferimenti identitari, nel caso dell’Is, politico-culturali e religiosi. Ne
risultano, così, un senso di appartenenza e un sentimento tanto potenti quanto
irrazionali, che creano razzismo e xenofobia verso tutti gli altri, ma che
foiscono al movimento un’identità e una coesione forti, dai caratteri
specifici: la religione è l’Islam (nella versione radicale e intollerante), la
lingua comune è l’arabo (lingua sacra, in quanto emanata dal Corano), il
territorio è lo Stato islamico di Iraq e Siria, ma con una velleità di Dar
al-Islam
(Casa dell’Islam, in contrapposizione al Dar al-Kuffar,
Casa della Miscredenza, cioè i territori non ancora islamizzati) in continua
espansione, e dunque in versione «colonizzatrice».

Il prodotto finale assomiglia,
quindi, più alla concezione modea di nazione, con tutto l’apparato coloniale
al seguito, che a un neocaliffato nello stile del vecchio Impero
arabo-islamico, dove alla conquista di immensi territori non corrispondeva
l’assimilazione forzata dei popoli vinti, bensì quella dei conquistatori alle
culture dei paesi conquistati.

Al confronto dei grandi Imperi
omayyade (661 – 750), abbaside (750 – 1258) e ottomano (1281 – 1923),
l’intollerante e escludente Is risulta velleitario nei suoi progetti. E,
soprattutto, poco musulmano, in senso tradizionale.

L’introduzione di fattori di
modeità è, infatti, evidente in alcuni suoi elementi: 1) la concezione dello
Stato-nazione fondato sull’origine comune e mitizzata di una «Medina, città
ideale» (in quanto è la città dove emigrarono nel 622 i primi musulmani,
perseguitati dai politeisti de La Mecca, e dove crearono la prima comunità di
fedeli, la ummah), stretta intorno al suo novello capo, Abu Bakr
al-Baghdadi che, nonostante non si sappia veramente chi sia, viene fatto
discendere dalla famiglia di Muhammad, attraverso il nome al-Qurashi (la tribù
cui apparteneva il profeta dell’Islam). 2) L’accaparramento e lo sfruttamento
delle risorse petrolifere dei territori conquistati, del denaro (transazioni
economiche di varia natura). 3) L’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Il
progetto di jihad (inteso come sforzo bellico, guerra) globale, infatti, è
ripreso nei social network, dove si spazia dal proselitismo al reclutamento di
combattenti, dall’incoraggiamento della lotta contro gli infedeli (dai non
musulmani fino ai musulmani sciiti, ai sunniti non allineati o ad altre
minoranze) fino alla lotta contro i «corrotti costumi occidentali» e alla
certezza che l’Europa sarà islamica, e così via2.

Ciò che a fine Ottocento nell’Islam
fu una ricerca religiosa riformista, di ritorno alla purezza delle origini, ai
fondamenti della fede (questo significa «fondamentalismo» e, in particolare, in
uno dei suoi aspetti che è il salafismo, da salaf, «pii antenati», cioè
i primi fedeli della neonata comunità musulmana), anche in reazione al
colonialismo occidentale, è stata trasformata in una ideologia
politico-religiosa con tre direttrici differenti: 1) la quietista, quella dei
puristi, dedita più che altro alle opere caritatevoli e alla missione (da’wa)
catechistica; 2) l’Islam militante che mira a ristabilire il «califfato», senza
l’uso della violenza ma attraverso il cambiamento pacifico dei governi (come
avvenuto con la Fratellanza musulmana); 3) il salafismo jihadista, o
neosalafismo, che ha l’obiettivo di ricreare il califfato attraverso il jihad,
inteso come guerra e violenza. È quest’ultimo il caso del network di
al-Qaida nelle sue varie sigle e filiazioni sparse tra Africa e Asia, e del
figlio ribelle, l’Is, ovvero il Califfato islamico di Siria e Iraq.

Quest’ultimo gruppo, in
particolare, è considerato dall’Islam ortodosso una deviazione dal «giusto
sentirnero», dalla tradizione profetica, in quanto, come abbiamo visto, introduce
notevoli elementi di modeità, rifacendosi a un Islam wahhabita (secolo
XVIII), considerato una sorta di deriva politico-religiosa.

 

Nascita e diffusione
del wahhabismo

«Non si può capire l’Is se non si
conosce la storia del wahhabismo in Arabia Saudita»: è il titolo di
un’interessante analisi di Alastair Crooke3. L’autore, un ex agente dei
servizi segreti britannici, spiega come l’attuale Stato islamico di Iraq e
Siria prenda origine dal pensiero di Mohammad ibn Abd al-Wahhab, studioso e
riformatore arabo vissuto tra il 1703 e il 1792, legato, a sua volta, alla
dottrina predicata da Ibn Taymiyyah (1263-1328).

Abd al-Wahhab, così come Taymiyyah
prima di lui, era convinto che la società musulmana dovesse rifarsi al periodo
trascorso dal profeta Muhammad a Medina, i cosiddetti «Tempi d’oro»: questa è
la base della corrente del salafismo.

Taymiyyah condannò sciismo, sufismo
e filosofia greca e si dichiarò contrario alle visite alla tomba del profeta e
alla commemorazione del suo compleanno, definendo tali comportamenti come shirk,
politeismo e idolatria, una imitazione, cioè, della venerazione cristiana di
Gesù considerato come figlio di Dio.

Abd al-Wahhab adottò questi
insegnamenti, affermando che «qualunque dubbio o esitazione da parte dei
credenti», rispetto a questa sua personale interpretazione dell’Islam, dovesse «privare
un uomo dell’immunità, delle sue proprietà e della sua vita».

Uno dei principali precetti della
dottrina di Abd al-Wahhab, ci ricorda Crooke, è l’idea cardine di takfir.
«Abd al-Wahhab denunciava tutti i musulmani che onoravano i defunti, i santi o
gli angeli. Riteneva che tali sentimenti sminuissero la completa sottomissione
nei confronti dell’unico Dio. Esigeva conformismo, che doveva essere dimostrato
in modo fisico e tangibile. Sosteneva che tutti i musulmani dovessero
individualmente giurare fedeltà a un unico leader musulmano (un Califfo, se ce
n’era uno). Egli scrisse: “Coloro che non si adegueranno a questi precetti
dovranno essere uccisi, le loro mogli e figlie stuprate e i loro possedimenti
confiscati”». Ed è ciò che affermano e praticano i membri dell’Is e le altre
bande di al-Qaida.

Tra gli apostati degni di morte
c’erano (e ci sono ancora oggi) sciiti, sufi e altre scuole islamiche, che i
wahhabiti non ritengono musulmani».

L’alleanza tra Abd al-Wahhab e Ibn
Saud (fondatore e primo sovrano dell’Arabia Saudita) e la sua tribù, nel 1741,
portò il wahhabismo al potere. «Il clan di Ibn Saud – afferma Crooke -,
riprendendo la dottrina di Abd al-Wahhab, poteva fare quello che aveva sempre
fatto, cioè razziare i villaggi vicini e impossessarsi dei loro beni. Solo che
ora lo stava facendo non più nell’ambito della tradizione araba, ma sotto la
bandiera del jihad. Ibn Saud e Abd al-Wahhab introdussero nuovamente l’idea del
martirio nel nome del jihad, garantendo ai martiri immediato accesso in
Paradiso.

All’inizio, conquistarono poche
comunità locali e imposero le loro leggi. I popoli sottomessi non avevano molta
scelta: la conversione al wahhabismo o la morte. (…) La loro strategia – come
quella dell’Is oggi – consisteva nel sottomettere i popoli conquistati, mirando
a instillare il terrore».

Risulta dunque abbastanza evidente
che non ci sono grandi differenze tra wahhabismo e ideologia dell’Is se non
quando emerge l’istituzionalizzazione della dottrina di Muhammad ibn Abd
al-Wahhab: «una regola, una autorità, una moschea».

«Questi tre pilastri fanno
esplicito riferimento al re saudita, autorità assoluta del wahhabismo ufficiale
e al suo controllo “della parola” (cioè, la moschea).

La negazione da parte dell’Is di
questi tre capisaldi, sui quali l’intera autorità sunnita poggia tuttora, è la
frattura che rende l’Is – gruppo che sotto ogni altro aspetto rispetta e si
conforma al wahhabismo – una minaccia per l’Arabia Saudita».

 

Gli interessi
divergenti di Arabia Saudita e Stato islamico

Chi ha familiarità con questa parte
di storia del mondo arabo-islamico non ha difficoltà a comprendere il legame
tra gli eventi del passato e le gesta dell’Is nell’Iraq odierno. Dopo un
periodo di eclissi, il wahhabismo toò a imporsi con il crollo dell’impero
ottomano, durante la prima guerra mondiale.

Spiega Crooke: «Gli Ikhwan4 erano la reincarnazione di quel
movimento feroce e semi-indipendente, dei “moralisti” wahhabiti, armati, che
quasi erano riusciti a conquistare l’Arabia nei primi anni del XIX secolo. (…)
Il wahhabismo subì una trasformazione forzata da movimento di rivoluzione
jihadista e di purificazione teologica takfiri a movimento di
conservazione sociale, politica, teologica e da’wa religiosa
(proselitismo islamico) e per giustificare l’istituzione che sosteneva la lealtà
alla famiglia reale saudita e al potere assoluto del re».

Con l’era del petrolio e dei suoi
enormi proventi, i sauditi cominciarono a diffondere e divulgare il wahhabismo
all’interno del mondo musulmano, a «wahhabizzare» l’Islam, creando una
religione a parte, chiusa e unificata in un’unica visione non più pluralista.

Aggiunge Crooke: «Miliardi di
dollari furono investiti – e lo sono tuttora – in questa manifestazione di soft
power
. Tutto ciò, unito alla volontà saudita di orientare l’Islam sunnita
secondo gli interessi americani (…) creò una politica occidentale di dipendenza
dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura dall’incontro di Abd-al Aziz con
Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di ritorno dalla
Conferenza di Yalta) fino ad oggi».

L’Is è wahhabita, ma con un
radicalismo diverso. Vari studiosi ritengono che potrebbe essere definito come
un movimento neo-wahhabista o una sorta di «correzione» del wahhabismo.

«L’Is – scrive Crooke – è un
movimento “post-Medina”: si rifà alle pratiche dei primi due califfi, piuttosto
che al profeta Muhammad in persona, come fonte di emulazione, e nega fermamente
l’autorità saudita. Mentre la monarchia saudita fioriva nell’era del petrolio
come istituzione sempre più vasta, l’interesse verso il messaggio Ikhwan
guadagnò terreno (a dispetto della campagna di modeizzazione di Re Faisal).
L’approccio Ikhwan ha goduto – e gode tuttora – del sostegno di molti uomini,
donne e sceicchi di spicco. Da un certo punto di vista Osama bin Laden
incarnava perfettamente l’approccio Ikhwan nella sua tarda fioritura.

(…) Nella collaborazione alla
gestione della regione da parte dei Sauditi e dell’Occidente, all’inseguimento
dei tanti progetti occidentali (la lotta al socialismo, al ba’athismo, al
nasserismo, al sovietismo e all’influenza iraniana), i politici occidentali
hanno sostenuto la loro interpretazione preferita dell’Arabia Saudita (la
ricchezza, la modeizzazione e l’influenza), scegliendo tuttavia d’ignorae
l’impulso wahhabita».

Il radicalismo islamico era
considerato dai servizi segreti statunitensi come un utile strumento (useful
asset
)5 per destabilizzare e sconfiggere
l’Urss in Afghanistan e, negli anni delle «Primavere arabe»6, è stato usato per abbattere
regimi arabi che ormai non erano più sostenibili o utili.

Si chiede dunque Crooke, e con lui
molti altri analisti e studiosi di geopolitica del Medio Oriente: «Perché
dovremmo essere sorpresi se dal mandato saudita-occidentale del principe Bandar
di gestire l’insorgenza siriana contro il presidente Assad sia poi emerso un
tipo movimento d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso come l’Is? E
perché mai dovremmo stupirci – conoscendo un po’ il wahhabismo – se i rivoltosi
“moderati” siriani sono diventati più rari del mitico unicorno? Perché avremmo
dovuto immaginare che il wahhabismo radicale avrebbe generato dei moderati?».

Si tratta certamente di un calcolo
che gli strateghi statunitensi avranno fatto, machiavellicamente, scegliendo
nuovamente un utile strumento per giustificare un’altra fase dello «scontro di
civiltà».

 

Coltelli e cellulari
satellitari: il Medioevo tecnologico dello Stato islamico

«Arriveremo fino a voi, invaderemo
l’Europa e distruggeremo l’America, renderemo schiave le vostre donne e orfani
i vostri figli come voi avete fatto con noi», così dichiara, quasi piangendo,
un combattente nel video sull’Is prodotto dall’agenzia Vice News nell’estate
del 20147. È un interessante, e inquietante,
servizio giornalistico embedded sul «Califfato islamico di Iraq e Siria»,
che spiega abbastanza chiaramente su quali punti si basino la propaganda e le
azioni delle bande islamiste: rabbia anti occidentale e orgoglio ferito dalle
politiche neocoloniali di Stati Uniti ed Europa, e uso strumentale della
religione come arma di vendetta, riscatto e conquista o «riconquista» dei territori
un tempo appartenenti agli Imperi omayyade (con capitale Damasco) e abbaside
(con capitale Baghdad) – da cui fanno derivare il nome di Califfato di Siria e
Iraq.

Le parole piene di collera e
rancore dell’uomo nel video ci rimandano immediatamente a 20 anni di guerra
contro l’Iraq da parte di Stati Uniti e alleati, alle vergognose immagini di
Abu Ghreib (il carcere statunitense nei pressi di Baghdad, dove i detenuti –
tra cui molti innocenti – venivano torturati e umiliati) o a quelle di
Guantanamo, o alle tante donne, anche bambine, stuprate dalla soldataglia delle
truppe di invasione.

Migliaia e migliaia di morti,
feriti e immane distruzione per portare la «civiltà occidentale» in Medio
Oriente, o meglio, per controllae le fonti petrolifere.

Da tutto ciò deriva una rabbia
immensa, un combustibile pronto a essere utilizzato alla prima occasione.
Occasione colta dall’abile califfo Abu Bakr al-Baghdadi.

Nella rivista online Dabiq,
l’Is incita alla conquista del mondo islamico e alla guerra contro l’Occidente,
alla segregazione delle donne, alla violenza contro le minoranze religiose e
etniche, e i sunniti che non condividono il progetto di jihad.

La tecnologia è usata come mezzo
per espandere la colonizzazione dei territori e per fare proseliti. Si tratta,
come abbiamo accennato, di una islamizzazione della modeità, che crea una
sorta di paradosso: i cellulari satellitari convivono con i coltelli per
sgozzare i nemici; i social network con le donne costrette a nascondersi in
casa. L’età della pietra e il futuro mescolati insieme nel jihad globale
contro i kuffar di ogni fede, musulmani compresi, in un delirio di
onnipotenza.

In questo scenario, l’aspetto
religioso, sempre presente e molto potente, agisce da catalizzatore di elementi
pronti al martirio per liberare il mondo islamico, e magari anche l’Europa,
dagli infedeli (kuffar) e dagli apostati (rafid o murtad).
È un progetto di fitna, di separazione e zizzania nella grande ummah
islamica. Per l’Is il mondo non si riduce più a «musulmani» e «non credenti»
(cristiani, ebrei, buddisti, atei, ecc.), ma a «credenti veri» (loro) e «miscredenti»
(tutti gli altri, musulmani compresi).

Questo progetto di divisione è
portato avanti anche dal neocolonialismo statunitense: il «nuovo ordine
mondiale», rilanciato dall’amministrazione Obama che propone la divisione in
piccoli stati a base etnico-religiosa di gran parte del Medio Oriente8. È un’evoluzione successiva,
sempre in ambito coloniale, dei vecchi accordi anglo-francesi di Sykes-Picot
per la spartizione del mondo arabo e islamico (19 maggio 1916).

 

Da Camp Bucca alla
moschea di Mosul: la carriera del califfo al-Baghdadi

Dell’autoproclamato «Califfo dello
Stato islamico di Iraq e Siria», ovvero di Abu Bakr al-Baghdadi al-usayni
al-Qurashi, nato a Samarra, Iraq, nel 1971, si sa poco. Sembra esistano
pochissime foto (una fu scattata quando era prigioniero degli Stati Uniti nel
campo iracheno di Bucca), e la sua apparizione pubblica nota è quella che lo
ritrae in un video9 durante un sermone nella grande
moschea di Mosul, andato in onda in streaming, dove lancia l’appello
alla guerra contro gli infedeli. 

Ha fama di essere un violento e
tiene un «basso profilo», che accresce il mistero attorno a lui. Viene
descritto come il nuovo Osama bin Laden. Di lui si legge in vari documenti su
internet: «Secondo le registrazioni del dipartimento statunitense della difesa,
Abu Bakr al-Baghdadi è stato detenuto nel Camp Bucca come “inteato civile”
dalle forze iracheno-statunitensi dai primi del febbraio 2004 fino al 2009,
quando fu rimesso in libertà grazie all’indicazione di una commissione,
definita Combined Review and Release Board, che ne raccomandò il “rilascio
incondizionato”. (…)

Il 16 maggio 2010, ad appena un
anno dal rilascio, un comunicato del Consiglio consultivo dello Stato islamico
dell’Iraq annuncia la nomina a leader di al-Baghdadi al posto di Abu Omar
al-Baghdadi, ucciso il 18 aprile di quello stesso anno in un’operazione
congiunta delle forze irachene e statunitensi. Dall’ottobre 2011 figura tra i
tre terroristi maggiormente ricercati dal governo statunitense, che ha offerto
per la sua cattura una taglia di 10 milioni di dollari, inferiore solo alla
taglia posta su Ayman al-Zawahiri, di 25 milioni di dollari».

È lecito, dunque, porsi
interrogativi su questo individuo e sulla sua organizzazione. Esistono foto che
lo ritraggono insieme a John McCain, senatore Usa, e a altri leader dei ribelli
dell’opposizione siriana (tra cui noti personaggi di al-Qaida), in una riunione
definita «segreta», nel 2013.

Secondo un’altra teoria, che
circola dal luglio del 2014, e che viene fatta risalire a rivelazioni di Edward
Snowden, al-Baghdadi sarebbe un agente del Mossad, il cui vero nome sarebbe
Shimon Elliot10.

Tra tutte queste informazioni
contraddittorie, l’unico dato certo è che è riuscito a catalizzare il consenso
di migliaia (milioni?) di sunniti tra Iraq, Siria, mondo arabo-islamico e
Occidente, e che le sue bande ammazzano con una crudeltà assoluta.

 

Il califfato nella
tradizione islamica

Il ruolo arrogatosi da al-Baghdadi,
che nel già citato video del sermone alla grande moschea di Mosul appare
vestito di nero e con il turbante, a indicare il legame con la tradizione del
califfato, rappresenta un’importante istituzione nella storia della civiltà
islamica. Secondo la tradizione, nella figura del califfo (khalîfa, «vicario»)
convergono le funzioni di comando/conduzione dello «stato» (imâra) e
quella religiosa «sacerdotale» (imâma). «Stato» e «Chiesa», «secolare» e
«religioso», in arabo: dunya wa din. Per espletare tale compito egli
deve possedere caratteristiche specifiche.

Nel trattato «al-Ahkâm al-sultâniyya»
(Le leggi del governo/governance islamico)11, Abu al-Hasan Ali ibn Muhammad ibn
Habib al-Basri al-Mawardi, noto giurista musulmano vissuto nell’anno Mille, in
Iraq, traccia un elenco di doti necessarie al califfo, tra cui: 1) giustizia;
2) sapere e conoscenza dell’arte di governare; 3) sanità di corpo e mente; 4)
capacità di governare e agire per il bene collettivo (e non per i propri
interessi, della propria famiglia, clan o gruppo); 5) coraggio nel tutelare e
proteggere il proprio paese, e condurre l’eventuale jihad contro il nemico o
chi attenti all’incolumità del watan (territorio, paese) o della ummah
(comunità); 6) discendenza dai Banu Quraysh (il clan cui apparteneva il profeta
Muhammad).

Nonostante il suo successo presso
certi ambienti musulmani, al-Baghdadi non sembra proprio possedere alcuna di
queste caratteristiche, anzi, le sue azioni criminali contro i «deboli» e le
minoranze, da sempre protette nella tradizione islamica, lo collocherebbero
fuori dalla via ortodossa. E ricorderebbero più un dajjal (mentitore,
impostore) che un khalifa. È in questa ottica, forse, che oltre 126 tra
teologi, mufti e dottori in scienze
islamiche di tutto il mondo hanno scritto una lettera aperta a al-Baghdadi
accusando lui di essersi autoproclamato califfo, il suo movimento di pratiche
che «non hanno nulla a che vedere con l’Islam», e entrambi di «atroci crimini
di guerra e violazione dei principi fondamentali dell’Islam, di uso ignorante
delle scritture islamiche separate dal loro contesto, di perversione delle
regole morali e della shari’a (la legge islamica).

Le colpe dell’Occidente: ieri finanziati, oggi terroristi

Nonostante l’Islam predicato da
questi gruppi violenti e intolleranti si ponga al di fuori della tradizione
ortodossa islamica, al-Baghdadi, attrae migliaia di persone in tutto in mondo.
Dalla stessa Europa in questi anni sono partiti centinaia di ragazzi musulmani,
tra immigrati e convertiti, per fare il «jihad» contro la Libia di Gheddafi e
poi contro la Siria di Assad.

Non è stato difficile, fino ad ora,
trovare su internet e nei social network commenti e post di giovani e adulti
che sostenevano le operazioni belliche contro questi paesi, e che, incoraggiati
da predicatori via Tv e web, si dicevano pronti a partire per la «guerra santa»
contro il nemico di tuo. 

Fino all’inizio del 2014, non c’era
quasi nessun quotidiano o Tg che fosse disposto a fare reportage sulle stragi
delle organizzazioni jihadiste anti-Assad, in Siria, in quanto ai tempi esse
lavoravano in collaborazione con la coalizione occidentale e araba.

È solo recentemente, con
l’occupazione da parte delle truppe di al-Baghdadi di vaste porzione dei
territori siriani e iracheni, che l’ex alleato è diventato il «nemico n. 1»
dell’Occidente e dell’umanità intera.

Come scrive Ghassan Michel Rubeiz
in The Arab daily news12, «la radice-causa del sistema di terrore in Medio
Oriente è difficile da sradicare. La causa è alimentata dalle rivalità tra
sunniti e sciiti, dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle dinastie
dispotiche, dalle umiliazioni politiche e dalle interferenze straniere negli
affari locali. Il sistema di credenza dell’Is si basa su tre idee: l’Islam è la
soluzione; l’Occidente è responsabile per la maggior parte di ciò che va storto
in Medio Oriente; i governanti locali sono agenti cornoptati dall’Occidente».

In un video, l’ex segretario di
stato Usa Hillary Clinton afferma che al Qa’ida fu creata dalla Cia: «La gente
con cui combattiamo oggi l’abbiamo finanziata 20 anni fa»13.

Analogamente, alla domanda se non
fossero dispiaciuti di aver sostenuto il fondamentalismo islamico  e i futuri terroristi con armamenti e
addestramento, Zbigniew Brzezinski ha risposto: «Cos’è stato più importante per
la storia del mondo? I Taliban o il collasso dell’impero sovietico? Alcuni
musulmani agitati o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra
fredda?»14.

Secondo l’economista e storico
canadese, Michel Chossudovsky15, ci sono prove della cornoptazione del fondamentalismo
islamico nel progetto di «nuovo ordine mondiale», rilanciato
dall’amministrazione Usa durante il discorso del Cairo, il 4 giugno del 200916.

Alla fine del 2010 cominciarono i
preparativi per far sì che la religione islamica diventasse uno strumento della
politica estera degli Stati Uniti, attraverso la manipolazione di partiti e
movimenti musulmani.

Per raggiungere tale obiettivo, nel
2011 fu ripresa l’alleanza statunitense con i gruppi deviati di militanti che
affermavano di lottare sotto la bandiera dell’Islam. L’alleanza si esplicitò
nella guerra contro Gheddafi in Libia e poi contro Assad in Siria17.

Dal 2001 in poi, gli Usa e i loro
alleati avevano condotto guerre limitate a qualche territorio islamico: Afghanistan,
Iraq, Somalia. Oggi siamo al conflitto globale e simultaneo contro diversi
stati.

Si tratta della terza fase dello
scontro di civiltà con il mondo islamico: la prima iniziò nella seconda metà
degli anni ‘90 del secolo scorso, con la creazione del progetto del nuovo
ordine mondiale-nuovo Medio Oriente, che passò attraverso la tragedia delle
Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, e le sopracitate guerre. Poi ci fu la
seconda fase, quella avviata con il discorso di Obama al Cairo, A New
Beginning
(Un nuovo inizio)18, quando, con una retorica forbita e colta, affascinò e
sedusse il mondo islamico, in particolare quello legato alla Fratellanza
islamica, e diede il via alle Primavere arabe, rivolte popolari infiltrate e
pilotate dall’esterno.

La terza fase ha come sfondo il
collasso e la trasformazione delle Primavere in colpi di stato (Egitto),
tentativi di golpe e guerra civile (Siria), instabilità in Tunisia, guerra in
Yemen, repressioni governative in Bahrayn, Qatar e Arabia Saudita, la creazione
del Califfato Islamico di al-Baghdadi  in
Iraq e Siria e la dichiarazione di guerra degli Usa al «terrorismo islamico»,
che vede impegnati diversi stati arabi, tra cui le petromonarchie del Golfo e
la Turchia.

 

Le mosse e gli
obiettivi

Enrico Galoppini, storico del mondo
arabo-islamico, scrive19: «La fase finale della guerra dell’Occidente contro
l’Islam è finalmente cominciata. Tanto più che quest’ultimo s’è dotato d’un “medievale”
e terrificante “Califfato”.

Da quando è stato proclamato un
improbabile califfato a cavallo della Siria orientale e dell’Iraq
centro-settentrionale, l’Islam è tornato prepotentemente nelle case degli
occidentali, sottoposti a dosi da cavallo di messaggi sensazionalistici e
allarmistici capaci di provocare sconcerto e preoccupazione persino tra gli
stessi musulmani. Ma prima di giungere a tanto, serviva la cosiddetta “Primavera
araba”, il cui obiettivo principale è stato l’eliminazione dei “regimi arabi
moderati” che almeno ufficialmente l’Occidente sosteneva da anni contro gli “estremisti”
(…).

Tutto però è cominciato con
l’azione terroristica in territorio americano attribuita alla fantomatica
al-Qaida. (…) A garantirci dall’orda famelica dell’Islam guerrigliero e
spietato sussistevano i “regimi arabi moderati”, i quali, dal 2011, dopo il
celebre discorso di Obama al Cairo (giugno 2009) nel quale, astutamente, “tendeva
la mano all’Islam”, sono stati rovesciati con le note tecniche di sovversione
dall’interno denominate “Primavera araba”, altrove note come “rivoluzioni
colorate”. Quando non bastava l’azione di prezzolati del posto, perlopiù tratti
dai ranghi del cosiddetto “Islam politico” preceduti da sinceri ma sprovveduti “liberali”
(oltre alla solita teppaglia che si trova sempre), l’Occidente interveniva col
classico apparato di cannoniere e bombardieri (si veda il caso libico).

Ad una prima fase islamofobica
dominata dalla figura di Osama bin Laden, del suo vice al-Zawahiri e degli
altri luogotenenti (tipo al-Zarqawi), con tutto il corredo di “attentati terroristici”
(Londra, Madrid ecc.) e teste mozzate cui facevano da contraltare le sparate da
cowboy di Bush, le tute arancioni di Guantanamo e le torture di Abu Ghraib, ha
fatto seguito la “fase della speranza”, col pubblico occidentale illuso sulle
magnifiche sorti e progressive alle quali avrebbero aspirato le masse arabe e
islamiche desideranti la “democrazia”. Una “democrazia islamica” sotto
l’insegna dei Fratelli musulmani e delle varie sigle ad essi riconducibili che
qua e là hanno preso il potere.

L’apice di questa seconda fase
nella quale anche i peggiori tagliagole diventavano araldi della libertà ha
coinciso con la prima parte della cosiddetta “rivolta siriana”, che – pur
inscrivendosi nella “Primavera araba” – ha posto in inevitabile risalto, data la
posizione strategica della Siria, la portata strategica di un’operazione mirata
al rovesciamento del regime di Damasco.

(…) Ad un certo punto, però, col
rovesciamento del presidente egiziano tratto dai ranghi della Fratellanza
musulmana, Muhammad Morsi, qualcosa nel dispositivo sovversivo innescato dagli
occidentali s’è inceppato. La “rivolta siriana” è entrata in crisi, così come
s’è incrinato il meccanismo sin lì tetragono della propaganda unilaterale
occidentalista, anche se, a dire il vero, le voci discordanti rispetto al mainstream
vertevano soprattutto sul “massacro dei cristiani” da parte dei fanatici
islamici delle formazioni “jihadiste”; il che prefigurava la piega da “Nuova
crociata” che finalmente s’è manifestata con l’emergere di quest’inedito “Califfato”.

Con la Libia consegnata alle bande
fondamentaliste ed enormi bacini petroliferi di Siria ed Iraq in mano ai
seguaci del “califfo”, il volto più terrificante dell’Islam può finalmente
entrare nelle case degli italiani e degli altri sudditi dell’Occidente.

Ed è questa la fase numero tre del
progetto che punta a destabilizzare definitivamente tutto il Mediterraneo ed il
Vicino Oriente, con la non troppo remota possibilità di vedersi coinvolti
militarmente in una guerra.

Da un punto di vista propagandistico,
il terrore islamofobico che questa nuova fase è in grado di suscitare negli
animi di persone ingenue, manipolate e conquistate ai “valori occidentali” è
senz’altro più elevato di quello della prima fase con Bin Laden e soci a “bucare
lo schermo”.

(…) Il temibile “Califfato”, coi
suoi alleati posizionati sulla costa libica, novelli saraceni, sta lì a
minacciarci col suo “Medio Evo”; pertanto, se si vuol salvare la “modeità”
con tutti i suoi “valori”, non è più possibile sottrarsi al richiamo alle armi
dell’Occidente a guida anglo-sionista.

Frotte di “migranti” tra i quali
potrebbero nascondersi dei “terroristi” vengono rovesciate sulle nostre
indifese coste, mentre tra i figli della cosiddetta “seconda generazione”
spopola il richiamo alla “guerra santa”. Da qualche parte, nel Levante, c’è un “Califfo”
che vagheggia di conquistare Roma, mentre “i cristiani” e le minoranze
subiscono massacri, e poco importa ai fini propagandistici se musulmani di
vedute diverse da quelle dell’Is sono sottoposti a medesimo trattamento. Questo
è quanto trasuda da giornali e tg, che in due minuti frullano tutto in un
cocktail terrificante al termine del quale il malcapitato ed impreparato
spettatore non potrà che augurarsi una selva di bombe atomiche sull’intero
Medioriente».

 

Le contromosse di
al-Qaida

È notizia del settembre 2014
l’apertura di una «filiale» di al-Qaida in India: «al-Qaida in the Indian
Subcontinent» (Aqis) da parte di Ayman al-Zawahiri.

In un lungo video postato in
internet, al-Zawahiri20, che è subentrato nella direzione del gruppo terrorista
dopo la morte di Osama bin Laden, nel 2011, ha lanciato un appello a tutti i
musulmani indiani a «unirsi alla carovana del jihad», ribadendo la lealtà al
mullah Omar, capo dei Talibani afghani, e attaccando l’Is di al-Baghdadi per
aver osato sfidare l’egemonia internazionale dell’organizzazione-madre,
al-Qaida.

Aqis dovrà farsi «portatrice
standard del messaggio globale di Bin Laden per unire il mondo islamico nella
guerra contro il nemico e liberare le terre occupate e stabilire il califfato»,
afferma al-Zawahiri nel video. Un altro, dunque, che vuole stabilire il
califfato islamico, e in competizione con l’Is.

Siamo di fronte a una nuova fase
del fondamentalismo islamico violento: la lotta intestina tra gruppi e fazioni
rivali, tra jihadisti salafi e jihadisti takfiri. I primi, legati alla rete di
al-Qaida, hanno come obiettivo bellico l’Occidente miscredente. I secondi
lottano (anche) contro gli stessi musulmani – sciiti, alawiti e sunniti – che
non condividono la loro linea di pensiero e azione.

L’organizzazione di al-Qaida e l’Is
di al-Baghdadi, quindi, sono in conflitto tra di loro sul piano della
spartizione delle aree di influenza.

È in particolare in Siria che tale
situazione si manifesta in modo drammatico: l’alleanza del terrore tra i vari
gruppi che si oppongono al regime Assad è saltata proprio sulla decisione di
al-Baghdadi di creare un «califfato islamico» arrogandosi potere e territori
per sé e il suo gruppo e attaccando tutte le altre formazioni.

La Fratellanza musulmana, che nel
2011 è stata promotrice, insieme ad altri movimenti e gruppi e a vari paesi
occidentali, della rivolta contro il regime di Damasco, è stata messa da parte
e quasi estromessa dalla lotta proprio dalle fazioni qaediste con cui si era
alleata, subendo violenze e persecuzioni.

L’esito sono le guerre in corso in
Libia, Siria e Iraq, e i bombardamenti decisi a settembre dal presidente Barack
Obama contro il «terrorismo islamico», in parallelo alla decisione paradossale
dell’amministrazione Usa di continuare a finanziare le formazioni islamiche «moderate»,
ma sempre legate al-Qaida, nella consueta logica apparente del divide et
impera
o del «male minore».

La lotta di al-Qaida è bifronte:
contro l’Occidente miscredente e conquistatore e contro il figlio traditore,
l’Is che si sta accaparrando aree sempre più ampie di influenza (oltre a armi,
pozzi e rotte petrolifere) in Medio Oriente e Nordafrica, in un appeal
crescente tra le tribù arabe irachene, i giovani musulmani in Europa e in altri
continenti.

La sua presenza, dunque, in regioni
come India, Pakistan e Bangladesh, con mezzo miliardo di musulmani, potrebbe
garantirle di nuovo visibilità e potere. Insomma, la nuova formazione
terrorista, non promette nulla di buono, anzi, fa prevedere scenari di
destabilizzazione e caos ancora maggiori.

 

Un futuro di guerre e
terrorismo

A settembre del 2014, il segretario
di stato Usa, John Kerry, ha dichiarato: «Nella nostra campagna contro l’Is,
non ci lasceremo fermare dalla geografia e dai confini nazionali»21. Ridisegnare il Medio Oriente,
scavalcando il diritto internazionale, è uno degli obiettivi della nuova guerra
statunitense. Chiunque egli sia, il califfo al-Baghdadi, con le sue orde
brutali, è il rivale d’armi ideale per chi voglia destabilizzare il mondo e
accapparrarsi le fonti energetiche di Africa e Medio Oriente. Una nuova
stagione di conflitti si è aperta.•

Angela Lano




Scuola 1 – Dov’’è finita la penna rossa?

Italia / Breve viaggio nella nostra scuola


Senza scuola non c’è futuro.

Tutti parlano (giustamente) dell’importanza della scuola. Ma
che sta succedendo nella realtà? Perché in Italia tutti i soggetti coinvolti in
prima persona – gli insegnanti, i ragazzi, i genitori – si lamentano?

Ore
7,30 del mattino, suona la sveglia e Marco (nome di finzione), 8 anni, inizia
la sua nuova giornata. I ritmi sono serrati perché il tempo è sempre troppo
poco. A scuola ci si arriva rigorosamente in automobile, senza parcheggiare.
Una sosta in doppia fila e un bacio di corsa. Questa immagine non corrisponde a
quella (fasulla) del Mulino Bianco, ma è l’ordinarietà di quasi tutte le
famiglie italiane. Il tempo pieno della scuola primaria si dilata e, a fronte
delle multi-esigenze lavorative dei genitori, raggiunge le 10 ore quotidiane.
Il rientro a casa è alle 17, se va bene, oppure dopo le 19,00 se a riempire il
pomeriggio dei bambini è una delle tante attività di intrattenimento. Sebbene
il tempo pieno della scuola primaria rimanga una conquista fondamentale per
garantire ai genitori la possibilità di lavorare, questa dilatazione del
tempo-scuola crea stress e stanchezza nei bambini di oggi. Tutto il contrario
di ciò che accade nel film-documentario di Pascal Plisson, Vado a scuola,
in cui quattro diversi bambini in quattro paesi del mondo compiono
quotidianamente chilometri per poter accedere all’istruzione. Figure vere e
poetiche al tempo stesso che regalano agli spettatori il senso della fatica e
dell’educazione come forma di riscatto sociale. L’immagine di un cammino lungo,
ma pieno di significato.

Che
strada sta intraprendendo la scuola in Italia? I media ci raccontano di
un’istituzione con molti problemi. Tra i tanti, ricordiamo: i pochi
investimenti, i risultati insufficienti degli apprendimenti, la cospicua
burocratizzazione, le nuove direttive e
l’inclusione dei 760.000 studenti di cittadinanza non italiana con tutte
le varie conseguenze sulla gestione multiculturale.

Nel marasma tecnico e gestionale c’è un aspetto epocale
che necessita di una lente di ingrandimento: la scuola sembra essersi svuotata
di senso. Don Ermis Segatti, docente di Storia del cristianesimo e di Teologie
extraeuropee presso la Facoltà teologica di Torino, ritiene che la scuola abbia
perso la propria «appetibilità». «Il senso più profondo della scuola – spiega
Segatti – si accompagna al sacrificio. In una società che ha trasformato
l’istruzione in un fenomeno accessibile a tutti e ha reso “universalizzata” la
cultura, l’effetto di ricaduta si ha nel depotenziamento e nella perdita di
appetibilità della stessa. Il macroscopico errore pedagogico e culturale è
quello di chiedere alla scuola di riempire un sempre maggiore vuoto
esistenziale. Nasce in questo modo il mondo effimero dell’intrattenimento il ludus
mundi
tra le mura della scuola, che si veste così di quel fittizio da cui
andrebbe invece sgravata».

Entrare «dentro la scuola» e capie l’evoluzione e il
futuro che intende riprogettare, significa anche fare una disamina sulla nostra
società attuale. Con le parole di Virginio Pevato, 20 anni di esperienza come
docente e altrettanti come direttore di Scuola dell’infanzia: «La scuola
rispecchia una società in crisi di valori. Non ci sono pensieri  forti capaci di trasmettere sicurezza e i
modelli esportati  dai mass media sono
caratterizzati dall’apparire e non dall’essere. La famiglia, prima agenzia formativa,
ha mutato le sue caratteristiche assumendo contorni sempre più fragili: la
figura patea si è indebolita e le nuove forme di famiglia allargata hanno
potenziato un graduale disorientamento dei giovani. Ne consegue
un’inarrestabile perdita di credibilità nei valori dell’educazione».

In una sorta di liquefazione identitaria dei ruoli,
anche l’autorevolezza dei docenti è venuta meno, alla mercè di famiglie sempre
più pretenziose e al contempo deleganti. Ma come, e perché, si è giunti a
questo quadro antropologico? 

Se il sistema scolastico attuale rispecchia la nostra
società capitalista e fa dei nostri ragazzi tanti meri consumatori, come si può
mettere in campo una «rivoluzione» che miri a formare persone libere e
pensanti, come sosteneva Don Milani? 

Ricostruire il senso dell’istruzione in una società del «non
senso» appare un’impresa titanica, eppure c’è una schiera di professionisti
dell’educazione per cui vale ancora l’aforisma di Eleanor Roosevelt: «Il futuro
appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni». Per
rispondere a qualche domanda, siamo andati a incontrarli.

Gabriella Mancini

Un bambino, un insegnante,
un libro, una penna
possono cambiare il mondo. […]


Non mi importa di dovermi
sedere sul pavimento a scuola.


Tutto ciò che voglio è istruzione.
E non ho paura
di nessuno.

Malala Yousafzai, 16 anni, candidata


al Premio Nobel per la Pace 2013.

 

LE QUESTIONI

• Quale «educazione» sta trasmettendo la nostra scuola?
• Come si può tradurre in realtà la lezione di Don Milani e
formare persone libere e pensanti?
• Quando e perché la figura del docente è diventata meno
autorevole?
• Come mai in Italia non viene compresa l’enorme portata del
multiculturalismo e del plurilinguismo?
 

Gabriella Mancini




S2 – «Mio figlio… mai in quella classe!»

La scuola interculturale.


Sono 760 mila (su 9 milioni in totale) gli studenti non
italiani nelle nostre scuole. Una classe multietnica può offrire grandi
opportunità grazie agli stimoli derivanti dalle diversità culturali e alle
opportunità che produce un ambiente plurilinguistico. Occorre però saperlo
spiegare alle famiglie per evitare rifiuti quasi sempre immotivati.

«L’insegnamento in una prospettiva
interculturale richiede di assumere la diversità come paradigma dell’identità
stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze»,
così scrivevano nel 2007 il ministero dell’Istruzione e l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli stranieri. Partendo da questa riflessione e
considerando che, secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero
dell’Istruzione per l’anno scolastico 2011/2012, gli studenti stranieri
raggiungono la soglia di 755.939 (su un totale di 9 milioni), oggi in che
misura si sta lavorando sull’aspetto dell’inclusione interculturale?

Alcune notizie di cronaca ci
raccontano ancora di genitori che, davanti a una classe con un numero di
stranieri troppo elevato, ritirano i figli o chiedono il loro spostamento in
un’altra sezione.

I
nuovi italiani e la soglia del 30%

Per fare chiarezza sull’entità
della questione, chiediamo a Concetta Mascali, dirigente scolastico per il
secondo anno alla scuola primaria Michele Lessona di Torino, con un precedente
incarico come referente per l’intercultura presso l’Ufficio scolastico
regionale, di raccontarci la sua esperienza. L’Istituto Michele Lessona è
situato nella zona di Porta Palazzo, da sempre luogo di prima immigrazione del
capoluogo piemontese e bacino privilegiato di stranieri residenti. Oggi la
scuola primaria Michele Lessona accoglie allievi con provenienze da circa 30
paesi: Romania, Marocco, Cina, Africa Centrale, India, Sri Lanka, Filippine,
Albania, stati latinoamericani etc. «Recentemente una coppia di genitori, la
cui figlia è in classe con 14 stranieri, ha sollevato la problematica
chiedendone il trasferimento in un’altra sezione. In questi casi è fondamentale
motivare alla famiglia il lavoro svolto per la formazione delle classi che
avviene secondo criteri di equi-eterogeneità e non di nazionalità. In questo
senso manca ancora molta informazione e approfondimento: non ha più senso
parlare di “stranieri” quando il 60% degli studenti di provenienza non italiana
sono di seconda generazione e hanno frequentato asilo nido e scuola
dell’infanzia da noi, arrivando alla primaria con gli stessi prerequisiti degli
italiani. Questi allievi sono a tutti gli effetti concittadini italiani e non
rallentano affatto l’andamento didattico della classe, anzi ne rafforzano la
vivacità intellettiva grazie all’enorme potenziale del plurilinguismo. Quando
ci sono delle sacche di disagio nell’alfabetizzazione è verosimile che ne siano
accomunati sia gli studenti di origine italiana che quelli di altre nazionalità.
Se le informazioni vengono trasmesse in misura coerente e chiara alle famiglie,
spesso si trova un punto d’accordo e si diventa complici nel percorso educativo».

Ovviamente non è tutto rosa e fiori
e Concetta Mascali ci informa che le maggiori problematiche riguardano gli
ingressi degli studenti stranieri in corso d’anno. In tali occasioni, che si
verificano spesso nell’Istituto Lessona, occorrerebbe essere attrezzati con
corsi di italiano come seconda lingua, spesso impraticabili per mancanza di
risorse economiche e di personale docente. E per quanto riguarda l’attuazione
della famosa legge della Gelmini sul tetto del 30% di alunni stranieri in
classe, cosa è accaduto e sta accadendo dentro la scuola? «La legge del 30%
desta più paura di quanto dovrebbe. Questo strumento è indicativo ed esistono
linee guida e sfumature delle varie circolari che vanno calibrate e affidate al
buon senso del singolo circolo didattico. La circolare 2 spiega, per esempio,
che c’è differenza tra chi è nato in Italia e chi è appena arrivato e fa una
chiara distinzione tra chi appartiene a lingue neolatine o meno. Ciò che conta è
saper utilizzare gli strumenti al fine dell’integrazione e non dell’esclusione.
Parlare di stranieri induce in errore, abbiamo bisogno di parole nuove per
sfatare un immaginario collettivo che si nutre ancora della paura del diverso».

Disorientamento e disturbi

Reinventare un vocabolario che non
includa il termine «pregiudizio» è un compito arduo ma fattibile. Cresce il
numero degli insegnanti che, nonostante le poche risorse economiche, riescono a
gestire didatticamente e umanamente l’ accoglienza di studenti non italiani. A
pensarla come Concetta Mascali è anche la maestra Sabrina Ottaviano, 16 anni di
esperienza alla Scuola primaria Berta – succursale del Circolo didattico
Salgari – che ribadisce la ricchezza del plurilinguismo e della diversità
culturale. «Un bambino straniero che ha frequentato la scuola dell’infanzia da
noi, si pone nell’identica situazione di partenza di un nostro connazionale. I
problemi si verificano quando arriva uno scolaro “non parlante” e le risorse
economiche attuali non sono sufficienti a coprire le ore di alfabetizzazione
dello stesso. Di norma, però, questi sono casi sporadici e vengono gestiti con
una cura e un impegno estremi da parte di tutto il corpo docente».

Per cambiare gli stereotipi occorre
riformulare i messaggi mediatici. Non più stranieri e italiani ma compagni di
scuola. Insomma, bambini del 2013 con tutte le peculiarità che il vivere in
questa nostra «sclerotica» società comporta.

Chi sono, dunque, i nuovi bambini? «Nel
corso degli anni sono cambiate le situazioni familiari: sempre più separazioni
e famiglie allargate. Questo ha comportato un disorientamento del bambino,
obbligato ad adattarsi a più contesti familiari. È venuto così a mancare
quell’equilibrio che dotava l’allievo di una maggiore serenità. Va poi segnalata
una perdita di autorevolezza della figura patea che manca o risulta poco
incisiva, provocando disturbi comportamentali difficilmente gestibili. Per
quanto riguarda la didattica si avverte invece un peggioramento nella
comprensione del testo e un impoverimento lessicale dei bambini. Rispetto a
qualche anno fa, hanno più difficoltà nell’introiettare le esperienze e
nell’estearle, arricchendo i propri racconti. Sono più irriverenti di un
tempo ma anche creativamente spontanei e con un grande senso della complicità e
della giustizia».

Disturbi dell’attenzione e della
comprensione vanno sicuramente ricercati nella gestione del tempo-scuola. Ritmi
aziendalisti e non a misura di bambino. Per gli alunni, immersi in questo
proliferare di «rumore», dove rimane il tempo per il dialogo e per
l’arricchimento della persona?

La
psicoterapeuta Rosa Napolitano, specializzata in psicoterapia familiare e
sistemica e socia dell’associazione torinese «Il Melo», ha una sua opinione in
merito: «La capacità di espressione orale dei bambini passa attraverso
l’alfabetizzazione delle emozioni. I bambini di oggi non conoscono e non sanno
rapportarsi con i tempi vuoti della loro esistenza. Alfabetizzarli alle
emozioni, promuovendo percorsi laboratoriali nelle scuole, favorisce il loro
dialogo con sé stessi e con gli altri. Coinvolgere il bambino nella lettura
della sua emotività, significa farlo uscire dal racconto sterile su “quante
cose si sono fatte” e introdurlo nella sfera del suo io, fondamentale perché si
conosce e sappia instaurare un rapporto dialogico più autentico e profondo con
il mondo circostante».

Scuola e società :
l’insegnante di oggi è un perdente?

Per raccontare la scuola occorre
avee fatta esperienza, contestualizzata, introiettata, vissuta da
protagonisti e non solo da spettatori. Karim Metref, educatore, scrittore e
giornalista di origine algerina, ha insegnato educazione artistica in una
piccola comunità rurale dell’Algeria e ha successivamente sperimentato, come
formatore, la nostra scuola. Gli chiediamo uno spaccato su questi due mondi.

«Ho insegnato in Algeria per circa
10 anni, dal 1989 alla fine degli anni ’90. In quell’epoca il maestro era
abilitato quasi interamente all’educazione del figlio; la famiglia poneva una
fiducia completa in quella missione che non riguardava solo la trasmissione del
sapere ma anche la capacità di stare al mondo e di destreggiarsi abilmente
nelle relazioni e in società. Quando sono arrivato in Italia, tramite i
movimenti per la pace, mi sono specializzato come educatore e animatore
interculturale nelle scuole. Sotto l’accezione di “educazione alla pace” si
situano molti insegnamenti che vanno dal lavoro sull’ascolto, di se stessi e
degli altri intorno a noi, alle attività che educano a un atteggiamento più
cornoperativo e non competitivo, di dialogo e non di scontro. In questa veste
sono entrato nelle scuole italiane e ho avuto modo di osservare una realtà
complessa che rispecchia lo status della nostra società. Se, nelle zone rurali
dell’Algeria, il rapporto con le famiglie era delegante e rispettoso al tempo
stesso, qui si è assistito via via a uno scivolamento dei ruoli e una presa di
posizione delle famiglie nei confronti della scuola. Se il modello riproposto
dai media è quello dell’uomo vincente in quanto “abbiente”, è ovvio che
l’insegnante non può che perdere in partenza tutto il suo appeal. La
società dell’avere ha scalzato quella dell’essere e la scuola non è altro che
l’immagine riflessa di tutto ciò che esiste all’esterno. Sia in Italia che
nelle zone urbane dell’Algeria, la scuola è il simulacro della vita reale con
tutti i suoi meccanismi competitivi e discutibili, a partire dalle valutazioni
che si basano sul risultato finale e non tanto sul percorso fatto».

In Lettere dalla Kirghisia,
un libro di Silvano Agosti, si ritrae un prototipo di scuola ideale: palestra
di crescita dove non esiste il giudizio fine a se stesso ma la considerazione
dell’individuo sulla base della sua intelligenza (di qualsiasi genere essa
sia), della sua umanità, sensibilità e delle sue esperienze autentiche. Una
scuola senza etichette, delle persone e basta.

Quale scuola sogna Karim Metref per
il futuro? «La scuola deve essere di inclusione. “Di inclusione” vuol dire che
si sforza di includere tutti. Senza rinchiudere i figli degli stranieri in una
specie di ghetto detto della multi o dell’intercultura».

«La scuola è la scuola di tutti. Il
suo obiettivo primario deve essere educare la persona a stare nella società, a
migliorare il proprio livello culturale e sociale. Deve riprendere a giocare
quel ruolo di ascensore sociale per il quale è stata pensata. Per far ciò deve
dare di più a chi ha di meno e meno a chi ha di più. “Non c’è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” diceva Lorenzo Milani nella sua
Lettera ai giudici. Chi è socialmente svantaggiato deve essere
compensato dalla scuola. Chi ha difficoltà di apprendimento deve essere
aiutato. Questo aldilà delle origini o delle appartenenze culturali».

Gabriella Mancini


La scuola dell’Ufficio pastorale migranti, a Torino


A lezione da suor Lidia

Usciamo
dalle aule della scuola tradizionale per calarci in quelle particolari della
scuola di lingua italiana, per adulti di ogni nazionalità ed età, tenuta
dall’Ufficio pastorale migranti (Upm). Arriviamo alla sede di Torino nel cuore
della mattinata. La vitalità e il fermento caratterizzano questo luogo fuori
dall’ordinario, denso di un’atmosfera cosmopolita e piena di umanità. Da un
lato la scuola offre accoglienza agli immigrati e dall’altro si occupa di
insegnare l’italiano come strumento di integrazione nella società di arrivo.
L’istituto è suddiviso in tre sezioni e alterna gli insegnamenti al mattino e
al pomeriggio per tutti i giorni della settimana, considerando i pre-requisiti
dei singoli iscritti e formando così delle classi specifiche per ogni necessità.
Una volta alfabetizzati, gli allievi possono iscriversi nei Ctp (Centri
territoriali permanenti) per conseguire il diploma di scuola secondaria di
primo grado (licenza  media) e iniziare
percorsi di professionalizzazione. Secondo i dati statistici (Dossier 2012
Upm Arcidiocesi di Torino
), il totale degli iscritti era 1.031, di cui il
29% relativo ai richiedenti asilo. La provenienze maggiori riguardano l’Africa
settentrionale, quella sub-sahariana, l’America centrale/meridionale e l’Europa
Orientale .

 In questo
microcosmo incontriamo suor Lidia, responsabile della scuola di italiano. Suor
Lidia, sorella delle Figlie di Maria Ausiliatrice (conosciute come missionarie
salesiane), ha  vissuto 24 anni in
Tunisia, lavorando e insegnando in una scuola con 600 alunni musulmani. Nel
2010 è tornata in Italia e ha  iniziato
la sua missione all’interno dell’Upm. È una piccola-grande donna che, con fare
dolce e deciso al tempo stesso, ci regala qualche fotografia di ciò che accade
in questa scuola «altra»: «Qui, ogni anno la scuola cambia aspetto. Il bacino
di utenza è sempre diverso a seconda delle situazioni politiche delle
differenti nazionalità. In questo periodo abbiamo molti rifugiati dal Pakistan,
dall’Afghanistan e dalla Turchia. Rispetto agli anni passati, si avverte
inoltre una femminilizzazione dell’istruzione. Le dinamiche sono differenti da
quelle della scuola “classica”: attraverso l’insegnamento della lingua italiana
ci si prende cura della persona, la si orienta a livello pratico, cercando di aiutarla
a districarsi nelle tante difficoltà che comporta una nuova vita. Molti di loro
non hanno un’abitazione e passano la notte nei dormitori pubblici, arrivando
qui al mattino non solo per “apprendere”, ma anche per ricevere calore. Il
rapporto con gli insegnanti, che svolgono un servizio volontario, non rientra
nei canoni di quello istituzionale. I docenti si pongono con rispetto e spirito
di adattamento nei confronti degli studenti e questi ultimi riconoscono in loro
il senso dell’atto gratuito e ne sono profondamente grati. Si crea spesso una
rete di collaborazione e amicizia». In questa scuola «oltre la scuola», quanto
interviene la fede e la spiritualità nel processo di maturazione di ogni
singola persona? «Per i volontari credenti la spiritualità è la molla
fondamentale che rompe le barriere tra noi e gli altri. Per quelli laici
interviene invece spesso un senso di giustizia che li fa muovere in nome
dell’integrazione. Lo studio della lingua italiana diventa  strumento per imparare a rispettare le altre
culture e religioni. In questa palestra di vita, gli  studenti 
imparano in fretta che la loro libertà finisce dove inizia quella di un
altro e tutto ciò mette in atto un meccanismo di crescita profonda. Come
sosteneva Don Bosco, la prevenzione è alla base della nostra missione. Una
missione che passa dall’apprendimento ma mira all’integrità della persona, alla
trasmissione della fiducia, della condivisione e della reciprocità. La cura è
l’esatto opposto dell’indifferenza ed è quello che cerchiamo di trasmettere ai
nostri allievi, nel rispetto delle personali religioni di cui facilitiamo la
pratica indirizzandoli nei luoghi di culto giusti». 

Suor Lidia ci accompagna nelle aule dell’Ufficio
pastorale migranti. Lavagne e penne rosse non mancano, ma qui quello che fa la
differenza sono le storie di ogni persona, il cammino che c’è alle spalle di
ognuna di loro e il sogno che la fa andare avanti. In questo paradigma
inconsueto, gli insegnanti non impartiscono solo lezioni ma devono saper
vestire i panni degli educatori, degli amici e degli psicologi. In una sfida
che supera le barriere della nazionalità.

Gabriella Mancini
 

Gabriella Mancini




S3 – Fragili, spavaldi, irriverenti, creativi

A colloquio con presidi e insegnanti


Oggi la realtà
estea alla scuola è molto più distraente che in passato. Catturare
l’attenzione degli studenti è un’impresa difficile. A ciò vanno aggiunti
genitori troppo spesso presuntuosi e intolleranti nei confronti degli
insegnanti: «Il compito di mia figlia era da 8!».

Arriviamo al Liceo scientifico
Copeico sotto una pioggia incessante. Ad attenderci c’è il preside
dell’Istituto, Carmine Percuoco, al secondo anno di     mandato ma con 40 anni di esperienza come
docente di storia e filosofia e 25 anni di    
insegnamento allo stesso Liceo Copeico. Gli domandiamo una fotografia
del quadro sociale e didattico degli studenti e della scuola: «Se 20 anni fa
entrando in una classe si poteva pensare di ricevere attenzione da 2/3 degli
studenti, oggi gli interessati si riducono a 5 o 6. La realtà estea è molto
più distraente, ci sono tante cose interessanti da fare e da apprendere. La
scuola rimane, tuttavia, fondamentale. Stare in una classe, rapportarsi con un
gruppo di pari, vivere i processi legati all’istruzione sono condizioni uniche
che all’esterno non si possono imparare. Si osserva negli studenti di oggi un
impoverimento del linguaggio, un’incapacità di leggere ad alta voce e di
comprendere il testo. Mancano “abitudini” che, partendo dai primi anni
d’infanzia e dal substrato culturale e familiare di cui si è nutrito il
ragazzo, si trasformino in “attitudini”. Manca inoltre un’ alfabetizzazione
emotiva, cosa di cui gli studenti hanno un gran bisogno, ma che si scontra con
un limite storico di pregiudizio nei confronti di tutto ciò che riguarda la
psiche».

Spesso si parla di intercultura
nelle scuole primarie. Cosa accade invece negli anni delle superiori? «I primi
ragazzi che arrivavano dalla Romania avevano una resistenza e una caparbietà
incredibile che, nel giro di 2 anni, li aiutava a recuperare il gap linguistico
rispetto ai compagni. Dal punto di vista didattico alcuni studenti stranieri
sono più attrezzati ad affrontare la fatica, danno ancora un senso prioritario
all’educazione scolastica. Occorre smettere l’abito del pregiudizio, se non
addirittura del razzismo, e iniziare a vivere la diversità come risorsa non
solo a livello di istituzione scolastica ma di intero paese. In generale, si
avverte nella scuola la necessità di lavorare di più e meglio sull’aspetto
sintattico e ortografico, per far diventare «sangue e carne» le principali
conoscenze, affinché si trasformino in competenze».

Un triangolo scottante: genitori, figli, insegnanti

È diffusa su tutto il territorio
nazionale (ma in particolar modo al Nord) una certa presa di posizione dei
genitori nei confronti dei docenti. Più istruiti, più attenti e, a volte, più
presuntuosi, i nuovi genitori tollerano sempre meno il fallimento dei figli e
contestano l’autorevolezza dei docenti. Come interpretare tutto questo? «La
famiglia è cambiata in modo un po’ schizofrenico. I modelli culturali negli ultimi
30-40 anni hanno spostato le speranze di realizzazione dalla sfera della
persona a quella economica. In questo senso appare chiaro come la classe
docente, bistrattata economicamente, non possa più riscuotere grande
autorevolezza. Gli insegnanti     perdono
autostima oppure si rinchiudono in una torre d’avorio, si sentono emarginati e
ritengono misconosciuta la loro importanza. Per fortuna non è così per tutti.
Nonostante le politiche, gli enti locali e il susseguirsi dei ministri, c’è una
grossa pattuglia di docenti che porta avanti il suo lavoro con passione a
prescindere da tante disillusioni. I genitori vogliono una scuola severa e
autorevole… ma per i figli degli altri! Per ricostruire questi rapporti e
risanare la scuola ci vorrà tempo, onestà e voglia di fare».

Ma non solo gli insegnanti a
essere bistrattati: spesso i media ci riportano l’immagine di una schiera di
adolescenti indecifrabili, spaesati, demotivati, solo un riflesso delle vecchie
generazioni. Insomma, una incomprensibile touch generation. Eppure
proprio loro sono assetati di giustizia e di onestà intellettuale.

Non a caso, chi come Carmine
Percuoco ha tanti anni di esperienza e può confrontarli con altre generazioni,
così li ritrae: «Non si può dire che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli
di ieri: non lo sono né per capacità, né per moralità. Odiano l’ingiustizia e
quando trovano un adulto che sa lottare per una giusta causa, lo stimano e lo
apprezzano. Sono vulcanici e creativi, come nella nostra migliore tradizione
italica, e hanno molto da insegnare anche a livello comportamentale. I ragazzi
di oggi sono coerenti con gli adulti ma detestano l’ambiguità e la
schizofrenia. La scuola ha ancora tanto da ricostruire e il punto di partenza
deve essere la formazione dell’essere umano. Trasmettere agli allievi l’amore
per se stessi e il rispetto può essere la molla per iniziare un cammino ormai
necessario».

Alcune persone trasmettono
passione e umanità. Carmine Percuoco è una di quelle. Crede nella scuola, nei
ragazzi, nell’impagabilità di un mestiere che per tanti potrebbe sembrare in
via di estinzione ma che, per lui, mantiene ancora inalterata la sua funzione «etica»
e «morale».

Uno scenario mutato: da Edipo a Narciso

Spesso si sente affermare o si
legge sui giornali: «Una volta c’era la scuola e la famiglia». La frase va
indubbiamente riformulata: in un passato antropologicamente non troppo lontano
c’era una tipologia di scuola e di famiglia. Oggi, anno 2014, lo scenario è
diverso perché differenti sono gli attori che vivono e trasformano
quotidianamente la realtà sociale.

Pietropolli Charmet,
psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, individua le ragioni profonde
delle differenze rispetto al passato, facendo principalmente riferimento al
cambiamento «a monte», quello relativo alla famiglia d’origine, che ha
introdotto nuove figure genitoriali e ha modificato le relazioni tra i suoi
componenti, dando vita al tramonto di Edipo e alla nascita sociale di Narciso.
Nel suo libro Fragile e spavaldo si delinea la personalità dell’adolescente
di oggi. Malato di fragilità narcisistica, spavaldo e irriverente, il nuovo
adolescente dimostra una creatività e alcune doti inaspettate.  Quanto viene avvertito questo cambiamento
dagli insegnanti e come si strutturano i nuovi rapporti con le famiglie? «Negli
ultimi 40 anni la famiglia normativa si è trasformata in affettiva. Se al
centro della vecchia famiglia c’era Edipo, ora c’è Narciso. Il vecchio
adolescente andava educato con norme e valori, oggi sono cambiati i giochi: il
ragazzo è un cucciolo d’oro, un animale sociale e simbolico che negozia le
regole in famiglia. La saldatura tra casa e scuola è saltata e va ricostruita.
La scuola è rimasta ottocentesca ed edipica, ma ragazzi e i genitori si sono
trasformati in Narcisi. La frase classica dei genitori è: “Il professore ha
dato 4 a mia figlia ma io la conosco bene e so che vale 8…”. I nuovi genitori
sono disorientati tanto quanto lo sono gli insegnanti e vanno educati.
L’importante non è il brutto voto, ma è il fatto che la valutazione non diventi
un giudizio sulla persona e su questo andrebbero cambiate tante cose nella
scuola».

A raccontarci con lente sociale e
psicologica l’oggi della scuola e dei rapporti scuola-famiglia è Fabio Fiore,
insegnante di storia e filosofia al Liceo Statale Newton di Chivasso con una
ventennale esperienza di docenza e un dottorato su tematiche affini alla
perdita di autorevolezza degli insegnanti. Fabio Fiore, che da oltre 15 anni
lavora sulla crisi della scuola, ci introduce tra i banchi esaminando cause e meccanismi
di una trasformazione così profonda. «Un tempo c’era unione tra valori
domestici ed estei. Il maestro aveva sempre ragione, oggi ha sempre torto a
prescindere da qualsiasi cosa faccia. Si confronta con una schiera di genitori
invasivi che non ha timore di chiedere chiarimenti sul figlio fermandolo per
strada o telefonando. Il genitore sa tutto sulle tonalità emotive più recondite
del figlio; quello che teme di più è la fallibilità del ragazzo e quello che
desidera sopra ogni cosa è la sua felicità».

Sconfiggere l’insensibilità della politica

L’etnologo francese Marc Augè ci
ricorda che esistono luoghi e non luoghi. La scuola è indubbiamente un luogo e,
seppur con tutte le contraddizioni degli ultimi anni, mantiene inalterato il
suo valore aggregativo.

Antonella Sergi, insegnante
ultraventennale di matematica al Liceo Artistico Cottini, non ha dubbi in
merito: «Politiche governative insensibili all’importanza della scuola e
difficoltà su tutti i fronti non possono togliere alla scuola la sua valenza
educativa e di relazione. La scuola rimane il luogo per eccellenza in cui
sostenere la costruzione della personalità degli allievi e instaurare dinamiche
di gruppo. Gli insegnanti sono stati coinvolti in un processo sociale di
maturazione che li ha portati ad avere e a trasmettere una maggiore sensibilità
verso le diversità. Paradossalmente sono però principalmente i ragazzi di
adesso a insegnare l’integrazione perché sono loro stessi a viverla
quotidianamente».

Se i ragazzi di oggi hanno più
difficoltà ad accettare le regole, come si possono trovare strumenti innovativi
per interessarli didatticamente? «Gli studenti hanno bisogno di essere
costantemente stimolati, danno spesso l’impressione di non esser interessati ad
apprendere ma se si riesce a toccare le corde giuste, ti sorprendono per la
qualità delle risposte. Hanno una scarsa frequentazione delle capacità logiche
mentali e la figura del docente la vedono con più criticità rispetto al
passato. Lo vedono come un personaggio meno ideale, perfettamente calato nella
realtà con tutti i suoi pregi e difetti. Di conseguenza, per interessare i
ragazzi, oltre una maggiore creatività nella metodica, occorre guadagnarsi la
loro stima dimostrandosi coerenti e onesti. Per i ragazzi di oggi “la legge è
uguale per tutti”, sono pionieri di una generazione che fa del senso di
giustizia il suo credo. Le votazioni negative vengono accettate, ma solo se
alla base c’è una vera credibilità intellettuale».

E le famiglie quanto facilitano od
ostacolano questa missione del docente? «L’apprendimento passa attraverso il
rispetto e in questo senso i genitori dovrebbero lavorare a favore del corpo
docente. Non nego però che, se da un lato sono troppo invadenti nei confronti
della scuola, dall’altra sono anche più coinvolti e presenti. Il che, gestito
nel modo opportuno, può diventare una grande ricchezza».

Ci piace chiedere ai nostri
intervistati un piccolo vocabolario per ricostruire la scuola. Secondo
Antonella Sergi, la trasformazione del panorama dell’istruzione passa
attraverso il riconoscimento della scuola a livello politico. Un riconoscimento
economico e sociale che possa suscitare un effetto domino e riconsegnare
energia e linfa vitale agli insegnanti.

La scuola come laboratorio

Da questo breve viaggio nella
scuola, quello che si evince è la figura di un adolescente complesso (come gli
adolescenti di tutte le epoche in realtà), che arranca nel costruirsi la
propria identità. Spavaldo perché ha una necessità intrinseca di riconoscimento
sociale, fragile perché fa fatica a uscire da un’infanzia dorata. Al contempo,
i ragazzi di oggi hanno competenze narrative e creative straordinarie di cui
spesso però sono inconsapevoli.

Quali gli atteggiamenti e le parole
chiave per uscire da questa crisi che attraversa un’epoca e coinvolge più
figure nell’istituzione scolastica? «Il cambiamento – spiega Fabio Fiore –
passa attraverso l’esperienza, la collaborazione e la complicità. Nella nostra
scuola c’è troppa scissione tra sapere e esperienza pratica. Rendiamo la scuola
“laboratorio vivente”, apriamone le porte anche nel fine settimana, rendiamo
partecipi anche le famiglie. L’organico docente, seppur mantenendo inalterate
le diversità, deve lavorare su una linea comune altrimenti perde di credibilità
e lo studente si infila pericolosamente nelle contraddizioni. La parola chiave è
“futuro” e la scuola è uno dei luoghi da cui ripartire per risollevare il
paese. Bisogna insegnare ai ragazzi ad aumentare la massa critica della
consapevolezza e ad essere cittadini del mondo. La scuola non si fa parlando ma
“facendo”. Occorre essere sociologi, ossia andare “oltre le mura”».

Gabriella Mancini

A Chivasso


Sperimentare (per vincere la crisi)

Presso il Liceo classico-scientifico «Newton» di Chivasso, nel corso
dell’anno scolastico 2012-2013 è nato il progetto «Oltrelemura», di cui il
prof. Fabio Fiore è stato uno degli ideatori. Una sperimentazione vissuta da un
folto gruppo di studenti, docenti, genitori ed operatori culturali operanti
nell’ambito dell’Istituto. Attraverso diversi approcci disciplinari, ci si è
interrogati sulle strategie didattiche possibili per affrontare la crisi della
Scuola percepita dai partecipanti.

Il progetto «Oltrelemura» ha attivato delle  azioni su tre ambienti del dispositivo
scolastico: un ambiente di trasmissione formale dei saperi (la Classe), un
ambiente di trasmissione informale dei saperi (l’Interclasse), un ambiente di
elaborazione creativa dei saperi (i Laboratori). I Laboratori teatrali, narrativi
e mediatici hanno avuto  la funzione di
far emergere i problemi del rapporto tra adolescente e dispositivo
scolastico/mondo adulto, l’Interclasse ha trasformato tali problemi in domande
e riflessioni e la Classe pilota ha provato ad articolare delle risposte e a
mettere in pratica (didattica) le riflessioni emerse.

Un esempio concreto per affrontare la crisi insieme.

 
Considerazioni finali


Cercando un nuovo alfabeto

«Benvenuto cambiamento» è il titolo della Quarta Conferenza
regionale della scuola tenutasi a Torino nell’estate 2013. Come dimostrano le
voci e gli approfondimenti di questo Dossier, è più che mai necessario
rinforzare una cultura della scuola che sia in grado di progettare e sostenere
il cambiamento. Cambiare la scuola vuol dire «ridefinire con chiarezza le
posizioni degli insegnanti, dei genitori, dei ragazzi e delle altre figure
educative nell’ambito di un dispositivo pedagogico direttamente incentrato
sulla conduzione di attività pratiche. È rispetto a esse che la scuola può
ritrovare il fascino e la passione dell’insegnamento e dell’apprendimento,
tanto come funzione espressiva quanto come esercizio preparatorio» (Riccardo
Massa, Cambiare la scuola, cit. pag 175).

In quest’ottica il futuro si modella sull’esperienza,
non  discinta dall’apprendimento teorico.
Un’esperienza prima vissuta singolarmente e poi condivisa. «Intellettualizzare
l’esperienza» è la chiave, direbbe John Dewey (filosofo e pedagogista
statunitense scomparso nel 1952) in una proposta che riguarda  l’apprendimento cornoperativo, la didattica
laboratoriale e la responsabilità di ogni singolo attore sul campo. Con questo
cambio di paradigma rispetto alla scuola attuale, l’esperienza diventa fonte di
innovazione e si proietta con slancio nel futuro.

Non si discosta da questa proposta anche la teoria di
don Ermis Segatti: «Nella scuola di oggi c’è troppa scissione tra vita pratica
e istruzione. Si rileva un’espropriazione di responsabilità caricata solo sullo
studio. La concomitanza di studio ed esperienze pratiche favorisce una maggiore
responsabilità civile. L’habitus mentale dovrebbe consistere
nell’operare praticamente mentre si apprende. La soluzione? Uscire dalla scuola
e favorire una rete comune di collaborazione con gli enti locali per creare nuovi
luoghi di partecipazione giovanile».

«In questa prospettiva metamorfica, può dunque la
scuola, attraverso l’esperienza pratica, diventare “scuola dell’essere e non
dell’avere”? Forse, occorre ripartire dalla scuola dell’Infanzia perché proprio
lì si creano  quelle esperienze che poi
si disperdono negli anni successivi. Virginio Pevato aggiunge: «La scuola del
futuro è la scuola del fare: una scuola educativa e di relazioni con il mondo
esterno, capace di individualizzare i percorsi, di  fare attenzione a tutte le intelligenze
evitando  di trasformarsi in parcheggio
scolastico». 

Questa nuova scuola, che ci auspichiamo non rimanga solo
nell’immaginario e in alcune singole proposte, in cui il riconoscimento dei
talenti dovrebbe intrecciarsi con l’esperienza, diventare  priorità governativa e riconquistarsi  così 
quel rispetto e quell’autorevolezza che la rendano nuovamente «appetibile»
e ricca di significato. 

Nonostante siano passati quasi 50 anni dalla morte di
Don Milani, la sua lezione resta attuale: andare a scuola significa imparare a
leggere, scrivere, far di conto ma anche e, soprattutto, conoscere a fondo la
nostra Costituzione ed essere consapevoli della nostra cittadinanza nel
mondo. 

Da questi presupposti si dovrebbe  partire per formulare nuove strategie,
magari  rispolverando l’articolo 3
della  Carta fondamentale, come fa don
Milani in Lettera a una professoressa, pensando a Gianni perché «tutti i
ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e
dobbiamo rimediare».

Riscrivere un alfabeto della scuola comporta includere
tante delle parole che abbiamo «incontrato» in questo breve viaggio e che fanno
rima con: formazione, talento, etica, coerenza, giustizia, rispetto,
esperienza, collaborazione, complicità e riconoscimento. In altri termini: «saper
educare, andando Oltre le Mura».

Gabriella Mancini

Consigli Bibliografici
• Riccardo Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Editore Laterza, 2000.
• Fabio Fiore, Rincorrere o
resistere? Sulla crisi della scuola e gli usi della storia, Rivista Passato e Presente, 2001.
• Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e
apprendimento, Centro Studi
Erickson, 2005.
• Lorenzo Fischer, Lineamenti di sociologia della scuola, Il Mulino, 2007.
• Gustavo Pietropolli Charmet, Fragili e spavaldi. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, 2008.
• Lorenzo Luatti – Claudio Malacarne, Scrivere il futuro a più mani, Vannini, 2012.
E per la narrativa:
• Francois Begaudeau, La classe, Einaudi, 2008.
• Eraldo Affinati, Elogio del ripetente,
Mondadori, 2013.
• Alex Corlazzoli, Tutti in classe, Einaudi, 2013.
 
Filmografia

Zero in
condotta, Jean Vigo, 1933;
I 400 colpi, François Truffaut, 1959;  Gli anni in tasca,
François Truffaut, 1976; L’attimo
fuggente, Peter Weir, 1989; Ricomincia da oggi, Bertrand
Taveier, 1999; Essere o
avere, Nicholas Philibert, 2002; La classe, Laurent
Cantet, 2008; La scuola è
finita, Valerio Jalongo, 2010; Una scuola italiana, Giulio Cedea ed Angelo Loy, 2010; Il rosso
e il blu, Giuseppe Piccioni,
2012;
Vado a
scuola, Pascal Plisson, 2013. 

 
I partecipanti: un ringraziamento

Un doveroso ringraziamento a tutti coloro che
hanno contribuito a questo Dossier attraverso la loro testimonianza:

• il Circolo
didattico Salgari di Torino con la dirigente Giovanna Caputo per la
disponibilità al servizio fotografico; •
don Ermis Segatti; • Virginio
Pevato; • Concetta
Mascali; • Karim
Metref; • Sabrina
Ottaviano;
• Rosa Napolitano; • Carmine Percuoco; • Fabio Fiore e il progetto «Oltre le mura»
(www.oltrelemura.net);
• Antonella Sergi; • suor Lidia dell’Ufficio pastorale migranti
di Torino.

Si ringrazia inoltre • Nuccia Ferraris del Cidi («Centro di
iniziativa democratica degli insegnanti») per alcune informazioni foite:
www.ciditorino.org.

L’autrice

• Gabriella Mancini – Gioalista pubblicista, collabora da anni con Missioni Consolata su tematiche prevalentemente di ambito sociale e sulla
rubrica culturale
Mediamente. Attenta osservatrice della realtà e del
fenomeno dell’immigrazione ha ideato – insieme a un gruppo di giornalisti
stranieri – il media Glob011.com.

• Paolo Moiola – Redattore MC, per il cornordinamento giornalistico del
dossier.

Gabriella Mancini




Non è un paese per mamme

Italia 2014: sei madri si raccontano

Testo di Gabriella Mancini, foto di Gabriella Mancini e Murat Cinar
Le foto del dossier sono simboliche e non ritraggono le persone che si raccontano
in queste pagine. Alcuni dei nomi sono stati modificati, ma le storie sono autentiche.


Mateità a rischio
Tre madri Italiane

1. Gemma
2. Claudia
3. Miriam

Tre voci transnazionali

4. Emna
5. Melissa
6. Silvia

Conclusione: Più domande che risposte
Schede

Bibliografia
Geografia e anagrafica della nascite in Italia
Lavoro: Per le straniere è peggio
Disoccupazione al femminile

Mateità a rischio


Economia e politica contro le mamme

Quello che ci figuriamo come il classico paese dei
«mammoni», accoglie ben poco, e male, le mamme: l’Italia non ha infatti una
politica in favore della famiglia e della mateità e rende difficile la vita
alle coppie ancora convinte che avere figli abbia senso e sia segno di civiltà
e sorgente di progresso.

Essere
«madre», nel 2014, è una sfida che si scontra con un’economia allo sbando. Per
tutelare il più nobile diritto della civiltà, la mateità per l’appunto, la
strada è ancora tutta in salita. In un paese dove il tasso di disoccupazione è
pari al 12,6% (dati Istat), le più penalizzate rimangono le donne e, in
particolare, le madri. La carenza di servizi per la prima infanzia (va
ricordato che solo l’11% dei bambini italiani va al nido, ventuno punti in meno
rispetto ai numeri raccomandati dalla strategia di Lisbona del 2002) e una
mentalità ancora prevalentemente maschilista, delega tuttora alle donne la cura
dei figli e l’organizzazione della casa. Chiara Saraceno (ritratta nella
foto di destra
), una delle sociologhe italiane di maggior fama,
specializzata in tematiche familiari, questione femminile e politiche sociali,
ci delinea nitidamente questa pagina di storia italiana: «Il nostro è un paese
in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto
difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno
sono mediamente insufficienti; perché la divisione del lavoro in famiglia
continua a essere disomogenea tra uomini e donne; perché nell’organizzazione
del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali
che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori. Ci sono
differenze tra donne, a seconda del livello di istruzione, dell’area geografica
di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono
nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e mateità. Anche per le laureate,
tuttavia, lavoro e mateità possono apparire inconciliabili. Secondo gli
ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di
coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno.
La mateità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali
sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la pateità è associata a una più
alta partecipazione al lavoro, per la mateità è vero il contrario. Il fatto è
che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare
famiglia e lavoro quando hanno un figlio, fanno anche più fatica a passare da
un contratto temporaneo a uno definitivo, con meno garanzie in caso di
interruzione per mateità» (La Repubblica, 24/04/2014).

Alla luce di tutto ciò, e considerando che anche
l’attuale premier Matteo Renzi sta promuovendo una maggiore flessibilizzazione
dei contratti di lavoro, come se la passeranno le donne e, in particolare, le
mamme, nel prossimo futuro? «Poter spezzettare un rapporto di lavoro in
contratti di 4-5 mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo
lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni, sarà deleterio per le donne.
La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai
datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di
licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più
far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre
illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà
fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in
caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non
riusciranno a maturare il diritto alla indennità di mateità piena e faranno
fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare
di avere un contratto di lavoro almeno annuale» (Lavoce.info,
17/03/2014).

In virtù di queste considerazioni nasce il nostro
dossier che restituisce totalmente la voce a una galleria di donne italiane e
straniere. Attraverso le loro scelte e il loro quotidiano, cercheremo di
mostrare uno spaccato di genere in una situazione italica, in cui la penuria
lavorativa sembrerebbe voler appiattire, uniformare e rendere invisibili i talenti,
penalizzando le multi capacità femminili. Ma, come sempre, le donne si
riorganizzano, si reinventano e combattono.

Gabriella
Mancini   

 
 

Tre madri italiane nell’impresa di
Conciliare lavoro e
famiglia

A volte occorre semplicemente mettersi in ascolto. È quello
che abbiamo fatto per ridare voce alle donne, troppo spesso messe a tacere.


1. Gemma

Un contratto a progetto per anni in un’agenzia di
comunicazione milanese, una professionalità mai messa in discussione dai
responsabili dell’azienda, una porta chiusa alla nascita del secondo figlio a
favore di una neolaureata sottopagata e… libera da vincoli familiari.

«Quando
sono rimasta incinta del mio secondo figlio ero alle soglie dei 40 anni.
Lavoravo da dieci anni come copy writer in un’agenzia di comunicazione e
svolgevo parallelamente attività giornalistiche di interesse sociale, sempre
poco remunerative ma molto gratificanti. Il lavoro in agenzia era a tutti gli
effetti da dipendente (orari e impegno sul luogo di lavoro) ma travestito da
contratto a progetto, reiterato anno dopo anno. Fino all’ultimo mese di
gravidanza lavorai con un buon ritmo. Nelle ultime settimane, i miei capi mi
affiancarono una giovane stagista – non retribuita – per sostituirmi nei mesi
della mateità. Tre settimane prima della data prevista del parto, in
occasione della mia festa di “arrivederci”, le titolari dell’azienda (entrambe
con tre figli a testa) mi riempirono di sorrisi, baci e abbracci. Andai in
mateità fiduciosa che avrei ritrovato il mio ruolo e la mia postazione dopo i
cinque mesi obbligatori. Le voci erano rassicuranti: la giovane sostituta, per
quanto volenterosa, non aveva la mia stessa esperienza e la mia penna».

La mercificazione della propria professionalità

«Dopo cinque mesi, mi scrissero che non c’era una mole
di lavoro sufficiente per due persone e che potevo prendermi ancora tre mesi di
mateità facoltativa. Iniziarono a rispondere meno alle mail e a rimandare un
incontro per riformulare la nostra situazione. Quando, finalmente, si decisero
a farmi andare in ufficio, chiedendomi di portare il pargolo per poterlo
finalmente conoscere… mi dissero che molti clienti avevano ritirato i loro
contratti, che erano nel periodo più buio della loro storia aziendale e che la
mia figura non poteva esser economicamente contemplata. Rimasi senza parole,
con il bimbo in braccio. Improvvisamente invasa da una fragilità senza
confronti. La mia professionalità veniva trattata come merce e barattata in
cambio della possibilità di sfruttare una giovane disponibilissima a non esser
retribuita benché lavorasse 10 ore al giorno. Mi dissero che, anche se la
qualità dei contenuti sarebbe stata più scadente, loro necessitavano di
manovalanza a costo zero, e, dal momento che nel frattempo il mio contratto
sarebbe scaduto, la mia presenza non sarebbe più stata necessaria».

Scelte che bruciano

«Mi tormentai due settimane sul da farsi: ripresentarmi
comunque e pretendere il posto (in virtù della mateità il contratto prevedeva
un prolungamento dello stesso per un certo periodo); iniziare una lunga causa
legale per pretendere il risarcimento di tutti i contributi non pagati, delle
ferie e di quant’altro; cercare un compromesso. Per avere chiarimenti mi
presentai al Nidil (il sindacato dei lavoratori atipici) da cui non ebbi alcuna
risposta esauriente, a dimostrazione del fatto che in materia di contratti a
progetto, la formulazione di una vera tutela sindacale era ancora ben lontana.
L’unica soluzione era agire, privatamente, per via legale. Ebbi timore di
affrontare una sfida simile perché avrei potuto farmi terra bruciata per altre
eventuali collaborazioni. La sensibilità e l’emotività accentuata dalla mia
nuova situazione esistenziale (e ormonale), l’allattamento e le cure continue
al piccolo, il desiderio di riprendermi la mia vita e la mia serenità senza
dover tirar fuori le unghie in un’aula di tribunale, mi fecero demordere.
Scelsi la via del compromesso e patteggiai un risarcimento per i mesi di
prolungamento del contratto. Ancora adesso la scelta mi brucia. La tutela della
mateità è simbolo di civiltà e il non esser stata tenace nel rivendicare
quello che era giusto è una ferita ancora aperta. Con il tempo, però, ho
iniziato a riprendere coraggio e fiducia in me stessa, a ricostruirmi
un’identità che mi sembrava persa e a riorganizzarmi, come madre, come donna,
come professionista».

2. Claudia

Essere dirigenti significa saper fare l’equilibrista: tra
lavoro, figli, casa e marito. La libertà della donna passa attraverso il mutare
della mentalità predominante che vede ancora la «madre» come l’unica addetta
alla cura dei figli.

 «Dopo
la laurea in architettura, vinsi un dottorato in pianificazione territoriale e
urbanistica. Fu un’esperienza di approfondimento e di rilievo ma non riponevo
molte speranze nella carriera universitaria. Così, quando ebbi un responso
positivo da un concorso presso l’ufficio tecnico per l’urbanistica e l’edilizia
privata di un ente territoriale, non esitai.

Dal 1996 al 2002 cercai sempre di conciliare casa e
lavoro in maniera sistematica, con non pochi sacrifici. La mia primogenita
nacque nel 1998, e il secondo nel 1999. Nel 2002 diventai la responsabile
dell’ufficio e, se da un lato acquisii maggior flessibilità nell’orario
lavorativo, dall’altro una maggiore dipendenza mentale e un forte ingombro
psicologico iniziarono a penetrare nelle ore dedicate alla famiglia. Non è
semplice staccare la spina, allontanare i pensieri del lavoro e ritornare a
vestire il ruolo di madre. Basta lo squillo di un telefono o il ricordo di una
mail da inviare d’urgenza e i figli si ritrovano privati della tua presenza. La
mia sensazione è sempre stata quella di dovermi dividere: tra l’esser madre,
donna, moglie, professionista, organizzatrice della casa. Le identità sono
tante, le sfumature personali altrettante, e in questo volerci essere per tutti
e in maniera perfetta, ho rischiato spesso il bu out».

La conciliazione e i sensi di colpa

«Ho sempre cercato di essere un’acrobata e di vestire i
miei tanti panni in misura tale da non deludere gli altri e me stessa. Senza
reti familiari in soccorso e con la penuria di nidi e di servizi per
l’infanzia, l’incastro tra lavoro e vita privata è stato un gioco da
equilibristi. E allora, ecco le corse per non perdere le assemblee scolastiche
dei ragazzi, il controllo quotidiano del diario prima di sprofondare nel letto,
la partecipazione a qualche laboratorio nelle loro classi, la volontà di
cercare sempre e comunque un dialogo e delle attività ricreative da fare
insieme. Accanto a tutto questo va ricordato che oggi, 2014, in Italia e in
modo trasversale a tutti gli strati sociali, la cura dei figli rimane ancora
prevalentemente a carico della madre. Con un cambio di paradigma e una maggiore
collaborazione da parte dei padri, forse, si potrebbero conciliare meglio le
due sfere. Rimane, ed è indubbiamente figlio di una cultura femminile ancora
arretrata e in parte maschilista, il senso di colpa per non essere solo “una” e
per non rivestire in toto quella figura. Per quanto io faccia, anche
sacrificando tutto il tempo di cui avrei bisogno per me stessa, rimane immutata
la sensazione che, con un orario più agevole sul lavoro e meno responsabilità,
potrei seguire meglio la crescita, sia didattica che umana, dei miei figli».

La libertà passa attraverso il mutare della mentalità

«Il fatto di trovarmi, sovente, unica donna ai tavoli di
lavoro manageriali, presieduti dagli alti vertici, mi ha portato ad affinare
delle arti di “difesa”. Più di una volta ho dovuto rispondere a battute
prettamente maschiliste. Con l’esperienza, la costruzione di una forte identità
e una buona quantità di letture “di genere”, ho imparato a rispondere a tono e
a non cedere di fronte a chi vuole farmi sentire inadeguata o un’arrivista che
cerca il riconoscimento a tutti i costi, e minando così la mia autostima.

Oggi, con un terzo figlio di soli tre anni (avuto over
40), ho maturato la consapevolezza che l’unica via in Italia per potersi godere
i figli, sia quello di scegliere autonomamente di declassarsi, sia come
posizione che come retribuzione. Seppur senza rimpianti per le mie “acrobazie”
quotidiane e le mie scelte di vita, sto iniziando a progettare in questi
termini. Per me potrà voler dire riappropriarmi di una fetta di mateità. Per
il genere femminile in Italia è una sconfitta. Ancora una volta siamo noi donne
a dover rinunciare alle nostre potenzialità!».

3. Miriam


Una laurea in scienze politiche con una tesi su tematiche
interculturali. Un lavoro come addetta alla vendita di una nota catena di
articoli sportivi, in cui il 70% dei collaboratori sono donne ma solo il 30%
ricopre cariche dirigenziali. Un difficile incastro tra orari lavorativi e
famiglia.

«Dopo
due anni di lavoro come ricercatrice sociale sui temi dell’immigrazione, per
riuscire ad avere una maggiore stabilità economica, accettai un posto da
commessa in una grande catena di articoli sportivi. Con l’arrivo delle mie
prime due bimbe divenne difficile riuscire a ritrovare qualche collaborazione
nel settore dei miei studi e, per necessità familiari, il lavoro che doveva
essere momentaneo divenne definitivo. Oggi come oggi, con l’arrivo del mio
terzo piccolo di non ancora due anni, le difficoltà nel conciliare gli orari
scolastici e di vita delle figlie con un lavoro che prevede tui fino alle 21,
dal lunedì al sabato, ed un unico giorno libero settimanale, riunire la
famiglia è sempre più impegnativo. L’abusato termine “flessibilità” nasconde
una realtà che non aiuta a far combaciare i diversi tasselli della vita
famigliare, soprattutto quando si riduce al comunicare sempre all’ultimo minuto
i tui di lavoro ai dipendenti».

Un part time con orari sempre improvvisati

«Per poter gestire casa e famiglia ho scelto l’opzione
del part time, ma dal momento che gli orari dei tui vengono comunicati
settimanalmente, le difficoltà organizzative permangono e ricadono sul
compagno, sui propri genitori/nonni (se si ha la fortuna di averli) o sulle
baby sitter.

Questo essere sempre sospesa e in attesa delle decisioni
altrui mi crea un forte senso di precarietà e di dipendenza, sia da chi ha il
potere di decidere circa il mio lavoro, sia da chi mi aiuta nella gestione
familiare. Inoltre, il calendario scolastico, con festività e vacanze, coincide
con i periodi di maggior impegno lavorativo. Ne consegue che non è sempre
possibile stare con le bambine durante le vacanze natalizie, pasquali o estive
che siano. Al contrario, si hanno maggiori possibilità di andare in ferie quando
le scuole sono aperte e di conseguenza sono spesso costretta a scegliere tra
rinunciare ad attività con la famiglia – riducendo le ferie a un periodo da
trascorrere a casa – e far perdere giorni di scuola ai figli».

Domeniche al lavoro e nessun incentivo

«Un’ulteriore penalizzazione per chi deve conciliare il
tempo del lavoro con quello della famiglia è rappresentata senz’altro dal
decreto Monti che consente ai negozi di restare aperti 24 ore su 24, sette
giorni su sette. Un emendamento che avrebbe dovuto far nascere nuovi posti di
lavoro, ha invece obbligato gli stessi lavoratori ad avere sempre meno giorni
festivi, senza incentivi di alcun tipo, e a ridurre ancor più il tempo da
dedicare alla famiglia. Questa è la mia storia ma è rappresentativa di una condizione
generale delle donne sposate e con prole che subiscono una discriminazione
rispetto alle colleghe nubili le quali, secondo i responsabili di settore,
risultano più meritevoli di aumenti su base oraria. In questo mondo che volge
il capo al passato, quello che posso fare come donna e come madre è continuare
a sensibilizzare le persone su questo tema e a lottare affinché siano garantiti
i minimi diritti e, un domani, possa esistere uno spaccato sociale più a misura
di “mamma” alle mie bambine».

Gabriella
Mancini
  

 
 
Tre voci di esperienze transnazionali


Mateità, emigrazione e intercultura

Il contributo alla natalità dato dalle madri di cittadinanza
non italiana è importantissimo. L’Istat stima che nel 2010 oltre 104 mila
nascite (il 18,8% del totale) siano attribuibili a madri straniere. Le famiglie
con un componente non italiano sono pari al 6,9%, un dato triplicato negli
ultimi dieci anni, e le convivenze sono circa 600 mila (200 mila i matrimoni). Dati
che parlano da soli dell’eterogeneità della nostra rete sociale, delle
trasformazioni apportate dal fenomeno migratorio e della costruzione di una
nuova geografia umana. Una tunisina e due italiane con mariti o compagni di
nazionalità straniera, ci raccontano il loro essere madri nell’Italia di oggi,
i sogni sul futuro e le sfide quotidiane.


4. Emna

Emna è una donna tunisina, un’amica complice e solidale, una
donna piena di risorse. È venuta in Italia per raggiungere il marito nel 2005,
da neo sposa, e nel 2006 è diventata una mamma. Ecco la sua storia.

«Mi
sono laureata in scienze delle relazioni inteazionali in Tunisia e ho
lavorato per anni come assistente al responsabile marketing di una grossa
azienda. Il mio lavoro mi piaceva, rappresentava una sfida e una nuova
avventura ogni giorno, in un ambiente sereno dove il comune denominatore era
far crescere il personale e lavorare sulla stima di sé stessi e del gruppo.

Poi ho conosciuto il mio futuro marito e, sull’onda
delle scelte esistenziali, l’ho seguito in Italia dove viveva e lavorava già da
alcuni anni. Ho lasciato volutamente alle spalle carriera e lavoro e ho aperto
una nuova pagina della mia vita. Dopo solo un anno da “italiana” sono rimasta
incinta e mio marito è stato il mio grande alleato durante tutta la gravidanza.
Mi ha sostenuto nell’iter della mateità: dal consultorio, agli ospedali, alle
visite e, soprattutto, mi ha facilitato nella traduzione della lingua. Poi,
pian piano, mi sono iscritta a un corso di italiano e, grazie allo studio, ho
iniziato a muovermi con più facilità nel territorio. Quando si aspetta un
bambino si ha bisogno di certezze: saper leggere le ecografie e capire cosa
dicono i medici diventa fondamentale. Le sfumature della lingua e gli sguardi
sono importanti».

Primi tempi tra amore e solitudine

«Quando è nato il mio primogenito si sono contrapposti
in me due sentimenti: la gioia e la solitudine. Ogni volta che qualcuno apriva
la porta della mia camera in ospedale, sussultavo. Immaginavo di veder entrare
tutta la mia famiglia. Mi è mancato tantissimo quel calore famigliare,
quell’amore e quella cura che (in particolar modo da noi in Tunisia) viene
donata alla puerpera.

Nei primi tre mesi della mia nuova vita da mamma, mi
mancavano le mie radici, la mia terra, la mia famiglia. Per avere un figlio
all’estero devi essere forte, rigida, non hai nessuno che ti aiuti, il tempo
per te stessa è cancellato in virtù di tutte le mansioni pratiche che devi
svolgere. Le più piccole cose quotidiane, se ti senti fragile, iniziano a
diventare difficili: alzarti e rialzarti, infilarti le scarpe, presentarti in
modo dignitoso. Alle insicurezze del mio essere neo mamma si aggiungevano i
problemi burocratici: non è stato semplice avere un permesso di soggiorno per
poter tornare in Tunisia dalla mia famiglia. Quando riuscii a esplicare tutte
le pratiche e potei tornare qualche tempo nel mio paese, riuscii a vivere il
puerperio che non avevo potuto vivere in Italia. Le donne coccolavano il
piccolo e me. Un bagno turco al pomeriggio, qualche massaggio, un taglio ai
capelli e tante confidenze amichevoli. La cura della mia persona si univa alla
piacevolezza dello stare insieme a persone care».

La mia vita è in Italia

«Passati due mesi ho capito che dovevo tornare. La mia
vita era in Italia. La prima cosa da fare era un corso e ho pensato di fae
uno per mediatrice culturale. Per fare ciò il piccolo doveva stare all’asilo.
Come per tutte le mamme italiane ho fatto la mia trafila per un posto al
comunale, ho atteso che si snellisse la lista d’attesa e, quando è arrivato il
mio tuo, mi sono rimessa in carreggiata come donna.

Per fortuna il nido scelto, un comunale della zona, mi
ha offerto una sorta di nuova famiglia. Quella che mi mancava: dall’economa,
alle maestre, alle mamme. Queste relazioni, consolidate nel tempo, mi hanno
favorita quando è nata la secondogenita e il puerperio è stato diverso. A otto
mesi ho avuto comunque un po’ di depressione. Quindici giorni di rifiuto del
cibo e una sola volontà: stare a letto. Fosse successo con il primogenito avrei
fatto molta più fatica a riprendermi, ma questa volta avevo seminato e
coltivato complici amicizie. Questo volle dire tantissimo. Poco per volta, mi
rialzai in piedi, ricominciai a uscire, ad accompagnare i bimbi, a fare un
ulteriore corso come Oss e, pian piano, tornai a vivere».

Prima la famiglia, poi il lavoro…

«In Italia ho perso una carriera, l’affetto dei parenti,
la stabilità lavorativa. Qui, in balia dell’attuale crisi economica, ho dovuto
metter da parte le aspirazioni per una professione idonea ai miei studi e
accettare anche mansioni più umili. La socializzazione mi ha aiutato in parte a
ricucire lo strappo con la mia nazione e a elaborare i cambiamenti. Cosa ho
guadagnato dall’esperienza italiana? La risposta è nel mio cuore: probabilmente
nel mio paese d’origine oggi mi sarei affermata lavorativamente ma non avrei
incontrato la persona giusta e non sarei riuscita ad avere la serenità
familiare di adesso. Le incertezze permangono ma la lotta continua,
supportata da quella forza e quella rete che tifa per me».

Le parole chiave di Emna, come donna e come madre migrante

«Nella mia storia di donna e madre migrante un punto
fermo è stato, ed è tuttora, dare una buona immagine di me stessa e del mio
paese. Educazione, dignità personale, cultura e un forte senso
dell’aggregazione sono indispensabili. Adattarsi alle regole del paese di
accoglienza mantenendo le proprie radici mi ha aiutata a guadagnarmi il
rispetto della gente e a essere sempre credibile. La credibilità e l’educazione
vanno a braccetto e sono trasversali a tutte le nazionalità. Non esistono
stranieri e italiani, ma persone! Su questo nesso si fonda il mio pensiero e il
mio modo di essere donna, madre e di vivere in un paese che non è quello della
mia nascita ma che è ormai la mia casa. Sono certa che un domani, non lontano,
anche la Emna professionista si riguadagnerà il suo spazio in questa fetta di
mondo».

5. Melissa

Italiana e sposata con uno straniero. Poi la separazione e
la gestione affettiva e quotidiana dei figli. Tra pedagogia e sfide sul lavoro.

«Quando
ho capito che avrei cresciuto da sola i miei figli ho, in un certo senso,
provato un sentimento di sollievo. Ho metabolizzato velocemente che due
genitori separati o divorziati con un rapporto sereno, o almeno civile, possono
dare molto di più ai loro figli. In principio lo sconforto era dovuto
principalmente al timore di non saper affrontare da sola la crescita dei
bambini. Mi domandavo spesso se stavo facendo il meglio per loro e mi interrogavo
sulla loro sofferenza, vivendo tutto con grandi sensi di colpa. Nonostante il
rancore verso il padre dei piccoli (un maschio e una femmina che oggi hanno 10
e 9 anni) mi sono imposta, sin dall’inizio, di non lamentarmi mai di lui
davanti a loro, per dare loro una bella immagine del papà e confortandoli
sull’amore paterno. Il dialogo sulle motivazioni delle scelte fatte,
indipendenti dall’affetto figliale, mi hanno aiutata a vincere la rabbia».

Rientro al lavoro, tra nidi privati e qualche ostilità

«Terminata la mateità dovetti
ricorrere a un nido privato che allora, nel 2004, comportava già una retta di
400 € al mese. Dopo
qualche tempo venni chiamata dal nido comunale e iniziai finalmente a pagare in
base al reddito, trovando anche un ambiente più professionale, umano e
competente. Due anni dopo, per la piccola, venni a conoscenza dei micro nidi
famigliari che, senza cifre assurde, garantivano un ambiente armonioso per i
bambini. Dalle ore 13 fino al mio rientro dal lavoro la piccolina era affidata
a una tata, e tutto ciò comportava un’ulteriore spesa. Rispetto ai paesi nord
europei, le strutture per la prima infanzia e per la gestione dell’estate dei
bambini piccoli sono ancora totalmente inadeguate.

Il ritorno al lavoro dalla mateità
è stato anche il tempo delle ostilità, sottili e dolorose. Mi sono trovata a
dover subire battute non molto spiritose, atteggiamenti infastiditi e qualche
critica, anche da parte di donne e madri, come se al posto di una mateità di
5-6 mesi, mi fossi concessa un soggiorno ai Caraibi. Tutto ciò mi ha fatto
pensare che in Italia siamo noi cittadini, con la nostra mentalità antiquata e
incivile, a essere i primi responsabili della scarsità di alcuni servizi e
diritti che non dovrebbero invece esser messi in discussione».

Pregiudizi e credibilità dei genitori

«Non ho avvertito pregiudizi nei confronti del mio
essere una madre single ma, spesso, ho percepito compassione da parte di altri
genitori e un irrigidimento verso i nomi arabi dei bambini. Sguardi circospetti
di circostanza mi accompagnano ma, con il tempo, sono diventata forte e la
compassione, come il disprezzo altrui, mi fa sorridere. Riuscire a crescere da
sola i miei bambini e a guadagnarmi, giorno dopo giorno, il loro rispetto e
affetto, mi ha insegnato molto. Con l’età si rischia di dimenticare le emozioni
e i sentimenti che si avvertivano nell’infanzia e nella fanciullezza.
Innalzarmi al loro livello e mantenere viva la bambina che c’è in me, mi aiuta
a capire e a dialogare con i miei figli, mi aiuta a essere coerente e
credibile. Quello che cercano i bimbi di oggi è solo questo: credibilità. Una
dote che può regalare loro quell’equilibrio interiore utile per vivere con un
po’ di serenità questa vita».

6. Silvia

Italiana. Un’esperienza di lavoro in Burkina Faso diventa
l’inizio di una nuova esistenza. Una scelta controcorrente, una gravidanza in
solitaria e una nuova famiglia italo-africana, con un futuro tutto da
inventare.

«Lavoravo
da qualche anno presso alcune cornoperative sociali come educatrice della
comunicazione. Nel marasma della crisi italica mi potevo ritenere fortunata
poiché, seppur con magri stipendi, ero riuscita ad avere un contratto a tempo
indeterminato. Sentivo, però, che mi mancava qualcosa. Il mondo del sociale mi
aveva offerto una grande occasione ma, dopo la prima ondata di emozioni data
dalla relazione con l’altro, mi aveva lasciato un sapore amaro in bocca e una
certa demotivazione. La ragione va ricercata nell’organizzazione del settore
stesso che tende a sovraccaricare di lavoro e a soffocare le persone senza far
esprimere al massimo l’umanità e la creatività degli educatori. A 33 anni, con
la voglia di reinventarmi e la giusta motivazione, decisi allora di partire per
il Burkina Faso e di progettare un percorso di arteterapia locale. L’Africa,
d’altro canto, era sempre stata una terra dal forte magnetismo per me. Una
volta atterrata e visitatone un piccolo angolo, l’esperienza ha confermato il
sentimento, e il desiderio di conoscerla più a fondo, percorrerla ed entrarvi a
fae parte».

Una nuova vita fuori… e dentro di me!

«Iniziai a condurre un atelier di arte terapia dove,
attraverso l’attività manuale e artistica, si elaboravano percorsi
psico-dinamici. All’interno di questo cammino, iniziammo un progetto di teatro
di marionette e fu in quell’occasione che incontrai Didier, esperto di teatro
sociale. Non è mai solo una la ragione che porta a innamorarsi di un’altra
persona. Di Didier mi colpì senza dubbio il suo essere aperto al mondo esterno,
la sua autenticità e la sua naturale predisposizione all’attenzione verso la
persona umana. Avevo programmato un viaggio di tre mesi nei dintorni africani e
un breve ritorno a casa in Italia (“nassaratenga” la terra dei bianchi in
lingua moorè) quando la scoperta, tanto improvvisa quanto dolce, di aspettare
un bambino, rivoluzionò i miei piani. I primi controlli medici evidenziarono
una gravidanza “a rischio” e la necessità di un cerchiaggio. Non mi rimaneva
che scegliere l’Italia per tutelare nel miglior modo il prosieguo della
gravidanza e la salute del piccolo. La vita aveva cambiato le carte in tavola.
Non ero più io a dover tornare in Burkina ma Didier a venire in Italia».

Un’onda di limiti burocratici tra l’Africa e l’Italia

«Le peripezie iniziarono quando Didier richiese il
passaporto per espatriare. Nonostante tutte le garanzie richieste
dall’ambasciata (lettere d’invito in originale, estratti conto, buste del
salario e la fotocopia dell’atto di proprietà della casa) le autorità
rilevavano sempre qualche piccola mancanza nella documentazione. Passarono
alcuni mesi, la mia pancia cresceva ma il passaporto di Didier continuava a
esser negato, nonostante un continuo lavoro congiunto tra Italia e Africa. Il
fatto di voler poi rientrare nella terra africana, non era contemplato e
compreso dai funzionari locali. A quel punto, rassegnata a partorire sola e a
partire per l’Africa con un neonato, ricontattai l’ambasciata italiana per
chiedere il riconoscimento della bimba da parte del padre».

Finalmente insieme con Wendkuni

«Dopo mille peripezie e ostacoli, una voce amica
dall’ambasciata mi annunciò che, vista la situazione, avrebbero concesso
finalmente il passaporto a Didier. Ma la trepidazione non era ancora terminata.
Didier non raggiunse l’Italia ma rimase bloccato in Belgio dove venne
sottoposto a ulteriori accertamenti. Appena riuscì a chiamarmi, dopo un
atterraggio nel cuore della notte a Milano, iniziarono le prime contrazioni e,
sette ore dopo, a Torino, nacque Ilesdor.

È stata l’avventura più incredibile della mia vita.
Ilesdor è un nome inventato. Opera del padre, il giorno in cui gli comunicai di
essere incinta: significa “lui è d’oro” (Il est d’or) anche se in realtà
avrebbe dovuto essere elle, ma suonava meglio il. E proprio per
la sua voglia di venire al mondo e le circostanze così particolari in cui ha
fatto capolino nel mio utero si chiama anche: Wendkuni, dono di Dio in
moorè».

Condividere la vita, tra pregiudizi e differenze culturali…

«Nel cosiddetto occidente, non si sono abbattuti su di
noi i pregiudizi sociali. Abbiamo trovato ovunque accoglienza e simpatia,
curiosità e affetto. Li abbiamo però vissuti negli ostacoli burocratici, nella
lontananza forzata, nella nostra forsennata ricerca per “ritrovarci” e vivere
insieme. In tutto questo cammino di avvicinamento ho sentito forte, da parte
delle autorità, il preconcetto di un occidente “formato eden” e “dell’uomo
nero” che tenta di fuggire dalla sua povera e arretrata terra. La nostra è una
storia nata nell’avventura e che oggi si ritrova a condividere il quotidiano.
Come per tutte le coppie, le differenze possono creare delle difficoltà. Nel
nostro caso vale la dicotomia: a lui l’aspetto relazionale, a me quello
organizzativo. In fondo al cuore sento che sono piccolezze superabili e che
l’autenticità è la caratteristica portante della nostra unione».

Un futuro di madre e professionista in Africa

«Essere madre in Africa mi allarga il cuore, perché
l’Africa è “mamma Africa”. Le immagini si sovrappongono ed è come se la natura
avesse realmente connotati di femminile, accogliente ed accudente, questa
terra. Ovviamente i servizi per l’infanzia di cui lamentiamo la penuria in
Italia, lì non esistono proprio ma ci sono le persone che rendono (quasi)
superflui questi servizi. Una serie di zie e di nonne locali (vere e acquisite)
potrà aiutarmi con la piccola mentre cercherò di realizzare un progetto
multidisciplinare di arteterapia con altri professionisti e sarò il braccio
destro di Didier nella costruzione della sua futura fattoria. Fortificata dalla
nostra relazione e dall’amore per Ilesdor so che combatterò con una grande
forza interiore per poter tradurre in realizzazioni tutti quei desideri celati
nei nostri cuori».

Gabriella Mancini


Più domande che risposte

Sei
donne, sei storie, sei voci. Un piccolo coro che si unisce alla grande realtà
statistica italiana. Siamo il peggior paese in Europa in tema di occupazione:
solo il 65% delle donne senza figli lavora, segue un 60,6% di quelle con un
figlio, il 54,8% con due figli e il 42,6% con tre figli. I servizi per la prima
infanzia, carenti e costosi, contribuiscono a mantenere alto il livello di
disoccupazione per le donne con bambini sotto i tre anni. Dai racconti delle
nostre donne emerge, oltre alle varie difficoltà di conciliazione tra lavoro e
famiglia e le inadeguate politiche sociali in merito, una mentalità ancora
retrograda atta a delegare quasi esclusivamente alla donna la cura della
famiglia. E questo, aldilà di ogni estrazione culturale o sociale. Allo stesso
tempo, questo lavoro domestico, dato per scontato, non è né riconosciuto né
sostenuto da un apparato giuridico, sociale e retributivo che lo tolga dalla
precarietà, ne riconosca la dignità come «lavoro» e ne valorizzi il grande e
indispensabile contributo che dà a tutta la società.

La Cnn ha recentemente pubblicato una classifica dei
migliori paesi per le mamme lavoratrici. Su otto, sette sono in Europa: si
tratta di Islanda, Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e
Norvegia. All’ottavo posto c’è il Canada. Sono paesi dove il diritto al lavoro
e alla mateità non può e non deve essere violato, in nome di un codice etico
e civile che fa rima con la progressione dell’umanità.

Alcune domande sorgono: che bisogna fare per
rivoluzionare un modus pensandi così cristallizzato e trasformare questo
stato di cose? Cosa fare perché la mateità e l’educazione dei figli  non diventi un privilegio per ricchi? Cosa
fare perché la famiglia (uomo, donna e figli) – non la carriera, la produzione,
l’utile aziendale – continui a essere al centro della nostra vita sociale?

Le risposte sono difficili a darsi, visto che più
elementi – politici, sociali e antropologici – dovrebbero intervenire
all’unisono. La riflessione merita però un approfondimento e una lente focale
su un terreno più ampio.  Se l’esser
genitore al femminile comporta spesso la rinuncia al lavoro o la
decontestualizzazione della persona in più spaccati sociali, con un alto
rischio di alienazione, molte risposte vanno sicuramente ricercate nel nostro
modello societario attuale. Un modello che prevede (in misura trasversale per
uomini e donne) la produzione senza sosta e la corsa alla competizione in ogni
ambito. Varrebbe allora la pena di agire tutti insieme per trasformare in realtà
le parole, oggi considerate «utopiche», di Silvano Agosti che, nel suo libro Lettere
dalla Kirghisia
disegna un paese «ideale» dove: «[…] in ogni settore
pubblico e privato, non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio,
con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore
della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore,
alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili. La produttività si è
così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di
produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a
produrre in una settimana […]». Un ribaltamento di paradigma, questo, che
rivoluzionerebbe un sistema al collasso e – forse – annegherebbe le
diseguaglianze in virtù della formazione di un essere umano più completo e ricco
interiormente.

Gabriella Mancini   
Bibliografia consigliata

Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine,
Feltrinelli 1982, II ed.
Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli 2007
Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie,
Feltrinelli 2010
Chiara Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino 2013
Chiara Saraceno, Pluralità e mutamento.
Riflessioni sull’identità al femminile
,
Il Mulino 1987, IV ed.
Chiara Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi
e nuovi patti tra sessi e generazioni
, Il Mulino 2011Chiara Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino 2003

Ringraziamenti

Ringraziamo le donne intervistate per la disponibilità
nel raccontarci e raccontarsi.

Geografia e anagrafica delle nascite in Italia

Si nasce poco in Italia, e da mamme sempre più in là con
l’età. Rispetto al 2011, nel 2012 sono nati 12 mila bambini in meno.

Secondo i dati del Bilancio demografico della
popolazione residente
dell’Istat, sono stati 534.186 gli iscritti in
anagrafe per nascita nel 2012, oltre 12 mila in meno rispetto al 2011. Nel 2012
il numero medio di figli per donna si attesta a 1,42 (1,29 figli per le
cittadine italiane e 2,37 per le straniere).

Il dato conferma la tendenza alla diminuzione delle
nascite avviatasi dal 2009: oltre 42 mila nati in meno in quattro anni. Il calo
delle nascite ha riguardato per lo più le coppie in cui entrambi i genitori
sono italiani, quasi 54 mila in meno rispetto al 2008.

I nati da genitori entrambi stranieri, invece, sono
ancora aumentati, anche se in misura più contenuta rispetto agli anni
precedenti (2.800 nati in più negli ultimi tre anni), e ammontano a poco meno
di 80 mila nel 2012 (il 15% del totale dei nati). Se a questi si sommano anche
i nati da coppie in cui uno dei genitori non è italiano si ottengono poco più
di 107 mila nati (il 20,1% del totale delle nascite). Considerando la
composizione per cittadinanza delle madri straniere, ai primi posti per numero
di figli si confermano le rumene (19.415 nati nel 2012), al secondo le
marocchine (12.829), al terzo le albanesi (9.843) e al quarto le cinesi
(5.593). Da notare che queste quattro comunità raccolgono da sole quasi il 50%
delle madri straniere in Italia.

(fonte: Istat)
Per le straniere è peggio

Partecipazione
al mercato del lavoro

1. Tasso di occupazione più
elevato delle italiane (nel 2010 pari a 50,9% vs. 45,7%) ma:

• maggiore diminuzione con la crisi (in due anni
–1,9% punti) inferiore nelle regioni del Nord (49,5% vs. 57%);

• più basso in presenza di figli (42,7% vs.
50,6%) anche per mancanza di rete familiare oltre che per motivi culturali.

2. Forti differenze del tasso
di occupazione per comunità (superiore al 90% per le filippine e inferiore al
35% per albanesi e marocchine).

3. Tasso di disoccupazione più
elevato (nel 2010 13,3% vs. 9,3%).

4. Media primi 3 trimestri del
2011 il tasso di
occupazione scende di 0,5 punti, il tasso di disoccupazione sale di 0,2 punti.

Scarsa
la qualità del lavoro

1. Più della metà svolge un
lavoro non qualificato (58% vs. 9% delle italiane).

2. Il 40,1% svolge un lavoro
domestico presso
le famiglie (1,7% le italiane).

3. Oltre una straniera su due
svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a
quello posseduto (51,1% vs. 19,8%).

4. La concentrazione in lavori
poco qualificati comporta una bassa paga mensile: 788 euro vs. 1.131 euro delle
italiane.


Disoccupazione al femminile

In Italia il calo dell’occupazione è quasi esclusivamente
maschile.
[…] mentre per
l’occupazione femminile, dopo il calo del 2009, si osserva una crescita nel
2011 e nel 2012. Nel 2013, con l’aggravarsi del quadro recessivo anche per le
donne, si evidenzia una diminuzione dell’occupazione (-128 mila unità, pari a
-1,4% rispetto al 2012). Nel complesso dei cinque anni della crisi (2009-2013),
l’occupazione degli uomini si è ridotta del 6,9%, a fronte di un calo dello
0,1% per le donne.

Soltanto una parte dell’occupazione femminile ha
però tenuto con la crisi.
La quota di donne
occupate continua a essere molto bassa (il 46,5%), di 12,2 punti inferiore al
valore medio della Ue28. La sostanziale tenuta registrata in Italia è il
risultato di un insieme di fattori: il contributo delle occupate straniere,
aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013 a fronte di un calo delle
italiane di 370 mila unità (-4,3%), la crescita delle occupate con 50 anni e più
per l’innalzamento dell’età pensionabile e quella di coloro che si immettono nel
mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner.

Nella fascia di età tra 15 e 49 anni, il tasso di occupazione cala per tutte le donne, non
solo per le giovani che ancora vivono all’interno della famiglia e che sono
state maggiormente colpite dalla crisi, ma anche per le madri sole, quelle in
coppia con o senza figli e le single. Il tasso di occupazione delle madri è
pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia
senza figli. […]

Aumentano le donne breadwinner, ovvero crescono le famiglie con almeno una persona di
15-64 anni in cui è la donna ad essere l’unica occupata, specialmente tra le
madri in coppia. La crescita riguarda 591 mila famiglie (34,5% in più). Nel
Mezzogiorno al loro aumento si associa la riduzione delle famiglie sostenute
unicamente dal lavoro dell’uomo.

Peggiora la situazione di conciliazione dei tempi
di vita delle donne.
Cresce la quota di donne
occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto
(22,3% nel 2012 dal 18,4 nel 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al
29,8%. Aumenta anche la quota di donne con figli piccoli che lamentano le
difficoltà di conciliazione tra chi il lavoro lo mantiene (dal 38,6% al 42,7%).

Da: Istat, Rapporto annuale 2014,
pag. 85,

pubblicato il 28 maggio 2014

Tags: mateità, mamme, lavoro, carriera, discriminazione, impiego, servizi sociali, famiglia, società, disoccupazione, donne

Gabriella Mancini




Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima

Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo.  Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.

Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.

Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.

Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.

Della «Tepco», ovvero  del crollo del mito giapponese.

Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.

Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.

Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.

La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.

Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).

 

Le certezze di Shinzo Abe

Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.

Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.

A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».

Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.

Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.

Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.

La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.

Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.

Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.

Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.

È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.

Stili di vita insostenibili

«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.

Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.

Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.

E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.

«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.

Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».

La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.

 

Problemi e paure di chi è rimasto

Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».

Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».

Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».

L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.

 


Quel che resta del mare

Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.

Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.

Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.

Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.

Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.

Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.

 


Lontani da Fukushima

Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.

 


       Gli Eventi                           

  • 11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
  • Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
  • Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
  • Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
  • Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
  • 12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
  • 12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
  • 14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
  • settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
       PER APPROFONDIRE                     

• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.

       GLI AUTORI                        

Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.

Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.

Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.

Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.

Piergiorgio Pescali