La cultura è rivoluzione


1. La crisi di oggi e le sue cause nel passato

Vent’anni dopo

Haiti è un paese davvero strano. Unico, con una cultura forte, speciale, che affonda le sue radici nella singolarità della storia del suo popolo. La dominazione di un piccolo gruppo su una moltitudine, un passato di schiavitù e di rivoluzione antischiavista, antirazzista e anticoloniale. Come ci spiega bene il professor Laënnec Hurbon nell’intervista che segue. Un paese che provoca due reazioni opposte alla prima visita. Chi prova repulsione e vuole andarsene appena possibile, chi invece vi rimane attaccato per la vita.

Dopo due decenni di frequentazione mi viene spesso rivolta la domanda: cosa è cambiato ad Haiti in questi 20 anni? Difficile rispondere. Poco, se si guarda il livello di vita della grande maggioranza degli haitiani. Molto, se si esaminano gli stati d’animo delle persone incontrate.

Atterro all’aeroporto internazionale Toussaint Louverture che è già sera e non fa particolarmente caldo. È fine febbraio, è vero che anche qui è inverno, seppure tropicale. Forse è arrivato il fenomeno del cambiamento climatico. Quest’arietta fresca non me la ricordavo. Il mio pensiero va al 1995. Era luglio, quando per la prima volta misi piede sull’isola. Il clima era diverso, e non solo quello meternorologico.

Si grondava di sudore tutto il giorno. I marines statunitensi erano ovunque. Avevano appena riportato il presidente Jean-Bertrand Aristide al potere, amato dal popolo, ed esautorato tre anni prima, a fine 1991, da un colpo di stato, organizzato e finanziato dagli stessi Stati Uniti, con a capo George Bush (padre). Era un esempio troppo pericoloso per gli altri paesi sotto l’influenza statunitense.

Per riportarlo in patria, Bill Clinton, diventato presidente degli Usa, aveva imposto ad Aristide di firmare le famigerate concessioni ai piani di aggiustamento strutturale, tra le quali l’abbassamento dei dazi doganali per il riso e il mais, che avrebbero sancito l’invasione dei prodotti alimentari made in Usa e di conseguenza la miseria di centinaia di migliaia di famiglie di contadini haitiani e il loro inurbamento in enormi bidonville.

Ma in quel momento l’euforia era grande. Titid (come Aristide veniva chiamato in creolo) era il messia, tornato per salvare la sua gente. Il sacerdote salesiano era diventato presidente a furore di popolo con le prime elezioni davvero democratiche e partecipate, nel dicembre 1990. Il prete era espressione dei movimenti della società civile, che affondavano le loro radici nella classe povera rurale, quei contadini animati attraverso le comunità ecclesiali di base portate dal vento della Teologia della liberazione.

Purtroppo però, Titid, in esilio proprio negli Usa, era stato comprato dai democratici con a capo Clinton.

Il messia è perso

Anche la speranza in un futuro migliore, in quel lontano 1995, era negli occhi e nelle parole di tutti. A luglio fu eletto il parlamento e a dicembre il nuovo presidente della Repubblica, il delfino di Aristide, l’agronomo René Préval. Gli «amici» Usa avevano impedito che Titid recuperasse i tre anni di presidenza rubatigli dal golpe. Préval sarebbe diventato famoso in tutto il mondo i giorni successivi al 12 gennaio 2010, per la sua ignavia di fronte al terremoto che avrebbe distrutto la capitale Port-au-Prince. In quei giorni terribili Préval, al suo secondo mandato, avrebbe consegnato le chiavi del paese agli Stati Uniti. Lo ricordiamo camminare nervoso, con una sigaretta in mano, senza sapere cosa dire o fare.

L’euforia del ’95 si spense negli anni successivi e la fiducia nel futuro si trasformò in desolazione. Tutti si accorsero che Aristide era diventato molto ricco, era cambiato, si era trasformato un politico ambizioso e scaltro.

Due anni dopo ebbi la fortuna di vivere a Port-au-Prince, dove lavorai come fotografo e formatore per il settimanale in lingua creola Libète (Libertà), legato ai movimenti sociali. A causa del lavoro, girai in lungo e in largo il paese. Fu in quel periodo che persone di ogni livello sociale, mi raccontarono la delusione e il disincanto rispetto a una classe dirigente che, venuta dalla base dopo che la rivolta popolare aveva scalzato il duvalierismo (1986), aveva approfittato del potere solo per fare il salto nella ristretta classe alta, a spese di tutto il paese.

Ricostruzione a «cinque stelle»

Poi venne il terremoto che in pochi minuti distrusse ampie zone della capitale e di altre città e falciò circa 300.000 vite. Nessuno ne saprà mai il numero reale. Complice l’inurbamento selvaggio, dovuto all’impoverimento delle masse rurali, e l’assenza di regole nella pianificazione territoriale e nell’edilizia. Fu un «momento zero» per il paese.

Tornato ad Haiti alcuni mesi dopo, parlando con la gente vi ritrovai una grande voglia di rinascita, di ricostruzione. Quasi il sisma fosse stato un’opportunità per ricominciare tutto su basi nuove. Fu la conferma della capacità degli haitiani di resistere, adattarsi e reagire, anche di fronte ai colpi più duri. Anche in quel momento, al di là di una grande tristezza e della paura di nuove scosse, si sentiva nella gente la voglia di fare, di cambiare il paradigma di dominazione e di miseria subito fino ad allora.

Ma ancora una volta intervennero gli Stati Uniti, e Bill Clinton, ormai presidente emerito, che si installò a capo della commissione per la gestione dei fondi della ricostruzione. Lui, non un dirigente hatiano, avrebbe deciso come spendere i soldi. E così sarebbero nate alcune nuove zone industriali (la più importante nella baia di Caracol, splendida insenatura nel Nord, inaugurata dai coniugi Clinton nel 2012) dove le imprese statunitensi del tessile avrebbero sfruttato la manodopera haitiana per 2-2,5 dollari al giorno. E a Port-au-Prince sarebbero spuntati tre grandi hotel, mai visti da quelle parti, tra i quali il Meriott, finanziato, guarda caso, proprio dalla Fondazione Clinton e inaugurato un anno fa.

Oggi, negli haitiani, anche quella voglia di rivincita, di ricostruire meglio la propria società, è svanita. E la ricostruzione? Molti mi chiedono. A parte gli hotel cinque stelle, e le zone industriali, sono state rimosse le macerie e asfaltate alcune strade verso Nord. Ma la maggior parte degli edifici pubblici non sono stati rifatti, mentre tra i privati, solo qualcuno è riuscito a liberarsi delle macerie e a ricostruire a spese sue. Diversi sono stati anche gli istituti religiosi che si sono occupati del problema della casa per la gente più povera.

Alle elezioni post terremoto di fine 2010, gli Usa (di Barak Obama), imposero il presidente nella figura del cantante di kompa Michel Martelly. Questa volta lo fecero senza preoccuparsi troppo delle apparenze, intervenendo direttamente sui risultati del primo tuo e facendoli modificare da una commissione di revisione elettorale. L’operazione fu cornordinata direttamente da Hillary Clinton, all’epoca segretario di stato Usa, in una visita di 24 ore. Il cantante è anche legato alla corrente duvalierista e affarista. Dopo 20 anni la destra toò al potere.

Fallimento elettorale

A Port-au-Prince il traffico è sempre asfissiante e imprevedibile. Ma trovo un certo miglioramento dagli anni ’90. All’epoca non riuscivo a passare gli ingorghi neppure in moto. Oggi ci sono più strade asfaltate nei quartieri e i conducenti sono un minimo più disciplinati.

Qualità che non vedo nella politica haitiana. L’impasse politico-elettorale di questi ultimi mesi si sta radicalizzando ogni giorno di più e rischia di portare il paese in un vero caos.

Michel Martelly ha evitato di organizzare elezioni durante i cinque anni della sua presidenza, così le cariche istituzionali dello stato sono andate in scadenza, senza essere rinnovate. Finalmente, grazie a una mediazione della Chiesa cattolica, a inizio 2015 si è potuto formare il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), organo preposto per organizzare le consultazioni. Erano previste amministrative, legislative e presidenziali.

«All’inizio si diceva che il Cep era equilibrato. Ma c’erano politici che non volevano le elezioni – ci confida Ricardo Augustin, consigliere del Cep delegato dalla chiesa -. Quando il Cep ha bocciato alcune candidature che non rispondevano ai criteri, si è allargato il fronte dei contrari». Le prime consultazioni (legislative) si sono tenute il 9 agosto, e sono state macchiate da violenze in diversi seggi elettorali di provincia. «L’8 agosto si avevano ancora dei dubbi se realizzare le elezioni. Dopo siamo stati criticati, come se avessimo forzato. Abbiamo verificato che il 70% dei verbali erano validi. Accettate le critiche, abbiamo corretto gli sbagli». Due mesi dopo è stata la volta delle presidenziali: «Le elezioni del 25 ottobre sono andate bene. Abbiamo ricevuto i complimenti da parte di molti, e il rapporto degli osservatori inteazionali è stato favorevole». Poi, due giorni dopo, gli oppositori hanno iniziato a versare fango sulla consultazione. «Hanno denunciato frodi senza avere prove. È stato un piano preparato e ben eseguito per affossare le elezioni. Al Cep abbiamo subito pressioni, diffamazione e menzogne. Ma abbiamo pubblicato i risultati». I due candidati ammessi al secondo tuo delle presidenziali erano Juvenal Moise, candidato del partito di Martelly, e Jude Célestin, uomo dell’ex presidente Préval. Lo stesso Célestin che era stato estromesso dal ballottaggio di inizio 2011.

Il balletto dei politici

Le elezioni sono state contestate con forza dall’opposizione e rimandate due volte. Si sarebbero dovute tenere il 24 gennaio ma violente manifestazioni di piazza si sono susseguite quotidianamente. La notte tra giovedì 21 e venerdì 22, due scuole sedi di seggi a Gonaives e Léogane, sono state date alle fiamme. «La violenza si stava annunciando – continua Agustin -. Il presidente del Cep ha deciso di rinviare ulteriormente il secondo tuo, perché il rischio di derive era evidente. Così chi non voleva le elezioni ha vinto», dice il consigliere del Cep, che è stato il primo a dimettersi, seguito dagli altri membri dell’organismo elettorale.

Dall’esterno sembra che il popolo haitiano non abbia voluto le elezioni perché manipolate. In realtà sono i partiti di opposizione, tra cui quelli di Préval e di Aristide, che hanno bloccato il processo, sicuri che altrimenti Moise avrebbe vinto.

«Le manifestazioni di piazza –  ci racconta il neoeletto senatore del Nord Ovest, Onondieu Louis – non sono state popolari, anche se i media si sono affrettati a sdoganarle come tali, ma decise a tavolino e pagate dai politici». Che non si trattasse di una rivolta popolare è d’accordo anche la sociologa e politica Suzy Castor che fa un’analisi più ampia: «Ho visto molta disaffezione per le elezioni. La gente ha perso la speranza. Nel 1990, andare a votare, era stato come esercitare un potere. Oggi non vale più nulla. Nel 2010 c’era ancora l’idea di provare a voltare pagina, votando il cantante Martelly. Ma sono seguiti cinque anni di delusioni. Le manifestazioni sono state fatte da pochi agitatori professionisti, che hanno coinvolto i delusi».

Creatività  istituzionale

Nelle settimane successive è regnata la confusione istituzionale. Il presidente Martelly ha finito il suo mandato il 7 febbraio, secondo la Costituzione, e non è stato eletto un nuovo presidente. Il parlamento non era completo e il governo era anch’esso in scadenza.

I presidenti di Senato, Camera dei deputati e Martelly hanno firmato un accordo, per il quale il parlamento – la cui legittimità è contestata perché figlio di queste elezioni – avrebbe eletto un presidente provvisorio che, in 120 giorni al massimo, dovrà organizzare il secondo tuo e installare un nuovo presidente. Nell’accordo non si parla invece della Commissione di verifica delle elezioni, richiesta da diversi settori.

Il Parlamento ha scelto, il 14 febbraio, Joselerme Privert, presidente del Senato (che così è rimasto senza presidente), già ministro di Aristide e vicino a Préval. Ma per fare questo è stato affossato un primo accordo, più equilibrato, richiesto dalla società civile, che prevedeva come presidente provvisorio l’attuale presidente della Corte di Cassazione. «L’opposizione vuole accedere al potere, e l’unico modo è cacciare Juvenal Moise, l’imprenditore agricolo arrivato in testa al primo tuo. Narcisse vuole prendere il potere, ha dietro Aristide. Lei è arrivata quarta». Ci spiega Ricardo Augustin.

Grazie a questa operazione, sebbene per un mandato provvisorio, partito al potere e opposizione hanno invertito i ruoli. Oggi è Lavalas (partito di Aristide e, in passato, di Préval) che gestisce il potere. Ci dice il senatore Onondieu: «Noi vogliamo continuare il processo elettorale, ma non sembra questa l’intenzione del presidente, che vuole restare al potere il più a lungo possibile». È abbastanza chiaro che non ci sono i tempi tecnici per una revisione elettorale e per l’organizzazione di elezioni anche parziali entro la scadenza del presidente provvisorio. Suzy Castor: «Un’opzione è che il governo provvisorio si proroghi, altrimenti se ne deve fare un altro. Ma la transizione durerà 8-12 mesi. È una situazione molto complessa, non è solo una crisi elettorale, ma è più vasta, è una crisi sociale. E non data ieri». E continua: «C’è anche una profonda crisi economica. Il debito è enorme e pesa sulla popolazione, salvo un piccolo gruppo di potere. Il costo della vita è aumentato a causa della svalutazione della moneta. Assistiamo all’affondamento dello stato, alla sua delegittimazione, e alla degradazione della classe media, che si è impoverita e si è ridotta».

Mi vengono in mente le parole di un leader contadino di Gros Moe, nel Nord (povero) del paese: «Haiti è un paese ricco, ma l’ipocrisia dei paesi che lo circondano non vuole che si sviluppi. Noi stiamo bene qui e vogliamo sfruttare la nostra risorse».

È la coscienza di avere una grande ricchezza culturale, naturalistica, produttiva e volerla sfruttare al meglio per fare andare avanti le cose, per migliorare la vita delle persone.

Sono passati vent’anni. Una generazione. Sono sulla Grande rue, il centro pulsante della capitale. Guardo davanti a me un giovane bagnato di sudore che spinge un carretto. Vedo un neonato del 1995. Non ha avuto molto di più di suo padre. Anzi, forse a lui è pure negata la speranza in una vita migliore. Per sé e i suoi figli.

Marco Bello


2. Incontro con il professor Laënnec Hurbon

Da Haiti venne… la libertà

di Marco Bello

Pittura, musica, danza. Poi poesia e letteratura. Un paese fucina di creazioni culturali. Che hanno una base comune: la religione Vodù. Un ambiente naturalistico stupendo da valorizzare. Ma i politici guardano solo a interessi immediati e personali. Potrà la cultura salvare il popolo di Haiti? Lo abbiamo chiesto a un grande intellettuale haitiano.

Il professor Laënnec Hurbon, sociologo e teologo, è uno dei più noti studiosi haitiani contemporanei. Ha scritto numerosi saggi sui rapporti tra religione, cultura e stato. Direttore di ricerca al Cnrs (Centro nazionale di ricerca scientifica) di Parigi dal 1987, è professore all’Università Quisqueya (Port-au-Prince) di cui è uno dei fondatori (1990). Ci ha accolti nella sua tranquilla casa di Port-au-Prince dove vive.

Professore, Haiti è ricca di cultura, che ruolo può giocare oggi essa per una rinascita del paese?

«Come spiegare una tale profusione di pratiche culturali, creatrici, dalla pittura – forse la più nota – , alla musica, dalla danza alla letteratura? Certo è che siamo in un paese ancora dominato dall’analfabetismo. Haiti ha due lingue, il francese, che è parlato da chi è andato a scuola, quindi una minoranza, e il creolo che è parlato da tutti. Al popolo haitiano il sistema non ha offerto molte possibilità d’espressione della propria dignità. Prima di tutto il sistema della schiavitù. È stato necessario, durante quegli anni, che gli schiavi si creassero la loro propria cultura, diversa da quella dei padroni. Quindi si è avuto un lavoro di inventiva, che è consistito nel porsi come esseri umani in cerca di dignità e di un senso da dare alla propria vita. Questa situazione è cambiata con la rivoluzione haitiana del 1791 e con gli anni dell’indipendenza (dal 1804).

Da quel momento in poi si può osservare tutta la difficoltà che il paese ha avuto per fondare uno stato davvero sovrano. Ci sono stati molti ostacoli, provenienti in primo luogo dall’estero, perché Haiti era circondata, durante tutto il XIX sec., da paesi nei quali la schiavitù era ancora un’istituzione dominante. È nel 1848 che i popoli dei Caraibi francesi hanno potuto ottenere l’abolizione della schiavitù. A Portorico è arrivata molto tardi, alla fine del XIX, così anche a Cuba, e in Brasile (1888). Haiti ha dovuto farcela da sola in un contesto ostile all’indipendenza della nazione haitiana, e ha forgiato il suo proprio orientamento attraverso pratiche culturali che non sempre corrispondevano a quello che lo stato dominante offriva sull’isola. Quest’ultimo, infatti, non considerava l’insieme dei cittadini. Dopo l’indipendenza si erano costitute, di fatto, due società. Una dominata da coloro, chiamati “grandon”, che ottenevano i vantaggi del governo, e potevano approfittare del nuovo stato indipendente; l’altra costituita dalla massa di ex schiavi, una società contadina che viveva chiusa e non aveva molte possibilità.

La cultura haitiana, la più importante, si è costituita in un contesto quasi di apartheid sociale, perché c’era un élite urbana di fronte a una maggioranza contadina. Abbandonata dallo stato, quest’ultima era costituita da cittadini di serie B, e sono loro che hanno forgiato una cultura propria, nella quale troviamo il Vodù. Come se ci fosse stata la creazione di un’altra civilizzazione, durante tutto il XIX secolo, nella quale troviamo pratiche culturali di grande invenzione che riprendevano elementi e rituali imposti dalle chiese dominanti, dallo stato, dall’estero, integrandoli con l’eredità tramandata dall’Africa. E attraverso il Vodù, si sono sviluppate pratiche di danza, mitologia, leggende – i racconti in particolare -, architettura e tecniche varie. Possiamo dire che se Haiti oggi ha una cultura eccezionale nei Caraibi, è grazie a quanto sviluppato dalle masse della gente povera delle campagne, considerate come cittadini di second’ordine. Le élite, quelle con una visione, un sogno per Haiti, hanno attinto da lì per produrre una pittura molto conosciuta a livello mondiale, una musica molto apprezzata nei Caraibi, che prevede una grande capacità d’inventiva. Tutto questo si appoggia al Vodù, anche se non è Vodù. La poesia e la letteratura hanno preso anche loro da quello che le masse contadine hanno costruito.

Ad Haiti abbiamo una cultura molto forte perché abbiamo vissuto delle situazioni di dominazione, dove l’espressione non era libera, con governanti preoccupati più dell’estero che dell’insieme dei cittadini. Ed è questo il problema specifico di Haiti. Occorre capire come fare diventare la nazione haitiana una comunità di cittadini che si rispettano e hanno diritti. Diritti fondati su una storia ben precisa, quella della prima grande rivoluzione di schiavi vittoriosi grazie a una lotta condotta, dal 1791 al 1804, anche contro l’esercito di Napoleone. Un pezzo importante nella storia universale, perché ha dato il via a tutte le lotte che sono state combattute dagli altri paesi. Haiti ha dato l’esempio, ha aperto tutta una serie di insurrezioni antirazziste, antischiaviste e anche anticoloniali, con grande anticipo. È qualcosa che è molto forte, che Haiti ha prodotto e le va riconosciuto».

Risorse culturali importanti e uniche che potrebbero anche portare reddito al paese, ma occorre promuoverle. Pensa che ci sia oggi la volontà politica di valorizzare questa cultura nel mondo?

«Io penso che manchi una reale volontà politica di promuovere la cultura haitiana. C’è piuttosto una volontà di sfruttamento, di strumentalizzare, di mantenere la società nello stato in cui è. Mentre tutto quello che esprime la cultura haitiana nasce da una vera utopia, un sogno di una nuova Haiti, di un paese nel quale ognuno riconosce l’altro nei suoi diritti.

Ecco il problema, la cultura haitiana non è mai stata veramente sostenuta dai governanti. Si vede qualche sforzo ogni tanto per il carnevale, che rappresenta un’altra sorgente d’espressione e diversità della nostra capacità di fare cultura. Anche a livello della letteratura, molto spesso si riconosce prima all’estero l’importanza di alcune opere, e solo in un secondo momento in patria.

Oltre a questo, il grosso lavoro che deve fare lo stato haitiano è sul fronte dell’educazione, dell’insegnamento, del riconoscimento del creolo, che è molto importante, l’alfabetizzazione per permettere a tutti di entrare in comunicazione gli uni con gli altri, a livello politico e sociale (il creolo è utilizzato nella scuola primaria sono da fine anni ‘70, nda). Si sente palpitare attraverso le associazioni più diverse, i movimenti sociali, una ricerca molto forte di dignità, espressa in diversi tipi di pratiche, come musica e pittura. C’è tanto da fare, ma ci sono stati progressi: è stata creata l’Accademia di creolo, vi sono testi, radio e Tv in creolo. C’è un nuovo rapporto con la lingua, anche se gli uomini politici spesso si mettono a parlare in francese per escludere la maggioranza della popolazione. La questione culturale è centrale per l’avvenire di Haiti».

Nei servizi, la Chiesa cattolica in molti casi ha sostituito lo stato. Come ha potuto collegarsi alla cultura tradizionale, come il Vodù?

«La Chiesa cattolica in fondo ha giocato un ruolo importante nello sviluppo di Haiti, perché grazie al concordato del 1960, tra il Vaticano e lo stato haitiano, religiosi e religiose hanno potuto aprire scuole e hanno avuto anche responsabilità di scuole pubbliche, ed è grazie a queste persone che abbiamo potuto avere una vera cooperazione sull’educazione. La Chiesa ha avuto un ruolo capitale per la cultura e, allo stesso tempo, è stata responsabile di strutture a carattere sociale: ospedali, aiuto ai più poveri. La Chiesa cattolica è stata un apparato che ha permesso allo stato haitiano di sopravvivere, di esistere. Ma, evidentemente, c’è qualcosa di contraddittorio e paradossale, perché i missionari non sempre hanno capito la cultura haitiana e questo ha spesso spinto a voler eradicare il Vodù, che è un’eredità africana. C’erano molti pregiudizi contro la cultura africana: tutto quello che arrivava da quel continente era considerato come stregoneria, era demonizzato. Questo ha creato nella mentalità ad Haiti, una tendenza a separare la gente cattolica da coloro che vivevano nelle campagne e praticavano il Vodù.

Una situazione cambiata con il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha iniziato a riconoscere, ai più alti livelli, il diritto alla libertà religiosa e la necessità di avere un altro tipo di rapporto con le popolazioni dove si inseriva.

Oggi la questione si pone in altri termini, perché la Chiesa cattolica è in competizione con molti movimenti religiosi, che hanno invaso il paese a partire dall’occupazione statunitense (1915-34). Da una ventina di anni il movimento pentecostale si è diffuso, soprattutto nelle classi popolari.

La Chiesa cattolica ha mitigato la sua volontà di combattere il Vodù, e ne ha introdotto alcuni elementi nella liturgia, come l’uso dei tamburi in chiesa. Ha introdotto il creolo e ha avuto un ruolo molto importante per la sua promozione e accettazione come normale lingua di comunicazione. Stessa cosa hanno fatto anche i protestanti. Ma il protestantesimo, soprattutto nella sua versione pentecostale, ha lottato contro il Vodù, ha voluto che la gente abbandonasse il Vodù, che considera come qualcosa che viene dal demonio. Evidentemente in questo modo il protestantesimo agita ancora di più l’immaginario religioso che diventa ancora più presente, si difende e oggi dispone di una sua organizzazione autonoma (vedi MC giugno 2014) e comincia a essere riconosciuto nello spazio pubblico, dalla radio alla televisione. Molti si dichiarano oggi apertamente vuduisti. La battaglia è per la tolleranza religiosa, la libera competizione dei movimenti, la laicità dello stato, che permetterà la protezione di tutte le religioni».

Il 9 agosto e il 25 ottobre 2015 si sono svolte le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica. Perché la partecipazione alle elezioni è stata così bassa?

«Dal 1986 il movimento di democratizzazione del paese ha fatto progressi e il paesaggio sociale è cambiato. La differenza che esisteva tra élite urbane e classi popolari delle campagne e bidonville oggi si esprime diversamente. La gente fa delle richieste allo stato, reclama i propri diritti, vuole più uguaglianza, partecipare alla vita politica e cittadina, e questo crea una continua crisi a livello politico. Perché le strutture dello stato e la classe politica si trovano in ritardo rispetto al livello di coscienza popolare ad Haiti.

La bassa affluenza esprime una mancanza di fiducia nelle istituzioni dello stato e in particolare in quella elettorale. Intanto c’è stata una pletora di candidati (i candidati presidente erano 54, nda), che non fanno realmente campagna, e non hanno programmi politici. Non si vede la differenza tra un partito e l’altro. Di fronte a questo le persone sono perse, non sanno chi votare.

Inoltre la gente ha boicottato anche perché ci sono prove di tentativi di manipolazione da parte dell’esecutivo, nel modo in cui le elezioni sono state condotte. E questo succede sempre, ogni volta che ci sono elezioni in questo paese. È qui che si vede che abbiamo a che fare con una classe politica chiusa su se stessa, non intenzionata a scendere in mezzo alla gente, interessarsi ai problemi reali espressi dai diversi strati sociali del paese. Sono più portati a risolvere i loro problemi personali, legati ai posti e alle ricompense da ottenere».

La lotta politica alla quale assistiamo è una lotta di potere e di interessi o anche ideologica e di classe?

«Non vedo lotta ideologica né lotta di classe espressa nettamente. Quello che è chiaro è che il governo degli ultimi cinque anni è stato imposto in maniera quasi diretta dagli statunitensi. Gli Usa si sono introdotti nel paese attraverso la Minsutah (contingente Onu presente dal 2004, nda) e hanno voluto che fosse Martelly a diventare presidente. C’è stato tutto uno sforzo per scartare la persona che era arrivata seconda (Jude Célestin, nda). Martelly è arrivato al potere senza alcun programma e oggi vediamo in che stato si trovano le istituzioni a causa del suo governo. È stato un periodo di apertura al business, nel quale non ci si doveva più interessare di politica. Si sarebbero dovute fare strade, organizzare elezioni. Ma il presidente era più interessato a organizzare il martedì grasso del carnevale. È simpatico, però ci sono cose più importanti e serie da risolvere nel paese. Abbiamo avuto a che fare con un governo di business man e oggi ne paghiamo le conseguenze».

A livello della ricostruzione, che risultati vede in questi sei anni?

«Molti soldi sono stati promessi, ma pochi sono stati dati. C’è stata l’espressione di una grande compassione per Haiti, ma spesso le Ong hanno preso il paese come un grande campo di gente da assistere, quando invece si sarebbe dovuto avere una visione molto più ampia, di medio e lungo termine, al di là della ricostruzione. Il sisma è stato un’opportunità offerta ad Haiti per realizzare una vera costruzione del paese. Questo non è stato fatto. Non metto tutto sul conto degli stranieri, perché era compito del governo presentare dei progetti che avrebbero potuto accogliere questo aiuto e orientarlo. E se il governo non ha un piano, l’aiuto arriva da diverse parti e c’è un certo spreco. Si è portato un po’ di appoggio a gente che non aveva nulla, ma che continua a non avere nulla. Ci sono molte critiche che sono state fatte sugli aiuti. Raul Peck, cineasta molto conosciuto, ha realizzato il film “Assistenza mortale”, una critica radicale dell’aiuto. La gente è in continua richiesta di “stato”: scuole, sicurezza, salute, lavoro, casa, ma tutto questo è trascurato».

La cura dell’ambiente è fondamentale e le risorse possono essere utilizzate per il turismo. Ma come fare?

«Ci sono associazioni che lavorano su queste questioni, ma non sono tenute in conto dal potere, non ricevono sovvenzioni. Occorre che ci sia un governo con un programma, che ci siano uomini politici attenti all’ambiente. I candidati alla presidenza hanno molta fame di potere, ma poco appetito per le questioni importanti come ambiente, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, prevenzione dei terremoti e intemperie. È un paese che ha bisogno di pensare il suo avvenire, di avere gente che presenti dei piani più generali a livello di politiche nazionali».

I rapporti con la Repubblica Dominicana sono particolarmente tesi in questi ultimi mesi, perché?

«Haiti è in una situazione particolare, perché una buona parte degli scambi economici avviene con la Repubblica Dominicana (Rd), ma con un grosso deficit nella bilancia commerciale. I dominicani vendono per due miliardi, mentre Haiti esporta per qualche centinaio di milioni. Buona parte della popolazione che non ha lavoro va in Rd, dove vivono molti haitiani, da oltre un secolo. C’è una volontà della Rd di controllare i lavoratori haitiani, di cui però ha molto bisogno. Questo ha creato situazioni gravi. Come nel 1937, quando ci fu un vero genocidio di haitiani, organizzato dal dittatore Trujillo. Questo massacro fu dovuto alla volontà di chi governava in Rd di fare una pulizia etnica, perché per i dominicani tutto quello che viene da Haiti viene dall’Africa, dal Vodù, è nero, mentre invece loro si considerano come indios ed europei. I dominicani hanno ancora il problema su come assumere il passaggio della loro storia che riguarda la schiavitù. Allo stesso tempo hanno bisogno degli haitiani per il lavoro nella canna da zucchero, nell’agricoltura, nelle costruzioni. La situazione è grave anche perché c’è un atteggiamento di scarso interesse da parte dei governanti haitiani. I vicini, hanno approvato una legge per espellere tutti gli haitiani che non hanno documenti. È un modo per ripulire Santo Domingo e le altre città da chi, secondo loro, non dà una bella immagine. Nonostante questo, ci sono sforzi che sono già stati fatti. Adesso sono i governanti haitiani che devono capire come gestire i rapporti con Rd, come trattare i problemi relativi al commercio e alla cultura. Come i due popoli possono vivere insieme. Occorre pensare a quello che ci avvicina, quello che è simile e quello che è diverso, per permettere dei rapporti e liberare dai pregiudizi. Ripensare il modo di vedere l’economia e la cultura haitiana, facendo attenzione al rapporto con la Rd. La storia tra i due paesi è complessa, e loro adesso sono più avanti come sviluppo, come educazione, università. Ci vuole uno sforzo da parte degli haitiani».

Marco Bello
con la collaborazione di Alessandro Demarchi




Centroamerica la violenza fatta famiglia

 


Il fenomeno delle bande di strada in Centroamerica

Quasi una guerra

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L’America Latina è la regione del mondo con più omicidi di bambini e adolescenti: una media di 12 ogni 100mila abitanti nel 2012. El Salvador è il paese in cima alla classifica: 27 ragazzi assassinati ogni 100mila persone (circa 1.600 ogni anno). Nel solo 2015, nel paese del beato Oscar Romero, il numero di omicidi assoluto (non dei soli minori di 20 anni) è impressionante: 6.657, su una popolazione di circa sei milioni (111 persone ogni 100mila). Una delle principali cause di tanta violenza sono le pandillas callejeras: bande di strada composte da giovani delle zone più povere del paese, che hanno progressivamente assunto – anche a causa delle politiche criminalizzanti e repressive – i connotati di vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali, con decine di migliaia di membri, principalmente in Centroamerica e negli Stati Uniti.

El Salvador è un piccolissimo stato dell’America centrale, affacciato sull’Oceano Pacifico. Le spiagge dorate, i fiori coloratissimi, il paesaggio punteggiato di vulcani. Non è un paese in guerra. Eppure, ogni giorno decine di madri seppelliscono i propri figli, spesso appena adolescenti, ammazzati da altri giovani. Se guardiamo al dato generale delle morti violente, il 2015 è andato oltre le peggiori previsioni: 6.657 corpi di ogni età riconsegnati alla terra, più del doppio di quanti ne ha inghiottiti il Mediterraneo a seguito dei naufragi di migranti, il 70% in più rispetto all’anno precedente.

Secondo il rapporto dell’Unicef del 2014, con dati riferiti al 2012, intitolato Hidden in plainsight. A statistical analysis of violence against children («Nascosto in bella vista. Un’analisi statistica sulla violenza contro i bambini»), l’America Latina e i Caraibi sono la macro-regione con il più alto tasso di vittime di omicidio, sia rispetto alla popolazione generale che ai minori di 20 anni. In vetta alla classifica troviamo proprio il paese del beato Oscar Romero. In quel territorio più piccolo della regione Lombardia, e con 4 milioni di abitanti in meno, la violenza sembra aumentare di anno in anno: nel solo mese di gennaio 2016, infatti, si sono registrate già 738 uccisioni.

Migliaia di membri in Centroamerica

La guerra tra bande di strada, le cosiddette pandillas, o maras, è probabilmente la causa principale di un numero così alto di morti e di una presenza tanto intensa della violenza. Per quanto il fatto che non vengano quasi mai compiute indagini approfondite, e che raramente queste sfocino in un processo, fa sì che non vi siano dati certi per distinguere gli omicidi attribuibili alle pandillas da quelli che derivano da altre forme di criminalità, senz’altro presenti e non trascurabili, le bande costituiscono certamente il più importante problema criminale e sociale del paese.

Sono due le organizzazioni più estese: la Pandilla Barrio 18 (conosciuta anche come Mara 18th street, M-18) e la Mara Salvatrucha (MS-13). Entrambe nate negli Usa, ora sono presenti soprattutto in El Salvador, Honduras e Guatemala. In questi tre paesi dell’America centrale, i membri delle due gang sono stati stimati nel 2012 dall’Unodc complessivamente in 54mila1. Ottomila membri del Barrio 18 e 12mila della MS-13 nel solo El Salvador, cioè 323 mareros ogni 100mila abitanti. Se una città come Torino fosse in El Salvador ne conterebbe circa 2.800. Lo stesso Unodc, nel 2007, stimava i membri delle due maras nel Salvador in 10.500 unità: nel 2012 erano quindi raddoppiati rispetto a soli cinque anni prima.

Attività criminali

Le attività criminali principali delle maras, oltre agli atti di violenza che spesso sfociano nell’omicidio di mareros avversari, sono l’estorsione ai danni di imprenditori locali, di compagnie di autobus, di semplici cittadini, spaccio di droga, furti, rapine, omicidi su commissione.

Benché siano state scoperte collaborazioni tra pandilleros e organizzazioni del narcotraffico latinoamericano, esse non sembrano essere determinanti, e in ogni caso, in quelle circostanze, i membri delle gang svolgono generalmente il ruolo di «semplice» manovalanza.

Il fenomeno è divenuto talmente preoccupante da indurre il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti a definire per la prima volta, nell’ottobre 2012, la Mara Salvatrucha un’organizzazione criminale transnazionale, inserendola in una lista nella quale compaiono anche Camorra, Yakuza (la mafia giapponese), Brothers’ Circle (organizzazione con base in paesi dell’ex Unione Sovietica, coinvolta nel traffico di droga), Zetas (uno dei maggiori cartelli messicani della droga): «MS-13 è composta da almeno 30mila membri in una serie di paesi, tra cui El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico – si legge nel documento dell’US Treasury Department -, ed è oggi uno dei gruppi criminali più pericolosi e in rapida espansione nel mondo. MS-13 è attiva negli Stati Uniti, con almeno 8.000 membri […]. La natura criminale di MS-13 si può riscontrare in uno dei suoi motti, “Mata, roba, viola, controla” (“uccidi, ruba, stupra, controlla”). Sul fronte interno, il gruppo è impegnato in molteplici reati, tra cui omicidio, estorsioni, traffico di droga, traffico di esseri umani, prostituzione. […] Le cliquas (gruppi) locali della MS-13 prendono direttive da leader residenti all’estero […]. Il denaro generato dai gruppi locali negli Stati Uniti viene mandato alla leadership del gruppo in El Salvador».

Allo stato attuale è difficile trovare dati attendibili circa il numero di mareros nel mondo e la loro diffusione nei diversi continenti, sembra certo, tuttavia, che il fenomeno non si sia espanso al di fuori di quello americano. Nonostante si senta parlare di tanto in tanto di bande di latinos presenti anche in alcune città europee e italiane – è noto il caso del gruppo di giovani che nel giugno 2015 hanno assalito con un machete il controllore di un treno in Lombardia -, non è stato trovato alcun loro legame diretto con le organizzazioni del Centroamerica. Le gang del nostro continente non sono affiliazioni della MS-13 o della M-18. I gruppi presenti in Italia che assumono il nome delle bande salvadoregne si ispirano a esse, ne assumono certamente alcuni caratteri, ma non sono cliquas e non ricevono ordini da El Salvador.

Annalisa Zamburlini


Dalle strade di Los Angeles al Centro America

Vivere e morire per la banda

Le due più grandi e pericolose pandillas si chiamano Barrio 18 e Mara Salvatrucha. In guerra tra loro e con le istituzioni dei paesi in cui sono diffuse, sono responsabili di molti crimini, tra cui migliaia di omicidi. Gli Usa, paese in cui sono nate e da cui sono state esportate in Centro america negli anni ‘90, le considerano delle vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali.

Nate dal disagio di fasce di popolazione emarginate, crescono grazie all’ingiustizia strutturale presente in quei paesi. I loro membri, spesso volontari, a volte reclutati con la forza, sempre sono costretti a rimanere: pena la morte.

La loro diffusione pare inarrestabile, tanto più quando la si vuole fermare con la repressione.

C’è stato un tempo in cui «pandilla» e «mara» significavano semplicemente gruppo o combriccola. Da qualche decennio, nel cosiddetto «triangolo Nord centroamericano» (El Salvador, Guatemala, Honduras), questi termini si sono trasformati nel nome proprio di un fenomeno sociale di proporzioni e drammaticità inaudite. Le celebri Pandilla Barrio 18 (il cui nome è dovuto al luogo di origine, la 18^ strada di Los Angeles) e Mara Salvatrucha MS-13 (probabilmente da mara – gruppo -, salva – salvadoregni -, e trucha – astuti -, seguito dal numero con cui si era denominata l’alleanza delle pandillas latinoamericane del Sud della Califoia), sono le due gang più grandi e pericolose, a cui se ne aggiungono altre: Barrio 18 Revolucionarios e Barrio 18 Sureños, la Pandilla Mao Mao e la Mara Mirada Loca.

Origini statunitensi

Fin dagli inizi del ‘900 gli Usa furono meta di immigrazione per molti messicani, a cui seguirono, nella seconda metà del secolo, migliaia di centroamericani in fuga da povertà, repressione politica e guerre. Nelle città di destinazione (in particolare Los Angeles), i migranti vivevano in quartieri marginali e sovraffollati ed erano vittime di discriminazione sociale e lavorativa. Spesso gli adulti, costretti a lavorare molte ore al giorno, trascuravano la cura dei figli, che passavano tutto il loro tempo in strada. Questi giovani, gravati dalla povertà e dall’esclusione sociale all’interno di una società materialista e relativamente benestante, erano molto meno inclini dei loro genitori ad accontentarsi della sopravvivenza. Tra le «risposte» che essi svilupparono per far fronte alla condizione di emarginazione, vi furono i gruppi di strada, in spagnolo chiamati pandillas o maras.

Erano semplici gang composte da giovani latinos che si riconoscevano in un’identità comune (la nazionalità o la lingua, il modo di vestire, la musica ascoltata, ecc.). Negli anni ’80 due grandi bande assunsero il predominio sulle altre: erano la Pandilla Barrio 18 (in origine composta prevalentemente da messicani) e la Mara Salvatrucha (MS-13), formata da salvadoregni.

La rivalità tra le due bande nacque, per ragioni difficili da rintracciare, nei primi anni ’90, quando iniziò una feroce guerra che ha provocato fino a oggi decine di migliaia di vittime.

Deportazioni in massa

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 gli Stati Uniti decisero di fronteggiare la violenza e la delinquenza causate dalle gang giovanili rimpatriandone in massa i componenti. In particolare, dopo che El Salvador pose fine alla guerra civile con la firma degli accordi di pace del gennaio 1992, il Servizio per l’immigrazione e la cittadinanza (The United States Immigration and Naturalization Service), attraverso la Violent Gang Task Force, intensificò l’attività di identificazione e rimpatrio degli immigrati con precedenti penali. Nel 1996 il Congresso approvò una nuova e più restrittiva legge sull’immigrazione, che portò al rimpatrio di decine di migliaia di centroamericani. Le conseguenze di quella legge si registrano tutt’oggi: secondo il Dipartimento della sicurezza intea degli Stati Uniti, le persone con precedenti penali arrestate all’interno degli Usa ed espulse verso altri paesi, in particolare El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico nel 2013 è stato di 110.115 unità.

Il fenomeno delle espulsioni negli anni ‘90 riguardò persone che spesso avevano vissuto gran parte o tutta la loro vita negli States. Queste, arrivate nei loro paesi d’origine, si trovarono di fronte a un mondo estraneo, che tentava faticosamente di rialzarsi dopo decenni di violenze politiche, militari e sociali, con istituzioni fragili e altissimi livelli di povertà e disoccupazione. Privati della possibilità di inserirsi positivamente nel nuovo contesto sociale, i pandilleros nordamericani portarono in El Salvador, Honduras e Guatemala il loro stile da gangster di strada e, con esso, la rivalità tra le due grandi maras, la MS-13 e la M-18. Nel tempo, le due bande si sono trasformate in reti transnazionali (che collegano i tre paesi centroamericani e gli Usa), alle quali appartengono migliaia di piccole cellule locali chiamate cliquas.

Vita da pandilleros

Le due grandi pandillas si assomigliano per organizzazione e regole di condotta. Entrambe infatti prevedono un violento rito d’ingresso (i ragazzi in genere subiscono un pestaggio da parte dei membri della gang, le ragazze invece possono scegliere se subire un pestaggio o uno stupro di gruppo), in entrambe viene attribuito ai nuovi membri un nome nuovo, entrambe hanno un rigido codice comportamentale, basato sull’obbedienza, il rispetto per il gruppo e la solidarietà tra i membri. Le due maras si contrappongono l’una all’altra e la fedeltà al gruppo esige che i propri membri attacchino e, se possibile, uccidano gli avversari.

Abbiamo chiesto a Jorge González Méndez, cornordinatore dell’area Studio e ricerca dell’Unità di Giustizia minorile della Corte Suprema di Giustizia di El Salvador, quale sia il codice di comportamento vigente all’interno delle pandillas. La sua risposta non ammette mezze misure: «Semplicemente vivere e morire per la banda. Una volta che la persona è accettata all’interno della pandilla, uscie è estremamente difficile, se non impossibile. L’adesione e la fedeltà al gruppo devono essere totali. Non bisogna inoltre dimenticare che la pandilla, per molti ragazzi, sostituisce la famiglia: è l’unico ambiente in cui trovano solidarietà, mutuo aiuto, protezione, senso di appartenenza e legame con un territorio». Valentina Valfré, project manager di Soleterre Onlus, con l’amarezza di chi ha visto le bande inghiottire alcuni ragazzini inseriti nei progetti dell’Ong commenta: «È facile reclutare adolescenti che non hanno famiglia o che vivono una situazione di grave marginalità […]. Abbandonare la banda significa condannarsi a morte: se non ti uccidono i tuoi compagni lo faranno quelli della banda avversaria».

La banda come famiglia

Quali sono le ragioni che spingono verso la pandilla? In El Salvador, Honduras e Guatemala l’ingiustizia strutturale, che fu tra le principali cause delle guerre civili, è ancora lontana dall’essere sanata. Periferie urbane fatte di baracche, flagellate dalle calamità naturali e prive dei servizi indispensabili, e campagne poverissime e arretrate, con strade impraticabili, fanno da contraltare a quartieri lussuosi, centri commerciali luccicanti, auto di grossa cilindrata e resort esclusivi. La povertà, l’elevato tasso di disoccupazione, le difficoltà nell’accesso all’istruzione superiore (basti pensare che in El Salvador vi è una sola università pubblica, con tre sedi, a fronte di decine di università private, troppo costose per i figli dei campesinos), gli elevatissimi livelli di violenza intrafamiliare, l’ingente numero di gravidanze precoci e di madri che crescono i figli da sole, senza un compagno (situazioni dovute anche alla perdurante cultura machista), costituiscono l’incubatrice sociale del fenomeno delle bande e della loro escalation violenta. La cliqua, cioè il sottogruppo locale che fa capo alla grande pandilla, diventa la nuova famiglia, capace di rispondere al profondo bisogno di appartenenza, identità e protezione proprio di ogni persona, soprattutto se adolescente.

Reclutamento forzato

Non tutti i pandilleros però si avvicinano spontaneamente alle bande, spinti dal fascino della vida loca e dai bisogni materiali e sociali. Uno degli aspetti più drammatici del fenomeno riguarda il reclutamento forzato di bambini e adolescenti, che costringe interi nuclei familiari a spostamenti all’interno del paese o a migrare all’estero, nel tentativo di proteggere i propri figli.

Un elemento estremamente interessante della vida pandilleril riguarda i tatuaggi: fin dall’epoca statunitense, le pandillas ricorrono ai disegni sulla pelle per suggellare l’appartenenza alla banda. Jorge González spiega: «I tatuaggi indicano l’appartenenza alla pandilla, e solo coloro che hanno superato il rito di iniziazione della banda possono utilizzarli. Ogni banda ha i suoi simboli e i suoi disegni. In passato, il viso e il petto tatuati indicavano che la persona aveva conseguito particolari meriti all’interno del gruppo. Oggi – spiega González – la pratica dei tatuaggi sta diminuendo, in quanto i pandilleros hanno un maggiore bisogno di passare inosservati». Infatti, da quando l’appartenenza stessa a una banda può portare all’arresto, i poliziotti e i militari sono soliti fermare i giovani per strada, immobilizzarli e sollevare loro le magliette per verificare l’eventuale presenza dei disegni incriminanti.

Convivere con le pandillas

Terrore, rassegnazione, rabbia. Sono questi i termini che descrivono la situazione di chi vive nei territori controllati dalle pandillas, di quelli che i mareros chiamano «civili», mutuando il linguaggio bellico. Nella maggior parte dei casi la gente non riesce a opporsi al potere della banda, che impone le proprie regole per esercitare le sue attività criminali. Solo raramente la popolazione di un quartiere o di un villaggio riesce a resistere all’infiltrazione delle bande o a contenee le pretese di dominio.

Lo strapotere delle maras, la loro guerra aperta con le autorità, il clima di insicurezza, spingono ogni anno migliaia di persone ad abbandonare il proprio luogo di residenza. Accanto a coloro che cercano rifugio in altre zone del paese o all’interno del Centroamerica, vi sono migliaia di altre persone che intraprendono il pericoloso percorso migratorio verso gli Stati Uniti e il Canada, pur sapendo che l’attraversamento del Messico e l’ingresso illegale negli Usa li esporrà alla violenza dei trafficanti, agli interessi di organizzazioni criminali tra le più pericolose al mondo, e di autorità pubbliche corrotte, e al rischio del rimpatrio.

Responsabili, ma non di tutto

Secondo Jorge González Méndez, le stime dell’Unodc sul numero di pandilleros presenti in El Salvador sono troppo ottimistiche, e ci dice che altre parlano di circa 60mila membri (su una popolazione di poco superiore ai sei milioni di abitanti: un pandillero ogni 100). Quali che siano le stime più attendibili, si tratta comunque di numeri impressionanti. Essi tuttavia non possono in alcun modo giustificare la criminalizzazione e stigmatizzazione dell’intera popolazione adolescente e giovane, di fatto portata avanti dai mezzi di comunicazione e da gran parte delle forze politiche. Allo stesso modo, è semplicistico ed errato attribuire l’intera responsabilità della violenza in El Salvador alle maras, facendone un capro espiatorio per tutti i problemi del paese.

Gli effetti delle politiche di «mano dura»

A partire dal 2003, in El Salvador, il fenomeno delle pandillas è stato affrontato attraverso le cosiddette politiche «di mano dura», e provvedimenti legislativi repressivi, che prevedevano l’inasprimento delle pene e permettevano arresti di massa di giovani delle aree urbane marginali.

Tali provvedimenti non accompagnati da alcuna politica sociale, insieme alle massicce campagne mediatiche criminalizzanti, non hanno raggiunto l’obiettivo desiderato, e hanno anzi favorito un processo di cambiamento e aggravamento del fenomeno. Gli arresti di massa costrinsero i mareros a nascondersi, isolando ulteriormente le cliquas dal resto della società. Il forte clima di sospetto nei confronti di chiunque fosse vicino, anche solo in apparenza, a una mara, rese ancora più difficile l’integrazione sociale dei giovani provenienti dalle comunità marginali, e pressoché impossibile il reinserimento degli ex pandilleros. L’incarceramento di molti compagni e capi rafforzò la coesione e l’organizzazione delle pandillas, sia all’interno delle carceri, sia all’esterno. Anche la solidarietà nella cliqua divenne più forte: i pandilleros in libertà si organizzarono per aiutare i compagni detenuti, foendo loro beni e denaro, e ostacolando le indagini e i processi attraverso le minacce ai testimoni. Aumentarono quindi le necessità economiche e la strutturazione dei gruppi, spingendo le pandillas a «professionalizzare» la loro attività criminale, soprattutto nell’ambito delle estorsioni. Inserendosi nel commercio della droga e prestando la propria manovalanza come sicari, le bande hanno decisamente superato – ma non annullato – l’aspetto simbolico della violenza (affermare il proprio dominio sulla pandilla rivale e sul territorio), acquisendo i tratti tipici dei gruppi criminali organizzati. L’inserimento della MS-13 nell’elenco delle organizzazioni criminali transnazionali da parte del Dipartimento del Tesoro degli Usa ne è in qualche modo la certificazione.

Dalla tregua all’escalation

I due governi di sinistra, guidati da Mauricio Funes (dal 2009 al 2014), e da Salvador Sanchéz Cerén (dal 2014 a oggi), nonostante le promesse, non hanno saputo prendere le distanze dalle politiche repressive e persecutorie attuate dai governi del precedente ventennio, guidati dal partito della destra nazionalista Arena. In prossimità della fine del suo mandato, il presidente Funes tentò di arginare la violenza crescente stipulando un accordo segreto (la cosiddetta «tregua») con le pandillas. Tale patto, raggiunto con la mediazione di un militare, di un parlamentare ex-guerrigliero e di un vescovo castrense, impegnava la MS-13 e la Barrio 18 a smettere i reciproci ammazzamenti in cambio di alcuni benefici, tra cui il trasferimento di trenta capi mareros da un carcere di massima sicurezza a un istituto con un regime meno severo, dove sono consentite le visite dall’esterno, e una minore persecuzione da parte delle autorità nei territori controllati dalle bande. L’accordo non comprendeva alcun impegno, da parte delle maras, in merito all’abbandono di tutte le altre attività criminali che, grazie alla riduzione della repressione, sono quindi aumentate.

Funes, di fronte alle polemiche sollevatesi nel momento in cui l’accordo è venuto alla luce, ha più volte confermato e poi smentito il fatto, contribuendo all’inasprimento di un clima politico già aggressivo, creando sfiducia e disorientamento nei cittadini. La tregua, che ha portato a un significativo – per quanto temporaneo – calo degli omicidi e ad alcuni altri piccoli successi (ad esempio la proclamazione dei «santuari di pace», cioè di centri abitati in cui le maras s’impegnavano a non commettere crimini), si è progressivamente dissolta fino all’avvio di una recente escalation di violenza che ha fatto sprofondare El Salvador in una situazione peggiore di quella precedente.

Una situazione fuori controllo

Sempre più frequentemente le organizzazioni per i diritti umani e i media indipendenti denunciano abusi di potere di poliziotti e militari, che sarebbero responsabili dell’uccisione di decine di pandilleros o sospetti tali. Inoltre, il ritrovamento di cadaveri di affiliati alle bande, freddati nottetempo con un colpo alla nuca da distanza ravvicinata e le mani legate dietro alla schiena, ha riattivato l’allarme nei confronti dei gruppi di sterminio: formazioni criminali, eredi degli squadroni della morte attivi durante la guerra civile, composte da militari e poliziotti che agiscono al di fuori del controllo dello stato, con l’obiettivo di «ripulire» il paese dalle maras.

L’esperienza della tregua ha mostrato che non vi sono scorciatornie per la risoluzione del problema delle bande di strada. In assenza di politiche di prevenzione e reinserimento sociale capaci di offrire alternative concrete ai giovani, qualunque accordo con i leader di questi gruppi è destinato a fallire e a far aumentare il loro potere di ricatto nei confronti dello stato.

Strategie efficaci cercasi

Con la sensibilità di chi da decenni si batte per i diritti dei minori, specie se segnati dalla violenza agita o subita, Jorge González lamenta la mancanza di una politica nazionale specifica per l’infanzia e l’adolescenza, che consideri il contesto familiare e sociale in cui il ragazzo autore di reato è cresciuto, e che investa realmente e con convinzione nella prevenzione e nel recupero.

Lo studioso esperto di giustizia minorile prova a ipotizzare quali potrebbero essere le strategie politiche, sociali ed economiche utili a migliorare la situazione. Innanzitutto ci parla dei salari: «La maggior parte delle offerte di lavoro prevede il salario minimo, che non raggiunge i 300 dollari mensili. Inoltre, il “settore” che tira di più è quello del lavoro irregolare, dove non vi è nemmeno un contratto a sancire i diritti minimi e la protezione sociale. In questo scenario, le economie criminali esercitano un fascino irresistibile sui giovani privi di prospettive. Abbiamo urgente bisogno di politiche sociali che tutelino i giovani e le famiglie, aumentando significativamente i posti di lavoro regolari che diano accesso a salari rapportati al costo della vita». Un secondo ambito di intervento per Jorge González Méndez dovrebbe riguardare le forze dell’ordine: «Anche i poliziotti vanno salariati meglio, affinché siano più motivati e non si facciano facilmente corrompere. L’esercito, che in questi tempi difficili è chiamato a collaborare con la polizia in compiti di sicurezza pubblica, necessita di formazione specifica».

Urge inoltre contrastare il reclutamento dei bambini da parte delle bande: «Le scuole devono essere difese e bisogna proteggere i bambini nel percorso casa-scuola-casa». Altra priorità riguarda le carceri: quelle salvadoregne (e centroamericane in generale) assomigliano più a gironi infeali che a luoghi di risocializzazione. Non si può mettere una persona in una cloaca e pensare di tirarla fuori pulita. Il livello di degrado, violenza e sovraffollamento dei centri di reclusione per adulti e minori rende difficoltoso anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie più combattive.

Annalisa Zamburlini


I casi di gang di giovani latinos in Italia

Le pandillas a Milano

Nel giugno 2015, alla periferia del capoluogo lombardo, un gruppo di latinos ha aggredito un capotreno ferendolo gravemente. I media hanno lanciato l’allarme delle gang giovanili nelle nostre periferie. Ma, pur essendo un fenomeno da monitorare con attenzione, i gruppi in Italia sono pochi, poco organizzati e, soprattutto, non sono legati alle maras salvadoregne.

L’11 giugno 2015, un gruppetto di giovani latinoamericani che viaggiava abusivamente su un treno alla periferia di Milano ha aggredito a colpi di machete il controllore, ferendolo gravemente. Secondo le indagini, gli assalitori appartengono alla Mara Salvatrucha. Questo triste episodio ha fatto riaccendere i riflettori sulla radicazione delle bande latinoamericane in alcune città europee, in particolare Milano, Genova, Roma, Napoli, Barcellona e Madrid. Si tratta di un arcipelago di raggruppamenti (Latin Kings, Latin Forever, Trinitarios, Netas, MS-13, Barrio 18, Comando, e altri), spesso organizzati sulla base del paese di provenienza (Ecuador, Perù, Bolivia, Repubblica Dominicana, El Salvador), eterogenei per livello di strutturazione e coesione intea, con una prevalente funzione di aggregazione identitaria e sociale, che in alcuni casi si sono resi responsabili di fatti criminosi, di diversa gravità.

Ricongiungimenti famigliari

Come spesso capita, la sovraesposizione mediatica di alcuni gruppi devianti (cioè che vengono socialmente percepiti come non rispondenti alle regole sociali condivise dalla maggioranza in un certo contesto storico-sociale) causa una percezione amplificata e distorta nell’opinione pubblica, generando uno sproporzionato allarme sociale. È quanto è capitato lo scorso giugno, ed è per questo che riteniamo importante sottolineare un primo dato, per quanto ovvio sia: il fenomeno delle bande non riguarda tutti i giovani latinoamericani presenti nel territorio italiano. Tra le migliaia di latinos che vivono nella città di Milano, solo poche centinaia, forse 150 o 200, hanno in qualche modo a che fare con esso.

Dai dati raccolti attraverso il progetto «Latinos. Interventi per l’integrazione sociale di giovani latinoamericani» – che negli anni 2010-11 ha portato alla costituzione di un tavolo di rete tra diverse realtà del milanese2 interessate dal fenomeno delle pandillas -, e dalle testimonianze di diversi ragazzi, emerge che molti membri di bande hanno alle spalle una storia di ricongiungimento familiare: l’esperienza di una migrazione difficile e molte volte non voluta.

Le vicende raccontate spesso si assomigliano: una famiglia di provenienza segnata dalle difficoltà economiche e da una figura patea assente o, comunque, marginale (come accade di frequente nelle società latinoamericane). Una madre che migra affidando alle cure dei nonni o di altri familiari i figli ancora piccoli, i quali sperimentano il loro primo grande trauma. La possibilità del ricongiungimento familiare che arriva dopo diversi anni, quando la madre si è regolarizzata. Il minore, ormai adolescente, che intraprende il viaggio per raggiungerla, a volte senza sapere che si tratta di un viaggio «di sola andata», e che viene quindi esposto al nuovo trauma del distacco dagli adulti che lo hanno cresciuto e dagli eventuali fratelli, nel caso in cui il progetto di ricongiungimento riguardi un figlio per volta.

Giunto in Italia il ragazzo si trova spesso a vivere con una madre pressoché sconosciuta, che sovente ha costituito, a volte a sua insaputa, una nuova famiglia e ha avuto altri figli. Quella madre e il padre (quando c’è) sovente sono impegnati diverse ore al giorno in lavori socialmente poco riconosciuti, vivono in piccoli appartamenti e non godono del benessere che il figlio si aspettava di trovare, illuso dal potenziale d’acquisto che nel suo paese avevano le rimesse provenienti dall’Europa.

In molti casi il ricongiungimento avviene ad anno scolastico avviato (cioè a gennaio, poiché in diversi paesi latinoamericani il calendario scolastico coincide con l’anno solare), circostanza che fa aumentare le difficoltà di inserimento del giovane, già disorientato per il fatto di trovarsi in un paese freddo, profondamente diverso dal suo, di cui non parla la lingua, in un periodo della vita, l’adolescenza, di per sé difficile.

Il vissuto di esclusione, il risentimento verso la famiglia, il bisogno di ritrovare elementi della propria «vita precedente», spingono il nuovo arrivato a cercare la vicinanza e l’affetto di coetanei che abbiano condiviso la stessa esperienza.

Fuga dal reclutamento

Una delle organizzazioni partner del Progetto Latinos è stata la Ong Soleterre Strategie di Pace, che, operando sia in El Salvador (con attività di prevenzione rivolte ai ragazzi dei quartieri più violenti, e con un difficile lavoro di sensibilizzazione e coinvolgimento delle istituzioni) che a Milano (attraverso il Centro per cittadini e famiglie migranti), ha un osservatorio privilegiato sul problema delle bande, principalmente su quelle di derivazione salvadoregna (la MS-13 e la 18). «I giovani migranti salvadoregni faticano a integrarsi anche tra i loro connazionali adulti», ci spiegano Valentina Valfrè e Chiara Lainati, rappresentanti di Soleterre, «dal momento che si sono verificati anche qui episodi di minacce e di estorsioni, la comunità salvadoregna ha timore che i nuovi arrivati siano già coinvolti con le pandillas. Inoltre, negli ultimi tempi, con l’aumentare della violenza nella madrepatria, stanno diventando più numerosi i casi di ragazzini che arrivano in Italia per fuggire al reclutamento. Seguono la strada del ricongiungimento o si appoggiano a familiari e conoscenti già emigrati, grazie anche al fatto che un cittadino salvadoregno non necessita di visto per entrare in Italia». Il Centro per famiglie migranti della Ong intercetta molti di questi giovani e, insieme ad altre realtà del territorio, li supporta anche nel lungo iter per la richiesta dello status di rifugiato, che però non sempre viene concesso.

Andrea De Liberto, giudice onorario del Tribunale per i minori di Milano, ci racconta di aver seguito anche casi di padri che, per sottrarre i figli alla violenza e al rischio di reclutamento, abbandonano il proprio lavoro e interrompono il percorso scolastico dei figli, portandoli dalla madre in Italia e chiedendo poi il permesso di soggiorno temporaneo sulla base dell’art. 31 del d.lgs. n. 286/98, che consente al genitore di restare sul suolo nazionale per assistere i figli minori.

La banda come famiglia

Trauma da migrazione, marginalità sociale, solitudine, disagio adolescenziale sono quindi tra gli elementi che spingono alcuni giovani latinos (e non solo) verso l’arcipelago delle bande. Laddove lo stato, la famiglia, la scuola, le Chiese e le altre agenzie di socializzazione non riescono ad arrivare, rischiano di svilupparsi forme di socializzazione alternativa, che possono assumere i caratteri della devianza o della delinquenza.

Eleonora Riva, psicologa transculturale e psicoterapeuta, responsabile scientifico del Centro Clinico Transculturale e Direttore del corso di specializzazione in psicoterapia Transculturale della Fondazione Cecchini-Pace di Milano, ci spiega: «Le bande rispondono a esigenze sociali, culturali, valoriali e bisogni pratici non colmati da altri enti. Il problema è che ci dimentichiamo che esse costituiscono un sistema normativo e di valori che è anche positivo. Lo stare insieme di un gruppo di spacciatori si esaurisce nell’attività criminale, le bande, invece, si costituiscono come una “famiglia”, come un gruppo sociale, rispondendo di fatto a una serie di esigenze anche formative. Se, nei confronti di un ragazzino che frequenta le bande, agiamo come se appartenesse a un qualsiasi gruppo delinquenziale, otterremo scarsissimi risultati. Uscire dalle bande è solitamente molto più difficile, per una serie di vincoli e di rischi (c’è un dazio da pagare: ad esempio, sei destinato a prendere un sacco di botte quando incontri per strada qualcuno del tuo gruppo o dei gruppi avversari), e soprattutto perché nessuno sostituisce i benefici dell’appartenenza alla banda, che risponde al bisogno di una famiglia, di valori, di riconoscimento sociale». Se è paradossale che le bande siano spesso il luogo in cui questi minori imparano per la prima volta a rispettare delle regole, il problema chiaramente è che queste non sempre coincidono con quelle della società che le circonda.

Le bande non sono tutte uguali e la maggior parte sono inoffensive

Cappellino calcato in testa, auricolari incollati alle orecchie, rosario indossato come un amuleto, pantaloni larghissimi sotto i quali nascondono un macete, felpa con cappuccio. Slang spagnolo. È questo l’identikit dei latinos che i media sono soliti presentarci ogni qualvolta si verifichi un episodio di violenza che ne vede qualcuno protagonista.

Il dott. De Liberto si oppone a questo processo di stigmatizzazione: «Come sempre, bisogna fare delle distinzioni. La maggior parte di questi giovani sono dei “disadattati” che vivono nell’eco della banda, ne riproducono certi canoni, ma non sono affatto pericolosi. Stiamo parlando di ragazzini che si fanno bevute al parco, vanno in discoteca – a Sud di Milano, in zona Corvetto, un locale molto in voga tra i latinos è il Matinè -, passano il tempo lì, soprattutto alla domenica, ma alle 10 di sera vanno a casa».

Più che di bande, in questo caso potremmo parlare di gruppi di strada, così poco strutturati – a differenza delle pandillas salvadoregne – da raccogliere anche adolescenti non originari dell’America Latina, marocchini, tunisini, ragazze slave, che sono quindi del tutto estranei alla retorica dei giovani latinos, ma dei quali condividono il malessere e il disadattamento dovuto alla condizione di adolescenti e di immigrati.

Il pericoloso «salto di qualità»

Solo in alcuni casi l’identificazione con il gruppo e lo stigma sociale portano all’assunzione di un’identità deviante che sfocia nella criminalità. «Il salto di qualità – prosegue De Liberto – si ha quando assumono un soprannome e iniziano a tatuarsi, anche in posti molto visibili come la faccia e le mani. Il tatuaggio è il segno di un’appartenenza al gruppo che si vuole esibire, che fa sentire forti ed è più importante di tutto il resto. È a questo livello che diventano pericolosi, soprattutto tra di loro: dal momento che molti di questi ragazzi non sanno nemmeno perché stanno insieme, devono eleggere un nemico, che può essere un nemico immaginario o realissimo, come la banda concorrente, verso cui canalizzare l’energia e la violenza, e dare così un senso al loro stare insieme». Questi ragazzi sono solitamente i «capi», quelli cui gli altri più giovani e meno organizzati cedono il posto in discoteca alla sera.

La dipendenza emotiva dal gruppo e l’assunzione di sostanze (marijuana, cocaina, alcol), sono fattori che favoriscono i comportamenti contrari alla legge. «La trasgressione è vissuta come una scelta di gruppo, con la tipica frammentazione delle responsabilità. In sede penale è difficile far capire loro che se in gruppo hanno rubato un cellulare, tutti hanno responsabilità, non solo chi ha materialmente afferrato l’oggetto. Nei percorsi di recupero si punta molto a potenziare la capacità di scelta indipendente, anche per aiutare il soggetto ad assumere una sua identità, che lo porti a prendere le distanze dal gruppo e, di conseguenza, ad assumere consapevolezza rispetto al reato. Spesso in quella fase riescono a mettersi dalla parte della vittima e a comprenderne il vissuto».

Niente a che fare con le bande del Salvador

L’assalto al capotreno del giugno scorso costituisce un fatto drammatico e inusuale. È infatti raro che i membri delle gang latine di Milano, anche di quelle più strutturate e con connotati più violenti, esercitino una tale violenza nei confronti di persone estranee all’arcipelago delle bande. I reati di cui solitamente si rendono responsabili verso «gli estei» sono rapine, scippi e piccoli furti, finalizzati a ottenere i soldi necessari per le feste, la birra e le sostanze stupefacenti.

Tutte le testimonianze e gli studi consultati concordano sul fatto che, diversamente da quanto avviene in El Salvador e in altri paesi latinoamericani, le bande presenti nel milanese non controllano il territorio. Le nostre città non sono spazi «vuoti», dove qualche decina di adolescenti e giovani può imporre il proprio predominio. «Agli occhi della criminalità organizzata autoctona e internazionale – commenta De Liberto -, i leader più pericolosi delle “nostre” bande sono degli strani elementi folkloristici, a cui magari vendere alcol o sostanze, ma di un livello criminale così basso che mai affiderebbero loro attività illegali o il controllo del territorio. Oltretutto, a partire dal 2012, le azioni cornordinate della Procura minorile e di quella degli adulti, basate sulle indagini e soprattutto sulle intercettazioni delle comunicazioni che i membri delle gang si scambiavano tramite messaggi, telefonate e Facebook, hanno portato a numerosi arresti, favorendo la trasformazione e il processo di involuzione delle bande». D’altra parte, non si può nemmeno affermare che questi gruppi si costituiscano sulla base di un’appartenenza territoriale: a differenza delle pandillas latinoamericane, dove la dimensione del barrio (quartiere) è molto forte, le aggregazioni latine milanesi sono formate da giovani che abitano in parti diverse della città e che si riuniscono sulla base di una condivisione simbolica e valoriale.

La connessione tra le bande made in Milan e quelle radicate nei paesi latinoamericani e negli Stati Uniti è molto labile: «Si tratta di un involucro esterno – ci spiega ancora De Liberto -. Non sussistono legami criminali, anche perché da noi il controllo criminale del territorio c’è già. Le bande assumono la parvenza delle pandillas, legata alla ritualità, ai tatuaggi, al bere, ai codici di comportamento (ad esempio il pestaggio, la punizione per chi vuole andarsene, ecc.), ma non si può certo pensare che gli ordini arrivino da oltreoceano».

Offrire percorsi alternativi

Partiamo da un dato di fatto: le bande a Milano sono in declino, soprattutto nell’ambito minorile. In una società in rapida trasformazione, anche le forme del disadattamento e della marginalità sociale sono destinate al mutamento.

Dal fenomeno delle bande però possiamo trarre alcune indicazioni, certo non inutili di fronte all’attuale emergenza migratoria che sta portando nelle nostre città giovani ancora più traumatizzati, spaesati e soli dei figli dei lavoratori provenienti dall’America Latina.

Eleonora Riva, ripensando ai giovani dei gruppi di strada che ha seguito, insiste su un punto che ci pare cruciale, quello delle alternative che la nostra società è in grado di offrire loro. «La famiglia non c’è o è molto problematica; la scuola, che fa fatica ad accogliere i bambini stranieri nati in Italia, spesso non è in grado di farsi carico delle esigenze dei ragazzi immigrati già grandicelli. Entrare a far parte di una banda significa acquisire una famiglia su cui poter contare, permette un’appartenenza che la biologia e la migrazione non hanno concesso. I nostri servizi falliscono quando mettono il minore davanti a questa opzione: o esci dalla banda e sei solo, o rimani nella banda e finirai in carcere. Molti scelgono la banda perché sanno che questa, a differenza dei servizi sociali, non li abbandonerà, provvederà ai loro figli mentre loro sono in carcere, e all’uscita offrirà loro un posto dove andare. Lavorare con le bande è più difficile che affrontare altri tipi di delinquenza, nei quali se esci dal giro, o se vieni arrestato, ti ritrovi senza amici. Le bande non ti abbandonano, se le lasci sei tu il traditore.

La prevenzione e il recupero avranno possibilità di successo quando offriranno opportunità concrete e accessibili, che tengano conto della situazione di svantaggio di questi ragazzi e della loro cultura, che non perpetuino quella che noi psicologi chiamiamo violenza strutturale, cioè il fatto che gli “ultimi” hanno meno possibilità di accedere alle risorse, di determinare il proprio percorso di vita, di raggiungere gli standard di prestazione richiesti per ottenere i benefici che la scuola, il mondo del lavoro, i servizi sociali, che sono basati su un sistema premiale, offrono».

Il richiamo all’accessibilità dei contesti che offrono forme di socialità alternativa alle bande è molto forte anche nelle parole del giudice De Liberto: «Una politica sociale preventiva deve passare dalle scuole (soprattutto quelle dell’obbligo), dagli oratori, dai centri di aggregazione giovanile, dove devono esserci persone capaci di ascoltare il disagio di questi ragazzi e di proporre attività di bassa soglia, dove sia facile entrare e partecipare, e che non richiedano grandi competenze, soprattutto linguistiche. Bisogna impegnarsi per prevenire la ghettizzazione dei nuovi arrivati, evitare che incorrano subito nello stigma e quindi si rivolgano al leader latinoamericano che è qui da più tempo e si è costruito un’autorità. Di formule educative di questo tipo, di cui si contano già esperienze positive, non possono che beneficiare anche molti ragazzi italiani, che con alcuni loro coetanei stranieri condividono la solitudine, il vuoto e la noia…».

Annalisa Zamburlini

 

NOTE

1) U.N. Office on Drugs and Crime, Transnational organized crime in Central America and the Caribbean: a threat assessment, 2012.

2) Il Progetto Latinos è stato cofinanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Intei nell’ambito dei «fondi per l’integrazione di cittadini di paesi terzi». Ha visto come partner l’Associazione Comunità nuova Onlus, la Cooperativa sociale Codici, l’Associazione Soleterre Strategie di pace Ong, l’Associazione Suonisonori Onlus. Al tavolo di rete hanno aderito il Comune di Milano, il Tribunale ordinario, il Tribunale per i minorenni, il Centro per la Giustizia minorile della Lombardia, la Procura della Repubblica, la Questura, il Provveditorato regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, la sezione milanese dell’Associazione nazionale Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, i Consolati generali di El Salvador e dell’Ecuador, l’Ufficio scolastico regionale a Milano, l’Asl, il Centro per l’Etnopsichiatria dell’A.o. Niguarda, la Cooperativa Arimo, la Cooperativa Il Minotauro.




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Paesi occidentali e arabi sono in guerra contro il Daesh. Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, cresce e raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? E come si spiega la loro scelta?


2014-2016, i due anni dello «stato islamico»

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La guerra (poco) santa del Daesh

 Paesi occidentali e arabi sono scesi in campo contro il Daesh (il nome arabo dell’Is, il cosiddetto Stato islamico). Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? Da dove provengono? Come si spiega la loro scelta? In questo dossier – proseguimento di quello del gennaio 2015 – cerchiamo di fornire qualche risposta.

«I crociati divisi di Oriente e Occidente si pensavano al sicuro nei loro jet mentre bombardavano vigliaccamente i Musulmani del khil?fah (califfato, ndr) […]». Così inizia la prefazione al numero di dicembre 2015 della rivista «Dabiq», organo di stampa del Daesh. E prosegue: «Ma Allah ha decretato che la punizione si sarebbe abbattuta sui crociati guerrafondai da dove non si sarebbero aspettati. Così, i benedetti attacchi contro i russi e i francesi sono stati eseguiti con successo nonostante la guerra dell’intelligence internazionale contro lo Stato islamico. Entrambe le nazioni crociate hanno distrutto le proprie case con le proprie mani per mezzo delle loro ostilità verso l’Islam, i musulmani e il Califfato».

Il 13 novembre 2015 l’Occidente è scosso dagli attacchi terroristici a Parigi che provocano 129 morti tra Francesi, Europei e Arabi. Tale tragedia è preceduta da altre che non ricevono la stessa attenzione mediatica e politica: il 12 novembre in un quartiere sciita di Beirut vengono uccise 43 persone; il 31 ottobre, l’esplosione di un aereo russo sul Sinai dilania 224 tra adulti e bambini; il 10 ottobre, un attentato ad Ankara colpisce una manifestazione pacifica facendo 102 vittime; e poi ancora attentati, benché non tutti direttamente a firma del Daesh, in Iraq, Kenya, Mali, Somalia, Tunisia, Siria, Libia, Usa, Indonesia, Burkina Faso, sia precedenti che successivi ai fatti di Parigi.

L’elenco dei morti è lungo e, se guardiamo con attenzione ai luoghi e alle persone, notiamo che la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi è musulmana. Nella stessa Parigi, ad esempio, sono stati uccisi diversi arabi musulmani. Dunque, oltreché una guerra contro l’Occidente, è in atto una guerra intra e inter islamica, cioè tra fazioni e popolazioni musulmane, alimentata da odii settari, regimi e gruppi sanguinari, e da retaggi di guerre coloniali passate e presenti.

Dal 2011, gruppi legati ad Al-Qaida, di cui l’Is originariamente faceva parte, sono stati armati, addestrati, finanziati da Europa, Usa e alleati turco-arabi (tra cui l’Arabia saudita), per abbattere regimi e dittature non funzionali al dominio occidentale. Questi gruppi hanno contribuito a devastare Libia, Siria, Iraq e altri stati.

Testimonianze, documenti e foto dimostrano che organizzazioni armate e addestrate dalla Nato sono passate dalla Libia alla Siria. Esse hanno acquisito armi, competenze e conoscenze sufficienti per fare ciò che vogliono, e per sperimentare le loro tecniche di «guerra urbana» anche in Europa, com’è successo a Parigi. In questi casi non si tratta più di grandi organizzazioni terroriste, ma di «cellule» che, giunte dall’esterno o già presenti nel paese, si attivano dopo il «patto di alleanza» con il gruppo terrorista e l’ordine ricevuto.

Dabiq, manuali e war-game

Consultando la rete internet non è difficile incontrare la rivista dell’Is, «Dabiq», o «manuali del combattente» come l’How to survive in the west. A mujahid guide, 2015 (Come sopravvivere nell’Occidente. Una guida per il mujahid), da scaricare e leggere per apprendere l’arte della dissimulazione, o taqiyyah, e fingersi bravi cittadini allo scopo di preparare indisturbati l’attacco terrorista; per imparare i modi in cui ingannare gli odiati kuffar, miscredenti, tramite carte di credito clonate, phishing (furto di dati e informazioni personali), furti, o per imparare le tecniche della guerriglia urbana, descritte minuziosamente per la «cellula dormiente da attivare al momento giusto, quando la ummah (comunità dei credenti) ha bisogno di te», o, ancora, per diventare esperti nelle modalità «dark» di comunicazione tra combattenti via internet1, per non essere scoperti dalle polizie dei vari paesi.

«La guerra imminente per la conquista di Roma – si legge nel manuale del combattente – consisterà principalmente in guerra urbana dentro le città e le strade europee», come è accaduto a Parigi o a Tunisi. E per essere pronti, i combattenti islamisti si addestrano all’uso delle armi, si allenano in palestra, fanno arrampicata, giocano con videogame di guerra, tra i quali i famosi «Call of Duty».

Tutto, dall’uccisione del miscredente, al comportamento illecito, all’abuso, è giustificato attraverso ahadith2 (ovvero, i detti del Profeta) selezionati e menzionati ad hoc, e rafforzato dalla convinzione che governi e corporazioni occidentali si comportino da criminali. La distinzione, operata a volte da governi e media occidentali, tra jihadista «moderato» (utile ad esempio in Siria per destituire Al-Assad, ndr) e terrorista, non ha senso. Tutti attingono dalle medesime fonti.

«Tutti questi eccessi, il discorso del martirio, i comportamenti immorali, la dissimulazione, la violenza, costituiscono un abuso da parte dell’Is e degli altri gruppi, una strumentalizzazione politica della religione», ci dice Roberto Aliotta, musulmano sufi e responsabile di una comunità ad Albenga (Savona). «Senza una guida spirituale, il Sacro Corano diventa lo strumento per giustificare ogni genere di crimine. L’abbandono del sufismo da parte degli Arabi ha avuto effetti catastrofici e li ha fatti tornare all’epoca preislamica. L’Is, così come altri gruppi, utilizzano alcuni versetti del Corano e certi ahadith per giustificare le loro azioni e far scattare la trappola del takfirismo (l’ideologia che usa l’accusa di miscredenza e apostasia, cfr. il glossario). Purtroppo il salafismo attuale (che vorrebbe un Islam «puro» come quello delle origini) incoraggia l’interpretazione personale degli ahadith, inducendo all’esaltazione della propria visione, sia essa incline alle degenerazioni modeiste o alla superficialità dei “letteralisti”».

Alla conquista di «Roma»

«Conquisteremo la vostra Roma – si legge su «Dabiq» di aprile 2015 -, spezzeremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne, con il permesso di Dio, il Glorificato. Questa è la sua promessa fatta a noi. Egli è glorificato e non manca nelle sue promesse. Se non raggiungeremo quel momento, lo raggiungeranno i nostri figli e nipoti, e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi».

L’11 dicembre 2015, il sito del quotidiano britannico Dailystar pubblica un video dell’Is intitolato Incontrando Dabiq. In esso viene proposta una visione apocalittica degli ultimi giorni sulla Terra3. Roma è presentata come lo scenario della battaglia finale tra i «crociati» e i «credenti», con sequenze che mostrano la Città del Vaticano e un’unità corazzata dell’Is che avanza verso il Colosseo. La preparazione di jihadisti, da parte dell’Is, a una missione suicida viene mostrata in una parte del video intitolata Le ultime parole prima dell’operazione di martirio.

Quando lo Stato islamico parla di «Roma», traduce il termine arabo al-R?m, i Romani, cioè i Bizantini dell’Impero romano d’Oriente, rifacendosi alla omonima sura XXX del Corano che, al versetto 2, fa cenno alla conquista di Bisanzio da parte dei persiani: «I bizantini sono stati sconfitti». Tuttavia la stessa sura prosegue preconizzando la rivincita dei Romani: «Ma loro, dopo la sconfitta, vinceranno». Essa infatti si riferisce a eventi contemporanei al profeta Muhammad che videro quest’ultimo parteggiare per i Bizantini. Nel 614, i persiani politeisti di Cosroe avevano, infatti, occupato Damasco e Gerusalemme, compiendo saccheggi e devastazioni, avevano colpito anche l’Egitto ed erano arrivati a minacciare Costantinopoli. Alla Mecca, i nemici dei primi musulmani si rallegravano per le vittorie dei Persiani, ma la piccola comunità del profeta parteggiava per i Bizantini, monoteisti. Diciamo che il Corano, dunque, tiene le parti dei Romani in quanto cristiani, cioè genti del Libro, contro i Persiani.

Dove attinge allora l’Is, per giustificare le minacce a «Roma»? Come di consueto, dalla miriade di ahadith. Esiste una profezia riguardante la conquista di Roma menzionata da ahadith di Sahih Muslim, riportati nel già citato numero di aprile di «Dabiq», in cui vengono nominate Costantinopoli e Roma: «Questi ahadith indicano che i musulmani saranno in guerra con i cristiani romani – si legge a pagina 33 -. Roma, nella lingua araba del profeta si riferisce ai cristiani d’Europa e alle loro colonie in Siria prima della conquista della Siria stessa per mano dei Sahabah (primi musulmani). Ci sarà una pausa in questa guerra dovuta a una tregua o trattato. Durante questo tempo, musulmani e Romani combatteranno un nemico comune».

Dunque, dal punto di vista della tradizione ortodossa, la pretesa dell’Is di far guerra a Roma, dopo Costantinopoli, avrebbe un fondamento? Sia i versetti del Corano sia gli ahadith che citano la guerra contro Roma sarebbero da contestualizzare storicamente, ma nell’Islam la lettura storico-critica dei testi sacri è negata. «Dabiq» allora interpreta la profezia dandole un valore escatologico, da fine dei tempi, per avvalorare la conquista di Roma in questa epoca storica. A partire da questa visione profetica «senza tempo» e «senza territorio», e mancando un capo religioso riconosciuto da tutta la ummah, chiunque, con un po’ di potere, può decidere di muovere guerra decodificando Corano e ahadith a modo proprio.

Contro i «crociati cristiani»

L’Is spiega il perché del suo odio contro i «crociati cristiani»: «Oh Americani ed Europei – si legge, sempre nello stesso numero di «Dabiq» -, lo Stato islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato la trasgressione contro di noi e dunque siete voi a meritare il biasimo e a pagare un alto prezzo. Pagherete il prezzo quando le vostre economie collasseranno. Quando i vostri figli saranno mandati a fare guerra contro di noi e toeranno a voi disabili, amputati, dentro bare o mentalmente malati. Quando avrete paura di viaggiare in altre terre. Quando camminerete per strada, girando a destra e a sinistra, temendo i musulmani. Non vi sentirete sicuri nemmeno nei vostri letti. Pagherete il prezzo quando questa crociata collasserà, e vi colpiremo nella vostra terra e voi, da quel momento in poi, non sarete più in grado di far male a nessuno. Pagherete il prezzo e noi abbiamo preparato per voi ciò che vi farà soffrire». Sarà la «campagna finale», la battaglia apocalittica che avverrà in Dabiq, territorio nella Siria settentrionale in cui la profezia pone l’atto conclusivo della guerra contro i Romani. Dunque, afferma l’Is, «preparatevi, colpiteci, uccideteci, distruggeteci. Non servirà a nulla. Sarete sconfitti, perché il nostro Signore, l’Onnipotente, ci ha promesso la vittoria contro di voi e la vostra sconfitta».


 

Fragilità psicologiche e sociali di chi si arruola

Il giovane jihadista – la ferocia dell’Is

Il desiderio del martirio, il sentimento di essere parte di una comunità eroica di invincibili, il senso di rivalsa verso un mondo che esclude e procura sofferenze, l’esaltazione religiosa, l’abuso di droghe, sono alcune delle caratteristiche dei giovani combattenti dell’Is, spesso con una vita poco o per nulla religiosa alle spalle.

Essere uccisi, è, per i combattenti dell’Is, una vittoria: «Questo è il segreto. Voi combattete un popolo che non può essere sconfitto», perché non ha paura della morte (cfr. «Dabiq», n. 4, 2015). Anzi, la invoca.

La componente tanatofila (amore per la morte) di questo radicalismo violento cavalca il concetto islamico di «martirio», shahadah, come potente arma di testimonianza e riscatto dei popoli contro l’oppressore, trasformandolo nell’aspirazione massima cui deve tendere il mujahid, il combattente. Diventa un fine, e non più un mezzo, della «teologia della liberazione islamica». In diverse pagine del citato manuale del mujahid viene ripetuta l’idea del sacrificio cui devono aspirare i «soldati» dell’Is: «Il vostro lavoro non finirà finché non otterrete il martirio. E chiediamo ad Allah che avvenga presto».

La martirologia fa parte del retaggio culturale religioso dei popoli musulmani, sia sunniti sia sciiti, e, secondo l’islamologo francese Bruno Etienne, nel suo libro L’islamismo radicale (Rizzoli 2001), ancora oggi termini come fity?n (giovane, eroe), muj?hid (colui che intraprende una lotta interiore, e anche militare, per il bene della comunità), fid?’o sh?hid (sacrificarsi per qualcuno o qualcosa), istishh?d (essere testimone tramite il martirio), «modeizzati dalle guerre di liberazione nazionale e rivoluzionaria, dall’Algeria alla Palestina», hanno una connotazione religiosa ed escatologica molto forte, soprattutto in relazione ad apostati, miscredenti, tiranni, oppressori. E, dunque, un fid?’?, uno che si immola individualmente, o un muj?hid, un combattente, morti, diventano martiri della fede: sh?hid.

Il giovane jihadista: chi è?

Ciò che hanno in comune i terroristi delle Torri Gemelle con quelli di Parigi e di altri attacchi in Europa e in altre regioni del mondo, è il fatto che non corrispondono al modello stereotipato del fanatico religioso: bevono alcornol, almeno fino a poco prima di immolarsi, hanno storie di droga, non frequentano le moschee, vanno con le prostitute e in locali equivoci, non pregano, i conoscenti li descrivono come allegri, socievoli, giovani che si divertono.

Queste considerazioni si applicano tanto ai jihadisti provenienti dalla classe media e alta, quanto a quelli delle classi popolari: sembrano semplici laici, per lo meno fino a poco prima degli attacchi.

Dunque, il jihadismo, tanto per i «nati musulmani», quanto per quelli che lo diventano, rappresenta una «conversione», una rinascita personale, una nuova vita. E ciò accade, in genere, poco prima che essi si arruolino nelle fila di qualche organizzazione.

In un certo senso la trasgressività delle loro vite anteriori alla conversione si trasferisce nella trasgressività di un Islam al di fuori della consuetudine ortodossa. Un fenomeno che assomiglia molto alle conversioni, nell’America Latina, alle sette evangeliche militanti da parte di giovani con dipendenze da alcol o con altri problemi sociali.

Non è un caso che diversi studiosi – tra cui psicologi, sociologi, antropologi e medici – parlino di forme di sofferenza psichica e sociale comuni ai vari jihadisti: depressione, isolamento, instabilità psicologica, ipersensibilità, debolezza, sentimento di alienazione o di non appartenenza a un luogo, un tempo, un territorio, una società.

Questo sembra, dunque, il retroterra comune sia al jihadista che arriva dai borghi ricchi delle città, sia a quello delle periferie, banlieue o bidonville, sia al musulmano di nascita, sia a quello convertito.

In tutti questi casi, la persona disagiata trova nelle reti sociali dell’Islam radicale le risposte che cerca.

Oltre a ciò, una sensibilità e un idealismo particolarmente spiccati, e la rabbia causata dalle ingiustizie sociali (presenti sia nel proprio territorio che nel resto del mondo), rappresentano una spinta per cercare giustizia e legge nell’Islam, percepito come «rivoluzione permanente» e, in particolare, nell’Islam più estremo e politicizzato, al di fuori della società occidentale, o dei regimi arabi corrotti.

Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, ma anche Iran e alcuni governi arabi, sono considerati da questi giovani (e anche adulti) come il male che infesta il mondo e aggredisce la ummah islamica, e che deve essere combattuto.

Ecco, allora, che l’Is, con la sua propaganda di eroi, «giovani leoni», forti, palestrati, belli, cosmopoliti e «antagonisti» dei corrotti, riesce ad attrarre molti giovani in crisi di identità.

Islamisti radicali in Italia

In una nostra precedente inchiesta, risalente alla fine degli anni ‘90, per la quale intervistammo diversi uomini e donne, musulmani di origine o convertiti, di varie città italiane e distinte classi sociali, era emersa, tra le donne convertite a un Islam più radicale, l’alta incidenza di sofferenze psicologiche o familiari. Molte erano le persone con un passato di instabilità emotiva e affettiva, segnato da droga o etilismo, con esperienze di abbandono familiare, di padri fuggitivi o violenti, madri malate o incapaci di occuparsi di loro. Molte avevano esperienze di militanza in organizzazioni molto militarizzate di estrema sinistra o estrema destra.

Questa vita passata, segnata da sofferenze o rigida disciplina, veniva solitamente raccontata dalle interessate per indicare un prima e un dopo la «conversione» o, meglio, il «ritorno all’Islam», (secondo il concetto islamico per cui tutti, alla nascita, siamo musulmani, nel senso etimologico del termine, ossia creature sottomesse a Dio).

Anche tra diversi uomini emergeva un passato di droga, alcol, violenza personale, ex militanza in partiti estremisti. Le letture principali, per molti di loro, erano i testi classici del salafismo: Ibn Taymiyya, Sayyid Qutb, Albani, Mawdudi.

Negli anni tale situazione non è mutata, e, anzi, si è acutizzata. Spiega il già citato Roberto Aliotta: «Tra i convertiti che ultimamente si presentano nel nostro centro, vediamo soprattutto individui con disturbi gravi della personalità. E ci sono stati vari casi di musulmani immigrati che hanno manifestato attitudini violente nei confronti dei non musulmani, effetto di disordini mentali che la lettura di testi salafiti o l’ascolto di sermoni violenti, via internet, esasperano».

Le persone alla ricerca di un cammino spirituale si avvicinano all’Islam tradizionale e non hanno bisogno di aderire alla visione estremista della dottrina wahhabita neosalafita e delle sue diramazioni come il jihadismo e il takfirismo (cfr glossario).

Disordine mentale o reazione all’emarginazione politica e sociale?

Le testimonianze di 160 famiglie francesi con figli jihadisti costituiscono la base di una relazione redatta dal Cpdsi (Centre de Prévention contre les Dérives Sectaires liées à l’Islam, Centro di prevenzione contro il settarismo in relazione all’Islam)4. La ricerca ha messo in evidenza come una percentuale abbastanza elevata di giovani (40% degli intervistati) che si era unita a gruppi jihadisti soffriva di depressione o mostrava fragilità psicologiche. Ciò ha portato i ricercatori a supporre che «l’indottrinamento funzioni più facilmente con i giovani ipersensibili che si pongono domande sul significato della loro vita».

«Le famiglie che entrano in contatto con il Cpdsi – si legge nella relazione – sono tutte di cittadini francesi. Soltanto il 10% ha nonni che emigrarono o si installarono nella Francia metropolitana, dopo aver vissuto nei territori francesi in America, in Germania, in Algeria, Tunisia, Marocco o in Asia. Questi giovani influenzati dal radicalismo dichiarano di sentirsi “senza territorio”, appartenenti al “niente”, e cresciuti in un “blackout”».

Un altro dato interessante della ricerca, che riguarda l’84% dei jihadisti intervistati, è la loro provenienza dalla classe sociale media o medio alta, con una forte presenza di genitori insegnanti e con una formazione universitaria (50% dell’84%). Il restante 16% è diviso tra la classe popolare e quella alta. Oltre a ciò, l’80% delle famiglie si dichiara atea. Solo il 20% si definisce buddhista, ebrea, cattolica o musulmana.

La fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 21 anni (63%). Quella tra i 21 e i 28 anni corrisponde al 37%.

La ricerca, inoltre, mostra che, rispetto a un tempo passato nel quale le conversioni al radicalismo (islamico o evangelico) erano caratteristiche soprattutto delle classi popolari, con bassa scolarizzazione e instabilità, delle seconde generazioni di immigrati, e delle minoranze, negli ultimi tempi riguardano invece tutte le classi sociali. Come spiega Oliver Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi, nel suo volume Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam: «L’islamizzazione della periferia dell’Europa è un fenomeno reale, ma marginale […]. In realtà, non si può vedere nel radicalismo islamico la conseguenza dell’esclusione sociale, non fosse altro che per l’evidenza che molti militanti (e lo stesso Bin Laden, ad esempio) non hanno nulla di marginale, in termini socio economici».

Tuttavia, per altri studiosi, il radicalismo islamico (anche se non necessariamente quello di al-Qaida o dell’Is) rappresenta un potenziale di «rivoluzione» e ribellione contro lo status quo e contro l’emarginazione sociale e politica di masse di persone, sia in Occidente sia in Oriente. Per questo, anche noi crediamo che sia importante tenere accesi i riflettori sul tema dell’esclusione sociale dei musulmani in paesi come la Francia e l’Italia: la patria di «Liberté, Egalité, Frateité», infatti, secondo un’inchiesta di The Telegraph, «emargina, impoverisce e perseguita i musulmani. Delle 67.500 persone attualmente in carcere in Francia, circa il 70% è musulmano. Nelle prigioni, lasciati a se stessi, i giovani più vulnerabili trovano rifugio nei sermoni infiammati di alcuni personaggi radicali».

Per l’islamologo Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università di Trento, il radicalismo islamico è, per sua natura, un’ideologia di opposizione che produce un islamismo politico.

Secondo Hrair Dekmejian, docente di scienze politiche all’Università della Califoia meridionale di Los Angeles, l’Islam radicale, in quanto movimento globale, nei confronti dei giovani europei e arabi può esercitare un potere di attrazione che si basa su sei punti: 1) offre una nuova identità a individui alienati che hanno perso il loro orientamento sociale e spirituale; 2) definisce una visione del mondo in termini inequivocabili, identificando le fonti del bene e del male; 3) offre forme alternative di confronto con un ambiente ostile; 4) fornisce un’ideologia di protesta contro l’ordine stabilito; 5) fornisce un senso di dignità e di appartenenza, e un rifugio spirituale contro l’incertezza; 6) promette una vita migliore in questa Terra e nei Cieli.

Più fragilità psicologica che economica

«Migliaia di giovani lasciano la vita confortevole in Europa per aderire allo Stato islamico, dove fanno addestramento per prepararsi alla guerra, e per morire, poi, in un attentato suicida, come gli attacchi di Parigi». Secondo Lamya Kaddor, autrice del libro Zum Töten Bereit (Pronto per uccidere), il ruolo degli europei – discendenti di immigrati e convertiti – nelle fila dello Stato islamico, è sempre maggiore. Lamya, figlia tedesca di immigrati siriani, vede il terrorismo islamico come un movimento di protesta di una generazione che si sente vittima della società, della scuola o della famiglia. «Cinque dei miei alunni, un giorno scomparvero e furono successivamente localizzati in Siria, dove erano andati a lottare con l’Is. Rimasi perplessa, tentando di capire le possibili cause. In tutti loro c’era una sensazione di esclusione, un deficit emozionale o semplicemente una mancanza di amore nella famiglia, che li rendeva facili vittime di moschee radicali. Gli imam radicali trovano ascolto dove ci sono giovani già disponibili, che tendono al jihadismo come manifestazione di un movimento di protesta di una generazione nata in Europa, che soffre per la mancanza di radici e perché vede i genitori vittime di discriminazione e dell’assenza di possibilità di mobilità sociale».

La voce di Ahmad Mansour (psicologo israelo palestinese, direttore del programma European foundation for democracy, attivo nella lotta contro l’estremismo islamico tra i giovani musulmani in Germania) si unisce a chi afferma che «i problemi che conducono i giovani ad aderire al jihad sono più psicologici che socio economici. Circa il 40% dei nuovi jihadisti soffre di depressione e scopre un’ideologia che va a riempire una vita giudicata come vuota. L’aspetto della violenza arriva successivamente».

La ferocia dell’Is

Tra i giovani seguiti dal Cpdsi per il suo studio, molti presentano sintomi come depressione, anoressia, autolesionismo, isolamento. Non si sono mai sentiti «connessi con il mondo», «capiti dagli altri», ma sempre «differenti», perché «Dio mi ha eletto come persona pura, capace di ricevere la verità per salvare il mondo dalla perversione». I ricercatori francesi spiegano che «in un primo momento, la fragilità dei giovani […] è il terreno fertile per l’ingresso nei movimenti radicali; […] la rottura con la società e la famiglia è una conseguenza dell’indottrinamento settario».

Instabilità e sofferenza, alcolismo e altri vizi, sembra fossero caratteristiche anche dalla personalità della giovane Hasna Ait Boulahcen, morta nell’esplosione provocata dal mujahid con cui stava nell’appartamento di Saint-Denis, a Parigi, durante il blitz della polizia, pochi giorni dopo gli attachi del 13 novembre. Un altro kamikaze di Parigi sembra frequentasse bar di trafficanti di droga.

Certamente i comportamenti border-line, tipici di ambienti di emarginazione sociale, potrebbero far parte anche della «dissimulazione» richiesta dalle regole del bravo jihadista. L’Is, però, mostra una ferocia così spettacolare che è difficile non pensare che i suoi membri non facciano uso di droghe o non siano vittime di qualche patologia.

Esistono diversi ahadith molto chiari in tema di «guerra»5: non si devono uccidere donne, bambini, vecchi; non si deve distruggere la natura; non si devono smembrare i cadaveri, ecc. Anche in questo, dunque, l’Is mostra inquietanti innovazioni verso un uso personale, strumentale della religione.

La diffusione del «Captagon»

In questi ultimi anni stanno emergendo dati sulla distribuzione e il consumo di droghe da parte di jihadisti in Siria e in altre zone di guerra.

Secondo quanto riportato dal quotidiano the guardian nel gennaio 2014, indagini realizzate separatamente dall’agenzia di notizie Reuters e dal Time magazine hanno portato alla luce il crescente commercio di Captagon, di fabbricazione siriana, un’anfetamina utilizzata in Medio Oriente, quasi sconosciuta in altre aree del mondo. Il Captagon genera proventi di milioni di dollari, alcuni dei quali sono usati per comprare armi.

In base alle fonti citate, il Captagon fu prodotto per la prima volta negli anni ‘60 per curare la narcolessia, la depressione, ma fu poi proibito negli anni ‘80 perché dava dipendenza. Tuttavia, ha continuato a essere usato in Medio Oriente, compresa la puritana e salafita Arabia Saudita, dove sembra essere molto popolare.

Uno psichiatra libanese, Ramzi Haddad, intervistato dal Time, ha affermato che il Captagon ha «gli effetti tipici di uno stimolante e produce una sorta di euforia. La persona diventa molto comunicativa, non dorme, non mangia, è energica».


Il narcisismo di combattenti «pop star»

Jihad: sesto pilastro dell’Islam radicale

Non sono rari i casi di islamisti militanti riconvertiti in Europa dopo una vita di indifferenza verso la propria religione di origine. È il desiderio di ritrovare un’identità e un’appartenenza. Il problema, in una comunità islamica che a volte si incontra più facilmente su internet che altrove, è la facilità di incappare in versioni fai da te della religione del Profeta.

Secondo Katherine Brown, del Dipartimento di Studi della Difesa al King’s College di Londra, intervenuta sul quotidiano brasiliano O Globo: «Lo Stato islamico non ha mai contato sui “lupi solitari”, come si è supposto recentemente. […] È, invece, molto comune […] la struttura di cellule con relazioni di fiducia stabilite soltanto tra “scelti”». Di un’analoga struttura selettiva, tra fiduciari, all’interno dei gruppi di combattenti in Libia, ci parla anche il libro Soldier for a summer (Soldati per un’estate) di Sam Najjair, ex foreign fighter, non Is, in Libia e Siria.

Nei loro testi, Daniele Conversi (professore presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università dei Paesi Baschi, Spagna) e il già citato Olivier Roy (autore de L’echec de l’Islam politique – Il fallimento dell’Islam politico), sottolineano come il radicalismo islamico rappresenti un veicolo e un prodotto della globalizzazione. In modo analogo, l’islamologo Bruno Etienne descrive la nascita dei movimenti islamici come risposta alla modeizzazione e come «islamizzazione della modeità».

Scrive Roy: «La religione, concepita come un insieme di norme decontestualizzate, può essere adattata a ogni società, proprio perché ha tagliato i propri legami con una determinata cultura e permette alla gente di vivere in una specie di comunità virtuale, deterritorializzata che include qualsiasi credente».

Negli ultimi decenni lo spostamento a Occidente di molte persone provenienti da paesi musulmani e la loro condizione di minoranza, incoraggiano la creazione di comunità religiose slegate dalle realtà islamiche d’origine. L’Islam stesso, come sistema di interconnessioni sociali e religiose, si reinventa: laddove in patria la comunità era il referente supremo, in «diaspora» i musulmani si riscoprono «individui» che operano scelte personali, spesso in rottura con la tradizione e la cultura della terra natale. Il proprio gruppo è percepito come «accerchiato», circondato da un ambiente ostile – dai kuffar -, tra cui è costretto a vivere, e dai quali va protetto, possibilmente chiedendo allo stato di riconoscee l’identità in quanto minoranza. Si vedano, ad esempio, i numerosi tentativi, iniziati già a fine anni ‘90, di «intese» tra Stato e comunità islamiche in Italia, tutti falliti anche per la mancanza di una leadership rappresentativa e «unitaria» dell’Islam italiano6.

In terra d’immigrazione molti musulmani riscoprono «radici» che non sapevano di avere, e un’identità specifica, in contrapposizione e antagonismo con quella dei «miscredenti». La reislamizzazione, la «rinascita» di molti musulmani (spesso laici nel paese d’origine) non è solo un fenomeno identitario, ma anche un processo di occidentalizzazione che, giocoforza, è un lasciare dietro di sé la propria cultura d’origine e le tradizioni.

Il jihad, sesto «pilasto» dell’Islam radicale

La modeità emerge in modo particolare nel rapporto tra l’Islam radicale e l’uso della violenza. Si tratta, come spiegano i musulmani tradizionalisti, di una innovazione, o bid’a, dunque un paradosso per i fondamentalisti. Questa innovazione si esplicita, per esempio, nel concetto di jihad (qui nel suo significato di sforzo minore, cioè militare), manipolato dall’ideologia wahhabita neosalafita, che diviene una priorità, trasformandosi in una obbligazione dell’individuo, fard al-’ayn, e, in questo modo, è imposta a ciascun musulmano, in qualsiasi momento, mentre nella tradizione ortodossa è considerato, invece, un obbligo collettivo limitato nel tempo e nello spazio, e obbligatorio nelle situazione di minaccia, cioè quando il D?r al-Isl?m, il territorio islamico, è in pericolo.

Tale innovazione, come sottolineano Roy e altri studiosi, fu introdotta da islamisti come Sayyed Qutb, teorico della Fratellanza Musulmana, un movimento neosalafita creato nel 1928 in Egitto, e da altri. Il jihad divenne, nel corso degli anni, un obbligo, il sesto «pilastro dell’Islam» da aggiungere ai cinque tradizionali: professione di fede, preghiera, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca ed elemosina.

I gruppi del neofondamentalismo – sviluppatosi a partire dagli anni ‘80, di cui al-Qaida è una delle organizzazioni più note e a cui si aggiunge, oggi, anche l’Is -, che fanno del jihad un obbligo individuale vengono chiamati, appunto, jihadisti.

Tuttavia, come afferma Roy, la maggior parte dei conflitti definiti «religiosi» sono, in realtà, «etnico-nazionali», e in vari casi, non ultimi quelli in Iraq e in Siria, il jihad viene strumentalizzato dai neofondamentalisti così come dai governi occidentali, i quali esagerano la dimensione islamica per questioni di politica intea o estera. Spesso la violenza «islamica» è, in realtà, antimperialista e antiamericana (e antisionista). Sono, come spiega Roy, «i postumi della decolonizzazione».

I mezzi utilizzati dai jihadisti – ad esempio gli attentati suicidi – sono considerati antislamici dalla tradizione ortodossa, e sono un’introduzione modea mutuata da altre tradizioni e dalle lotte secolari di movimenti e gruppi nazionalisti. I militanti di al-Qaida, come quelli dell’Is, hanno tagliato i contatti con la famiglia di origine e con la propria patria (elementi anche questi in totale contrasto con la tradizione sociale e culturale dei paesi islamici), e sono molto criticati anche per questo dai musulmani tradizionalisti. Molti combattenti jihadisti, infatti, come dicevamo, si sono reislamizzati in Occidente o in paesi considerati «laici», come la Tunisia (da dove arriva la maggior parte degli aderenti ai gruppi del jihad uniti all’Is o alle reti di al-Qaida). Qui l’Islam è individuale, «fai da te», costruito attraverso i sermoni ascoltati in certe tv o siti internet, prodotti da predicatori improvvisati e con scarsi studi alle spalle. «Questi neofondamentalisti – scrive Roy – non riconoscono alcun maestro nell’Islam e, del resto, conducono spesso una vita molto poco conforme ai precetti della religione. […] È impressionante la continuità dell’azione di Bin Laden (e del “califfo” al-Baghdadi, leader dell’Is, nda) con il movimento antimperialista e terzomondista occidentale degli anni sessanta e ottanta». Probabilmente, ipotizza Roy, i giovani proletari o della buona borghesia che ora entrano nell’Is, sarebbero stati membri di gruppi rivoluzionari antimperialisti solo pochi decenni addietro. Tant’è che capita di leggere, nei social network, commenti ammirati di donne e uomini, un tempo militanti antisistema, di fronte alle gesta delle truppe dell’Is.

Tecniche di seduzione

Secondo il Cpdsi, quasi 20mila stranieri si sono uniti ai jihadisti in Siria e in Iraq: quattromila sono Europei. Come già accennato, raramente la radicalizzazione avviene nelle moschee o nei centri islamici: non è nei centri religiosi che i giovani si incontrano, ma nei cyber-café, nelle università, nelle librerie, nella rete internet.

Nei libri diario scritti da combattenti di ritorno dalla Libia o Siria, si apprende che uno dei percorsi comuni a molti giovani è l’incontro e la sensibilizzazione alla «causa» in un internet-café in qualche grande città europea o araba. La «riconversione» religiosa e la militanza politica arrivano quasi simultaneamente con la decisione di arruolarsi. È quanto è avvenuto con molti «ribelli» europei o arabo europei andati a combattere in Libia e in Siria a fianco di una delle formazioni della galassia di al-Qaida alleate della Nato.

Questi diari trasudano narcisismo, autoesaltazione e autoreferenzialità, e sono intrisi di racconti di violenza e abuso di armi. Gli autori si dipingono come «leoni», eroici guerrieri senza macchia e senza paura. Sono invece persone violente, amanti del potere, coinvolte in traffici loschi e retribuite generosamente. Infatti, un elemento comune a molti jihadisti è quello di essere arruolati come mercenari.

È proprio a partire dall’elemento narcisistico che Nazir Afzal, ex procuratore del Regno Unito, sentito dal The Guardian, descrive i terroristi dell’Is come persone disposte a correre dietro alla gloria vendendosi tramite video professionali che li fanno apparire affascinanti e sexy. Essi perseguono una propria autornaffermazione allontanandosi da amici e famiglia. Afzal vede una somiglianza emotiva tra gli adolescenti radicalizzati adescati on line dal jihadismo e quelli che in internet cercano un partner sessuale: «Le tecniche di seduzione sono le stesse». La radicalizzazione è veicolata on line e attraverso predicatori carismatici, che incentivano i ragazzi ad «andare verso il proprio lato oscuro». L’ex procuratore britannico crede, dunque, che tale fenomeno debba essere affrontato con l’aiuto di specialisti, come si fa con una dipendenza psicologica. E aggiunge che una delle questioni importanti è che i giovani attratti dal radicalismo considerano i predicatori salafiti e i leader dell’Is come «stelle» del cinema o pop-star.

A tal riguardo, una musulmana italiana ha scritto su Facebook: «Il problema è che i giovani di origine francese o algerina, o molti altri come loro, non apprendono l’Islam con l’aiuto di un imam vero, con una solida preparazione teologica, ma preferiscono ascoltare dei matti su YouTube. Questo succede in tutta l’Europa. Quando un centro islamico invita un teologo di al-Azhar, del Cairo, poche persone vanno ad ascoltarlo, ma quando è invitato un tele-predicatore, una “stella” radicale di YouTube, che usa un linguaggio violento e incolto, con scarsa conoscenza dell’arabo dotto e un uso massiccio della parola kuffar (miscredente), moltitudini di giovani affluiscono nelle moschee. Ci sono pure donne che sognano di diventae la terza o quarta moglie, sbavando come altre ragazze davanti a divi della musica. C’è un vuoto nelle comunità islamiche che va colmato da veri sapienti e sottratto agli shaykh fai-da-te».

Inteet, la nuova «ummah»

Inteet è un mezzo di comunicazione, uno spazio di sostituzione di una comunità, ummah, che è rimasta virtuale a lungo. È uno spazio virtuale sacro, divenuto l’unico territorio reale dal punto di vista del gruppo radicale, a partire dal quale è possibile proteggersi e lottare contro il «caos del mondo perverso».

Come rileva il Cpdsi, i giovani «infettati» da questo discorso, prima vivevano come individui globalizzati, ma non si sentivano parte di una cultura e di una comunità nazionale. E, così, il califfato dello Stato islamico, proclamato a giugno del 2014, «ha aperto il cammino per il riconoscimento di uno spazio territoriale comune, accettato dalla ummah globale», anche se internet continua a essere comunque il principale mezzo di comunicazione per il «passaggio dal territorio virtuale a quello specifico», dovunque l’Is si sia radicato fino a ora, dalla Libia all’Iraq.

Inteet è un potente mezzo di reclutamento e di scambio di informazioni per comunità con «valori» condivisi. Ed è solo dopo la seduzione virtuale che arriva il momento del sospirato incontro fisico con il gruppo jihadista, là, nel territorio dell’Is, dove il war-game si trasforma in realtà.

Angela Lano

 




In ricchezza e in povertà


In questo dossier: Finanza e speculazione, un’analisi di Andrea Baranes; il grande imbroglio dell’Economia di Francesco Gesualdi; Euro e Unione Europea di Bruno Amoroso; l’Economia Vaticana di Aldo Maria Valli; Sempre ladra è la Miseria di Aldo Antonelli. Il tutto condito dalla regia di Paolo Moiola.


 

Lavoratori Esuberanti, Borse Felici

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Che l’attuale sistema economico sia ingiusto lo dicono in tanti. Il problema è che troppo pochi provano a cambiarlo.

In economia le variabili in gioco sono sempre tante e spesso imprevedibili. Eppure, alla fine, tutto su riduce a una questione di domanda e di offerta. Può essere, ad esempio, una domanda di armi, di più armi. L’aumento degli attacchi terroristici e dell’insicurezza, in borsa ha prodotto un aumento del valore delle multinazionali delle armi nella prospettiva di un (ulteriore) incremento delle loro vendite. Può essere una domanda di profitto, di più profitto. Quando una grande banca ha annunciato migliaia di esuberi (di propri lavoratori) immediatamente c’è stato un innalzamento di valore del titolo borsistico della stessa.

Quando una multinazionale del fast food – già sponsor di Expo – ha deciso di aumentare i dividendi degli investitori è andata a comprimere i costi, iniziando da quelli per il personale (già retribuito con salari di pura sussistenza)1.

Per una persona comune è difficile capire cosa sia più negativo in ambito economico. Un tempo gli strali del sentire medio erano diretti soprattutto verso le multinazionali che inquinano e sfruttano senza mai pagare il fio. Poi è toccato ai politici corrotti e/o privilegiati. Quindi, soprattutto in Italia, si è passati a singole categorie: i commercianti che non rilasciano lo scontrino fiscale, i dentisti che non fanno la fattura, i giorniellieri che dichiarano redditi inferiori a quelli dei propri lavoratori, i dipendenti pubblici che timbrano il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro, oppure quelli che usano i certificati medici come giustificazione falsa per assentarsi dal lavoro. Senza generalizzare, tutte queste situazioni malsane rimangono purtroppo vere e attualissime, creando un clima avvelenato che porta a una guerra di tutti contro tutti.

In questo modo si perde però di vista – nonostante si viva in uno status di iperinformazione (anche se per larga parte di pessima qualità) – l’origine del tutto: il modello economico del capitalismo neoliberista con le sue fondamenta ideologiche (deregulation, privatizzazioni, riduzione o addirittura eliminazione dello stato sociale) e filosofiche (la globalizzazione e il pensiero unico). Perpetuandosi e anzi rinvigorendosi il modello (come accadrà, ad esempio, se passerà il «Trattato di commercio transatlantico»), ecco dunque che il cancro della speculazione continua a espandersi, che le diseguaglianze aumentano anno dopo anno (con la «beneficienza» dei miliardari che si sostituisce allo stato sociale), che la terra e i suoi beni naturali sono depredati senza ritegno. Detta in altri termini, si vedono i singoli malanni, ma si trascurano la malattia e le sue cause.

Siamo andati troppo avanti? Esistono vie d’uscita? Soluzioni ce ne sarebbero, ma sono difficili da far accettare alla maggioranza (che pure è vittima), e comunque richiedono tempo. In ogni caso, prendendo a prestito un’affermazione della direttrice di Oxfam: «Non si può andare avanti così»2. Ancora più chiaro è Pedro Casaldáliga: «Non si potrebbe mantenere un sistema tanto iniquo, se non fosse per l’inibizione di una gran parte della popolazione […]. È ora di svegliarci perché è urgente cambiare le regole»3.

A maggior ragione in epoca di terrorismo.

Paolo Moiola

 

NOTE

  1. Tutti gli esempi si riferiscono a fatti reali accaduti nel novembre 2015.
  2. Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam, prefazione a Partire a pari merito, ottobre 2014.
  3. Pedro Casaldáliga, introduzione a Agenda Latinoamericana 2016, Disuguaglianza e proprietà, ottobre 2015. L’agenda è uno straordinario concentrato di informazioni e riflessioni. Casaldáliga è vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile).



Concilio Vaticano II: La missione anima della chiesa


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Testi di Antonio Bonanomi, Gaetano Mazzoleni, Diamantino Guapo Antunese Gianfranco Testa.A cura di Gigi Anataloni

Sommario

Dall’Ad Gentes all’Evangelii Gaudium..

Vittoria! Obiettivo raggiunto.

Tra passato e futuro.

Un documento pietra miliare di una storia infinita.

 

 


Cinquant’anni di cammino missionario

Dall’Ad Gentes all’Evangelii Gaudium

di Antonio Bonanomi

Il 7 dicembre 1965, nell’ultima sessione del Concilio Vaticano II è stato approvato quasi all’unanimità il decreto Ad Gentes. La «missione» diventava cittadina di diritto nella vita della Chiesa, innescando un processo di rinnovamento che sta trovando nuova vitalità proprio ai nostri giorni grazie a papa Francesco, il papa venuto «dall’altro mondo».

Sono passati 50 anni da quel giorno, però ricordo come fosse ieri la forte emozione spirituale con cui da giovane missionario ho letto quel documento. Sentivo che esso accettava le sfide e la necessità del cambiamento, e che faceva passare le missioni dalla periferia al cuore della Chiesa. Vi era evidente la presa di coscienza della nuova realtà del mondo e della Chiesa e lo sforzo per dare a questa novità una risposta. Stavano cadendo molti imperi del Nord con la conquista dell’indipendenza da parte di molti paesi, specialmente in Africa e in Asia. Le culture non europee e le religioni non cristiane esigevano un riconoscimento e un posto nei nuovi scenari mondiali. Allo stesso tempo si faceva ogni giorno più evidente il nuovo volto della Chiesa: un volto con diversi colori per il nascere e il crescere delle Chiese dei vari Continenti.

Personalmente, fin dalla prima lettura, ho considerato il decreto Ad Gentes non come un punto di arrivo ma come un punto di partenza: eravamo all’inizio di una nuova tappa della evangelizzazione. Questo è divenuto per me più evidente col Sinodo sulla evangelizzazione del 1974 e poi con l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) di Paolo VI. Vi si sentiva il profumo di un nuovo stile e di una nuova spiritualità missionaria, attenta ai segni dei tempi e quindi in ascolto degli impulsi dello Spirito santo.

Nel 1976 è apparso, coi tipi delle Edizioni Paoline, il libro del frate cappuccino svizzero, Walbert Bülhmann: La terza Chiesa alle porte. Dopo la prima Chiesa dell’Oriente e la seconda Chiesa dell’Occidente (europea-romana) stava nascendo la terza Chiesa, quella del Sud.

Purtroppo molti in Europa non hanno saputo vedere e accettare con gioia il nuovo che nasceva nel Sud e hanno continuato a piangere il vecchio che moriva nel Nord. Questo si è fatto evidente nell’enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio (1990), pubblicata in occasione dei 25 anni dell’Ad Gentes. A partire da quella enciclica molti hanno pensato e scritto che l’Ad Gentes aveva fallito nel suo proposito di promuovere lo spirito missionario della Chiesa. Però non era vero. In realtà stava morendo una tappa dell’evangelizzazione, quella che aveva avuto la Chiesa europea come protagonista, e ne stava iniziando una nuova.

Questa nuova tappa si è manifestata pubblicamente con l’elezione di papa Francesco, il papa venuto dal Sud. La terza Chiesa, che nel 1976 era alle porte, è entrata in casa. Egli ha realizzato questa nuova tappa, oltre che con la sua testimonianza di vita, anche con le sue parole e specialmente con l’esortazione Evangelii Gaudium (2013.)

Alla luce di questa esortazione possiamo dire che quello che l’Ad Gentes aveva detto 50 anni fa si sta facendo realtà, però in una maniera diversa da quello che si pensava. È una delle tante sorprese dello Spirito Santo.

Il papa venuto dal Sud presenta questa nuova tappa dell’evangelizzazione come parte del cammino di una «Chiesa in uscita». Un uscire che si realizza in diversi ambiti:

  • Uscita da una «Chiesa – fortezza», che proteggeva i suoi fedeli dai pericoli della cultura moderna, verso una «Chiesa – ospedale da campo» che si preoccupa di tutte le persone ferite, senza badare alle loro situazioni morali o ideologiche.
  • Uscita da una «Chiesa – istituzione», centrata in se stessa, verso una «Chiesa – movimento», aperta al dialogo universale, con altre Chiese, religioni e ideologie.
  • Uscita da una «Chiesa – gerarchia», creatrice di disuguaglianze, verso una «Chiesa – popolo di Dio», nel quale tutti sono fratelli e sorelle uniti in una immensa comunità fraterna.
  • Uscita da una «Chiesa – autorità» ecclesiastica, lontana dai suoi fedeli, a cui rischia di voltare le spalle, verso una «Chiesa – Buon Pastore», che cammina in mezzo al popolo, che ha l’odore delle pecore e il profumo della misericordia.
  • Uscita da una «Chiesa – papa» di tutti i cristiani e dei vescovi, che governa con il Diritto canonico, verso una «Chiesa – vescovo» di Roma, che presiede nella carità, e solamente così diventa papa della Chiesa universale.
  • Uscita da una «Chiesa – maestra» di dottrine e di norme, verso una «Chiesa – madre», tenera e misericordiosa, con le porte aperte per incontrarsi con tutti, senza guardare la loro appartenenza religiosa, morale o ideologica, ponendo al centro le periferie esistenziali.
  • Uscita da una «Chiesa – ricca» di potere sacro, di pompe e di vestiti solenni, di palazzi apostolici e titoli nobiliari, verso una «Chiesa – povera» e per i poveri, spogliata di simboli di onore, serva e profeticamente contraria al sistema di accumulazione del denaro, l’idolo che produce sofferenza, miseria e morte.
  • Uscita da una «Chiesa che parla» dei poveri, verso una «Chiesa che cammina» con i poveri, dialoga con loro, li abbraccia e li difende.
  • Uscita da una «Chiesa – equidistante» di fronte ai sistemi politici ed economici, verso una «Chiesa che si schiera» a favore delle vittime e chiama per nome i responsabili delle ingiustizie; una Chiesa che invita a Roma i rappresentanti dei Movimenti sociali mondiali per discutere con loro su come creare possibili alternative.
  • Uscita da una «Chiesa – disciplina», dell’ordine e del rigore, nello stile degli scribi e dei farisei, verso una «Chiesa misericordia» impegnata nella rivoluzione della tenerezza e della cura, secondo l’esempio del Buon Samaritano.
  • Uscita da una «Chiesa triste», «con faccia da funerale», verso una Chiesa che vive la gioia e la speranza del Vangelo.
  • Uscita da una «Chiesa senza il mondo», che ha permesso che nascesse un mondo senza Chiesa, verso una «Chiesa – mondo», sensibile al problema dell’ecologia e del futuro della casa comune, la madre terra.

Si tratta di formare una Chiesa nuova, che ritorni alla scuola di Gesù, che viva e dia testimonianza del messaggio essenziale del Vangelo e si faccia collaboratrice di Dio nella costruzione di un mondo nuovo che sia sacramento del Regno.

Nasce così la missione nuova della Chiesa del Sud: la missione dei discepoli missionari. Impegnati con la loro vita nella liberazione dei poveri, nella inculturazione del Vangelo, nel dialogo interreligioso, nella cura del Creato.

Il seme gettato dall’Ad Gentes e concimato dall’Evangelii Nuntiandi si è convertito in albero nell’Evangelii Gaudium.

Antonio Bonanomi

Missionario della Consolata, formatore e animatore in Italia fino all’inizio degli anni ‘80, poi, per oltre trent’anni, missionario in Colombia tra gli indios Nasa del Cauca e consulente delle Conferenze episcopali latino americane (Celam).


I retroscena, dagli appunti di mons. Angelo Cuniberti, imc

Vittoria! Obiettivo raggiunto

di Gaetano Mazzoleni

Nel ricordo del 50° anniversario del decreto conciliare Ad Gentes e della conclusione del Concilio Vaticano II, presentiamo – attingendo dalle sue note autografe – il contributo dato da mons. Angelo Cuniberti, allora vicario apostolico del Caquetá, Colombia, a una più profonda comprensione della dimensione missionaria della Chiesa durante le frenetiche fasi che hanno portato all’approvazione del documento. Aspetti inediti e sconosciuti.

Scorrendo le numerose e fitte pagine delle memorie di mons. Angelo (detto Lino) Cuniberti, tra i tanti temi, due, la missione e la chiesa dei poveri, risaltano e si distinguono per la loro importanza e attualità. Due temi che furono senza dubbio i cardini dell’attività pastorale di mons. Cuniberti ed ebbero una importante incidenza anche sullo stile di vita dei suoi collaboratori, i missionari della Consolata.

Per mons. Cuniberti l’incontro con la missione e il povero non fu il risultato di una riflessione astratta e teorica, fatta a tavolino, o di una analisi sociologica e, meno che mai, ideologica. L’incontro con la missione e la povertà, meglio, con i poveri, si realizzò e si sviluppò invece attraverso l’esperienza pastorale missionaria degli innumerevoli viaggi (correrie) fatti visitando i villaggi, avvicinando e conoscendo le persone, le singole persone, le situazioni, i problemi, vivendo da povero tra i poveri e con i poveri, condividendo personalmente la povertà e l’emarginazione. Il tema della missione e dei poveri era nel suo Dna da sempre, come testimonia l’adozione del motto evangelico che avrebbe orientato la sua vita sacerdotale «… mi ha mandato ad evangelizzare i poveri» (Lc. 4,18), e quello episcopale «Dei nuntius» (messaggero di Dio).

La missione e le missioni

«La Chiesa è missionaria nella sua essenza… La Chiesa non è se non per la missione. La Chiesa deve ritornare al suo stato di missione… Ogni pagina del Concilio dovrebbe vibrare con questa idea missionaria». Queste furono alcune delle affermazioni, raccolte da mons. Cuniberti, che risuonavano nell’aula conciliare, premonitrici di un profondo cambiamento dell’essere della Chiesa.

Mons. Lino approdò al Concilio Ecumenico Vaticano II provenendo dall’esperienza missionaria di frontiera del vicariato apostolico di Florencia-Caquetá (Colombia). Egli vibrava per le «missioni». Questo atteggiamento interiore lo aveva portato alla decisione di lasciare il ministero sacerdotale nella diocesi di Mondovì per entrare nei missionari della Consolata.

Destinato alla Colombia, anche se impegnato nell’animazione vocazionale in varie regioni attorno a Bogotà, aveva coltivato tacitamente nel suo cuore la speranza di aggiungersi al gruppo dei missionari della Consolata che, dal 1952, lavoravano nella «missione» del Caquetá, il territorio amazzonico colombiano affidato allora alla responsabilità pastorale di mons. Antonio Torasso. La «missione» del Caquetá era il sogno di p. Lino Cuniberti.

Con la sua nomina a succedere a mons. Torasso, dopo la morte prematura di questi, entrò a far parte della Conferenza episcopale colombiana e del Comité de Misiones (Comitato delle Missioni), l’organizzazione che raggruppava i vescovi missionari della Colombia le cui giurisdizioni erano in territori marginali, la otra Colombia, in cui oltre all’attività pastorale avevano anche la non indifferente responsabilità morale e pratica della direzione dell’istruzione pubblica.

Il territorio del Caquetá, già frontiera geografica ed ecologica nella foresta amazzonica del Sud del paese, in quegli anni era oggetto anche di un esperimento sociale di riforma agraria con cui il governo nazionale pensava di far fronte alla pressione dei cinturoni di povertà delle città del centro del paese. Un progetto di colonizzazione che attirava una massa di desesperados de la tierra i quali occuparono disordinatamente la selva amazzonica, avventurandosi a confrontarsi con un habitat difficile, sognando di possedere un pezzo di terra su cui ricostruire la vita. Con la realtà della migrazione interna, la regione del Caquetá rappresentava non solo una periferia geografica, ma soprattutto una periferia economica e socio culturale.

Padre conciliare

Il 4 dicembre 1963 si era solennemente conclusa la II sessione del Concilio Vaticano II. Durante tutte le giornate di lavoro della prima e della seconda sessione, mons. Cuniberti aveva seguito le sorti di vari schemi dei documenti, soprattutto di quello sull’attività missionaria, del quale erano apparse ben quattro redazioni, ma sempre molto brevi, lacunose e non corrispondenti all’aspettativa dei vescovi missionari.

Nel febbraio 1964, in preparazione alla III sessione, i vescovi ricevettero un nuovo schema sulle «missioni». Anche questo però, come i precedenti, ancora molto povero e imperfetto. I vescovi mandarono le loro osservazioni. Lo schema fu modificato ancora una volta e, poco prima dell’inizio della III sessione, giunse ai vescovi un ulteriore testo ridotto a sole tredici proposizioni. Mons. Angelo sbottò: «Questo testo oltre ad essere insignificante … è un testo che fa indignare».

Ottobre 1964: un incontro «storico»

A settembre i vescovi tornarono a Roma per la terza fase del Concilio Ecumenico. Il 27 ottobre mons. Anibal Muñoz Duque, presidente della Conferenza episcopale colombiana, ricevette l’invito dal p. Roger Etchegaray (il futuro cardinale, presente al Concilio come esperto per la Conferenza episcopale francese) a un incontro «apud Seminarium gallicum», cioè presso il Pontificio Seminario francese in via Santa Chiara a Roma. Invitati erano i delegati delle Conferenze episcopali più interessate a discutere l’insoddisfacente schema di documento sull’attività missionaria della Chiesa. Mons. Duque, in aula, trasmise l’invito a mons. Cuniberti scrivendo di propria mano: «Designato: mons. Angelo Cuniberti, vicario apostolico di Florencia».

Mons. Angelo si preparò con impegno per quell’incontro. Fin dall’inizio aveva lavorato perché il Concilio presentasse e lanciasse grandi idee sulla natura della Chiesa che «è essenzialmente missionaria» (Ad Gen. 35). Prese così i contatti preliminari con gli altri delegati di ben 22 Conferenze episcopali dei cinque continenti.

All’inizio della riunione tutti si presentarono. Erano presenti solo tre italiani. In primo luogo si trattò la storia e le vicissitudini dello schema sulle missioni che, dopo molteplici redazioni (aveva già raggiunto la 6a redazione), era ridotto a sole tredici proposizioni. Così come presentava, il testo era proprio ai minimi termini, anemico, come se le «missioni» fossero un’appendice folcloristico della Chiesa, mentre invece la dimensione missionaria avrebbe dovuto essere l’aspetto più importante, se fosse stato ritenuto vero ciò che aveva già scritto il Concilio Vaticano I: «la Chiesa presenta nella sua evangelizzazione il motivo della sua credibilità».

Si analizzarono allora le ragioni di tale riduzione ai minimi termini e si cercò di capire l’ansia manifestata da vari vescovi di terminare finalmente il Concilio, già arrivato al terzo anno di lavori. Dato che era già stata annunciata una quarta sessione per l’anno successivo, 1965, tutti i presenti si impegnarono a ottenere in quei giorni l’apertura di un dibattito in aula sullo schema affinché fosse bocciato con un bel «non placet» dalla maggior parte dei Padri conciliari. Si propose quindi di far posticipare l’approvazione dello schema alla sessione successiva per avere così il tempo, con la collaborazione di tutti, di prepararne uno completamente nuovo.

Dopo essersi assicurati interventi vigorosi di personaggi di grosso calibro quali il cardinal Bea (del Segretariato per la promozione dell’Unità dei cristiani) e alcuni cardinali presidenti di conferenze episcopali: Frings (Germania), Suenens (Belgio), Rugambwa (Tanganika) e Léger (Canada), tutti si impegnarono in una campagna «capillare» per richiedere che quel miserabile schema non fosse approvato.

Si discussero alcuni punti e linee essenziali. Il nuovo schema non sarebbe risultato esaustivo, ma avrebbe dovuto contenere i principi essenziali, sostenuti dall’autorità del Concilio come tale. Successivamente sarebbero intervenute le commissioni post-conciliari per stabilirne l’applicazione.

I giorni seguenti alla riunione del 27 ottobre ci fu una straordinaria attività per contattare quanti più vescovi fosse stato possibile allo scopo di convincerli a votare «non placet». Il 30 ottobre mons. Cuniberti e il p. Roger Etchegaray si incontrarono per fare una prima valutazione del potenziale di voti assicurati.

Ostruzionismo

La 116a Congregazione plenaria del 6 novembre 1964 fu caratterizzata dalla presenza di papa Paolo VI e da una celebrazione eucaristica in liturgia etiopica accompagnata da canti ritmati da tamburi. Coordinò i lavori, come presidente di turno, il card. Julius August Doephner, «annuente Pontefice», consenziente il papa, come sentì il bisogno di far notare mons. Felici, segretario generale del Concilio. Nella sua allocuzione papa Paolo VI sottolineò che «abbiamo scelto per la Nostra presenza questo giorno, nel quale la vostra discussione verte sullo Schema delle Missioni. A preferirlo Ci ha persuasi la particolare gravità e importanza dell’argomento al quale ora applicherete le vostre menti e i vostri animi». E aggiunse: «A questo sacro Concilio incombe tra l’altro l’insigne compito di tracciare nuove vie, studiare nuovi mezzi, stimolare una nuova attiva tensione per diffondere più largamente e più fruttuosamente il Vangelo». Intervenne il card. Agagianian (della Chiesa cattolica armena) con un vibrante discorso a favore delle missioni, concluso dicendo che, in generale, il testo piaceva, anche se avrebbe dovuto essere arricchito. Era un invito esplicito ad approvare le misere tredici proposizioni per non prolungare oltre la discussione, congedare così le missioni e passare a un altro argomento.

Iniziarono così gli interventi programmati. Il card. Léger si rammaricò per le molte lacune e carenze presenti nel testo che definì semplicemente «povero». Seguirono i cardinali Rugambwa e Bea, i quali aiutarono l’assemblea a riflettere profondamente sul grande disegno di Dio, aprendo grandi orizzonti. Il tempo stringeva e la discussione fu rinviata al giorno seguente.

Il 7 novembre proseguirono gli interventi sul tema «missioni». I card. Frings, Alfrink (Olanda) e Suenens ricordarono («tirano colpi di cannone», scrisse poi mons. Cuniberti) che, in tutto, la Chiesa d’Olanda contava cinquemila missionari e 70 vescovi in terra di missione. Un vescovo indonesiano, mons. Kaiser, affermò esplicitamente che si doveva rifare un altro schema partendo da zero.

Un vescovo rodesiano, mons. Lamont, con uno stile e un tono speciale, iniziò affermando che i missionari aspettavano qualcosa di molto più sostanzioso dal Concilio. Quelle povere tredici proposizioni erano come «ossa arida et sicca». Gesù afferma: «Ignem veni mittere», cioè fuoco! (sono venuto a portare il fuoco, Lc 12,49, ndr). «E qui, invece di una stupenda splendida luce pentecostale, si finisce per avere solo un lumicino fumigante».

Altri vescovi si susseguirono per richiedere decisamente una «magna carta», una costituzione o un decreto molto solenne. Si sollevò pure la voce di un padre conciliare dal Brasile che si scagliò contro gli esperti dalle opinioni divergenti, concludendo che «per metterli d’accordo c’è una bella soluzione: mandarli tutti a lavorare nelle missioni».

Esaurito in aula il tempo utile di lavoro, rimase sospeso e aperto il dibattito sul tema delle missioni per essere ripreso successivamente.

Vittoria

Il 9 novembre, con un centinaio di relatori ancora in attesa di intervenire, la stessa commissione ad hoc prese l’iniziativa di ritirare lo schema senza la votazione. Ci fu un frenetico applauso. Ma mons. Felici, segretario generale, si appellò ai regolamenti e la presidenza ordinò che si procedesse alla votazione.

Risultato della votazione: 1.601 voti contrari e solo 311 a favore. Lo schema venne rimandato alla quarta sessione! Vittoria! Si era raggiunto l’obiettivo prefisso nella riunione del 27 ottobre.

Al lavoro per preparare un documento degno delle missioni.

Gaetano Mazzoleni
Missionario della Consolata, antropologo, ha lavorato  in Colombia, dove è stato fondatore e direttore del Centro Indigenista di Florencia-Caquetá.
Testo adattato dalle «Memorie di mons. Angelo Cuniberti»


Vaticano II: Episcopato africano, una minoranza attiva che Fa udire la sua voce

Tra passato e futuro

di Diamantino Guapo Antunes

Quando l’11 ottobre del 1962 si aprirono le porte del Concilio, l’episcopato africano era presente con 295 prelati. Nel 1965, alla conclusione del Concilio, il loro numero era aumentato fino a 311. Per comprendere l’azione e il contributo dei vescovi d’Africa al Concilio è necessario conoscere chi essi erano e quali le loro principali esigenze. L’episcopato in Africa era in un periodo di transizione: i vescovi missionari, dopo avere «impiantato» la Chiesa, si preparavano a cedere la loro responsabilità a quelli locali. Questi erano chiamati a continuare l’opera missionaria e a consolidare la Chiesa. Una transizione che si realizzò senza rottura con il passato, ma ereditandolo e migliorandolo.

I vescovi «africani» che parteciparono al Concilio erano, in grande parte, di origine europea quasi tutti provenienti dalle nazioni che avevano colonizzato il continente: Francia, Belgio Inghilterra, Portogallo, o di nazioni con forte dinamismo missionario come Irlanda, Italia, Olanda. Fatte poche eccezioni, quasi tutti erano membri di Istituti religiosi. La maggior parte era arrivata in Africa ancora giovane, essendo stati alcuni di loro i pionieri dell’evangelizzazione nei territori affidati alla loro responsabilità pastorale. Era un episcopato giovane. Essendo pastori di comunità cristiane da poco fondate, il loro ministero si concentrava quasi esclusivamente nel lavoro di fondazione delle strutture indispensabili per la loro crescita e il loro consolidamento. Oltre tutto erano uomini pratici, conoscitori degli usi e costumi dei popoli dei quali erano pastori e animati da grande zelo pastorale. Grande parte di quei vescovi erano coscienti di avere compiuto la loro missione e quindi disposti a rinunciare in favore di vescovi locali, sostenuti in questo anche dagli Istituti missionari.

Vescovi africani

Quando si aprì il Concilio, i vescovi nativi del continente erano settanta. Durante il Concilio il loro numero aumentò tanto che nell’ultima sessione erano già ottantasei. Nel 1965 ventotto paesi avevano almeno un vescovo nativo. Il Congo era il paese africano con il maggior numero di vescovi autoctoni. ben dieci.

Alcune caratteristiche distinguevano da tutti gli altri: l’età, la preparazione teologica e la prudenza pastorale. Era un episcopato molto giovane e di diocesi o vicariati di recente fondazione. Eccetto quindici, tutti gli altri avevano meno di cinquant’anni e appartenevano alla generazione che aveva rivendicato e assunto l’indipendenza del continente. Quasi tutti erano stati ordinati negli ultimi dieci anni prima del Concilio, e ben metà di essi (32) nel periodo preparatorio (1959-1962).

Sebbene fossero una minoranza, occupavano già i luoghi chiave e avevano assunto la responsabilità di dirigere la Chiesa cattolica a livello nazionale e continentale. Molti di loro avevano fatto gli studi teologici in Europa, soprattutto a Roma nell’ateneo di Propaganda Fide. Un’altra caratteristica, già presente nei «vota» (i desideri o auspici) inviati da alcuni alla commissione preparatoria, era il loro equilibrio e la loro prudenza pastorale, senza posizioni radicali sull’indigenizzazione della Chiesa, le sue strutture e la sua liturgia. Le idee espresse alla vigilia del Concilio nelle lettere pastorali, nelle interviste e negli articoli, non erano polemiche o estremiste, caratterizzate com’erano da un grande equilibrio, e focalizzate soprattutto sul carattere pastorale del Concilio, sulla necessità di attualizzare la legge canonica, sull’aggiornamento della liturgia e dei metodi di evangelizzazione. Il fatto che l’episcopato africano fosse eterogeneo e parlasse lingue diverse non impedì che si creasse uno spirito di comunione tra i differenti gruppi e le loro sensibilità e che agissero in forma organizzata a vantaggio degli interessi della Chiesa cattolica in Africa e nel Madagascar.

L’annuncio del Concilio e suo impatto

Il 25 gennaio 1959, papa Giovanni XXIII fece conoscere il suo progetto di convocare un Concilio. Alcuni mesi dopo, affidò la sua preparazione a una commissione con il compito di contattare i vescovi per avere proposte e temi da inserire nel documento preparatorio al Concilio. La consultazione interessò 259 vescovi dell’Africa, dei quali allora solo 36 erano africani.

La sorprendente notizia della convocazione di un Concilio ebbe un forte impatto in Africa. L’analisi delle proposte inviate dai vescovi dell’Africa ci permette di constatare che essa fu accolta con entusiasmo. Per la prima volta l’Africa sub sahariana sarebbe stata presente in un Concilio e per di più rappresentata da alcuni vescovi autoctoni. Vista la situazione del continente e delle sue Chiese locali, un Concilio con caratteristiche pastorali ed ecumeniche era opportuno e rappresentava un’occasione storica per il rinnovamento della Chiesa.

Emancipazione dal colonialismo e indipendenza

Con circa 25 milioni di fedeli alla vigilia del Concilio, la Chiesa cattolica in Africa viveva un periodo di crescita e di africanizzazione (inculturazione e indigenizzazione). Il Concilio Vaticano II si svolse in un periodo di importanti trasformazioni sociopolitiche. Infatti, in quel periodo, furono fatti i passi decisivi per lo smantellamento del colonialismo e la conseguente emancipazione politica di molti stati. Così Concilio e decolonizzazione si influenzarono a vicenda.

La decolonizzazione scatenò un rinnovamento nella vita ecclesiale. Per attenuare il suo colore occidentale e rispondere alle esigenze dell’inculturazione e dell’autenticità, la Chiesa cattolica si sforzò nel riformare le sue strutture, nel rinnovare i suoi metodi pastorali e di rivedere la sua attitudine in relazione al mondo culturale e religioso africano.

Le proposte nella fase preparatoria

Le proposte dell’episcopato africano rivelavano le preoccupazioni sentite dalla Chiesa cattolica africana alla vigilia del Concilio. I temi erano i seguenti: aggiornamento liturgico, il ruolo dei laici nella Chiesa e la collegialità dei vescovi. Il tema dell’aggiornamento liturgico fu quello che raccolse il maggior consenso e ricevette il maggior numero di proposte concrete.

Il rinnovamento, il rispetto alla cultura dei popoli da evangelizzare e l’incorporazione della stessa nel cristianesimo fu un tema molto presente nelle proposte fatte dall’episcopato africano. Era urgente spogliare il cristianesimo della sua veste occidentale per accogliere i valori, le espressioni e i simboli propri delle varie culture africane. Il tutto era definito come indigenizzazione, inculturazione, africanizzazione o autenticità africana, con proposte che sollecitavano un maggior uso delle lingue locali e l’introduzione di simboli, gesti e musiche africane nella messa.

Oltre le proposte dei vescovi, la chiesa africana si preparò per il Concilio con alcune iniziative di carattere teologico – pastorale orientate da sacerdoti e laici africani impegnati in congressi e pubblicazioni. Il Concilio era sentito come un’eccellente opportunità per stimolare l’africanizzazione della Chiesa. Si può quindi affermare che la Chiesa cattolica in Africa, attraverso le attività dei suoi pastori e l’impegno dei suoi fedeli, accolse con gratitudine, si preparò con interesse e si sforzò per fare sentire le sue proposte, segnali di una chiesa viva e partecipativa.

Africanizzare la Chiesa

La crescita della Chiesa cattolica non soltanto accompagnò le trasformazioni sociopolitiche ma anche contribuì, a suo modo, a prepararle e promuoverle. Con l’istituzione di una gerarchia ecclesiastica locale e la nomina di vescovi africani, il processo di africanizzazione della Chiesa fece un salto importante e decisivo. La Santa Sede favoriva il movimento d’indipendenza dei popoli africani.

Nel campo della riflessione teologica – pastorale si fecero passi significativi per una maggior incarnazione del cristianesimo. Come alternativa alla teologia occidentale era nata la «teologia africana» che rivendicava il diritto dei cristiani a pensare ed esprimere il cristianesimo in termini africani. La Chiesa rispondeva così alle critiche dei settori intellettuali locali e internazionali che prevedevano la scomparsa del cristianesimo con la fine del colonialismo.

Un gruppo in crescita

Dei 295 vescovi dell’Africa con diritto di partecipare al Concilio, 265 parteciparono alla prima sessione del Concilio. Rappresentavano approssimativamente l’11% del totale dell’assemblea conciliare costituita da circa 2500 membri. Era una buona percentuale se teniamo presente che l’Africa contava allora appena 25 milioni di cattolici, cioè il 4,6% dei circa 540 milioni di cattolici allora esistenti. Le chiese locali con maggiore numero di padri conciliari erano: Congo (41), Tanganika – oggi Tanzania (23), Africa del Sud (21), Nigeria (17). Il numero di padri conciliari africani aumentò nella seconda sessione, passando da 265 a 303. Durante il Concilio morirono 21 padri conciliari dell’Africa e Madagascar. Durante l’ultima sessione nell’aula conciliare c’erano 311 padri che rappresentavano le chiese locali dell’Africa.

Gli interventi

Durante il Concilio ci furono 2175 interventi orali sui 16 documenti. I vescovi dell’Africa fecero 170 interventi in tutto (7,8%) e appena una minoranza di essi ebbe la possibilità di parlare (70). Alcuni, come portavoce dell’episcopato africano, intervennero varie volte e altri si fecero notare per la loro apertura pastorale e teologica. I vescovi che intervennero più volte furono i seguenti: L. Rugambwa (Kukoba, Tanganika): 15 interventi; Sebastião Soares Resende (Beira, Mozambico): 10 interventi; E. Zoghby (Nubia, Egitto): 10 interventi; D. Huley (Durban, Africa del Sud): 9 interventi.

In totale, gli interventi non furono molti, tuttavia ebbero un impatto qualitativo superiore alla sua quantità. Questo impatto si deve principalmente a due ragioni: manifestavano la posizione di un gruppo di vescovi, non di un singolo, e riflettevano la situazione e le esigenze concrete delle loro chiese locali. La vivacità dell’episcopato africano era espressione della sua giovinezza e del dinamismo delle chiese locali che rappresentavano.

La missione e la chiesa locale

Durante le prime congregazioni generali gli interventi dell’episcopato africano si concentrarono principalmente sulle questioni liturgiche e pastorali, come, per esempio, il tema caldo dell’adattamento (l’inculturazione). Possiamo affermare che gli aspetti caratteristici delle proposte dei vescovi dell’Africa relativi o legati alla teologia missionaria erano contenuti in argomenti di natura pastorale, ma si nota un’evoluzione nel corso del Concilio stimolata dall’arricchimento progressivo del dibattito ecclesiologico. Il decreto Ad Gentes sull’attività missionaria fu il documento per il quale i padri conciliari dell’Africa diedero il contributo più significativo. I loro interventi aiutarono a elaborare un nuovo concetto di missione. Questa non è monopolio degli istituti missionari, ma è una responsabilità di tutta la chiesa che è per natura missionaria. L’attività missionaria ha come oggetto specifico il nascere e crescere di nuove chiese locali che sono il segnale della piena cattolicità della chiesa. Le chiese locali, frutto dell’attività missionaria, non devono essere una semplice copia della chiesa evangelizzatrice, ma devono assumere un’identità che tenga in conto delle realtà in cui sono radicate per mezzo di un processo di adattamento e incarnazione. A loro volta le giovani chiese devono diventare soggetto di evangelizzazione. Questa nuova visione di «Missione», come interscambio tra chiese sorelle, crea necessariamente un nuovo concetto più vivo ed attivo di chiesa locale.

Imparare per trasmettere

Ma più che parlare, i vescovi dell’Africa sentirono la necessità di ascoltare le posizioni degli altri episcopati per imparare dalla loro esperienza. La presenza discreta e silenziosa della maggior parte di loro non era sinonimo di disinteresse, era un silenzio attivo. Seguivano con attenzione il dibattito, studiavano i testi, prendevano nota.

Si preoccupavano di informare i loro cristiani sullo sviluppo dei lavori conciliari per così coinvolgerli e motivarli ai cambiamenti che li avrebbero toccati. Per mezzo dei loro scritti, lettere, articoli nei giornali, davano a conoscere la propria attività nel Concilio, così come i contatti con gli altri vescovi e con organismi internazionali. Manifestavano anche le loro impressioni sul Concilio, sottolineando i fatti e i risultati più importanti: la sua dimensione universale, la riforma liturgica, l’inculturazione, il dialogo ecumenico, ecc.

Diamantino Guapo Antunes
Missionario della Consolata portoghese, attuale superiore delle comunità Imc in Mozambico; ha scritto lo studio «Concílio Vaticano II, o contibuto do Episcopado de África e Madagáscar», Edizioni Missioni Consolata, Torino 2001.

Conferenza dei vescovi dell’Africa nel Dicembre 1962 a Roma. Presiede il card Laureano Rugambwa, con a destra mons O. MvCann di Cape Town e sinistra mons. J.B. Zoa vescovo di Yaundé

 


Chiesa missionaria e Concilio Vaticano II

Un documento pietra miliare di una storia infinita

di Gianfranco Testa

Mai come oggi, nella Chiesa riunita attorno a papa Francesco, si è presa coscienza che l’avvenimento di cinquanta anni fa, il Concilio Vaticano II, è vivo e interpella noi tutti a proseguire un cammino di cui l’Ad Gentes, riportando la «missione» nel cuore della Chiesa e ricordando che ogni cristiano è per sua natura missionario, è stata non un punto di arrivo, ma un punto di partenza.

Per le piazze e le strade di Roma, il Concilio si manifestò subito, all’immaginario collettivo, con un volto ecumenico, universale, grazie all’avvicendarsi di vescovi provenienti da diverse latitudini e di «diversi colori». Quelli latinoamericani non si fecero notare granché, ma quelli asiatici e africani s’imposero all’attenzione della gente. La Chiesa mostrava, così, almeno il suo folclore, non necessariamente la sua missionarietà.

In un primo momento, nei dibattiti conciliari, sembrò quasi che il tema della missione non fosse urgente. Esso si trovava già sottinteso nel documento Lumen Gentium sulla natura della Chiesa, pubblicato dallo stesso Concilio nel novembre 1964, e non sembrava esserci la necessità di renderlo esplicito. Eppure le perplessità sull’attualità e l’opportunità della missione erano forti e presenti in tutta la Chiesa. Non tutti, infatti, vedevano di buon occhio l’ansia di convertire le persone. In più l’opera missionaria era messa in discussione anche dal grande movimento contro il colonialismo, sfociato nell’indipendenza di molti paesi, soprattutto africani. Si pensava che fosse giunto il momento in cui ogni paese programmasse la propria politica e la propria religione.
Alcuni rappresentanti delle chiese orientali, poi, erano preoccupati perché la chiesa occidentale sembrava più interessata alle forme organizzative che all’essenza e alle ragioni profonde della missione. Il nome stesso dell’organismo ecclesiale incaricato di guidare e animare la missione universale, «Propaganda Fide», suscitava dubbi.

Quando, grazie alla richiesta di alcuni padri conciliari, venne presa la decisione di redigere un documento specifico sulla materia, la sua stesura fu travagliata e segnata da diversi rifiuti, al punto che si parlò di una «storia inusitatamente turbolenta» del documento. Nonostante ciò, il 7 dicembre 1965, al momento della promulgazione, l’Ad gentes fu il decreto approvato con la maggioranza più larga, con appena 5 voti contrari.

La Commissione che aveva preparato il decreto sull’attività missionaria della Chiesa si era basata su quanto già espresso nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, ma ne aveva sviluppato i temi in modo originale e profondo.

La Chiesa, come un corpo vivo, deve crescere e manifestare la sua energia vitale, e la missione ne è l’essenza stessa, non la ricerca di un semplice aumento numerico dei suoi membri. Una simile visione di missione interessa tutto il popolo di Dio e non solo alcuni circoli o istituti specializzati. La relazione tra questa nozione ampia di missione e quella specifica di missione ad gentes è, allora, precisata dal fatto che la seconda è l’attuazione dell’unica missione, nelle circostanze, nei luoghi e nelle realtà sociali più diverse.

I contenuti e le ragioni

Se la Chiesa è definita come «sacramento universale di salvezza» vuol dire che la sua funzione di segno e di strumento della salvezza di Dio non ha confini, è universale, per tutti i tempi, i popoli, le lingue, i luoghi. La Chiesa da sacramento-mistero diventa missione.

Con l’Ad gentes si mettono le basi per una teologia della missione che nasce nella stessa Trinità: il Padre manda il Figlio perché sia salvezza per tutti, e questi offre lo Spirito perché tutto sia riassunto nell’amore del Padre.

La Chiesa prende forma nelle varie Chiese locali, che, pur nella loro povertà di mezzi e di personale, sono chiamate a essere, anch’esse, protagoniste della missione. La missione, dal canto suo, è servizio all’uomo, non a quello astratto, filosofico, uguale in tutto il mondo, ma a quello concreto, che, pur mantenendo l’uguaglianza di diritti e di doveri, è diverso di luogo in luogo, per la cultura, le tradizioni di cui è impastato, la concezione della vita e della morte, il rapporto con il sacro.

L’attività missionaria non è altro che la manifestazione e la realizzazione del piano divino nel mondo e nella storia (Ag 9). Non spetta al missionario né alla Chiesa decidere che cosa sia la missione perché il volto della missione è stato delineato da Gesù Cristo. A noi spetta la genialità dell’attuazione, non la fantasia dell’invenzione. La missione precede i missionari e la Chiesa stessa.

Sono affermazioni, quelle contenute nel decreto conciliare, che esigono una revisione del pensiero e dell’azione: si passa dall’atto di impiantare (a volte semplicemente trasferire) la Chiesa, a quello di immergersi nella profondità del progetto divino, a cui si deve continuamente rendere conto.

La storia e le storie

Prima del Concilio tutto era semplice. C’erano i paesi di missione e i missionari che sapevano cosa bisognava fare: portare un po’ di benessere, rendendo civili «gli altri», e, nella misura del possibile, fare l’impossibile per battezzarli e farli diventare cristiani. Si cercava di trapiantare la propria chiesa di origine in Africa, in Amazzonia o in Asia, con gli stessi paramenti, vestiti per i chierichetti, novene, feste, santi e devozioni. Eppure già nel 1659 Propaganda Fide raccomandava: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina
la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna,
dell’Italia o di un’altra parte d’Europa?
Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di
nessun popolo, purché non siano immorali».

Tutto era iniziato in modo spettacolare, e degno di imitazione, con Paolo, ma poi, con il passare dei secoli, evangelizzata l’Europa, la missione era stata finalizzata soprattutto alla conversione degli eretici e, cosa molto difficile, dei musulmani.

A metà del secondo millennio, la perdita di una porzione d’Europa, passata sotto l’influenza di Lutero, fu compensata dalla massiccia conquista, a forza di spada e di croce, dell’America Latina. Spagna e Portogallo sfornarono frati cattolici, Inghilterra e Olanda pastori riformati. Il mondo fu condotto a Dio, per sua gloria, sotto varie etichette. Il primo che arrivava faceva di tutto perché la sua porzione di gregge non fosse sequestrata dagli altri. Non mancarono esempi luminosi, ma certo il metodo era assai poco cristiano. L’evangelizzazione unita alla colonia fu poi criticata, e con ragione.

L’evangelizzazione più recente, nascosta sotto l’apparenza di una migliore civiltà, fu anch’essa criticata. Se il Concilio volle far notare che «la Chiesa proibisce severamente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede» (Ag 13), lo fece perché questo succedeva e si sentiva la necessità di denunciarlo.

Dopo il Concilio

È vero, il Concilio mise delle basi luminose nel cammino missionario della Chiesa, ma da quelle basi chiare scaturì una crisi, che coincise con la più ampia crisi della cristianità e della società. Venticinque anni dopo, l’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II parlò di uno «slancio indebolito»: si era detto che tutta la Chiesa era missionaria e che tutto era missione, si era cominciato a parlare di missione del catechista, del gruppo dei cantori, dell’organizzatore dei tornei di calcio parrocchiali, delle signore che spazzavano la chiesa, ecc., ma allora, che cos’era la missione? Per fare chiarezza e delimitare il campo si era aggiunta l’espressione «ad gentes», cioè «alle genti». Ma dove si trovavano «le genti», o, più popolarmente, i pagani? Al bar e all’università, ad esempio, o per strada, allo sballo del sabato notte e nei nuovi templi del consumismo.

I contorni dell’azione missionaria diventarono meno netti, meno facili da decifrare in modo univoco, e questo generava un certo spaesamento. Intanto la strada che era stata aperta stimolava la riflessione. Allora, abbandonato l’esagerato risalto dato alla Chiesa, si cominciò a parlare soprattutto di annuncio di Cristo. E Cristo, era unico salvatore, o salvatore di tutti gli uomini? Nel primo caso l’accento cade sull’esclusività (unico, via tutti gli altri), nel secondo caso, al contrario, sull’inclusività (nessuno è escluso dalla salvezza di Gesù, a meno che la rifiuti).

Una frase che cominciò a risuonare dopo il Concilio affermava che «forse non è necessario che tutti diventino cristiani, ma è necessario che a tutti sia offerta l’esperienza di Gesù». È più o meno quello che affermava Paolo VI quando scriveva «gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentirneri, grazie alla misericordia di Dio, ma potremo noi salvarci se trascuriamo di annunziare il Vangelo?» (En 80).

Non mancò chi disse: «Gesù va bene, ma il cristianesimo, come lo conosciamo, no, perché è troppo segnato dalla cultura occidentale. Se le prime comunità ebbero la saggezza di accettare che i Vangeli fossero quattro, e non uno solo, quattro buone notizie riferite a Gesù, come potremmo noi avere la pretesa di proporre un unico catechismo per tutti i continenti, le lingue e le culture? Annunciamo il Regno, questo ha fatto Gesù, e questo deve fare la Chiesa se vuole essere missionaria».

Speranze e delusioni

Più si rifletteva sulla missione, più questa diventava vera, ma anche, allo stesso tempo, evanescente. C’era perfino da scoraggiarsi. Ecco perché il papa nel 1990 parlò di uno «slancio indebolito».

Alcuni elementi del Concilio prendevano sempre più forma: in tutti i popoli ci sono i germi, i semi del Regno. Gesù l’aveva presentato così: un piccolo seme, che già si trova in ognuno, profondamente immerso nella cultura. Non è trasportato da fuori. Quando il missionario arriva, deve abbandonare i suoi programmi per scovare, difendere e aiutare quel seme a crescere. La Chiesa è chiamata a inculturarsi per diventare «chiesa negra, indigena, asiatica», con i propri modi di esprimersi, mantenendo come suo unico criterio la fedeltà al Regno di Dio.

Ovviamente nel dibattito c’era chi faceva l’avvocato del diavolo: «Non c’è il pericolo che, invece di un grande affresco, alla fine il Regno risulti un mosaico confuso, fatto di tanti piccoli pezzi separati tra di loro che perdono di vista l’insieme? Inoltre, il seme del Verbo, è seminato solo nelle culture o anche nelle religioni, che delle culture sono parte fondamentale?».

Un altro documento dello stesso Concilio, la Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate, apriva all’incontro rispettoso con le varie realtà religiose. Ma la considerazione per esse era un mezzo utile o un fattore di confusione nell’impegno missionario? I teologi cercarono di destreggiarsi tra dialogo e missione, dialogo e annuncio, con il timore che il dialogo potesse diventare una strategia nuova e più raffinata di «conquista» delle persone. Che fare? Si doveva allora tacere riguardo alla superiorità della fede in Cristo per dialogare con tutti?

Si iniziò a considerare tutte le religioni come realtà che offrono salvezza. Non allo stesso modo, ma ognuna contiene gli elementi sufficienti per dare, in quella certa realtà e cultura, le risposte necessarie alle persone. Tutte le religioni sono strade di salvezza, come aveva sostenuto anche Paolo VI: «Gli uomini si potranno salvare anche per altre strade». Il problema della salvezza è un problema che lasciamo a Dio. Non diciamo che questa o quella religione sia la migliore, semplicemente ringraziamo Dio che, attraverso tanti mezzi e strumenti diversi, le persone incontrino risposte per realizzare se stesse.

Nuovi linguaggi e contenuti

Se ne è fatta di strada da quando il Concilio ha parlato di dialogo, di semi del Verbo, di inculturazione. Forse il cammino non piace a tutti. Forse si è andati troppo lontano o, forse, fuori percorso. Ma tant’è: la missione continua a essere il laboratorio di esperienze nuove, in cui certi esperimenti hanno fortuna e altri sono un disastro, alcuni sono accettati e altri no, anche se interessanti, come lo erano state le riduzioni gesuitiche del Sudamerica o il tema dei riti cinesi ai tempi di Matteo Ricci.

Il pluralismo religioso ci mette di fronte alla realtà: ai popoli non mancano le religioni, espresse in forme culturali, in strutture cultuali, in miti e dottrine, in esigenze morali, ma le diverse fedi puntano a un’unica meta: vivere il Regno, cioè la comunità fraterna in cui ci si trova tutti uniti, in un rapporto di intimità con l’unico Padre.

La Chiesa è il segno del Regno, ma finché essa dà risalto soprattutto alla dottrina, alla gerarchia, alla verità e non al Vangelo, sarà semplicemente una religione come le altre, forse più strutturata e organizzata delle altre. «Tra voi non sarà così», diceva Gesù: egli chiedeva qualcosa di diverso da un corpo ben ordinato. Non esigeva l’assenza di peccato, la sua pratica era di vicinanza proprio con i peccatori, ma voleva che i suoi fossero totalmente estranei a ogni forma di potere, di apparenza o di divisione in classi: «Voi siete tutti fratelli».

Ecco allora che la missione non porta la Chiesa ai popoli, ma avvia i popoli, con il colore vitale che ciascuno ha, verso una Chiesa che, superata la sua fisionomia religiosa, sia espressione del Regno, della famiglia di Dio: tutti figli, tutti fratelli.

Jonathan Sacks, gran rabbino della Gran Bretagna afferma: «La missione della religione è la speranza», così come Pietro scriveva in una sua lettera: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Lenire la sofferenza esistenziale degli esseri umani è sempre stato il grande affanno del Dio biblico, del Dio di Gesù e anche di quello di Muhammad, dei Veda e delle religioni attente alla realtà della persona umana. La missione è credere che la salvezza, la vita, la speranza sono aspirazione e diritto di tutti.

La primavera di Francesco

Un papa che viene dalla fine del mondo, dove la missione è la quotidianità, non poteva non mettere nei credenti lo spirito dell’«Andate a tutte le genti». Parole come «periferie, poveri, cultura dello scarto, sporcarsi le mani, odorare di pecore», sono entrate nel linguaggio ecclesiale. Certo, non è detto che siano diventate vita vissuta per i cristiani e neppure per i missionari: si richiede una profonda conversione, bisogna uscire dalle fortezze (conventi, parrocchie, strutture), per vivere in mezzo alla gente, per partecipare alla sua storia che è sempre, già, una storia di salvezza, dove si mescolano speranze e delusioni, eroismo e peccato, e dove, in ogni caso, il protagonista è lo Spirito, non l’individuo e neppure la chiesa, che non cerca la propria sopravvivenza, ma la capacità di servizio.

A noi è affidato il compito di portare a maturazione la presente primavera. La missione come speranza è compassione, non è indicare il cammino da compiere, ma camminare insieme.

Gianfranco Testa
Missionario della Consolata che ha operato in Argentina ai tempi della dittatura, poi in Italia, in Nicaragua e in Colombia; oggi è in Italia dove ha fondato l’Università del Perdono, per promuovere la prassi e la spiritualità del perdono soprattutto in realtà dilaniate dalla guerra o da tradizioni che esaltano la vendetta e la violenza.

Sul Concilio Vaticano II vedi il dossier «La Chiesa si scoprì tutta missionaria» (MC 10/2012) pubblicato in occasione del 50° dell’inizio dello stesso.

 




Pomodori neri


  1. Angela Lano, Volti e storie dal vaso di Pandora, reportage dal cara di Mineo
  2. Giulia Bondi, Siamo uomini o caporali? , reportage dal Getto di Rignano
  3. Maurizio Pallante, Rompere il cerchio Crescita-Migranti

Questo dossier

Anche noi torniamo a parlare di migranti – sia profughi che migranti economici – dopo una drammatica estate di arrivi in Europa di decine di migliaia di persone dal vicino Oriente (Siria, in primis), dall’Africa, ma anche dall’Asia. L’Europa, divisa e litigiosa, si è letteralmente liquefatta davanti al problema. In queste pagine affrontiamo la questione con due reportage, un’analisi delle cause e un commento.
Il primo reportage è dal Cara di Mineo, la struttura in provincia di Catania, dove vengono accolti migliaia di migranti in attesa di identificazione. Il secondo viene dalla Puglia dove molti migranti sono impiegati nei lavori agricoli, quasi sempre in condizioni disumane. L’analisi di Maurizio Pallante esamina le cause delle migrazioni evidenziando un fatto mai preso in esame: è il modello economico della crescita infinita – spiega l’autore, teorico della decrescita – che produce spostamenti di popolazioni. Infine, il nostro collaboratore Gian Carlo Caselli, nella sua veste di presidente del comitato scientifico dell’«Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare», affronta il tema delle agromafie e del caporalato. Passando dal pomodoro «made in China» allo sfruttamento di donne e uomini, in particolare extracomunitari, nelle campagne italiane.

la Redazione
con Giulia Bondi, Gian Carlo Caselli, Angela Lano, Maurizio Pallante

 


Reportage 1 / al Cara di Mineo (Catania)

Volti e storie dal vaso di Pandora

Un tempo era il villaggio residenziale dei soldati statunitensi di Sigonella, oggi è il «Centro accoglienza richiedenti asilo» (Cara). Famoso e controverso (anche per alcuni gravi fatti di cronaca), lo abbiamo visitato parlando con chi vi lavora e con chi vi è ospitato.

Catania, estate 2015. Al mattino presto ci rechiamo in una via vicino alla stazione ferroviaria, dove sono parcheggiate diverse auto con a bordo immigrati dell’Africa subsahariana. Sono tassisti abusivi che trasportano i rifugiati ospiti del Cara – Centro accoglienza richiedenti asilo – da Mineo a Catania, per le spese e altre commissioni giornaliere. Dopo aver contrattato il prezzo del passaggio, saliamo a bordo di un vecchio veicolo, pieno di persone.

Mineo dista un’ora da Catania. L’autista, Amin, un senegalese di 42 anni, ci racconta che talvolta lui e i suoi colleghi vengono fermati dalle forze dell’ordine, e multati per eccesso di passeggeri. Per il resto, nessuno dice nulla. Sono tre anni che fa questo lavoro e inizia a essere stanco: troppi rischi per via delle auto scassate, e poco guadagno. Sono in troppi a contendersi i viaggi da e verso il Cara: diciotto auto che lavorano dal mattino alla notte. I tassisti sono prevalentemente nigeriani, libici o senegalesi come Amin.

Il Cara è allestito nell’ex villaggio residenziale dei soldati statunitensi di stanza a Sigonella: un’ampia area nel «deserto» catanese, distante 10 km da Mineo, delimitata da filo spinato e controllata da esercito e polizia. Si entra e si esce solo con i permessi. Mentre aspettiamo l’autorizzazione a visitarlo, diversi ragazzi escono per raggiungere Catania o le aziende agricole attorno. La permanenza nel campo dovrebbe essere di circa sei mesi – in attesa del processo per lo status di rifugiato -, ma molti vi rimangono anche un anno o più.

Sono circa 3.000 i richiedenti asilo attualmente presenti nel Cara: arrivano dalla Nigeria, dal Gambia, dal Mali, dal Senegal, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea Bissau, dalla Somalia, dalla Sierra Leone, dal Niger, dall’Egitto, dalla Libia, dall’Eritrea, ma anche da paesi non africani come il Pakistan e il Bangladesh. Per alcuni migranti lo status di profugo non arriverà mai, poiché, di fatto, non giungono da un paese in guerra o non possono dimostrare di essere perseguitati.

In Libia, con e dopo Gheddafi

Il campo è costituito da diverse case a schiera disposte su viali paralleli e da altre strutture adibite a mensa, moschea e chiesa, laboratori, uffici, scuola, ambulatorio, lavanderia, ecc. È organizzato con un esercito di operatori: sono 400 tra mediatori, assistenti sociali, medici, psicologi, avvocati, addetti alla mensa e alle pulizie.

Ci riceve il direttore del centro, Sebastiano Maccarrone, il quale ci spiega che molti degli ospiti, prima di arrivare in Europa, avevano lasciato il proprio paese per trovare lavoro in Libia. Molti, negli anni precedenti la «primavera libica» che ha rovesciato il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, si erano ben inseriti a livello professionale e sociale. Con lo scoppio della rivolta, tuttavia, sono iniziati i problemi: persecuzioni a causa del colore della pelle, lavoro forzato, violenze, prigionia, stupri.

A migliaia, nel 2011, sono fuggiti verso le coste italiane, cercando salvezza dalle aggressioni sistematiche da parte di bande di militari di fazioni diverse: era l’«emergenza Nordafrica». Un’immigrazione di massa straordinaria ma prevedibile, vista la situazione di guerra civile in Libia.

All’emergenza delle persone immigrate nel paese nordafricano per scappare da guerre e persecuzioni si è affiancata, nei mesi e negli anni successivi, e fino ad oggi, un’altra forma di fuga: quella delle vittime del lavoro in schiavitù. È gente che viene costretta a pagare per andarsene o che è costretta a salire sui barconi da sfruttatori che, dopo averli utilizzati come manodopera gratuita, al momento di retribuirli, consegnano 2.000 euro agli scafisti per sbarazzarsi di loro. Molti di quelli che ora raggiungono le coste della Sicilia su gommoni scassati sono ancora lavoratori africani che fuggono dalla Libia post-Gheddafi. Altri, invece, si sono trovati a transitare nel paese nordafricano per tentare di passare in Europa. Tutti, indistintamente, sono finiti nelle mani di bande armate che li hanno catturati, picchiati, sfruttati, violentati e poi imbarcati a caro prezzo.

«Arrivano tutti dal caos libico – sottolinea il direttore del Cara Maccarrone -, perché con gli altri paesi del Nordafrica, come la Tunisia e il Marocco, abbiamo accordi bilaterali in base ai quali chi arriva da lì in Sicilia viene rimandato indietro. Il problema con la Libia è che manca un governo centrale con cui fare accordi. I migranti partono da vari porti. La vera questione è politica ed è internazionale: bisogna che i responsabili del colonialismo in Africa – principalmente Francia, Gran Bretagna e Usa – si occupino di questa drammatica situazione. L’Italia sta facendo un enorme sforzo».

Il direttore Maccarrone ci fa accompagnare nelle strutture del campo da una mediatrice, una giovane marocchina poliglotta. Sono terribili le storie che ci raccontano i rifugiati sulle condizioni di trattamento in Libia: descrizioni dettagliate di riduzione in schavitù e di violenze, possibili grazie al caos politico e sociale in cui è precipitata la Libia «post-primavera». Un paese senza un governo centrale – ne ha due, rivali, a Tobruk e Tripoli – e con milizie armate dovunque, Isis compreso.

Le donne dell’Africa subsahariana che si trovano a transitare in Libia vengono stuprate, portate nelle case dei ricchi e abusate. Ragazzi e uomini subiscono ogni sorta di violenze nelle carceri, che periodicamente vengono «ripulite» mandandoli sui barconi a morire in mare.

Jean Baptiste ha 22 anni e viene dalla Costa d’Avorio: è uno dei sopravvissuti al naufragio dell’aprile 2015 che uccise 800 persone. «Ho viaggiato da Tripoli all’Italia in un barcone. Avevo lasciato il mio paese all’inizio del 2014 per cercare un lavoro dignitoso in Libia. Lì i lavoratori immigrati li pagavano bene, ma a me è andata diversamente: sono finito in prigione, catturato per strada da milizie armate. Non so dire se fossero poliziotti, militari o bande criminali. In carcere ho sofferto per le violenze e i maltrattamenti. C’è razzismo contro gli Africani neri. Soffrono tanto in Libia. Non sono considerati come esseri umani».

Khalifa, 25 anni, è un musulmano di Gao, in Mali. È arrivato in Sicilia con Jean Baptiste, in aprile. «Ho lasciato il Mali nel 2010 e sono arrivato in Algeria, dove ho vissuto fino al 2012, quando ho raggiunto la Libia e sono riuscito a trovare un lavoro. Ero con mio fratello. Stavamo bene, lavoravamo per un datore di lavoro libico onesto. Purtroppo è stato ucciso da un gruppo armato e io ho dovuto cercare un altro lavoro. Così sono cominciati i miei problemi: il nuovo capo non mi pagava e quando ho iniziato a lamentarmi, mi ha consegnato a una banda di criminali, dei trafficanti, che mi hanno sfruttato. Sono finito in prigione, dove ero picchiato tutti i giorni. I carcerieri ci dicevano: “Non ci sono abbastanza cimiteri in Libia: vi faremo morire in mare”. Ci hanno costretti a imbarcarci su un peschereccio sgangherato, che è affondato con 800 persone a bordo. Soltanto in 28 siamo riusciti a sopravvivere. Mio fratello e tutti i miei amici sono morti annegati nel Mediterraneo». A questo punto, Khalifa interrompe la sua storia e scoppia in lacrime.

Le storie dei rifugiati sono simili tra loro: lunghi percorsi nel deserto, per arrivare in Libia o a lavorare o allo scopo di imbarcarsi per l’Europa, maltrattamenti, sfruttamento, violenze, tratta. Sono così somiglianti che sorge persino il dubbio che chi le racconta abbia mandato a memoria un copione per convincere chi li accoglie in Italia a occuparsi di loro e avviare la richiesta di asilo.

Chiediamo dunque agli psicologi, assistenti sociali e legali presenti nel centro di confermarci le storie ascoltate, e anche loro ci parlano di violenze, razzismo, stupri, mancanza di cibo e acqua, forme di lavoro schiavo e imbarchi forzati. «Sono tre anni e mezzo – ci racconta un’assistente sociale – che ascoltiamo storie terribili. Anche di lavoratori che prima stavano bene e che successivamente si sono trovati ai “lavori forzati” per un periodo e poi sono stati mandati via. Vengono sfruttati per mesi e quando non servono più li mettono in mare, verso l’Europa. È un esercizio di strapotere su migranti indifesi. Alcuni vengono liberati dal carcere per lavorare gratis. Dalla caduta del regime libico è iniziato questo caos. Detto in altre parole: Gheddafi dava garanzie nel Mediterraneo».

Dai barconi alla cronaca nera

Il Cara ha acquisito notorietà non solo perché è il più grande centro per richiedenti asilo d’Europa, ma anche per fatti di cronaca che hanno provocato orrore: a fine agosto, a Catania, sono stati trovati i cadaveri di due anziani. Poche ore dopo è stato arrestato un giovane della Costa d’Avorio, fuggito dal centro di accoglienza di Mineo. «“Il Cara di Mineo crea problemi che noi dobbiamo gestire con poco personale, facendo fronte all’emergenza”, ha commentato il procuratore di Caltagirone, Giuseppe Verzera, che cornordina l’indagine sul duplice omicidio. “È stato un delitto efferato – ha aggiunto – macabro, con una scena del delitto incredibile. [….]”. L’indagine però è tutt’altro che chiusa: l’ipotesi degli inquirenti è che l’ivoriano non abbia agito da solo ma abbia avuto dei complici, altri extracomunitari che la polizia di Stato sta cercando di individuare» (Il Fatto Quotidiano, 30 agosto).

Ancora cronaca giudiziaria legata a rifugiati accolti e poi fuggiti dal Cara: a settembre, a Worms, in Germania, viene arrestato un eritreo, Mulubrahan Gurum, che gestisce i soldi del lucroso traffico umano tra la Libia e l’Europa. Con questo arresto, finalmente anche i media mainstream iniziano a parlare in modo esplicito di tratta di esseri umani, di immensi guadagni, di organizzazioni criminali internazionali con ramificazioni dalla Libia (e da altre regioni africane) all’Europa: «“Dell’importo del viaggio, tra i 2.000 e i 2.500 dollari, solo il cinque per cento viene versato in contanti in Libia. Il resto deve essere pagato estero su estero. E per la conferma del buon esito è sufficiente un sms”. Il saldo, per quello che sin qui ha potuto ricostruire l’indagine della procura di Palermo, arriva normalmente in paesi come Germania, Svezia, Norvegia e Inghilterra. E qui raccolto da cassieri che provvedono a riciclarlo. Nelle intercettazioni si fa persino generico riferimento a “banche internazionali”, a trasferimenti “da Dubai all’Europa, così evitiamo i controlli”. A cambi da dollari in euro e viceversa. E del resto quello che dice Ermias Ghermay (uno dei personaggi coinvolti nell’inchiesta della magistratura palermitana, ndr) al telefono lascia intuire di quali ordini di grandezze si parli: “Ho guadagnato così tanti soldi da vivere benissimo per 20 anni, per ogni barca che mando verso l’Italia guadagno 80 mila dollari”» (la Repubblica, 12 settembre).

Il piccolo Aylan e gli altri

Quella degli ultimi anni è un’onda migratoria anomala, fenomenica (nel senso di eccezionale rispetto ai flussi fisiologici di migranti ante Primavere arabe, cioè prima del 2011), che sposta masse di persone da un continente all’altro, che provoca migliaia di morti e frutta miliardi di dollari alle organizzazioni criminali internazionali. Parallelamente, ma non disgiuntamente, ridisegna, piano piano, un’altra Europa, con altre popolazioni.

La maggior parte dei profughi di questi ultimi anni arriva da paesi come Iraq, Libia, Siria, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, distrutti dalle guerre occidentali (volute da Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.) e da quelle orientali (condotte da Turchia, Israele, Qatar, Arabia Saudita). In molti fuggono anche dallo «Stato Islamico di Iraq e Siria» (Isis), nato in seno al wahabismo saudita (alleato dell’Occidente) e da esso appoggiato e finanziato.

E ora le stesse immagini di migliaia di persone che attraversano a piedi confini e barriere nazionali o quella toccante di Aylan, il piccolo curdo di Kobane, morto sulla spiaggia turca di Budrum, vengono usate strumentalmente per creare il consenso a nuove invasioni e conflitti (contro la Siria di Assad, ad esempio) .

Rifugiati e immigrati sono oggetto di un immenso business che va dalla tratta di esseri umani reclutati nei villaggi e nelle città di diversi stati africani, all’allestimento dei viaggi sui barconi che attraversano il Mediterraneo e arrivano in Europa. Lucrano su questo traffico sia gruppi islamisti jihadisti (come accade in Libia, in Mali e in diverse altre regioni africane) sia organizzazioni criminali e mafiose locali e internazionali, e pure politici e rappresentanti di governi.

Una volta in Europa, inizia l’altrettanto redditizia gestione dell’accoglienza dell’immigrato: fondi ingenti stanziati dall’Unione Europea e destinate agli stati, e da questi, in certi casi, a amministrazioni comunali o cornoperative.

Parallelamente, c’è anche la consistente immissione nel mercato del lavoro – agricolo, commerciale, industriale – di manodopera disperata e a basso costo e lo sviluppo di nuove forme di lavoro subordinato, caratterizzato da condizioni disumane, o di semi schiavitù.

Infine, le bande criminali vedono nell’immigrato emarginato una potenziale manovalanza a buon mercato per lo spaccio, la prostituzione, ecc. Basti pensare che le mafie italiane già da tempo investono sul traffico di esseri umani, ritenuto più lucroso di quello della droga.

Nel Nord come nel Sud dell’Italia, molte campagne si riempiono di africani che, in cambio di paghe da fame, raccolgono pomodori e altra frutta che arriveranno sugli scaffali dei nostri supermercati e sui banconi dei mercati. Mentre di notte le strade delle città sono affollate di giovanissime donne nere, vittime della tratta del sesso. Forse l’ultimo gradino dello sfruttamento senza fine dei popoli colonizzati dall’Occidente.

Angela Lano*

(*)  Ricercatrice presso l’Università Federale di Salvador di Bahia (Ufba); articolo inserito in un progetto di ricerca sulla Libia sostenuto dalla «Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado da Bahia» (Fapesb), Brasile.


Reportage 2 / Nelle campagne della Puglia

Siamo uomini… o caporali?

È una vera baraccopoli a 15 km da Foggia. Con baracche, ristoranti e bordelli. Vi abitano decine di lavoratori dell’Africa dell’Ovest. È qui che i caporali reclutano la mano d’opera. Qui occorre ingegnarsi in mille lavori. C’è pure una radio che dà voce a progetti e speranze. Reportage dal Ghetto.L’uomo senegalese ha la barba corta. In una tinozza da bucato di plastica azzurra prepara dieci chili di pastella ogni giorno, un enorme blob di schiuma morbida e chiara. Sta seduto su uno sgabello e la prende su a cucchiaiate, poi la getta in una padella di olio bollente che la gonfia e la indora, a trenta o quaranta alla volta, fino a trasformarla nei beignet più buoni di tutta la baraccopoli. «Durano fino a 35 giorni se li tieni chiusi nel sacchettino», gongola, con l’orgoglio della massaia che svela parte dei suoi segreti: «E questo perché dentro non c’è una goccia d’acqua. Solo latte e uova». Una porzione da due, in un sacchetto di plastica trasparente usa e getta, costa cinquanta centesimi.

In un altro angolo della stessa baracca di lamiera, grande, buia e non ancora rovente come sarà da mezzogiorno al tramonto, Maimuna prepara il soffritto. Ha quarantacinque anni, la pelle liscissima, occhi scuri, tunica colorata e capelli coperti da un turbante voluminoso. Il resto dell’anno fa la badante o le pulizie a Bologna. D’estate squama il pesce e cuoce il riso nella baracca di Papa Diop, senegalese, uno dei ristoratori storici del ghetto.

Pochi metri più in là, sotto il portico di lamiera e legno, affacciato sul «viale» principale, ecco Mamadou a lavorare di mannaia, per fare a pezzi la pecora che più tardi Maimuna bollirà. D’inverno, Mamadou vende le torri pendenti ai turisti, a Pisa in piazza dei Miracoli. D’estate spacca le ossa degli ovini al gran Ghetto di Rignano Garganico.

La chiamano tutti così la baraccopoli, a soli quindici chilometri dal centro di Foggia, che dà alloggio a circa duemilacinquecento braccianti. Sono quasi tutti dell’Africa occidentale francofona, lavorano nella raccolta del pomodoro e degli altri prodotti delle campagne della zona.

I braccianti vivono in baracche di plastica e cartone. Si alzano presto la mattina, i primi anche alle tre, per aspettare i «capi neri», i caporali che fanno da intermediari con le aziende agricole della zona, organizzano le squadre di lavoro e le trasportano su vecchi furgoni scassati, quasi sempre rubati, spesso con targhe bulgare o rumene.

Le pecore e i caproni che i macellai comprano da un pastore poco distante, vivono pure loro al Ghetto, almeno gli ultimi giorni della loro vita. Stanno legati per una zampa in recinti a cielo aperto, con le pareti fatte di vecchie porte e finestre di legno, recuperate da discariche e robivecchi. Qualcuna tenta di scappare, ma nessuna, alla fine, sfugge al boia, che arriva con la coca cola in una mano e il coltellaccio nell’altra, e non rinuncia a rispondere al cellulare nemmeno quando ha davanti la pozza di sangue appena uscita dalla giugulare della bestia.

Tutto quello che si potrà, finirà mangiato. Le ossa serviranno a fare il brodo. La pelle scuoiata giacerà ammucchiata su una delle tante cataste di rifiuti che nessuno dei comuni circostanti – Foggia, Rignano Garganico, San Severo – accetta di venire a raccogliere. I residenti del ghetto finiscono per bruciarle quasi ogni giorno: al puzzo di carcassa subentra quello di diossina e si libera spazio per la spazzatura dell’indomani.

Vita in baraccopoli

Prima di essere buttato, quasi tutto è stato riutilizzato e riciclato fino all’inverosimile. Le bottiglie di plastica della minerale si riempiono decine di volte dalle grandi taniche dell’acqua potabile, che a loro volta sono riempite da una cisterna, ogni mattina (pagata dalla Regione Puglia). Le bottigliette dei detersivi o delle bibite servono anch’esse per l’acqua, quella non potabile, da usare per lavarsi. La si attinge a uno dei tre punti di raccolta installati tra le baracche, circondati sempre da fango fresco e rozze canaline di scolo per contenere gli allagamenti.

Quando qualcuno si allontana verso i campi, con in mano un flacone verde che era stato di Nelsen piatti, sta quasi certamente andando a pregare, prostrato nella polvere, dopo le abluzioni rituali. Oppure a defecare, nei campi o negli uliveti, dato che i venti wc chimici installati all’ingresso del ghetto vengono puliti, da un uomo con un furgoncino cisterna e una pompa d’acqua, soltanto ogni due giorni (sempre a carico della Regione).

Esiste da circa vent’anni, ed è cresciuta ogni stagione con nuove abitazioni di fortuna, la spettacolare baraccopoli nota a tutti come il Gran Ghetto. Non è la sola città temporanea a dare riparo ai braccianti del Sud. Senza andare lontano, altri insediamenti di fortuna ci sono a Borgo Mezzanone e Borgo Tre Titoli in Puglia, o a Boreano in Basilicata.

Nei dintorni del Gran Ghetto quasi tutti i casolari, costruiti negli anni della riforma agraria e poi abbandonati, sono abitati, durante l’estate, dai braccianti impegnati nei lavori stagionali. Delle baraccopoli, il Gran Ghetto è la più grande, certamente tra le più longeve e sviluppate. Rimane abitata e in funzione anche per una parte dell’inverno per chi, oltre alla raccolta del pomodoro, lavora alla vendemmia o a quella delle olive. E molti braccianti arrivano già dalla primavera, per le verdure di serra, gli asparagi o i peperoni.

Da un anno all’altro, la plastica delle serre si ricicla come copertura delle baracche. Chi sa costruirle è in grado di metterne in piedi una piccola nel giro di un paio di giorni. Uno scheletro di legno e le pareti di cartone. E un tessuto connettivo fatto di vecchi tubi da irrigazione, su cui piantare migliaia di chiodi che, oltre a tenere insieme la struttura, servono ad appendere sacchi e zainetti per salvarli dalla polvere. Quando non raccolgono, i braccianti battono le campagne in cerca di materiali di scarto utili alla costruzione delle baracche.

Ce ne sono da otto o dieci posti, ma anche da trenta o quaranta, di proprietà dei caporali, che nella loro offerta logistica includono anche il luogo in cui dormire. Trenta euro, un materasso per l’intera stagione, con altri sette una rete a molle.

Sul modello base di baracca ci sono decine di varianti: doppio contro-soffitto in cartone, per isolarsi dal caldo straziante, e dal freddo che arriva già nelle notti di fine estate; oppure rivestimento di vecchie lenzuola, per rendere l’interno più accogliente. Il contro-soffitto in tessuto ce l’hanno soprattutto ristoranti e bordelli, che per il comfort dei clienti coprono anche i pavimenti con teloni in plastica. I più avviati hanno perfino le piastrelle.

Ristoranti, bordelli e caporali

Una ragazza guadagna dieci euro a cliente, e ne paga dieci al giorno di affitto al proprietario del locale. Al ghetto ce ne sono decine, si vedono poco perché dormono di giorno. Quasi tutte vengono dalla Nigeria.

I clienti non sono solo del Mali, del Burkina, del Senegal, del Gambia o della Guinea, come la maggior parte dei braccianti. Arrivano spesso al ghetto auto con targa italiana, guidate da uomini di mezza età, o da gruppi di amici anche molto più giovani. Dieci euro la ragazza. Un euro la birra da 33 cl, rinfrescata nei frigo alimentati dai generatori. Non più di tre euro un piatto di riso e carne, cereali o verdura, a scelta tra tante varianti di cucina africana, nella dozzina di ristorantini che si aprono tra strade e vicoli del ghetto.

Conveniente per gli italiani, la tariffa dei ristoranti rimane un lusso per molti abitanti del ghetto, pagati quasi sempre a cottimo e spesso in ritardo rispetto a quando il lavoro viene svolto. «Sono stanco, quest’anno parto appena riesco a farmi pagare», spiega Boureima, senegalese in attesa di una decisione sulla sua richiesta di asilo.

Negli ultimi giorni, ha lavorato in un’azienda agricola al taglio delle cipolle. Il pagamento in questo caso è orario, 2 euro e 75 centesimi per un’ora di lavoro, in piedi al nastro trasportatore. «Non ti lasciano riposare, neanche fermarti un momento per bere un sorso d’acqua, e allora ho deciso di smettere: aspetto i miei soldi e poi me ne torno a Roma», afferma, stufo di giornate lavorative di dieci ore in cui si guadagnano poco più di venti euro. Ogni bracciante, infatti, deve lasciare al «caporale» almeno cinque euro al giorno, per il trasporto dal ghetto al luogo di lavoro.

Funziona così anche per chi lavora nei campi di pomodori: cinque euro è la tariffa obbligatoria per farsi caricare, alle prime ore della mattina, su uno dei furgoni che, sferragliando tra nuvole di polvere, trasportano i braccianti fino al campo, stipati in venti o trenta alla volta su panchette di legno installate al posto dei sedili.

Per la raccolta del pomodoro, il pagamento è a cottimo, in base al numero di cassoni riempiti. Per un cassone da 300 kg di pomodori, il pagamento medio è di 5 euro, ma al bracciante ne restano in genere 3,50. Il restante euro e mezzo lo trattiene il caporale.

Quanto si guadagna in un giorno dipende da tanti fattori: le condizioni del terreno, la forma fisica del lavoratore, e anche quanti saranno i camion che in quella giornata arriveranno sul campo, per caricare 88 cassoni alla volta e trasportarli fino alle industrie che li lavorano per produrre la passata e i pelati.

«Se si lavora veloce e su terreno asciutto – spiega Yacouba – si possono riempire due cassoni in mezz’ora». Ma se il terreno è troppo asciutto, come nella secca estate 2015, per i braccianti spunta la concorrenza delle macchine raccoglitrici, che sostituiscono gran parte della manodopera.

Molti abitanti del Gran Ghetto non riescono a trovare da lavorare tutti i giorni.

Lavoro al Ghetto

Chi ha idee e altre capacità inventa qualcosa da fare nella vasta, sebbene povera, economia informale del ghetto: Soulimane taglia i capelli con un rasoio elettrico, su una sedia davanti alla sua baracca. «Mi piacerebbe aprire un vero salone», afferma, e ai clienti non fa mancare l’asciugamano posato sulle spalle per non sporcarsi la maglietta. Zaka si è costruito una baracca di lamiera in cui la sera brucia grandi tronchi di legno: riscalda l’acqua, a pagamento, per chi vuole prendersi il lusso di una doccia tiepida. Un giovane maliano ha una vecchia macchina per cucire Necchi. Una volta la settimana arriva il venditore di stoffe e lui si dà da fare come sarto. Nelle sere di luna piena si consuma un po’ meno la vista.

Camara, guineano, non ha capitale per avviare un’attività. Quando non lavora, si arrangia cucinando la cena per gli altri abitanti della sua baracca, che in cambio lo invitano a mangiare gratis.

Yaya si è infortunato sul lavoro. Gli è caduto addosso un cassone vuoto, il suo piede destro è gonfio come una palla da tennis. I medici del Polibus di Emergency, che quattro pomeriggi a settimana staziona davanti al ghetto, gli hanno prescritto iniezioni quotidiane. Per il weekend, quando il Polibus non c’è, gliele fa con mano sicura Angela, cuoca ivoriana, durante l’inverno badante in Sicilia. E alla fine gli sussurra all’orecchio, in francese: «Se non hai soldi, puoi mangiare a credito al mio ristorante». Lui invece qualche soldo lo trova: 10 euro dal caporale, come risarcimento per l’infortunio, assieme alla promessa di «un lavoro più leggero, alla macchina, quando sarai guarito». Altri 37, dall’albergatore campano che durante l’anno lo ospita come richiedente asilo. «È venuto a prenderci le firme, e ci ha portato il pocket money che ci spetta per quindici giorni», spiega Yaya: «Non solo a me, anche agli altri che abitano da lui e che sono qui al ghetto per la stagione». Per ogni due euro e cinquanta di «pocket money», la cifra giornaliera spettante a un richiedente asilo, l’albergatore ne riceve almeno trenta dallo stato. Stando al racconto di Yaya, anziché dichiarare che i suoi «ospiti» in questo periodo si sono allontanati e non gli costano nulla, l’albergatore preferisce farsi un giro in Puglia ogni due settimane a raccogliere le firme.

E così eccolo Yaya, sorridente nel cappello nuovo, altro regalo dell’albergatore. Le iniezioni hanno fatto effetto e quasi non ascolta il suo amico Amadou, ivoriano, che tenta di convincerlo che dieci euro sono un risarcimento irrisorio. Quasi impossibile avere il coraggio di denunciare quando si lavora a giornata, senza contratto. I pochi contratti esistenti sono falsi, non corrispondono alle giornate effettivamente lavorate.

La «voce» del Ghetto

«Il contratto agricolo provinciale prevede un pagamento di 7 euro e 92 l’ora, e un massimo di 6 ore e mezza di lavoro al giorno», spiega Yvan Sagnet, sindacalista della Flai Cgil, al microfono di Radio Ghetto. La radio è una baracca come le altre, si distingue per l’antenna che svetta in uno dei quattro angoli, legata a un palo di legno con pezzi di vecchie camere d’aria.

È aperta dalla tarda mattina fino a sera, e davanti ci sono sempre dieci o venti ragazzi. Qualcuno ci va solo per ricaricare il cellulare gratis, senza pagare i 50 centesimi che chiedono negozietti e ristoranti. Altri si improvvisano dj. Va per la maggiore il reggae africano, le voci ivoriane di Tiken Yah Fakoli o di Alpha Blondy, di cui si favoleggia che il terzo figlio viva al ghetto, e sia perfino un caporale.

Yvan, camerunense, è alla radio per condurre un dibattito sui diritti dei lavoratori. Prima di essere sindacalista è stato pure lui bracciante, nella zona di Nardò, in provincia di Lecce. Studiava ingegneria a Torino, era sceso per la stagione, per tirare su qualche soldo, e aveva finito per coinvolgere i compagni di lavoro in uno sciopero per avere condizioni migliori di lavoro.

I dibattiti, alla radio, continuano anche in sua assenza. Ibra, Akhet, Abdul e Mamadou li conducono con passione, invitano compagni e «fratelli» a fare sentire la propria voce.

In diretta alla radio chiama Toni Ricciardi, autore di un libro che racconta la strage di Mattmark, in Svizzera, quando a vivere in un ghetto erano gli italiani e la valanga del ghiacciaio Allalin, nel 1965, ne uccise 56 (assieme ad altri 32 lavoratori svizzeri, spagnoli, austriaci e tedeschi). Chiama Giulia Anita Bari, responsabile del progetto Terragiusta di Medici per i diritti umani, che fa presidio sanitario e monitoraggio nei ghetti della Basilicata. Chiamano i migranti accampati nel presidio «No Border» di Ventimiglia. Chiamano i volontari italiani che sono già passati di qui, da questo microprogetto che per il quarto anno consecutivo porta le voci del Ghetto a comunicare tra loro, e con l’esterno.

Passano dalla radio quasi tutti i bianchi che entrano ed escono, tranne quelli interessati solo alle prostitute.

Ricercatori, musicisti, gli attivisti di «Campagne in lotta» che cercano di organizzare manifestazioni con i lavoratori. I volontari di «Io ci sto», il progetto dei missionari scalabriniani che durante l’estate porta cinquanta ragazzi a settimana a insegnare italiano e riparare biciclette, sotto l’uliveto all’ingresso del ghetto.

«Ma è da noi che deve venire la voglia di ribellarci, e non dai bianchi», ribadisce al microfono Adama, che di rivolte ne ha già fatte, al centro di accoglienza di Crotone e nelle baraccopoli di Rosarno, e i diritti se li è visti scappare dalle mani proprio quando gli sembrava di stare per afferrarli. «Non dobbiamo avere paura», gli fa eco Mamadou. «Io ho visto uccidere i miei genitori. Ho visto Agadez, ho visto il deserto, ho visto le carceri libiche. Io non ho più paura».

Giulia Bondi

Nota: i nomi degli abitanti del Ghetto sono di fantasia.


Migrazioni e decrescita

Rompere il cerchio crescita-migranti

Quello delle migrazioni internazionali, lungi dall’essere un’emergenza, è un fenomeno strutturale, è parte del Dna di un’economia mondiale finalizzata alla crescita. Oltre al necessario dibattito sull’accoglienza delle persone che viaggiano verso l’Europa, è fondamentale domandarsi cosa si possa fare per evitare che esse si vedano costrette a lasciare le loro terre, divenute per molti aspetti inospitali. Una prospettiva utile è quella della decrescita, indicata anche dal papa nella sua Enciclica Laudato si’.

I flussi di migranti che, a rischio della vita e pagando altissimi costi anche in denaro, attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste del Nord Africa e dell’Europa del Sud, suscitano nell’opinione pubblica dei paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto che si traduce nella richiesta di riportare i nuovi arrivati nei luoghi da cui sono partiti, o di usare la forza per impedire che partano. La prima reazione è dettata da motivazioni religiose o politiche, sostenute dalle frange più a sinistra della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che può essere innescata dall’arrivo di persone prive di risorse per vivere, che possono essere indotte dall’istinto di sopravvivenza a tentare di tutto per riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe immotivata, benché l’esperienza sembri dimostrare il contrario, viene ingigantita e strumentalizzata politicamente dai settori della destra più retriva.

A conti fatti né gli uni, né gli altri fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone fuggono dai luoghi in cui sono nate per riversarsi nei paesi dell’Europa occidentale. Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene perché quelle persone non riescono più a ricavare dalle loro terre il necessario per vivere, a volte anche a causa di guerre sanguinose e interminabili. D’accordo, ma perché così tante persone non riescono più a ricavare da vivere dai luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati, e perché quei luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le cause, non si può nemmeno tentare di rimuoverle, e se ci si limita a cercare di attenuarne le conseguenze, si può addirittura correre il rischio di rafforzarle.

Le migrazioni: necessarie per la crescita

La prima considerazione da fare è la seguente: le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che hanno finalizzato le attività produttive alla crescita. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, quando in conseguenza di alcune leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono più a ricavare dalle loro terre ciò di cui avevano bisogno per vivere, e furono costretti a emigrare nelle città, nelle quali trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero reddito monetario che li metteva in condizione di comprare, sotto forma di merci, i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli ex contadini, l’industria non avrebbe trovato la manodopera di cui aveva bisogno per produrre merci, e nemmeno un numero sufficiente di persone provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.

La crescita della produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un aumento costante di produttori e consumatori di merci, che sono due facce della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto la crescita ha sempre avuto bisogno di costringere, con la forza legale dello stato, integrata da forme di forza illegale, e allo stesso tempo di convincere, con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, un numero crescente di persone a passare dall’economia di sussistenza all’economia mercantile.

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del Novecento), poi a livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del Novecento), poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e dall’Africa.

«Dobbiamo aprire le nostre porte»

L’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone, potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte». Con una sintonia che potrebbe stupire, il XXIV Rapporto Immigrazione dal titolo Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema, la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8% del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno fino a quando ce n’è bisogno.

Cosa si può volere di più? Per smontare le resistenze delle persone anziane in apprensione per la loro sicurezza, i mass media ripetono in continuazione: «Come si potrebbero pagare le vostre pensioni senza i versamenti dei lavoratori stranieri?».

Un meccanismo che si autornalimenta

Per cortesia, lasciamo stare la retorica dell’accoglienza basata sui buoni sentimenti, sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma chi lo fa finisce col rischiare di fare il cavallo di Troia a favore di chi, invece, utilizza i migranti (i quali per lo più sono persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e braccia che potrebbero invece produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti.

Le migrazioni dai paesi non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che questi ultimi, per sostenere la crescita dei propri sistemi economici, depredano i primi delle loro risorse, istigano i popoli che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre comprandole per un tozzo di pane, corrompono i loro governanti portandoli al potere e li sostituiscono o li fanno uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi economici di aiuto allo sviluppo per costringerli a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre i paesi ricchi impoveriscono scientificamente quelli poveri, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare davanti agli occhi dei loro abitanti la possibilità di accedere alle loro meraviglie tecnologiche.

I migranti che se ne vanno dai loro paesi nei quali non riescono più a vivere contribuiscono col loro lavoro a far crescere il prodotto interno lordo dei paesi d’immigrazione e quindi ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per procurarsele, i paesi industrializzati continueranno a rapinare i paesi non industrializzati, utilizzando tutte le forme di violenza e sopraffazione con cui sono soliti sottometterli, faranno accrescere ulteriormente la loro povertà e indurranno quindi molti altri dei loro abitanti a emigrare per vivere.

Le migrazioni tendono ad autornalimentarsi. Se le organizzazioni umanitarie in cui si impegna la componente più generosa della nostra società non si preoccupano di intervenire sulle cause, contribuiscono a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità.

«Alla ricerca di un futuro migliore»

Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e, pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause è un dovere altrettanto impellente.

La comprensione delle cause che attivano i flussi migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema di valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di pensiero presenti nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le implicazioni culturali: «Disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore». Il futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che si autodefiniscono sviluppati per il fatto di avere un alto valore del prodotto interno lordo procapite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del prodotto interno lordo procapite, magari più vera e più capace di futuro. Non si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in Inghilterra.

Decrescita e stili di vita responsabili

L’unica possibilità per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare, seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori di merci allo scopo di continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita, riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per l’autoconsumo, dell’agricoltura tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza, della contemplazione, della spiritualità. Questo recupero di valori e di modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse della terra. È necessario rendere compatibile il consumo delle risorse con la loro capacità di riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono nei processi che le trasformano in beni per le esigenze vitali della specie umana.

Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la necessità di risorse, evitare che esse vengano sottratte ai popoli poveri attraverso forme sofisticate di violenza di massa, evitare a molti la costrizione dell’emigrazione rischiando la vita per il fatto di non riuscire più a trarre da vivere, come i loro avi, dalla terra in cui sono nati. Solo una decrescita con queste caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future.

Laudato si’

Nell’enciclica Laudato si’, con cui papa Francesco già dal titolo ha voluto sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata, seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore equità tra i popoli. «[…] e? arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perche? si possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella crescita economica, indicando soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire l’aumento della disponibilità delle risorse per i bisogni vitali dei popoli poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo. Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino a ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e che, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa affermazione di papa Francesco segna l’inizio di una svolta storica.

Maurizio Pallante

 




Sono anch’io Italia

Sogni non impossibili
Racconti di donne «straniere»

di Rahma Nur, Federica Ramella Bon, Chou Mei
Chen Susanna,
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba
Per gentile concessione del «Concorso
letterario nazionale Lingua Madre»

Questo Dossier narrativo, curato da Gigi Anataloni per MC, è
dedicato a tutte quelle donne coraggiose che, sradicate spesso a forza dalla
loro terra, lottano per un futuro di pace, armonia e frateità in questo
nostro paese di grande generosità e accoglienza, ma attraversato da pericolosi
brividi di intolleranza e razzismo.

Le foto delle autrici dei racconti sono state foite da
Lingua Madre. Tutte le altre foto sono puramente simboliche e non strettamente
connesse con le storie raccontate.

 
Indice


Volevo essere miss Italia


Spazio arcobaleno


Panini verdi


Con gli occhi di Keréne
       Lingua Madre
 
Volevo essere miss Italia
Rahma Nur [Somalia](*)

Denny
Mendez sorrideva anche se le lacrime di gioia e sorpresa le rigavano il bel
viso da adolescente. La sua bella e scura massa di morbidi capelli ricci era in
contrasto con quella coroncina di luci brillanti da Miss che cercava di tenere
in equilibrio sulla testa, mentre le altre ragazze del concorso la assalivano
per congratularsi con lei, invidiose e sorprese anche loro che avesse vinto!
Lei, una Miss Nera! Ma mica siamo in America qui, ma cosa sta succedendo mai?

Io e mia madre non eravamo così
appassionate di concorsi televisivi, men che meno di Miss Italia. Ma quell’anno
ci mettemmo davanti alla TV ogni sera, incuriosite da quella ragazza dominicana
che cercavamo con lo sguardo durante il programma. Non sapevamo se tifare per
lei o no, ma stavamo lì a guardare trepidanti. Poi scoprii che mia madre tifava
eccome! Era orgogliosissima di vedere finalmente una ragazza nera che competeva
con le classiche bellezze italiane. Io ero scettica, forse anche un po’
invidiosa. Be’, non è che io avessi mai parteggiato per i concorsi di bellezza,
li trovavo anche mortificanti a dirla tutta. Ero solo invidiosa di questa
ragazza dominicana, arrivata in Italia solo pochi anni prima, che ancora non
parlava un italiano fluente e probabilmente non sapeva nulla né di Manzoni né
di Lucio Battisti! Ma che diritto aveva? Mi sentivo defraudata, di cosa ancora
non lo sapevo, ma ero un po’ scocciata. Speravo che a rappresentare la parte più
colorata di tanti italiani come me fosse proprio una ragazza italiana, nata o
cresciuta qui come me e tanti altri immigrati di seconda generazione. Invece,
guarda un po’ chi era riuscita ad arrivare fino a lì!
Ok a livello fisico non potevo proprio competere con la bella Denny. Lei era
una giovane adolescente, alta, magra, bella, con splendidi capelli lunghi. Ora,
non è che io fossi brutta, anzi, a detta di molti ero una bella giovane donna
somala, con i classici lineamenti somali: bocca piccola, naso piccolo e occhi
scuri; una caagione color cioccolato Lindt; ma avevo superato da qualche anno
l’età massima per essere accettata ad un concorso di bellezza; poi c’erano
alcuni problemi tecnici come la mia altezza che era ben al di sotto del minimo
richiesto ed altre piccole cosette, nonché, last but not least, non
credo che due superbe stampelle azzurre e un’elegante camminata claudicante
fossero nella lista dei requisiti per diventare una Miss. Forse avrei potuto
aspirare a Miss Disabile…!

Con questo non pensate che io ce l’avessi con Denny
Mendez, forse un pochino sì, ma poi, chi sono io per giudicare una ragazzina in
cerca del suo momento di celebrità?

Il
giorno dopo, i giornali erano pieni di immagini di Denny. C’era chi giorniva
perché sembrava che in Italia qualcosa stesse per cambiare: finalmente si erano
accorti che c’erano persone diverse, ragazze bellissime anche se non
esattamente come le solite copie di Sofia Loren o Gina Lollobrigida; ma c’era
anche chi polemizzava e vedeva questa vincita come un’ingiustizia. Io mi
trovavo tra due fuochi; se qualcuno si diceva contrario, io mi arrabbiavo e confutavo
che oramai in Italia c’erano italiani diversi e che era ora di aprire gli occhi
alla realtà dell’immigrazione e che Denny era un’apripista per tutti noi (anche
se sotto sotto, la vedevo come un’usurpatrice: io ero più italiana di lei!).

Un giorno mi trovai con una mia cara amica e iniziammo a
parlare del concorso; pensavo che lei fosse felice che avesse vinto Denny
Mendez, essendo mia amica; invece la trovai molto critica su questo argomento.
Disse che non era giusto che avesse vinto perché lei non rappresentava la
classica bellezza italiana, la cultura e la storia italiane. Mi sentii
sprofondare: rimasi senza parole. Di certo non mi aspettavo una critica così
dura da una mia amica. Allora le chiesi: se avessi partecipato io, con la mia
lunga storia di immigrata, arrivata in Italia da piccolissima, cresciuta a
spaghetti, Battisti e letteratura italiana, sarebbe stato meglio?

Lei rispose che era la stessa cosa: non rappresentavo la
classica bellezza italiana; anche io come Denny ero nera, ricciolina e
proveniente da un altro continente! Mi offesi a morte: ma come? Ai suoi occhi
non ero più italiana di Denny Mendez? Non dissi una parola, mi sentivo
profondamente ferita, discriminata e disillusa. Eppure parlavamo di musica, di
film, di libri e ci trovavamo così simili, così complementari. Avevamo
respirato la stessa aria, ascoltato le stesse canzoni, studiato gli stessi
autori e amato le stesse storie. Eravamo affini in tantissime cose. Avevamo
trascorso ore e ore a parlare di tutto; anche se io provenivo da una famiglia
diversa, somala, africana; anche se io mangiavo a volte cibi diversi che lei
aveva imparato ad assaporare; anche se la mia famiglia aveva una religione
diversa, tradizioni diverse, io e lei ci ritrovavamo in tante cose. Parlavamo
anche di politica e anche lì le nostre idee combaciavano. Com’era possibile che
ora, per un banale concorso di bellezza, ci fosse una differenza così abissale
tra di noi? Non ero anch’io italiana come lei?

In
quel momento ripercorsi la mia storia come un veloce flashback. L’Italia
ero anch’io, mia cara! Molto più di tante persone di mia conoscenza. L’Italia
ero anche io perché l’amore per questa terra me lo ero conquistato giorno dopo
giorno con le difficoltà che ho dovuto affrontare fin dall’età di cinque anni
mezzo, quando il fato mi aveva condotta qui molti anni fa. L’Italia ero anch’io
in fila davanti alla questura di Roma per rinnovare il permesso di soggiorno e
poter continuare a frequentare la scuola dove studiavo i classici latini o lo
Stil Novo; le regioni e i fiumi italiani; la Giovine Italia e le Guerre
d’Indipendenza. L’Italia ero anch’io quando salivo sull’autobus strapieno e a
volte mi capitava di urtare la solita vecchietta petulante che, appena si
girava verso di me, stringeva la borsetta e borbottava: «’Sti negri, ma perché
non se ne tornano a casa loro!», e io rispondevo freddamente astiosa: «Mi
dispiace per lei ma casa mia è proprio a due fermate da qui, scendo subito non
si preoccupi!». L’Italia ero anch’io quando, in Canada in vacanza, soffrivo le
pene dell’inferno perché non riuscivo a trovare i pomodori pelati giusti per
fare un bel ragù e mangiare le tagliatelle come avevo imparato da mia mamma o
cercavo canzoni italiane alla radio e trovavo solo nostalgiche note cantate da
Mino Reitano o Peppino di Capri che non amavo particolarmente, invece di
Baglioni o Battisti che avevano accompagnato la mia adolescenza. L’Italia ero
anch’io quando, dopo tanti anni di permessi di soggiorno rinnovati finalmente
ero riuscita ad ottenere la cittadinanza. Per anni mi ero sentita né carne né
pesce, né somala né italiana. Ero straniera nella mia stessa terra; se volevo
andare a fare un corso all’estero non potevo perché non mi rilasciavano il
visto; se pensavo di cercarmi un lavoro, desistevo subito: chi mai avrebbe
assunto una straniera e per di più disabile? L’Italia ero anch’io e forse anche
di più quando arrivò il momento del giuramento e l’ufficiale comunale mi fece
alzare la mano destra, sentii il cuore accelerare il battito e la gola seccarsi
– «Ripeta dopo di me», disse il messo comunale, ed io con voce tremante recitai
dopo di lui: «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservae
lealmente la Costituzione e le leggi, riconoscendo la pari dignità sociale di
tutte le persone». Parole bellissime che ripeterni lentamente, assaporandone il
significato, pensando agli articoli della Costituzione Italiana da cui erano
stati presi e che avevo studiato a scuola nelle lezioni di educazione civica;
che menti illuminate avevano redatto una sessantina di anni prima, quando
l’Italia si stava riprendendo dalla disperazione, dalla devastazione della
Seconda guerra mondiale; quando quelle stesse menti di giovani uomini avevano
lottato per la libertà di pensiero ed espressione, per l’uguaglianza tra gli
uomini e le donne. Forse quelle stesse parole che avevo appena detto,
dovrebbero essere recitate da tutti gli italiani che nascono e crescono in
questa meravigliosa terra e non si rendono conto della ricchezza e della
profondità che si cela dietro quel trascurato libro che raccoglie gli articoli
della Costituzione.

Io
sono l’Italia, quella di oggi, modea, multiculturale e multietnica, ricca di
sfumature e diversità, «bianca, nera, rossa, gialla perché, Lui ci vede uguali
davanti a sé» come recita una canzone che cantavo da bambina.

L’Italia sono anche io e non importa il colore della mia
pelle o le mie origini; non importa se non rappresento il classico canone di
bellezza italiana perché ci sono altri canoni che rappresento: quelli
culturali, quelli di pensiero, quelli di educazione e di vita trascorsa: ho
tutti i diritti di essere Miss Italia, perché è l’Italia di oggi che
rappresento!

L’Italia sono anch’io e siete tutti voi, italiani da
generazioni o da prime, seconde, terze generazioni.

___________________

 (*)   Rahma Nur, Volevo essere Miss Italia, pubblicato su Lingua
Madre Duemiladodici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni
SEB27.
Il racconto di Rahma Nur ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole
Antonelliana
al VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre, 2012.

RAHMA NUR nasce a
Mogadiscio, in Somalia, il 14 dicembre 1963. Arriva in Italia nel 1969 in cerca
di cure mediche a causa di un serio problema di salute. Qui, infine, si
stabilisce e nel 1989 riesce ad acquisire la cittadinanza italiana. Vive e
studia a Roma e dal 1993 insegna in una scuola primaria statale.

 
Spazio arcobaleno

Federica Ramella Bon [Italia](*)
In collaborazione con le alunne del CTP di Cuneo

Viaggio introspettivo
tra piccoli miracoli


Il mio registro è
colorato, parla lingue sconosciute, racconta storie lontane e vicine, di vite
nuove, spezzate, appena nate. Il mio registro canta con voce potente, con
melodie roche, con tristi nenie. Il mio registro sono loro, donne, madri,
figlie, nonne. Vite intrecciate, vite rallentate, vite accelerate, vite
esagerate. Vite di donne in cammino.

Olivia

«Da grande farò la scienziata. Sì, voglio studiare la Terra,
la luce, l’acqua. Voglio analizzare le particelle che compongono una bolla di
sapone, voglio contare le linee di simmetria di un fiocco di neve e ammirae
ogni volta la perfezione».

Questi pensieri mi hanno tenuto compagnia durante il
volo Belfast-Torino, lo scorso agosto. Guardavo giù: il lago Neagh si
allontanava e i soffici monti Moue sembravano ormai tane di lepri. Quando poi
anche il Foyle si è mostrato in tutta la sua interezza, ho capito che l’Irlanda
era ormai lontana e il sogno Italia più vicino. «It’s a miracle!»1.
Un anno intero. Trecentosessantacinque giorni e forse qualcosa in più.
Incognite, quante incognite. L’idea di dedicare un anno della mia vita
all’Italia mi è venuta due anni fa, nel giorno del mio ventiquattresimo
compleanno. Sul cartoncino di auguri di Sean c’era scritto «Fly over the moon,
Olivia!». Vola oltre la luna. Mi spiegò che nella vita aveva imparato ad
allargare i confini, a dilatare spazio e tempo e a rimpicciolire le paure. Ma
non aveva mai voluto cancellare i suoi sogni. Sean aveva vissuto i Troubles2,
e i Troubles avevano fatto di lui un uomo.

Dall’alto le nuvole mi ricordavano la panna montata e
l’aereo diventava un cucchiaino d’argento che si tuffava e si riempiva ingordo.
È iniziata così la mia avventura italiana, con ingordigia, sulla scia di
quell’aereo.

Ed eccomi qui: ragazza alla pari presso la casa di
un’ostetrica, madre di due gemelli. Non appena acclimatata con le mie nuove
mansioni di cuoca-baby-sitter-donna di servizio, ho cercato una scuola che
potessi frequentare per imparare l’italiano. Ora, seduta su questa sedia
ballerina, mi accarezzo un ricciolo guardandomi intorno: questa classe è troppo
piccola per ospitare tutto questo mondo. Si sentono accenti africani, sapori
arabi, profumi orientali; si respira quella tipica complicità di chi condivide
uno spazio neutro, nuovo, tutto da gustare. Mi sento piccola tra queste donne,
io che ho potuto scegliere di venire qua. Il cucchiaio d’argento sprofonda
sempre di più nell’universo di panna montata, nel punto in cui diventa densa,
nel punto in cui sente di dover tollerare un peso, prima di riemergere carico.
Nel banco accanto al mio è seduta Malaika, una giovanissima capoverdiana,
incinta all’ottavo mese. Chissà, magari anche in Africa chi scorge il primo
dentino del neonato deve comprargli un paio di scarpette. Arrossisco, incredula
di aver davvero formulato questo pensiero innocente. Sposto lo sguardo oltre a
questo pancione coperto di rosso e osservo le mani delle altre compagne, le
loro rughe, le loro scarpe, i loro sguardi disorientati, i loro monili di
legno. L’insegnante inizia a fare l’appello ed è come se capissi che tutto il
mondo non è paese, che il segreto è nella scoperta, nella tacita convivenza in
questo spazio arcobaleno di storie non raccontate, di desideri inseguiti, di
tenacia. E di nostalgie addomesticate.

 
Inese

Sta scorrendo
l’elenco, ecco, ci siamo quasi. «Ines?»… Lo sapevo. Scontato. «Inese. Mi chiamo Inese!». L’insegnante prende
dall’astuccio una matita e traccia un piccolo segno orizzontale sul registro,
forse proprio sotto quella “e” del mio nome che gli italiani non vogliono pronunciare.

Oggi è il mio primo giorno di scuola, di scuola
italiana. Mio marito Giorgio mi ha proposto questo corso di alfabetizzazione,
ma io sono scettica, decisamente scettica. Conosco un solo linguaggio
importante, quello della musica, quello che da Riga mi ha catapultata fin qua,
sulle arie di Enescu, di Ravel, di Brahms. Quel linguaggio che da bambina mi ha
affascinata così tanto da obbligarmi a vendere i pattini da ghiaccio per tre
lezioni di solfeggio in più; quel mondo che poi, da adolescente, mi ha permesso
di ricomprarli, quei pattini, con i guadagni dei concerti al Teatro dell’Opera
Lettone.

Ho quarant’anni e quattro figli, rimasti a Jourmala con
i nonni. Ora sono parcheggiata qui, “mamma-musicista-sognatrice utopica”. Una
bellissima donna, mi dicono. Un enigma impossibile, ribatto io. Mi manca il
Golfo di Riga, con quella sua macchia scura centrale a forma di cuore: quanta
vita ho dedicato ad ammirare quel piccolo isolotto, Ruhnu, immaginando le sue
spiagge deserte, il gusto del freddo e di una skābputra3
fumante, sorseggiata in silenzio. Quel silenzio. Brīnums4,
mi veniva da pensare, era un miracolo. Seguivo il volo delle cicogne e cercavo
le ali degli angeli tra le nuvole. Non avrei mai creduto di avere il coraggio
di abbandonare tutto.

Italia per me significa amore, rinascita, speranza. Ma
significa anche abbandono, rischio. Fallimento. Il mio ego musicista ha trovato
l’Eden: uno spazio per esprimersi, per mettersi in gioco, per farsi adulare e
applaudire. Una parte del mio cuore è riuscita a scorgere un nido, ad
assaporae il tepore, a desiderae la protezione come una droga; cosa rimane
invece della Inese mamma? Cosa rimane di quella donna dolce e premurosa, quella
che il sabato preparava gli sklandu rauši5
per i suoi bambini? Mi sento svuotata. Svuotata come una cartuccia di
inchiostro rosso appena finita, in cui il colore ha lasciato traccia di sé;
presto però non ne rimarrà che l’involucro, uno sterile pezzo di plastica.
Capricciosa ed egoista. Questo è il mio pensiero mentre l’insegnante mi scruta,
sono stata egoista.

Non riesco a spostare lo sguardo: la massa di riccioli
fulvi che cadono a grappoli sulle spalle della ragazza seduta davanti a me, mi
cattura, mi penetra negli occhi. Quella ribellione di forma e colore mi ricorda
una sonata di Hindemith, note intrecciate in tempesta, da districare con il mio
archetto con movimenti secchi, il gomito alto e lo sguardo fiero. La ragazza
parla di sé in un italiano piuttosto incomprensibile, ma l’espressività dei
suoi occhi mi basta per capire che in lei c’è trasparenza, c’è bontà, c’è un
animo ancora innocente. Ora tocca a me, devo presentarmi e non c’è un direttore
d’orchestra a indicarmi il tempo da seguire.

 
Luciana

Il chiarore lunare
emanato dal volto della mia vicina di banco mi fa male agli occhi. Perché è così timida? Perché ha detto solo tre
parole, perché tocca già a me? Che cosa posso dire io, ora? Questa Inese ha
raccontato che è una musicista, che suona la viola all’Opera, che è madre… E
io? Sarò concisa, sarò sincera. Questo corso di Italiano io lo devo fare. Sono
obbligata a venire a scuola tre volte alla settimana, dopo o prima del tuo.
Se voglio tenermi stretto il lavoro all’ospedale devo imparare a parlare questa
lingua. Me l’ha detto tante volte la Signora Mirella: «Luciana, ieri ti ho
detto di andare nel reparto F, non di pulire gli uffici del terzo piano! Se
continui a non capire ciò che ti dico, ti dovrò sostituire». E allora
impariamolo questo italiano, questa musica in «a» e in «e», queste parole
lunghissime e queste frasi romanzate. Lo so, non mi sono mai sforzata, cercavo
di capire con gli occhi, di cogliere tra le sfumature degli sguardi ciò che la
gente aveva intenzione di dirmi. Sul lavoro però non ha mai funzionato, bisogna
essere veloci, nessuno ripete, nessuno scandisce lentamente la frase «I bagni
del reparto ortopedia sono ancora da pulire», oppure «La mensa è un inferno,
corri a sistemarla». Un inferno, chiamare la mensa un inferno… Questa è
bella… Trenta milioni di poveri in Colombia, l’ho letto lunedì su El
Espectator. Io sono stata obbligata a partire. Li ricordo bene quei giorni:
all’improvviso tutto è diventato insustancial, impalpable6. Era come correre dietro ad un sasso lanciato con rabbia nel
Caquetà. E io correvo, correvo, sapevo di doverlo prendere ma come in un incubo
i miei piedi erano pesanti, ancorati al rosso stridente della mia terra; il
fiume non rallentava la sua corsa, anzi, scorreva sempre più rapido e pareva
ridesse mentre i miei occhi tentavano di penetrae le acque, cercando quel
sassolino tra una miriade di altri sassolini. Impossibile. Serviva un milagro7.

Un giorno poi un aereo è decollato e atterrato. Per tre
volte. Italia, freddo, ciao Orinoco, ciao Antioquia. Vagavo tra i ricordi, mi
perdevo tra gli scai rimasugli del mio io, mi sforzavo di sentire nella bocca
il sapore salato della pelle di mia madre, volevo toccarla, volevo pizzicarla,
fingevo di farmi trasportare dagli alisei oltre al Maracaibo. Ma no, nulla, di
fronte a me. Solo grigio, fumo, macchine, grigio, freddo, fumo. E ancora
grigio, e ancora fumo.

Sono passati tre anni e adesso, in questa classe,
circondata da altre donne che hanno sensazioni comuni alle mie, sento di voler
essere felice mentre tento di presentarmi. «Ciao a tutte, sono Luciana e sono
colombiana. Sono arrivata da Bogotà tre anni fa e il mio sogno più grande è
quello di entrare ancora una volta nel santuario di Las Lajas per mano a mia
madre, durante la processione del Corpus Cristi. Per me Italia significa
ossigeno, dopo una lunga apnea. Un po’ come gustare una fetta di lechona8
sorseggiando un tinto9 bollente».

Teste che si voltano verso di me, mi sento studiata e
provo disagio, ma in un attimo tutto cambia e tutto l’universo femminile
racchiuso qui mi dà pace, mi dà conforto, mi aiuta a liberarmi dal fantasma del
fiume che scorre veloce, dalla mia corsa senza fiato, dal muro nero che mi
aspetta sempre alla fine di quella pazza corsa. I miei occhi vagano nella
classe, tra capelli ispidi e treccine, tra niqab e dashiki, tra maglie di
cachemir e unghie laccate di rosso; mi blocco sulle braccia muscolose di
Judith, una donna namibiana che trasmette energia, le cui vibrazioni positive
giungono fino a me e mi pervadono di quella magia che solo l’armonia può
creare. Il muro nero diventa luce, la luce diventa sentimento, il sentimento
diventa azione. E l’azione mi rende donna, tra altre donne, in corsa per mano
alla vita.

Kim ovvero Suor
Marie-Agnes

Forse
ho sbagliato a venire. Ma no, no! Non devo demoralizzarmi così. Ho imparato
tante cose nella vita senza perdermi d’animo, imparerò anche l’italiano. Ma è
così difficile, sarà un’impresa ardua. Suor Zyma mi ha avvisata, «Vedrai,
all’inizio ti sembrerà impossibile riuscire a capire qualcosa, figurati
parlare!», non si sbagliava. Non c’è nulla che accomuni il coreano
all’italiano, nulla, non un suono, non una parola, non un gesto. Una cantilena,
ecco cosa mi ricorda sentire parlare questi italiani, una di quelle cantilene
che le nonne sussurrano ai nipoti per farli addormentare, sugli argini del
fiume Han. Analizzo chi mi sta di fronte, chi mi sta accanto, chi mi sorride
mentre io faccio finta di comprendere ciò che sta avvenendo qui, intorno a me,
elargendo sorrisi compiaciuti a tutti. A tuo le mie compagne di classe parlano,
chi sorridendo, chi arrossendo, chi con uno sguardo severo. La donna che ha
parlato per ultima ha dei lunghi capelli lucenti, scuri come il sesamo nero che
noi coreani mettiamo un po’ dappertutto. Gli occhi di questa giovane donna
sorridevano, poi si sono riempiti di nero per intenerirsi di nuovo dopo un
breve istante. Chissà cos’ha raccontato, vedevo la sua mente vagare tra i
ricordi, le sue mani accartocciarsi una sull’altra, le sue dita fremere; ho
letto la sua storia attraverso quelle unghie rosicchiate, come in segreto. Ora
però tutti gli occhi sono puntati verso di me, l’insegnante mi sorride, mi
chiama per nome e con la mano fa un gesto che interpreto come: «Tocca a te, Kim».
E allora io raddrizzo le spalle, mi accomodo meglio sulla sedia, mi schiarisco
la voce, faccio finta di non capire che tocca proprio a me e guardo la mia
vicina di banco con sguardo interrogativo. Lei con un’occhiata mi rimanda
all’insegnante e allora decido di dire le tre parole che so, quelle che ho
voluto conoscere subito, appena arrivata a Milano, dopo un volo di diciotto ore
proveniente da Seoul. «Io sono Marie-Agnes, suora missionaria, perché Dio è
amore». Sorridono tutte, come inebriate dalla mia rivelazione, come se un
anelito della mia devozione le avesse avvolte in un abbraccio caldo, come se il
nome del nostro Dio fosse solo Amore, carità, fratellanza. Mi scrutano,
impazienti che il mio racconto si gonfi di particolari ma «Non so italiano»,
bisbiglio. Nasce forte in me il desiderio di raccontarmi, di aprirmi a loro; il
potere del sorriso delle mie nuove amiche riesce ad allontanarmi dall’odore
della violenza che la mia Terra ha subito, il ricordo di tutti quei poveri e
della loro corsa verso il buio, nelle braccia putrefatte della segregazione.
Qui c’è dolcezza, c’è un nido per un piccolo che sta per emettere il suo primo
vagito, c’è forza, c’è coraggio. Vorrei raccontare a tutte loro che anch’io un
giorno sono stata coraggiosa e ho voluto inseguire Gesù, fino in fondo. Fino a
Cuneo. Proprio qui, dove il Movimento Contemplativo Missionario ha accettato la
mia richiesta di permanenza, dove i miei sessanta anni non hanno spaventato
nessuno, dove la mia esperienza è necessaria e il mio aiuto importante. Qui,
dove sto dimenticando il sapore del Kimchi e mi sto arricchendo di nuove
sensazioni, qui dove nessuno vende bachi da seta ai lati delle strade e dove le
formiche rosse sono un pericolo, non un sollievo per il mal di stomaco, qui
dove i fiori non si mangiano ma si mettono nei vasi. Qui, uno spazio nuovo,
colorato, dove l’insegnante mi guarda e con un gesto accarezza tutte noi. E io
dico: «Qui è gijeok10, qui è miracolo».

 


Malaika


Mi guardo le mani, le
mie mani callose, ora umide, ora gelide. Stringo tra le dita una penna nuova di zecca e aspetto il mio tuo, qui, in
quest’angolo di pace. Mi sembra che i miei polmoni necessitino di più ossigeno,
adesso che Malik sta per affacciarsi sul mondo. Oggi scalcia più del solito e
nemmeno la radice di zenzero mi aiuta a calmarlo. Poso la penna, dopo aver
scritto «Scuola-Italiano» sulla prima pagina di questo quaderno sgangherato. Mi
piace proprio essere dove sono, anche se le mie mani non hanno fermezza; le
guardo e penso a tutti gli anni in cui mi hanno seguita, in cui hanno raccolto
fagioli, bacche di caffè, hanno pulito pesci, aragoste, hanno lavato conchiglie
e coralli, hanno asciugato lacrime e hanno stretto altre mani con passione.

Il corallo, che incanto il corallo. Mi porto le dita al
naso ma non è rimasto nulla di quell’odore di sale, di schiuma, di mare. Sogno
spesso di essere ancora sulla barchetta di legno di John: il silenzio navigava
con noi, seduto sulla cassa dipinta di giallo, rispettato come un ospite atteso
da tempo. Quando raggiungevamo il luogo scelto iniziavamo a canticchiare e
andavamo avanti per ore, finché il buio non ci intimava di tornare a riva.

Mio figlio invece non crescerà con il mare
all’orizzonte, mio figlio nascerà in questa città piena di luci e di rumori,
piena di macchine che corrono, piena di persone che si svegliano in un luogo
chiuso per recarsi in un altro luogo, ancora più chiuso. Proprio questo mi
manca: lo spazio aperto che mi riempiva gli occhi e più guardavo il cielo e più
forte respiravo, tanto da sentire nei polmoni, nelle ossa, in ogni mia vena,
tutto quell’universo che brillava intorno a me. Non c’era un momento della
giornata che preferivo per avvicinarmi al mare e guardare lontano: l’alba era
magica, con quella luce chiara e splendente, il mattino si accompagnava con i
canti degli uccelli che volavano paralleli al mare. A mezzogiorno poi, il
colore del cielo era così intenso che tutto pareva diventare blu; era magnifico
stare seduti sulla sabbia, con le mie sorelle e i miei fratelli, tenendo fra le
ginocchia una ciotola di kacthupa. Al tramonto il blu diventava arancio
e il mare era così calmo che sembrava una coperta soffice, sulla quale era
facile immaginare di rotolare, facendosi avvolgere da quel colore bollente, era
un milagre11 essere al mondo. Rotolavamo, rotolavamo, e i nostri
capelli ci coprivano il viso, non riuscivamo più a vedere il cielo, ma
guardavamo giù, nel mare, vedevamo i pesci, imitavamo i loro movimenti, li
seguivamo e cercavamo di prenderli. Poi ci svegliavamo da questo stato di sonno
immaginario e tornavamo a casa.

Quando qui mi chiedono da dove provengo e io rispondo
Cabo Verde, tutti mi sorridono, adottando quell’espressione di chi sogna di
vedere quei luoghi, prima o poi.

Ho salutato casa mia, un giorno. Era buio, c’era anche
il vento. Il vento, già… È stato come se volesse portarci via ancora più in
fretta. Ci spingeva, ci incoraggiava, ci sussurrava piano che avremmo visto
luoghi migliori, tempi migliori. Mi sforzo per rivivere quelle mie ultime ore
da «capoverdiana-che-vive- nella-sua-terra». Avrei voluto riempirmi la bocca
del sapore delle banane fresche, avrei voluto trattenere sulla pelle il profumo
del mio sole e qualche granello di sabbia tra le dita dei piedi. Sono in Italia
da ormai otto anni e ancora oggi, prima di entrare in casa, mi tolgo le scarpe,
le scrollo sul pavimento desiderosa di veder scendere un piccolo granello di
sabbia luccicante.

Il mio registro non
si chiude, le parole delle mie alunne lo tengono sempre aperto, dando voce a
quell’infinito di emozioni, ricordi, desideri e obiettivi che le rendono vive.
Grazie a Olivia, Inese, Luciana, Kim, Malaika, ma anche a Kristine, Rosa,
Danielle, Aisha, Sandy, Judith, Spresa, Rukya, Vera, Marina… Donne capaci di
piccoli, grandi miracoli.

____________________

(*) Federica Ramella Bon, Spazio Arcobaleno,
pubblicato su Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne straniere in
Italia
, Edizioni Seb27.
Il racconto di Federica Ramella Bon ha vinto il Premio Sezione Speciale
Donne Italiane
del VIII Concorso letterario nazionale Lingua Madre,
2013.

FEDERICA RAMELLA-BON nasce a Cuneo nel 1979. Docente di lingue straniere presso le
scuole secondarie di primo e di secondo grado; per alcuni anni ha insegnato in
diversi Ctp (Centri territoriali permanenti) della provincia, venendo così a
contatto con aspetti della multiculturalità che – dice – non conosceva e che
l’hanno appassionata. Da sempre ama scrivere e raccontare, le piace la
letteratura, l’arte e la psicologia sociale, soprattutto quella legata ai
fenomeni migratori. Compone poesie per la rivista letteraria online «Peripheral
Surveys».

Note
1     «It’s a miracle»: è un miracolo.

2     Troubles: è il nome con cui si indica la
cosiddetta «guerra a bassa intensità» che si è svolta tra la fine degli anni
‘60 e la fine degli anni ‘90 in Irlanda del Nord.

3     Skābputra: zuppa di orzo acido.
4     Brīnums: miracolo.
5     Sklandu rauši: tortini a base di patate.

6     Insustancial, impalpable: inconsistente,
impalpabile (lasciato volutamente in lingua originale).

7     Milagro: miracolo.
8     Lechona: piatto tipico colombiano a base di
carne di maiale.
9     Tinto: caffè.
10   Gijeok: 기적, miracolo.
11   Milagre: miracolo.
 
Panini verdi
Chou Mei Chen Susanna [Cina](*)

La
signora Qin era entusiasta, aveva appena sentito per telefono suo fratello
minore, che quel giorno era diventato nonno; stava raccontando del lieto evento
a sua figlia maggiore, Anna Lin, sperando di darle una spinta affinché anche
lei si decidesse a sposarsi e darle un nipotino. Anna Lin sapeva come si
sarebbe svolto il dialogo e, con rassegnazione, ascoltava la madre, fissando le
statuine rappresentanti dame dell’antica Cina, intente a suonare una il pi’pa,
l’altra il guzheng, una terza lo er-hu1,
e l’altra il flauto traverso, circondate da alberi con foglie di giada e fiori
di agata dai diversi colori, poste sui ripiani nella parete verde acqua di
fronte al divano blu sul quale era seduta.

– Sai, il tuo cuginetto Roby ha avuto una figlia, l’hanno chiamata Kate!

– Kate?!? –, le aveva risposto Anna Lin con
un’espressione divertita, pensando a quanto fossero oramai altri tempi quei
lontani Anni ‘80, quando i cinesi che venivano in Italia, per facilitare la
comunicazione nei diversi ambiti di scambio quotidiano, che fosse scuola o
lavoro, sceglievano anche dei nomi italiani per sé e per i loro figli: Paolo,
Maria, Michele, Sara, Giovanni, Lucia.

– Effetti della globalizzazione –, riprese Anna Lin.

– Cosa vuol dire globa… – le aveva chiesto la Signora
Qin, sapendo che non poteva trattarsi di nulla di troppo positivo, visto il
tono snob con cui l’aveva detto sua figlia.

– In cinese è 全球化,
quanqiuhua. Quando dei gusti diventano uguali per tutti –, le aveva
risposto un po’ superficialmente sua figlia, preoccupandosi più che altro di
arrivare al nocciolo della questione e poco di approfondire il significato del
termine «globalizzazione».

– Beh, almeno lui si è sposato prima di te ed è già
diventato papà. Tuo cuginetto Roby ha solo 21 anni, tu invece, che ne hai 32,
ancora niente.

Ed eccola – stava pensando Anna Lin – che riparte con la
solita tiritera: e quando ti sposi? Oramai sei vecchia, guarda che più aspetti
più potresti avere dei problemi ad avere figli, potrebbero essere deboli,
oppure potresti non avee proprio, mica rimani giovane per sempre! Un getto
continuo di parole, tante parole.

– Come sarebbe bello se diventassi nonna anch’io; sono
la sorella maggiore e sarò l’ultima a diventarlo, se mai lo diventerò! Eppure,
Anna Lin, non sei brutta, insomma, c’è di peggio.

– Grazie mamma.
– Com’è possibile che non riesci a trovare nessuno?

Anna Lin sapeva che la madre una volta presa quella
strada non l’avrebbe lasciata tanto facilmente, le prossime frasi sarebbero
state sui suoi fallimenti in tutti i settori: non sei sposata, non hai figli,
ma non hai nemmeno un lavoro fisso.

– Nonostante tutti questi anni passati a studiare per
laurearti, non hai trovato un lavoro decente.

«Come Volevasi Dimostrare», adesso partirà con l’elenco
dei figli delle sue amiche o parenti lontanissimi, che hanno tutti dei lavori
bellissimi, super pagati, in giro per il mondo, e tutto questo senza essere
laureati!

– La mia amica Alian mi ha detto che sua figlia ha
trovato lavoro per una banca, è sempre in trasferta, a te piace viaggiare no? E
la pagano bene.

– Sì sì mamma, immagino. Come la figlia dell’amica della
mamma di Lisa, che poi si è scoperto avere un contratto di apprendistato.
Adesso
l’hanno lasciata a casa, vero? Al suo posto non hanno preso una neo-laureata,
che non sa nemmeno leggere una fattura, che sia in italiano o in cinese?

Anna Lin doveva sempre controbattere, questo lo sapeva
bene la Signora Qin, con sua figlia non era facile.

– Accompagnami a Porta Palazzo2,
devi aiutarmi a fare la spesa.

– Va bene –, rispose Anna Lin, pensando che sua madre
fosse molto abile a cambiare argomento e che per il momento l’assalto era
rimandato, almeno fino al prossimo invito per matrimonio o nascita di bebè.

Quand’era piccola, Anna Lin andava tutti i giorni al
mercato di Porta Palazzo con sua nonna Elena. Gli amici cinesi di famiglia
quando la vedevano le dicevano che era il sacchettino profumato della nonna, un
modo poetico per dirle che le era sempre attaccata.

Con
la nonna avevano dei giri di commissioni quotidiane: panettiere, lattaio, «campagnini»
(così li chiamava la nonna) che avevano una loro sezione del mercato, dietro la
tettornia dell’orologio, con le bancarelle di prodotti che negli ultimi anni
venivano definiti a chilometro zero. La nonna Elena passeggiava tra le
bancarelle sorridente, chiacchierava coi commercianti, che fossero cinesi o
italiani, pugliesi o piemontesi, la sua gentilezza era un linguaggio
universale. Anche la Signora Qin accompagnava spesso la suocera a fare la
spesa; quando, all’inizio degli Anni ‘80, appena arrivata, ancora non sapeva
una parola di italiano e si sentiva così lontana dalla sua terra, il mercato le
ricordava un po’ casa; aveva imparato a mangiare nuovi cibi, come i formaggi,
il sugo di pomodoro, il gelato; o a sentire come i sapori di prodotti comuni
anche con la Cina fossero comunque diversi. Ma non aveva rinunciato a portare
nella nuova casa alcune tradizioni culinarie del suo paese.

Negli ultimi anni al mercato di Porta Palazzo riusciva a
trovare quasi tutto, perché avevano aperto molti negozi di alimentari cinesi e
dai «campagnini» c’erano bancarelle di frutta e verdura orientali coltivati da
contadini cinesi nelle terre del torinese.

– Cosa dobbiamo comprare? –, chiese Anna Lin, più per
spezzare il silenzio tra lei e la madre che per reale desiderio di sapere,
mentre camminavano nel viale alberato dove le fermate dei mezzi pubblici erano
affollate da quei volti della multiculturalità che a lei piacevano tanto, perché
così non si sentiva più una dei pochi a essere straniera. Perché pur essendo
nata in Italia, pur avendo una parte genetica anche italiana, pur avendo più
amici italiani che cinesi, agli occhi dei più era sempre una straniera. Quando
parlava la gente le diceva stupita: «Ma come parli bene italiano!», nello
stesso modo in cui in Francia le facevano i complimenti per come parlasse bene
il francese, in Germania il tedesco o in Inghilterra l’inglese. Peccato che lei
fosse italiana, non solo ma anche.

– Un po’ di cose per fare i panini verdi –, le rispose
la signora Qin.

– Entriamo prima qui –, disse la signora Qin alla
figlia, davanti all’ingresso del primo negozio cinese della via, le cui vetrine
erano ricoperte di annunci colorati, scritti coi caratteri cinesi: parrucchiere
in via YZ, si vendono schede telefoniche scontate, prenotazione biglietti aerei
per Shanghai/Beijing (Pechino)/Wenzhou, signora 50enne cerca lavoro come
baby-sitter, e altri.

La signora Qin analizzava i prodotti esposti sugli
scaffali: la farina di riso lì costava circa venti centesimi in più rispetto al
negozio accanto; però c’era il preparato per barbecue di quella marca
che gli altri negozi non avevano, quindi ne prese due bustine.

– Ah Signora Qin! Come stai? – disse avvicinandosi una
signora magra, dalle gote arse dal sole, come solo chi lavora all’aperto sotto
il sole può avere.

– Ah buongiorno Yujing! Come stai? –, le rispose la
Signora Qin.

– Bene. Stai facendo la spesa? Cosa compri?
– Alcune cose per la festa Qing Ming3.

– Tu fai dei panini verdi buonissimi! A me non vengono
così bene, il ripieno è meno saporito e il colore dell’impasto mi viene
pallido.

– Devi usare gli spinaci, danno un colore più acceso.
Nel ripieno metti del bambù, dei funghi secchi e anche dei fagiolini secchi se
li hai. I tuoi figli stanno bene? La maggiore sta per partorire vero?

– Sì, le voglio cucinare degli spaghettini col vino di
riso.

– Mamma –, la interruppe Anna Lin. La signora Qin ignorò
sua figlia. In realtà non lo faceva di proposito, in famiglia glielo facevano
sempre notare, che quando parlava con qualcuno in cinese, o guardava la tv
cinese (che fosse film, o concerto, o telegiornale) non era «impostata» nella
modalità «lingua italiana».

– Mammmma! Vanno bene questi bambù? – le chiese Anna Lin
mostrandole un barattolo dall’etichetta verde con l’immagine di germogli di
bambù gialli.

– No, quelli sono tagliati a fette. Prendi il barattolo
con l’etichetta bianca, quelli sono interi.

– Chi è quella ragazza, signora Qin? –, chiese curiosa
Yujing.

– Mia figlia maggiore.

– Oh, non ti assomiglia per niente. In realtà non sembra
nemmeno cinese… È sposata?

– No e non ci pensa proprio.

– Se vuoi ti presento il figlio di Miyan, ha quasi la
sua età, anche lui non è ancora sposato, sta studiando medicina; forse è del
segno del bue4, va bene con tua figlia no?

– Mia figlia non vuole queste cose combinate… Adesso
devo andare a finire la spesa. Ci vediamo Yujing.

Tra
uno scaffale e l’altro dei tre negozi cinesi e tra una chiacchierata con un
conoscente e l’altro, madre e figlia avevano comprato tre pacchetti di farina
di riso, uno di funghi secchi, due confezioni di pasta di riso, due di
preparato per salsa barbecue, uno di pasta di farina di patate dolci, un
barattolo di germogli di bambù (di cui Anna Lin si lamentava per il peso) e una
bottiglia formato famiglia di salsa agro-piccante.

Dai «campagnini» invece, aveva comprato due chili di
cime di rape, le melanzane lunghe e i cavoletti cinesi.

– Per pranzo fai il riso con le cime di rapa, mamma?

– Se vuoi. Dopo pranzo però tu e tua sorella mi dovete
aiutare a fare i panini verdi.

Anna Lin sapeva che sua madre in realtà non aveva
bisogno del loro aiuto, che se la cavava benissimo anche da sola; lo faceva per
insegnare alle figlie come prepararli.

Stava riflettendo che, in effetti,
avrebbe dovuto imparare a cucinare alcuni determinati piatti, almeno per
mantenere le tradizioni. Sarebbe mai riuscita a cucinare da sola i panini
verdi? O a preparare il vino di riso? O dei semplici panini bianchi al vapore?
Tutte le tradizioni della cultura di sua madre, e quindi anche della sua,
sarebbero andate perse. Come avrebbe cresciuto i suoi figli? Ma forse il punto
era davvero un altro, quello su cui sua madre insisteva tanto: avrebbe mai
avuto dei figli?

Dopo
pranzo, mentre nella cucina di casa disponeva sul tavolo in file composte i
panini verdi, Anna Lin notò la loro irregolarità: quelli di sua madre erano
tutti della stessa dimensione, i suoi no: qualcuno era più pieno, qualcuno
sgonfio, qualcuno più tondo; e fu colta da un angosciante senso di vuoto, la
consapevolezza che le mancava qualcosa, non sapeva definire di preciso cosa, ma
sentiva di non aver più tempo, di doversi affrettare per imparare, per
recuperare, per ottenere ciò che non aveva.

___________________

(*) Chou Mei Chen Susanna, Panini verdi,
pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne
straniere in Italia
, Edizioni Seb27.

MEI CHEN SUSANNA CHOU nasce il 24 novembre 1976 a Che-Kiang (Repubblica Popolare
Cinese). Laureata in Lingue e Letterature Straniere (cinese e tedesco) presso
l’Università di Torino, dopo varie esperienze in ambito turistico-commerciale,
inizia a lavorare, in Germania, nel settore dell’organizzazione culturale,
proseguendo poi la sua attività in Italia. Ha organizzato festival musicali in
Piemonte, con particolare riguardo verso le sonorità inteazionali.
Parallelamente all’attività culturale (www.asiae.org) collabora con diverse
associazioni, occupandosi anche di traduzione.

 
Note
1     Strumenti a corde della tradizione cinese.
2     Porta Palazzo: il più grande mercato di Torino.

3     La Festa Qing Ming (清明节, Qing
Ming Jie) è la festa cinese della pulizia delle tombe, che ricorre generalmente
nel mese di Aprile del calendario gregoriano.
4     Uno dei dodici segni dello zodiaco cinese,
suddiviso per anni e non per mesi.

 
Con gli occhi di Keréne
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba [Italia e Congo](*)
 

Il
volo era durato appena venti minuti, Pantelleria vista dall’alto aveva la forma
di un rene umano, ma la cosa più inquietante è che appariva piccolissima: non
avrei mai creduto che il pilota, dopo averci miracolato evitando con cura i
cocuzzoli delle montagne limitrofe, sarebbe anche riuscito a centrare quella
pista così piccola da ricordare le portaerei in uso durante la Seconda guerra
mondiale!

Non sapevo dove andare, ma non mi preoccupavo più di
tanto: mi avevano detto che per giungere alla scuola del paese, sarebbe stato
sufficiente chiedere un passaggio ad uno di quei panteschi molto
disponibili che passano casualmente dalle parti dell’aeroporto proprio all’ora
degli arrivi, e che per soli cinque o dieci euro ti fanno il «favore» di
accompagnarti in macchina, persino davanti alla scuola.

In effetti, in 5 minuti ero già arrivata. Dopo le
pratiche di segreteria e le presentazioni col personale della scuola e con il
preside, al suono della campanella finalmente era giunto il momento di entrare
in classe.

Per rompere il ghiaccio cominciai a presentarmi
scrivendo il mio nome sulla lavagna e parlando un po’ di me. Ero riuscita ad
attirare la loro attenzione, adesso toccava a loro presentarsi. Mentre i più
audaci facevano a gomitate nel contendersi la parola, non poté passare
inosservata, seduta al primo banco della fila centrale, una ragazza dagli occhi
grandi e scuri: era magrolina, ben vestita, e sembrava molto riservata.

La presentazione della classe procedeva rapida e
ordinata: tutti volevano fare bella figura!

Dulcis in fundo
toccò a Keréne, la ragazza al primo banco, che timidamente sorrise e dopo un
paio di tentativi, lodevoli ma buffi, rinunciò alla sua impresa.

I compagni mi spiegarono che non parlava bene l’italiano
perché era arrivata in Italia da pochi mesi.

La mattina seguente, misi sul banco di Keréne il
dizionario di francese. Avevo un’intera classe da seguire e non avrei potuto
dedicare troppo tempo a lei, che comunque sembrava aver gradito la novità.

Per sondare la classe e le eventuali lacune
grammaticali, decisi di assegnare un tema.

Volendo dare a tutti la possibilità di scrivere senza
problemi, scelsi un titolo aperto:
«Una giornata indimenticabile…»

Keréne, si tuffò sul dizionario e per due lunghe ore non
staccò mai gli occhi dal foglio. Tutti si fermarono per la ricreazione, ma lei,
caparbia, continuò a scrivere. Quella che per tutti gli altri era la lingua
madre per lei era un ostacolo da dover aggirare!

A fine giornata, dopo aver ritirato tutti gli elaborati,
mi avviai verso casa.

Tra un panino e un caffè, cominciai la correzione dei
temi della III B.

In quei fogli c’era di tutto: da Disneyland alle
Piramidi, dal primo bacio alla Play-Station II.

Ma ad un tratto il registro cambiò: il tema di Keréne si
presentava con una grafia pulita ed ordinata…

«Sono
nata in Congo, giunta a Pantelleria per caso: ho una sorella poco più grande di
me e tre fratellini piccoli e vivaci. Mia mamma è sempre riuscita a far fronte
a tutte le esigenze familiari: è una donna in gamba e non si è tirata indietro
quando papà le ha proposto di spostarsi più a Nord nella speranza di garantire
a noi un futuro migliore. Mio papà è un insegnante di francese ed ha deciso di
raggiungere la Libia per migliorare le aspettative di vita dell’intera
famiglia: lì ci sono scuole che meglio retribuiscono i loro docenti. Così
decidiamo di partire, il viaggio è lungo ma ne vale la pena. Giunti lì ci
inseriamo molto bene: siamo una famiglia numerosa, benestante e felice. Tutto
sembra aver preso una giusta piega ma nell’aria c’è un nuovo fermento di libertà:
sta per iniziare la “primavera araba”, che per noi è semplicemente un’altra
guerra. Dopo giorni di terrore sotto i bombardamenti, papà decide di partire
per l’Italia, trovando posto su uno di quei famigerati barconi che solcano
copiosi il Mediterraneo. Siamo in sette e quindi paghiamo una somma ingente,
ma, a differenza di tanti altri disperati, papà ha i soldi per acquistare i
biglietti. Nel cuore della notte, nascondendoci dalla sorveglianza militare
armata, riusciamo ad imbarcarci e, tra lo schianto delle bombe ed altre mille
paure, a prendere il largo.

Il mare sembra agevolare la nostra fuga, il vento è buono.

Oggi è mercoledì 13 aprile 2011, sono le 5:00.

Il sole non è ancora sorto, attorno c’è buio fitto, dopo
cinque giorni di navigazione qualcuno dice che siamo vicini ad uno scoglio: no,
non è uno scoglio, è Pantelleria.

Il mare è agitatissimo e ci fa sbattere l’uno contro
l’altro; il barcone, carico di 192 persone, sembra impazzito, sbattuto da onde
minacciose che ci sommergono da tutti i lati.

Il barcone è sempre più vicino agli scogli, l’impatto è
orrendo e devastante, ho il cuore in gola, per davvero lo sento palpitare
proprio lì: e pensare che fino a quel momento avevo sempre creduto che quello
fosse soltanto un modo di dire!

Uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. La paura è
grande e, sperando che sia tutto finito, accenno una preghiera di ringraziamento:
«Dio mio, spero che questo non si ripeta mai più nella mia vita…», ma non
immagino minimamente quello che ancora mi aspetta.

Improvvisamente siamo catapultati letteralmente in mare:
i più fortunati rimangono attaccati al barcone, altri sono ormai in balìa delle
onde… E molti di noi non sanno nuotare.

Solo grazie all’aiuto della guardia costiera e dei
volontari che si prodigano tirandoci fuori dall’acqua, io, i miei fratelli, mia
sorella e mio padre ce la caviamo.

La mia mamma purtroppo no! Lei non ce la fa… Non sa
nuotare e le onde non le lasciano scampo. Forse, se avessi saputo nuotare,
l’avrei potuta salvare io. Il dolore, lo sconforto, sono grandissimi. L’inferno
non può essere peggio di questo, ed io ci sono stata!

Nel frattempo perdo i sensi, vengo salvata a fatica: ho
promesso alla mamma che saremmo rimasti tutti uniti e che mi sarei occupata dei
bambini.

Ci ricoverano per alcuni giorni in ospedale; gli
abitanti della piccola isola non ci fanno mancare nulla; i medici, appena
possibile, ci portano in obitorio per salutare per l’ultima volta la mamma. I
nostri cuori sono straziati dal dolore, sono ferite difficili da rimarginare,
ti segnano la vita, anzi te ne tolgono anche un po’.

La mia mamma, la mia giovane e bellissima mamma… Non la
rivedrò mai più.

Devo però aiutare i miei fratellini che forse soffrono
più di me.

Al funerale ci sono tante persone, i militari, il
sindaco e tutti i superstiti alla sciagura.

Appena dimessi dall’ospedale, una famiglia ci ospita
nella propria abitazione: stiamo bene con Giuseppina e Mariano, ci trattano
come figli, non dimenticherò mai la loro accoglienza.

Nel mese di maggio andiamo a Trapani per ricevere i
documenti necessari alla nostra permanenza a Pantelleria. Al nostro ritorno da
Trapani ci sistemiamo in una casa che papà ha preso in affitto.

Io e mia sorella Aicha, anche se di diverse età, ci
iscriviamo a scuola: purtroppo ci inseriscono in terza media perché non abbiamo
con noi alcuna attestazione scolastica; i miei fratellini Vianì e Raìs alla
scuola elementare, ed il piccolo Eest all’asilo.

Col passare dei giorni conosciamo tanti ragazzi e
ragazze. I primi momenti a scuola sono difficili, non riusciamo a comunicare
con gli altri e ho tante difficoltà anche nel relazionarmi con i professori.

Mi piacerebbe un giorno continuare i miei studi
frequentando l’università, vorrei studiare per poter realizzare il mio sogno
che è quello di diventare una pediatra per aiutare i bambini a crescere e per
soccorrere coloro che hanno più bisogno. Un giorno toerò nella mia Africa per
dare una mano ai più bisognosi».

Avevo
letto quel tema tutto d’un fiato, asciugandomi di continuo gli occhi per
riuscire a decifrare le parole che si sfocavano dentro le mie lacrime.

Un senso di colpa mi assalì improvvisamente pensando
alla sofferenza che le avevo procurato assegnando la stesura di quel tema.

D’improvviso mi sembrò di vedere i suoi occhi limpidi,
trasparenti e pieni di luce.

Con il passare dei giorni, osservavo i progressi che
faceva la piccola Keréne: si impegnava moltissimo, stava mettendo a frutto la
sua intelligenza ma ancora di più la sua voglia di vivere.

Ogni giorno, tornando a casa, pensavo a lei e a come
avrei potuto aiutarla senza sembrare invadente. Non perché avesse bisogno
d’aiuto materiale, quello non le mancava, era ben voluta da tutti. Keréne aveva
bisogno d’amore, di un abbraccio, di una carezza, di una parola affettuosa. Lo
scorso giugno ha conseguito la licenza media col massimo dei voti.

Quest’estate è venuta a casa mia in vacanza: pur avendo
terrore del mare, ha desiderato fortemente che le insegnassi a nuotare…

Mi ha detto: «Prof, sogno ogni notte la mamma che mi
chiede aiuto e non riesco mai a tirarla fuori dall’acqua, scompare sempre tra
le onde… Ma se imparo a nuotare, un giorno riuscirò finalmente a salvarla».

L’ho abbracciata piangendo, ma lei scostandosi mi ha
stretto le mani e guardandomi intensamente, mi ha sorriso.

————————————

(*) Marika Sanna e
Keréne Fuamba, Con gli occhi di Keréne, pubblicato su Lingua Madre
Duemilatredici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni SEB27. Il racconto di Marika Sanna e Keréne Fuamba è stato selezionato al VIII
Concorso letterario nazionale Lingua Madre
, 2013.

KERÉNE FUAMBA nasce nel
1996, in Congo. Per sfuggire alla guerra civile la sua famiglia si trasferisce
in Libia, appena prima della «fioritura» della primavera araba. In fuga verso
l’Italia, nel 2011, naufraga sulle coste di Pantelleria, perdendo la mamma.
Comincia così a frequentare la scuola in Italia: nel 2012 consegue la Licenza
Media con il massimo dei voti. Frequenta attualmente con profitto il Liceo
delle Scienze Umane, collaborando attivamente con l’Associazione Teatro
Instabile
di Sicilia nella difesa dei diritti e dell’impegno civile.
Nell’estate del 2012 ha presentato l’evento culturale «Teatro tra sole e sale»
e la performance teatrale La mafia uccide, il silenzio pure, ispirata
all’omicidio di Peppino Impastato. Vorrebbe presto realizzare il suo sogno,
diventare pediatra, per tornare in Congo e aiutare i bambini bisognosi della
sua terra.

MARIA ENRICA SANNA vive a Erice Casa Santa, in Sicilia. Laureata in Lettere e
specializzata in Tecniche innovative nella didattica, è una «docente precaria»,
che insegna nelle scuole medie e superiori. Da sempre impegnata nel sociale,
cornordina progetti di recupero rivolti a soggetti svantaggiati. Ha acquisito
qualifiche professionali nel campo teatrale e culturale. Attualmente si occupa
in modo particolare di formazione dei giovani e del loro impegno civico.

 
Lingua Madre

Il concorso letterario nazionale Lingua Madre,
ideato da Daniela Finocchi, giornalista da sempre interessata ai temi inerenti
il pensiero femminile, nasce nel 2005 e trova subito l’approvazione e il
sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di
Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente
dedicato alle donne straniere – anche di seconda o terza generazione –
residenti in Italia che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè
l’italiano), vogliono approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo
«altro». Una sezione speciale è riservata alle donne italiane che vogliano
raccontare storie di donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e
che hanno saputo trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità
per dar voce a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare
le donne che nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due
volte. Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette
ma incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso
l’uso della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Pubblichiamo i racconti di queste pagine per
gentile concessione del «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», a cui
vanno i nostri ringraziamenti più sinceri.
Chi volesse partecipare al concorso può inviare i
racconti e/o le fotografie a:

Concorso letterario nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427
Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro
 
Tags: donne, migranti, integrazione, accoglienza

Varie Autrici




Missione e Creazione

Ecologia: nuove e vecchie sfide all’evangelizzazione

Vai al dossier nello sfogliabile, cliccando sulla foto.

Tag: Ecologia, missione, evangelizzazione, ambiente

Ugo Pozzoli e Luis Ventura Feandez




Ebola: Prigionieri di un incubo

Paesi e popolazioni
allo sbaraglio.

Govei e popolazioni di Sierra Leone, Guinea, Liberia e
Nigeria sono alle prese con un’emergenza sanitaria probabilmente senza
precedenti. In paesi con strutture sanitarie inesistenti o inadeguate,
l’epidemia di Ebola potrebbe avere conseguenze difficilmente immaginabili.
Soltanto l’intervento internazionale può evitare che la situazione precipiti.
In attesa di un vaccino che ancora non esiste. Nel frattempo il virus è
arrivato in Spagna e negli Stati Uniti.

Leggi tutto il dossier sul pdf sfogliabile. Clicca qui.

Anno
2013. Inizio di dicembre. Il piccolo di due anni non sta bene, ha la febbre, è
molto debole, sembra gli facciano male i muscoli, la testa, la gola. È piccolo:
difficile capire. Potrebbe essere un’infezione virale, passerà. Ma poi compare
vomito, diarrea. Sarà una forma gastrointestinale, ce ne sono spesso in giro,
meglio portarlo dal pediatra. Il bambino però non è in Italia, è in Africa:
vive in Guinea, Guéckédou, una regione boschiva. Non è così facile portarlo da
qualcuno che lo visiti. E possono essere tante le cause del suo malessere:
potrebbe essere malaria, tifo, colera, meningite o una delle altre patologie
infettive diffuse in questo continente, spesso con nomi sconosciuti o
dimenticati da molti nel Nord del mondo.

La situazione non migliora perché questa non è una delle
solite malattie con cui quotidianamente la popolazione si confronta, spesso
avendo la peggio.

Ecco, si potrebbe immaginare così l’inizio dell’ultima
epidemia di Ebola, una febbre emorragica causata da un virus che l’Africa ha già
conosciuto. La prima volta è stata nel 1976. Poi l’Ebola si è ripresentata, con
epidemie mortali in alta percentuale. Questa volta, dalla vittima morta
a dicembre e identificata (ma soltanto il 22 marzo) come il «caso indice» (noto
anche come «paziente zero»), il primo dell’epidemia (forse)1,2,3,
l’infezione si è diffusa con velocità, dimensioni e portata assai maggiori
rispetto alle occasioni precedenti, passando dalla Guinea ai paesi vicini,
Liberia e Sierra Leone, e poi arrivando anche in Nigeria e Senegal.

Secondo i dati diffusi all’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms)4, al 7 settembre 2014 i casi (tra probabili, confermati
e sospetti) in Africa occidentale erano quasi 4.400, con circa 2.200 morti,
praticamente uno su due. Nel continente non c’è però un sistema sanitario che
permetta di avere dati certi che coprano tutto il territorio, comprese le zone
rurali più distanti. E poi la gente ha paura e non tutti – lo vedremo più
avanti – vanno a farsi visitare. Per questo le cifre potrebbero essere
incomplete o non precise. Senza contare che sarebbero da aggioare ogni giorno
(dati più recenti a pag. 43).

Dopo Guinea, Liberia e Sierra Leone, a fine luglio 2014
l’infezione è arrivata anche in Nigeria, con la morte di un paziente liberiano
arrivato in aereo a Lagos. Nell’ultimo rapporto dell’Oms in Nigeria sono stati
contati 21 casi (tra confermati, probabili e sospetti) e 8 morti4.
Infine, è stato segnalato un caso anche in Senegal, a fine agosto: un paziente
arrivato a Dakar dalla Guinea. Al 7 settembre i casi erano tre, nessun morto.
L’8 agosto, a nove mesi dall’ipotizzato inizio dell’epidemia, il direttore
generale dell’Oms ha dichiarato l’Ebola un’emergenza di sanità pubblica di
rilevanza internazionale5 e il 28 agosto ha pubblicato una roadmap per
assistere governi e partner nei piani di risposta all’epidemia e cornordinare il
supporto internazionale6.

All’inizio di agosto sono stati segnalati casi anche
nella Repubblica Democratica del Congo, ma a inizio settembre l’Oms ha
affermato che quest’epidemia è slegata da quella che sta flagellando l’Africa
occidentale da fine 20137. In ogni caso, anche in Congo R.D. l’Ebola ha seminato
morte, con 35 decessi (7 fra operatori sanitari) su 62 casi8.

 
Quel fiume in Congo

Era il 1976 quando, nella Repubblica Democratica del
Congo e in Sudan, fu identificato per la prima volta il virus responsabile
della malattia. Allora si era trattato di due epidemie contemporanee, causate
da due sottotipi diversi (sono in tutto cinque) del virus: quello chiamato «Zaire»,
responsabile anche dell’epidemia attuale, e il tipo «Sudan»9.

Il nome Ebola deriva dall’omonimo fiume, vicino alla
zona del Congo ove si era verificata l’epidemia (Yambuku). Da allora varie
segnalazioni di casi singoli e di epidemie (24, la maggior parte causate dal
sottotipo Zaire) si sono succedute in diversi paesi africani. Le ultime
segnalazioni del 2012 provenivano dall’Uganda e ancora dalla Repubblica
Democratica del Congo. La letalità è stata diversa, passando dalla più bassa
del 25 per cento (dunque, un malato morto ogni quattro) alla più alta del 90
per cento (nove morti ogni dieci malati).

Cosa favorisce la
diffusione

Riguardo all’epidemia attuale – iniziata in Guinea
sudorientale nel dicembre 2013 -, sembra che i primi pazienti si siano ammalati
perché esposti a cacciagione locale infetta e che la diffusione sia poi stata
veicolata dalla partecipazione a cerimonie funebri che hanno portato al
contatto con persone morte per l’Ebola o con persone già infettate10.
L’Oms ha segnalato tre fattori principali responsabili della diffusione
dell’Ebola11. In primis, aspetti culturali come la mancanza di
fiducia, preoccupazione e resistenza nei confronti delle raccomandazioni di
sanità pubblica volte a prevenire la diffusione e bloccare il contagio. Rientra
in questo anche la mancata ricerca dell’assistenza sanitaria (in paesi in cui
la rete sanitaria è fragile e precaria), la scelta di curare i malati a casa e
di tenerli nascosti, la partecipazione a cerimonie funebri con rituali che
espongono al contagio. Un altro aspetto critico è rappresentato dai massicci
spostamenti delle persone sia all’interno dei paesi che attraverso le
frontiere. Un terzo fattore è venuto dalla non completa copertura dell’epidemia
con misure di contenimento efficaci, quindi una risposta inadeguata alla
dimensione e diffusione del contagio. 

La trasmissione

Il virus dell’Ebola causa una febbre emorragica molto
pericolosa e spesso fatale negli esseri umani, tanto da poter uccidere fino a
nove persone su dieci infettate12. Finora le epidemie si sono
verificate in villaggi isolati, vicino alle foreste tropicali, in Africa
centrale e dell’Ovest. Il virus viene trasmesso alle persone da animali e un
tipo particolare di pipistrello – appartenente alla famiglia Pteropodidae
– ne viene considerato l’ospite naturale (si veda l’infografica a pag. 42).
L’infezione viene trasmessa dal contatto con sangue, secrezioni o altri fluidi
del corpo di animali infettati dal virus. Una volta passato dall’animale
all’uomo, il virus si trasmette da una persona all’altra secondo modalità
analoghe, attraverso il contatto diretto o indiretto con sangue e fluidi del
corpo13.

I riti attorno al
defunto

Uno dei problemi affrontati dagli operatori sanitari
nella prevenzione della diffusione del virus, è quello delle cerimonie di
sepoltura, come racconta Maria Cristina Manca, antropologa di Medici senza
frontiere
, che ha lavorato diverse settimane in Guinea, proprio a Guéckédou
dove pare tutto sia iniziato. «Le ritualità intorno alla morte – ci racconta –
sono fondamentali. Sia i malati, sia i morti, vengono appoggiati, seguiti,
aiutati da tutte le persone che sono loro vicine. Per i malati ciò accade a causa
della mancanza di un servizio sanitario. L’unico servizio presente è a
pagamento: per questo le persone non vanno a farsi curare o comunque ci vanno
soltanto se sono molto gravi. Quando arriva la morte, vi sono una serie di
congiunti che lavano il corpo, lo vestono, lo abbracciano, lo baciano. Più
l’individuo deceduto era importante, più cresce il numero di soggetti
coinvolti. Addirittura, se il morto era influente nel villaggio, la salma viene
portata a “salutare” una serie di persone. Tutto questo significa circolazione
del virus tra chi lava il corpo, chi si trova nel luogo in cui viene portato,
chi arriva da lontano per salutarlo: a questa mobilità enorme corrisponde
un’enorme diffusione. Per il rischio di contagio, è chiaro che il corpo non si
deve né toccare, né lavare, né abbracciare. Ci sono tuttavia alcune cose che si
possono fare. L’Ebola è una malattia terribile, che obbliga a soluzioni
drastiche. Personalmente, quello che ho cercato di fare è stato di non vietare
il rito ma di trasformarlo, nei limiti del possibile. Per esempio, nel sacco
bianco, dove bisogna porre il corpo del malato morto di Ebola, si possono
collocare gli oggetti rituali che in genere vengono messi nella tomba; le
persone, con guanti e protezioni adeguate, possono prendere il sacco e
tumularlo; si può anche esporre il corpo, purché a metri di distanza e con le
precauzioni del caso; infine si può concedere un ultimo saluto, un’ultima
preghiera prima che il sacco venga chiuso».

Senza medici e
infermieri

L’incubazione della malattia – dal momento
dell’infezione all’inizio dei sintomi – può variare da 2 a 21 giorni. I sintomi
comprendono febbre, debolezza intensa, dolori muscolari, mal di testa e mal di
gola, cui seguono vomito, diarrea, segni sulla pelle, malfunzionamento di reni
e fegato e in alcuni casi, sanguinamenti sia estei sia interni (grafico
dei sintomi a pag. 43
). Le persone sono infettive finché il sangue e le
secrezioni contengono il virus, che può rimanere per un certo periodo anche
dopo la guarigione14. In questa epidemia è stato alto il prezzo pagato da
chi lavora per curare gli ammalati. Infatti, proprio la modalità di
trasmissione dell’infezione espone a un alto rischio il personale sanitario,
anche a causa dei sintomi che all’inizio sono poco specifici (la conferma di
infezione da Ebola è possibile solo tramite esami di laboratorio). Al 7
settembre erano 144 gli operatori sanitari deceduti in Guinea, Liberia e Sierra
Leone su 301 casi di contagio15. E questo in paesi dove vi è una
scarsità di base di personale sanitario, sia medico che infermieristico: già
prima della morte degli operatori sanitari, vi erano soltanto 90 medici in
Liberia e 136 in Sierra Leone, paesi che ne avrebbero bisogno rispettivamente
per circa dieci e venti volte di più. E in Guinea la situazione è solo
lievemente migliore, con 1.000 medici per più di 11 milioni di persone16.

Clara Frasson, di Medici con l’Africa-Cuamm,
all’ospedale di Pujehun in Sierra Leone per un progetto di aiuto a mamme e
bambini, descrive la devastazione di un paese in ginocchio: «A causa
dell’epidemia, il sistema sanitario, messo in piedi con grandi sforzi, è in
crisi. Le mamme non fanno più le visite prenatali, non portano i bambini a
vaccinare; le gravide riprendono a partorire in casa senza assistenza; i
malnutriti non vanno più ai centri dove potrebbero essere nutriti
correttamente, curati e salvati. Questa emergenza è paragonabile alla guerra.
L’economia del paese è allo stremo, il commercio è interrotto, le compagnie
aeree non fanno più scalo a Freetown. Molte zone del paese sono chiuse e la
popolazione non può più muoversi liberamente. Il cibo comincia a scarseggiare,
non è ancora la stagione del raccolto e purtroppo le persone stanno usando le
scorte alimentari destinate alla vendita o alle sementi. Tutte le persone
(familiari, amici, ecc.) che hanno avuto contatto con un malato vengono poste
in quarantena per 24-25 giorni. Con il team sanitario del distretto noi
organizzazioni distribuiamo cibo, che però non è mai sufficiente. I prelievi di
sangue di persone con sintomi di Ebola vengono portati a Kenema, dove c’è
l’unico laboratorio nazionale in grado di testare il virus. Se il risultato è
positivo, il paziente viene trasferito in uno dei due centri di trattamento del
paese, che non bastano più. È stato programmato un controllo casa per casa in
tutta la Sierra Leone per trovare tutti i malati di Ebola, dato che purtroppo
si nascondono, e tutte le persone e familiari che sono stati a contatto con
loro e che sicuramente verranno contagiati. Qui la foresta è grande ed è facile
nascondersi. Per fermare questa epidemia l’unica soluzione è trovare le persone
malate, isolarle, trattarle e cercare di tenerle in vita. Abbiamo visto che, se
si cura precocemente, la sopravvivenza è alta. Usiamo tutti i mezzi possibili
per informare la popolazione, perché abbia fiducia nel sistema sanitario: non è
facile ma è la nostra sfida. Un sistema che ora è al collasso e che, dopo
l’Ebola, bisognerà riorganizzare completamente. Questa nuova emergenza ha
portato ancora povertà, morte e disperazione. I nostri colleghi africani hanno
paura che ce ne andiamo. Ogni giorno ci cercano, se non ci vedono mandano
messaggi, telefonano, chiedono dove siamo. Per loro siamo una speranza ed è per
questo che teniamo duro: rimaniamo nonostante il rischio reale».

Costruire il presente
e il futuro

Oltre alla difficile diagnosi, alla modalità di
diffusione, alla mortalità alta, al rischio per il personale sanitario in paesi
dove la situazione assistenziale di base è già assai precaria, si aggiunge un
altro punto critico di questa infezione: la mancanza di una terapia specifica.
Al momento non vi sono infatti vaccini disponibili (anche se sono allo studio),
non vi sono farmaci, e quelli sperimentali provati non hanno ancora dato
risultati certi e non sono diffusamente disponibili17,18.
Al momento quindi la terapia possibile è solo quella di reidratazione, supporto
e assistenza del paziente. La prevenzione, il monitoraggio, il controllo
rappresentano quindi una strada fondamentale da percorrere per arginare e
interrompere le epidemie da Ebola, e far sì che una diffusione del genere non
si ripeta.

Questa tragedia ha sottolineato ancora una volta la
debolezza e fragilità dei sistemi sanitari africani. E la necessità di
investire nel loro rinforzo perché possano far fronte alle emergenze, ma anche
ai bisogni sanitari della quotidianità.

Valeria
Confalonieri


Fonti bibliografiche

1 – Ebola: a failure of
inteational collective action
, The Lancet (editoriale), 23 agosto 2014.
2 – Gostin LO, Ebola: towards an Inteational
Health Systems fund
, The Lancet, 5 Settembre 2014.
3 – «Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute», www.epicentro.iss.it.
4 – World
Health Organization, Ebola Response
Roadmap Situation, Report 3, 12 September,
www.who.int.
5 – World
Health Organization, Who Statement on
the Meeting of the Inteational Health Regulations Emergency Committee
Regarding the 2014 Ebola Outbreak in West Africa.
6 – World
Health Organization, Ebola response
roadmap, 28 agosto 2014.
7 – World Health Organization, Virological analysis: no link between Ebola outbreaks in west Africa and Democratic Republic of Congo.
8 – World
Health Organization, Ebola virus disease
– Democratic Republic of Congo, 10 settembre 2014.
9 – World
Health Organization, Ebola virus disease. Fact sheet N. 103.
10 – Fonte
citata, nota 3.
11 – World
Health Organization, Ebola virus disease, West Africa – update. Disease
outbreak news
, 3 July 2014.
12 – Fonte
citata, nota 9.
13 – World
Health Organization, Frequently asked questions on Ebola virus disease.
14 – Fonte
citata, nota 9.
15 – Fonte
citata, nota 4.
16 – Fonte
citata, nota 2.
17 – Fauci
AS, Ebola –
Underscoring the Global Disparities, in
Health Care Resources, New England Joual of Medicine, 13 agosto 2014,
www.nejm.org.
18 – Goodman
JL., Studying “Secret
Serums” – Toward Safe, Effective Ebola Treatments,
New England Joual of Medicine, 20 agosto 2014, www.nejm.org.

Info
e aggioamenti:

• World Health Organization: www.who.int

• Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza
e Promozione della Salute: www.epicentro.iss.it
• Centers for Disease Control and Prevention
(Atlanta, Usa): www.cdc.gov.

L’autrice
dell’articolo:

Di formazione medico, dopo alcuni anni di esperienza in
ospedale, Valeria Confalonieri (1965) ha deciso di dedicare il suo lavoro
esclusivamente al giornalismo medico-scientifico. Si occupa in particolare di
argomenti sanitari e sociali nei paesi impoveriti e in generale di diritto e
accesso alla salute delle popolazioni più vulnerabili. Su tali temi ha
collaborato con diverse testate on line e cartacee e alla scrittura di libri. È
membro dell’«Osservatorio italiano sulla salute globale».

Interviste a cura
di:

Marco Bello, redazione MC.

Le foto delle
copertine:

• In prima pagina: Guinea, Conakry, personale con indumenti protettivi
trasporta una vittima dell’Ebola nel centro gestito da Medici senza frontiere, vicino
all’ospedale Donka (settembre 2014).
• In ultima pagina: Costa D’Avorio, Abidjan, bambini osservano il poster
sui sintomi dell’Ebola in una scuola del quartiere di Koummassi (settembre
2014).

Dossier a cura di:
Paolo Moiola, redazione MC.

Valeria Confalonieri




Ebola: Virus di famiglia

Testimoni da Guinea e Liberia
Sembra il virus fatto per
l’Africa: dove la famiglia si prende cura del malato. Dove i legami famigliari
sono più importanti di tutto. Dove ci si dà la mano ogni momento. E così il
contagio è assicurato. L’Ebola cambierà i costumi sociali degli africani? La
famiglia allargata sopravvivrà?

Guinea


Colpevoli di solidarietà

Simona Guida è un’operatrice della
Ong Cisv, è rientrata a fine agosto dalla Guinea dove è stata per una missione
breve. Responsabile di alcuni progetti del consorzio di Cisv con l’Ong Lvia, ci
racconta la situazione che ha trovato: «Fin da marzo è stata presa la decisione
di non sospendere le attività e di non evacuare il personale espatriato, anche
se ci era stato consigliato di farlo. Gli stessi cooperanti del consorzio, in
servizio nel paese, hanno detto per primi che volevano rimanere, che potevano
prendere tutte le precauzioni e gestire la psicosi da epidemia».

I progetti di Cisv-Lvia in Guinea sono in campo agricolo
e ambientale. «In effetti non sono attività
che mettono direttamente a rischio gli operatori. Però abbiamo rallentato le
riunioni, gli incontri, gli scambi tra diversi gruppi». L’epidemia sembrava
arginata a maggio, ma non è stato così, e un mese dopo ha ripreso a
diffondersi. A luglio il governo ha decretato lo stato di emergenza, con un
certo ritardo. Simona racconta: «Respiravo una doppia sensazione. Da una parte
quella che il governo non avesse fatto abbastanza. Non è stato proibito cibarsi
di cacciagione, portatrice del virus, come invece le autorità hanno fatto in
Burkina Faso con un decreto ad hoc. Non c’è stata comunicazione tempestiva,
come sulle norme di igiene, per esempio lavare la frutta dagli escrementi dei
pipistrelli, ecc.».

«La seconda considerazione è che la
paura dipende dal luogo in cui sei e se hai incontrato direttamente la malattia
oppure no. La differenza la fa la sfiducia in questo stato da sempre debole e
lontano dai cittadini. Chi si fida prende le precauzioni, chi si sente isolato
gestisce la cosa a modo suo. Ci sono storie di villaggi in cui c’è stato un
malato che è stato isolato bene, in altri casi la famiglia ha voluto fare in
modo diverso e la malattia si è propagata».

Simona: «Quello che ho percepito è
l’inumanità, “l’inafricanità” della malattia. La famiglia in molti paesi
africani è l’unico vero luogo di cura, e l’Ebola costringe la famiglia a non
prendersi cura del malato per il rischio contagio. Le strutture sanitarie non
sono all’altezza: in Guinea ci vai a morire in ospedale. Prima si cerca di
guarire in casa, poi dal guaritore tradizionale».

La gente è convinta che l’Ebola non
lasci scampo. Anche per questo i malati non vengono portati nelle strutture. «Si
sta facendo comunicazione per spiegare che si può guarire, che bisogna curarsi».

«Ma con l’Ebola non puoi curare il
familiare e non puoi neppure fare il funerale come la ritualità vorrebbe. Due
grandi fattori emotivi per cui non si riesce a dare uno stop alla propagazione
del virus in certe zone più tradizionali, più isolate».

In effetti il grande problema è
proprio quello del contagio famigliare, dovuto a queste abitudini.

A Conakry, la capitale, sono
spuntati ovunque, all’ingresso di uffici e servizi, bidoni con acqua e
candeggina per lavarsi le mani. «Ho anche notato che le persone tendono a non
darsi più la mano».

Simona pensa che l’epidemia sarà
fermata, ma anche che potrebbe lasciare dei segni di cambiamento sociale.

In capitale ci sono stati molti
casi di malati, perché la gente arriva da tutto il paese. Simona ha constatato
che la paura dell’epidemia è palpabile, soprattutto per chi abita in un
quartiere in cui l’Ebola è presente, o per chi lavori a contatto con persone più
esposte.

«Il nostro partner Sabou guinéen,
è un’associazione guineana che ha aperto diversi centri per bambini che si
spostano in Africa dell’Ovest per motivi vari, in particolare per studi
coranici. Adesso ha bloccato l’accoglienza.

In Africa dell’Ovest la mobilità di
persone è molto elevata, ed è impossibile chiudere veramente le frontiere.
Senegal e Mali hanno preso misure protettive e questo ha ridotto le loro
importazioni danneggiando la già fragile economia guineana.

Simona spiega come la presenza
degli operatori sia motivo di speranza: «I nostri partner sono molto contenti
che non abbiamo chiuso i progetti. Vuol dire che non c’è solo l’Ebola in
Guinea. Loro hanno la sensazione di essere stigmatizzati: c’è una malattia
importante e non la sanno gestire. Il problema è che non hanno i mezzi e le
competenze, mentre occorre un buon dispositivo sanitario. Solo negli ultimi
tempi la comunità internazionale sta stanziando ingenti somme per fermare
l’epidemia, mentre su malattie endemiche come malaria e tubercolosi, per le
quali la gente muore, i soldi non ci sono».

In Guinea l’Ebola ha fatto ancora
più sentire la di-sparità tra due mondi: «La gente capisce che c’è un
intervento solo perché europei e statunitensi hanno paura che la malattia
arrivi nei loro paesi».

Inoltre: «Si sentono quasi in colpa
per il loro sentimento di solidarietà, come dire: non riusciamo a bloccare la
malattia perché siamo così. Mentre invece è un loro punto di forza».


 
Liberia


L’esercito contro il virus
 

La Liberia è un piccolo paese in
Africa dell’Ovest con una superficie che è circa un terzo di quella
dell’Italia. Ha una storia singolare perché è nata da una strana
ricolonizzazione, iniziata nel 1821, da parte di schiavi emancipati
statunitensi su un territorio già colonia britannica. Negli Usa solo gli stati
del Nord avevano abolito la schiavitù, che sarebbe stata eliminata anche al Sud
dopo la guerra civile (1861-1865). I neri americani giunti in Liberia erano
molto diversi dagli africani, per lingua, usi e cultura. Costituirono l’élite
di potere e sfruttarono i nativi. La Liberia di oggi mantiene un legame molto
stretto con gli Usa. È il paese più colpito dall’epidemia di Ebola e Barak
Obama ha annunciato l’invio di 3.000 soldati e l’apertura di una base di
comando regionale a Monrovia, la capitale. La base dipenderà da Africom, il
comando Usa per l’Africa. Nel suo discorso del 16 settembre scorso, Obama ha
paragonato questo intervento a quello Usa ad Haiti, all’indomani del terremoto
del 2010. Anche quella fu un’operazione di forza, completamente ingiustificata.
Oggi suona strano che per combattere un evento sanitario servano i marines,
considerando poi che i soldati sono l’unica risorsa che negli stati africani
non manca.

Suor Annella Gianoglio, missionaria
della Consolata di Savigliano (Cn), vive nel paese dal 1977. «Siamo in tre
missioni – ci racconta -: Ganta al confine tra Guinea e Liberia, Harbel a 80 km
da Monrovia e Buchanan». In tutti i posti si è propagata l’epidemia. «Il primo
morto lo abbiamo avuto ad Harbel. Una donna era andata ad assistere un
ammalato, così ha preso l’Ebola. Aveva figli e marito. Poi sembrava che
l’epidemia si fosse fermata, allora la gente non aveva molta paura, poi invece è
esplosa. Adesso c’è ovunque in Liberia. Abbiamo una clinica a Buchanan: è morta
una persona, poi l’infermiera che l’assisteva».

«La gente pensa sempre che la morte
naturale non esista, ma sia causata da qualcuno. Il giu giu, una specie
di malocchio. Ad esempio a una convention di una chiesa protestante ci
sono stati 36 morti. Il pastore aveva negato che fosse l’Ebola, dicendo che
l’acqua del pozzo era stata avvelenata.

Per questo motivo all’inizio
nessuno seguiva le precauzioni. Adesso almeno bruciano i cadaveri.

Un altro problema è che continuano
ad andare a cacciare e pescare e a nutrirsi di selvaggina. E questo è fonte di
contagio».

Suor Annella ha una profonda
conoscenza del popolo liberiano, e si vede che anche lei è spiazzata di fronte
al fenomeno. «Quando la prendi è molto probabile morire. Ma c’è anche molta
confusione con altre malattie. Nell’ospedale cattolico in cui è morto il padre
spagnolo, di cui si è parlato, sono morte otto persone. Adesso cercano di
riorganizzarlo».

Intanto sono stati creati centri
sanitari per l’Ebola in diverse zone. Sono tende nelle quali si isolano i casi
e si impediscono i contatti con il resto della popolazione. «Però vengono
trascurati gli altri malati. Si continua a morire di malaria».

In Liberia lo stato ha preso in
mano la situazione utilizzando l’esercito. Le scuole sono rimaste chiuse, i
raduni sono proibiti, e si cerca di non far spostare la gente.

«I soldati hanno circondato intere
zone, villaggi dove magari c’è stato un caso. E sparano a vista contro chi
volesse entrare o uscire. Così diventa difficile trovare da mangiare, o andare
a vendere i propri prodotti agricoli. L’economia informale è rallentata e la
povertà aumenta. Anche noi siamo bloccate nelle missioni. A Ganta abbiamo il
centro dei lebbrosi e tubercolotici. Vi lavorano due suore, una volontaria e un
dottore. Cercano di non muoversi e non far entrare gente dall’esterno. Un po’
ovunque sono stati messi secchi con acqua e candeggina per lavarsi le mani». A
livello sociale l’epidemia è «un disastro, divide le famiglie». Continua suor
Annella: «Un ragazzo che lavora in missione ha il villaggio isolato, e non può
tornare a casa da settimane. Una donna che si è ammalata è stata portata in un
centro, ma i suoi figli li hanno tutti isolati per paura che siano già
contagiati».

I liberiani hanno appreso che sono
state testate delle medicine su malati occidentali e si sono convinti che i
ricchi le possono avere e loro no. Poi però hanno visto che anche gli stranieri
muoiono. «Qui ci sono pochissimi mezzi. Non hanno ambulanze, tute di isolamento.
È una spesa enorme che deve venire da fuori».

Le missionarie della Consolata sono
presenti in Liberia da 50 anni. Oggi sono in 10 nelle tre missioni.

«Lo stato liberiano è rovinato
dalla dipendenza dagli Usa. Non prende iniziative, aspetta sempre un’imbeccata.
L’attuale presidente, Ellen Johnson Sirleaf, è liberiana ma di origini
statunitensi».

Tanti liberiani hanno amici e
parenti in Usa, e adesso cercano di lasciare il paese in attesa che passi un
po’ di tempo e l’epidemia.

Marco Bello

Marco Bello