RICCHI E POVERI

Summit dell’Organizzazione della Conferenza islamica

L’undicesimo summit dell’Organizzazione della conferenza islamica si chiude con un grande successo. Tenutosi a Dakar
(Senegal) dal 13 al 14 marzo, ha prodotto il documento fondamentale dell’organismo. Che punta a dargli maggior dinamismo
e ruolo a livello internazionale.


Dakar. I capi di stato dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oci) hanno adottato all’unanimità il 14 marzo scorso una nuova Carta fondamentale. Questa sostituisce il testo del 1972, e vuole dare un nuovo slancio all’organizzazione che rappresenta 1,3 miliardi di musulmani, in 57 stati membri.
Il segretario generale dell’Oci, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, durante la conferenza stampa di chiusura del summit, ha qualificato il risultato come un «grande momento» per la vita dell’organizzazione.

un Nuovo slancio

«Questo è stato un incontro storico, abbiamo voltato pagina. Dal 1972 nessun summit ha avuto tanto successo, in particolare per quello che riguarda la Carta», ha indicato Ekmeleddin Ihsanoglu, che è stato confermato al suo posto, al termine di un primo mandato di quattro anni. Ihsanoglu ha detto che questa Carta «nuova fiammante» costituisce un «passo significativo nella storia e per l’avvenire dell’Oci».
Essa esprime «la nuova visione del mondo musulmano, il nuovo slancio verso l’organizzazione e, finalmente, mette la nostra casa in ordine per dargli più vigore e dinamismo» oltre che aprire la via per un maggiore riconoscimento al ruolo internazionale dell’organizzazione islamica.
La nuova versione della Carta dell’Oci include la questione dei diritti umani, della buona governance e la democrazia. Il tutto per adattare la missione dell’organismo al contesto attuale. In effetti, la precedente era stata adottata in piena guerra fredda. Il testo sancisce chiaramente che «gli stati membri sostengono e favoriscono, a livello nazionale e internazionale, la governance, la democrazia, i diritti umani, le libertà fondamentali e lo stato di diritto».

Palestina e Fondi

Per quanto riguarda la Palestina, un articolo del documento chiede una soluzione politica al conflitto, con un sostegno al «popolo palestinese per dargli i mezzi di esercitare il suo diritto all’auto determinazione e creare il suo stato sovrano».
Nelle sue risoluzioni, il summit di Dakar ha chiesto ai membri dell’Oci di fornire «finanziamenti complementari» per il Fondo di solidarietà islamico per lo sviluppo (Fisd), lanciato nel maggio 2007.
Il Fisd, che punta a un capitale di 10 miliardi di dollari, è concepito per promuovere la solidarietà all’interno della Ummah (comunità) islamica, nella quale coabitano i ricchi stati produttori di petrolio, come quelli del Golfo Persico, e paesi tra i più poveri del mondo.
Secondo il segretario generale, i contributi totalizzano attualmente 2,6 miliardi di dollari e non ci sono stati nuovi impegni in favore del fondo. L’attesa del gruppo africano rispetto al debito estero dei paesi membri non è stata soddisfatta durante l’incontro di Dakar.

Dialogo interreligioso?

La questione dell’islamofobia è stata pure largamente discussa nel corso dei lavori. Ekmeleddin Ihsanoglu, ha stimato che «le religioni dovrebbero capirsi meglio e trovare dei mezzi per meglio rispettarsi».
Al margine del summit, i presidenti del Sudan, Omar Hassan al Bechir e del Ciad, Idriss Déby Itno, hanno firmato, grazie alla mediazione del presidente senegalese Abdoulaye Wade e del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, un accordo di pace (il sesto tra i due paesi dal 2005, ndr) per «mettere definitivamente fine» al contenzioso che oppone i loro due paesi (si veda MC,  aprile 2008).
L’Organizzazione della conferenza islamica è nata dopo l’incendio «criminale» della moschea di Al-Aqsa di Gerusalemme, provocata da un ebreo nell’agosto 1969. Al Qods (Gerusalemme, in arabo) città santa per giudaismo, cristianesimo e islam, è stata poi dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale in pericolo nel 1982. L’incendio servì come pretesto per la creazione dell’Oci, il 25 settembre di quell’anno a Rabat, in Marocco. L’organizzazione fu poi ufficializzata nel 1972 con l’adozione della sua Carta fondamentale a Djeddah, città dell’Arabia Saudita che da allora ospita il seggio provvisorio del segretariato generale della struttura.
Presenti nomi illustri

Tutti i paesi membri erano presenti a Dakar. C’era il re del Marocco, Mohamed VI,  i presidenti Abdelaziz Bouteflika (Algeria), Omar Bongo Ondimba (Gabon), Mahmoud Ahmedinejad (Iran), il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, solo per citae alcuni. Il re d’Arabia Saudita, uno dei principali finanziatori dell’Oci si è fatto rappresentare dal principe Fayçal Bin Abdulaziz Al Saoud, ministro degli affari esteri. Importante è stata anche la presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, il koreano Ban Ki-Moon e il presidente uscente della Commissione dell’Unione africana, il maliano Alpha Oumar Konaré.
Il presidente senegalese Abdoulaye Wade è stato eletto presidente in esercizio dell’Oci,  per un mandato di tre anni. Il prossimo summit dell’organizzazione è previsto nel 2011 in Egitto. 

di Sidiki Kouyaté

SVILUPPO O INVESTIMENTI?

«L’incontro di Dakar, deve essere visto come momento a partire dal quale l’Organizzazione della Conferenza islamica (Oci) ha deciso di investire seriamente in Africa» dichiara Cheikh Tidiane Gadio, ministro senegalese degli Affari esteri, al termine dell’incontro con una trentina di suoi omologhi per produrre la revisione della Carta fondamentale dell’organismo. Incontro che si è svolto a Dakar l’11 marzo, preparatorio al vertice politico dei capi di stato. «Non possiamo fare unicamente l’elemosina ai paesi poveri, ma dobbiamo mettere in piedi un meccanismo che permetta una ripartizione più equa della ricchezza tra i paesi musulmani».

E la nuova Carta dovrebbe andare in questo senso, come sostiene il segretario generale dell’Oci, Ekmeleddin Ihsanoglu: «L’Oci non è più quello del 1972 e il suo campo di azione si è esteso. Il mondo in cui viviamo non è più bipolare come all’epoca della guerra fredda». Le modifiche della Carta saranno in profondità, assicura il ministro Gadio, orientate a ridurre le differenze tra paesi musulmani poveri e quelli ricchi. «Lo spettro  di un mondo musulmano a due velocità, con una parte che va avanti e l’altra che ristagna o va indietro rende vulnerabile l’intera Ummah (comunità islamica, ndr)» così si era espresso il presidente della repubblica senegalese Abdoulaye Wade nel maggio 2007, al termine di una riunione dei governatori della Banca islamica di sviluppo.

Sempre a Dakar, prima del summit, si era tenuta una conferenza che ha visto la partecipazione di oltre 60 Ong islamiche che hanno anche incontrato i dirigenti dell’Oci. «Una nuova pagina è stata voltata nel settore della cooperazione tra operatori umanitari, governi e organizzazioni inteazionali» ha dichiarato Atta Manane Bakhit, vice segretario generale dell’Oci. La dichiarazione che ha concluso i lavori chiede ai governi del mondo islamico di sostenere le rispettive Ong. Si impegnano, inoltre a creare un centro che analizzi i bisogni in termini umanitari degli stati membri. Si pensi ad esempio che circa il 60% dei rifugiati di tutto il mondo si trovano in paesi musulmani (fonti Oci).
Atta ha anche detto che occorre collaborare di più con tutte le Ong della comunità umanitaria mondiale.

Il Senegal, che è l’unico paese dell’Africa sub sahariana che ha ospitato due volte il summit (il primo nel 1991) si prepara all’evento da quattro anni. In particolare dal punto di vista infrastrutture, con centinaia di cantieri stradali e sei hotel di alto livello. Un investimento di 152 milioni di euro per le strade e 365 milioni per gli hotel. Fondi in parte privati e in parte pubblici, ma quasi tutti provenienti dagli stati del Golfo Persico (tra i quali il Fondo saudita di sviluppo, il Fondo kuweitiano e la Banca islamica di sviluppo).
Un’iniezione finanziaria che contribuirà, a medio termine, alla crescita economica del paese, che dovrebbe raggiungere, secondo la Banca mondiale il 5,7%, rispetto al 5,1% del 2007.

di Marco Bello

Sidiki Kouyate e Marco Bello




Vivere per chi muore

Scelte di confine (prima puntata)

Diagnosi nefasta e prognosi di vita breve. Le terapie cosiddette «attive» salutano il paziente. Si varca la soglia del quotidiano e si entra in una terra di confine. Anticamera tra vita e morte. Diamo voce a chi, stringendo un patto con il tempo che segna i passi dell’uomo, sceglie di rendere meno doloroso il trapasso. Con il sostegno alla terminalità, dove meta ultima non è la guarigione bensì una morte dignitosa.

Siamo esseri a termine. Ma non facciamo che dimenticarcene. La «rimozione» non guarda in faccia nessuno, si estende a tutte le fasce sociali. Non è però un processo così immediato: esclude il non fare, alimenta l’azione, annulla il pensiero consapevole, annienta la profondità. Siamo specchio di una società in cui l’idea dell’uomo infallibile detiene una supremazia assoluta, sotto tutti gli aspetti, anche quello della salute.
La malattia va negata, la sofferenza taciuta, la morte cancellata. In questa prospettiva parlare di ferite, nel corpo e nello spirito, esige un cambio di paradigma.
Lo facciamo lasciando la parola a chi, per scelta, ha deciso di vivere quotidianamente con i malati terminali. Di essere taumaturgo del corpo e dell’anima per chi la «terminalità» non può più far finta che non esista. 

cure … palliative?

«Il medico di cure palliative agisce laddove non ci sono più spazi per le terapie attive convenzionali e rivolge le sue cure a malati cosiddetti terminali, con un’aspettativa di vita minore o uguale a 120 giorni». Così racconta Piergiacomo Rubatto, 46 anni,  medico presso la Fondazione per l’assistenza e la ricerca oncologica (Faro) di Torino. E sfata un equivoco semantico, secondo il quale l’attributo palliativo identifica un intervento superfluo. «Anticamente il sostantivo pallium indicava il mantello con cui i pellegrini si riparavano durante i loro viaggi presso i santuari, con l’intento di avvolgerli, proteggerli ed essere fonte di calore.
A questa idea iniziale si rifanno le cure palliative. Se non servono a guarire nel senso stretto del termine, servono a prendersi cura del paziente sino alla fine».
Ma in termini tecnici come ci si prende cura del paziente? «L’obiettivo è ridurre al massimo grado la sofferenza della persona malata, con un buon controllo dei sintomi. Alleviare dal dolore la persona permette non solo di intervenire sulla corporeità dell’individuo ma di restituirgli quella dignità umana,  indispensabile per migliorare la qualità del tempo che gli rimane da vivere».
Se il controllo di una complessa sintomatologia alla fine della vita è importante, inscindibile da questo è l’approccio relazionale e umano che il «palliativista» non può non avere.
«Alla base del nostro lavoro c’è la consapevolezza di varcare l’uscio di case segnate dal dolore. L’attività tecnica del controllo dei sintomi si lega indissolubilmente al rapporto relazionale con il malato e con l’intera famiglia. Nell’assistenza domiciliare il ruolo della mini équipe (medico e infermiere) è quello di affrontare i sintomi fisici dei pazienti ed emotivi dei parenti, con un’autentica condivisione del malessere psicologico».
Da cosa nasce la sua scelta di lavorare con la terminalità? Ha iniziato dopo la laurea o è una decisione recente? «Sono specializzato in chirurgia e ho lavorato per 15 anni come chirurgo al San Giovanni Vecchio e all’ospedale Valdese di Torino. Con il passare degli anni ho iniziato ad avvertire una pungente insofferenza verso quella che si può definire la catena di  “montaggio e smontaggio” della sala operatoria. Precisione, tecnicismo ma poca relazione umana. Dopo anni di lavoro mi sono riconvertito a quella che era la mia vera indole, il mio credo di quando ho iniziato gli studi: il rapporto diretto con il malato e i suoi disagi».
Da chirurgo a medico di cure palliative. Lasciando, se vogliamo peccare di cinismo, un titolo prestigioso per scegliere di accompagnare l’uomo alla fine dei suoi giorni. «In ospedale il malato è l’anello che ruota intorno al sistema. Nel percorso di cui stiamo parlando sono gli operatori a ruotare intorno al malato. L’uomo è immancabilmente al centro.
Non mi manca il prestigio del chirurgo. Sono nel posto dove volevo essere e quello che ritengo più fondamentale per il mio mestiere è essere credibile verso sé stessi e verso gli altri. La credibilità la leggi negli occhi dei tuoi pazienti e delle loro famiglie, condividendo quel pezzo di strada che porta al passo più importante delle nostre vite».

A casa o in hospice?

L’intervento di supporto alla terminalità attraverso le cure palliative può essere realizzato sia a domicilio che in hospice. Il dottor Alessandro Valle, 47 anni, cornordinatore del personale Faro, specialista in oncologia ed esperto in cure palliative, ci spiega: «La Fondazione Faro nasce a Torino nel 1983 per volontà di alcuni medici oncologi dell’ospedale San Giovanni Antica Sede. Dal 1989 avvia un programma di assistenza domiciliare medica e infermieristica, gratuita, ai malati oncologici in fase avanzata della malattia.
Nel 2001 apre al terzo piano dell’ospedale San Vito di Torino l’hospice con 14 stanze a un letto, con una poltrona per un familiare, per un totale di 10-20 posti. L’obiettivo è ricreare il più possibile un ambiente familiare, accogliente, che rispetti la dignità e l’integrità della persona.
Non esistono per questo orari precostituiti di visita e, per quanto possibile, si cercano di organizzare  momenti comunitari di intrattenimento».
L’hospice ha veramente un aspetto tranquillizzante. Situato nel verde della collina torinese, gode di una vista che, in qualche modo, rinfranca lo spirito. Il suo interno è l’espressione della «misura d’uomo». L’ambiente non è impregnato di quel nauseabondo odore medicalizzato degli ospedali, è impossibile perdersi perché troppo piccolo e ogni stanza è caratterizzata da un’icona floreale. Dall’iris al girasole, in un tutt’uno con l’idea che nulla muore per sempre, che bellezza e purezza sopravvivono anche al più drammatico degli eventi.
I luoghi della palliazione spaziano dunque dal domicilio all’hospice. Cosa li distingue e caratterizza?
«Le cure palliative a domicilio non hanno ragione d’essere se la famiglia stessa non è in grado di integrare le attività assistenziali. La famiglia è il peo su cui si basa l’intera cura.
Peo di appoggio pratico, affettivo e psicologico. Si potrebbe definire un’azione congiunta di mini équipe con la famiglia. Coordinazione e dedizione assoluta di ambo le parti conducono a un accompagnamento armonico. Le famiglie che non possono garantire tale impegno si rivolgono all’hospice».
Sono persone sole, senza famiglia i degenti dell’hospice? «Assolutamente no. I malati cosiddetti  “soli” sono sinceramente rari ma non tutte le famiglie, per quanto numerose possano essere, hanno possibilità di tempo e disponibilità emotiva per  seguire l’evoluzione della malattia  oncologica, in particolar modo in area metropolitana».

testa e cuore

Quale profilo professionale e umano è più consono all’operatore di cure palliative e su che criteri si basa la selezione del personale?
«Dopo anni di lavoro posso dire che il neolaureato o il medico con troppa esperienza non si confà al profilo giusto del candidato. Il primo perché non ha ancora acquisito una certa scioltezza nella professione e non ha gli strumenti giusti per trattare casi delicati.
Per contro, la troppa esperienza pecca a volte di rigidità mentale, di schemi prefissati e di poca flessibilità. Inoltre viene detto un no categorico a chi desidera collaborare con noi in attesa di altro nella propria vita: concorsi, master, etc. Su questo siamo tassativi, chi sceglie questa strada non può farlo per  poco tempo e con leggerezza».
Quali allora i giusti ingredienti? «Motivazione, competenza e inclinazione alle relazioni umane. Senza questa triade non esiste il medico o l’infermiere di cure palliative. Per quanto concee il medico non viene richiesta una determinata specializzazione. Chi viene da noi a cercare lavoro si mette al servizio dell’umanità più fragile, più ferita. Deve farlo con testa, cuore, elasticità mentale e di tempo. L’orologio perde il suo significato, il tempo acquista valore in quanto le giuste parole servono a curare quello che la medicina non può più guarire. L’esperienza, poi, chiude il ciclo. Aiuta a trovare soluzioni, gesti e complicità anche nei momenti più disperati».
Ma in questo olimpo di umanità, ci sarà qualcuno che prova a sbarcare il lunario per convenienza e non per sincera attitudine. «Le persone che non dichiarano apertamente di voler far altro nella vita e si improvvisano medici o infermieri di cure palliative hanno vita breve.
Sono loro stessi a rendersi conto che se non si ha una forte motivazione è impossibile convivere quotidianamente con la morte. Inoltre i nostri operatori, una volta superato il colloquio, sono sottoposti a un periodo di formazione e tirocinio della durata di cinque settimane, complessive di 30 ore teoriche globali e un duro tirocinio articolato in quattro settimane presso il servizio domiciliare e una in hospice. Dopodiché devono superare un esame e altri sei mesi di prova.
Questo iter serve a palesare anche il più piccolo disagio e a scoprire il vero talento dal fasullo».
La gente che prende posizioni nette nella vita o che, come in questo caso, fa scelte forti spesso è unita da un sentire comune, da una sorta di appartenenza a una stessa filosofia di vita. Cosa distingue il file rouge degli operatori Faro? «Oserei dire un pizzico di follia, nel senso di essere un po’ anticonformisti, di non essere allineati, di privilegiare la ricerca del  senso delle cose della vita, rispetto all’etichetta, al prestigio esteriore.
Ognuno di noi, per una ragione o per l’altra, ha fatto una scelta di rottura rispetto a ciò che era o faceva prima, abbandonando spesso luoghi di cura dove non esprimeva al meglio il proprio potenziale».
senza camice

Scelte alternative, dunque, come alternativo e controcorrente è lo stesso fatto di non nascondersi dietro il camice bianco, ma di essere sempre in borghese. Nel servizio domiciliare  come in hospice.
Una prospettiva meno autorevole, più accessibile che rinuncia al «costume» come identificazione di uno status sociale, censurando così tutte quelle dinamiche che il camice stesso crea: divisione, rottura, freddezza. E, in fin dei conti, poca utilità.
Sono le parole di Raffaella Oria, 35 anni, da 10 anni infermiera Faro, a dipingere al meglio quanto le interrelazioni emotive non necessitino di travestimenti.
«Già nei quattro anni in cui lavoravo come infermiera presso il reparto di ginecologia oncologica del Sant’Anna di Torino, sentivo l’esigenza di fermarmi di fronte alla terminalità. Era come se una spinta intea, molto viscerale, qualcosa di somigliante al mio io più profondo, mi invitasse a spostare il paravento o ad aprire la porta di una stanza in cui stava avvenendo un decesso.
Volevo essere lì e far sentire la mia presenza fisica e mentale». Parole e aspetto di Raffaella Oria non tradiscono il suo potenziale umano. E non stupisce che lavorare con i malati terminali sia da 10 anni la sua missione.
Abbiamo avuto modo di seguirla da vicino, a domicilio, e ho sperimentato quell’energia carezzevole, femminile, fatta di un universo interiore che si muove a passi di danza, in una terra di passaggio. Dove di quella danza c’è un bisogno infinito. «L’esperienza domiciliare mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio la mia inclinazione ai rapporti umani e di responsabilizzarmi professionalmente. Senza nessun camice, esponendomi in prima persona per quello che sono realmente. Posso dire che è stata la vita stessa e l’esperienza a formare la mia umanità più vera. Quella che, oggi, riesce a intervenire nei momenti più complessi, a cogliere un disagio psicologico della famiglia, a cercare il giusto conforto. Dieci anni fa non sarebbe stato lo stesso».
Le abbiamo visto fare un gesto di cura e di amore. Che non posso dimenticare. Era il commiato fisico ad un corpo ormai senza vita. La tenera ricomposizione di quest’ultimo. Forse non rientra più nella sua sfera di competenza, perché lo fa?
«Un corpo non è solo un oggetto esanime, bensì una vita intera. Fatta di tanti fotogrammi che compongono un ciclo di amore, di pensieri, di speranze. E, purtroppo, è un corpo ferito dall’abuso sanitario. Merita un ultimo saluto dignitoso, una carezza che possa estendersi dall’ultimo respiro in poi. Tecnicamente rimuovo gli eventuali dispositivi (medicazioni, cannule endovenose o catetere) e poi provvedo all’igiene del corpo e, se la famiglia lo desidera, alla vestizione. I tempi sono fondamentali.
Non esiste fretta ma una dolce fluidità. Un ultimo, lungo saluto che soffia ancora di vita».
Dopo tanto morire, ci sono dei momenti in cui si rischia il bu-out (dall’inglese bruciarsi: lento processo di logoramento che porta a non disceere la propria vita da quella delle persone a cui si bada)? Come comportarsi?
«Mi è capitato di avere nello stesso anno quattro casi di pazienti anagraficamente simili a me. Questo, alla lunga, sfocia in un meccanismo di immedesimazione e di grande fragilità. La soluzione? Chiedere ferie e farsi aiutare dai colleghi, snellire il carico di lavoro o prendere in cura pazienti di diversa fascia anagrafica».
Cosa le ha insegnato questo lavoro, cosa si porta dietro nel suo quotidiano?
«Mi ricorda, in ogni istante, di vivere sempre il momento. E di farlo nel miglior modo possibile, dando la priorità alle cose che veramente contano».

«ascensori dell’anima»

Ma se le cure palliative servono a prendersi cura fisicamente ed emotivamente del paziente e della famiglia, esiste da qualche parte una «palliazione» dell’anima?
Ne parliamo con Gianpaolo Paoletto, 41 anni, cappellano dell’ospedale Molinette (San Giovanni Battista di Torino) e assistente spirituale in hospice Faro.
«Il nostro tempo è caratterizzato dall’incapacità del non fare. È un tempo inscatolato in cui diventa fattore ansiogeno trovare uno spazio libero per la mente e per il cuore.
La profondità di noi stessi è ciò che più inquieta l’uomo moderno. Che anche di fronte alla morte continua a ricercare l’azione per far finta che nulla di trascendentale si stia verificando».
Quale potrebbe essere allora un accompagnamento spirituale per l’uomo che sta compiendo i suoi ultimi passi?
«Smettere di vivere la vita in una prospettiva orizzontale, prendere l’ascensore in salita e in discesa, per accedere a quei meandri interiori del nostro io assoluto, che mai come in quel momento dovremmo conoscere. Solo così è possibile una sorta di pacificazione, seppur estremamente difficile.
Non è compito dell’uomo di fede indottrinare il malato terminale ma è parte della sua missione aiutare a trovare delle risposte, a chiarire alcuni interrogativi sulla vita e sulla sofferenza. Questo lo si può fare solo se si fuoriesce da una rigidità mentale e si allarga la prospettiva della spiritualità. Essendo di conforto all’uomo, a prescindere dal credo personale».
In un  film capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman «Sussurri e grida», dove la tematica è l’agghiacciante terminalità della giovane protagonista, il colore rosso delinea propriamente questo tunnel verso l’interno dell’anima. E l’unica consolazione finale è il rapporto umano, quello sincero della donna con la governante, complice per esperienza personale di tale dolore.
È l’unica in grado di accompagnarla amorevolmente verso l’epilogo.
Questo viaggio verso l’anima può essere veramente facilitato da un’autentica relazione umana?
«Certamente. La relazione profonda tra due esseri si incontra esclusivamente nell’autenticità. E quando questo accade in prossimità della fine di una vita, assume un aspetto miracoloso.
Spesso incontro malati che vorrebbero sul serio prendere quest’ascensore verso la propria profondità ma sono gli stessi familiari a non consentirlo, occupandogli e occupandosi assurdamente il poco tempo che resta. Un ulteriore escamotage per nascondere le proprie paure».

Per Non perdere l’identità

Il timore di esprimere la propria fragilità, di ammettere di essere in scadenza ci toglie la leggerezza, ci rende responsabili di fronte a parole che mai avremmo pensato di poter pronunciare. Con un padre, un figlio, una moglie. E non sempre si trovano consolazioni anagrafiche, magari legate alla senilità, davanti alla notizia di una malattia incurabile.
A volte si incontrano famiglie con bambini o adolescenti a cui la malattia dei genitori segna profondamente un momento della loro esistenza, e non solo.
In questo senso il lavoro organico della mini équipe di cure palliative è pronto a richiedere, davanti a un particolare disagio emotivo all’interno di una famiglia, il supporto di uno psicologo.
«L’obiettivo del nostro lavoro è quello di aiutare il malato a trovare un punto emotivo di quiete, conducendolo al trapasso senza un’eccessiva disperazione.
L’approfondimento psicologico nei confronti del paziente o della famiglia aiuta a veicolare quelle che sono le effettive necessità, i bisogni inespressi della persona e a restituirgli il senso della propria storia». Così racconta Stefania Chiodino, 50 anni, cornordinatrice degli psicologi in Faro.
«La malattia sgretola, avvilisce e svilisce. Inizia scardinando l’autostima in termini fisici, esteriori, e poi si scava un percorso nelle pieghe più intee per colpire l’autentica identità della persona. Il nostro operato cerca, per quanto possibile, con la collaborazione dell’interessato, di riavvolgere quel nastro vitale e di agire sull’autostima del soggetto per aiutarlo a rivalorizzarsi e a riconoscersi».
Come avviene un cammino del genere? «Solo con una stretta relazione, il tempo e la fiducia reciproca. Un esempio: per un nostro paziente riconoscersi corrispondeva al piacere culinario. Per lui è stato un momento di autenticazione personale vedere come tutta la nostra équipe partecipasse alla preparazione del suo piatto preferito. Piccole cose di ogni giorno, semplici, ma che ridanno personalità a una vita».
La terminalità è una fase della vita sui generis, esula dalle condizioni psichiche ordinarie. Ci sono silenzi del malato a cui l’altro non sa come rapportarsi. Esistono chiavi di lettura e parole giuste per un commiato da una persona amata?
«Non ci sono strategie. L’esperienza mi ha insegnato che a volte quel silenzio che il parente legge come tormento è in realtà un’assenza. In un posto lontano, forse una vera terra di confine, dove l’uomo sente meno dolore.
Il nostro lavoro non è nel consigliare frasi d’effetto ma nel capire le necessità dell’altro e, se queste riguardano il commiato, favorie la realizzazione nel modo più sereno possibile».
Un intervento che si può definire circolare. «Direi di si. Lo chiamiamo “Progetto protezione famiglia” e agisce, preventivamente, rivolgendosi a famiglie fragili, ossia con bambini e adolescenti all’interno, patologie psichiatriche, marginalità sociali, etc. Accompagnandole con programmi di sostegno psico-sociale fin dalla diagnosi della malattia, seguiamo i malati terminali e offriamo un servizio di supporto al lutto per contrastare la solitudine e prevenire il lutto patologico».

Un numero limitato di volte

C’è una frase di Paul Bowles tratta dal libro «Il tè nel deserto» che esprime questa incapacità dell’essere umano a ricordarsi di essere parte di una parabola che, prima o poi, metterà la firma al fondo della pagina: «Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti…  eppure tutto sembra senza limite».

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Milanesi con occhi a mandorla

Milano: quattro passi in «chinatown»

Lo storico «quartiere Sarpi», ormai conosciuto come «Chinatown» per la massiccia presenza di cinesi, è stato un esempio di convivenza multietnica, fino al 12 aprile 2007, quando è diventato teatro di scontro con la polizia. Varie associazioni lavorano per eliminare tensioni e pregiudizi; ma l’integrazione è ancora lontana: mentre i vecchi meneghini rimasti nel quartiere non hanno problemi, i giovani milanesi hanno paura di «contaminarsi».

Milano, una mattina d’inizio primavera. «Ve la dico io la soluzione ai problemi del quartiere: facciamo imparare ai nostri giovani il cinese e tutto si sistema». Nessuno si aspettava l’intervento di Luisa, sciura milanese 85enne, che con il suo trolley, come tutte le mattine da decenni, stava facendo ritorno a casa dal mercato rionale.
Alle parole di Luisa seguì un lungo momento di silenzio, interrotto dalla stessa donna: «Io, in quello che oggi voi chiamate Chinatown, ci sono nata e sto bene oggi come stavo bene allora». E i problemi, la viabilità spesso interrotta dalle merci scaricate dai grossisti, gli scontri che il 12 aprile di un anno fa hanno portato alla ribalta gli screzi tra la comunità cinese e i residenti italiani? «Niente di così esagerato come l’ha presentato la maggior parte dei mass media. Se a volte non si va d’accordo è perché non ci si capisce – replica l’effervescente signora -, per questo, oltre a dire a loro di imparare l’italiano, anche noi dovremmo imparare il cinese».
Magari fosse tutto qui. Il gruppetto di cinesi e italiani che, prima sbigottiti poi sorridenti, ascoltano le parole di Luisa, sa bene che di questi tempi le cose non sono così facili, anche se di strada ne è stata fatta e, poco alla volta, le cose nel quartiere stanno cambiando.

Il quartiere storico milanese tra la zona della Moscova, ovvero pieno centro, e il Cimitero monumentale, ha mutato volto in una mezza dozzina di anni, non di più. Quella che sembrava una piccola presenza, la comunità cinese, con i propri ristoranti, qualche parrucchiere e sparuti bazar di articoli vari, si è estesa in brevissimo tempo a macchia d’olio, rivoluzionando l’aspetto di decine di vie, comprese quelle più grosse, come via Bramante e la «famosa» via Paolo Sarpi. Ovvero, quella della rivolta, durata un pomeriggio, dei cinesi contro i vigili che sistemavano multe come fossero noccioline sui cruscotti dei furgoni di carico-scarico.
La vecchia Milano qui non esiste più, e l’appellativo Chinatown è più che corretto: 9 negozi su 10 e altrettante facce dei passanti provengono dal paese degli occhi a mandorla.
E l’integrazione a che punto è? «Per capire come stanno veramente le cose, bisogna andarci, a Chinatown» dice chi ci ha a che fare. Abbiamo seguito il consiglio. E il privilegio è stato quello di andarci guidati da un cinese, uno che quelle «nuove» vie le conosce bene: il nostro Caronte si chiama Zhang Xin, ha 29 anni ed è arrivato in Italia, da Shangai a Milano, quattro anni fa. Parla bene la lingua (anche se ammette di avere faticato parecchio), ha terminato gli studi e oggi di mestiere fa il fotografo professionista, la prima delle sue due passioni. «La seconda è il far cadere le barriere – esordisce strizzando l’occhio -. Proprio per questa ragione con altri ragazzi come me ho creato l’Associazione studenti cinesi di Milano».
Xin (è il suo nome, che in Cina segue il cognome) ha un buon ricordo del suo paese, ma vuole rimanere in Italia perché, oltre a piacergli e offrirgli sbocchi professionali, vuole essere utile ai suoi connazionali. Come? «Costruendo ponti di conoscenza reciproca». Per questo ha fondato l’associazione, di cui è presidente, e ha accettato di buon grado di accompagnarci per le vie della Chinatown milanese. Con lui, tre giovani «colleghi»: Lu Xiumin, ragazza 27enne che sta studiando design all’università, Liu Geng e Lu Xiao, 29 e 26 anni, studiosi di automazione al Politecnico.

Che il microviaggio si preannunci interessante lo si capisce dal primo incontro, quasi casuale, del gruppo: è un giornalista cinese, redattore di Europa China News, bisettimanale nato nel 2001 e voce autorevole della comunità del sol levante in Italia. Con lui un veloce scambio di battute, di più non può, deve chiedere il permesso al direttore che oggi non c’è.
Questioni di gerarchia, ma qualcosa si sente di dire: «La situazione è molto meno tesa rispetto a qualche mese fa; forse a breve si arriverà a un accordo per la questione delle merci dei grossisti». Sì, perché la gran parte dei problemi nasce da loro, quella miriade di negozi all’ingrosso che popola i marciapiedi delle strette vie di Chinatown, e che obbliga furgoni di ogni dimensione a fermarsi in mezzo alla via bloccando il passaggio di tutti gli altri malcapitati: automobilisti, motociclisti e persino mezzi pubblici come i tram.
Dopo mesi di tira e molla, la soluzione a cui accenna il giornalista cinese è quella concordata (sembra in via definitiva, ma non si può mai dare per certo) tra Comune di Milano e rappresentanti dei commercianti cinesi: tutti i negozi all’ingrosso verranno spostati a partire da prima dell’estate 2008 in una zona periferica del sud cittadino, nel quartiere Gratosoglio, e le vie di Chinatown diventeranno Ztl, zone a traffico limitato.
Un bel progetto, che rischia però di rimanere sulla carta, se tutte e tre le parti in causa non sono d’accordo. Tre, proprio così. Perché oltre ai cinesi e Comune, voce in capitolo la vogliono avere anche i residenti e i commercianti italiani del quartiere. Che, come è logico, vogliono vederci chiaro, a cominciare da Luigi Anzani, padrone della celebre cappelleria Melegari, da 90 anni in via Paolo Sarpi.
«Come cittadini prima e negozianti poi vogliamo essere tutelati – spiega l’Anzani dopo averci ricevuto tra centinaia di cappelli d’ogni epoca -. Prima cosa quindi la legalità, da qui nasce la convivenza». Parole che trovano d’accordo anche l’associazione Vivisarpi, gruppo spontaneo cittadino che si batte per la vivibilità del quartiere.
Poco più in là della cappelleria, un negozio di massaggi reiki è anche la sede dell’Associazione Cinesi in Milano, che ogni giorno espone i giornali locali e inteazionali in vetrina. «Basta discriminazione, siamo milanesi anche noi» dice il cartello appeso a lato del negozio.

Girato l’angolo, ci s’imbatte nella parrocchia del quartiere, quella della Santissima Trinità, condotta da tre sacerdoti tra cui don Dario Bolzani, 33 anni, che cornordina uno degli oratori più multietnici della città, tanto che, dal mese di aprile dello scorso anno, è stato affiancato da un prete cinese altrettanto giovane, il 30enne Li Jinsheng; grazie a lui la comunità mandarina, ogni domenica alle tre e mezza del pomeriggio, può seguire la messa nella propria lingua d’origine.
«Uno dei piccoli ma importanti passi per migliorare sempre più un’integrazione che già c’è» spiega don Dario. Per avvicinare ancor più i ragazzi, egli ha creato il brillante sito internet: www.parrocchiatrinita.it. Un’integrazione che significa convivenza pacifica, in cui non bisogna evitarsi ma, poco alla volta, cercare di conoscersi.
Nel frattempo, la visita prosegue. E le immagini, gli spunti sono davvero tanti. Poco più in là dell’ampia e bassa chiesa, due vigili in bicicletta entrano in un’erboristeria salutando con garbo la commessa. È un giro di routine, per controllare come va la «trasparenza» dei negozi, dopo l’ultimo spauracchio segnalato, quello delle erboristerie che si trasformano in cliniche dell’orrore, luoghi nel cui retro vengono praticati aborti illegali.
La segnalazione è arrivata da un’urgenza ospedaliera di una donna, poi salvatasi per il rotto della cuffia, a cui l’interruzione di gravidanza clandestina era andata male. Ma, nei controlli delle forze dell’ordine nei giorni successivi, non era stato trovato niente che potesse rimandare a tali pratiche. «Qualcosa sotto-sotto ci deve pur essere – afferma Gianni, 45enne italiano che a Chinatown fa affari con un’oreficeria -, ma come spesso accade, è l’alone di mistero attorno a una comunità chiusa come quella cinese che alimenta voci che poi, di bocca in bocca, rischiano di andare al di là della realtà».
Un esempio di quello che sta dicendo Gianni lo spiega, ridendo ma non troppo, uno dei personaggi più «importanti» del nostro viaggio: Hu Xiao, 40 anni, proprietario di una catena di market tra Milano e Torino, e di un centro di smistamento alimentari a Pero, fuori Milano. «Bella la barzelletta sui nostri morti, vero?» domanda Xiao con sarcasmo, rivelandoci di essere molto contrariato da quando, tempo fa, un quotidiano italiano ha pubblicato un articolo sui cinesi che non muoiono mai. «Avevo anche pensato di intentare una causa per diffamazione al quotidiano Libero, visto che pensa che i nostri morti li facciamo arrosto e li mettiamo a tavola – continua Xiao -. Sono stato due giorni fa a un funerale di un mio caro amico; al prossimo, invito tutta la redazione di quel giornale».
In Italia da 10 anni, il piccolo imprenditore cinese è un punto di riferimento nel quartiere per la sua serietà. «Vai da Xiao che sa tutto» è stato infatti il consiglio di uno dei grossisti di via Paolo Sarpi, quando il nostro traghettatore Xin gli ha chiesto di suggerirgli un rappresentante della comunità cinese da potere incontrare.

E il tempo passato con Xiao è stato molto istruttivo: ci ha fatto visitare il suo market di via Niccolini, tenuto in modo impeccabile. «Ogni dieci giorni riceviamo una visita della Asl – spiega -; le multe per qualsiasi errore sono salate, sui 3mila euro; ma è un bel po’ che non le prendiamo». Ci permette pure di parlare con i due commessi e con la giovanissima cassiera, che quasi con vergogna si scusa per non riuscire a parlare italiano: «Meno male che quasi tutti i nomi dei prodotti sono in doppia lingua e i prezzi bene in vista» riesce a dirci con l’aiuto di Xin.
Soprattutto Xiao ci ha raccontato la sua storia. «Vengo dalla campagna attorno a Shangai, come il 95% della gente di Chinatown» spiega mentre ci consegna il suo biglietto da visita, in cui spicca la scritta Group Hu Italy. «Ci chiamiamo quasi tutti Hu, siamo così numerosi che abbiamo superato i Brambilla, il cognome milanese per eccellenza» scherza l’imprenditore cinese.
Lui, le dinamiche dell’immigrazione mandarina in Italia (oggi il 5% del totale) le conosce bene. «La nostra famiglia in Cina si indebita fino al collo per farci venire qui – continua Xiao -. Quando arriviamo, ci facciamo ospitare da conoscenti e alla prima opportunità di lavoro ci dedichiamo 24 ore su 24, per saldare prima possibile il debito familiare». A molti va male, devono tornare in Cina. Xiao, invece, è uno di quelli che ce l’ha fatta, ha una piccola fortuna. «E ora che posso, cerco di dare lavoro a più connazionali possibili» conclude.
Proprio mentre dice ciò, gli si avvicina un cinese di mezz’età, chiedendogli qualcosa. Dopo qualche minuto, una stretta di mano e Xiao lo saluta. «Fa il muratore, ma ha problemi di permesso e non trova un impiego serio, spero di poterlo aiutare» chiarisce in un italiano impeccabile. «È vero che pochissimi cinesi sanno l’italiano, ma guai a fae loro una colpa – aggiunge -. Lavorano tutto il giorno a contatto solo con connazionali, la sera crollano di stanchezza. Quando trovano il tempo di studiare la lingua?».

A questo punto sopraggiunge la sciura Luisa, si ferma e, appoggiandosi al suo bastone, s’intromette di nuovo per dirci con il suo forte accento milanese: «È gente perbene, questa. Vivo nel palazzo qui a fianco da 50 anni, posso garantirlo»; e così dicendo, rivolge lo sguardo all’imprenditore, che ricambia con un ampio sorriso. Lei conosce Xiao, così come lo conosce Guido, 84 anni; questi, mentre Luisa parla, s’intrattiene con Geng (uno dei quattro ragazzi dell’associazione) per imparare formule di saluto cinesi, che poi ripete in modo molto buffo.
Xiao e i suoi giovani dipendenti cinesi, Luisa e Guido sono gli ultimi incontri di questo «passaggio» da Chinatown. «C’è qualcuno che manca all’appello – aggiunge Guido -. Sono i ragazzi italiani. Qui per le strade non se ne vedono da tempo, ed è un peccato: non possiamo essere solo noi anziani a dialogare con i giovani cinesi; devono farlo loro, prima che sia troppo tardi». Può darsi che abbia ragione. Forse per superare le incomprensioni bisognerebbe parlarsi, e «contaminarsi» un po’ di più. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




La terra dei passerotti

Majune: una missione a tutto campo

Da 3 anni tre missionari della Consolata si sono stabiliti nella missione di Majune, nel cuore del Niassa. Sono chiamati a sanare le ferite lasciate da decenni di violenza, per ricostruire nel tessuto sociale i valori di solidarietà e gratuità. Un lavoro duro, ma non impossibile.

Il distretto di Majune, a 150 km da Lichinga, capoluogo del Niassa, è il luogo in cui lavoro. Il suo nome mi aveva incuriosito sin dai primi tempi del mio arrivo, finché un giorno un anziano me ne spiegò l’origine.
Due secoli fa, Mataca, regolo del popolo ayao, voleva aumentare il numero dei suoi sudditi, favorendo l’immigrazione di gente proveniente dal sud del Niassa. Ma i nuovi arrivati rimanevano nei villaggi un anno o due e poi se ne andavano via, con vivo dispiacere del capo, che un giorno gli scappò detto: «Vengono, rimangono un poco e volano via proprio come i majune». I majune, infatti, sono degli uccellini gialli, tipici di questa regione. E da allora la zona cominciò a chiamarsi «Mataca Majune», terra dei passerotti di Mataca, e più tardi solo Majune.
«Povertà assoluta»
Gli economisti definiscono la maggioranza dei contadini mozambicani «poveri assoluti», perché vivono con meno di un dollaro al giorno. Per il contadino più povero, un dollaro deve servire per mangiare non uno, ma tre giorni; ciò significa che, prima o poi, qualcuno della sua famiglia morirà di fame.
Tale «povertà assoluta» è una conseguenza di decenni di guerra, prima per raggiungere l’indipendenza dal colonialismo, poi di conflitto civile che ha dissanguato il paese; ma è frutto anche di arretratezza. Buona parte dei contadini, infatti, hanno a disposizione solo la zappa; non conoscono né concimi né irrigazione; per avere un buon raccolto, devono sperare nella pioggia. Quando l’annata è buona, raccolgono qualche quintale di cereali e qualche chilo di fagioli, giusto il necessario perché la propria famiglia possa sopravvivere. Ma se le piogge non sono regolari, arriva la fame, soprattutto per bambini e anziani.
A Majune la fame non è occasionale, ma ricorre ogni anno e colpisce con violenza quasi tutte le famiglie contadine, che costituiscono la maggioranza della popolazione del distretto.
La fame costringe noi missionari ad assistere a spettacoli strazianti: persone che svengono al mercato, solo a vedere il cibo in vendita, ma che non possono comprare, perché hanno le tasche vuote; una mamma che prepara il pasto per due bambine bollendo qualche foglia di patata nella speranza di «ammazzare la fame»; una vecchia tutta pelle e ossa, con una zappa in spalla che va in cerca di qualche radice; neonati che piangono in continuazione, perché da giorni la mamma non ha più latte da dargli e il papà se n’è andato chi sa dove…
Una domanda assilla da tempo la mia mente: com’è possibile tutto questo? La regione di Majune non è una zona desertica; anzi, la terra è nera e fertile, vi scorrono due fiumi importanti e vari torrenti e ruscelli, tutti ricchi di acqua e pesce. Ci sono terreni umidi, adatti all’orticoltura o alle risaie. La savana è ancora ricca di cacciagione. Le piogge non mancano, anche se non iniziano e cessano con puntualità cronometrica.
Allora perché la fame? Ho voluto fare qualche domanda alla gente del posto. Un vecchio contadino mi ha risposto: «Un tempo non c’erano le carestie che sperimentiamo in questi anni, perché i vicini si aiutavano l’un l’altro. Quando, per esempio, il proprietario di un campo doveva assentarsi, ci pensavano le famiglie più vicine a vigilare le coltivazioni perché non venissero danneggiate da babbuini, elefanti e ippopotami. Oggi invece, bisogna guardarsi dai vicini più che dagli animali selvatici».
Un anziano portoghese ormai trapiantato in Africa ha aggiunto: «Quando il Mozambico era una nostra colonia, non riceveva tutti gli aiuti che riceve oggi. Anzi, era proibito ai portoghesi esportare capitali nelle colonie, perché queste dovevano essere autosufficienti. Certo, i missionari portavano avanti le loro attività come fanno oggi, ma a livello governativo, la colonia doveva arrangiarsi con i propri mezzi».
Anche alcuni dei nostri animatori fanno autocritica: «I nostri campi producono poco perché siamo pigri. Potremmo dedicarci molto di più alle colture, per organizzare un sistema d’irrigazione, togliere le erbacce, rinforzare le recinzioni, concimare con il letame… Invece, molti di noi passano il tempo nelle bettole. E poi sprechiamo il cibo. Quando i granai sono pieni, tanta gente consuma più del necessario e, magari, baratta sacchi di mais con bottiglie di bevande alcoliche, senza preoccuparsi di conservare le scorte fino al prossimo raccolto».
VALORI APPANNATI
I mozambicani non amano intristirsi con preoccupazioni economiche e politiche; è gente che, anche di fronte alle avversità, preferisce conversare e ridere insieme, meglio se davanti a un fuoco e a una bevanda. Inoltre, l’ospitalità è ancora un valore: il viandante affamato può bussare a una qualsiasi porta e la padrona di casa non gli farà mancare un po’ di polenta con fagioli e un bicchiere d’acqua, anche se ha tanti figli da sfamare e l’acqua deve attingerla, un secchio alla volta, da un pozzo lontano. Se uno ha un problema con la bicicletta o la moto, può sempre contare su un passante che si ferma per aiutarlo, con grande profusione di sudore e allegria.
Soprattutto, il Mozambico è un paese giovane: buona parte della popolazione mozambicana ha meno di 15 anni. E Majune non fa eccezione: basta entrare in un villaggio e si è subito attorniati da un nugolo di bambini.
Solidarietà e famiglia sono ancora valori fondamentali nei villaggi di Majune, come nel resto della società mozambicana. Ma siamo molto preoccupati, perché vediamo che tali valori si stanno sgretolando. In molte famiglie i bambini crescono in una specie di anarchia; i genitori tentano, a volte, di intervenire per richiamarli all’ordine, ma non riescono a farsi rispettare; forse anche perché non sempre danno il buon esempio e non sempre si interessano del benessere dei propri figli.
Di conseguenza, una volta cresciuti, molti figli non si occupano dei genitori, specie quando sono anziani. E quando si indebolisce la solidarietà familiare, viene meno anche la solidarietà verso le fasce più deboli della società, come malati, poveri, drogati.
In un villaggio di Majune, un giovane drogato, sorpreso mentre rubava, è stato bruciato vivo dal proprietario del negozio; l’assassino è in libertà, perché nessuno ha voluto testimoniare contro di lui, sebbene l’omicidio sia stato compiuto di fronte a molta gente. La domenica seguente, in chiesa, durante la messa, nessuno ha ritenuto fosse il caso di denunciare tale misfatto; l’ho fatto io negli avvisi parrocchiali, suscitando sorpresa e stupore tra la gente.
LA «MANO TESA»
Una volta non era così. Esisteva la «famiglia allargata», dove tutti si aiutavano in caso di bisogno: genitori e figli, zii e nipoti, cugini e altri membri della parentela. Oggi, nella «famiglia nuova», non sono molti i genitori che hanno la fortuna di avere figli che si prendono cura di loro. Ho incontrato tanti anziani che hanno figli benestanti, funzionari pubblici o commercianti, che si sono dimenticati dei propri genitori.
Anche questa situazione è una delle conseguenze della lunga guerra civile (1977-1992). Tanta gente è stata costretta ad abbandonare la propria casa per fuggire dalla violenza, creando la mentalità del «si salvi chi può», costringendo gli sfollati a pensare solo a salvare la propria pelle. Senza contare che molti bambini sono cresciuti da soli, orfani, senza avere altri valori di riferimento se non quelli della violenza e del sopruso. La guerra ha diviso famiglie, distrutto valori, fatto crescere una generazione priva di istruzione ed educazione morale.
Insieme all’egoismo, si sta affermando, a Majune come nel resto del paese, anche una «cultura della mano tesa». Se un bianco entra in un bar, o cammina per strada o viaggia in treno o in bus, incontra sempre qualcuno che tende la mano per chiedere un aiuto. E non sono solo i poveri.
La «mano tesa» sta diventando un malore endemico anche ai livelli più alti della società, da quando piovono gli aiuti inteazionali, in dollari o euro, per la ricostruzione delle strutture del paese, per iniziative di sviluppo nei 138 distretti in cui è organizzata l’amministrazione del Mozambico, per mantenere 140 mila funzionari, insegnanti, poliziotti, netturbini…
Tali aiuti sono indispensabili per evitare il fallimento di tutta la nazione; ma provocano pure il fenomeno della corruzione a tutti i livelli e, soprattutto, la diffusione della «cultura della mano tesa», che a sua volta affievolisce l’iniziativa privata e aumenta il complesso di inferiorità.
Mi è capitato spesso di vedere persone sgranare gli occhi per lo stupore di vedere un bianco andare a piedi o in bicicletta, o viaggiare nel cassone di un camioncino. Qui il bianco che si rispetti viaggia comodamente nella propria automobile. Anche più scioccante è stata l’espressione pronunciata da un alunno delle classi superiori della scuola di Majune: «Ci è andata male: siamo nati negri».
Non tutti i mozambicani si fanno abbattere dai pregiudizi razzisti; c’è anche chi lavora sodo per migliorare la propria situazione economica; ma anche in questo caso può capitare che amici e parenti lo apostrofino: «Adesso, vuoi metterti a fare il bianco mentre non sei altro che un negro come noi?». Se qualche amico apprezza il suo successo, gli chiede, magari, l’indirizzo dello stregone che gli ha procurato la fortuna.

Essere missionari a Majune

È questo l’ambiente in cui noi missionari della Consolata ci troviamo a lavorare; e non è un lavoro facile. La missione di Majune conta 42 villaggi: 14 di essi hanno una comunità cristiana di una certa consistenza; altri tre villaggi contano appena uno o due cristiani, spesso infermieri o insegnanti di passaggio, in attesa di essere trasferiti in luoghi più comodi.
La missione non è nuova. È stata fondata nel 1965; è intitolata a Santa Isabel (Santa Elisabetta), regina di Portogallo. Ma noi missionari della Consolata siamo presenti dal gennaio 2005 con una équipe stabile, formata da tre missionari: il padre kenyano Felix Odongo, il brasiliano fratel Ayres Osmarin e il sottoscritto, missionario laico, incaricato della caritas parrocchiale.
I missionari che ci hanno preceduto avevano avviato numerosi progetti di evangelizzazione e promozione umana: scuole, centri per la nutrizione infantile, allevamenti di bestiame, orti, corsi di taglio e cucito… Ma la guerra e poi la partenza dei missionari, ha provocato il fallimento di vari progetti, anche perché la popolazione non si è sentita interessata. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci tolga le bende dagli occhi» mi confidava un vecchio catechista.
È quello che vogliamo fare. Fin dall’inizio della nostra presenza a Majune abbiamo spiegato ai nostri parrocchiani che vogliamo lavorare insieme a loro, meglio ancora in progetti proposti da loro stessi, piuttosto che da noi missionari.
Uno dei primi progetti intrapresi riguarda la cura dei poveri, vedove, orfani, anziani soli, malati cronici. Non si è trattato di togliere le bende dagli occhi, ma anche dalla mente. Molti cristiani (e musulmani) pensano che aiutare i più bisognosi sia un compito esclusivo dei missionari. Ma noi abbiamo insistito e continuiamo a insistere che in ogni villaggio è tutta la comunità, cristiani e musulmani insieme, che deve farsi carico dei più diseredati. Per questo andiamo spesso nei villaggi, parliamo con i capi tradizionali, con gli imam musulmani e gli animatori cristiani e insieme visitiamo i bisognosi e decidiamo insieme come aiutarli.
Per gente abituata a chiedere aiuti, ma riluttante a dare qualcosa gratuitamente, non è facile far capire il valore della gratuità. Eppure qualcosa si sta muovendo: alcuni animatori hanno smesso di chiederci un po’ di tutto e ci sostengono nel convincere la popolazione dei propri villaggi a rivitalizzare e promuovere un minimo di solidarietà. Anzi, sono passati all’azione concreta: in alcuni villaggi gli incontri di preghiera sono accompagnati dalla raccolta di cereali, legumi e qualche soldo da destinare ai poveri. Oppure rivolgono appelli per chiedere che qualche volontario si presti a fare qualche lavoro a favore di chi non è più in forze. E c’è sempre qualcuno che si offre. Perfino i musulmani si sono uniti ai cristiani e, dopo la preghiera del venerdì, raccolgono cibo e denaro.
Da alcuni mesi abbiamo lanciato in 12 villaggi un progetto per aiutare i malati di Aids e i bambini che hanno perso i genitori a causa di questa malattia. Nel progetto lavorano 24 animatori (due per ogni villaggio) e vi sono coinvolte 180 famiglie che si occupano di oltre 350 bambini orfani.
Ma l’impegno più urgente è la formazione del personale coinvolto nelle varie iniziative. Non si tratta solo di spiegare la natura e le conseguenze della «malattia del secolo», ma di fornire anche gli strumenti più elementari per la sopravvivenza. Per questo i nostri formatori sono preparati per insegnare le tecniche più semplici di agricoltura, orticoltura, zootecnia, igiene, nutrizione infantile, conservazione dei raccolti e qualche trucco di… mercato.
In generale sono le donne che frequentano tali incontri di formazione. Alcune seguono con attenzione, mentre altre sono sopraffatte dal sonno. Quando però si parla di soldi, sono tutte sveglie: viene loro spiegato che, se vendono una tanica di mais nel mese di aprile, ricavano 510 meticais (14 euro), nel mese dicembre, invece, il prezzo sale a 2.550 meticais (72 euro), una somma sufficiente per comprare una bella bicicletta.
Il nostro impegno più importante, tuttavia, è l’evangelizzazione. Per questo abbiamo bisogno di formare catechisti e animatori maturi e responsabili. Anche sotto questo aspetto c’è bisogno di togliere le bende dagli occhi e dalla mente. Per qualcuno, infatti, l’incarico di animatore della comunità è sentito come un’investitura paragonabile a quello di un capo tradizionale, col rischio della ricerca del potere, invece della disponibilità al servizio.
Anche in questo campo il lavoro non è facile e non mancano i momenti di scoraggiamento. Eppure facciamo nostro un motto ormai in disuso: la lotta continua, per formare comunità cristiane sempre più mature, responsabili e solidali. E speriamo di farcela. 

Di Paolo Deriu

Paolo Deriu




LE ORME DI LAETOLI

Museo etnografico / Contemplando una vetrina…

La vetrina in questione racchiude un calco con le orme di un adulto e di un bambino, risalenti agli albori dell’umanità. È uno delle migliaia di oggetti che i missionari della Consolata hanno raccolto in oltre 100 anni di presenza tra popoli e culture diverse e li conservano nel loro Museo. Una autentica «finestra sul mondo».

«Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo…». Così si espresse l’antropologo Tim White in un suo rapporto a un gruppo di studiosi ricercatori, e continuò: «Orme come quelle di esseri umani modei. Se ce ne fosse una su una qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che si tratta di orme lasciate da qualcuno che camminava. Non le troverebbe differenti da altre centinaia».
Il calco di queste orme lo si può ammirare anche a Torino, Corso Ferrucci 14, nel Museo etnografico dei missionari della Consolata. In un silenzioso angolo di questo ricchissimo museo è obbligatorio fermarsi di fronte a una speciale vetrina, che riporta quanto successe agli albori dell’umanità. È un angolo d’Africa trasportato tra noi, incurante dello sferragliare dei tram e dello stridio delle gomme delle auto transitanti nel corso.
Mi son fermato, per lungo tempo, di fronte a questa vetrina e ho sognato. Ma un sogno vero, accaduto 3 milioni e mezzo di anni fa…

Siamo in una sperdutissima località che oggi i tanzaniani chiamano Laetoli. Il vulcano non troppo distante chiamato Sadiman, ha eruttato un’ennesima fitta nube di ceneri di carbonatite: una sostanza simile a quella di una nostra spiaggia dalla sabbia molto fine.
Sul terreno rimane un sottile strato di poco più di un centimetro. Poi cade la pioggia. La cenere si impregna di acqua, formando come una pastina di cemento fresco. Creature, abitanti nei dintorni, cominciano a muoversi e a imprimere le loro orme su questo strato di ceneri: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri, struzzi, uccelli, insetti… e creature umane.
Lo strato di cenere si indurisce presto al sole e, prima che torni a piovere, un’altra eruzione e un’altra ancora in un tempo non lungo, forse poco più di un mese. Lo spessore raggiunge i 20 centimetri. Venti centimetri di polveri vulcaniche in balia del vento, ma anche terreno fertile per la crescita, in tempi dovuti, dei primi licheni.
Passano gli animali e passano anche gli uomini. Sulla regione cade per sempre il silenzio, dopo che i vulcani hanno tuonato per l’ultima volta. E il silenzio dura per 3 milioni e mezzo di anni fino a un certo giorno del 1935.
Quella mattina la valletta verde di Laetoli si sveglia da un sogno. C’è un bianco venuto da Nairobi alla ricerca di qualcosa da incuriosire la fretta degli antropologi, che in tutta l’Africa si danno da fare per scoprire gli «albori dell’umanità». Il suo nome è Louis Leaky, un pastore protestante che ha anche contagiato la moglie Mary della stessa sua passione.
Come un segugio in cerca di preda, Leaky osserva e accatta roba quasi incomprensibile. Poi eccoti un bell’esemplare. «Un canino di vecchio babbuino» lo definisce senza troppo pensarci; e con questa etichetta lo spedisce in «omaggio» al British Museum di Londra.

Quel dentino restò pacifico, nascosto tra i tanti altri, fino al 1979, quando un giovane studioso, Tim White, lo notò e lo studiò a fondo. Quel dente finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide (superato poi dalla scoperta di «Lucy» e altre poche più recenti). Se Leaky l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Sulla scia di Leaky, si fece avanti un tedesco, Kohl Larsen, il quale a sua volta raccolse un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare detto reperto come quello di una scimmia antropomorfa. Era infatti inconcepibile per gli studiosi ante guerra (si tratta di studiosi di oltre 50 anni orsono) pensare a fossili del genere Homo o Ominide vecchi di milioni di anni.
Povero Leaky e povero Larsen! Avevano la gloria in tasca e non lo seppero mai.
Ma fortuna e gloria stavano bussando in casa Leaky: ad aprirla fu la moglie. Nel 1979, Mary Leaky decise di fare un ennesimo safari a Laetoli in cerca di materiale. Aveva addestrato un autentico fenomeno kenyano, Kaymoya Kimeu, a conoscere i fossili. Non ci vollero molti giorni e Kimeu portò a Mary un bel fossile di ominide. Il gruppo di ricercatori si ingrossò e il caiere si riempì di 42 denti di ominidi e un teschio con infissi ben 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce era come il fossile ominide LH4.

M a Laetoli riservava una incredibile sorpresa. Il gruppo di ricercatori, annoiati da tanto sole e assai poco divertimento, presero un giorno a giocare alla… guerra. I proiettili usati consistevano nell’abbondante sterco di elefante disseminato in quell’area. A un certo punto, un giovanetto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e raccattava dal suolo… munizioni, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò come una statua a contemplare delle impronte che egli definì subito come orme di animali…
Dovette trascorrere un altro anno, quando Philip, figlio della Mary Leaky, scoprì altre tracce che somigliavano sospettosamente a orme di… piede umano.
Mary Leaky diede la notizia al mondo, esagerando forse e giocando di fantasia: parlò addirittura di primi uomini in viaggio verso un ipotetico pozzo d’acqua e di animali impauriti, che fuggivano di fronte all’incombente pericolo del vulcano eruttante. Qualche antropologo rise sotto i baffi, perdonando alla Leaky il troppo sole equatoriale dei suoi tanti anni africani; ma un’esperta americana, Louise Robbins, accettò di unirsi al gruppo per ulteriori ricerche. Le orme trovate, fotografate e poi studiate con calma, finirono di creare disaccordo. Una di esse, però, trovata da un certo Paul Abell, aveva caratteristiche assai strane. Meritava di continuare la ricerca.
Ma esasperazione e disaccordo avevano ormai raggiunto il culmine. Mary Leaky diede ancora, ma a malincuore, il permesso di cercare e scavare. «Un piccolo scavo – disse Mary -, ma piccolo piccolo». Era così sicura che non ci fosse altro da trovare, che affidò il compito a Ndibo, un africano pacioccone addetto alla pulizia del campo base.
Ndibo si mise al lavoro, imitando come per scherzo i suoi «professori». Toò il giorno dopo tutto giulivo e disse alla Mary: «Vieni a vedere, mama Mary, ho trovato due orme: una grande e una piccola».
Pur credendo che si trattasse di uno scherzo, Mary andò a vedere e rimase con gli occhi sbarrati. Le orme si dirigevano verso nord, in un intrico di vegetazione, protetto da una zona erbosa. Il gruppo si precipitò con rinnovato entusiasmo al lavoro di pulitura: orma dopo orma, con certosina pazienza, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine apparvero più di cinquanta orme appaiate, una piccola e una molto grande, per circa 23 metri. La ricerca proseguì, scoprendo oltre 200 metri di terreno.
Ominidi a stazione eretta, camminarono qui 3 milioni e mezzo d’anni or sono, lasciandoci il ricordo del loro passaggio. La serietà degli studi sul tufo vulcanico in cui le orme sono state impresse, non lascia spazio a dubbi. Con il metodo potassio-argo è stata confermata a più riprese la datazione dei due tipi di tufo esaminati: 3,59 e 3,77 milioni di anni.
Laetoli è stato per tanti anni un’esclusiva del passaggio «firmato» con i piedi dai nostri… progenitori. Oggi il sito divide la sua esclusiva con altri luoghi che conservano orme di piedi umani: Damasco, Ungheria, Nizza (Francia) e Italia.

I visitatori del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata, sostando davanti alla vetrina che racchiude il calco di Laetoli, possono immergersi, senza troppa fatica, in un passato tanto remoto e immaginare una mamma e un bimbo per mano, scalzi, forse impauriti dal brontolio del vulcano, diretti verso un luogo più sicuro e più protetto. Un luogo dal quale non hanno mai fatto più ritorno.
Il museo offre ai visitatori altre possibilità di sogno, immergendosi nel mondo di altri popoli e culture. In cento anni di presenza tra popoli dell’Africa, Asia e America Latina, i missionari della Consolata hanno raccolto migliaia di oggetti, che vengono conservati come testimonianza di civiltà scomparse o in via di estinzione sotto l’incalzare della civiltà del mondo globalizzato. Un immenso patrimonio, che in tanti casi sarebbe andato distrutto per sempre.
I missionari sono lieti di accogliere, previo accordo, scolaresche e gruppi vari che hanno piacere di farci visita. Sarà una visita guidata che approfondirà tante nozioni già ascoltate dai loro insegnanti. Sarà, soprattutto, un’occasione per «aprire una finestra sul mondo». 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Processi sconvenienti

Reportage: 30 anni dopo il regime dei Khmer Rossi

A 30 anni dalla fine del potere dei Khmer Rossi
e a 10 dalla morte del loro leader sanguinario,
Pol Pot, poco o nulla è cambiato per buona parte della popolazione cambogiana: non pochi nutrono una certa nostalgia per i tempi in cui si stava peggio e a nessuno interessa il processo dei principali responsabili del famigerato regime.

A l posto di confine di Poipet, il funzionario controlla perplesso ogni pagina del mio passaporto. «Non ha il visto cambogiano, deve farlo qui. Le costerà 30 dollari» mi dice. «Ho il visto fatto tramite internet. Ecco la ricevuta» ribatto mostrando la stampa dell’avvenuto rilascio dell’e-visa. Il poliziotto storce il naso, mugugna qualcosa, legge attentamente il foglio che gli porgo e dopo averlo timbrato, senza alcun sorriso me lo riconsegna, facendomi un cenno veloce con la mano di passare.
Guardo il gruppo di turisti francesi che sono dietro a me: li sento protestare con il doganiere perché ufficialmente il visto di entrata costa solo 20 dollari; i 10 dollari di maggiorazione andranno direttamente nelle tasche del poliziotto di tuo che li dividerà con i suoi colleghi. Un modo come un altro per arrotondare il magro stipendio che il governo offre ai suoi impiegati.
CORRUZIONE E INEFFICIENZA
È con queste premesse che rientro per l’ennesima volta in Cambogia. La corruzione, male ormai endemico del paese che ha infestato ogni ganglio della pubblica amministrazione, sembra non riesca ad essere debellata, anche se l’avvento della tecnologia informatica ha iniziato a dare i suoi frutti. Il visto emesso in via elettronica, infatti, è stato introdotto dal ministero degli Esteri, dopo le innumerevoli lamentele di turisti costretti a pagare il visto rilasciato in entrata ai posti di frontiera, sino al 50% in più della tariffa ufficiale. La brama di denaro colpiva anche i diplomatici e i volontari delle Ong che nel paese lavorano.
Accontentati i turisti, però, c’è ancora molto da fare in Cambogia per renderla una nazione pulita. E non parlo solo dal punto di vista della corruzione finanziaria. No, questo sarebbe il minimo. La Cambogia è corrotta nel suo interno, nell’animo.
Dalla caduta dei Khmer Rossi, avvenuta nel 1979 dopo l’invasione vietnamita, le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un potere impersonificato in primo luogo dai politici, dal padre-padrone della nazione, il primo ministro Hun Sen, all’inconcludente Sam Rainsy per terminare con l’inaffidabile Norodom Ranariddh, figlio dell’ex re Norodom Sihanouk, che dal padre ha ereditato l’instabilità e la follia, ma non il carisma.
Nessuno, nei quasi 30 anni di decorso post-Khmer Rosso, è mai riuscito a defenestrare questa triade che tiranneggia i 14 milioni di cambogiani. «Non viviamo meglio oggi di quanto vivevamo sotto Pol Pot» mi dice Sok Bunroeun, un ottantenne di Siem Reap che ha vissuto l’odissea di Kampuchea Democratica tra il 1975 e il 1979.
Nonostante abbia lavorato sino a cinque anni fa, Sok Bunroeun è costretto a fare affidamento sui suoi tre figli sopravvissuti ai Khmer Rossi per sopravvivere. «La pensione che mi passa lo stato basta appena a comprare riso sufficiente per un pasto al giorno. Mi può dire quale è la differenza tra la vita durante Kampuchea Democratica e quella a cui siamo costretti oggi?».
Faccio fatica a sentire Bunroeun: nella bolgia di Angkor; la sua sommessa voce viene sovrastata dai megafoni delle guide che accompagnano i turisti tra le rovine del sito archeologico più famoso del Sud Est Asiatico. Le bancarelle mostrano «autentici» finti reperti archeologici, che vengono venduti a un prezzo pari a due interi mesi di pensione di un cambogiano.
DA ZONA PROIBITA
AD ATTRAZIONE TURISTICA
Decido di uscire da questo supermercato archeologico e mi dirigo verso Anlong Veng. Un tempo la strada che da Siem Reap conduceva a questo minuscolo villaggio, era la più militarizzata di tutto il paese. A pochi chilometri dalla città correva l’invisibile frontiera che divideva la Cambogia di Hun Sen da quella dei Khmer Rossi ribelli, di cui Anlong Veng era il quartier generale.
Nel 1995, dopo aver faticosamente ottenuto il lasciapassare da parte dei guerriglieri comunisti, avevo cercato di raggiungere il villaggio con una pattuglia. Il tragitto fu tanto breve quanto disastroso: la jeep sulla quale viaggiavamo incappò in una mina e subito dopo un conflitto a fuoco con l’esercito regolare cambogiano rischiò di farmi filare dritto in galera con l’accusa di spionaggio.
Oggi, dopo la resa dei Khmer Rossi alla fine degli anni ‘90, le regioni un tempo controllate da Pol Pot non sono più proibite. Per la verità non sono molti gli stranieri che si sobbarcano il faticoso viaggio di sei ore per raggiungere questo avamposto sperduto nella foresta cambogiana. Del resto perché privarsi delle comodità degli alberghi di Siem Reap, dotati di ogni confort, per dormire negli alberghetti decrepiti di Anlong Veng?
Dopo la disavventura del 1995, ero riuscito a tornare ad Anlong Veng, riuscendo anche a intervistare Pol Pot.
Un maldestro tentativo da parte del governo cambogiano di trasformare l’ex quartier generale dei Khmer Rossi, in un’attrazione turistica, è miseramente naufragato nel dimenticatornio. Complice la solita corruzione, che ha prosciugato i fondi stanziati per lo sviluppo del villaggio, prima ancora che si giungesse a un accordo con la popolazione locale. Too a visitare i luoghi dove avevo avuto le interviste con i massimi leaders Khmer Rossi: la casa di Ta Mok, quella dello stesso Pol Pot, di Nuon Chea, suo braccio destro… Case in muratura, ma assolutamente spoglie. Nulla a che vedere con i principeschi palazzi dei politici di Phnom Penh.
È facile, allora, capire perché il progetto turistico si sia arenato: che avrebbero detto i cambogiani, gli stranieri, vedendo in che umili condizioni avevano vissuto i leaders Khmer Rossi? Il paragone con Hun Sen, Sam Rainsy e altri politici sarebbe stato disastroso per questi ultimi. È anche per questo che nel paese si respira un senso di disappunto per il presente a cui fa contrappunto un sentimento di «nostalgia» per il passato.
SULLE TOMBE DEI CRIMINALI
La maggioranza dell’attuale popolazione cambogiana è nata dopo gli anni ‘80 e non conosce ciò che i loro genitori e nonni hanno dovuto sopportare. La scuola, inoltre, non è ancora pronta ad affrontare seriamente il periodo di Kampuchea Democratica. Trent’anni, se possono sembrare tanti per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la Storia e per poter confrontarsi con essa con obiettività.
E così ecco che ad Anlong Veng incontro un gruppo di pellegrini che vanno a rendere omaggio alle tombe di Pol Pot e Ta Mok. Sì, proprio a loro, i principali responsabili del milione e settecentomila cambogiani morti durante i 40 mesi in cui sono stati al governo. Quest’anno, infatti, ad Anlong Veng si celebrerà il decimo anniversario della morte di Pol Pot e migliaia di cambogiani arriveranno da tutto il paese per pregare sulle loro tombe.  Seguo il gruppo di viaggiatori al luogo in cui è stato cremato l’ex leader: una semplice tomba in legno con inciso il suo nome. Recitano le loro litanie, depositano del cibo e dei regali.
Con loro ci sono diversi bonzi. «Veniamo tutti da Khompong Thom. Abbiamo viaggiato tre giorni per arrivare fin qui – mi dice uno di loro -. L’esercito ci ha trasferiti da Phumi Romeas nel 2002. Fino ad allora abbiamo vissuto sotto il controllo dei Khmer Rossi. I trasferimenti forzati sono stati migliaia e il governo ha fatto in modo di emarginarci dal resto della società. Nessuno vuole avere a che fare con noi. Hanno paura che il governo si rivalga su di loro se ci aiutano».
Quello dei trasferimenti forzati è un problema che le organizzazioni che si occupano di controllare il rispetto dei diritti dell’uomo conoscono fin troppo bene. «Da quando abbiamo cercato di protestare per la politica del governo nei confronti dei cambogiani che hanno vissuto con i Khmer Rossi, non abbiamo più il permesso di entrare nelle aree che controllavano. Sappiamo che le evacuazioni continuano e che l’esercito tortura molti contadini del luogo» confida un membro di Human Rights Watch, l’organizzazione che, assieme ad Amnesty Inteational, si occupa di diritti umani e che, per questo, è stata messa al bando dal governo di Hun Sen.
PUNIZIONI PER LE VITTIME IMPUNITà PER I CARNEFICI
Per comprendere meglio come è mutata la vita dei contadini dopo il cambio di potere avvenuto all’inizio del 2000, mi addentro nelle zone meno battute e visito diversi villaggi. Subito mi accorgo di come molte risaie siano state abbandonate; inoltre le infrastrutture idrauliche, non più mantenute in modo adeguato, sono praticamente inservibili.
«Ta Mok veniva spesso qui – spiega In Kong Kea, un contadino di 35 anni -. È lui che ha progettato i canali, il sistema di irrigazione ed era ancora lui che si occupava della manutenzione. Riuscivamo a mietere tre raccolti all’anno. Ora, invece, il governo ci ha negato ogni sovvenzione e tutto quanto sta andando in rovina. I nostri campi riescono a produrre due scarsi raccolti all’anno».
In un altro villaggio, Vichea Kanleakhana, madre di sei figli, si lamenta per la chiusura della scuola e dell’ospedale. «Phnom Penh ci vuole punire per non esserci ribellati ai Khmer Rossi. Ma perché ci saremmo dovuti rivoltare quando ci davano tutto quello di cui avevamo bisogno? Se vogliono veramente che appoggiamo l’attuale governo, che ci diano almeno cibo, scuole, ospedali come ce li davano i Khmer Rossi…».
Mi dirigo a Pailin, ultimo rifugio della dirigenza comunista prima che venisse arrestata, accusata di genocidio dal tribunale patrocinato dall’Onu. Pailin è stata per lunghi anni il centro di una sorta di regione autonoma governata da Ieng Sary, ex ministro degli Esteri di Kampuchea Democratica, ex cognato di Pol Pot, ex Khmer Rosso.
Dal momento in cui Sary ha smesso i panni del guerrigliero comunista, il paesino al confine con la Thailandia è divenuto il rifugio più sicuro per tutti i leaders Khmer Rossi che, uno ad uno, abbandonavano le file del movimento. Mak Ben, Chounn Youran, Khieu Samphan e Nuon Chea, tutti si sono trasferiti qui, protetti dal potente esercito personale di Ieng Sary, finanziato da tycornon thailandesi.
Gli interessi attorno alla regione sono enormi: a pochi metri dall’unico albergo della città, sorge il Cesar Palace, un casinò costruito per ospitare ricchi uomini d’affari thailandesi (il confine è a pochi chilometri) in cerca di ebbrezza e nuove esperienze.
Oltre al casinò, però, vi sono altre ricchezze nel forziere di Pailin: le colline che si scorgono tutto intorno sono ricche di rubini e zaffiri. Sapendo di non poter fronteggiare militarmente Ieng Sary, Hun Sen ha sempre cercato di mediare con lui e dividere i proventi del commercio di pietre preziose, arrivando addirittura a concedergli l’amnistia, fino a garantirgli l’immunità in caso la comunità internazionale si fosse impuntata per avviare il processo per genocidio all’ex dirigenza di Kampuchea Democratica.
Ma Hun Sen non si può certo dire sia un esempio di coerenza. Il potere, per lui, è sempre stato il principale obiettivo sin da quando, alla fine del 1978, disertò le file dei Khmer Rossi, di cui era quadro, per affiancarsi ai vietnamiti durante l’invasione avvenuta nelle settimane seguenti. Da allora, e parliamo di ben 27 anni, questo caparbio politico cambogiano è sempre stato al vertice del governo cambogiano, trasformando l’intera nazione in un suo feudo personale.
NON CONVIENE A NESSUNO
Alla fine del mio viaggio mi trovo proprio a Phnom Penh, la bella capitale deturpata dalle piaghe sociali della droga e della prostituzione, caratteristiche di una società alla deriva e priva di valori. È qui che si sta svolgendo il processo ai dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica: Nuon Chea, vice di Pol Pot, Khieu Samphan, presidente di Kampuchea Democratica, Ieng Sary e Kang Kech Eav (Duch), direttore del carcere S-21 dove venivano imprigionati e uccisi tutti gli oppositori a Pol Pot.
Passeggiando per Phnom Penh, è chiaro quanto poco interessati siano i cambogiani a questo processo. «Preferiamo sentirci parte del mondo andando in discoteca, nei night club, vestendo abiti firmati. Cerchiamo di vivere il presente. Un processo che parla di fatti accaduti 30 anni fa non ci interessa» spiega Phuong, una ragazza ventenne incontrata a Tuol Sleng.
In un’intervista in esclusiva, Ieng Sary ex Ministro degli Esteri dei Khmer Rossi e uno dei principali accusati al processo, denuncia anche il coinvolgimento di governi occidentali: «Se siamo incriminati, si dovranno cercare le cause di ciò che è successo più a fondo: nei bombardamenti illegali degli Stati Uniti in Cambogia durante la guerra del Vietnam, l’appoggio dato al nostro governo dall’Onu dopo l’invasione vietnamita, l’invio di armi al nostro movimento da parte della Gran Bretagna». È da queste parole che si capisce come mai, per ben 30 anni, nessuno ha voluto portare alla sbarra i Khmer Rossi, aspettando invece che la dirigenza storica venisse decimata.
A questo punto ci si potrebbe chiedere quanto possa essere equo e giusto un processo intentato in un paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico. Infine, un processo equo e giusto, dovrebbe ricercare le responsabilità delle sofferenze del popolo cambogiano anche in chi, come Norodom Sihanouk, ha accettato di condividere il potere con Pol Pot, perorando la sua causa nelle sedi inteazionali. O come Hun Sen, fino all’ultimo grande equilibrista e opportunista. O anche nell’Onu, ombrello politico di Kampuchea Democratica dal 1979 al 1982 e della coalizione antivietnamita di cui erano a capo i Khmer Rossi fino al 1993.
Nuon Chea, in una delle sue rarissime interviste che mi ha concesso pochi giorni prima di essere arrestato si chiedeva: «Se mi processeranno potrò dire tutto quello che penso? In tal caso la comunità internazionale dovrà interrogarsi sul fatto che noi abbiamo agito con il loro appoggio diplomatico. Ma non penso che mi lasceranno dire questo. Ciò che vogliono è un processo che condanni chi non può difendersi, per assolvere le proprie coscienze». 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Ricerca in campo minato

Un’accurata ricerca sulla presenza islamica in Piemonte

Eventi recenti hanno suscitato vari interrogativi sulla presenza delle comunità islamiche in Italia: quanti sono, cosa fanno, come sono organizzate… Per rispondere a tali domande, almeno per quanto riguarda il Piemonte, il «Centro Federico Peirone» ha condotto una ricerca esemplare e stimolante, capace di fugare paure e razzismo.

Durante la trasmissione televisiva «Annozero» (febbraio 2007), una moschea di Torino era stata denunciata come «covo di propaganda anti-occidentale» e il suo imam marocchino è stato espulso (gennaio 2008), perché ritenuto «una minaccia per lo stato». La stessa sorte era toccata al suo predecessore nel settembre 2005.
Denunce del genere vengono spesso riportate dai quotidiani nazionali con titoli sensazionali, che parlano di scoperte di «scuola di terrorismo» collegata ad Al Qaeda, «covi di propaganda dell’odio», «schegge impazzite dell’islam» con sede in Italia… Ma mentre gli agenti di polizia, protagonisti di tali scoperte, ricevono encomi e complimenti, alcuni studiosi di islam, che con le loro ricerche spesso offrono «piste valide» alle stesse forze dell’ordine, sono accusati presso i tribunali di «vilipendio della religione islamica, come è capitato ai professori Allievi e Guolo, denunciati dal discusso Adel Smith (vedi riquadro).
In un paese dove cresce la nevrosi «da paura» e «razzismo» nei confronti del mondo arabo, sono proprio gli studi degli onesti ricercatori spesso anche apprezzati analisti di importanti quotidiani su questo «campo minato», che insegnano a «disceere», a non fare di «tutte le erbe un fascio», a distinguere tra «islam moderato», a cui appartiene la maggioranza dei musulmani residenti nel nostro paese, da quello marginale ma micidiale del «terrorismo fai-da-te».
In questo filone s’inserisce l’importante ed esemplare ricerca «Musulmani in Piemonte», promossa dal Centro Studi Federico Peirone, in collaborazione con docenti dell’Università di Torino, a cui ha offerto autorevoli contributi anche il «denunciato» prof. Renzo Guolo.
metodo e ambiti
«La ricerca si è confrontata con i seguenti quattro campi di analisi: le appartenenze all’islam, la costruzione dell’islam, i profili identitari dei musulmani, pratiche e ideologia  degli imam», scrive nell’introduzione Luigi Berzano, docente di sociologia all’Università di Torino, evidenziando subito come sia complesso studiare un settore del «fenomeno immigrazione» che ormai caratterizza l’Italia.
Pensata nel 2002, la ricerca si è sviluppata «sul campo» dall’ottobre 2003 al novembre 2004, con approfondite interviste su un campione ben bilanciato di 1.352 immigrati musulmani (917 uomini e 435 donne) residenti nelle nove province del Piemonte e provenienti da Marocco, Albania, Senegal, Tunisia, Egitto, Somalia. Altri 50 sono stati intervistati fra i 124 immigrati musulmani detenuti in carcere.
Nell’analisi dei dati statistici gli albanesi sono stati quasi sempre scorporati dalle altre nazionalità, per la loro accentuata laicità. Inoltre, dopo essere riusciti con fatica a compilare un elenco di 43 moschee (in molti casi «sale di preghiera») in Piemonte, se ne sono identificate 20 (7 in Torino) per «le visite e interviste approfondita ai dirigenti».
Nel 2005 si è conclusa la stesura dei testi e presentato il libro «Musulmani in Piemonte» (ed. Guerini e Associati-Milano) a cura di Augusto Tino Negri (direttore Centro Studi Federico Peirone) e Silvia Scaranari Introvigne (professoressa di filosofia e collaboratrice del Centro Peirone). Questa ricerca è stata possibile grazie al contributo dell’Associazione Torino-Europa, Fondazione San Paolo, Assessorato alle Politiche sociali Regione Piemonte.
Il libro, rigoroso e ricco di dati attendibili, è accurato nel presentare la metodologia della ricerca (appendice) e nell’approfondire alcuni aspetti della «presenza islamica in Piemonte» e «in patria»: viene così proposto un «quadro di confronto» per «analizzare tendenze e dinamiche dell’islam in Piemonte con quelle nazionali ed europee», è raccontato dettagliatamente «la visita alle moschee e le interviste agli imam», si descrivono le peculiarità degli «ethnic business» a Torino, vengono tratteggiati eventuali scenari futuri dell’islam in Piemonte e in Italia.

PRATICA RELIGIOSA

Secondo i dati Caritas, nel 2004 gli immigrati in Italia erano 2.194.000 (senza contare i circa 300 mila clandestini), il 33% dei quali sono musulmani (circa 825 mila), residenti il 30% a nord-ovest, 28,4% a nord-est, 21,5% al centro, 14% nelle isole. Il campione degli intervistati è stato estrapolato dai circa 50 mila musulmani presenti in Piemonte nel 2001 (attualmente sono circa 60 mila).
Il questionario, rigoroso ed essenziale, è stato suddiviso in tre parti in modo da identificare:  le caratteristiche socio-economiche dell’intervistato (genere, provenienza, professione); importanza dell’aspetto religioso nella vita del soggetto; indagare quanto l’appartenenza islamica influenzi la coesistenza con la società d’accoglienza.
Inoltre, il questionario ha posto particolare attenzione sulle 5 pratiche (i pilastri dell’islam) che «la sunna e il diritto islamico considerano obbligatorie: fare la professione di fede islamica, preghiera rituale (salat), elemosina rituale (zakat), digiuno del ramadan, pellegrinaggio alla Mecca una volta nella vita.
Circa dieci intervistatori, provenienti dai paesi degli intervistati, sono stati addestrati bene per ottenere risposte attendibili.
Dalle risposte ottenute dagli intervistati risulta che la religione islamica è considerata importante dal 60%, con punte altissime per somali e senegalesi (90%); la frequenza delle moschee per la preghiera del venerdì è del 31%, mentre il 53% prega 5 volte al giorno; il digiuno di ramadan è praticato dal 96%, il pellegrinaggio alla Mecca è stato compiuto dal 10%, mentre l’86% vorrebbe compierlo. L’elemosina, versata nel mese di ramadan, è rispettata dal 65% degli intervistati, in prevalenza arabi (Marocco 71%, Tunisia 68%, Egitto 65%).
Per quanto riguarda l’occupazione, il 45% dei musulmani intervistati svolge un lavoro dipendente, il 10% un lavoro autonomo con partita Iva, l’8% un lavoro autonomo senza partita Iva (sommerso), il 19% è disoccupato, il 6% è formato da studenti (da 18 anni in su), l’11% si occupa della cura domestica. Tra i lavoratori dipendenti, la maggioranza proviene dall’Africa subsahariana, mentre nel campo del commercio e piccola imprenditoria prevalgono gli arabi.

Islam politico e islam moderato

Alla domanda se «una buona società dev’essere governata dalla shari’a», il 43% degli intervistati ha risposto «sì», il 53,5% «solo per certe cose» e il 3,5% ha risposto con un netto «no».
«La shari’a è la legge positiva di origine religiosa – spiega il prof. Guolo -. Le sue fonti sono le stesse della teologia: il Corano, la sunna, il consenso della comunità (ijma), l’ijtihàd, ragionamento individuale di tipo analogico, che permette un margine di interpretazione e adattamento. La shari’a regola questioni assai diverse, dalla modalità della preghiera allo statuto della famiglia».
E analizzando le risposte, prosegue: «Tra i più favorevoli al modello sciaratico si riscontrano coloro che provengono dall’Egitto (57%) e dalla Somalia (50%), paesi investiti negli ultimi decenni dall’onda lunga del “risveglio islamico”. Ed è proprio tra i seguaci dell’orientamento islamista che si trovano molti di coloro che si dichiarano a favore delle pene coraniche (61%), richieste in maggioranza da egiziani (67%), marocchini (63%), somali (62%) e tunisini (61%)».
Stupisce che nessuno degli intervistati abbia chiesto chiarimenti sull’applicazione della shari’a, se essa riguardi il paese di provenienza o anche l’Italia. Sarebbe interessante appurare che cosa intendono coloro che hanno risposto «solo per certe cose»: e cioè, per regolare questioni intee alla comunità islamica o con incidenza sulla società civile del paese che li ospita.
I ricercatori hanno tratteggiato le seguenti identità socio-politiche, per cercare di individuare il gruppo di appartenenza degli intervistati:
1- islam-politico: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a; vuole le pene coraniche e la Banca islamica;
2- islam-moderato: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a solo per certe cose, vuole il velo per chi lo desidera, sceglierebbe una scuola statale con insegnamento dell’islam;
3- islam-laico: ritiene che una buona società non debba essere governata con la shari’a, non vuole né pene coraniche né banche islamiche.
Interessante è l’analisi dei dati su questi parametri: solo il 13,61% dei musulmani albanesi intervistati (4,5% del campione totale) appartiene all’identità socio-politica dell’islam laico. Tutti gli altri intervistati sono suddivisi tra islam-moderato e islam-politico, e un modesto gruppo residuale (2,8%). Il 67,16% (64,64% senza albanesi) appartiene all’islam-moderato (72% albanesi, 64% marocchini, 76% senegalesi, 65% tunisini, 57% egiziani, 51% somali); mentre il 24,44% degli intervistati (32,56% senza albanesi) appartiene all’islam-politico (33% marocchini, 8% albanesi, 21% senegalesi, 33% tunisini, 44% egiziani, 42% somali).
Commenta il prof. Guolo: «Il processo di individualizzazione, che segna la progressiva autonomia del singolo e l’autopercezione di sé come soggetto, segna sempre più l’essere musulmano in occidente… Quello che emerge dalla ricerca è dunque un islam sfaccettato più che monolitico».

 moschee e loro dirigenti

«Ogni moschea è indipendente dalle altre – chiarisce Tino Negri -. I suoi dirigenti esprimono l’ideologia politico-religiosa del gruppo che frequenta la moschea, o per lo meno del gruppo fondatore, e colui che solitamente è definito imam ne incarna i fini e gli obiettivi sulla scena sociale. Non esiste una struttura “ecclesiale” nell’islam, né una gerarchia di governo dell’istituzione. Sono sbagliate dunque le equazioni imam-prete (o vescovo) e moschea-chiesa».
Negli anni ‘90 i centri islamici si sono moltiplicati in Torino e provincia, intessendo tra di loro «reti associative allo scopo di negoziare con maggior forza le proprie richieste nei confronti dell’ambiente circostante, dell’autorità locale e dello stato».
Sono stati identificati tre tipi di «centri di culto», in base alla capienza degli edifici: grandi (ospitano 200 persone), medi (da 100 a 200), piccoli. «I locali sono, a volte in buono stato, altre volte, fatiscenti, ma sempre sistemati con cura, con tappeti, suppellettili e simboli essenziali… Quasi tutte le moschee, eccetto quelle molto piccole, assicurano la scuola coranica e di lingua araba per i ragazzi, che si svolge nei giorni di vacanza scolastica, il sabato pomeriggio e la domenica».
A Torino sono stati identificati due poli del «culto islamico piemontese» a San Salvario e a Porta Palazzo, sviluppati soprattutto dopo il 1995, che spaziano dall’islam radicale a quello moderato, oppure «etnico, comunitario, solidale e devozionale» dei senegalesi. 
Dal 2003 al 2004 i ricercatori, in periodi diversi, hanno monitorato la frequenza alle 20 moschee scelte e intervistato i «dirigenti» (2 hanno rifiutato l’intervista). Si preferisce usare l’appellativo «dirigente» invece di imam. «Sommersi dalle critiche per i comportamenti e la sovraesposizione mediatiche di noti leader islamici, le comunità hanno estromesso dal loro lessico il termine imam. Oggi i leader delle moschee preferiscono presentarsi come “dirigenti” dell’associazione che amministra la moschea».
Interessante è rilevare la disparità nel grado d’istruzione dei «dirigenti» intervistati. «Dei 20 centri visitati, solo 2 vantano un vero imam, o alim (dotto islamico), che ha compiuto studi pluriennali in una università islamica (Fés, Casablanca, Mecca); in altri 5 centri, troviamo 5 imam che hanno frequentato la scuola liceale per imam (3 anni) a Casablanca o che hanno seguito le lezioni di un alim impartite nella moschea; negli altri 13 centri, le guide della preghiera sono scelte tra coloro che meglio conoscono il Corano e la sunna, senza aver fatto studi specifici».
La sfaccettatura dell’islam in Piemonte si deduce anche dai fini e obiettivi delle «sale di culto». «Delle 20 moschee visitate, 4 s’ispirano alla corrente islamica wahhabita, puritana, lealista nei confronti dei principi sauditi dell’Arabia, favorevole allo stato islamico e all’applicazione della shari’a “dal basso”; 6 moschee s’ispirano alla corrente dei Fratelli musulmani che ha optato per l’islamizzazione “dal basso”, di cui 3 simpatizzanti e 2 aderenti all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia); 1 moschea s’ispira alla corrente più radicale e separatista dei Fratelli musulmani, che auspica l’islamizzazione “dall’alto”; 2 moschee sono salafite. In conclusione, il 55% delle moschee piemontesi appartiene all’area politica».

Commenti, esiti possibili

C’è una forte discrepanza tra la frequenza alla moschea dichiarata dagli intervistati e quella dichiarata dai «dirigenti» e rilevata dai ricercatori. «Mentre il 26% dei fedeli afferma di recarsi tutti i venerdì in moschea, secondo gli imam l’affluenza sarebbe del 5% e del 4% secondo le nostre rilevazioni. Durante il mese di ramadan, la frequenza dichiarata è del 37%, quella stimata dagli imam del 12%, mentre quella che emerge dai nostri rilievi del 7%».
Tra i dirigenti dei luoghi di culto, «generalmente sono condannati gli attentati alle Twin Towers di New York, quello in Spagna e quelli in Turchia. Le moschee aderenti o simpatizzanti dell’Ucoii menzionano la condanna pubblica degli attentati dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 pronunciata dall’Ucoii».
Inoltre, questi dirigenti «approvano la frequenza degli oratori parrocchiali da parte dei ragazzi, purché non ci sia né proselitismo né promiscuità». I ricercatori, infatti, affermano: «Non riscontriamo in nessuna delle guide delle moschee, quella reciprocità nel rispetto dell’altro e delle sue credenze né quella passione di ricerca intellettuale che sono irrinunciabili in un dialogo autentico». E constatano che «i dirigenti-imam delle moschee, in Piemonte (come in Italia e in Europa), affrontano il rapporto della comunità islamica con la modeità con gli strumenti della tradizione classica medioevale, assunta e ritrasmessa letteralmente, senza mediazioni; in secondo luogo i mediatori dell’incontro-scontro con la modeità sono soprattutto quegli autori contemporanei che provengono dall’area dell’islam-politico».
Malgrado la frequenza alle moschee non sia così alta bisogna rilevare che «le comunità musulmane in Occidente, compresa quella piemontese, mantengono uno stretto rapporto con la umma mondiale e le realtà nazionali e associative di appartenenza… Vivere a Torino e guardare al-Jazira o frequentare l’islam on line è esperienza diffusa».
A detta dei ricercatori, i processi visibili tra i musulmani in Piemonte sono: «Privatizzazione della sfera religiosa, reislamizzazione identitaria, secolarizzazione. A seconda del prevalere di questa o quella tendenza si definirà non solo il futuro di parte rilevante dell’islam in Italia, ma anche il quadro di convivenza tra società italiana e musulmana». 

Di Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Dalla iurta al soyuz

Reportage dalla più grande delle repubbliche ex sovietiche

A 16 anni dall’indipendenza (1991), il Kazakistan porta ancora segni vistosi, demografici e culturali, di 150 anni di russificazione. Lo sfruttamento degli idrocarburi ne fa un paese strategico e il più ricco tra le ex repubbliche sovietiche; ma la ricchezza non è per tutti: buona parte dei kazaki vivono ancora sotto la soglia della povertà.

S ono in Kazakistan o in Russia? Sapevo benissimo di essermi lasciata la frontiera alle spalle due giorni prima, ma continuavo ad avere la sensazione di non averla mai attraversata, sia perché le formalità erano state minime, sia perché paesaggio, abitazioni, stile di vita non portavano cambiamenti che mi segnalassero il passaggio dalla steppa russo-siberiana in quella kazaka.
Non mi aspettavo una steppa così verde e ricca d’acque. Non era il piattume ottuso della depressione caspica, attraversata qualche anno prima. Qui la linea dell’orizzonte era rotta da tratti ondulati e gruppi di alberi; campi coltivati si alternavano ad ampie distese di brughiera; sugli stagni volteggiavano uccelli selvatici; il verde tenero dell’erba era punteggiato e a volte vinto dagli esuberanti colori dei fiori; poi le isbe russe e gli orti. E di nuovo riaffiorava il dubbio.
All’interno dell’autobus su cui viaggiavo lo spettacolo era altrettanto vario: volti europei e volti turco-mongoli, dai caratteristici occhi a mandorla; il brusio delle conversazioni in un miscuglio di russo e uno strano cocktail per due terzi kazako un terzo russo. È il nord del Kazakistan, mi dicevo, dove è concentrata gran parte della minoranza russa; non c’è da stupirsi di sì grandi affinità.
affinità con la russia
Ma ho dovuto ricredermi: l’influenza culturale russa non si limita al solo nord. Ben presto ho scoperto che in Kazakistan manca il colorito locale. Le città, piccole o grandi che siano, sono sorte solo dopo la conquista russa e ne portano l’impronta: dal confine a nord fino a quello cinese, le abitazioni sono tali e quali a quelle della Russia centrale.
I kazaki erano un popolo nomade, vivevano delle loro greggi e si spostavano per garantire loro freschi pascoli tutto l’anno, abitavano nelle iurte, comode tende di feltro, smontabili in poche ore e per essere rimontate a centinaia di chilometri. Ora, però, di quelle tradizionali abitazioni non rimane traccia: l’unica iurta vista durante il viaggio era esposta al Museo statale di Almaty.
Anche nella lingua e costumi la russificazione è stata qui maggiore che nelle altre repubbliche ex sovietiche: non ho mai sentito parlare un russo così perfetto, così russo. Alcuni kazaki lo conoscono meglio della lingua nazionale. Arrivata ad Astanà ho scoperto, con mia grande meraviglia, che in Kazakistan si festeggia la «Festa dei paracadutisti», esattamente come si fa a Mosca: giovani russi e kazaki insieme, in maglietta a righe bianco-azzurre e basco azzurro si riversano nelle strade e nei parchi, cantano, ballano, schiamazzano e, bottiglie in mano, naturalmente bevono; non si può dire che, nel bere, i kazaki si lascino battere dai russi.
Il consumo di alcolici distingue i kazaki dagli altri popoli musulmani dell’ex Asia centrale sovietica (eccetto i kirghizi). D’altra parte, nella steppa l’islam non ha messo radici profonde e ha sempre convissuto con pratiche e credenze dello sciamanesimo, la religione tradizionale dei nomadi turco-mongoli. Presso di loro l’alcol era parte fondamentale di ogni convivio.
Con la fine dell’Urss questa identificazione di molti kazaki con la cultura russa pose non pochi problemi al nuovo Kazakistan, che doveva giustificare la propria esistenza come stato indipendente e teneva, quindi, a sottolineare le differenze, non certo le somiglianze, rispetto ai popoli vicini. I dirigenti della neonata repubblica dovettero in tutta fretta disseppellire da un passato ormai defunto simboli e riferimenti che ispirassero ai kazaki un senso d’identità comune: dovevano convincersi di essere una nazione, sebbene questo concetto, europeo e illuminista, fosse estraneo alla loro cultura. Tradizionalmente la società kazaka era organizzata intorno alla famiglia allargata e al clan, con cui il singolo s’identificava completamente. La questione del passato, della lingua, del recupero delle tradizioni ha suscitato nel paese un dibattito che dura tuttora.
Per capire tali affinità, occorre fare almeno qualche accenno alla storia degli ultimi tre secoli.
weste sovietico
L’avanzata dei russi in Asia Centrale si potrebbe paragonare alla conquista del West in Nord America. Quando, all’inizio del xviii secolo, l’impero russo si affacciò sulla steppa kazaka, si trovò di fronte un territorio sconfinato, che per la mentalità di un popolo stanziale era una sorta di terra di nessuno: non c’erano città, né fortificazioni, ma solo sparute tribù nomadi che si muovevano da un punto all’altro della steppa, senza lasciare dietro di sé tracce permanenti. Senza un’organizzazione statale né un esercito, tali tribù continuavano a vivere, come ai tempi di Gengiz Khan, una vita regolata dalle stagioni e dalle esigenze delle greggi, loro fonte principale di sussistenza e segno di ricchezza e potenza.
Avanzare su queste terre per i russi fu relativamente facile. All’incirca tra il 1720 e il 1850 nella steppa kazaka si combatté un’impari lotta tra il modello di vita stanziale e quello nomade. Era una guerra dall’esito scontato. I nomadi erano già stati sconfitti molti secoli prima, quando l’invenzione delle armi da fuoco aveva annullato i due grandi vantaggi che avevano permesso alle schiere turco-mongole di conquistare un impero mondiale: rapidità negli spostamenti, agilità e forza fisica. La resistenza dei kazaki s’infranse contro le mura delle fortezze russe, i loro attacchi furono spezzati dal fuoco dell’artiglieria zarista.
Nel 1846, con la fondazione di Veyj, futura Alma Ata, e di una linea fortificata lungo il Syr Daria, la conquista della steppa kazaka era ultimata. Man mano che occupavano un pezzo di steppa, i russi vi costruivano fortezze, nucleo originario dei futuri centri urbani, e vi facevano affluire i propri contadini, da sempre assetati di terra, che mettevano a coltura i terreni migliori, riducendo progressivamente i pascoli dei kazaki, compromettendone l’economia irrimediabilmente. L’arrivo sempre più massiccio dei coloni russi cominciò a modificare anche l’equilibrio demografico, a tutto svantaggio degli autoctoni.
Se a ciò si aggiungono le grosse perdite subite dalla popolazione kazaka, prima per la sanguinosa repressione della rivolta del 1916 e la conseguente emigrazione verso Cina e Mongolia, poi, alla fine degli anni ‘20, per la sedentarizzazione e collettivizzazione forzata (tra morti e deportazioni sparirono un milione e mezzo di kazaki), non sembrerà strano che già nel 1939 essi non fossero più la maggioranza in Kazakistan: 37,8% kazaki e 40% russi.
Dalla seconda metà degli anni ‘30 in poi tale sbilanciamento si aggravò, perché questa repubblica fu scelta da Mosca come luogo di detenzione e deportazione. Vi furono aperti numerosi campi di concentramento e vi furono fatti confluire interi popoli, della cui lealtà il regime dubitava e che venivano evacuati da territori strategicamente importanti: dall’Estremo Oriente arrivarono 100 mila coreani, altrettanti polacchi da Ucraina e Bielorussia; durante la guerra vi furono deportati 440 mila tedeschi del Volga, 400 mila tra balkari, karachai, ingusci, ceceni, turchi meschi dal Caucaso e tatari dalla Crimea.
Nel 1954 prese il via la campagna per il dissodamento delle terre vergini della steppa. Iniziò così un nuovo flusso d’arrivi, questa volta volontari, soprattutto da Russia, Ucraina e Bielorussia. Nel 1959 la percentuale di kazaki nella repubblica era precipitata al 30%, per poi risalire lentamente, fino al 39,7% del 1989, quando si registrò il sorpasso rispetto ai russi, scesi al 37,8%.
STABILITà
CONTRO DEMOCRAZIA
La situazione demografica fu subito percepita dai dirigenti del Kazakistan indipendente come la minaccia più seria all’integrità dello stato. Poiché nel nord del paese i russi costituivano la maggioranza degli abitanti, si temeva una secessione del territorio dal resto del paese; una soluzione sostenuta da alcuni movimenti politici e alimentata da infiammati discorsi dei politici russi, dall’una e dall’altra parte della frontiera. Col passare del tempo, invece della secessione, i russi hanno preferito prendere la strada dell’emigrazione e le loro comunità si sono andate assottigliando.
Per garantirsi un maggior controllo sul nord, il presidente Nazarbaev spostò la capitale da Almaty ad Astanà. Il passaggio di sede fu deciso nel 1994 e ufficialmente celebrato alla fine del 1997, sebbene a quei tempi la città fosse ancora lontana dall’avere un aspetto rappresentativo e molti non avessero nessuna fretta di trasferirvisi.
Nato nel 1940 da una famiglia contadina, fece una rapida carriera all’interno del Partito comunista (Pc) kazako e nel 1989 arrivò a occupae la massima posizione, quella di primo segretario. Quando nel 1990 in Urss fu creata la figura del presidente di repubblica, egli fu designato a occuparla e alla fine del 1991 divenne il primo presidente del Kazakistan indipendente, con il 98% dei suffragi.
La continuità di leadership è stato un tratto comune a tutta l’Asia centrale ex sovietica: i capi dei Pc locali sono diventati i presidenti dei nuovi stati indipendenti; ma, tra tutti, Nazarbaev si è dimostrato il più accorto e lungimirante. A differenza del tagiko Nabiev e del kirghizo Akaev è ancora saldamente alla guida del paese; a differenza dell’uzbeko Karimov e del turkmeno Niyazov, deceduto nel 2006, si è presentato come un moderato, attirandosi le simpatie e i finanziamenti dell’Occidente.
Il suo non è stato un compito facile. Come gli altri burocrati della vecchia guardia comunista divenuti improvvisamente capi di stati sovrani, Nazarbaev si è trovato ad affrontare situazioni di cui non aveva esperienza alcuna. Il Kazakistan, come le altre quattro repubbliche sovietiche d’Asia Centrale, non aveva mai condotto una politica economica ed estera autonoma, non aveva un esercito nazionale né il controllo dei propri confini. Bisognava inventarsi ex novo un sistema politico ed economico, in sostituzione del fallito modello socialista centralizzato, sotto la guida di Mosca. Il riferimento più ovvio, a quel punto, diventava il modello occidentale. Ispirandosi ad esso, furono create le prime istituzioni di democrazia rappresentativa e s’intrapresero caute riforme economiche.
A 16 anni di distanza, il Kazakistan può ormai considerarsi fuori dalle incognite della transizione: ha un’economia in rapida crescita, ha regolato tutte le questioni di confine con Russia e Cina, ha una discreta reputazione internazionale e si è affermato come leader regionale. Nazarbaev è anche riuscito a evitare al proprio paese i conflitti che hanno, invece, insanguinato le repubbliche confinanti, un esito inizialmente per nulla scontato.
Certo, il bilancio di questi anni non è stato positivo per tutti. Non lo è stato per la comunità russa, di cui si temevano gli umori secessionisti e che è ora sottorappresentata in parlamento, negli organi di governo e negli incarichi pubblici. E non lo è stato per la democrazia. Se, inizialmente, era parso che il Kazakistan si avviasse verso un assetto politico pluralistico, fondato sul principio della divisione del potere tra gli organi dello stato, ora il quadro è molto diverso. Il presidente e la sua cerchia detengono il controllo pressoché totale delle istituzioni. Il parlamento è diventato un docile strumento nelle mani di Nazarbaev. Alle ultime elezioni politiche, nell’agosto del 2007, il suo partito Nur Otan ha ottenuto l’88% dei consensi e la totalità dei seggi in parlamento. Si è, così, tornati al partito unico di sovietica memoria.
Inoltre, con gli emendamenti alla costituzione del maggio scorso, che hanno abolito i vincoli di mandato e d’età alla sua rielezione, Nazarbaev si è assicurata la presidenza a vita. Gli elettori, però, non sembrano preoccuparsene. Tra i kazaki, così come tra la minoranza russa, egli continua a godere di un consenso molto alto e, se lo si sente criticare per la diffusa corruzione o l’iniqua distribuzione delle ricchezze, alla fine tutti concordano che con lui ci si sente più tranquilli, perché lo si ritiene in grado di garantire la pace sociale. Nazarbaev, quindi, ha ragione quando, rispondendo alle critiche dell’Occidente, afferma che alla sua gente interessa più la stabilità della democrazia.
GAS E PETROLIO
Nel suo compito di fondare un nuovo ordine e una nuova stabilità in Kazakistan, Nazarbaev ha avuto un grande alleato: il sottosuolo. Oltre a essere di gran lunga la più estesa tra le cinque repubbliche ex sovietiche d’Asia Centrale, il Kazakistan è anche la più ricca, grazie alle sue ingenti risorse naturali. Gas e petrolio fanno la parte del leone nelle esportazioni e gli hanno consentito di diventare il motore economico della regione, con una crescita annua del Pil superiore al 9%.
Per le risorse di cui dispone, il Kazakistan è corteggiato da molti. La Russia è interessata a continuare a trasportare il suo greggio attraverso il proprio territorio, cosa che, oltre ai diritti di transito, le dà la possibilità di acquistarlo a condizioni di favore e rivenderlo all’Europa a un prezzo maggiorato. Occidente e Cina sono, invece, interessati ad acquistare gli idrocarburi kazaki direttamente alla fonte; a questo scopo hanno progettato, e in parte realizzato, vie per il loro trasporto alternative a quella russa. Tutti quanti, poi, sono interessati a partecipare allo sfruttamento dei ricchi giacimenti di gas e petrolio.
La competizione tra le compagnie straniere si sta facendo sempre più agguerrita, proprio mentre il governo kazako, dopo la fase di liberalizzazione degli anni ‘90, sta ritornando al controllo statale del settore energetico (di nuovo il parallelo con la Russia s’impone).
In questo contesto s’inserisce anche la recente vertenza con la nostra Eni, che dal 1997 guida un consorzio di compagnie straniere impegnate nella costruzione degli impianti per lo sfruttamento delle ricchissime riserve petrolifere di Kashagan, sul Caspio. Il contratto stipulato con il Kazakistan a quel tempo prevedeva condizioni molto vantaggiose, anche perché il paese non aveva il know how tecnologico necessario per affrontare l’impresa.
I ritardi nella realizzazione del progetto e la lievitazione dei suoi costi hanno portato a una revisione degli accordi iniziali, in un contesto politico e legislativo completamente mutato rispetto a 10 anni fa. Il parlamento ha approvato nuove leggi che danno all’ente idrocarburi di stato Kazmunaigas il diritto alla maggioranza in tutti i progetti futuri e al governo quello di modificare i contratti, anche retroattivamente, se sono messi in pericolo gli interessi nazionali.
LA GRANDE CRISI DEL 1993
Come sempre accade, la ricchezza che viene dallo sfruttamento delle risorse naturali non è arrivata dappertutto: si vede nelle città petrolifere del Caspio, nei quartieri nuovi di Almaty e, in massimo grado, nella nuova capitale; si vede poco o non si vede affatto nel nord russo, nelle città di provincia e nei villaggi.
Sono, però, lontani gli anni terribili della crisi economica seguita al crollo dell’Urss. Chi li ha vissuti ammette che le cose adesso vanno molto meglio. La riforma monetaria del 1993, quando il Kazakistan fu costretto a uscire dall’area del rublo e cominciò a battere moneta propria, innescò una svalutazione così galoppante, che la gente smise di usare i soldi e toò a praticare il baratto. In poco tempo stipendi e pensioni si trovarono azzerati. Per sopravvivere molti s’improvvisarono commercianti.
«Devo dir grazie ai cinesi, se sono riuscita a sfamare i miei figli a quel tempo» ricordava una signora kazaka sul treno che ci stava portando da Almaty a Semey, nel Kazakistan orientale. Condividere uno scompartimento per una mezza giornata predispone a confidenze e racconti. La nostra compagna di viaggio aveva tirato fuori polpettone di cavallo e pesce persico affumicato del Balkash, e s’apparecchiava a trascorrere nel modo migliore le lunghe ore in treno, spartendo con noi quelle prelibatezze. Chissà come, il discorso era caduto sulla crisi del ‘93.
Lei aveva lasciato l’impiego alle poste e si era messa a vendere al mercato quello che le capitava. Poi aveva cominciato a fare la spola con la Cina e questo piccolo commercio aveva permesso a lei, come a molti altri, di tirare avanti. A lavorare in posta non è più tornata. Gli stipendi statali restano, comunque, molto bassi, è difficile viverci. Adesso, però, ha smesso di procurarsi la merce in Cina, va a prenderla al mercato all’ingrosso di Almaty.
La crisi economica degli anni ‘90 portò anche a una drastica riduzione dei servizi pubblici: il sistema sanitario, quello scolastico, i servizi per l’assistenza ai più deboli, tra cui gli orfanotrofi, furono i primi a risentirne. In quegli anni lessi un articolo impressionante sui ragazzi di strada in Kazakistan, che avevano fatto delle fogne la propria casa: una popolazione di bambini e adolescenti che viveva sotto i piedi della gente.
Il fenomeno dei ragazzi di strada è tristemente diffuso in alcune repubbliche dell’ex Urss, ma non in quelle asiatiche; negli anni ‘90, però, il loro numero era cresciuto anche in Kazakistan, per le grosse difficoltà in cui versava il paese.
RAGAZZI DI STRADA
Il ricordo di quell’articolo era riemerso vivido parlando con padre José, dopo la messa domenicale da lui tenuta nella chiesa cattolica di Shymkent. Vi era arrivato 7 anni prima dalla Spagna per servire la comunità cattolica locale, formata da polacchi, tedeschi e ucraini, che non aveva un prete. Dapprima aveva preso in affitto un appartamento, poi, con l’aiuto di sponsor spagnoli, era stato aperto un complesso nuovo, con la chiesa, casa parrocchiale e oratorio.
Ci eravamo fermati a chiacchierare proprio sui gradini della chiesa. Padre José, che avevo appena conosciuto, si era dimostrata una persona gioviale, ben disposta a mettere a disposizione il suo tempo e condividere la propria esperienza del luogo con me, arrivata giusto quella mattina.
Avevo notato che alcuni ragazzini si erano seduti poco distanti da noi e non accennavano ad andarsene. «Vivono in condizioni famigliari difficili – spiegò padre José -, vengono qua al mattino, li tengo impiegati con qualche lavoretto o cerco di farli studiare un po’, poi condividiamo il pranzo. Non posso mica mandarli via, altrimenti starebbero per strada».
Tra di loro c’era Tanja, la più grande del gruppo, che la strada l’aveva conosciuta sul serio, ma se l’era lasciata alle spalle. Silenziosa e riservata, Tanja non dimostrò molto entusiasmo quando le chiesi di raccontarmi la sua storia. Ma padre José, che vedeva il mio interesse per l’argomento, non lasciò cadere il discorso.
«I ragazzi che vivono per strada sono soprattutto russi; di kazaki ce ne sono pochi, perché tra di loro si sono conservati molto di più i valori della famiglia tradizionale e perché, a differenza dei russi, possono contare su un’estesa rete parentale. I ragazzi, anche giovanissimi, scappano da situazioni di estremo degrado familiare, dove i genitori non sono in condizioni o non vogliono pensare a loro, oppure sono alcolizzati. Vivono in strada finché fa caldo e d’inverno si rifugiano nelle cantine, o dentro i tombini, dove passano i tubi dell’acqua calda. Tra di loro gira anche la droga. Rispetto ad alcuni anni fa, però, la situazione è migliorata, hanno riaperto gli orfanotrofi. La situazione peggiore si è vista dopo la fine dell’Urss, quando la gente diventò più povera dall’oggi al domani».
Se quei tempi, fortunatamente, sono superati, grazie a una ripresa economica cominciata nella seconda metà degli anni ‘90 e in accelerata dal 2000, bisogna dire che i livelli di vita reali stanno crescendo lentamente, non in proporzione con i dati del Pil. Anche in Kazakistan le risorse del sottosuolo hanno come conseguenza di consegnare una sproporzionata potenza economica nelle mani di pochi e di ostacolare il nascere di un’economia equilibrata: la crescita dell’importanza del comparto energetico ha portato a un maggiore controllo in tutti i settori da parte di alcuni potenti gruppi economici, frenando lo sviluppo della media e piccola imprenditoria.
sulla via della seta
C’è un angolo di Kazakistan, o meglio, un triangolo, dove si percepisce con certezza di aver lasciato la Russia ed essere entrati nell’Asia più autentica: è il sud del paese, il territorio che s’incunea tra Uzbekistan e Kirghizia e il cui centro principale è Shymkent. Qui siamo al confine tra il mondo della steppa e dei nomadi e la civiltà stanziale delle oasi e dei fiumi.
È una terra dove il clima arido riduce le possibilità di pascolo e dove l’uomo nei secoli si è ingegnato a sfruttare al meglio i corsi d’acqua, estendendo la superficie coltivabile attraverso laboriosi sistemi d’irrigazione. Qui scorre il Syr Daria, nelle cui prossimità, fin dai tempi più remoti, sono sorti insediamenti che erano anche tappe di uno dei tanti rami della via della seta.  Tra di essi si possono ricordare Turkestan, l’antica Yasi, dove c’è il mausoleo del maestro sufi Akhmed Yasavi, e Otyrar, tristemente famosa per un episodio che fu all’origine della calata dei mongoli in Asia centrale.
Nel 1218 il governatore della città depredò e massacrò una compagnia di mercanti provenienti dalla Mongolia. Otyrar faceva parte dei territori dello scià della Corasmia, Ala ad-din Mohammad, il sovrano più potente della regione, il cui dominio andava dalla catena del Tien Shan fino alla Mesopotamia. Quando Gengiz Khan gli mandò un ambasciatore per chiedere giustizia costui lo fece uccidere, attirandosi così l’ira del Gran Khan e le sue nefaste conseguenze.
Il sud è la regione che ha meglio conservato i costumi tradizionali e dove più forte e antica è l’adesione all’islam. Popolare vi è la sua corrente mistica: il sufismo (vedi riquadro).
Nel sud del Kazakistan, rimasto prevalentemente agricolo, è minima la presenza russa. Vi si concentra invece la comunità uzbeka, che, a differenza di quella russa, è in crescita. Per secoli uzbeki e kazaki si sono contesi il dominio su queste terre e ognuno le considera proprio territorio storico. La disputa è stata decisa dai sovietici in favore dei secondi, ma ai tempi dell’Urss i confini tra le varie repubbliche erano solamente amministrativi e non costituivano certo una barriera al passaggio di uomini e mezzi. Quello tra Uzbekistan e Kazakistan, tra l’altro, aveva una demarcazione approssimativa, tanto che si dà il caso di una provincia, quella di Maktaaral’sk (ora in Kazakistan) passata di mano una ventina di volte.
Con la fine dell’Urss, quando il confine diventò anche politico e si rese necessario stabilire un tracciato preciso, i due stati cominciarono a litigare, e a tutt’oggi non sono pervenuti a un accordo definitivo.
La disputa sui confini è solo una delle manifestazioni di una rivalità di vecchia data, che non accenna a sopirsi. Gli uzbeki rivendicano un’egemonia culturale sui popoli circostanti per la ricchezza del loro passato artistico, letterario e della tradizione religiosa. Vorrebbero vedersi riconosciuta anche quella politica, ma, per il momento, l’unico argomento indiscutibile a sostegno di tale pretesa è quello demografico: sono il gruppo etnico di gran lunga maggioritario nella regione. Il paese continua ad avere seri problemi economici ed è afflitto da una povertà cronica.
Dal canto loro, i kazaki vanno fieri del passato nomade e delle virtù guerriere che scorrevano nel sangue dei loro antenati e non si scambierebbero mai con un uzbeko, a maggiore ragione ora che la loro economia è in piena ascesa. Il Kazakistan è l’unica repubblica centroasiatica che non esporta, ma importa forza lavoro. Vi arrivano i lavoratori stagionali kirghizi, tagiki e, naturalmente, anche quelli uzbeki, che offrono mano d’opera a basso costo, impiegata per lo più nei cantieri.
La rivalità tra le repubbliche ha finora impedito loro di collaborare proficuamente per risolvere i tanti problemi comuni. Paradossalmente, sia il Kazakistan che l’Uzbekistan fanno meno fatica a intendersi con la Russia, la cui superiorità è accettata come un fatto in sé evidente. Riconoscerla non ferisce il loro orgoglio e non suscita sentimenti di gelosia, sempre in agguato quando si tratta dei vicini. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Musica dell’anima

I ritmi vivi dell’Africa dell’Ovest

La musica può essere l’identificazione di un paese. Così si parla di mbalax
in Senegal, di musica mandinga in Mali. E di tackborsé e couper decaler
in Burkina Faso. E anche di  nomi  famosi sulla scena internazionale:
Youssou Ndour, Salif Keita, Yeleen. Breve viaggio nell’Africa «musicale».

La musica è molto presente sul continente africano. L’Africa è un universo in cui il ritmo è magico. Ogni paese possiede il proprio e ogni regione utilizza strumenti differenti. Ma il tutto converge verso una cultura della festa, della sensualità, del sogno e dell’emozione. La musica è percepita come una comunione tra l’uomo e la natura. Per questo i 53 paesi africani rivaleggiano d’ingeniosità.

Ritmi dal Senegal

Così il Senegal si esprime musicalmente attraverso il mbalax. È un tipo di musica popolare molto ritmata e che spinge alla danza. È basata sulle percussioni come il tama e il sabar, strumenti tipici di questa musica senegalese. Attinge le sue origini dai canti dei griot (cantastorie, detentori della tradizione orale cantata). In Senegal, come ovunque in Africa, i griot sono importanti.  Trasmettono la musica tradizionale e la poesia di generazione in generazione. In Senegal, dunque, questi griot cantano la gloria dei re e dei principi. All’arrivo dell’Islam, i musulmani sono diventati i maestri «parolieri» e hanno sviluppato l’arte delle preghiere cantate. Le generazioni di cantanti che sono seguite si sono appropriati di questa tradizione, dandole uno stile più moderno.
La particolarità del mbalax è quella di essere riusciti a sposare i ritmi tradizionali e le danze locali. Nato alla fine degli anni Settanta, è stato reso popolare sulla scena internazionale da Youssou Ndour. Classe 1959 Ndour è oggi una star a livello mondiale. Nel 1998 ha composto l’inno della coppa del mondo di calcio «La Cour des Grands» (La corte dei grandi). L’ha cantato con la francese Axelle Red.  Youssou Ndour ha al suo attivo una ventina di album e una decina di compilation. Ha ricevuto numerosi premi, tra i quali quello di miglior artista africano 1996 e dell’artista africano del secolo nel 1999.
Baba Maal, Ismaèl Lo, Coumba Gawlo … sono ugualmente delle vedette senegalesi conosciute a livello  mondiale.
Quando si parla di musica rap del Senegal uno dei grandi nomi è quello di Didier Awadi. Nato nel 1969 a Dakar, il suo primo album da solista «Kaddu gor» (parola d’onore), del 2002 gli varrà il premio «Rfi (Radio France internazionale) Musiche dal mondo», edizione 2003. Nell’ottobre 2005 pubblica il suo secondo album «Un altro mondo è possibile». È una vibrante arringa per delle politiche più umane e una più grande considerazione del cosiddetto terzo mondo. Il suo ultimo album, uscito nel 2007, s’intitola «Presidenti d’Africa». Vi si trovano i rapper africani e le voci dei presidenti del dopo indipendenza. Didier Awadi fa un discorso panafricanista. Per materializzare la sua visione, ha battezzato il suo studio con il nome di Thomas Sankara, il presidente burkinabè assassinato il 15 ottobre 1987. In Senegal, dunque rap e mbalax si completano.

blues e Tradizione

La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata.
Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum o Sidi Touré. Ancora la musica del wassoulou resa celebre da Oumou Sangaré. La musica maliana ha sempre saputo combinare modeità e tradizione. Non si può parlare di essa senza ricordare Ali Farka Touré. Nato nel 1939, questo virtuoso della chitarra, si è spento il 7 marzo 2005. Con la sua scomparsa la musica maliana perde uno dei suoi più illustri rappresentanti. Il musicista ha contribuito, durante tutta la sua carriera a mettere in evidenza la filiazione tra il suo blues e quello suonato nei campi di cotone oltre Atlantico dai discendenti degli schiavi africani. Questo autodidatta formato all’educazione dei campi, è rimasto sempre legato alle sue origini. Ancorato a una ruralità che voleva sempre difendere, al di là della stessa musica, si è fatto eleggere sindaco del piccolo comune di Niafunké, nel delta interno del fiume Niger. È laggiù che si installa dopo la morte di suo padre durante la seconda guerra mondiale.
Salif Keita è l’altra grossa stella della musica maliana. Nato il 25 agosto 1949, albino, in una regione dove quelli come lui sono mal visti, a causa dei poteri malefici che sono loro attribuiti. È respinto dalla famiglia. La sua scelta per la musica è pure condannata. Infatti, in Mali, la musica è tradizionalmente riservata alla casta dei griot. I Keita sono invece una famiglia di principi. Pagando il prezzo di mille difficoltà, riuscirà a realizzare il suo sogno. Oggigiorno, Salif Keita porta alta la bandiera maliana e africana delle grandi arene della musica internazionale.
Altri artisti come Rokia Traoré o Djeneba Seck, emergono dal contesto nazionale.

Il fenomeno tackborsé

In questi ultimi cinque anni, una nuova pagina musicale sembra scriversi in Burkina Faso con il ritmo tackborsé. Questo genere musicale è attualmente il più ascoltato nei maquis (piccoli ristoranti e bar popolari), posti alla moda e sulle onde radio e televisive. In Burkina anche l’esercito danza «rumorosamente» il tackborsé. Il ritmo unisce, scuote. Questo concetto che provoca il delirio di certi musicomani è stato concepito da un uomo: Ahmed Smani. Anche se in seguito, numerosi altri attori ci hanno messo le mani. Il tackborsé è la combinazione di warba, wiiré e di liwaga, tutte danze tradizionali. Il significato è «suonare il corno» in lingua mooré (la più diffusa in Burkina Faso, ndr) La danza consiste nel tirare dal suolo una corda immaginaria. Lanciando il tackborsé, Ahmed Smani aveva per ambizione quella di colmare un vuoto e soprattutto di contribuire alla federazione della galassia musicale nazionale. «Zalissa», il suo primo album, è un grande successo. Il ritornello ripreso dai cori spontanei. Nasce il genere tackborsé con grande gioia dei musicomani alla ricerca di un ritmo tipicamente ancorato nelle profondità locali. La danza prenderà davvero il volo con il titolo «Bouge» dell’album «Gouveement». Poi seguiranno i gruppi le pouvoir, la cour supreme, les premières dames. In una rivalità di nuove idee.
Oltre al tackborsé c’è lo stile couper décaler che è stato inventato in Costa d’Avorio. I giovani ballano anche al suono del rap. In questo genere gli artisti burkinabè più conosciuti sono gli Yeleen e Smockey. I primi hanno vinto il Kundé d’oro 2006 (concorso annuale per la canzone d’autore in Burkina Faso, ndr). È la ricompensa per il miglior artista o gruppo burkinabè.
Smockey, lui, è considerato come il guru del movimento Hip hop del Burkina. Il suo studio Abazon permette a molti giovani rapper di uscire dall’ombra.
Con altri artisti come Bil Aka Kora, Sissao, Faso Kombat la musica burkinabè sta prendendo un nuovo slancio. Un’innovazione che ha come base di partenza il lavoro di chi è venuto prima come i famosi George Ouedraogo, Jean Claude Bamogo, Salammo Joseph.

Da Dakar a Ouagadougou, passando per Bamako, gli artisti cercano di offrire alla musica africana quanto di meglio ci sia: un riconoscimento. E con le loro prodezze e i loro talenti danno ragione a Nietzsche, che ci ricorda: «Senza la musica, la vita sarebbe un errore». 

Di Arsène Flavien Bationo

Arsène Flavien Bationo




Il paese inesistente

L’ennesima crisi a Sud del Sahara

Dal bubbone del Darfur partono tre movimenti ribelli. Mettono a ferro e fuoco la capitale del Ciad. Ma il comandante in capo, presidente Déby, li respinge. Grazie alla logistica e alle munizioni francesi. Ma anche la Libia ha detto la sua. E dietro i ribelli il Sudan che vorrebbe cambiare il regime di N’Djamena, dove il clan al potere «sfrutta» il petrolio del sud del paese.

Sono almeno trecento pick up, circa tremila uomini. Procedono in colonne ordinate, provengono dal Sudan e si dirigono verso la capitale del Ciad. Così vengono avvistate dagli aerei militari francesi a fine gennaio. La notizia è inquietante, fa rivivere nelle menti l’attacco a N’Djamena dell’aprile 2006 ad opera dei ribelli del Fuc (Fronte unito per il cambiamento) di Mahamat Nour.
Idriss Déby Itno, presidente della repubblica e comandante in capo, decide di non fuggire, al contrario di battersi. Anche lui, come tiene spesso a precisare, è un militare.
In tre giorni i ribelli percorrono i quasi 700 km di Sahel tagliando il Ciad da Est a Ovest. Il primo febbraio sono a Massaguet, 80 km a Nord della capitale. Déby scende sul campo di battaglia, ma i suoi sono respinti ed è costretto a nascondersi. I ribelli entrano a N’Djamena il giorno successivo: così la gente della città è sconvolta dalla guerra per le strade. Raffiche di mitragliatori, cannonate, granate. E cadaveri abbandonati sul suolo sabbioso delle vie di quartiere.
I ribelli prendono la radio televisione nazionale, che però va in fumo e impedisce loro di trasmettere un messaggio al paese. Poi si avvicinano alla presidenza della repubblica. Ma sono i blindati T55 dell’Ant (armée nazionale tchadienne, l’esercito ciadiano) appoggiati dagli elicotteri che hanno la meglio su fuoristrada e mitragliatori.
Mentre Idriss Déby è rifugiato nel suo bunker alla presidenza, domenica sera i ribelli lasciano la città: ritirata strategica. La battaglia di N’Djamena è finita. Il bilancio provvisorio è di almeno 160 morti, un migliaio di feriti e 50.000 sfollati. Gli abitanti della capitale hanno passato, con ogni mezzo il ponte sul fiume Chari, che separa il Ciad dal Nord del Camerun. La cittadina Kousserié è stata invasa di profughi. Alcuni hanno continuato verso la vicina Nigeria.
I circa 1.500 militari francesi di stanza in Ciad hanno tenuto l’aeroporto, punto strategico per ogni operazione militare. Da qui sono stati evacuati circa 1.200 stranieri. Qui sono arrivati gli aerei libici carichi di munizioni per Déby. La Francia, legata da un accordo militare con il Ciad, ha infatti riconosciuto di aver dato appoggio logistico e tecnico. Ma anche di avere passato armamenti alla compagine governativa. I militari francesi sono stati costretti a rispondere al fuoco, per contrastare un tentativo dei ribelli di prendere l’aeroporto. Il presidente francese Sarkozy, nel momento più critico, ha proposto a Déby di evacuarlo, ma lui ha rifiutato, sicuro di vincere. E così è stato, mentre il ministro della difesa, Hervé Morin ha fatto una visita ai militari francesi subito dopo la battaglia.

La storia si ripete

Anche Déby prese il potere attaccando con i suoi la capitale nel dicembre 1990, destituendo un altro dittatore, Hissene Habré, del quale era stato capo di stato maggiore. Habré aveva guidato una ribellione negli anni Settanta fino a prendere il potere nel 1982, spodestando Goukouni Weddeye. In quell’epoca il Nord risentiva dell’influenza della Libia e il Sud della Francia. Sotto Habré si stimano in 40.000 gli uccisi e gli scomparsi. Così dal 2000 pende su di lui, rifugiato in Senegal, un’accusa di «crimini contro l’umanità».
Ma la storia post coloniale del Ciad è un intreccio di guerre intestine, colpi di stato e ingerenze straniere, spesso armate. Sopra tutte quelle di Libia e Francia. La prima influenza le sorti del paese da quasi 40 anni. È arrivata fino a conquistare la capitale (1980) e ha mantenuto il controllo del Nord del paese per lungo tempo. La seconda ha sempre mantenuto un «piede» nel paese appoggiando ora questo ora quel dittatore. Come disse l’ex presidente francese Jaques Chirac (in privato): il Ciad «è uno spazio definito dalle frontiere dei suoi vicini». Come dire: non esiste in quanto Nazione.

Il gioco delle etnie

Habré è di etnia gorane, originario di Faya-Largeau (centro – Nord), mentre Déby appartiene ai zaghawa (Fada, Nord – Est). Questa etnia, presente anche in Sudan, rappresenta il 3% degli oltre 9 milioni di ciadiani. Il presidente si è circondato del suo clan (sottogruppo zaghawa-bideyat), ha adottato il sistema di promuovere gli scontenti, soprattutto in seno all’esercito. Si è fatto eleggere a larga maggioranza nel 1996 e poi nel 2001. Nel 2005 riesce a far approvare, per via referendaria, l’emendamento della Costituzione del ’96, che prevedeva solo due mandati presidenziali consecutivi. Si fa quindi riconfermare nel 2006 e … non esistono più limiti.
Una storia di gestione del potere da parte di «signori della guerra» appartenenti a piccoli gruppi entici del Nord. Controllo quasi assoluto, a danno di tutto il paese, e in particolare il più popolato Sud. Il paese si può idealmente dividere in due, tagliandolo a metà dal 13° parallelo. Quelli che provengono dalla metà Nord hanno sempre gestito le ricchezze della metà Sud. Come ultima il petrolio.

Il fattore «P»

Alla fine degli anni ’90 viene scoperto il petrolio nel Sud del Ciad. Il giacimento di Doba inizia a fornire il greggio nel 2003 e oggi frutta 2 miliardi di dollari l’anno.
Nel 2004 viene inaugurata una raffineria a N’Djamena e, l’anno prima, un oleodotto di oltre 1.000 km che attraversa il Camerun, fino al porto di Kribi, nel Golfo di Guinea. Finanziano Banca mondiale (Bm) e alcune compagnie petrolifere (Exxon Mobile, Chevron Texano e Petronas).
Gli investimenti della Bm erano soggetti a un accordo singolare: l’80% del ricavato dalla vendita del greggio sarebbe stato vincolato a investimenti per l’educazione e la sanità, mentre il 10% accantonato in un fondo per le «generazioni future». Ma il governo ha deciso che la sicurezza del paese è altrettanto importante e ha iniziato quindi a investire in armamenti, mentre il fondo sul futuro viene soppresso.
È prevista un’imposta complementare sulle società di quasi 300 milioni di dollari come «restituzione», che fornisce ulteriori introiti al governo.

Vicini scomodi

Importante e complesso è l’intreccio con la crisi del Darfur, che vede Ciad e Sudan protagonisti in un conflitto  che ha raggiunto connotazioni regionali.
Dal febbraio 2003 in questa regione dell’Est Sudan i governativi reprimono la popolazione appoggiando miliziani nomadi janjawid contro una ribellione delle popolazioni nere locali, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Mje). Il conflitto ha generato, secondo le organizzazioni inteazionali, una delle maggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, causando almeno 200.000 morti e 2,2 milioni di sfollati (di cui 240.000 in campi profughi in Ciad). Una settimana dopo la battaglia di N’Djamena, esercito sudanese (appoggiato dall’aviazione) e milizie janjawid hanno attaccato tre villaggi del Darfur, causando una nuova ondata di 12.000 persone che si sono rifugiate nel Sud-Est del Ciad.
Il governo di Déby appoggia i ribelli del Darfur, così l’Mje è venuto in soccorso al Ciad durante la battaglia di N’Djamena. A dicembre i militari ciadiani hanno sconfinato in Sudan per appoggiare direttamente l’Mje.
Il Sudan di Hassan el-Beshir, invece, finanzia, in misura diversa tra loro, i gruppi ribelli ciadiani. Karthoum è interessato a un cambio di potere nel paese vicino, anche per rompere l’equazione zaghawa, etnia di Déby presente in Darfur.
Il Sudan, a sua volta fornisce alla Cina petrolio in cambio di armamenti di ogni tipo, pesanti e leggeri (vedi anche MC dicembre 2007). Si dice infatti che: «il Darfur sta sporcando l’immagine dei giochi olimpici di Pechino 2008».
Il ministro dell’interno di Déby parla di «mercenari, elementi della legione islamica, di al-Qaeda, al soldo del Sudan», mostrando alla stampa 135 prigionieri catturati dopo la battaglia di N’Djamena. Alcuni dei quali minorenni. Affermazioni che vogliono rafforzare l’immagine che Déby sta vendendo all’Occidente, quella di garante di stabilità regionale, contrafforte che si oppone all’avanzata degli arabi e degli islamici verso l’Africa Centrale e dell’Ovest.

Quel ribelle di mio nipote

Il Sudan nega ufficialmente ogni impegno in appoggio dei ribelli ciadiani, che peraltro hanno le loro basi nel Darfur. Sono tre gruppi distinti che hanno attaccato N’Djamena. Le differenze profonde e le difficoltà di cornordinazione tra di loro sono state uno dei fattori critici che hanno permesso a Déby di resistere. «Ci doteremo di un capo unico» dichiara il portavoce dei miliziani Abderaman Koulamallah e la pressione in questo senso del Sudan è forte.
Timane e Tom Erdimi, capi del Rfc (Rassemblement des forces pour le changement) sono nipoti di Idriss Déby.  Zaghawa come lui, hanno occupato posti di altissimo rilievo alla presidenza. Nel 2005, all’indomani della riforma costituzionale, che svela le intenzioni dello zio a non lasciare il timone.
Mahamt Nouri è l’uomo di Karthoum. Di etnia gorane, come Hissène Habré con il quale ha combattuto e poi governato. Occupa poi posti chiave anche con Déby. È capo del Ufdd (Union des forces pour la démocratie et le développement) e uno degli uomini più forti della ribellione, grazie al sostegno del Sudan. Abdelwahid Abdou Makey è un arabo ciadiano. Ribelle di lungo corso fin dalla guerra civile del 1980. È poi a fianco dei Mahamat Nour nell’attacco dell’aprile 2006, fonda poi l’Ufdd –  fondamentale, alleandosi con Mahamat Nouri (quasi omonimo di Nour), con il quale, però, non va troppo d’accordo.
La risoluzione della crisi del Darfur, è un passaggio nodale per riportare la pace nell’intera regione.
Non è un caso che, pochi giorni prima dell’attacco ribelle, l’Eufor, la forza europea in Ciad e Repubblica Centro Africana (Rca), avesse iniziato il proprio spiegamento. Già in ritardo a causa della difficoltà dei paesi europei a mettersi d’accordo, era stata bloccata. L’Eufor ha come missione la protezione di 450.000 tra profughi del Darfur e sfollati ciadiani e centrafricani in Ciad e nord della Rca. Composta da 4.700 uomini di 14 paesi (di cui 2.100 francesi), ha ripreso a installarsi a metà febbraio.

E dopo?

«Dopo la battaglia di N’Djamena i militari sono tornati in città e hanno festeggiato ubriacandosi e sparando in aria» racconta un volontario da una località del sud «peccato che festeggiando abbiano ucciso un uomo e due bambini». «È facile di questi tempi incontrare militari ubriachi…» continua.
Dopo la ritirata strategica, i ribelli riparano a Sud-Est, passando da Mongo, nel centro. Sono seguiti – a distanza –  dai francesi e dall’esercito regolare. Ripiegano perché hanno finito i rifoimenti e perché «i carri armati vincono sui pick up» come dichiara Mahamat Nouri. Sono convinti che il presidente sarebbe caduto, se non avesse avuto l’appoggio della Francia. I transalpini hanno scelto Déby come il «meno peggio», non potendosi fidare dei ribelli (pur tentando di negoziare l’avvio di un processo democratico in caso di vittoria di questi…). «Non tollereremo un altro attacco alla capitale» raccontano militari francesi a un testimone. I ribelli si dividono e vanno nella zona della frontiera tripla Ciad – Sudan – Repubblica centro africana.

Stato di emergenza

Intanto Déby dichiara lo «stato di emergenza» su tutto il territorio nazionale, per 15 giorni. Questo gli permette di rendere legali le perquisizioni di abitazioni private (già largamente abusate subito dopo la battaglia di N’Djamena), i posti di blocco e il controllo della stampa pubblica e privata. Instaura anche il coprifuoco notturno. Subito dopo la battaglia furono arrestati «manu militari» tre  importanti leader dell’opposizione: Lol Mahamat Choua, Ibni Mahamat Saleh e Ngarléjy Yorongar. Solo del primo, già capo di stato, si hanno notizie: dopo aver passato un mese in una prigione militare, viene messo agli arresti domiciliari. Degli altri due nessuna notizia. «Non sappiamo dove siano» dichiarano dal governo. Intanto Francia e organizzazioni per i diritti umani fanno pressioni affinché siano liberati.
Il presidente francese, in volo per il Sud Africa, decide di fare un breve scalo in Ciad il 27 febbraio.
«Il messaggio del presidente al suo omologo sarà molto chiaro: occorre un’inchiesta credibile» dichiara il portavoce dell’Eliseo, David Martinon. E continua: «Il presidente della repubblica dirà al capo di stato ciadiano che l’amicizia tra i due paesi potrà aumentare solo se il processo di democratizzazione in Ciad riprende e si accelera». Preoccupazione dunque, per la tendenza di deriva autoritaria del regime di N’Djamena.
«Il Ciad è un paese strano – ci racconta un volontario italiano – sembra tutto tranquillo e, all’improvviso, si scatena l’inferno». 

Di Marco Bello

Marco Bello