Sventola Bandiera Nera

L’Islam e la guerra del Califfo.

Dietro lo «Stato
islamico» (IsIslamic State)

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Nessuna compassione per
gli «infedeli»

L’islamismo radicale
si sta diffondendo in molte regioni. Gli attori sono molti, ma oggi il
principale si chiama «Stato islamico» (Is). Guidato dal califfo
(autoproclamato) al-Baghdadi, l’Is si basa su alcuni concetti chiave: l’Islam è
la soluzione e l’Is ne è l’unico vero custode; i paesi occidentali, guidati da
miscredenti, sono responsabili dei problemi in Medio Oriente; i governanti
locali sono agenti cornoptati dall’Occidente. In queste pagine cercheremo di
capire perché e come nasce l’Is. Tra alleanze cangianti e propaganda mediatica,
le sorprese non mancano. 

Azioni di guerra, conquiste
territoriali, decapitazioni, esecuzioni, rapimenti, violenze di ogni genere.
L’islamismo radicale e conquistatore, si potrebbe dire «colonizzatore», si sta
diffondendo nel Maghreb, nell’Africa subsahariana e in ampie regioni
mediorientali, dalla Siria all’Iraq.

Il network di al-Qa‛ida (per comodità, d’ora in poi: al-Qaida) e le
sue nuove filiazioni, comprese le antagoniste (come vedremo), stanno diventando
un potentato, grazie alla conquista dei pozzi petroliferi in varie aree e alle
armi ricevute dai paesi occidentali (Stati Uniti, Europa) e sunniti (Turchia,
Qatar, Arabia Saudita).

In particolare, il 2014 è stato
segnato dalle gesta del gruppo che, lo scorso giugno, ha annunciato la nascita
dello «Stato islamico di Iraq e Siria»1 (Is, da Islamic State, come si legge anche in Dabiq,
la rivista in lingua inglese e grafica modea edita dall’organizzazione), e ha
invitato al-Qaida e altri gruppi a stipulare un’alleanza per una «nuova era di
jihad internazionale».

Quello attuale è un caso complesso
di fondamentalismo, nel quale si mescolano religione (nella sua visione più
oscurantista, arretrata e reazionaria), un uso sfrontato dei mezzi di
comunicazione di massa (video, internet, social network, riviste come il già
citato Dabiq), un ampio arsenale bellico, ingenti capitali provenienti
anche dall’accaparramento delle fonti petrolifere, rabbia e aggressività verso
l’Occidente invasore e «infedele» (kafir), odio settario contro le
minoranza religiose e etniche, e contro gli apostati (kuffar e murtadin)
musulmani (tutti coloro, cioè, che non condividono la linea politico-religiosa
dell’Is), lotte intee, vendette e orgoglio sunnita dopo anni di dominazione
sciita e alawita in Iraq e Siria, e altro ancora. Si tratta di un fenomeno
aggressivo, spettacolare fino alla teatralità più macabra che riscuote successo
sia nel mondo arabo-islamico sia in Occidente, in particolare tra le giovani
generazioni di immigrati musulmani.

Così, tra i jihadisti, troviamo:
benestanti e laureati (molti arrivano dall’Europa e dagli Usa); giovani
emarginati delle periferie urbane occidentali e arabe alla ricerca della
propria identità e dai progetti di integrazione falliti; poveri e disperati
delle città e villaggi del mondo arabo-islamico invaso dalle truppe americane;
oppressi da regimi dispotici locali o stranieri; notabili e membri di tribù
sunnite che vogliono vendicarsi dei loro vicini o di leader di altre fazioni
islamiche; ovviamente mercenari e larghe schiere di criminali e psicopatici. È
un «melting pot» trasversale a luoghi, censo e età, e catalizzatore di
sentimenti e aspirazioni contrastanti e differenti. Indubbiamente, ciò che li
contraddistingue è la rabbia e la ferocia con la quale si abbattono su città e
villaggi e su chi osa rifiutarli, e contro le minoranze etniche e religiose.

Il nuovo
fondamentalismo dell’Is

Questo fondamentalismo non è più
solo un luogo semantico in cui sono verbalizzate le differenze tra Occidente e
Oriente, tra «voi» e «noi», tra «infedeli» e «credenti». È una separazione
materiale, un’esclusione e eliminazione fisica della «differenza», dell’alterità,
nel nome di una credenza soggettiva di un’appartenenza a un gruppo religioso
ritenuto «eletto» e per tanto migliore e più fedele alla «Verità» rispetto a
tutti gli altri. È un’adesione a una linea di «parentela» religiosa stretta,
escludente e discriminante, che, attraverso un «patto» di fedeltà, crea una
sorta di «coscienza storica» di gruppo che include chi vi aderisce rispettando
alla lettera norme e vincoli, e elimina chiunque non vi si riconosca del tutto.

Tuttavia, il patto in sé può non
essere sufficiente. L’unità della «comunità» deve fondarsi su un insieme di
riferimenti identitari, nel caso dell’Is, politico-culturali e religiosi. Ne
risultano, così, un senso di appartenenza e un sentimento tanto potenti quanto
irrazionali, che creano razzismo e xenofobia verso tutti gli altri, ma che
foiscono al movimento un’identità e una coesione forti, dai caratteri
specifici: la religione è l’Islam (nella versione radicale e intollerante), la
lingua comune è l’arabo (lingua sacra, in quanto emanata dal Corano), il
territorio è lo Stato islamico di Iraq e Siria, ma con una velleità di Dar
al-Islam
(Casa dell’Islam, in contrapposizione al Dar al-Kuffar,
Casa della Miscredenza, cioè i territori non ancora islamizzati) in continua
espansione, e dunque in versione «colonizzatrice».

Il prodotto finale assomiglia,
quindi, più alla concezione modea di nazione, con tutto l’apparato coloniale
al seguito, che a un neocaliffato nello stile del vecchio Impero
arabo-islamico, dove alla conquista di immensi territori non corrispondeva
l’assimilazione forzata dei popoli vinti, bensì quella dei conquistatori alle
culture dei paesi conquistati.

Al confronto dei grandi Imperi
omayyade (661 – 750), abbaside (750 – 1258) e ottomano (1281 – 1923),
l’intollerante e escludente Is risulta velleitario nei suoi progetti. E,
soprattutto, poco musulmano, in senso tradizionale.

L’introduzione di fattori di
modeità è, infatti, evidente in alcuni suoi elementi: 1) la concezione dello
Stato-nazione fondato sull’origine comune e mitizzata di una «Medina, città
ideale» (in quanto è la città dove emigrarono nel 622 i primi musulmani,
perseguitati dai politeisti de La Mecca, e dove crearono la prima comunità di
fedeli, la ummah), stretta intorno al suo novello capo, Abu Bakr
al-Baghdadi che, nonostante non si sappia veramente chi sia, viene fatto
discendere dalla famiglia di Muhammad, attraverso il nome al-Qurashi (la tribù
cui apparteneva il profeta dell’Islam). 2) L’accaparramento e lo sfruttamento
delle risorse petrolifere dei territori conquistati, del denaro (transazioni
economiche di varia natura). 3) L’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Il
progetto di jihad (inteso come sforzo bellico, guerra) globale, infatti, è
ripreso nei social network, dove si spazia dal proselitismo al reclutamento di
combattenti, dall’incoraggiamento della lotta contro gli infedeli (dai non
musulmani fino ai musulmani sciiti, ai sunniti non allineati o ad altre
minoranze) fino alla lotta contro i «corrotti costumi occidentali» e alla
certezza che l’Europa sarà islamica, e così via2.

Ciò che a fine Ottocento nell’Islam
fu una ricerca religiosa riformista, di ritorno alla purezza delle origini, ai
fondamenti della fede (questo significa «fondamentalismo» e, in particolare, in
uno dei suoi aspetti che è il salafismo, da salaf, «pii antenati», cioè
i primi fedeli della neonata comunità musulmana), anche in reazione al
colonialismo occidentale, è stata trasformata in una ideologia
politico-religiosa con tre direttrici differenti: 1) la quietista, quella dei
puristi, dedita più che altro alle opere caritatevoli e alla missione (da’wa)
catechistica; 2) l’Islam militante che mira a ristabilire il «califfato», senza
l’uso della violenza ma attraverso il cambiamento pacifico dei governi (come
avvenuto con la Fratellanza musulmana); 3) il salafismo jihadista, o
neosalafismo, che ha l’obiettivo di ricreare il califfato attraverso il jihad,
inteso come guerra e violenza. È quest’ultimo il caso del network di
al-Qaida nelle sue varie sigle e filiazioni sparse tra Africa e Asia, e del
figlio ribelle, l’Is, ovvero il Califfato islamico di Siria e Iraq.

Quest’ultimo gruppo, in
particolare, è considerato dall’Islam ortodosso una deviazione dal «giusto
sentirnero», dalla tradizione profetica, in quanto, come abbiamo visto, introduce
notevoli elementi di modeità, rifacendosi a un Islam wahhabita (secolo
XVIII), considerato una sorta di deriva politico-religiosa.

 

Nascita e diffusione
del wahhabismo

«Non si può capire l’Is se non si
conosce la storia del wahhabismo in Arabia Saudita»: è il titolo di
un’interessante analisi di Alastair Crooke3. L’autore, un ex agente dei
servizi segreti britannici, spiega come l’attuale Stato islamico di Iraq e
Siria prenda origine dal pensiero di Mohammad ibn Abd al-Wahhab, studioso e
riformatore arabo vissuto tra il 1703 e il 1792, legato, a sua volta, alla
dottrina predicata da Ibn Taymiyyah (1263-1328).

Abd al-Wahhab, così come Taymiyyah
prima di lui, era convinto che la società musulmana dovesse rifarsi al periodo
trascorso dal profeta Muhammad a Medina, i cosiddetti «Tempi d’oro»: questa è
la base della corrente del salafismo.

Taymiyyah condannò sciismo, sufismo
e filosofia greca e si dichiarò contrario alle visite alla tomba del profeta e
alla commemorazione del suo compleanno, definendo tali comportamenti come shirk,
politeismo e idolatria, una imitazione, cioè, della venerazione cristiana di
Gesù considerato come figlio di Dio.

Abd al-Wahhab adottò questi
insegnamenti, affermando che «qualunque dubbio o esitazione da parte dei
credenti», rispetto a questa sua personale interpretazione dell’Islam, dovesse «privare
un uomo dell’immunità, delle sue proprietà e della sua vita».

Uno dei principali precetti della
dottrina di Abd al-Wahhab, ci ricorda Crooke, è l’idea cardine di takfir.
«Abd al-Wahhab denunciava tutti i musulmani che onoravano i defunti, i santi o
gli angeli. Riteneva che tali sentimenti sminuissero la completa sottomissione
nei confronti dell’unico Dio. Esigeva conformismo, che doveva essere dimostrato
in modo fisico e tangibile. Sosteneva che tutti i musulmani dovessero
individualmente giurare fedeltà a un unico leader musulmano (un Califfo, se ce
n’era uno). Egli scrisse: “Coloro che non si adegueranno a questi precetti
dovranno essere uccisi, le loro mogli e figlie stuprate e i loro possedimenti
confiscati”». Ed è ciò che affermano e praticano i membri dell’Is e le altre
bande di al-Qaida.

Tra gli apostati degni di morte
c’erano (e ci sono ancora oggi) sciiti, sufi e altre scuole islamiche, che i
wahhabiti non ritengono musulmani».

L’alleanza tra Abd al-Wahhab e Ibn
Saud (fondatore e primo sovrano dell’Arabia Saudita) e la sua tribù, nel 1741,
portò il wahhabismo al potere. «Il clan di Ibn Saud – afferma Crooke -,
riprendendo la dottrina di Abd al-Wahhab, poteva fare quello che aveva sempre
fatto, cioè razziare i villaggi vicini e impossessarsi dei loro beni. Solo che
ora lo stava facendo non più nell’ambito della tradizione araba, ma sotto la
bandiera del jihad. Ibn Saud e Abd al-Wahhab introdussero nuovamente l’idea del
martirio nel nome del jihad, garantendo ai martiri immediato accesso in
Paradiso.

All’inizio, conquistarono poche
comunità locali e imposero le loro leggi. I popoli sottomessi non avevano molta
scelta: la conversione al wahhabismo o la morte. (…) La loro strategia – come
quella dell’Is oggi – consisteva nel sottomettere i popoli conquistati, mirando
a instillare il terrore».

Risulta dunque abbastanza evidente
che non ci sono grandi differenze tra wahhabismo e ideologia dell’Is se non
quando emerge l’istituzionalizzazione della dottrina di Muhammad ibn Abd
al-Wahhab: «una regola, una autorità, una moschea».

«Questi tre pilastri fanno
esplicito riferimento al re saudita, autorità assoluta del wahhabismo ufficiale
e al suo controllo “della parola” (cioè, la moschea).

La negazione da parte dell’Is di
questi tre capisaldi, sui quali l’intera autorità sunnita poggia tuttora, è la
frattura che rende l’Is – gruppo che sotto ogni altro aspetto rispetta e si
conforma al wahhabismo – una minaccia per l’Arabia Saudita».

 

Gli interessi
divergenti di Arabia Saudita e Stato islamico

Chi ha familiarità con questa parte
di storia del mondo arabo-islamico non ha difficoltà a comprendere il legame
tra gli eventi del passato e le gesta dell’Is nell’Iraq odierno. Dopo un
periodo di eclissi, il wahhabismo toò a imporsi con il crollo dell’impero
ottomano, durante la prima guerra mondiale.

Spiega Crooke: «Gli Ikhwan4 erano la reincarnazione di quel
movimento feroce e semi-indipendente, dei “moralisti” wahhabiti, armati, che
quasi erano riusciti a conquistare l’Arabia nei primi anni del XIX secolo. (…)
Il wahhabismo subì una trasformazione forzata da movimento di rivoluzione
jihadista e di purificazione teologica takfiri a movimento di
conservazione sociale, politica, teologica e da’wa religiosa
(proselitismo islamico) e per giustificare l’istituzione che sosteneva la lealtà
alla famiglia reale saudita e al potere assoluto del re».

Con l’era del petrolio e dei suoi
enormi proventi, i sauditi cominciarono a diffondere e divulgare il wahhabismo
all’interno del mondo musulmano, a «wahhabizzare» l’Islam, creando una
religione a parte, chiusa e unificata in un’unica visione non più pluralista.

Aggiunge Crooke: «Miliardi di
dollari furono investiti – e lo sono tuttora – in questa manifestazione di soft
power
. Tutto ciò, unito alla volontà saudita di orientare l’Islam sunnita
secondo gli interessi americani (…) creò una politica occidentale di dipendenza
dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura dall’incontro di Abd-al Aziz con
Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di ritorno dalla
Conferenza di Yalta) fino ad oggi».

L’Is è wahhabita, ma con un
radicalismo diverso. Vari studiosi ritengono che potrebbe essere definito come
un movimento neo-wahhabista o una sorta di «correzione» del wahhabismo.

«L’Is – scrive Crooke – è un
movimento “post-Medina”: si rifà alle pratiche dei primi due califfi, piuttosto
che al profeta Muhammad in persona, come fonte di emulazione, e nega fermamente
l’autorità saudita. Mentre la monarchia saudita fioriva nell’era del petrolio
come istituzione sempre più vasta, l’interesse verso il messaggio Ikhwan
guadagnò terreno (a dispetto della campagna di modeizzazione di Re Faisal).
L’approccio Ikhwan ha goduto – e gode tuttora – del sostegno di molti uomini,
donne e sceicchi di spicco. Da un certo punto di vista Osama bin Laden
incarnava perfettamente l’approccio Ikhwan nella sua tarda fioritura.

(…) Nella collaborazione alla
gestione della regione da parte dei Sauditi e dell’Occidente, all’inseguimento
dei tanti progetti occidentali (la lotta al socialismo, al ba’athismo, al
nasserismo, al sovietismo e all’influenza iraniana), i politici occidentali
hanno sostenuto la loro interpretazione preferita dell’Arabia Saudita (la
ricchezza, la modeizzazione e l’influenza), scegliendo tuttavia d’ignorae
l’impulso wahhabita».

Il radicalismo islamico era
considerato dai servizi segreti statunitensi come un utile strumento (useful
asset
)5 per destabilizzare e sconfiggere
l’Urss in Afghanistan e, negli anni delle «Primavere arabe»6, è stato usato per abbattere
regimi arabi che ormai non erano più sostenibili o utili.

Si chiede dunque Crooke, e con lui
molti altri analisti e studiosi di geopolitica del Medio Oriente: «Perché
dovremmo essere sorpresi se dal mandato saudita-occidentale del principe Bandar
di gestire l’insorgenza siriana contro il presidente Assad sia poi emerso un
tipo movimento d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso come l’Is? E
perché mai dovremmo stupirci – conoscendo un po’ il wahhabismo – se i rivoltosi
“moderati” siriani sono diventati più rari del mitico unicorno? Perché avremmo
dovuto immaginare che il wahhabismo radicale avrebbe generato dei moderati?».

Si tratta certamente di un calcolo
che gli strateghi statunitensi avranno fatto, machiavellicamente, scegliendo
nuovamente un utile strumento per giustificare un’altra fase dello «scontro di
civiltà».

 

Coltelli e cellulari
satellitari: il Medioevo tecnologico dello Stato islamico

«Arriveremo fino a voi, invaderemo
l’Europa e distruggeremo l’America, renderemo schiave le vostre donne e orfani
i vostri figli come voi avete fatto con noi», così dichiara, quasi piangendo,
un combattente nel video sull’Is prodotto dall’agenzia Vice News nell’estate
del 20147. È un interessante, e inquietante,
servizio giornalistico embedded sul «Califfato islamico di Iraq e Siria»,
che spiega abbastanza chiaramente su quali punti si basino la propaganda e le
azioni delle bande islamiste: rabbia anti occidentale e orgoglio ferito dalle
politiche neocoloniali di Stati Uniti ed Europa, e uso strumentale della
religione come arma di vendetta, riscatto e conquista o «riconquista» dei territori
un tempo appartenenti agli Imperi omayyade (con capitale Damasco) e abbaside
(con capitale Baghdad) – da cui fanno derivare il nome di Califfato di Siria e
Iraq.

Le parole piene di collera e
rancore dell’uomo nel video ci rimandano immediatamente a 20 anni di guerra
contro l’Iraq da parte di Stati Uniti e alleati, alle vergognose immagini di
Abu Ghreib (il carcere statunitense nei pressi di Baghdad, dove i detenuti –
tra cui molti innocenti – venivano torturati e umiliati) o a quelle di
Guantanamo, o alle tante donne, anche bambine, stuprate dalla soldataglia delle
truppe di invasione.

Migliaia e migliaia di morti,
feriti e immane distruzione per portare la «civiltà occidentale» in Medio
Oriente, o meglio, per controllae le fonti petrolifere.

Da tutto ciò deriva una rabbia
immensa, un combustibile pronto a essere utilizzato alla prima occasione.
Occasione colta dall’abile califfo Abu Bakr al-Baghdadi.

Nella rivista online Dabiq,
l’Is incita alla conquista del mondo islamico e alla guerra contro l’Occidente,
alla segregazione delle donne, alla violenza contro le minoranze religiose e
etniche, e i sunniti che non condividono il progetto di jihad.

La tecnologia è usata come mezzo
per espandere la colonizzazione dei territori e per fare proseliti. Si tratta,
come abbiamo accennato, di una islamizzazione della modeità, che crea una
sorta di paradosso: i cellulari satellitari convivono con i coltelli per
sgozzare i nemici; i social network con le donne costrette a nascondersi in
casa. L’età della pietra e il futuro mescolati insieme nel jihad globale
contro i kuffar di ogni fede, musulmani compresi, in un delirio di
onnipotenza.

In questo scenario, l’aspetto
religioso, sempre presente e molto potente, agisce da catalizzatore di elementi
pronti al martirio per liberare il mondo islamico, e magari anche l’Europa,
dagli infedeli (kuffar) e dagli apostati (rafid o murtad).
È un progetto di fitna, di separazione e zizzania nella grande ummah
islamica. Per l’Is il mondo non si riduce più a «musulmani» e «non credenti»
(cristiani, ebrei, buddisti, atei, ecc.), ma a «credenti veri» (loro) e «miscredenti»
(tutti gli altri, musulmani compresi).

Questo progetto di divisione è
portato avanti anche dal neocolonialismo statunitense: il «nuovo ordine
mondiale», rilanciato dall’amministrazione Obama che propone la divisione in
piccoli stati a base etnico-religiosa di gran parte del Medio Oriente8. È un’evoluzione successiva,
sempre in ambito coloniale, dei vecchi accordi anglo-francesi di Sykes-Picot
per la spartizione del mondo arabo e islamico (19 maggio 1916).

 

Da Camp Bucca alla
moschea di Mosul: la carriera del califfo al-Baghdadi

Dell’autoproclamato «Califfo dello
Stato islamico di Iraq e Siria», ovvero di Abu Bakr al-Baghdadi al-usayni
al-Qurashi, nato a Samarra, Iraq, nel 1971, si sa poco. Sembra esistano
pochissime foto (una fu scattata quando era prigioniero degli Stati Uniti nel
campo iracheno di Bucca), e la sua apparizione pubblica nota è quella che lo
ritrae in un video9 durante un sermone nella grande
moschea di Mosul, andato in onda in streaming, dove lancia l’appello
alla guerra contro gli infedeli. 

Ha fama di essere un violento e
tiene un «basso profilo», che accresce il mistero attorno a lui. Viene
descritto come il nuovo Osama bin Laden. Di lui si legge in vari documenti su
internet: «Secondo le registrazioni del dipartimento statunitense della difesa,
Abu Bakr al-Baghdadi è stato detenuto nel Camp Bucca come “inteato civile”
dalle forze iracheno-statunitensi dai primi del febbraio 2004 fino al 2009,
quando fu rimesso in libertà grazie all’indicazione di una commissione,
definita Combined Review and Release Board, che ne raccomandò il “rilascio
incondizionato”. (…)

Il 16 maggio 2010, ad appena un
anno dal rilascio, un comunicato del Consiglio consultivo dello Stato islamico
dell’Iraq annuncia la nomina a leader di al-Baghdadi al posto di Abu Omar
al-Baghdadi, ucciso il 18 aprile di quello stesso anno in un’operazione
congiunta delle forze irachene e statunitensi. Dall’ottobre 2011 figura tra i
tre terroristi maggiormente ricercati dal governo statunitense, che ha offerto
per la sua cattura una taglia di 10 milioni di dollari, inferiore solo alla
taglia posta su Ayman al-Zawahiri, di 25 milioni di dollari».

È lecito, dunque, porsi
interrogativi su questo individuo e sulla sua organizzazione. Esistono foto che
lo ritraggono insieme a John McCain, senatore Usa, e a altri leader dei ribelli
dell’opposizione siriana (tra cui noti personaggi di al-Qaida), in una riunione
definita «segreta», nel 2013.

Secondo un’altra teoria, che
circola dal luglio del 2014, e che viene fatta risalire a rivelazioni di Edward
Snowden, al-Baghdadi sarebbe un agente del Mossad, il cui vero nome sarebbe
Shimon Elliot10.

Tra tutte queste informazioni
contraddittorie, l’unico dato certo è che è riuscito a catalizzare il consenso
di migliaia (milioni?) di sunniti tra Iraq, Siria, mondo arabo-islamico e
Occidente, e che le sue bande ammazzano con una crudeltà assoluta.

 

Il califfato nella
tradizione islamica

Il ruolo arrogatosi da al-Baghdadi,
che nel già citato video del sermone alla grande moschea di Mosul appare
vestito di nero e con il turbante, a indicare il legame con la tradizione del
califfato, rappresenta un’importante istituzione nella storia della civiltà
islamica. Secondo la tradizione, nella figura del califfo (khalîfa, «vicario»)
convergono le funzioni di comando/conduzione dello «stato» (imâra) e
quella religiosa «sacerdotale» (imâma). «Stato» e «Chiesa», «secolare» e
«religioso», in arabo: dunya wa din. Per espletare tale compito egli
deve possedere caratteristiche specifiche.

Nel trattato «al-Ahkâm al-sultâniyya»
(Le leggi del governo/governance islamico)11, Abu al-Hasan Ali ibn Muhammad ibn
Habib al-Basri al-Mawardi, noto giurista musulmano vissuto nell’anno Mille, in
Iraq, traccia un elenco di doti necessarie al califfo, tra cui: 1) giustizia;
2) sapere e conoscenza dell’arte di governare; 3) sanità di corpo e mente; 4)
capacità di governare e agire per il bene collettivo (e non per i propri
interessi, della propria famiglia, clan o gruppo); 5) coraggio nel tutelare e
proteggere il proprio paese, e condurre l’eventuale jihad contro il nemico o
chi attenti all’incolumità del watan (territorio, paese) o della ummah
(comunità); 6) discendenza dai Banu Quraysh (il clan cui apparteneva il profeta
Muhammad).

Nonostante il suo successo presso
certi ambienti musulmani, al-Baghdadi non sembra proprio possedere alcuna di
queste caratteristiche, anzi, le sue azioni criminali contro i «deboli» e le
minoranze, da sempre protette nella tradizione islamica, lo collocherebbero
fuori dalla via ortodossa. E ricorderebbero più un dajjal (mentitore,
impostore) che un khalifa. È in questa ottica, forse, che oltre 126 tra
teologi, mufti e dottori in scienze
islamiche di tutto il mondo hanno scritto una lettera aperta a al-Baghdadi
accusando lui di essersi autoproclamato califfo, il suo movimento di pratiche
che «non hanno nulla a che vedere con l’Islam», e entrambi di «atroci crimini
di guerra e violazione dei principi fondamentali dell’Islam, di uso ignorante
delle scritture islamiche separate dal loro contesto, di perversione delle
regole morali e della shari’a (la legge islamica).

Le colpe dell’Occidente: ieri finanziati, oggi terroristi

Nonostante l’Islam predicato da
questi gruppi violenti e intolleranti si ponga al di fuori della tradizione
ortodossa islamica, al-Baghdadi, attrae migliaia di persone in tutto in mondo.
Dalla stessa Europa in questi anni sono partiti centinaia di ragazzi musulmani,
tra immigrati e convertiti, per fare il «jihad» contro la Libia di Gheddafi e
poi contro la Siria di Assad.

Non è stato difficile, fino ad ora,
trovare su internet e nei social network commenti e post di giovani e adulti
che sostenevano le operazioni belliche contro questi paesi, e che, incoraggiati
da predicatori via Tv e web, si dicevano pronti a partire per la «guerra santa»
contro il nemico di tuo. 

Fino all’inizio del 2014, non c’era
quasi nessun quotidiano o Tg che fosse disposto a fare reportage sulle stragi
delle organizzazioni jihadiste anti-Assad, in Siria, in quanto ai tempi esse
lavoravano in collaborazione con la coalizione occidentale e araba.

È solo recentemente, con
l’occupazione da parte delle truppe di al-Baghdadi di vaste porzione dei
territori siriani e iracheni, che l’ex alleato è diventato il «nemico n. 1»
dell’Occidente e dell’umanità intera.

Come scrive Ghassan Michel Rubeiz
in The Arab daily news12, «la radice-causa del sistema di terrore in Medio
Oriente è difficile da sradicare. La causa è alimentata dalle rivalità tra
sunniti e sciiti, dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle dinastie
dispotiche, dalle umiliazioni politiche e dalle interferenze straniere negli
affari locali. Il sistema di credenza dell’Is si basa su tre idee: l’Islam è la
soluzione; l’Occidente è responsabile per la maggior parte di ciò che va storto
in Medio Oriente; i governanti locali sono agenti cornoptati dall’Occidente».

In un video, l’ex segretario di
stato Usa Hillary Clinton afferma che al Qa’ida fu creata dalla Cia: «La gente
con cui combattiamo oggi l’abbiamo finanziata 20 anni fa»13.

Analogamente, alla domanda se non
fossero dispiaciuti di aver sostenuto il fondamentalismo islamico  e i futuri terroristi con armamenti e
addestramento, Zbigniew Brzezinski ha risposto: «Cos’è stato più importante per
la storia del mondo? I Taliban o il collasso dell’impero sovietico? Alcuni
musulmani agitati o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra
fredda?»14.

Secondo l’economista e storico
canadese, Michel Chossudovsky15, ci sono prove della cornoptazione del fondamentalismo
islamico nel progetto di «nuovo ordine mondiale», rilanciato
dall’amministrazione Usa durante il discorso del Cairo, il 4 giugno del 200916.

Alla fine del 2010 cominciarono i
preparativi per far sì che la religione islamica diventasse uno strumento della
politica estera degli Stati Uniti, attraverso la manipolazione di partiti e
movimenti musulmani.

Per raggiungere tale obiettivo, nel
2011 fu ripresa l’alleanza statunitense con i gruppi deviati di militanti che
affermavano di lottare sotto la bandiera dell’Islam. L’alleanza si esplicitò
nella guerra contro Gheddafi in Libia e poi contro Assad in Siria17.

Dal 2001 in poi, gli Usa e i loro
alleati avevano condotto guerre limitate a qualche territorio islamico: Afghanistan,
Iraq, Somalia. Oggi siamo al conflitto globale e simultaneo contro diversi
stati.

Si tratta della terza fase dello
scontro di civiltà con il mondo islamico: la prima iniziò nella seconda metà
degli anni ‘90 del secolo scorso, con la creazione del progetto del nuovo
ordine mondiale-nuovo Medio Oriente, che passò attraverso la tragedia delle
Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, e le sopracitate guerre. Poi ci fu la
seconda fase, quella avviata con il discorso di Obama al Cairo, A New
Beginning
(Un nuovo inizio)18, quando, con una retorica forbita e colta, affascinò e
sedusse il mondo islamico, in particolare quello legato alla Fratellanza
islamica, e diede il via alle Primavere arabe, rivolte popolari infiltrate e
pilotate dall’esterno.

La terza fase ha come sfondo il
collasso e la trasformazione delle Primavere in colpi di stato (Egitto),
tentativi di golpe e guerra civile (Siria), instabilità in Tunisia, guerra in
Yemen, repressioni governative in Bahrayn, Qatar e Arabia Saudita, la creazione
del Califfato Islamico di al-Baghdadi  in
Iraq e Siria e la dichiarazione di guerra degli Usa al «terrorismo islamico»,
che vede impegnati diversi stati arabi, tra cui le petromonarchie del Golfo e
la Turchia.

 

Le mosse e gli
obiettivi

Enrico Galoppini, storico del mondo
arabo-islamico, scrive19: «La fase finale della guerra dell’Occidente contro
l’Islam è finalmente cominciata. Tanto più che quest’ultimo s’è dotato d’un “medievale”
e terrificante “Califfato”.

Da quando è stato proclamato un
improbabile califfato a cavallo della Siria orientale e dell’Iraq
centro-settentrionale, l’Islam è tornato prepotentemente nelle case degli
occidentali, sottoposti a dosi da cavallo di messaggi sensazionalistici e
allarmistici capaci di provocare sconcerto e preoccupazione persino tra gli
stessi musulmani. Ma prima di giungere a tanto, serviva la cosiddetta “Primavera
araba”, il cui obiettivo principale è stato l’eliminazione dei “regimi arabi
moderati” che almeno ufficialmente l’Occidente sosteneva da anni contro gli “estremisti”
(…).

Tutto però è cominciato con
l’azione terroristica in territorio americano attribuita alla fantomatica
al-Qaida. (…) A garantirci dall’orda famelica dell’Islam guerrigliero e
spietato sussistevano i “regimi arabi moderati”, i quali, dal 2011, dopo il
celebre discorso di Obama al Cairo (giugno 2009) nel quale, astutamente, “tendeva
la mano all’Islam”, sono stati rovesciati con le note tecniche di sovversione
dall’interno denominate “Primavera araba”, altrove note come “rivoluzioni
colorate”. Quando non bastava l’azione di prezzolati del posto, perlopiù tratti
dai ranghi del cosiddetto “Islam politico” preceduti da sinceri ma sprovveduti “liberali”
(oltre alla solita teppaglia che si trova sempre), l’Occidente interveniva col
classico apparato di cannoniere e bombardieri (si veda il caso libico).

Ad una prima fase islamofobica
dominata dalla figura di Osama bin Laden, del suo vice al-Zawahiri e degli
altri luogotenenti (tipo al-Zarqawi), con tutto il corredo di “attentati terroristici”
(Londra, Madrid ecc.) e teste mozzate cui facevano da contraltare le sparate da
cowboy di Bush, le tute arancioni di Guantanamo e le torture di Abu Ghraib, ha
fatto seguito la “fase della speranza”, col pubblico occidentale illuso sulle
magnifiche sorti e progressive alle quali avrebbero aspirato le masse arabe e
islamiche desideranti la “democrazia”. Una “democrazia islamica” sotto
l’insegna dei Fratelli musulmani e delle varie sigle ad essi riconducibili che
qua e là hanno preso il potere.

L’apice di questa seconda fase
nella quale anche i peggiori tagliagole diventavano araldi della libertà ha
coinciso con la prima parte della cosiddetta “rivolta siriana”, che – pur
inscrivendosi nella “Primavera araba” – ha posto in inevitabile risalto, data la
posizione strategica della Siria, la portata strategica di un’operazione mirata
al rovesciamento del regime di Damasco.

(…) Ad un certo punto, però, col
rovesciamento del presidente egiziano tratto dai ranghi della Fratellanza
musulmana, Muhammad Morsi, qualcosa nel dispositivo sovversivo innescato dagli
occidentali s’è inceppato. La “rivolta siriana” è entrata in crisi, così come
s’è incrinato il meccanismo sin lì tetragono della propaganda unilaterale
occidentalista, anche se, a dire il vero, le voci discordanti rispetto al mainstream
vertevano soprattutto sul “massacro dei cristiani” da parte dei fanatici
islamici delle formazioni “jihadiste”; il che prefigurava la piega da “Nuova
crociata” che finalmente s’è manifestata con l’emergere di quest’inedito “Califfato”.

Con la Libia consegnata alle bande
fondamentaliste ed enormi bacini petroliferi di Siria ed Iraq in mano ai
seguaci del “califfo”, il volto più terrificante dell’Islam può finalmente
entrare nelle case degli italiani e degli altri sudditi dell’Occidente.

Ed è questa la fase numero tre del
progetto che punta a destabilizzare definitivamente tutto il Mediterraneo ed il
Vicino Oriente, con la non troppo remota possibilità di vedersi coinvolti
militarmente in una guerra.

Da un punto di vista propagandistico,
il terrore islamofobico che questa nuova fase è in grado di suscitare negli
animi di persone ingenue, manipolate e conquistate ai “valori occidentali” è
senz’altro più elevato di quello della prima fase con Bin Laden e soci a “bucare
lo schermo”.

(…) Il temibile “Califfato”, coi
suoi alleati posizionati sulla costa libica, novelli saraceni, sta lì a
minacciarci col suo “Medio Evo”; pertanto, se si vuol salvare la “modeità”
con tutti i suoi “valori”, non è più possibile sottrarsi al richiamo alle armi
dell’Occidente a guida anglo-sionista.

Frotte di “migranti” tra i quali
potrebbero nascondersi dei “terroristi” vengono rovesciate sulle nostre
indifese coste, mentre tra i figli della cosiddetta “seconda generazione”
spopola il richiamo alla “guerra santa”. Da qualche parte, nel Levante, c’è un “Califfo”
che vagheggia di conquistare Roma, mentre “i cristiani” e le minoranze
subiscono massacri, e poco importa ai fini propagandistici se musulmani di
vedute diverse da quelle dell’Is sono sottoposti a medesimo trattamento. Questo
è quanto trasuda da giornali e tg, che in due minuti frullano tutto in un
cocktail terrificante al termine del quale il malcapitato ed impreparato
spettatore non potrà che augurarsi una selva di bombe atomiche sull’intero
Medioriente».

 

Le contromosse di
al-Qaida

È notizia del settembre 2014
l’apertura di una «filiale» di al-Qaida in India: «al-Qaida in the Indian
Subcontinent» (Aqis) da parte di Ayman al-Zawahiri.

In un lungo video postato in
internet, al-Zawahiri20, che è subentrato nella direzione del gruppo terrorista
dopo la morte di Osama bin Laden, nel 2011, ha lanciato un appello a tutti i
musulmani indiani a «unirsi alla carovana del jihad», ribadendo la lealtà al
mullah Omar, capo dei Talibani afghani, e attaccando l’Is di al-Baghdadi per
aver osato sfidare l’egemonia internazionale dell’organizzazione-madre,
al-Qaida.

Aqis dovrà farsi «portatrice
standard del messaggio globale di Bin Laden per unire il mondo islamico nella
guerra contro il nemico e liberare le terre occupate e stabilire il califfato»,
afferma al-Zawahiri nel video. Un altro, dunque, che vuole stabilire il
califfato islamico, e in competizione con l’Is.

Siamo di fronte a una nuova fase
del fondamentalismo islamico violento: la lotta intestina tra gruppi e fazioni
rivali, tra jihadisti salafi e jihadisti takfiri. I primi, legati alla rete di
al-Qaida, hanno come obiettivo bellico l’Occidente miscredente. I secondi
lottano (anche) contro gli stessi musulmani – sciiti, alawiti e sunniti – che
non condividono la loro linea di pensiero e azione.

L’organizzazione di al-Qaida e l’Is
di al-Baghdadi, quindi, sono in conflitto tra di loro sul piano della
spartizione delle aree di influenza.

È in particolare in Siria che tale
situazione si manifesta in modo drammatico: l’alleanza del terrore tra i vari
gruppi che si oppongono al regime Assad è saltata proprio sulla decisione di
al-Baghdadi di creare un «califfato islamico» arrogandosi potere e territori
per sé e il suo gruppo e attaccando tutte le altre formazioni.

La Fratellanza musulmana, che nel
2011 è stata promotrice, insieme ad altri movimenti e gruppi e a vari paesi
occidentali, della rivolta contro il regime di Damasco, è stata messa da parte
e quasi estromessa dalla lotta proprio dalle fazioni qaediste con cui si era
alleata, subendo violenze e persecuzioni.

L’esito sono le guerre in corso in
Libia, Siria e Iraq, e i bombardamenti decisi a settembre dal presidente Barack
Obama contro il «terrorismo islamico», in parallelo alla decisione paradossale
dell’amministrazione Usa di continuare a finanziare le formazioni islamiche «moderate»,
ma sempre legate al-Qaida, nella consueta logica apparente del divide et
impera
o del «male minore».

La lotta di al-Qaida è bifronte:
contro l’Occidente miscredente e conquistatore e contro il figlio traditore,
l’Is che si sta accaparrando aree sempre più ampie di influenza (oltre a armi,
pozzi e rotte petrolifere) in Medio Oriente e Nordafrica, in un appeal
crescente tra le tribù arabe irachene, i giovani musulmani in Europa e in altri
continenti.

La sua presenza, dunque, in regioni
come India, Pakistan e Bangladesh, con mezzo miliardo di musulmani, potrebbe
garantirle di nuovo visibilità e potere. Insomma, la nuova formazione
terrorista, non promette nulla di buono, anzi, fa prevedere scenari di
destabilizzazione e caos ancora maggiori.

 

Un futuro di guerre e
terrorismo

A settembre del 2014, il segretario
di stato Usa, John Kerry, ha dichiarato: «Nella nostra campagna contro l’Is,
non ci lasceremo fermare dalla geografia e dai confini nazionali»21. Ridisegnare il Medio Oriente,
scavalcando il diritto internazionale, è uno degli obiettivi della nuova guerra
statunitense. Chiunque egli sia, il califfo al-Baghdadi, con le sue orde
brutali, è il rivale d’armi ideale per chi voglia destabilizzare il mondo e
accapparrarsi le fonti energetiche di Africa e Medio Oriente. Una nuova
stagione di conflitti si è aperta.•

Angela Lano




Scuola 1 – Dov’’è finita la penna rossa?

Italia / Breve viaggio nella nostra scuola


Senza scuola non c’è futuro.

Tutti parlano (giustamente) dell’importanza della scuola. Ma
che sta succedendo nella realtà? Perché in Italia tutti i soggetti coinvolti in
prima persona – gli insegnanti, i ragazzi, i genitori – si lamentano?

Ore
7,30 del mattino, suona la sveglia e Marco (nome di finzione), 8 anni, inizia
la sua nuova giornata. I ritmi sono serrati perché il tempo è sempre troppo
poco. A scuola ci si arriva rigorosamente in automobile, senza parcheggiare.
Una sosta in doppia fila e un bacio di corsa. Questa immagine non corrisponde a
quella (fasulla) del Mulino Bianco, ma è l’ordinarietà di quasi tutte le
famiglie italiane. Il tempo pieno della scuola primaria si dilata e, a fronte
delle multi-esigenze lavorative dei genitori, raggiunge le 10 ore quotidiane.
Il rientro a casa è alle 17, se va bene, oppure dopo le 19,00 se a riempire il
pomeriggio dei bambini è una delle tante attività di intrattenimento. Sebbene
il tempo pieno della scuola primaria rimanga una conquista fondamentale per
garantire ai genitori la possibilità di lavorare, questa dilatazione del
tempo-scuola crea stress e stanchezza nei bambini di oggi. Tutto il contrario
di ciò che accade nel film-documentario di Pascal Plisson, Vado a scuola,
in cui quattro diversi bambini in quattro paesi del mondo compiono
quotidianamente chilometri per poter accedere all’istruzione. Figure vere e
poetiche al tempo stesso che regalano agli spettatori il senso della fatica e
dell’educazione come forma di riscatto sociale. L’immagine di un cammino lungo,
ma pieno di significato.

Che
strada sta intraprendendo la scuola in Italia? I media ci raccontano di
un’istituzione con molti problemi. Tra i tanti, ricordiamo: i pochi
investimenti, i risultati insufficienti degli apprendimenti, la cospicua
burocratizzazione, le nuove direttive e
l’inclusione dei 760.000 studenti di cittadinanza non italiana con tutte
le varie conseguenze sulla gestione multiculturale.

Nel marasma tecnico e gestionale c’è un aspetto epocale
che necessita di una lente di ingrandimento: la scuola sembra essersi svuotata
di senso. Don Ermis Segatti, docente di Storia del cristianesimo e di Teologie
extraeuropee presso la Facoltà teologica di Torino, ritiene che la scuola abbia
perso la propria «appetibilità». «Il senso più profondo della scuola – spiega
Segatti – si accompagna al sacrificio. In una società che ha trasformato
l’istruzione in un fenomeno accessibile a tutti e ha reso “universalizzata” la
cultura, l’effetto di ricaduta si ha nel depotenziamento e nella perdita di
appetibilità della stessa. Il macroscopico errore pedagogico e culturale è
quello di chiedere alla scuola di riempire un sempre maggiore vuoto
esistenziale. Nasce in questo modo il mondo effimero dell’intrattenimento il ludus
mundi
tra le mura della scuola, che si veste così di quel fittizio da cui
andrebbe invece sgravata».

Entrare «dentro la scuola» e capie l’evoluzione e il
futuro che intende riprogettare, significa anche fare una disamina sulla nostra
società attuale. Con le parole di Virginio Pevato, 20 anni di esperienza come
docente e altrettanti come direttore di Scuola dell’infanzia: «La scuola
rispecchia una società in crisi di valori. Non ci sono pensieri  forti capaci di trasmettere sicurezza e i
modelli esportati  dai mass media sono
caratterizzati dall’apparire e non dall’essere. La famiglia, prima agenzia formativa,
ha mutato le sue caratteristiche assumendo contorni sempre più fragili: la
figura patea si è indebolita e le nuove forme di famiglia allargata hanno
potenziato un graduale disorientamento dei giovani. Ne consegue
un’inarrestabile perdita di credibilità nei valori dell’educazione».

In una sorta di liquefazione identitaria dei ruoli,
anche l’autorevolezza dei docenti è venuta meno, alla mercè di famiglie sempre
più pretenziose e al contempo deleganti. Ma come, e perché, si è giunti a
questo quadro antropologico? 

Se il sistema scolastico attuale rispecchia la nostra
società capitalista e fa dei nostri ragazzi tanti meri consumatori, come si può
mettere in campo una «rivoluzione» che miri a formare persone libere e
pensanti, come sosteneva Don Milani? 

Ricostruire il senso dell’istruzione in una società del «non
senso» appare un’impresa titanica, eppure c’è una schiera di professionisti
dell’educazione per cui vale ancora l’aforisma di Eleanor Roosevelt: «Il futuro
appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni». Per
rispondere a qualche domanda, siamo andati a incontrarli.

Gabriella Mancini

Un bambino, un insegnante,
un libro, una penna
possono cambiare il mondo. […]


Non mi importa di dovermi
sedere sul pavimento a scuola.


Tutto ciò che voglio è istruzione.
E non ho paura
di nessuno.

Malala Yousafzai, 16 anni, candidata


al Premio Nobel per la Pace 2013.

 

LE QUESTIONI

• Quale «educazione» sta trasmettendo la nostra scuola?
• Come si può tradurre in realtà la lezione di Don Milani e
formare persone libere e pensanti?
• Quando e perché la figura del docente è diventata meno
autorevole?
• Come mai in Italia non viene compresa l’enorme portata del
multiculturalismo e del plurilinguismo?
 

Gabriella Mancini




S2 – «Mio figlio… mai in quella classe!»

La scuola interculturale.


Sono 760 mila (su 9 milioni in totale) gli studenti non
italiani nelle nostre scuole. Una classe multietnica può offrire grandi
opportunità grazie agli stimoli derivanti dalle diversità culturali e alle
opportunità che produce un ambiente plurilinguistico. Occorre però saperlo
spiegare alle famiglie per evitare rifiuti quasi sempre immotivati.

«L’insegnamento in una prospettiva
interculturale richiede di assumere la diversità come paradigma dell’identità
stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze»,
così scrivevano nel 2007 il ministero dell’Istruzione e l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli stranieri. Partendo da questa riflessione e
considerando che, secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero
dell’Istruzione per l’anno scolastico 2011/2012, gli studenti stranieri
raggiungono la soglia di 755.939 (su un totale di 9 milioni), oggi in che
misura si sta lavorando sull’aspetto dell’inclusione interculturale?

Alcune notizie di cronaca ci
raccontano ancora di genitori che, davanti a una classe con un numero di
stranieri troppo elevato, ritirano i figli o chiedono il loro spostamento in
un’altra sezione.

I
nuovi italiani e la soglia del 30%

Per fare chiarezza sull’entità
della questione, chiediamo a Concetta Mascali, dirigente scolastico per il
secondo anno alla scuola primaria Michele Lessona di Torino, con un precedente
incarico come referente per l’intercultura presso l’Ufficio scolastico
regionale, di raccontarci la sua esperienza. L’Istituto Michele Lessona è
situato nella zona di Porta Palazzo, da sempre luogo di prima immigrazione del
capoluogo piemontese e bacino privilegiato di stranieri residenti. Oggi la
scuola primaria Michele Lessona accoglie allievi con provenienze da circa 30
paesi: Romania, Marocco, Cina, Africa Centrale, India, Sri Lanka, Filippine,
Albania, stati latinoamericani etc. «Recentemente una coppia di genitori, la
cui figlia è in classe con 14 stranieri, ha sollevato la problematica
chiedendone il trasferimento in un’altra sezione. In questi casi è fondamentale
motivare alla famiglia il lavoro svolto per la formazione delle classi che
avviene secondo criteri di equi-eterogeneità e non di nazionalità. In questo
senso manca ancora molta informazione e approfondimento: non ha più senso
parlare di “stranieri” quando il 60% degli studenti di provenienza non italiana
sono di seconda generazione e hanno frequentato asilo nido e scuola
dell’infanzia da noi, arrivando alla primaria con gli stessi prerequisiti degli
italiani. Questi allievi sono a tutti gli effetti concittadini italiani e non
rallentano affatto l’andamento didattico della classe, anzi ne rafforzano la
vivacità intellettiva grazie all’enorme potenziale del plurilinguismo. Quando
ci sono delle sacche di disagio nell’alfabetizzazione è verosimile che ne siano
accomunati sia gli studenti di origine italiana che quelli di altre nazionalità.
Se le informazioni vengono trasmesse in misura coerente e chiara alle famiglie,
spesso si trova un punto d’accordo e si diventa complici nel percorso educativo».

Ovviamente non è tutto rosa e fiori
e Concetta Mascali ci informa che le maggiori problematiche riguardano gli
ingressi degli studenti stranieri in corso d’anno. In tali occasioni, che si
verificano spesso nell’Istituto Lessona, occorrerebbe essere attrezzati con
corsi di italiano come seconda lingua, spesso impraticabili per mancanza di
risorse economiche e di personale docente. E per quanto riguarda l’attuazione
della famosa legge della Gelmini sul tetto del 30% di alunni stranieri in
classe, cosa è accaduto e sta accadendo dentro la scuola? «La legge del 30%
desta più paura di quanto dovrebbe. Questo strumento è indicativo ed esistono
linee guida e sfumature delle varie circolari che vanno calibrate e affidate al
buon senso del singolo circolo didattico. La circolare 2 spiega, per esempio,
che c’è differenza tra chi è nato in Italia e chi è appena arrivato e fa una
chiara distinzione tra chi appartiene a lingue neolatine o meno. Ciò che conta è
saper utilizzare gli strumenti al fine dell’integrazione e non dell’esclusione.
Parlare di stranieri induce in errore, abbiamo bisogno di parole nuove per
sfatare un immaginario collettivo che si nutre ancora della paura del diverso».

Disorientamento e disturbi

Reinventare un vocabolario che non
includa il termine «pregiudizio» è un compito arduo ma fattibile. Cresce il
numero degli insegnanti che, nonostante le poche risorse economiche, riescono a
gestire didatticamente e umanamente l’ accoglienza di studenti non italiani. A
pensarla come Concetta Mascali è anche la maestra Sabrina Ottaviano, 16 anni di
esperienza alla Scuola primaria Berta – succursale del Circolo didattico
Salgari – che ribadisce la ricchezza del plurilinguismo e della diversità
culturale. «Un bambino straniero che ha frequentato la scuola dell’infanzia da
noi, si pone nell’identica situazione di partenza di un nostro connazionale. I
problemi si verificano quando arriva uno scolaro “non parlante” e le risorse
economiche attuali non sono sufficienti a coprire le ore di alfabetizzazione
dello stesso. Di norma, però, questi sono casi sporadici e vengono gestiti con
una cura e un impegno estremi da parte di tutto il corpo docente».

Per cambiare gli stereotipi occorre
riformulare i messaggi mediatici. Non più stranieri e italiani ma compagni di
scuola. Insomma, bambini del 2013 con tutte le peculiarità che il vivere in
questa nostra «sclerotica» società comporta.

Chi sono, dunque, i nuovi bambini? «Nel
corso degli anni sono cambiate le situazioni familiari: sempre più separazioni
e famiglie allargate. Questo ha comportato un disorientamento del bambino,
obbligato ad adattarsi a più contesti familiari. È venuto così a mancare
quell’equilibrio che dotava l’allievo di una maggiore serenità. Va poi segnalata
una perdita di autorevolezza della figura patea che manca o risulta poco
incisiva, provocando disturbi comportamentali difficilmente gestibili. Per
quanto riguarda la didattica si avverte invece un peggioramento nella
comprensione del testo e un impoverimento lessicale dei bambini. Rispetto a
qualche anno fa, hanno più difficoltà nell’introiettare le esperienze e
nell’estearle, arricchendo i propri racconti. Sono più irriverenti di un
tempo ma anche creativamente spontanei e con un grande senso della complicità e
della giustizia».

Disturbi dell’attenzione e della
comprensione vanno sicuramente ricercati nella gestione del tempo-scuola. Ritmi
aziendalisti e non a misura di bambino. Per gli alunni, immersi in questo
proliferare di «rumore», dove rimane il tempo per il dialogo e per
l’arricchimento della persona?

La
psicoterapeuta Rosa Napolitano, specializzata in psicoterapia familiare e
sistemica e socia dell’associazione torinese «Il Melo», ha una sua opinione in
merito: «La capacità di espressione orale dei bambini passa attraverso
l’alfabetizzazione delle emozioni. I bambini di oggi non conoscono e non sanno
rapportarsi con i tempi vuoti della loro esistenza. Alfabetizzarli alle
emozioni, promuovendo percorsi laboratoriali nelle scuole, favorisce il loro
dialogo con sé stessi e con gli altri. Coinvolgere il bambino nella lettura
della sua emotività, significa farlo uscire dal racconto sterile su “quante
cose si sono fatte” e introdurlo nella sfera del suo io, fondamentale perché si
conosce e sappia instaurare un rapporto dialogico più autentico e profondo con
il mondo circostante».

Scuola e società :
l’insegnante di oggi è un perdente?

Per raccontare la scuola occorre
avee fatta esperienza, contestualizzata, introiettata, vissuta da
protagonisti e non solo da spettatori. Karim Metref, educatore, scrittore e
giornalista di origine algerina, ha insegnato educazione artistica in una
piccola comunità rurale dell’Algeria e ha successivamente sperimentato, come
formatore, la nostra scuola. Gli chiediamo uno spaccato su questi due mondi.

«Ho insegnato in Algeria per circa
10 anni, dal 1989 alla fine degli anni ’90. In quell’epoca il maestro era
abilitato quasi interamente all’educazione del figlio; la famiglia poneva una
fiducia completa in quella missione che non riguardava solo la trasmissione del
sapere ma anche la capacità di stare al mondo e di destreggiarsi abilmente
nelle relazioni e in società. Quando sono arrivato in Italia, tramite i
movimenti per la pace, mi sono specializzato come educatore e animatore
interculturale nelle scuole. Sotto l’accezione di “educazione alla pace” si
situano molti insegnamenti che vanno dal lavoro sull’ascolto, di se stessi e
degli altri intorno a noi, alle attività che educano a un atteggiamento più
cornoperativo e non competitivo, di dialogo e non di scontro. In questa veste
sono entrato nelle scuole italiane e ho avuto modo di osservare una realtà
complessa che rispecchia lo status della nostra società. Se, nelle zone rurali
dell’Algeria, il rapporto con le famiglie era delegante e rispettoso al tempo
stesso, qui si è assistito via via a uno scivolamento dei ruoli e una presa di
posizione delle famiglie nei confronti della scuola. Se il modello riproposto
dai media è quello dell’uomo vincente in quanto “abbiente”, è ovvio che
l’insegnante non può che perdere in partenza tutto il suo appeal. La
società dell’avere ha scalzato quella dell’essere e la scuola non è altro che
l’immagine riflessa di tutto ciò che esiste all’esterno. Sia in Italia che
nelle zone urbane dell’Algeria, la scuola è il simulacro della vita reale con
tutti i suoi meccanismi competitivi e discutibili, a partire dalle valutazioni
che si basano sul risultato finale e non tanto sul percorso fatto».

In Lettere dalla Kirghisia,
un libro di Silvano Agosti, si ritrae un prototipo di scuola ideale: palestra
di crescita dove non esiste il giudizio fine a se stesso ma la considerazione
dell’individuo sulla base della sua intelligenza (di qualsiasi genere essa
sia), della sua umanità, sensibilità e delle sue esperienze autentiche. Una
scuola senza etichette, delle persone e basta.

Quale scuola sogna Karim Metref per
il futuro? «La scuola deve essere di inclusione. “Di inclusione” vuol dire che
si sforza di includere tutti. Senza rinchiudere i figli degli stranieri in una
specie di ghetto detto della multi o dell’intercultura».

«La scuola è la scuola di tutti. Il
suo obiettivo primario deve essere educare la persona a stare nella società, a
migliorare il proprio livello culturale e sociale. Deve riprendere a giocare
quel ruolo di ascensore sociale per il quale è stata pensata. Per far ciò deve
dare di più a chi ha di meno e meno a chi ha di più. “Non c’è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” diceva Lorenzo Milani nella sua
Lettera ai giudici. Chi è socialmente svantaggiato deve essere
compensato dalla scuola. Chi ha difficoltà di apprendimento deve essere
aiutato. Questo aldilà delle origini o delle appartenenze culturali».

Gabriella Mancini


La scuola dell’Ufficio pastorale migranti, a Torino


A lezione da suor Lidia

Usciamo
dalle aule della scuola tradizionale per calarci in quelle particolari della
scuola di lingua italiana, per adulti di ogni nazionalità ed età, tenuta
dall’Ufficio pastorale migranti (Upm). Arriviamo alla sede di Torino nel cuore
della mattinata. La vitalità e il fermento caratterizzano questo luogo fuori
dall’ordinario, denso di un’atmosfera cosmopolita e piena di umanità. Da un
lato la scuola offre accoglienza agli immigrati e dall’altro si occupa di
insegnare l’italiano come strumento di integrazione nella società di arrivo.
L’istituto è suddiviso in tre sezioni e alterna gli insegnamenti al mattino e
al pomeriggio per tutti i giorni della settimana, considerando i pre-requisiti
dei singoli iscritti e formando così delle classi specifiche per ogni necessità.
Una volta alfabetizzati, gli allievi possono iscriversi nei Ctp (Centri
territoriali permanenti) per conseguire il diploma di scuola secondaria di
primo grado (licenza  media) e iniziare
percorsi di professionalizzazione. Secondo i dati statistici (Dossier 2012
Upm Arcidiocesi di Torino
), il totale degli iscritti era 1.031, di cui il
29% relativo ai richiedenti asilo. La provenienze maggiori riguardano l’Africa
settentrionale, quella sub-sahariana, l’America centrale/meridionale e l’Europa
Orientale .

 In questo
microcosmo incontriamo suor Lidia, responsabile della scuola di italiano. Suor
Lidia, sorella delle Figlie di Maria Ausiliatrice (conosciute come missionarie
salesiane), ha  vissuto 24 anni in
Tunisia, lavorando e insegnando in una scuola con 600 alunni musulmani. Nel
2010 è tornata in Italia e ha  iniziato
la sua missione all’interno dell’Upm. È una piccola-grande donna che, con fare
dolce e deciso al tempo stesso, ci regala qualche fotografia di ciò che accade
in questa scuola «altra»: «Qui, ogni anno la scuola cambia aspetto. Il bacino
di utenza è sempre diverso a seconda delle situazioni politiche delle
differenti nazionalità. In questo periodo abbiamo molti rifugiati dal Pakistan,
dall’Afghanistan e dalla Turchia. Rispetto agli anni passati, si avverte
inoltre una femminilizzazione dell’istruzione. Le dinamiche sono differenti da
quelle della scuola “classica”: attraverso l’insegnamento della lingua italiana
ci si prende cura della persona, la si orienta a livello pratico, cercando di aiutarla
a districarsi nelle tante difficoltà che comporta una nuova vita. Molti di loro
non hanno un’abitazione e passano la notte nei dormitori pubblici, arrivando
qui al mattino non solo per “apprendere”, ma anche per ricevere calore. Il
rapporto con gli insegnanti, che svolgono un servizio volontario, non rientra
nei canoni di quello istituzionale. I docenti si pongono con rispetto e spirito
di adattamento nei confronti degli studenti e questi ultimi riconoscono in loro
il senso dell’atto gratuito e ne sono profondamente grati. Si crea spesso una
rete di collaborazione e amicizia». In questa scuola «oltre la scuola», quanto
interviene la fede e la spiritualità nel processo di maturazione di ogni
singola persona? «Per i volontari credenti la spiritualità è la molla
fondamentale che rompe le barriere tra noi e gli altri. Per quelli laici
interviene invece spesso un senso di giustizia che li fa muovere in nome
dell’integrazione. Lo studio della lingua italiana diventa  strumento per imparare a rispettare le altre
culture e religioni. In questa palestra di vita, gli  studenti 
imparano in fretta che la loro libertà finisce dove inizia quella di un
altro e tutto ciò mette in atto un meccanismo di crescita profonda. Come
sosteneva Don Bosco, la prevenzione è alla base della nostra missione. Una
missione che passa dall’apprendimento ma mira all’integrità della persona, alla
trasmissione della fiducia, della condivisione e della reciprocità. La cura è
l’esatto opposto dell’indifferenza ed è quello che cerchiamo di trasmettere ai
nostri allievi, nel rispetto delle personali religioni di cui facilitiamo la
pratica indirizzandoli nei luoghi di culto giusti». 

Suor Lidia ci accompagna nelle aule dell’Ufficio
pastorale migranti. Lavagne e penne rosse non mancano, ma qui quello che fa la
differenza sono le storie di ogni persona, il cammino che c’è alle spalle di
ognuna di loro e il sogno che la fa andare avanti. In questo paradigma
inconsueto, gli insegnanti non impartiscono solo lezioni ma devono saper
vestire i panni degli educatori, degli amici e degli psicologi. In una sfida
che supera le barriere della nazionalità.

Gabriella Mancini
 

Gabriella Mancini




S3 – Fragili, spavaldi, irriverenti, creativi

A colloquio con presidi e insegnanti


Oggi la realtà
estea alla scuola è molto più distraente che in passato. Catturare
l’attenzione degli studenti è un’impresa difficile. A ciò vanno aggiunti
genitori troppo spesso presuntuosi e intolleranti nei confronti degli
insegnanti: «Il compito di mia figlia era da 8!».

Arriviamo al Liceo scientifico
Copeico sotto una pioggia incessante. Ad attenderci c’è il preside
dell’Istituto, Carmine Percuoco, al secondo anno di     mandato ma con 40 anni di esperienza come
docente di storia e filosofia e 25 anni di    
insegnamento allo stesso Liceo Copeico. Gli domandiamo una fotografia
del quadro sociale e didattico degli studenti e della scuola: «Se 20 anni fa
entrando in una classe si poteva pensare di ricevere attenzione da 2/3 degli
studenti, oggi gli interessati si riducono a 5 o 6. La realtà estea è molto
più distraente, ci sono tante cose interessanti da fare e da apprendere. La
scuola rimane, tuttavia, fondamentale. Stare in una classe, rapportarsi con un
gruppo di pari, vivere i processi legati all’istruzione sono condizioni uniche
che all’esterno non si possono imparare. Si osserva negli studenti di oggi un
impoverimento del linguaggio, un’incapacità di leggere ad alta voce e di
comprendere il testo. Mancano “abitudini” che, partendo dai primi anni
d’infanzia e dal substrato culturale e familiare di cui si è nutrito il
ragazzo, si trasformino in “attitudini”. Manca inoltre un’ alfabetizzazione
emotiva, cosa di cui gli studenti hanno un gran bisogno, ma che si scontra con
un limite storico di pregiudizio nei confronti di tutto ciò che riguarda la
psiche».

Spesso si parla di intercultura
nelle scuole primarie. Cosa accade invece negli anni delle superiori? «I primi
ragazzi che arrivavano dalla Romania avevano una resistenza e una caparbietà
incredibile che, nel giro di 2 anni, li aiutava a recuperare il gap linguistico
rispetto ai compagni. Dal punto di vista didattico alcuni studenti stranieri
sono più attrezzati ad affrontare la fatica, danno ancora un senso prioritario
all’educazione scolastica. Occorre smettere l’abito del pregiudizio, se non
addirittura del razzismo, e iniziare a vivere la diversità come risorsa non
solo a livello di istituzione scolastica ma di intero paese. In generale, si
avverte nella scuola la necessità di lavorare di più e meglio sull’aspetto
sintattico e ortografico, per far diventare «sangue e carne» le principali
conoscenze, affinché si trasformino in competenze».

Un triangolo scottante: genitori, figli, insegnanti

È diffusa su tutto il territorio
nazionale (ma in particolar modo al Nord) una certa presa di posizione dei
genitori nei confronti dei docenti. Più istruiti, più attenti e, a volte, più
presuntuosi, i nuovi genitori tollerano sempre meno il fallimento dei figli e
contestano l’autorevolezza dei docenti. Come interpretare tutto questo? «La
famiglia è cambiata in modo un po’ schizofrenico. I modelli culturali negli ultimi
30-40 anni hanno spostato le speranze di realizzazione dalla sfera della
persona a quella economica. In questo senso appare chiaro come la classe
docente, bistrattata economicamente, non possa più riscuotere grande
autorevolezza. Gli insegnanti     perdono
autostima oppure si rinchiudono in una torre d’avorio, si sentono emarginati e
ritengono misconosciuta la loro importanza. Per fortuna non è così per tutti.
Nonostante le politiche, gli enti locali e il susseguirsi dei ministri, c’è una
grossa pattuglia di docenti che porta avanti il suo lavoro con passione a
prescindere da tante disillusioni. I genitori vogliono una scuola severa e
autorevole… ma per i figli degli altri! Per ricostruire questi rapporti e
risanare la scuola ci vorrà tempo, onestà e voglia di fare».

Ma non solo gli insegnanti a
essere bistrattati: spesso i media ci riportano l’immagine di una schiera di
adolescenti indecifrabili, spaesati, demotivati, solo un riflesso delle vecchie
generazioni. Insomma, una incomprensibile touch generation. Eppure
proprio loro sono assetati di giustizia e di onestà intellettuale.

Non a caso, chi come Carmine
Percuoco ha tanti anni di esperienza e può confrontarli con altre generazioni,
così li ritrae: «Non si può dire che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli
di ieri: non lo sono né per capacità, né per moralità. Odiano l’ingiustizia e
quando trovano un adulto che sa lottare per una giusta causa, lo stimano e lo
apprezzano. Sono vulcanici e creativi, come nella nostra migliore tradizione
italica, e hanno molto da insegnare anche a livello comportamentale. I ragazzi
di oggi sono coerenti con gli adulti ma detestano l’ambiguità e la
schizofrenia. La scuola ha ancora tanto da ricostruire e il punto di partenza
deve essere la formazione dell’essere umano. Trasmettere agli allievi l’amore
per se stessi e il rispetto può essere la molla per iniziare un cammino ormai
necessario».

Alcune persone trasmettono
passione e umanità. Carmine Percuoco è una di quelle. Crede nella scuola, nei
ragazzi, nell’impagabilità di un mestiere che per tanti potrebbe sembrare in
via di estinzione ma che, per lui, mantiene ancora inalterata la sua funzione «etica»
e «morale».

Uno scenario mutato: da Edipo a Narciso

Spesso si sente affermare o si
legge sui giornali: «Una volta c’era la scuola e la famiglia». La frase va
indubbiamente riformulata: in un passato antropologicamente non troppo lontano
c’era una tipologia di scuola e di famiglia. Oggi, anno 2014, lo scenario è
diverso perché differenti sono gli attori che vivono e trasformano
quotidianamente la realtà sociale.

Pietropolli Charmet,
psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, individua le ragioni profonde
delle differenze rispetto al passato, facendo principalmente riferimento al
cambiamento «a monte», quello relativo alla famiglia d’origine, che ha
introdotto nuove figure genitoriali e ha modificato le relazioni tra i suoi
componenti, dando vita al tramonto di Edipo e alla nascita sociale di Narciso.
Nel suo libro Fragile e spavaldo si delinea la personalità dell’adolescente
di oggi. Malato di fragilità narcisistica, spavaldo e irriverente, il nuovo
adolescente dimostra una creatività e alcune doti inaspettate.  Quanto viene avvertito questo cambiamento
dagli insegnanti e come si strutturano i nuovi rapporti con le famiglie? «Negli
ultimi 40 anni la famiglia normativa si è trasformata in affettiva. Se al
centro della vecchia famiglia c’era Edipo, ora c’è Narciso. Il vecchio
adolescente andava educato con norme e valori, oggi sono cambiati i giochi: il
ragazzo è un cucciolo d’oro, un animale sociale e simbolico che negozia le
regole in famiglia. La saldatura tra casa e scuola è saltata e va ricostruita.
La scuola è rimasta ottocentesca ed edipica, ma ragazzi e i genitori si sono
trasformati in Narcisi. La frase classica dei genitori è: “Il professore ha
dato 4 a mia figlia ma io la conosco bene e so che vale 8…”. I nuovi genitori
sono disorientati tanto quanto lo sono gli insegnanti e vanno educati.
L’importante non è il brutto voto, ma è il fatto che la valutazione non diventi
un giudizio sulla persona e su questo andrebbero cambiate tante cose nella
scuola».

A raccontarci con lente sociale e
psicologica l’oggi della scuola e dei rapporti scuola-famiglia è Fabio Fiore,
insegnante di storia e filosofia al Liceo Statale Newton di Chivasso con una
ventennale esperienza di docenza e un dottorato su tematiche affini alla
perdita di autorevolezza degli insegnanti. Fabio Fiore, che da oltre 15 anni
lavora sulla crisi della scuola, ci introduce tra i banchi esaminando cause e meccanismi
di una trasformazione così profonda. «Un tempo c’era unione tra valori
domestici ed estei. Il maestro aveva sempre ragione, oggi ha sempre torto a
prescindere da qualsiasi cosa faccia. Si confronta con una schiera di genitori
invasivi che non ha timore di chiedere chiarimenti sul figlio fermandolo per
strada o telefonando. Il genitore sa tutto sulle tonalità emotive più recondite
del figlio; quello che teme di più è la fallibilità del ragazzo e quello che
desidera sopra ogni cosa è la sua felicità».

Sconfiggere l’insensibilità della politica

L’etnologo francese Marc Augè ci
ricorda che esistono luoghi e non luoghi. La scuola è indubbiamente un luogo e,
seppur con tutte le contraddizioni degli ultimi anni, mantiene inalterato il
suo valore aggregativo.

Antonella Sergi, insegnante
ultraventennale di matematica al Liceo Artistico Cottini, non ha dubbi in
merito: «Politiche governative insensibili all’importanza della scuola e
difficoltà su tutti i fronti non possono togliere alla scuola la sua valenza
educativa e di relazione. La scuola rimane il luogo per eccellenza in cui
sostenere la costruzione della personalità degli allievi e instaurare dinamiche
di gruppo. Gli insegnanti sono stati coinvolti in un processo sociale di
maturazione che li ha portati ad avere e a trasmettere una maggiore sensibilità
verso le diversità. Paradossalmente sono però principalmente i ragazzi di
adesso a insegnare l’integrazione perché sono loro stessi a viverla
quotidianamente».

Se i ragazzi di oggi hanno più
difficoltà ad accettare le regole, come si possono trovare strumenti innovativi
per interessarli didatticamente? «Gli studenti hanno bisogno di essere
costantemente stimolati, danno spesso l’impressione di non esser interessati ad
apprendere ma se si riesce a toccare le corde giuste, ti sorprendono per la
qualità delle risposte. Hanno una scarsa frequentazione delle capacità logiche
mentali e la figura del docente la vedono con più criticità rispetto al
passato. Lo vedono come un personaggio meno ideale, perfettamente calato nella
realtà con tutti i suoi pregi e difetti. Di conseguenza, per interessare i
ragazzi, oltre una maggiore creatività nella metodica, occorre guadagnarsi la
loro stima dimostrandosi coerenti e onesti. Per i ragazzi di oggi “la legge è
uguale per tutti”, sono pionieri di una generazione che fa del senso di
giustizia il suo credo. Le votazioni negative vengono accettate, ma solo se
alla base c’è una vera credibilità intellettuale».

E le famiglie quanto facilitano od
ostacolano questa missione del docente? «L’apprendimento passa attraverso il
rispetto e in questo senso i genitori dovrebbero lavorare a favore del corpo
docente. Non nego però che, se da un lato sono troppo invadenti nei confronti
della scuola, dall’altra sono anche più coinvolti e presenti. Il che, gestito
nel modo opportuno, può diventare una grande ricchezza».

Ci piace chiedere ai nostri
intervistati un piccolo vocabolario per ricostruire la scuola. Secondo
Antonella Sergi, la trasformazione del panorama dell’istruzione passa
attraverso il riconoscimento della scuola a livello politico. Un riconoscimento
economico e sociale che possa suscitare un effetto domino e riconsegnare
energia e linfa vitale agli insegnanti.

La scuola come laboratorio

Da questo breve viaggio nella
scuola, quello che si evince è la figura di un adolescente complesso (come gli
adolescenti di tutte le epoche in realtà), che arranca nel costruirsi la
propria identità. Spavaldo perché ha una necessità intrinseca di riconoscimento
sociale, fragile perché fa fatica a uscire da un’infanzia dorata. Al contempo,
i ragazzi di oggi hanno competenze narrative e creative straordinarie di cui
spesso però sono inconsapevoli.

Quali gli atteggiamenti e le parole
chiave per uscire da questa crisi che attraversa un’epoca e coinvolge più
figure nell’istituzione scolastica? «Il cambiamento – spiega Fabio Fiore –
passa attraverso l’esperienza, la collaborazione e la complicità. Nella nostra
scuola c’è troppa scissione tra sapere e esperienza pratica. Rendiamo la scuola
“laboratorio vivente”, apriamone le porte anche nel fine settimana, rendiamo
partecipi anche le famiglie. L’organico docente, seppur mantenendo inalterate
le diversità, deve lavorare su una linea comune altrimenti perde di credibilità
e lo studente si infila pericolosamente nelle contraddizioni. La parola chiave è
“futuro” e la scuola è uno dei luoghi da cui ripartire per risollevare il
paese. Bisogna insegnare ai ragazzi ad aumentare la massa critica della
consapevolezza e ad essere cittadini del mondo. La scuola non si fa parlando ma
“facendo”. Occorre essere sociologi, ossia andare “oltre le mura”».

Gabriella Mancini

A Chivasso


Sperimentare (per vincere la crisi)

Presso il Liceo classico-scientifico «Newton» di Chivasso, nel corso
dell’anno scolastico 2012-2013 è nato il progetto «Oltrelemura», di cui il
prof. Fabio Fiore è stato uno degli ideatori. Una sperimentazione vissuta da un
folto gruppo di studenti, docenti, genitori ed operatori culturali operanti
nell’ambito dell’Istituto. Attraverso diversi approcci disciplinari, ci si è
interrogati sulle strategie didattiche possibili per affrontare la crisi della
Scuola percepita dai partecipanti.

Il progetto «Oltrelemura» ha attivato delle  azioni su tre ambienti del dispositivo
scolastico: un ambiente di trasmissione formale dei saperi (la Classe), un
ambiente di trasmissione informale dei saperi (l’Interclasse), un ambiente di
elaborazione creativa dei saperi (i Laboratori). I Laboratori teatrali, narrativi
e mediatici hanno avuto  la funzione di
far emergere i problemi del rapporto tra adolescente e dispositivo
scolastico/mondo adulto, l’Interclasse ha trasformato tali problemi in domande
e riflessioni e la Classe pilota ha provato ad articolare delle risposte e a
mettere in pratica (didattica) le riflessioni emerse.

Un esempio concreto per affrontare la crisi insieme.

 
Considerazioni finali


Cercando un nuovo alfabeto

«Benvenuto cambiamento» è il titolo della Quarta Conferenza
regionale della scuola tenutasi a Torino nell’estate 2013. Come dimostrano le
voci e gli approfondimenti di questo Dossier, è più che mai necessario
rinforzare una cultura della scuola che sia in grado di progettare e sostenere
il cambiamento. Cambiare la scuola vuol dire «ridefinire con chiarezza le
posizioni degli insegnanti, dei genitori, dei ragazzi e delle altre figure
educative nell’ambito di un dispositivo pedagogico direttamente incentrato
sulla conduzione di attività pratiche. È rispetto a esse che la scuola può
ritrovare il fascino e la passione dell’insegnamento e dell’apprendimento,
tanto come funzione espressiva quanto come esercizio preparatorio» (Riccardo
Massa, Cambiare la scuola, cit. pag 175).

In quest’ottica il futuro si modella sull’esperienza,
non  discinta dall’apprendimento teorico.
Un’esperienza prima vissuta singolarmente e poi condivisa. «Intellettualizzare
l’esperienza» è la chiave, direbbe John Dewey (filosofo e pedagogista
statunitense scomparso nel 1952) in una proposta che riguarda  l’apprendimento cornoperativo, la didattica
laboratoriale e la responsabilità di ogni singolo attore sul campo. Con questo
cambio di paradigma rispetto alla scuola attuale, l’esperienza diventa fonte di
innovazione e si proietta con slancio nel futuro.

Non si discosta da questa proposta anche la teoria di
don Ermis Segatti: «Nella scuola di oggi c’è troppa scissione tra vita pratica
e istruzione. Si rileva un’espropriazione di responsabilità caricata solo sullo
studio. La concomitanza di studio ed esperienze pratiche favorisce una maggiore
responsabilità civile. L’habitus mentale dovrebbe consistere
nell’operare praticamente mentre si apprende. La soluzione? Uscire dalla scuola
e favorire una rete comune di collaborazione con gli enti locali per creare nuovi
luoghi di partecipazione giovanile».

«In questa prospettiva metamorfica, può dunque la
scuola, attraverso l’esperienza pratica, diventare “scuola dell’essere e non
dell’avere”? Forse, occorre ripartire dalla scuola dell’Infanzia perché proprio
lì si creano  quelle esperienze che poi
si disperdono negli anni successivi. Virginio Pevato aggiunge: «La scuola del
futuro è la scuola del fare: una scuola educativa e di relazioni con il mondo
esterno, capace di individualizzare i percorsi, di  fare attenzione a tutte le intelligenze
evitando  di trasformarsi in parcheggio
scolastico». 

Questa nuova scuola, che ci auspichiamo non rimanga solo
nell’immaginario e in alcune singole proposte, in cui il riconoscimento dei
talenti dovrebbe intrecciarsi con l’esperienza, diventare  priorità governativa e riconquistarsi  così 
quel rispetto e quell’autorevolezza che la rendano nuovamente «appetibile»
e ricca di significato. 

Nonostante siano passati quasi 50 anni dalla morte di
Don Milani, la sua lezione resta attuale: andare a scuola significa imparare a
leggere, scrivere, far di conto ma anche e, soprattutto, conoscere a fondo la
nostra Costituzione ed essere consapevoli della nostra cittadinanza nel
mondo. 

Da questi presupposti si dovrebbe  partire per formulare nuove strategie,
magari  rispolverando l’articolo 3
della  Carta fondamentale, come fa don
Milani in Lettera a una professoressa, pensando a Gianni perché «tutti i
ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e
dobbiamo rimediare».

Riscrivere un alfabeto della scuola comporta includere
tante delle parole che abbiamo «incontrato» in questo breve viaggio e che fanno
rima con: formazione, talento, etica, coerenza, giustizia, rispetto,
esperienza, collaborazione, complicità e riconoscimento. In altri termini: «saper
educare, andando Oltre le Mura».

Gabriella Mancini

Consigli Bibliografici
• Riccardo Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Editore Laterza, 2000.
• Fabio Fiore, Rincorrere o
resistere? Sulla crisi della scuola e gli usi della storia, Rivista Passato e Presente, 2001.
• Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e
apprendimento, Centro Studi
Erickson, 2005.
• Lorenzo Fischer, Lineamenti di sociologia della scuola, Il Mulino, 2007.
• Gustavo Pietropolli Charmet, Fragili e spavaldi. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, 2008.
• Lorenzo Luatti – Claudio Malacarne, Scrivere il futuro a più mani, Vannini, 2012.
E per la narrativa:
• Francois Begaudeau, La classe, Einaudi, 2008.
• Eraldo Affinati, Elogio del ripetente,
Mondadori, 2013.
• Alex Corlazzoli, Tutti in classe, Einaudi, 2013.
 
Filmografia

Zero in
condotta, Jean Vigo, 1933;
I 400 colpi, François Truffaut, 1959;  Gli anni in tasca,
François Truffaut, 1976; L’attimo
fuggente, Peter Weir, 1989; Ricomincia da oggi, Bertrand
Taveier, 1999; Essere o
avere, Nicholas Philibert, 2002; La classe, Laurent
Cantet, 2008; La scuola è
finita, Valerio Jalongo, 2010; Una scuola italiana, Giulio Cedea ed Angelo Loy, 2010; Il rosso
e il blu, Giuseppe Piccioni,
2012;
Vado a
scuola, Pascal Plisson, 2013. 

 
I partecipanti: un ringraziamento

Un doveroso ringraziamento a tutti coloro che
hanno contribuito a questo Dossier attraverso la loro testimonianza:

• il Circolo
didattico Salgari di Torino con la dirigente Giovanna Caputo per la
disponibilità al servizio fotografico; •
don Ermis Segatti; • Virginio
Pevato; • Concetta
Mascali; • Karim
Metref; • Sabrina
Ottaviano;
• Rosa Napolitano; • Carmine Percuoco; • Fabio Fiore e il progetto «Oltre le mura»
(www.oltrelemura.net);
• Antonella Sergi; • suor Lidia dell’Ufficio pastorale migranti
di Torino.

Si ringrazia inoltre • Nuccia Ferraris del Cidi («Centro di
iniziativa democratica degli insegnanti») per alcune informazioni foite:
www.ciditorino.org.

L’autrice

• Gabriella Mancini – Gioalista pubblicista, collabora da anni con Missioni Consolata su tematiche prevalentemente di ambito sociale e sulla
rubrica culturale
Mediamente. Attenta osservatrice della realtà e del
fenomeno dell’immigrazione ha ideato – insieme a un gruppo di giornalisti
stranieri – il media Glob011.com.

• Paolo Moiola – Redattore MC, per il cornordinamento giornalistico del
dossier.

Gabriella Mancini




Non è un paese per mamme

Italia 2014: sei madri si raccontano

Testo di Gabriella Mancini, foto di Gabriella Mancini e Murat Cinar
Le foto del dossier sono simboliche e non ritraggono le persone che si raccontano
in queste pagine. Alcuni dei nomi sono stati modificati, ma le storie sono autentiche.


Mateità a rischio
Tre madri Italiane

1. Gemma
2. Claudia
3. Miriam

Tre voci transnazionali

4. Emna
5. Melissa
6. Silvia

Conclusione: Più domande che risposte
Schede

Bibliografia
Geografia e anagrafica della nascite in Italia
Lavoro: Per le straniere è peggio
Disoccupazione al femminile

Mateità a rischio


Economia e politica contro le mamme

Quello che ci figuriamo come il classico paese dei
«mammoni», accoglie ben poco, e male, le mamme: l’Italia non ha infatti una
politica in favore della famiglia e della mateità e rende difficile la vita
alle coppie ancora convinte che avere figli abbia senso e sia segno di civiltà
e sorgente di progresso.

Essere
«madre», nel 2014, è una sfida che si scontra con un’economia allo sbando. Per
tutelare il più nobile diritto della civiltà, la mateità per l’appunto, la
strada è ancora tutta in salita. In un paese dove il tasso di disoccupazione è
pari al 12,6% (dati Istat), le più penalizzate rimangono le donne e, in
particolare, le madri. La carenza di servizi per la prima infanzia (va
ricordato che solo l’11% dei bambini italiani va al nido, ventuno punti in meno
rispetto ai numeri raccomandati dalla strategia di Lisbona del 2002) e una
mentalità ancora prevalentemente maschilista, delega tuttora alle donne la cura
dei figli e l’organizzazione della casa. Chiara Saraceno (ritratta nella
foto di destra
), una delle sociologhe italiane di maggior fama,
specializzata in tematiche familiari, questione femminile e politiche sociali,
ci delinea nitidamente questa pagina di storia italiana: «Il nostro è un paese
in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto
difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno
sono mediamente insufficienti; perché la divisione del lavoro in famiglia
continua a essere disomogenea tra uomini e donne; perché nell’organizzazione
del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali
che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori. Ci sono
differenze tra donne, a seconda del livello di istruzione, dell’area geografica
di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono
nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e mateità. Anche per le laureate,
tuttavia, lavoro e mateità possono apparire inconciliabili. Secondo gli
ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di
coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno.
La mateità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali
sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la pateità è associata a una più
alta partecipazione al lavoro, per la mateità è vero il contrario. Il fatto è
che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare
famiglia e lavoro quando hanno un figlio, fanno anche più fatica a passare da
un contratto temporaneo a uno definitivo, con meno garanzie in caso di
interruzione per mateità» (La Repubblica, 24/04/2014).

Alla luce di tutto ciò, e considerando che anche
l’attuale premier Matteo Renzi sta promuovendo una maggiore flessibilizzazione
dei contratti di lavoro, come se la passeranno le donne e, in particolare, le
mamme, nel prossimo futuro? «Poter spezzettare un rapporto di lavoro in
contratti di 4-5 mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo
lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni, sarà deleterio per le donne.
La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai
datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di
licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più
far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre
illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà
fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in
caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non
riusciranno a maturare il diritto alla indennità di mateità piena e faranno
fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare
di avere un contratto di lavoro almeno annuale» (Lavoce.info,
17/03/2014).

In virtù di queste considerazioni nasce il nostro
dossier che restituisce totalmente la voce a una galleria di donne italiane e
straniere. Attraverso le loro scelte e il loro quotidiano, cercheremo di
mostrare uno spaccato di genere in una situazione italica, in cui la penuria
lavorativa sembrerebbe voler appiattire, uniformare e rendere invisibili i talenti,
penalizzando le multi capacità femminili. Ma, come sempre, le donne si
riorganizzano, si reinventano e combattono.

Gabriella
Mancini   

 
 

Tre madri italiane nell’impresa di
Conciliare lavoro e
famiglia

A volte occorre semplicemente mettersi in ascolto. È quello
che abbiamo fatto per ridare voce alle donne, troppo spesso messe a tacere.


1. Gemma

Un contratto a progetto per anni in un’agenzia di
comunicazione milanese, una professionalità mai messa in discussione dai
responsabili dell’azienda, una porta chiusa alla nascita del secondo figlio a
favore di una neolaureata sottopagata e… libera da vincoli familiari.

«Quando
sono rimasta incinta del mio secondo figlio ero alle soglie dei 40 anni.
Lavoravo da dieci anni come copy writer in un’agenzia di comunicazione e
svolgevo parallelamente attività giornalistiche di interesse sociale, sempre
poco remunerative ma molto gratificanti. Il lavoro in agenzia era a tutti gli
effetti da dipendente (orari e impegno sul luogo di lavoro) ma travestito da
contratto a progetto, reiterato anno dopo anno. Fino all’ultimo mese di
gravidanza lavorai con un buon ritmo. Nelle ultime settimane, i miei capi mi
affiancarono una giovane stagista – non retribuita – per sostituirmi nei mesi
della mateità. Tre settimane prima della data prevista del parto, in
occasione della mia festa di “arrivederci”, le titolari dell’azienda (entrambe
con tre figli a testa) mi riempirono di sorrisi, baci e abbracci. Andai in
mateità fiduciosa che avrei ritrovato il mio ruolo e la mia postazione dopo i
cinque mesi obbligatori. Le voci erano rassicuranti: la giovane sostituta, per
quanto volenterosa, non aveva la mia stessa esperienza e la mia penna».

La mercificazione della propria professionalità

«Dopo cinque mesi, mi scrissero che non c’era una mole
di lavoro sufficiente per due persone e che potevo prendermi ancora tre mesi di
mateità facoltativa. Iniziarono a rispondere meno alle mail e a rimandare un
incontro per riformulare la nostra situazione. Quando, finalmente, si decisero
a farmi andare in ufficio, chiedendomi di portare il pargolo per poterlo
finalmente conoscere… mi dissero che molti clienti avevano ritirato i loro
contratti, che erano nel periodo più buio della loro storia aziendale e che la
mia figura non poteva esser economicamente contemplata. Rimasi senza parole,
con il bimbo in braccio. Improvvisamente invasa da una fragilità senza
confronti. La mia professionalità veniva trattata come merce e barattata in
cambio della possibilità di sfruttare una giovane disponibilissima a non esser
retribuita benché lavorasse 10 ore al giorno. Mi dissero che, anche se la
qualità dei contenuti sarebbe stata più scadente, loro necessitavano di
manovalanza a costo zero, e, dal momento che nel frattempo il mio contratto
sarebbe scaduto, la mia presenza non sarebbe più stata necessaria».

Scelte che bruciano

«Mi tormentai due settimane sul da farsi: ripresentarmi
comunque e pretendere il posto (in virtù della mateità il contratto prevedeva
un prolungamento dello stesso per un certo periodo); iniziare una lunga causa
legale per pretendere il risarcimento di tutti i contributi non pagati, delle
ferie e di quant’altro; cercare un compromesso. Per avere chiarimenti mi
presentai al Nidil (il sindacato dei lavoratori atipici) da cui non ebbi alcuna
risposta esauriente, a dimostrazione del fatto che in materia di contratti a
progetto, la formulazione di una vera tutela sindacale era ancora ben lontana.
L’unica soluzione era agire, privatamente, per via legale. Ebbi timore di
affrontare una sfida simile perché avrei potuto farmi terra bruciata per altre
eventuali collaborazioni. La sensibilità e l’emotività accentuata dalla mia
nuova situazione esistenziale (e ormonale), l’allattamento e le cure continue
al piccolo, il desiderio di riprendermi la mia vita e la mia serenità senza
dover tirar fuori le unghie in un’aula di tribunale, mi fecero demordere.
Scelsi la via del compromesso e patteggiai un risarcimento per i mesi di
prolungamento del contratto. Ancora adesso la scelta mi brucia. La tutela della
mateità è simbolo di civiltà e il non esser stata tenace nel rivendicare
quello che era giusto è una ferita ancora aperta. Con il tempo, però, ho
iniziato a riprendere coraggio e fiducia in me stessa, a ricostruirmi
un’identità che mi sembrava persa e a riorganizzarmi, come madre, come donna,
come professionista».

2. Claudia

Essere dirigenti significa saper fare l’equilibrista: tra
lavoro, figli, casa e marito. La libertà della donna passa attraverso il mutare
della mentalità predominante che vede ancora la «madre» come l’unica addetta
alla cura dei figli.

 «Dopo
la laurea in architettura, vinsi un dottorato in pianificazione territoriale e
urbanistica. Fu un’esperienza di approfondimento e di rilievo ma non riponevo
molte speranze nella carriera universitaria. Così, quando ebbi un responso
positivo da un concorso presso l’ufficio tecnico per l’urbanistica e l’edilizia
privata di un ente territoriale, non esitai.

Dal 1996 al 2002 cercai sempre di conciliare casa e
lavoro in maniera sistematica, con non pochi sacrifici. La mia primogenita
nacque nel 1998, e il secondo nel 1999. Nel 2002 diventai la responsabile
dell’ufficio e, se da un lato acquisii maggior flessibilità nell’orario
lavorativo, dall’altro una maggiore dipendenza mentale e un forte ingombro
psicologico iniziarono a penetrare nelle ore dedicate alla famiglia. Non è
semplice staccare la spina, allontanare i pensieri del lavoro e ritornare a
vestire il ruolo di madre. Basta lo squillo di un telefono o il ricordo di una
mail da inviare d’urgenza e i figli si ritrovano privati della tua presenza. La
mia sensazione è sempre stata quella di dovermi dividere: tra l’esser madre,
donna, moglie, professionista, organizzatrice della casa. Le identità sono
tante, le sfumature personali altrettante, e in questo volerci essere per tutti
e in maniera perfetta, ho rischiato spesso il bu out».

La conciliazione e i sensi di colpa

«Ho sempre cercato di essere un’acrobata e di vestire i
miei tanti panni in misura tale da non deludere gli altri e me stessa. Senza
reti familiari in soccorso e con la penuria di nidi e di servizi per
l’infanzia, l’incastro tra lavoro e vita privata è stato un gioco da
equilibristi. E allora, ecco le corse per non perdere le assemblee scolastiche
dei ragazzi, il controllo quotidiano del diario prima di sprofondare nel letto,
la partecipazione a qualche laboratorio nelle loro classi, la volontà di
cercare sempre e comunque un dialogo e delle attività ricreative da fare
insieme. Accanto a tutto questo va ricordato che oggi, 2014, in Italia e in
modo trasversale a tutti gli strati sociali, la cura dei figli rimane ancora
prevalentemente a carico della madre. Con un cambio di paradigma e una maggiore
collaborazione da parte dei padri, forse, si potrebbero conciliare meglio le
due sfere. Rimane, ed è indubbiamente figlio di una cultura femminile ancora
arretrata e in parte maschilista, il senso di colpa per non essere solo “una” e
per non rivestire in toto quella figura. Per quanto io faccia, anche
sacrificando tutto il tempo di cui avrei bisogno per me stessa, rimane immutata
la sensazione che, con un orario più agevole sul lavoro e meno responsabilità,
potrei seguire meglio la crescita, sia didattica che umana, dei miei figli».

La libertà passa attraverso il mutare della mentalità

«Il fatto di trovarmi, sovente, unica donna ai tavoli di
lavoro manageriali, presieduti dagli alti vertici, mi ha portato ad affinare
delle arti di “difesa”. Più di una volta ho dovuto rispondere a battute
prettamente maschiliste. Con l’esperienza, la costruzione di una forte identità
e una buona quantità di letture “di genere”, ho imparato a rispondere a tono e
a non cedere di fronte a chi vuole farmi sentire inadeguata o un’arrivista che
cerca il riconoscimento a tutti i costi, e minando così la mia autostima.

Oggi, con un terzo figlio di soli tre anni (avuto over
40), ho maturato la consapevolezza che l’unica via in Italia per potersi godere
i figli, sia quello di scegliere autonomamente di declassarsi, sia come
posizione che come retribuzione. Seppur senza rimpianti per le mie “acrobazie”
quotidiane e le mie scelte di vita, sto iniziando a progettare in questi
termini. Per me potrà voler dire riappropriarmi di una fetta di mateità. Per
il genere femminile in Italia è una sconfitta. Ancora una volta siamo noi donne
a dover rinunciare alle nostre potenzialità!».

3. Miriam


Una laurea in scienze politiche con una tesi su tematiche
interculturali. Un lavoro come addetta alla vendita di una nota catena di
articoli sportivi, in cui il 70% dei collaboratori sono donne ma solo il 30%
ricopre cariche dirigenziali. Un difficile incastro tra orari lavorativi e
famiglia.

«Dopo
due anni di lavoro come ricercatrice sociale sui temi dell’immigrazione, per
riuscire ad avere una maggiore stabilità economica, accettai un posto da
commessa in una grande catena di articoli sportivi. Con l’arrivo delle mie
prime due bimbe divenne difficile riuscire a ritrovare qualche collaborazione
nel settore dei miei studi e, per necessità familiari, il lavoro che doveva
essere momentaneo divenne definitivo. Oggi come oggi, con l’arrivo del mio
terzo piccolo di non ancora due anni, le difficoltà nel conciliare gli orari
scolastici e di vita delle figlie con un lavoro che prevede tui fino alle 21,
dal lunedì al sabato, ed un unico giorno libero settimanale, riunire la
famiglia è sempre più impegnativo. L’abusato termine “flessibilità” nasconde
una realtà che non aiuta a far combaciare i diversi tasselli della vita
famigliare, soprattutto quando si riduce al comunicare sempre all’ultimo minuto
i tui di lavoro ai dipendenti».

Un part time con orari sempre improvvisati

«Per poter gestire casa e famiglia ho scelto l’opzione
del part time, ma dal momento che gli orari dei tui vengono comunicati
settimanalmente, le difficoltà organizzative permangono e ricadono sul
compagno, sui propri genitori/nonni (se si ha la fortuna di averli) o sulle
baby sitter.

Questo essere sempre sospesa e in attesa delle decisioni
altrui mi crea un forte senso di precarietà e di dipendenza, sia da chi ha il
potere di decidere circa il mio lavoro, sia da chi mi aiuta nella gestione
familiare. Inoltre, il calendario scolastico, con festività e vacanze, coincide
con i periodi di maggior impegno lavorativo. Ne consegue che non è sempre
possibile stare con le bambine durante le vacanze natalizie, pasquali o estive
che siano. Al contrario, si hanno maggiori possibilità di andare in ferie quando
le scuole sono aperte e di conseguenza sono spesso costretta a scegliere tra
rinunciare ad attività con la famiglia – riducendo le ferie a un periodo da
trascorrere a casa – e far perdere giorni di scuola ai figli».

Domeniche al lavoro e nessun incentivo

«Un’ulteriore penalizzazione per chi deve conciliare il
tempo del lavoro con quello della famiglia è rappresentata senz’altro dal
decreto Monti che consente ai negozi di restare aperti 24 ore su 24, sette
giorni su sette. Un emendamento che avrebbe dovuto far nascere nuovi posti di
lavoro, ha invece obbligato gli stessi lavoratori ad avere sempre meno giorni
festivi, senza incentivi di alcun tipo, e a ridurre ancor più il tempo da
dedicare alla famiglia. Questa è la mia storia ma è rappresentativa di una condizione
generale delle donne sposate e con prole che subiscono una discriminazione
rispetto alle colleghe nubili le quali, secondo i responsabili di settore,
risultano più meritevoli di aumenti su base oraria. In questo mondo che volge
il capo al passato, quello che posso fare come donna e come madre è continuare
a sensibilizzare le persone su questo tema e a lottare affinché siano garantiti
i minimi diritti e, un domani, possa esistere uno spaccato sociale più a misura
di “mamma” alle mie bambine».

Gabriella
Mancini
  

 
 
Tre voci di esperienze transnazionali


Mateità, emigrazione e intercultura

Il contributo alla natalità dato dalle madri di cittadinanza
non italiana è importantissimo. L’Istat stima che nel 2010 oltre 104 mila
nascite (il 18,8% del totale) siano attribuibili a madri straniere. Le famiglie
con un componente non italiano sono pari al 6,9%, un dato triplicato negli
ultimi dieci anni, e le convivenze sono circa 600 mila (200 mila i matrimoni). Dati
che parlano da soli dell’eterogeneità della nostra rete sociale, delle
trasformazioni apportate dal fenomeno migratorio e della costruzione di una
nuova geografia umana. Una tunisina e due italiane con mariti o compagni di
nazionalità straniera, ci raccontano il loro essere madri nell’Italia di oggi,
i sogni sul futuro e le sfide quotidiane.


4. Emna

Emna è una donna tunisina, un’amica complice e solidale, una
donna piena di risorse. È venuta in Italia per raggiungere il marito nel 2005,
da neo sposa, e nel 2006 è diventata una mamma. Ecco la sua storia.

«Mi
sono laureata in scienze delle relazioni inteazionali in Tunisia e ho
lavorato per anni come assistente al responsabile marketing di una grossa
azienda. Il mio lavoro mi piaceva, rappresentava una sfida e una nuova
avventura ogni giorno, in un ambiente sereno dove il comune denominatore era
far crescere il personale e lavorare sulla stima di sé stessi e del gruppo.

Poi ho conosciuto il mio futuro marito e, sull’onda
delle scelte esistenziali, l’ho seguito in Italia dove viveva e lavorava già da
alcuni anni. Ho lasciato volutamente alle spalle carriera e lavoro e ho aperto
una nuova pagina della mia vita. Dopo solo un anno da “italiana” sono rimasta
incinta e mio marito è stato il mio grande alleato durante tutta la gravidanza.
Mi ha sostenuto nell’iter della mateità: dal consultorio, agli ospedali, alle
visite e, soprattutto, mi ha facilitato nella traduzione della lingua. Poi,
pian piano, mi sono iscritta a un corso di italiano e, grazie allo studio, ho
iniziato a muovermi con più facilità nel territorio. Quando si aspetta un
bambino si ha bisogno di certezze: saper leggere le ecografie e capire cosa
dicono i medici diventa fondamentale. Le sfumature della lingua e gli sguardi
sono importanti».

Primi tempi tra amore e solitudine

«Quando è nato il mio primogenito si sono contrapposti
in me due sentimenti: la gioia e la solitudine. Ogni volta che qualcuno apriva
la porta della mia camera in ospedale, sussultavo. Immaginavo di veder entrare
tutta la mia famiglia. Mi è mancato tantissimo quel calore famigliare,
quell’amore e quella cura che (in particolar modo da noi in Tunisia) viene
donata alla puerpera.

Nei primi tre mesi della mia nuova vita da mamma, mi
mancavano le mie radici, la mia terra, la mia famiglia. Per avere un figlio
all’estero devi essere forte, rigida, non hai nessuno che ti aiuti, il tempo
per te stessa è cancellato in virtù di tutte le mansioni pratiche che devi
svolgere. Le più piccole cose quotidiane, se ti senti fragile, iniziano a
diventare difficili: alzarti e rialzarti, infilarti le scarpe, presentarti in
modo dignitoso. Alle insicurezze del mio essere neo mamma si aggiungevano i
problemi burocratici: non è stato semplice avere un permesso di soggiorno per
poter tornare in Tunisia dalla mia famiglia. Quando riuscii a esplicare tutte
le pratiche e potei tornare qualche tempo nel mio paese, riuscii a vivere il
puerperio che non avevo potuto vivere in Italia. Le donne coccolavano il
piccolo e me. Un bagno turco al pomeriggio, qualche massaggio, un taglio ai
capelli e tante confidenze amichevoli. La cura della mia persona si univa alla
piacevolezza dello stare insieme a persone care».

La mia vita è in Italia

«Passati due mesi ho capito che dovevo tornare. La mia
vita era in Italia. La prima cosa da fare era un corso e ho pensato di fae
uno per mediatrice culturale. Per fare ciò il piccolo doveva stare all’asilo.
Come per tutte le mamme italiane ho fatto la mia trafila per un posto al
comunale, ho atteso che si snellisse la lista d’attesa e, quando è arrivato il
mio tuo, mi sono rimessa in carreggiata come donna.

Per fortuna il nido scelto, un comunale della zona, mi
ha offerto una sorta di nuova famiglia. Quella che mi mancava: dall’economa,
alle maestre, alle mamme. Queste relazioni, consolidate nel tempo, mi hanno
favorita quando è nata la secondogenita e il puerperio è stato diverso. A otto
mesi ho avuto comunque un po’ di depressione. Quindici giorni di rifiuto del
cibo e una sola volontà: stare a letto. Fosse successo con il primogenito avrei
fatto molta più fatica a riprendermi, ma questa volta avevo seminato e
coltivato complici amicizie. Questo volle dire tantissimo. Poco per volta, mi
rialzai in piedi, ricominciai a uscire, ad accompagnare i bimbi, a fare un
ulteriore corso come Oss e, pian piano, tornai a vivere».

Prima la famiglia, poi il lavoro…

«In Italia ho perso una carriera, l’affetto dei parenti,
la stabilità lavorativa. Qui, in balia dell’attuale crisi economica, ho dovuto
metter da parte le aspirazioni per una professione idonea ai miei studi e
accettare anche mansioni più umili. La socializzazione mi ha aiutato in parte a
ricucire lo strappo con la mia nazione e a elaborare i cambiamenti. Cosa ho
guadagnato dall’esperienza italiana? La risposta è nel mio cuore: probabilmente
nel mio paese d’origine oggi mi sarei affermata lavorativamente ma non avrei
incontrato la persona giusta e non sarei riuscita ad avere la serenità
familiare di adesso. Le incertezze permangono ma la lotta continua,
supportata da quella forza e quella rete che tifa per me».

Le parole chiave di Emna, come donna e come madre migrante

«Nella mia storia di donna e madre migrante un punto
fermo è stato, ed è tuttora, dare una buona immagine di me stessa e del mio
paese. Educazione, dignità personale, cultura e un forte senso
dell’aggregazione sono indispensabili. Adattarsi alle regole del paese di
accoglienza mantenendo le proprie radici mi ha aiutata a guadagnarmi il
rispetto della gente e a essere sempre credibile. La credibilità e l’educazione
vanno a braccetto e sono trasversali a tutte le nazionalità. Non esistono
stranieri e italiani, ma persone! Su questo nesso si fonda il mio pensiero e il
mio modo di essere donna, madre e di vivere in un paese che non è quello della
mia nascita ma che è ormai la mia casa. Sono certa che un domani, non lontano,
anche la Emna professionista si riguadagnerà il suo spazio in questa fetta di
mondo».

5. Melissa

Italiana e sposata con uno straniero. Poi la separazione e
la gestione affettiva e quotidiana dei figli. Tra pedagogia e sfide sul lavoro.

«Quando
ho capito che avrei cresciuto da sola i miei figli ho, in un certo senso,
provato un sentimento di sollievo. Ho metabolizzato velocemente che due
genitori separati o divorziati con un rapporto sereno, o almeno civile, possono
dare molto di più ai loro figli. In principio lo sconforto era dovuto
principalmente al timore di non saper affrontare da sola la crescita dei
bambini. Mi domandavo spesso se stavo facendo il meglio per loro e mi interrogavo
sulla loro sofferenza, vivendo tutto con grandi sensi di colpa. Nonostante il
rancore verso il padre dei piccoli (un maschio e una femmina che oggi hanno 10
e 9 anni) mi sono imposta, sin dall’inizio, di non lamentarmi mai di lui
davanti a loro, per dare loro una bella immagine del papà e confortandoli
sull’amore paterno. Il dialogo sulle motivazioni delle scelte fatte,
indipendenti dall’affetto figliale, mi hanno aiutata a vincere la rabbia».

Rientro al lavoro, tra nidi privati e qualche ostilità

«Terminata la mateità dovetti
ricorrere a un nido privato che allora, nel 2004, comportava già una retta di
400 € al mese. Dopo
qualche tempo venni chiamata dal nido comunale e iniziai finalmente a pagare in
base al reddito, trovando anche un ambiente più professionale, umano e
competente. Due anni dopo, per la piccola, venni a conoscenza dei micro nidi
famigliari che, senza cifre assurde, garantivano un ambiente armonioso per i
bambini. Dalle ore 13 fino al mio rientro dal lavoro la piccolina era affidata
a una tata, e tutto ciò comportava un’ulteriore spesa. Rispetto ai paesi nord
europei, le strutture per la prima infanzia e per la gestione dell’estate dei
bambini piccoli sono ancora totalmente inadeguate.

Il ritorno al lavoro dalla mateità
è stato anche il tempo delle ostilità, sottili e dolorose. Mi sono trovata a
dover subire battute non molto spiritose, atteggiamenti infastiditi e qualche
critica, anche da parte di donne e madri, come se al posto di una mateità di
5-6 mesi, mi fossi concessa un soggiorno ai Caraibi. Tutto ciò mi ha fatto
pensare che in Italia siamo noi cittadini, con la nostra mentalità antiquata e
incivile, a essere i primi responsabili della scarsità di alcuni servizi e
diritti che non dovrebbero invece esser messi in discussione».

Pregiudizi e credibilità dei genitori

«Non ho avvertito pregiudizi nei confronti del mio
essere una madre single ma, spesso, ho percepito compassione da parte di altri
genitori e un irrigidimento verso i nomi arabi dei bambini. Sguardi circospetti
di circostanza mi accompagnano ma, con il tempo, sono diventata forte e la
compassione, come il disprezzo altrui, mi fa sorridere. Riuscire a crescere da
sola i miei bambini e a guadagnarmi, giorno dopo giorno, il loro rispetto e
affetto, mi ha insegnato molto. Con l’età si rischia di dimenticare le emozioni
e i sentimenti che si avvertivano nell’infanzia e nella fanciullezza.
Innalzarmi al loro livello e mantenere viva la bambina che c’è in me, mi aiuta
a capire e a dialogare con i miei figli, mi aiuta a essere coerente e
credibile. Quello che cercano i bimbi di oggi è solo questo: credibilità. Una
dote che può regalare loro quell’equilibrio interiore utile per vivere con un
po’ di serenità questa vita».

6. Silvia

Italiana. Un’esperienza di lavoro in Burkina Faso diventa
l’inizio di una nuova esistenza. Una scelta controcorrente, una gravidanza in
solitaria e una nuova famiglia italo-africana, con un futuro tutto da
inventare.

«Lavoravo
da qualche anno presso alcune cornoperative sociali come educatrice della
comunicazione. Nel marasma della crisi italica mi potevo ritenere fortunata
poiché, seppur con magri stipendi, ero riuscita ad avere un contratto a tempo
indeterminato. Sentivo, però, che mi mancava qualcosa. Il mondo del sociale mi
aveva offerto una grande occasione ma, dopo la prima ondata di emozioni data
dalla relazione con l’altro, mi aveva lasciato un sapore amaro in bocca e una
certa demotivazione. La ragione va ricercata nell’organizzazione del settore
stesso che tende a sovraccaricare di lavoro e a soffocare le persone senza far
esprimere al massimo l’umanità e la creatività degli educatori. A 33 anni, con
la voglia di reinventarmi e la giusta motivazione, decisi allora di partire per
il Burkina Faso e di progettare un percorso di arteterapia locale. L’Africa,
d’altro canto, era sempre stata una terra dal forte magnetismo per me. Una
volta atterrata e visitatone un piccolo angolo, l’esperienza ha confermato il
sentimento, e il desiderio di conoscerla più a fondo, percorrerla ed entrarvi a
fae parte».

Una nuova vita fuori… e dentro di me!

«Iniziai a condurre un atelier di arte terapia dove,
attraverso l’attività manuale e artistica, si elaboravano percorsi
psico-dinamici. All’interno di questo cammino, iniziammo un progetto di teatro
di marionette e fu in quell’occasione che incontrai Didier, esperto di teatro
sociale. Non è mai solo una la ragione che porta a innamorarsi di un’altra
persona. Di Didier mi colpì senza dubbio il suo essere aperto al mondo esterno,
la sua autenticità e la sua naturale predisposizione all’attenzione verso la
persona umana. Avevo programmato un viaggio di tre mesi nei dintorni africani e
un breve ritorno a casa in Italia (“nassaratenga” la terra dei bianchi in
lingua moorè) quando la scoperta, tanto improvvisa quanto dolce, di aspettare
un bambino, rivoluzionò i miei piani. I primi controlli medici evidenziarono
una gravidanza “a rischio” e la necessità di un cerchiaggio. Non mi rimaneva
che scegliere l’Italia per tutelare nel miglior modo il prosieguo della
gravidanza e la salute del piccolo. La vita aveva cambiato le carte in tavola.
Non ero più io a dover tornare in Burkina ma Didier a venire in Italia».

Un’onda di limiti burocratici tra l’Africa e l’Italia

«Le peripezie iniziarono quando Didier richiese il
passaporto per espatriare. Nonostante tutte le garanzie richieste
dall’ambasciata (lettere d’invito in originale, estratti conto, buste del
salario e la fotocopia dell’atto di proprietà della casa) le autorità
rilevavano sempre qualche piccola mancanza nella documentazione. Passarono
alcuni mesi, la mia pancia cresceva ma il passaporto di Didier continuava a
esser negato, nonostante un continuo lavoro congiunto tra Italia e Africa. Il
fatto di voler poi rientrare nella terra africana, non era contemplato e
compreso dai funzionari locali. A quel punto, rassegnata a partorire sola e a
partire per l’Africa con un neonato, ricontattai l’ambasciata italiana per
chiedere il riconoscimento della bimba da parte del padre».

Finalmente insieme con Wendkuni

«Dopo mille peripezie e ostacoli, una voce amica
dall’ambasciata mi annunciò che, vista la situazione, avrebbero concesso
finalmente il passaporto a Didier. Ma la trepidazione non era ancora terminata.
Didier non raggiunse l’Italia ma rimase bloccato in Belgio dove venne
sottoposto a ulteriori accertamenti. Appena riuscì a chiamarmi, dopo un
atterraggio nel cuore della notte a Milano, iniziarono le prime contrazioni e,
sette ore dopo, a Torino, nacque Ilesdor.

È stata l’avventura più incredibile della mia vita.
Ilesdor è un nome inventato. Opera del padre, il giorno in cui gli comunicai di
essere incinta: significa “lui è d’oro” (Il est d’or) anche se in realtà
avrebbe dovuto essere elle, ma suonava meglio il. E proprio per
la sua voglia di venire al mondo e le circostanze così particolari in cui ha
fatto capolino nel mio utero si chiama anche: Wendkuni, dono di Dio in
moorè».

Condividere la vita, tra pregiudizi e differenze culturali…

«Nel cosiddetto occidente, non si sono abbattuti su di
noi i pregiudizi sociali. Abbiamo trovato ovunque accoglienza e simpatia,
curiosità e affetto. Li abbiamo però vissuti negli ostacoli burocratici, nella
lontananza forzata, nella nostra forsennata ricerca per “ritrovarci” e vivere
insieme. In tutto questo cammino di avvicinamento ho sentito forte, da parte
delle autorità, il preconcetto di un occidente “formato eden” e “dell’uomo
nero” che tenta di fuggire dalla sua povera e arretrata terra. La nostra è una
storia nata nell’avventura e che oggi si ritrova a condividere il quotidiano.
Come per tutte le coppie, le differenze possono creare delle difficoltà. Nel
nostro caso vale la dicotomia: a lui l’aspetto relazionale, a me quello
organizzativo. In fondo al cuore sento che sono piccolezze superabili e che
l’autenticità è la caratteristica portante della nostra unione».

Un futuro di madre e professionista in Africa

«Essere madre in Africa mi allarga il cuore, perché
l’Africa è “mamma Africa”. Le immagini si sovrappongono ed è come se la natura
avesse realmente connotati di femminile, accogliente ed accudente, questa
terra. Ovviamente i servizi per l’infanzia di cui lamentiamo la penuria in
Italia, lì non esistono proprio ma ci sono le persone che rendono (quasi)
superflui questi servizi. Una serie di zie e di nonne locali (vere e acquisite)
potrà aiutarmi con la piccola mentre cercherò di realizzare un progetto
multidisciplinare di arteterapia con altri professionisti e sarò il braccio
destro di Didier nella costruzione della sua futura fattoria. Fortificata dalla
nostra relazione e dall’amore per Ilesdor so che combatterò con una grande
forza interiore per poter tradurre in realizzazioni tutti quei desideri celati
nei nostri cuori».

Gabriella Mancini


Più domande che risposte

Sei
donne, sei storie, sei voci. Un piccolo coro che si unisce alla grande realtà
statistica italiana. Siamo il peggior paese in Europa in tema di occupazione:
solo il 65% delle donne senza figli lavora, segue un 60,6% di quelle con un
figlio, il 54,8% con due figli e il 42,6% con tre figli. I servizi per la prima
infanzia, carenti e costosi, contribuiscono a mantenere alto il livello di
disoccupazione per le donne con bambini sotto i tre anni. Dai racconti delle
nostre donne emerge, oltre alle varie difficoltà di conciliazione tra lavoro e
famiglia e le inadeguate politiche sociali in merito, una mentalità ancora
retrograda atta a delegare quasi esclusivamente alla donna la cura della
famiglia. E questo, aldilà di ogni estrazione culturale o sociale. Allo stesso
tempo, questo lavoro domestico, dato per scontato, non è né riconosciuto né
sostenuto da un apparato giuridico, sociale e retributivo che lo tolga dalla
precarietà, ne riconosca la dignità come «lavoro» e ne valorizzi il grande e
indispensabile contributo che dà a tutta la società.

La Cnn ha recentemente pubblicato una classifica dei
migliori paesi per le mamme lavoratrici. Su otto, sette sono in Europa: si
tratta di Islanda, Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e
Norvegia. All’ottavo posto c’è il Canada. Sono paesi dove il diritto al lavoro
e alla mateità non può e non deve essere violato, in nome di un codice etico
e civile che fa rima con la progressione dell’umanità.

Alcune domande sorgono: che bisogna fare per
rivoluzionare un modus pensandi così cristallizzato e trasformare questo
stato di cose? Cosa fare perché la mateità e l’educazione dei figli  non diventi un privilegio per ricchi? Cosa
fare perché la famiglia (uomo, donna e figli) – non la carriera, la produzione,
l’utile aziendale – continui a essere al centro della nostra vita sociale?

Le risposte sono difficili a darsi, visto che più
elementi – politici, sociali e antropologici – dovrebbero intervenire
all’unisono. La riflessione merita però un approfondimento e una lente focale
su un terreno più ampio.  Se l’esser
genitore al femminile comporta spesso la rinuncia al lavoro o la
decontestualizzazione della persona in più spaccati sociali, con un alto
rischio di alienazione, molte risposte vanno sicuramente ricercate nel nostro
modello societario attuale. Un modello che prevede (in misura trasversale per
uomini e donne) la produzione senza sosta e la corsa alla competizione in ogni
ambito. Varrebbe allora la pena di agire tutti insieme per trasformare in realtà
le parole, oggi considerate «utopiche», di Silvano Agosti che, nel suo libro Lettere
dalla Kirghisia
disegna un paese «ideale» dove: «[…] in ogni settore
pubblico e privato, non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio,
con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore
della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore,
alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili. La produttività si è
così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di
produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a
produrre in una settimana […]». Un ribaltamento di paradigma, questo, che
rivoluzionerebbe un sistema al collasso e – forse – annegherebbe le
diseguaglianze in virtù della formazione di un essere umano più completo e ricco
interiormente.

Gabriella Mancini   
Bibliografia consigliata

Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine,
Feltrinelli 1982, II ed.
Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli 2007
Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie,
Feltrinelli 2010
Chiara Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino 2013
Chiara Saraceno, Pluralità e mutamento.
Riflessioni sull’identità al femminile
,
Il Mulino 1987, IV ed.
Chiara Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi
e nuovi patti tra sessi e generazioni
, Il Mulino 2011Chiara Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino 2003

Ringraziamenti

Ringraziamo le donne intervistate per la disponibilità
nel raccontarci e raccontarsi.

Geografia e anagrafica delle nascite in Italia

Si nasce poco in Italia, e da mamme sempre più in là con
l’età. Rispetto al 2011, nel 2012 sono nati 12 mila bambini in meno.

Secondo i dati del Bilancio demografico della
popolazione residente
dell’Istat, sono stati 534.186 gli iscritti in
anagrafe per nascita nel 2012, oltre 12 mila in meno rispetto al 2011. Nel 2012
il numero medio di figli per donna si attesta a 1,42 (1,29 figli per le
cittadine italiane e 2,37 per le straniere).

Il dato conferma la tendenza alla diminuzione delle
nascite avviatasi dal 2009: oltre 42 mila nati in meno in quattro anni. Il calo
delle nascite ha riguardato per lo più le coppie in cui entrambi i genitori
sono italiani, quasi 54 mila in meno rispetto al 2008.

I nati da genitori entrambi stranieri, invece, sono
ancora aumentati, anche se in misura più contenuta rispetto agli anni
precedenti (2.800 nati in più negli ultimi tre anni), e ammontano a poco meno
di 80 mila nel 2012 (il 15% del totale dei nati). Se a questi si sommano anche
i nati da coppie in cui uno dei genitori non è italiano si ottengono poco più
di 107 mila nati (il 20,1% del totale delle nascite). Considerando la
composizione per cittadinanza delle madri straniere, ai primi posti per numero
di figli si confermano le rumene (19.415 nati nel 2012), al secondo le
marocchine (12.829), al terzo le albanesi (9.843) e al quarto le cinesi
(5.593). Da notare che queste quattro comunità raccolgono da sole quasi il 50%
delle madri straniere in Italia.

(fonte: Istat)
Per le straniere è peggio

Partecipazione
al mercato del lavoro

1. Tasso di occupazione più
elevato delle italiane (nel 2010 pari a 50,9% vs. 45,7%) ma:

• maggiore diminuzione con la crisi (in due anni
–1,9% punti) inferiore nelle regioni del Nord (49,5% vs. 57%);

• più basso in presenza di figli (42,7% vs.
50,6%) anche per mancanza di rete familiare oltre che per motivi culturali.

2. Forti differenze del tasso
di occupazione per comunità (superiore al 90% per le filippine e inferiore al
35% per albanesi e marocchine).

3. Tasso di disoccupazione più
elevato (nel 2010 13,3% vs. 9,3%).

4. Media primi 3 trimestri del
2011 il tasso di
occupazione scende di 0,5 punti, il tasso di disoccupazione sale di 0,2 punti.

Scarsa
la qualità del lavoro

1. Più della metà svolge un
lavoro non qualificato (58% vs. 9% delle italiane).

2. Il 40,1% svolge un lavoro
domestico presso
le famiglie (1,7% le italiane).

3. Oltre una straniera su due
svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a
quello posseduto (51,1% vs. 19,8%).

4. La concentrazione in lavori
poco qualificati comporta una bassa paga mensile: 788 euro vs. 1.131 euro delle
italiane.


Disoccupazione al femminile

In Italia il calo dell’occupazione è quasi esclusivamente
maschile.
[…] mentre per
l’occupazione femminile, dopo il calo del 2009, si osserva una crescita nel
2011 e nel 2012. Nel 2013, con l’aggravarsi del quadro recessivo anche per le
donne, si evidenzia una diminuzione dell’occupazione (-128 mila unità, pari a
-1,4% rispetto al 2012). Nel complesso dei cinque anni della crisi (2009-2013),
l’occupazione degli uomini si è ridotta del 6,9%, a fronte di un calo dello
0,1% per le donne.

Soltanto una parte dell’occupazione femminile ha
però tenuto con la crisi.
La quota di donne
occupate continua a essere molto bassa (il 46,5%), di 12,2 punti inferiore al
valore medio della Ue28. La sostanziale tenuta registrata in Italia è il
risultato di un insieme di fattori: il contributo delle occupate straniere,
aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013 a fronte di un calo delle
italiane di 370 mila unità (-4,3%), la crescita delle occupate con 50 anni e più
per l’innalzamento dell’età pensionabile e quella di coloro che si immettono nel
mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner.

Nella fascia di età tra 15 e 49 anni, il tasso di occupazione cala per tutte le donne, non
solo per le giovani che ancora vivono all’interno della famiglia e che sono
state maggiormente colpite dalla crisi, ma anche per le madri sole, quelle in
coppia con o senza figli e le single. Il tasso di occupazione delle madri è
pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia
senza figli. […]

Aumentano le donne breadwinner, ovvero crescono le famiglie con almeno una persona di
15-64 anni in cui è la donna ad essere l’unica occupata, specialmente tra le
madri in coppia. La crescita riguarda 591 mila famiglie (34,5% in più). Nel
Mezzogiorno al loro aumento si associa la riduzione delle famiglie sostenute
unicamente dal lavoro dell’uomo.

Peggiora la situazione di conciliazione dei tempi
di vita delle donne.
Cresce la quota di donne
occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto
(22,3% nel 2012 dal 18,4 nel 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al
29,8%. Aumenta anche la quota di donne con figli piccoli che lamentano le
difficoltà di conciliazione tra chi il lavoro lo mantiene (dal 38,6% al 42,7%).

Da: Istat, Rapporto annuale 2014,
pag. 85,

pubblicato il 28 maggio 2014

Tags: mateità, mamme, lavoro, carriera, discriminazione, impiego, servizi sociali, famiglia, società, disoccupazione, donne

Gabriella Mancini




Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima

Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo.  Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.

Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.

Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.

Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.

Della «Tepco», ovvero  del crollo del mito giapponese.

Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.

Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.

Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.

La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.

Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).

 

Le certezze di Shinzo Abe

Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.

Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.

A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».

Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.

Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.

Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.

La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.

Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.

Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.

Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.

È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.

Stili di vita insostenibili

«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.

Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.

Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.

E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.

«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.

Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».

La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.

 

Problemi e paure di chi è rimasto

Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».

Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».

Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».

L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.

 


Quel che resta del mare

Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.

Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.

Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.

Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.

Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.

Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.

 


Lontani da Fukushima

Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.

 


       Gli Eventi                           

  • 11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
  • Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
  • Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
  • Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
  • Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
  • 12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
  • 12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
  • 14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
  • settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
       PER APPROFONDIRE                     

• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.

       GLI AUTORI                        

Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.

Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.

Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.

Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.

Piergiorgio Pescali




Giappone 2: l’Atomo, le radiazioni e la posizione della Chiesa giapponese

1. Cosa è successo a Fukushima

2. Le radiazioni, loro pericolosità e processo di decadimento
3. Chiesa giapponese: sviluppo di energie alternative e revisione di stili di vita troppo energivori.

        Scheda / L’atomo
e l’energia nucleare              

Abbiamo chiesto a un fisico di spiegare, in poche e
semplici parole, l’atomo, come funziona una centrale nucleare e cos’è successo
a Fukushima.

La materia che ci circonda,
compresa quella presente in noi stessi, è formata da atomi di un centinaio di
tipi diversi. Ogni atomo è composto da tre particelle fondamentali,
piccolissime: i protoni, i neutroni e gli elettroni. La stragrande maggioranza
della massa, cioè del materiale costituente un atomo, si trova nel suo
piccolissimo nucleo. In questo sono presenti un certo numero di protoni (con
carica elettrica positiva) e neutroni (questi servono a «incollare» i protoni
tra loro, che altrimenti si respingerebbero avendo la stessa carica elettrica).
Solo nel caso dell’elemento più leggero, l’idrogeno, il nucleo è privo di
neutroni; vi è presente infatti un solo protone e quindi non ci sono problemi
di repulsione elettrostatica.

La comprensione della struttura
degli atomi deve molto alla scoperta della radioattività, avvenuta nel 1896. Fu
una scoperta del tutto inattesa, che rivelò come in natura vi siano energie
enormi, milioni di volte maggiori di quelle sino ad allora conosciute. Queste
energie sono racchiuse nel minuscolo nucleo degli atomi. Fu straordinario
scoprire che, proprio nei volumi più piccoli accessibili all’indagine
scientifica, si nascondono energie fino ad allora inimmaginabili. La
radioattività permise un’affascinante gamma di studi, i quali, nel giro di
nemmeno cinque decenni, portarono alla più sconvolgente delle realizzazioni
tecnologiche: la bomba atomica. Al cuore di questo sviluppo c’è la cosiddetta
reazione a catena, nella quale i nuclei di certi rari atomi, come l’uranio 235
(il 235 indica il numero totale di protoni e neutroni presenti nel nucleo),
vengono spaccati dall’impatto di neutroni di energia appropriata. La cosa
importante è che, oltre ai velocissimi (e quindi assai energetici) frammenti di
nucleo, con l’impatto vengono liberati anche alcuni neutroni, i quali, se si è
progettato bene l’apparato, possono indurre la frammentazione (o «fissione»,
per usare il termine tecnico più appropriato) di altri nuclei posti nei pressi.
Questo processo avviene assai rapidamente e, se si riesce a far spaccare una
gran parte dei nuclei presenti, ciò consente di ottenere deflagrazioni gigantesche: le esplosioni nucleari (o, più
volgarmente, atomiche).

Ma la liberazione di energia
nucleare può anche avvenire in maniera non esplosiva. Infatti, con grande
perizia, si può controllare la reazione a catena, sfruttando la possibilità di
variare il numero dei neutroni che causano le fissioni. Questo si fa
introducendo, tra gli atomi da spaccare, alcuni atomi il cui nucleo cattura i
neutroni liberi che lo colpiscono. Si tratta dei cosiddetti veleni neutronici
(uno di questi elementi è, ad esempio, il boro). Questo apre la possibilità di
realizzare una centrale nucleare, in cui l’energia necessaria per far girare le
turbine (che producono l’elettricità) deriva dalla rottura dei nuclei di uranio
a un tasso limitato e controllato. Tra una centrale nucleare e una
convenzionale (che brucia combustibili fossili) la differenza nella produzione
energetica è tutta qui; gli altri componenti dell’impianto, pompe, condensatori,
turbine, alternatori sono fondamentalmente identici.

Per consentire la gestione in
sicurezza di una centrale nucleare si deve sempre garantire un adeguato
raffreddamento del nocciolo dell’impianto, cioè di quella zona dove avvengono
le reazioni di fissione. L’energia liberata è infatti ingentissima e assai
concentrata, non solo durante il funzionamento normale, ma per molti giorni
anche dopo che la reazione a catena si è arrestata. L’arresto viene ottenuto
inserendo una sufficiente quantità di veleni neutronici, contenuti nelle
cosiddette «barre di controllo». Se tutte sono inserite nel nocciolo la
reazione a catena si ferma; se invece man mano vengono estratte, allora la
reazione riprende con sempre maggior vigore. Per evitare danni seri e possibili
disastrose conseguenze ambientali, la gestione di un impianto elettronucleare
deve essere fatta evitando che il nocciolo del reattore superi le temperature
previste dal progetto. Nella maggior parte dei casi ciò viene fatto
convogliando grandi quantitativi di acqua sul nocciolo, grazie a potenti pompe
(per dare un’idea: 60 metri cubi al secondo per una centrale da 1000 MW). In
mancanza del raffreddamento, la temperatura delle barre di combustibile può
velocemente raggiungere le migliaia di gradi centigradi, con la conseguente
fusione dei materiali che le costituiscono e il rilascio delle sostanze (assai
radioattive) in esse contenute.

È il caso di specificare che, per
realizzare una centrale nucleare, la disposizione e la concentrazione del
materiale atomico sono assai differenti da quelle proprie della bomba. Questo
non vuol dire che una centrale non possa esplodere, ma si trattererebbe in tal
caso di una esplosione «convenzionale», dovuta all’accumulo di gas e alla loro
eventuale reazione chimica e non a una reazione nucleare di tipo incontrollato.

Negli ultimi decenni si sono avuti
alcuni gravissimi incidenti in impianti nucleari civili: Cheobyl nel 1986 e
appunto Fukushima nel 2011. Se nel primo caso ciò è stato dovuto principalmente
alla disattenzione e impreparazione dei tecnici addetti all’impianto (Cheobyl
e il Trentino. La paura atomica nel piatto
, in bibliografia, ndr) e
solo in seconda battuta alle debolezze tecniche dell’impianto stesso, nel
secondo il disastro è stato conseguenza solo dell’incapacità di stimare con
precisione il rischio dovuto agli tsunami. Per poter disporre delle grandi
quantità di acqua necessarie al suo funzionamento, la centrale di Fukuhima è
stata posizionata sulla costa. Essendo il Giappone un paese notoriamente soggetto
a forti terremoti, l’impianto era stato progettato non solo per resistere alle
scosse telluriche, ma si era anche provveduto a costruire delle barriere sul
lato mare, così da proteggerlo dalle distruttive onde di marea (gli tsunami,
appunto) che spesso accompagnano i terremoti. I progettisti avevano però
valutato male l’onda massima prevista.

Quella che l’11 marzo 2011 si
abbatte sulla terraferma ha un’altezza tale da superare le barriere, allagando
la centrale (o meglio le centrali; a Fukushima erano infatti operativi ben sei
reattori, in edifici separati l’uno dall’altro, ma vicini). Al momento delle
ondate, la reazione a catena è già bloccata, essendo intervenuti sin dalle
prime scosse i sistemi automatici di sicurezza, ma permane, come abbiamo spiegato,
la necessità assoluta di raffreddare il nocciolo del reattore. Qui cominciano i
problemi.

La forza del terremoto interrompe
le linee elettriche che collegavano la centrale alla rete elettrica nazionale.
Questo impedisce alla centrale, che – avendo fermato le proprie turbine – ora
non produce più elettricità, di ricevere dall’esterno l’energia necessaria a
far funzionare le pompe di raffreddamento. Un evento del genere era stato
previsto nel progetto di Fukushima: in questo caso dovrebbero intervenire dei
grandi generatori diesel appositamente predisposti. Gli alloggiamenti di
questi, posizionati troppo in basso, vengono però invasi dalle acque e la
maggior parte dei serbatorni del loro combustibile sono distrutti. Si fa allora
ricorso a una terza linea di difesa, costituita da grosse batterie. Per varie
ore esse garantiscono il funzionamento delle pompe (almeno di quelle non
danneggiate), ma alla fine anch’esse giungono a esaurimento. A questo punto la
situazione si fa drammatica. Stante la scala del disastro causato dal terremoto
e dal successivo tsunami, risulta impossibile ristabilire le connessioni
elettriche con la rete; non si trova il modo di far ripartire (o di
rimpiazzare) i generatori d’emergenza; non si possono portare altre batterie;
la centrale non può quindi raffreddare il nocciolo, che comincia a salire di
temperatura, fondendo i materiali che lo costituiscono e causando un accumulo
di gas. Delle esplosioni squarciano tre edifici di contenimento; tre reattori
vengono pesantemente danneggiati, oltre ogni possibilità di recupero; in
atmosfera e nel mare vengono immesse grandi quantità di sostanze radioattive,
che vanno a contaminare non solo la zona della centrale ma un territorio assai
vasto. Un vero disastro ambientale, umano ed economico. Già, anche economico,
in quanto la sola distruzione dei reattori rappresenta una perdita netta
immediata di ben oltre dieci miliardi di dollari, senza contare la perdita di
introiti dall’elettricità non più prodotta. E non parliamo poi del costo
derivante dall’evacuazione della popolazione da una zona di venti chilometri di
raggio attorno alla centrale. Ma la situazione sarebbe potuta degenerare con la
fuoriuscita di radioattività in quantità enormemente superiori, aumentando di
molto il numero di civili da evacuare dalle zone circostanti.

Per vari giorni gli addetti alla
centrale e la protezione civile giapponese cercano in tutti i modi di riportare
l’impianto  sotto controllo. Questo è
reso difficile dai danni subiti e dall’impossibilità di lavorare in molte aree
a causa delle radiazioni troppo intense. Si ricorre al getto di acqua da parte
di elicotteri, che si dimostra però assai poco efficace; si usano autopompe
giganti per spruzzare acqua sopra i noccioli esposti dei reattori. Con
abnegazione e affrontando grandi rischi i tecnici e gli addetti riescono a
tamponare come meglio possono il disastro, non riuscendo però ad evitare che
grandi quantità di sostanze radioattive finiscano nell’ambiente terrestre e
marino. Ancora al momento in cui scriviamo queste righe – fine settembre 2013 –
le perdite continuano.

Mirco Elena

 

       Scheda / Le
radiazioni e gli effetti sull’uomo                 

Le radiazioni possono essere pericolose o mortali perché
interferiscono con il Dna degli esseri viventi. Ma occorre distinguere atomo da
atomo. E ancora: cos’è il processo di «decadimento»? Proviamo a fornire qualche
conoscenza elementare.

Parleremo di radiazioni ionizzanti,
cioè di quelle forme di energia che, sconvolgendo la nuvola di elettroni che
circonda i nuclei atomici, possono causare pesanti danni al Dna delle cellule
degli organismi viventi. Storicamente si parla di radiazioni di tipo alfa,
beta, gamma, oltre che dei neutroni. Altre radiazioni, come quelle
elettromagnetiche di bassa energia (onde radio, microonde, infrarosso, luce
visibile, ultravioletto non estremo) sono tutt’altra cosa e sono assai meno
pericolose. Le alfa sono nient’altro che nuclei di atomi di elio, costituiti da
due protoni e due neutroni; le beta sono elettroni; le gamma sono un tipo di
luce di frequenza altissima. La loro capacità di penetrazione è assai varia: le
gamma possono attraversare spessori di cemento superiori al metro; le alfa
vengono invece bloccate da un semplice foglio di carta. Le beta sono intermedie
tra queste due. Anche i neutroni possono attraversare grandi spessori di
materiale.

Da quanto detto sinora si potrebbe
essere tentati di pensare che le alfa siano le meno pericolose perché penetrano
di meno; sbagliatissimo! Infatti dobbiamo riflettere sul fatto che se è vero
che esse vengono bloccate in un brevissimo spazio, ciò vuol dire che tutta
l’energia da esse trasportata viene ceduta a una piccola zona del bersaglio,
ove quindi la concentrazione del danno sarà assai elevata. Viceversa, se una
radiazione deposita la propria energia all’interno di uno spessore rilevante di
materiale, ciò vuol dire che i danni saranno più distribuiti. Pensando ai
sistemi biologici, ciò vuol dire che se i danni sono forti e concentrati sarà
più difficile che i sistemi di riparazione cellulare siano in grado di
effettuare un buon lavoro. Ecco quindi perché il rischio da particelle alfa su
tessuti viventi viene considerato venti volte superiore rispetto al caso in cui
la medesima quantità di energia viene depositata da raggi gamma. Tenendo però
presente che le alfa sono bloccate da piccoli spessori, possiamo capire che
esse presentano per noi un rischio solo nel caso vengano inalate o ingerite; in
tutti gli altri casi, la nostra pelle (il cui strato esterno è costituito da
cellule morte) è già sufficiente per schermarci.


vari atomi radioattivi posso emettere radiazioni di tipo differente. Nel
processo di «decadimento» essi si trasformano in altre sostanze, che possono
essere anch’esse radioattive. In tal caso il decadimento prosegue fino a che si
arriva ad avere un atomo stabile. Una delle cose sorprendenti della fisica è
relativa ai tempi che caratterizzano i decadimenti; questi possono essere
straordinariamente differenti da atomo ad atomo e noi non possiamo intervenire
in nessun modo a cambiarli. Si va dai miliardesimi di secondo (e anche molto
meno) di certi tipi di atomi ai 4,5 miliardi di anni dell’uranio 238, e anche
oltre. Questo vuol dire che a seguito di un incidente come quello di Fukushima
ci troviamo a far fronte ad un inquinamento complesso, con la presenza
nell’ambiente, sul terreno, nelle acque, nell’aria di atomi con tempi di
dimezzamento (il tempo necessario perché metà del materiale radioattivo
inizialmente presente decada) assai vario.

Ciò ha importanti conseguenze dal
punto di vista delle azioni di rimedio. Infatti se abbiamo un ambiente
inquinato da iodio 131 (il cui tempo di dimezzamento è di soli otto giorni),
allora basta attendere alcune settimane ed esso scompare spontaneamente
dall’ambiente, che quindi si «autodisinquina». Differente è il discorso per
quanto riguarda le persone: in quelle poche settimane di esposizione allo iodio
131 sarà indispensabile fornire loro supplementi di iodio non radioattivo da
aggiungere agli alimenti, così da – mi si passino i termini – «saziare», «intasare»
la loro tiroide, che altrimenti si «abbufferebbe» con lo iodio pericoloso. Se
invece abbiamo presenza di atomi di lunga durata, ad esempio il cesio 137 (che
dimezza in trent’anni), dovremmo aspettare qualche secolo perché la loro
concentrazione si riduca a valori sufficientemente bassi, e quindi può
risultare indispensabile intervenire direttamente, ad esempio asportando il
terreno o piantando colture che li concentrino per poi raccoglierle e
seppellirle in discariche adatte. Ancora peggiore è il caso se nell’ambiente è
stato disperso plutonio 239, con un tempo di dimezzamento di 29.000 anni.

Per misurare la quantità di
radiazioni presenti in un certo ambiente o in un organismo si usano varie unità
di misura, piuttosto complesse e, per rendere le cose ancor più problematiche,
differenti tra l’Europa, dove vige il sistema internazionale, e gli Usa dove
persiste l’uso di antiche unità tradizionali. Non ci pare essenziale fornire
qui un quadro completo. Ci limitiamo solo a fornire un paio di nozioni, utili
per interpretare le notizie che i media, di quando in quando, ci propongono nei
loro servizi.

Ecco quindi che il becquerel (in
sigla: Bq) misura la cosiddetta attività e corrisponde a un decadimento
radioattivo al secondo. Pertanto, se leggiamo che nell’aria contenuta in una
stanza l’attività è di 200 Bq al metro cubo, ciò vuol dire che nel corso di un
secondo in un metro cubo di quel volume si avranno 200 decadimenti, con
l’emissione delle rispettive radiazioni. Nel caso dei cibi si parla spesso di
Bq/kg o Bq/litro. Per dare un esempio, le normative europee indicano in 200
Bq/m3 il valore di concentrazione da non superare per il gas radioattivo radon
presente nell’aria delle nostre case.

Il sievert (in sigla Sv) misura
invece la dose assorbita, cioè la quantità di radiazione depositata in un
bersaglio (ad esempio il nostro corpo, o uno specifico organo), tenendo però
conto non solo della quantità di energia, ma anche delle caratteristiche della
radiazione incidente e delle proprietà del tessuto colpito. Una dose di un Sv è
una quantità molto grande; si pensi che mediamente un cittadino italiano
assorbe circa 3 millesimi di Sv all’anno. Una dose di pochi Sv risulta mortale
per l’essere umano.

Mirco Elena

 
 
     La Chiesa cattolica del Giappone                                                    


     «CHIUDERE IMMEDIATAMENTE GLI IMPIANTI NUCLEARI»         

Sulla questione nucleare la posizione della Chiesa
cattolica giapponese è sempre stata chiara: necessità di sviluppo delle energie
alternative, ma anche riconoscimento dei limiti umani e revisione di stili di
vita troppo energivori. L’esatto contrario delle posizioni del primo ministro
Abe.


Osaka. Scrivo questo commento
per Missioni Consolata mentre vari programmi televisivi giapponesi
stanno ripetendo all’infinto la notizia che Tokyo ospiterà le Olimpiadi estive
del 2020. L’esultanza che questo annuncio sta suscitando nei Giapponesi è più
che comprensibile. Ma appena l’eco delle urla di gioia, degli abbracci e dei
vari proclami di benvenuto si affievoliscono, ecco che altre notizie più
preoccupanti fanno capolino sugli schermi. Il problema è presto detto: Tokyo
dista appena 250 chilometri da Fukushima, e la situazione alla centrale non è
certo delle più sicure. L’ultimo problema riguarda la fuga di acqua radioattiva
(usata per raffreddare i reattori) che si starebbe riversando in mare
provocando ulteriori danni all’ambiente. Ecco perché il primo ministro Abe, di
fronte al Comitato Olimpico Internazionale, ha rassicurato gli ascoltatori
affermando che «gli effetti dell’acqua contaminata sono stati perfettamente
contenuti all’interno della baia artificiale (costruita attorno alla centrali, ndr
e che la situazione è «sotto controllo».

Che questa affermazione del primo ministro sia accurata
o meno, forse poco importa: ciò che conta davvero, e le parole di Abe lo
confermano una volta di più, è che il Giappone non sembra ancora capacitarsi
della tragedia in atto e, soprattutto, che sia troppo orgoglioso per aprire un
di-battito pubblico sull’uso o meno dell’energia atomica e sulla sicurezza
delle sue 54 centrali nucleari. Una difficoltà, questa, a cui la Conferenza
episcopale giapponese aveva negli anni scorsi più volte accennato insistendo
affinché il governo rivedesse le sue politiche nucleari e desse vita a una
consultazione popolare sulle stesse.

Una delle recenti petizioni promosse dalla Conferenza
episcopale, prima ancora che il terribile tsunami si abbattesse su Fukushima,
riguardava un incidente avvenuto presso una piccola fabbrica di combustibile
nucleare a Tokaimura il 30 settembre 1999. L’incidente, generato dalla
miscela-zione accidentale di uranio e acido nitrico al di fuori delle regole
imposte dal ministero, aveva procurato la morte di 2 operatori e la contaminazione
di molte altre persone. In quella circostanza, la Conferenza aveva scritto
all’allora primo ministro Obuchi Keizo pregandolo di intervenire sui seguenti
punti: offrire l’opportunità alla popolazione di scegliersi quale tipo di fonte
energetica usare; ricontrollare tutte le centrali attive nel paese per
accertarsi che non ci siano mal funzionamenti; preparare la gente con
esercitazioni apposite in caso di incidenti o fughe radioattive; chiedere delle
revisioni dei siti nucleari a delle organizzazioni indipendenti; rendere
obbligatorie visite mediche per coloro che lavorano alle centrali e offrire
delle assicurazioni che contemplino il caso di contaminazione nucleare; e
infine, rendere pubbliche tutte le informazioni riguardanti l’incidente e lo
stato in cui versano gli altri impianti nucleari.

Di più, al n. 75 del documento «Rispetto per la vita –
Un messaggio dai vescovi giapponesi per il XXI secolo», pubblicato il 1 gennaio
2001, i vescovi affermavano che «La scoperta e l’uso dell’energia nucleare…
hanno offerto un’inedita fonte di energia all’umanità ma, come possiamo
constatare dalla simultanea distruzione della vita umana a Hiroshima e
Nagasaki, dal disastro di Cheobyl e dall’incidente avvenuto a Tokaimura, essa
può anche trasmettere enormi problemi alle generazioni future. Per usarla
correttamente abbiamo bisogno di riconoscere i nostri limiti e di esercitare la
massima cautela. Per evitare tragedie, dobbiamo sviluppare dei mezzi
alternativi più sicuri per produrre energia». Il documento lanciava poi un
accorato appello affinché il Giappone rivedesse il suo stile di vita fin troppo
fiducioso dei risultati scientifici e eccessivamente dipendente da un uso
spropositato non solo di energia atomica, ma anche elettrica. E se,
assecondando questo ripensamento, il Giappone si fosse ritrovato a essere meno
competitivo sul piano economico, ebbene, affermava il documento, almeno sarebbe
vissuto senza più paura di incidenti nucleari e sarebbe finalmente ritornato
alle sorgenti della sua cultura, saggezza e tradizione (shintornista, buddhista e
anche cristiana) che lo vedevano coesistere pacificamente con la natura.

Tutte queste raccomandazioni, inutile dirlo, si sono
rivelate dei semplici desideri, o delle voci troppo flebili per contrastare le
urla di coloro che continuavano ad invocare il proseguimento di un sistema
economico altamente dispendioso in termini di risorse sia energetiche che
umane.

Eppure, malgrado il
silenzio che ha accompagnato le sue esortazioni, la Conferenza episcopale si è
sentita in obbligo di lanciare altri messaggi in occasione degli anniversari
del disastro di Fukushima. L’ultimo, datato 22 febbraio 2013, constatava il
fatto che a due anni dalla tragedia non si può certo dire che la pace e la
speranza siano state restituite alla popolazione di quelle zone afflitte, e
neppure che si possa dare vita a una benché minima ricostruzione. Le 160.000
persone evacuante da Fukushima, che vivono in abitazioni temporanee, vedono le
loro forze fisiche sbriciolarsi giorno dopo giorno; il numero dei giovani che
abbandono i paesi vicini in cerca di lavoro sono sempre più numerosi; aumentano
le famiglie separate perché molte mamme con i loro bambini lasciano il marito
per andare a vivere in zone del Giappone ritenute più sicure… Nonostante questo
dramma la Chiesa continua a stare accanto alle persone offrendo loro supporto
materiale e spirituale, cerca continuamente di dare loro speranza e forza
stabilendo relazioni tra gli abitanti della regione e aiutandoli a ricostruire
comunità quasi irrimediabilmente infrante dalla tragedia.

Ma forse, e più coraggioso di tutti, è stato
l’appello lanciato il 22 dicembre 2011 dal vescovo di Sendai, Martin Tetsuo
Hiraga, contro la discriminazione nei confronti di coloro che vivono nelle zone
colpite dal disastro. Una discriminazione perpetuata non soltanto nei confronti
delle persone e dei prodotti di quella regione, ma anche (e ancor più
tristemente) nei confronti della sciagura stessa. Come si afferma nell’appello:
«La situazione non migliorerà di certo rigettando Fukushima. È solo accettando,
rimanendo vicini e dimostrando solidarietà alla popolazione di Fukushima che
scopriremo la via da seguire. Ciò che dobbiamo respingere non è Fukushima, ma
la nostra volontà a escludere e discriminare, sentimenti questi che rappresentano
i veri ostacoli verso la solidarietà nei confronti della gente di Fukushima.
Dobbiamo inoltre opporci alle politiche nucleari che hanno creato questa
situazione».

Il messaggio ad Abe e al suo tentativo di
sdrammatizzare il disastro nucleare in atto non avrebbe potuto essere più
chiaro. Non resta che sperare che le stesse acclamazioni di esultanza per la
scelta di Tokyo come città ospitante le prossime Olimpiadi, possano un giorno
essere seguite da quelle che finalmente annunciano il raggiungimento di un
futuro più sicuro per tutti gli abitanti di Fukushima, nome questo ormai
diventato uno dei tanti simboli di come (e di quanto!) l’uomo possa
irrimediabilmente farsi del male se lasciato solo in balia di se stesso.

Tiziano Tosolini
 

Mirco Elena e Tiziano Tosolini




N.E.2 – Dove la religione diventa irrilevante

Scenari in Europa


Alcune note molto sintetiche per capire la realtà
europea attraversata da profondi cambiamenti di carattere culturale e religioso
dalle conseguenze inedite sulla vita della Chiesa. La religione cristiana non
solo deve competere con le altre religioni, ma è sempre più ridotta alla
dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita sociale. Senza una vera
comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova evangelizzazione» resta
astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi schemi e metodi
di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però lasciano
tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di vera
evangelizzazione.
Tempo di crisi

Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate
della nuova evangelizzazione le chiese di antica cristianità (soprattutto
europee). Questo interpella direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi
e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione battesimale siamo i
primi annunciatori della Buona Notizia proprio in questa nostra Europa. È
un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni
cambiamenti soprattutto di carattere culturale e religioso, che hanno investito
le nostre nazioni.

Forse, guardandoci intorno, contandoci – diminuiscono i
sacerdoti e le persone impegnate nella vita consacrata, si chiudono o vendono
le chiese e, pur avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e pratica
si ritrova ormai ridotto a una minoranza sempre più emarginata -, aumenta il senso
di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa esperienza di «spiazzamento»
dovremmo provarla nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e
globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento non più un moto
temporaneo, ma il vero «il modo di essere» della realtà. Sì, l’Europa sta
cambiando, e se non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di
noi.

Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo
essee convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in questo tempo. Cogliere quest’ora
(kairos, tempo della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa
quindi essenziale per disceere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in
questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante.

La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può
svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal
rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a
uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario,
impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo
dati. Dipende molto da come viviamo e gestiamo la crisi.

Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della
crisi in cui viviamo.

Pluralizzazione
dei riferimenti culturali

Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo
definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si
articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle
loro definizioni di base.

Il primo è la secolarizzazione che non significa
automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi la definiscono come «il
processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose
perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono che «la
secolarizzazione non spinge via la religione dalla società modea, ma
piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione
importante per l’intera società».

Il secondo è il processo di privatizzazione che
accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre
prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede, ormai
relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da
altre priorità.

Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle
offerte
a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di
scelta e di cambiamento. Questo produce anche modi diversi di vivere la
religione e le culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di
cambiare idea, prodotti, consumi e costumi.

Un ultimo aspetto merita di essere considerato, anche se
non frequentemente collegato ai fenomeni già citati: quella che qualcuno ha
chiamato rivoluzione mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e
differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari,

in rivista di Sociologia Urbana e Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p.
27-43 ), ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in
fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le
migrazioni, dunque, che ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare
ulteriormente i fenomeni citati.

Migrazioni e cambiamenti

La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in
Europa non è solo un fatto quantitativo, di numeri che possono impressionare e
preoccupare. La presenza di popolazioni immigrate, con diverso background
storico, culturale, religioso e sociale, di fatto, ha prodotto «un’Europa
plurale» molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di fatto
l’immigrazione produce anche un cambiamento qualitativo. Infatti la
presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli
immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni
del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali,
immagini e simboli.

Segnali
di un ritorno della domanda religiosa

In controtendenza con il secolarismo, il tracciato
culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di senso con l’aiuto
della religione. Si tratta però di una religione essenzialmente autoreferenziale,
sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del benessere
individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo
sociale. Anche i riti e le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono
utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per ritrovare la pace, la
serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si
è aperto un grande supermarket del religioso accessibile a tutti anche grazie
all’internet e alla televisione.

Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente
europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere
senza credere
e, d’altra parte, su un credere senza appartenere:
all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla sua parrocchia succede
quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla
ricerca delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi bisogni di
sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente
questo ha poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera
a Diogneto
che riportiamo a pag. 34, ndr.].


Indifferenza

Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della
maggior parte degli uomini delle nostre società post–cristiane. L’indifferenza
religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza
e inutilità. È una sorta di indifferenza generalizzata di chi è deluso
dalla politica e dalle ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di
rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore delle ipotesi, si trasformano
in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo il
ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle feste liturgiche,
rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni
(beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate mondiali) o
marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e
privilegiando luoghi come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a
scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale
parrocchiale.

La
de-cristianizzazione

Sfida intea, e di non poco conto, può essere
considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o paganesimo in
Europa. Sembra che il cristianesimo sia sconfitto nell’ambito della vita
quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che va
oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle nuove generazioni
dalla Chiesa e dalla sua dottrina è evidente, e le conseguenze di questo
fenomeno non sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra pratica
religiosa e vissuto quotidiano.

Come la Roma antica, l’Europa modea sembra simile a un
pantheon, a un grande «tempio» in cui tutte le «divinità» sono presenti,
o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia.

Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di
fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da parte della maggioranza
degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani.

I
Giovani

Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i
giovani. È praticamente impossibile definire in modo univoco e statico la
condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura
pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un lato cercano
appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza
d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere,
delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico. Con un futuro,
soprattutto lavorativo, estremamente incerto.

Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e
priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente
sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità
incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla
scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare”
dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico,
affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità
e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono
dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del
loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa
il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo,
dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente
socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi
va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura»
(Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del
Congresso «Nuove Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio 1997, n. 1.c).

Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o
nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d’essa, smarriti lungo
sentirneri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.
Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una
fotocopia del presente.

Nuove
divisioni nella Società

La società oggi si divide su questioni diverse da quelle
del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche
diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà…),
oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione,
spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi,
ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali,
culturali o pseudo-culturali.

La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o
addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali
(inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni
dagli altri, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti
al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in
discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci
pensano nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di
cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi
e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque aperti al dialogo, e
coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo
immaginare.

La diffusione della paura nelle nostre società,
la sua strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato anche economico,
sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per
definizione, qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada,
in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i
nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e
filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati,
nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare
grandi timori fra i cittadini, anzi.

Fortress Europe

Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al
respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo
dell’Europa. La firma dell’accordo di Schengen nel 1995 compie due operazioni:
abolisce i controlli alle frontiere intee e sposta i controlli alle frontiere
estee. Resta quindi nitida l’immagine di una Fortezza Europa impermeabile
dall’esterno, soprattutto dal continente africano.

«Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa
libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a
Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti dei
sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di repressione della libertà di
movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo. Dal
1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui
2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012» (http://fortresseurope.blogspot.it/).

Povertà

In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia
milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone che sono esposte al rischio di povertà
o di esclusione sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave
indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il rischio di povertà
o di esclusione sociale è molto più alto del resto della popolazione (27%
rispetto al 23% della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone
a una deprivazione materiale che va al di là della malnutrizione. Ad esempio,
5,7 milioni di bambini non possono permettersi indumenti nuovi e 4,7 milioni di
bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi
il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo un paio di scarpe per il
brutto tempo. I bambini che soffrono di deprivazione materiale producono
risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono
poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti.

Una forma particolarmente grave di deprivazione
materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la cui entità è
difficile da quantificare. Le stime di cui si dispone indicano però che in
Europa nel 2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei
senzatetto è aumentato di recente a causa dell’impatto sociale della crisi
economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor più
preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie con bambini, giovani e
migranti.

Esclusione
sociale

Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine «esclusi»
a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia, gli esclusi, oggi, sono dei
nostri. L’esclusione sociale è un fenomeno relativamente nuovo per la sua
radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio,
perché uno soffre in quanto è parte del sistema. L’escluso è semplicemente
ignorato;
né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da
rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione
degli esclusi, perché si tratta di un investimento non redditizio; gli esclusi
non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono
non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di più, nella
situazione di occupare il margine, come quello della pagina. Ma bisogna
ricordare che il margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente,
l’esclusione è un’inclusione nel margine stesso. L’escluso viene collocato al
suo posto, gioca il suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta
il valore del lavoro agli occhi di tutti gli altri. Egli è il cattivo esempio.
L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano,
nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in una periferia della geografia
urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi.

La
frantumazionedei legami sociali

Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in
apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido», descrive il carattere
fluido della nostra società, con la sua assenza totale di «consistenza», di
stabilità, e il carattere effimero, incapace di durata, non solo delle nostre «cose»,
ma anche (e soprattutto) delle nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre
più rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso letterale del
termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza
sul «usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si estende ai rapporti
interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve
produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta, per cercare emozioni
altrove e con qualcun altro.

Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro dal
titolo significativo, tradotto in italiano come se esprimesse un desiderio: «Voglia
di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese, suona
molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità –
comunità mancante
).

Il
proliferare dei «nonluoghi»

Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato
una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodeità» (Eleutera editrice, Milano
1993, nuova edizione 2009).

Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai
luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non
essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture
necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni: autostrade,
svincoli, aeroporti, stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali,
eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza
entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di
accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un cambiamento (reale o
simbolico).

I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra
epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel
campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un
individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi
abita. Insomma sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e
frequentati.

Morte del prossimo

Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e
svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa
frase riassume bene il messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel suo
libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009). Perché si è distanti dal vicino
e vicini al lontano.

Nelle società globalizzate il vicino è un nemico
potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la
globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone
lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive
nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. «Dopo la morte di
Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale
dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano
senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo
Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino.
È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma
anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i
morti causa turbamento».

Epoca
delle passioni tristi

Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag
filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno
scritto un libro: «L’epoca delle passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro
tesi è che la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata
da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia».

Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul
presente motivando impegno, applicazione, entusiasmo, slancio, prospettiva, ma
fa implodere ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A
che scopo?», «perché?». Siamo quindi al nichilismo, che più di un secolo
fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro, così definendolo: «Nichilismo:
manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi perdono ogni valore».

Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema.
La storia registra le sue scansioni proprio grazie al crollo di certi valori e
all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso
dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo
appiattiti su un «eterno presente» che, non offrendo prospettive credibili, va
vissuto in tutta la sua intensità (tutto e subito) quando se ne ha la forza, o
in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un tarlo, ha fatto
breccia nell’anima.

Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso molto
bene quando ammoniva le chiese dell’Europa «Spesso tentate da un offuscamento
della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono
proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano
disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi
stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo
millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il quale, pur nel pieno
possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una
convivenza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che
la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi
popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale Ecclesia in
Europa
, 28/06/2003, n.7).

Antonio Rovelli




N.E.3 – Sulle tracce del «sogno di Dio»

Qualche
suggerimento operativo

Alcuni spunti, non esaustivi e solo accennati, per
continuare a riflettere/pensare insieme sulla missione – nuova evangelizzazione
in Europa oggi.

Pellegrini
«con» Gesù in Europa

«La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si
realizza questo diventare uomo? Come si impara l’arte di vivere? Qual è la
strada della felicità? Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada,
insegnare l’arte di vivere. Gesù dice all’inizio della sua vita pubblica: “Sono
venuto per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); questo vuol dire: io ho la
risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita,
la strada alla felicità, anzi: io sono questa strada, il Vangelo, la buona
notizia in persona» (La Nuova Evangelizzazione, Joseph Ratzinger,
10/12/2000).

Prima di tutto va ricordata una cosa fondamentale per
ripensare la missione in Europa: occorre ripartire da Cristo. «Non ci
seduce certo, scrive Giovanni Paolo II, la prospettiva ingenua che, di fronte
alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non
una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci
infonde: io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo
programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e
dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso,
da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e
trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste.
È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se
del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione
efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo
Millennio Ineunte
, 29).

Occorre dunque ritornare alla scuola di Gesù itinerante
per le strade della Palestina.

I Vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il
gruppo in missione. La comunità dei discepoli è itinerante come il
Maestro. Gesù e i discepoli sono costantemente davanti alla folla. È stando con
Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare, dove e per quale
annuncio. Ma è andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita,
infatti, è itinerante, senza fissa dimora. Non si tratta di una tecnica
pedagogica secondaria, ma di una questione d’identità: se la comunità non va in
missione, se non sta sempre davanti alla folla, mostra di non aver capito (e
accolto) l’evento di Gesù e non si fa più segno nel mondo di quell’evento. Il
sale non è più sale.

Un altro luogo privilegiato per l’incontro con Gesù è
la strada
: quella in cui incontra Zaccheo, e i lebbrosi, e il cieco, quella
che percorre insegnando e guarendo, quella che lo conduce a Gerusalemme dove si
compiranno i suoi giorni. Gesù sa cos’è la strada. Ha cominciato a muoversi
prima ancora di nascere, nel grembo della madre. E se non ha «una pietra dove
posare il capo», non gli è mai mancata una strada dove camminare. Gesù è un
pellegrino, un viaggiatore, come il samaritano. Ha la strada nel sangue. è sulla strada che incontra la gente, che
guarisce, che si commuove, che predica e prega e sfama la folla.

«(Gesù) non sceglie di portare il suo insegnamento
innanzitutto e soprattutto nei luoghi di culto o nei luoghi della cultura, né
in quelli della politica o in quelli del mercato. Sceglie prioritariamente la
strada: il traffico della strada, dove la sorpresa è sempre di casa. Non si può
scegliere chi incontrare né da chi lasciarsi incontrare. Non puoi nasconderti
sulla strada; sei esposto ed esponi gli altri al tuo sguardo. Vi è una presenza
(quasi) nuda di noi stessi. Una presenza precaria, ma – è questo il punto – già
aperta, disponibile all’altro, allo sconosciuto, allo straniero, incontrando il
quale e lasciandosi incontrare dal quale possiamo forse cogliere quello
sconosciuto che abita in noi e divenire perciò più coscienti di noi stessi» (A.
Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e
non credenti
, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p.25-26).

La
missione «di strada» di Gesù

La missione di Gesù è stata una missione popolare tra la
gente e per la gente. La dedizione di Gesù per la gente è lo specchio luminoso
dell’amore di Dio per tutti: malati, peccatori, stranieri, gente disorientata
come pecore senza pastore. Tutta la miseria del popolo si dispiega davanti a
Gesù. È a questo popolo che Egli annuncia – con le parole e le guarigioni – il
Regno.

L’atteggiamento di Gesù verso la gente nasce da una sua
profonda «compassione» (cioè da un amore profondo, preoccupato, partecipativo e
quasi materno che tende a dare/suscitare la vita) e manifesta la sua totale
dedizione.

Il «come» Gesù ha vissuto
concretamente l’amore è il modello chiaro per chi vuole seguirlo sulla strada
dell’annuncio della buona notizia del Regno.

Innanzitutto Gesù si è «spogliato» per entrare in dialogo con le
persone: nella pratica dell’incontro interpersonale egli ha vissuto la
dimensione dialogica, sempre accompagnata dalla dimensione di auto-svuotamento,
di condiscendenza. Gesù non ha mai consegnato a chi incontrava una verità astratta
o generica, ma ha instaurato con le persone una relazione umana, che diventava
per l’interlocutore un tempo favorevole e decisivo per orientare il senso della
vita. Il suo comunicare «in situazione» era preceduto da un cammino di
abbassamento, di condiscendenza, che rinnovava quel cammino di kenosis
(auto-svuotamento) da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di
uomo come noi (cfr. Fil 2,6-7).

Un’altra caratteristica dell’annuncio del Regno
praticato da Gesù era la sua capacita di accoglienza. Gesù sapeva
incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto
del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cfr. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea
(cfr. Mc 15,42 43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cfr. Mt
8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cfr. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli
uomini giusti come Natanaele (cfr. Gv 1,45-51), o i peccatori pubblici e le
prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cfr.
Mc 2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1).

Com’era possibile questo? Perché Gesù era capace di non nutrire prevenzioni,
sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare
senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Gesù creava uno spazio
accogliente tra se stesso e colui con il quale entrava in dialogo; faceva
questo mettendosi innanzitutto in ascolto dell’altro in quanto persona come
lui, in quanto membro dell’umanità dotato di un volto, di una storia e di un
nome precisi, e cercando dunque di percepire cosa gli stava a cuore, qual era
il suo bisogno.

Ha saputo vedere:

• un uomo dove gli altri vedevano
un pubblico peccatore (cfr. Lc 5,29-30);
• una donna dove gli altri vedevano
una prostituta (cfr. Lc 7,36-50);
• la salvezza all’opera dove gli
altri vedevano solo vizio e peccato (cfr. Lc 19,1-10).

È in questo modo che Gesù ha vissuto la sua intera
esistenza come capolavoro d’amore, e così ha compiuto pienamente la volontà di
Dio, è stato «l’uomo secondo il cuore di Dio».

Il
senso umano della sequela di Gesù

Si tratta oggi di dare carne al comandamento
dell’amore
così come Gesù ce lo ha indicato e mostrato, comprenderlo in
modo rinnovato, adoperandosi per far emergere quella che si potrebbe definire
una «grammatica umana dell’amore». E questo insieme a una riscoperta della prossimità:
le due istanze sono strettamente interrelate e vanno di pari passo.

Allora «chi ha spirito missionario sente l’ardore di
Cristo per le anime e ama la Chiesa come Cristo. Il missionario è spinto dallo
zelo per le anime, che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di
attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento
ai problemi della gente» (Rm 89).

Noi siamo chiamati in Europa a imparare il linguaggio
degli uomini di questo tempo. O, forse, prima del linguaggio, dobbiamo anche
imparare l’alfabeto col quale balbettare le parole del cuore e della simpatia,
prima che della ragione, delle regole e proibizioni.

Questo perché l’evangelizzazione non batta sentirneri
aridi, ma sappia respirare a pieni polmoni il vissuto degli uomini, nostri
fratelli e sorelle, perché l’evangelo non sia ridotto alla sola dimensione
morale o legale, perché la spiritualità cristiana non sia declinata in
opposizione alla realtà umana e materiale.

Occorre recuperare il senso umano, umanissimo, della
sequela di Cristo, la quale non è riducibile al rispetto di norme, a un
affannarsi a tempo pieno, a un’attività pastorale frenetica, ma esige la
gratuità dell’amore. Questo perché, attraverso di noi e la nostra
testimonianza, il Vangelo non diventi sale scipito, ma conservi il suo sapore,
non opacizzi la luce, ma continui a illuminare.

Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione:
in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e
risorto in forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare non è
anzitutto portare una dottrina, comunicare della verità: è raccontare Gesù
Cristo
come colui che ha evangelizzato «Dio» – ha, cioè, reso Dio
una buona notizia – e ha evangelizzato l’uomo vivendo egli stesso nella
storia e nella condizione umana, e rivelando a ciascuno la sua autentica natura
di «salvato».

Questo è il contributo specifico del missionario – pellegrino nel suo cammino in compagnia degli uomini:
vivere, rendendola visibile e tangibile questa prassi missionaria di Gesù. In
questo modo saprà rispondere al grido, spesso in forma di gemito, che
percepiamo venire dall’Europa oggi: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21), come i
pagani chiesero ai discepoli in occasione della sua ultima pasqua a
Gerusalemme.

Questo è il contributo di ogni cristiano, perché la nuova evangelizzazione non è un «affare»
esclusivo degli uomini e donne di Chiesa, ma è la missione di ogni battezzato
che ha incontrato Gesù nella sua vita. Come i primi cristiani che, cacciati
fuori da Gerusalemme dalla persecuzione «andavano per il paese e diffondevano
la Parola di Dio» (At 8,4) e liberi da schemi e tradizioni, animati dallo Spirito,
seppero evangelizzare in modi nuovi e creativi (come ad Antiochia, dove per la
prima volta il Vangelo fu annunciato specificamente ai non ebrei. Vedi At
11,19-21).

Imparare
a sognare

Si tratta allora di imparare di nuovo a «sognare» per
intravedere una nuova visione/immaginazione evangelica che si traduca in azione
e significhi una nuova operatività missionaria, entro il contesto, a un tempo
plurale e globale, dell’Europa di oggi.

Per questo prima di tutto occorre superare
l’autoreferenzialità
, cioè, il ripiegamento su noi stessi, sui nostri
limiti, paure e debolezze. Basta piangerci addosso, pensare che tutto dipenda
da noi. Dobbiamo sollevare lo sguardo e lasciarci guidare dal sogno di Dio per
l’umanità e in particolare per questo nostro Continente. Abbiamo bisogno del
coraggio di sognare con Dio.

Secondo, dobbiamo ricordarci che è un cammino
graduale
da portare con pazienza, perseveranza e umiltà. Esige tempo,
riflessione, dialogo, voglia e passione per annunciare Cristo, anche oggi, in
questa Europa, da ritenersi vera e propria terra di missione a tutti gli
effetti.

In terzo luogo, capire che far/essere nuova
evangelizzazione non è mai una rottura con il passato, ma si colloca
nella logica del piano di Salvezza che celebriamo nella Liturgia attraverso
l’Eucarestia. Siamo in un cammino che è allo stesso tempo «continuità e
cambiamento, fedeltà al passato e coraggio di affrontare il futuro, costanza e
contingenza, tradizione e trasformazione». La memoria del passato vissuta nel
presente attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e l’ascolto della Parola,
ci dà la forza di «dar ragione della nostra speranza» (1Pt 3,15) in questo oggi
orientato al futuro.

Quarto, la nuova visione non deve essere pensata e
progettata come semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente,
ma deve essere aperta all’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi,
che determinano un sostanziale mutamento qualitativo. Sotto il segno della
pienezza, dell’impossibile divenuto possibile, e non semplicemente della
ripetitività, delle previsioni rispettate.

Questo è il grande balzo che siamo chiamati a compiere,
l’altra riva a cui tendere, la Gerusalemme a cui ritornare, correndo, pieni di
gioia, dopo l’incontro con il Risorto sulla strada di Emmaus.

Insomma, per concludere, si tratta di imparare a
contemplare l’oltre verso cui l’evangelizzazione in Europa deve protendersi.
Animati dalla certezza che il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e
nei contesti in cui operiamo in Europa, non può essere considerato come il
modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto
di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che
contenutistico.

_______________________________________________


BIBLIOGRAFIA

La bibliografia su questo argomento è immensa. Oltre ai
documenti e libri già menzionati nel dossier, segnaliamo qui solo alcuni dei più
recenti.

Zolli F. (a cura di), Essere Missione Oggi, EMI, 2012
AA.VV., La nuova Evangelizzazione, in Credere Oggi, 191 – 5/12, Edizioni Messaggero Padova,
2012
Bianchi E., Nuovi Stili di Evangelizzazione, San Paolo,
2012
Caramazza G., Dio Pensa Positivo,Fondamenti e prospettive della Missione “ai popoli”, EMI, 2012
Meddi L., La parrocchia cambia parroco, una risorsa per
la pastorale
, Cittadella, 2012
Meddi L., Dotolo C., Evangelizzare la vita cristiana, Cittadella, 2012
Albanese G., Missione XL, per un Vangelo senza confini, Edizioni Messaggero
Padova, 2012
Maggioni B., Nuova Evangelizzazione, forza e bellezza
della Parola
, Edizioni Messaggero Padova, 2012
Casale G., Guai a me se non annuncio il Vangelo, Meridiana, 2012
Barreda J-A., Europa e Nuova Evangelizzazione, UUP, 2012
Colzani G., Pensare la Missione, UUP, 2012
Enchiridion della Nuova Evangelizzazione, Editrice
Vaticana, 2012
Sieveich M., La Missione Cristiana, Queriniana, 2012
Aranda A., Una “nuova” Evangelizzazione. Che fare? Come
fare?
, Ares, 2012
Kasper W., Augustin G., La sfida della nuova
evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede
, Queriniana, 2012
 
L’AUTORE

Antonio Rovelli, missionario della Consolata nativo
della Brianza. Studi a Londra, prete nel 1984, missionario in Uganda dal 1988
al 1996, economo di Casa Madre a Torino fino al 2000, responsabile
dell’animazione missionaria fino al 2008, fondatore della «Scuola per
l’alternativa», è ora responsabile dell’ufficio cooperazione di Missioni
Consolata Onlus, segretario nazionale del Suam (Segretariato Unitario di
Animazione Missionaria
) e vice direttore dell’ufficio della pastorale migranti
della diocesi di Torino.

Coordinamento editoriale
Gigi Anataloni, direttore di MC
 

Antonio Rovelli




3. Iran: La forza di un popolo giovane e colto

Intervista con
Davood Abbasi
A Teheran abbiamo incontrato il direttore dell’edizione
italiana di Radio Irib, l’emittente dello stato iraniano ascoltabile anche in
Italia. L’embargo (occidentale), la guerra in Siria, le relazioni
inteazionali, l’Islam, l’origine e il ruolo dei gruppi salafiti, i rapporti
con il mondo cristiano, ma anche i progressi scientifici e il nucleare. Ecco i
punti salienti di una conversazione a 360 gradi.

Teheran. Il compound della Radio e Tv di stato iraniana
occupa una vasta area della collina a nord della città. I controlli all’entrata
sono severi e anche l’abbigliamento deve essere adeguato. Qui non si ammettono
licenze in fatto di capigliatura, tollerate fuori, e i capelli devono essere
ben nascosti sotto un foulard o un chador. Gentili e accoglienti, le addette
alla sicurezza ci accolgono, ci perquisiscono e ci indirizzano verso la
redazione di «Radio Irib» (http://italian.irib.ir), in un dedalo di
stanze e sale di trasmissione, dove ci aspetta il giovane direttore
dell’edizione italiana, Davood Abbasi, giornalista ma anche ingegnere
aerospaziale.

Direttore Abbasi, l’Iran è sotto
embargo da molto tempo, ma negli ultimi anni le sanzioni si sono fatte più
pesanti. I cittadini come affrontano la situazione?

«La situazione dell’Iran sotto
embargo è ormai consolidata. Nel senso che quando contro un paese sono in
vigore sanzioni da oltre 30 anni, la questione non è certo una novità. Nel
corso degli anni l’embargo è stato però graduale e ciò ha dato al popolo
iraniano e naturalmente alle autorità la possibilità di sviluppare le proprie
difese e di mettere a punto le dovute contromisure. L’Iran sopravvive, ma
soprattutto progredisce perché l’embargo (box di pagina 37) non è “internazionale”
quanto piuttosto “occidentale”. Inoltre, molti paesi del fronte “occidentale”,
alla fine, non riescono ad attenervisi e continuano a fare affari con noi».

L’embargo colpisce però la vera
ricchezza dell’Iran: il petrolio.

«Prima dell’inizio del contenzioso
sul nucleare, gli Stati Uniti hanno cercato di penalizzare l’Iran a più riprese.
Nel 1996 approvarono la legge Ilsa
(Iran and Libya Sanctions Act). Ancora prima cercarono di interrompere
le relazioni Iran/Europa con la farsa del caso tedesco Mykonos, un attentato di
cui vennero incolpate le autorità iraniane senza uno straccio di prova. Accuse,
sanzioni, misure hanno indotto diverse volte le compagnie energetiche e
petrolifere occidentali come la Siemens, l’Eni, la Total, l’Ansaldo a lasciare
l’Iran per poi ritornarvi. In questi continui tira e molla l’Iran ha imparato a
fidarsi sempre di più di partner di altre parti del mondo, come delle compagnie
provenienti da Malesia, Indonesia, Cina, India, e delle proprie compagnie
private.

Gli Usa da anni vietano la vendita
all’Iran di pezzi di ricambio di aerei e l’Iran ha imparato a procurarseli dal
mercato nero pagando qualcosa in più, o utilizzando compagnie estere come
prestanome.

L’ultima fase riguarda gli otto
anni di governo dell’ (ex) presidente Ahmadinejad, che, mossa dopo mossa, è
riuscito a prevedere i passi dell’Occidente impedendo il collasso della
nazione.

Quando i paesi occidentali
sventolarono la probabilità di interrompere la vendita di benzina all’Iran, lui
cambiò velocemente i sistemi di diverse raffinerie che invece di altri prodotti
iniziarono a produrre il combustibile. Egli applicò, inoltre, il razionamento
della benzina e così non solo rese l’Iran autosufficiente nella produzione, ma
lo trasformò in un esportatore».

Il petrolio iraniano continua ad
essere una carta pesantissima nei rapporti inteazionali del suo paese…

«Certamente. Prendiamo la Turchia.
Ankara può anche pensarla diversamente rispetto all’Iran in questioni come la
Siria, ma sia l’Iran che la Turchia sanno benissimo di essere legati a doppio
filo per via dell’esportazione del gas iraniano, una vera e propria linfa
vitale per l’economia turca senza la quale Erdogan non può nemmeno immaginare
di sopravvivere. Lo stesso vale per Iraq, Repubbliche Centro-asiatiche e
Afghanistan. Con questi paesi ci sono scambi di energia elettrica, con alcuni
stati della regione, come il Kuwait, persino quelli di acqua potabile. Il
Pakistan, entro un anno, con il completamento del “gasdotto della pace”, sarà
collegato a Teheran ed è in fase di studio anche la costruzione di un oleodotto
che colleghi le due capitali. La Cina ha già annunciato il proprio per
l’ampliamento di entrambi i progetti verso il suo suolo, concedendo persino una
linea di credito al Pakistan.

Dall’altra parte c’è un’India che
dipende dal petrolio iraniano in maniera considerevole e che ha più volte dichiarato
di non volervi rinunciare. Nel lontanto est-asiatico ci sono la Corea del Sud e
il Giappone, due alleati Usa che però sono troppo collegati al mercato
iraniano. In particolare la Corea del Sud dipende dal greggio dell’Iran e
rivende una quantità incredibile di automobili ed elettrodomestici nel mercato
iraniano.

Sommando l’Africa, l’America Latina
e alcuni paesi dell’Europa con maggiore indipendenza, l’Iran ha ancora una
buona fetta di comunità internazionale con cui commerciare e trattare. È forse vero
che la popolazione, in questo periodo, ha sentito l’effetto dell’embargo
obamiano in maniera più consistente del passato. In effetti mai era stato
proibito l’acquisto del petrolio e mai era stata boicottata la banca centrale
iraniana, ma anche in questo caso la dirigenza ha trovato le soluzioni. Da
Turchia e India si fa dare l’oro, dalla Cina riceve merce, con ogni nazione ha
trovato la sua formula ideale. Le navi iraniane vanno a vendere il petrolio in
alto mare. Insomma, l’Iran è diventato ancora più forte ed è poco obiettivo
sostenere che sia stato messo in ginocchio dall’embargo. La conclusione è che
oggi la nazione va avanti nonostante le sanzioni. Se qualcuno lo vuole proprio
fuori dai giochi, dovrà pensare a qualcos’altro».

Come reagiscono i giovani iraniani
davanti alle sanzioni che colpiscono il loro paese?

«L’Iran ha un numero elevato di
laureati e specializzati, e il lavoro abbonda per questa generazione dato che
c’è tanto da fare e costruire. Per questo la quasi totalità dei giovani si
impegna e dà vita a quello che, senza esagerazioni, bisogna chiamare il “prodigio
tecnologico e scientifico” dell’Iran.

Nel 2012 le organizzazioni
inteazionali hanno proclamato l’Iran la nazione al mondo con il più veloce
progresso scientifico dato che il numero di pubblicazioni di studiosi iraniani,
nel giro di 10 anni, era aumentato di 11 volte. Oggi, nella regione, la nazione
supera pure la Turchia e ha ottenuto il primato. Nella classifica mondiale
generale è al 14esimo posto secondo alcune classifiche, al 17esimo secondo
altre. E questo non è l’identikit di una nazione isolata.

Una nazione che clona gli animali,
che manda nello spazio i suoi satelliti autonomamente, che padroneggia la
tecnologia nucleare, che vince l’Oscar con i suoi film, che eccelle pure nelle
discipline sportive, o non è isolata, o come minimo ha saputo reagire bene a
tutti i tentativi di isolarla».

Nel novembre 2012 Barack Obama è
stato rieletto presidente degli Stati Uniti. Vede, in prospettiva, un
cambiamento di linea politica nei vostri confronti?

«È inutile nascondere che Barack
Obama, con tutta una serie di azioni di basso profilo, sta cercando di
preparare al meglio una vera e propria guerra all’Iran. Al contrario della sua
parvenza pacifica, Obama ha imposto contro il nostro paese le sanzioni più dure
della storia, ossia il divieto di acquisto del petrolio, nostra principale
fonte di reddito, e poi il boicottaggio della Banca centrale iraniana. Per
essere chiari, sono misure che distano solo un passo dalla guerra vera e
propria. Questo l’Iran lo ha capito e non a caso nei mesi scorsi autorità
politiche e militari di Teheran hanno informato che sarebbero pronte a chiudere
lo Stretto di Hormuz nel caso di un’aggressione militare. Attraverso questo
stretto passa gioalmente qualcosa come il 40% del greggio mondiale ed è
naturale che basterebbe una chiusura anche temporanea per far schizzare a cifre
impensabili il suoprezzo. Naturalmente ne conseguirebbe un contraccolpo
economico spaventoso che l’Occidente – già oggi alle prese con una pesantissima
crisi – non sarebbe in grado di assorbire. 
Obama è il paziente stratega che nel corso di anni ha preparato l’azione
finale contro l’Iran1». 

Quali sono i legami tra la guerra
civile in Siria e le minacce all’Iran?

«Come ho spiegato prima non credo
che i venti di guerra contro l’Iran si siano placati ed anzi, in Siria, gli Usa
hanno scelto probabilmente di combattere una guerra per procura anche contro
l’Iran. Loro stanno agendo per conto di Israele, che in pratica considera
nemica la Siria solo per il fatto che Damasco rivendica la proprietà delle
alture del Golan, zone effettivamente siriane occupate da Israele con la “Guerra
dei Sei giorni” (1967).

Come ha fatto notare alle Nazioni
Unite il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, l’accanimento contro la
Siria è dovuto all’alleanza di Damasco con l’Iran. È notorio che nei primi mesi
del conflitto in Siria, ad Assad era giunta una proposta da parte
dell’Occidente: l’alleanza con il suo governo in cambio dell’interruzione delle
relazioni con l’Iran.

Il motivo è semplice. L’alleanza
non solo politica ma anche militare dell’Iran con la Siria, l’Iraq e il Libano,
rende di fatto impensabile per l’Occidente un’azione ai danni di Teheran. Perché
– con la collaborazione di questi alleati – l’Iran potrebbe colpire
tranquillamente e dolorosamente sia Israele che le basi Usa e Nato nel
Mediterraneo e nel Golfo Persico».

Dunque, secondo lei, la guerra in
Siria è soltanto un tassello di una partita contro l’Iran che vede in campo
numerosi attori. È così?

«Arabia Saudita e Qatar hanno
voluto creare una “primavera” fasulla in Siria per evitare che si sviluppasse
la primavera autentica che si stava creando e che c’è ancora nei loro
territori. L’est dell’Arabia Saudita, la regione di Qatif, ed il Bahrain sono
da oltre due anni teatro di moti popolari anti-monarchici e l’Arabia Saudita ha
cercato di soffocarli nel sangue. In più ha sguinzagliato estremisti religiosi,
criminali comuni, e terroristi provenienti da diverse nazioni arabe in Siria,
nella speranza che questa fasulla “primavera” potesse allontanare l’attenzione
mondiale e le forze che contano nella regione dai suoi territori. Poi c’è la
Turchia che si è lasciata ingannare dalle promesse di “potere” fattele dagli
Usa. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu è un teorico del pensiero
neo-ottomano2, che crede nella possibilità di
ridare vita all’Impero Ottomano di un tempo. Per questo si notano, nell’ultimo
periodo, le politiche aggressive di Ankara non solo nei confronti della Siria,
ma anche dell’Iraq. In più non bisogna ignorare gli sforzi della Turchia, negli
ultimi anni, di proporsi come un modello per tutte le nazioni del Nordafrica e
di improvvisarsi come un sostenitore sincero persino per la Palestina. In
questo senso anche il Qatar ha cercato di avvicinarsi ai palestinesi.

Purtroppo Davutoglu ha letto la
storia a metà e non si ricorda che uno dei motivi che portò l’Impero Ottomano
alla rovina furono le sue guerre contro l’Impero Persiano. Oggi, stiamo
assistendo ai famosi corsi e ricorsi storici teorizzati da Giambattista Vico.
Nella regione mediorientale ci sono due potenze emergenti, Iran e Turchia, ed
il bene di entrambe sarebbe cornoperare. Già una volta, in passato, questi due
centri di civiltà caddero in rovina, dato che attori stranieri riuscirono a
creare divergenze tra di loro. L’Iran comprende benissimo questa situazione e
lo ha dichiarato più volte. Ahmadinejad disse chiaramente che “certi paesi
saranno importanti per l’Occidente fino a quando ci sarà un governo
indipendente a Damasco. Se questo governo crollerà, altri paesi della regione
non varranno più nemmeno un fazzolettino di carta e toccherà a loro essere
attaccati”.

La Turchia non si accorge che dopo
Siria e Iraq, ammesso che in questi due paesi crollino gli attuali governi
indipendenti, l’obiettivo sarà proprio Ankara. In generale si può dire che
l’azione contro la Siria è l’inizio di tutta una serie di azioni successive.
Probabilmente contro l’Iraq, contro la Turchia stessa, e – perché no? – anche
contro l’Arabia Saudita.

Dopo aver disegnato una nuova
cartina della regione, gli americani cercheranno probabilmente di sferrare il
colpo finale anche contro Teheran. Per loro l’Iran è importante per due motivi
basilari. In primis, esso è il punto, probabilmente l’ultimo autentico, di
forza del mondo islamico: senza l’Iran sarebbe credibile la previsione di
Samuel Huntington3 che dava per condannata alla
scomparsa la civiltà islamica. In secondo luogo, è l’ultima tappa che precede
il grande duello, teorizzato da Huntington e altri, tra civiltà occidentale e
civiltà confuciana, cioè tra Usa e Cina».

Il neo-salafismo è un fenomeno in
crescita, costituendo una reale minaccia per molti Paesi.

«Credo che il neo-salafismo sia
frutto del pensiero di alcuni paesi arabi, Arabia Saudita in primis, che ha
cercato in qualche modo di salvarsi dalla morte. Spiego perché. Nel 1979,
quando in Iran vinse la rivoluzione islamica guidata dall’Imam Khomeini,
l’intero mondo islamico rimase a guardare stupito quella novità: quell’Islam
che voleva riportare in vita gli insegnamenti degli albori del profeta e che
non era corrotto, laico o occidentalizzato come quello di altre nazioni.

L’Islam iraniano ha veramente
rivoluzionato la scena politica della regione. È inutile negare che la regione
mediorientale del 1970 è molto differente rispetto a quella del 2000 e ciò
soprattutto per merito dell’Iran. Una nazione che nonostante l’aggressione
dell’Iraq di Saddam, nonostante le sanzioni e nonostante il “no” grande e grosso
detto sempre a Usa e Israele, ha costruito la sua fortuna contando sulla forza
della sua gente. Se tutte le nazioni della regione e persino in Europa
comprendessero che, per essere una nazione forte e indipendente, e non c’è
bisogno di essere sudditi di una qualsiasi potenza del momento, gli Usa
perderebbero il dominio su tante nazioni del mondo».

Ma a chi giova la diffusione del
fondamentalismo salafita?

«L’estremismo islamico è nato come
pensiero alternativo e alternativa politica al pensiero sciita iraniano. Per
questo gli Usa, con la cooperazione di Arabia Saudita e servizi d’intelligence
di altri paesi, hanno inventato i talebani, i salafiti, i gruppi di combattenti
estremisti.  Questi gruppi sostengono di
essere rivoluzionari, di combattere contro l’ingiustizia, contro le dittature,
certe volte anche contro gli stranieri, ma sono manovrati e gestiti proprio da
loro. Essi, tra l’altro, non possono nemmeno essere definiti islamici perché  l’Islam ha una radice che significa “pace” e
loro uccidendo persino musulmani di altre confessioni (sciiti, sufi, ecc.)
hanno dimostrato di non essere assolutamente degni di tale appellativo.

I gruppi estremisti salafiti,
impiegati in Libia, e poi esportati in Siria, e strumentalizzati pure in Mali,
hanno una duplice funzione: 1) sono strutture che possono arruolare giovani
ignoranti e poveri nei paesi arabi, impedendo loro di trovare vere vie di
liberazione dei propri paesi. In questo modo si garantisce la forza delle
monarchie filo-occidentali come quella saudita. 2) Questi gruppi hanno ai loro
vertici agenti della Cia, del Mossad e dell’MI6 o sono comunque molto vicini ai
servizi occidentali. Per questo possono essere usati e strumentalizzati per
giustificare azioni militari.

In pratica gli Usa formano queste entità
e le mantengono più o meno attive per impedire che nel mondo islamico si
formino autentiche forze rivoluzionarie. In più, possono usare questi “falsi
islamici” per azioni di terrorismo che poi servono per giustificare le campagne
militari di conquista». 

Qual è il ruolo di Arabia Saudita e
Qatar nell’attuale scenario mediorientale?

«Arabia Saudita e Qatar sono due
monarchie traballanti e sanno molto bene che mantenere un simile sistema di
governo nella regione del Golfo Persico tra popolazioni musulmane è tutt’altro
che semplice.

È noto che dopo il crollo
dell’Impero Ottomano, gli inglesi cercarono di costruire su modello della
Corona inglese degli imperi nella regione ed oggi in nazioni come Arabia
Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati, Oman, Giordania osserviamo più o meno la
stessa cosa.

L’Arabia Saudita, storicamente, ha
sempre cercato di impedire l’ingresso di onde modeizzatrici nel suo
territorio e nelle nazioni circostanti. A questo ruolo dei sauditi si è unito
quello svolto dal Qatar. Entrambi i paesi cercano di alimentare l’estremismo
salafita per salvaguardare la propria monarchia. Infatti, in una situazione di
normalità e assenza di conflitti nella regione, la situazione in Arabia Saudita
sarebbe difficilmente sostenibile. Già oggi le regioni orientali sono quasi
gioalmente teatro di proteste.

Le donne hanno una condizione
insostenibile; nonostante i grandi introiti petroliferi la povertà in Arabia
Saudita è a livelli allarmanti, molte città non hanno nemmeno la rete fognaria;
a Mecca e Medina, negli ultimi 25 anni, il 90% dei luoghi sacri islamici sono
stati distrutti. I prigionieri politici sono oltre 30 mila, la gente inizia ad
essere insoddisfatta anche delle politiche della monarchia che risulta sempre
più una pedina degli Usa nella regione.

Il salafismo è la risposta che
queste monarchie oscurantiste e retrograde danno. Facciamo attenzione perché
stanno tentando di diffondere in diverse regioni del mondo l’azione di questo
pensiero: Turchia, Qatar e Arabia Saudita stanno cercando di impiantare reti
salafite anche in Europa e in zone remote del globo, come in alcune aree della
Cina.

Obiettivamente però credo che pure
Arabia Saudita e Qatar avranno una loro data di scadenza e, dopo aver svolto il
proprio compito, verranno riciclati dagli stessi alleati occidentali. Si veda
il comportamento del Qatar: compra di quà e di là nel mondo, credendo così di
ipotecare per sé una sorta di stabilità, ma si sbaglia di grosso. Come accadde
a Gheddafi, quando i suoi averi all’estero faranno abbastanza gola, si troverà
un bel pretesto per attaccarlo e toglierglieli. La scusa potrebbe essere quello
stesso salafismo che oggi il Qatar sostiene in Siria».

L’Iran non ha la bomba nucleare, ma
le attività di arricchimento dell’uranio a scopi pacifici proseguono. Possiamo
definire il Paese, «potenza nucleare»?

«Nel periodo della guerra fredda, “potenza
nucleare” si diceva di una nazione che possedeva la bomba.

L’Iran non possiede la bomba e
sbaglierebbe di grosso a possederla. Per questo la Guida suprema della nazione,
l’Ayatollah Khamenei, ha persino emesso un editto religioso, una Fatwa,
che proibisce la fabbricazione di armi nucleari.L’Iran sa benissimo di potersi
difendere senza bisogno di armi nucleari. Il nucleare è visto soltanto come
un’opportunità per produrre energia elettrica in abbondanza e dare inizio a un
grande progresso economico e industriale.

Con la sua giovane popolazione di
77 milioni di persone, il paese mira a raggiungere il benessere generalizzato
nei prossimi anni. Oggi sfrutta al minimo tantissime opportunità e potenzialità
economiche esistenti al suo interno. Un territorio immenso dove si continuano a
costruire con un ritmo frenetico dighe, edifici, dove vengono inaugurati
progetti di ampliamento, industrie, fabbriche. La vera “potenza nucleare”
dell’Iran è la vitalità, il livello di cultura e la forza di un popolo che sta
attraversando passo dopo passo la via del progresso. L’Iran oggi è ancora
dipendente dal suo petrolio, ma anche solo usando il suo turismo – è tra i
paesi dove si trovano il maggior numero di reperti storici del Patrimonio
culturale mondiale -, potrebbe ottenere guadagni ingenti.

Pochi infine sanno che con
l’allentamento delle sanzioni l’Iran potrebbe svolgere il ruolo di hub aereo
della regione e crocevia del trasporto di passeggeri e merci. È anche il
tragitto ideale per far passare gli idrocarburi del Mar Caspio e portarli fino
ai mari del Golfo Persico.

A mio avviso, l’Iran diventerà uno
dei paesi maggiormente industrializzati, una delle potenze della regione e
probabilmente del mondo. Gli americani e gli israeliani questo lo sanno e non
vogliono che accada».

I cristiani cattolici hanno un nuovo
Papa, che ha scelto un nome ricco di significati positivi: Francesco. Francesco
d’Assisi è amato per la sua semplicità, la vicinanza agli ultimi e l’amicizia
con il Sultano musulmano. Cosa ne pensa?

«Nel Corano, nel versetto 82 della
sura Al Maeda (o della Tavola Imbandita, la quinta del Corano) si legge questo
consiglio rivolto da Dio ai musulmani: “… e troverai che i più prossimi
all’amore per i credenti sono coloro che dicono: “In verità siamo nazareni”,
perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna
superbia”.

Il fatto che i cristiani siano
potenziali amici e alleati dei musulmani, è una verità risaputa. Quando
Mohammad, il profeta dell’Islam, era un bambino e accompagnava lo zio in un
viaggio, venne riconosciuto dal monaco cristiano Bahìra a Basra4 che vide in lui i segni citati da Gesù per il profeta
che sarebbe venuto in futuro. Ci sono tanti altri tratti della storia che
potrebbero testimoniare la vicinanza tra Islam e Cristianesimo. Secondo
l’Islam, almeno, tutti i profeti della tradizione ebraica e cristiana, più
altri presentati dal Corano, sono messaggeri di un unico Dio e hanno invitato
tutti a un’unica religione.

Nel mondo di oggi, Papa Francesco
(o qualsiasi altro uomo di religione, veramente amante della pace) può fare
molto per la nostra Terra. Il mondo è così pieno di ingiustizia, corruzione e
male che basta solo fare qualche passo in avanti per poter dare vita a grandi
cambiamenti. Io posso solo sperare che il nuovo Papa si adoperi per la pace e
prego Dio affinché possa guidare al meglio i fedeli cattolici in un mondo che
pare ancora riservarci troppe guerre e ingiustizie». •

Note:

(1) 
Davood Abbasi, Usa/Iran: ecco la guerra che Obama ha scatenato
(italian.irib.ir/analisi/commenti/item/122913).
(2) 
Si veda: Angela Lano, Dossier primavere arabe, Missioni Consolata,
gennaio 2013, reperibile sul nuovo sito web della rivista.
(3) 
Samuel Huntington (1927-2008), politologo statunitense, famoso
soprattutto per la sua tesi sullo «scontro di civiltà».
(4) Gabriel Mandel Khan, Dizionari
delle Religioni
, Islam, Electa, p.26.

 
       1979-2013 – Un  embargo lungo 34 anni                                                       

Contro l’Iran sono in vigore
sanzioni economiche, commerciali, scientifiche e militari. Sono state imposte
dal governo degli Stati Uniti o, sotto la sua pressione, dalla comunità
internazionale attraverso il Consiglio di sicurezza dell’Onu.  Comprendono, tra le altre cose, un embargo
nei rapporti commerciali con gli Usa e un divieto di vendere aerei o pezzi di
ricambio all’aviazione iraniana. Nel 1979, dopo un tentativo di golpe statunitense
per rimettere al potere lo shah Reza Pahlavi, un gruppo di studenti islamici
occupò l’ambasciata Usa a Teheran, tenendo sotto sequestro lo staff
diplomatico. L’allora presidente Jimmy Carter emise un ordine che prevedeva il
congelamento di circa 12 miliardi di dollari di beni iraniani (depositi
bancari, oro e altro), 10 dei quali sono ancora in mano agli Usa.

Nel 1984 le sanzioni aumentarono
dopo l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq (settembre 1980 – agosto 1988),
prevedendo il divieto di vendita di armi, e dei prestiti bancari da parte delle
istituzioni finanziarie inteazionali. Nel 1987, il presidente Usa Ronald
Reagan emise un decreto che proibiva attività di import-export con l’Iran per
qualsiasi tipo di prodotto o servizio .

Durante il governo del presidente
iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani (un conservatore centrista aperto al libero
mercato interno e un moderato a livello di relazioni inteazionali, favorevole
alla distensione dei rapporti con gli Usa e l’Occidente) le sanzioni furono
durissime: nel 1995, il presidente Bill Clinton emise un ordine che proibiva,
prima, le transazioni con le industrie petrolifere iraniane, poi ogni tipo di
scambio commerciale. In quell’anno ebbero dunque termine le relazioni di affari
tra Usa e Iran. Nel 1996, il Congresso Usa approvò l’Atto delle sanzioni contro
Iran e Libia (Ilsa) in base al quale le compagnie petrolifere straniere che
investissero in Iran oltre i 20 milioni di dollari sarebbero state soggette a
penalità, tra le quali il rifiuto del credito da parte di istituzioni
finanziare statunitensi e dell’assistenza bancaria per l’import-export.

Quando fu eletto il presidente
riformista Mohammad Khatami, Clinton alleggerì le sanzioni, ma nel 2001 l’Ilsa
fu rinnovato e ratificato dal presidente George Bush.

Il presidente Mahmoud Ahmadinejad,
eletto nel 2005, riprese l’arricchimento dell’uranio, sospeso in base a un
accordo con Francia, Germania e Gran Bretagna. Da allora gli Usa spingono perché
le Nazioni Unite sanzionino l’Iran sul suo programma nucleare.

Tra il 2006 e il 2010, il Consiglio
di sicurezza dell’Onu adottò le risoluzioni 1737, 1747, 1893, 1929 che
impongono nuove sanzioni o l’inasprimento di quelle già in atto, per punire il
programma nucleare iraniano.

Nel luglio del 2010, il presidente
Barack Obama ratificò il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and
Divestment Act»: tali restrizioni comprendono la cancellazione
dell’autorizzazione per l’importazione di articoli di origine iraniana
(tappeti, pistacchi, caviale, eccetera).

Un discorso a parte meritano le
sanzioni in campo bancario. Le istituzioni finanziarie iraniane hanno il
divieto di accedere direttamente al sistema finanziario statunitense. Sanzioni
vennero imposte nel 2006 alla Bank Saderat Iran in quanto accusata di aver
trasferito fondi al movimento di resistenza libanese Hezbollah. Nel novembre
del 2007, altre banche iraniane entrarono nel mirino dell’embargo Usa. Vennero
inserite nella lista speciale dell’Ofac (Office of Foreign Assets Control), che
riguarda nazioni o entità a cui è negato l’accesso al sistema finanziario
statunitense.

Le restrizioni bancarie hanno
costretto cittadini e piccoli imprenditori iraniani a rivolgersi al mercato
hawala*, per bypassare l’embargo e portare avanti le proprie transazioni
economiche e finanziare. •

(*) Si tratta di
un sistema alternativo e informale di trasferimento della valuta basato su un
network di brokers. È diffuso in Africa, India e Medio Oriente.

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Angela Lano