MUKIRI: Uomo dell’acqua e costruttore di chiese

Fratel Giuseppe Argese, detto Mukiri: 50 anni a servizio della chiesa e degli africani

Lo scorso settembre ha celebrato senza rumore 50 anni di lavoro in Kenya: non per nulla la gente
lo chiama «Mukiri» (il silenzioso). Al suo posto parlano tante chiese costruite nella diocesi di Meru e, soprattutto, l’acquedotto di Tuuru, un’opera d’ingegneria idraulica che non cessa di stupire. Ma il più bello deve ancora venire, a Dio piacendo.

Porto di Mombasa, 27 settembre 1957. Un uomo scruta i volti di tutti i passeggeri che sbarcano dalla nave appena attraccata. «Tre preti e una suora» grida. Li trova finalmente: due preti, un fratello laico e una suora. «Haraka!» (sbrigatevi). Non c’è tempo per il benvenuto; il treno sta aspettando. Il tempo di arrivare alla stazione, prendere il biglietto del treno notturno per Nairobi e… benvenuti in Kenya!
Il giorno dopo, un missionario veterano li attende alla stazione di Nairobi. Rapidi saluti, una sbrigativa sosta all’ufficio immigrazione per le formalità, un cambio di macchina alla procura a Muthaiga, un «arrivederci» ai tre compagni di viaggio in mare e il giovane fratello, appena 25enne, comincia a prendere confidenza con le polverose strade verso il nord, destinazione: la città di Meru. Ci arriva il 29 settembre, dopo una nottata a Kyeni e un interminabile viaggio, serpeggiando su e giù per le colline nella rovente calura della stagione secca.
Giuseppe Argese, nato nel 1932, missionario della Consolata, è arrivato nella diocesi che segnerà per sempre la sua vita. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone è in Italia; a dargli il benvenuto è fratel Francesco Costardi, non ancora 33enne, arrivato in Kenya all’inizio dello stesso anno, con l’incarico di costruire la cattedrale di Meru, che spunta appena dalle fondamenta. Per dicembre è previsto l’arrivo di altri tre fratelli: Giovanni Comaron, Dino Bottaro e Bruno Bessani; ma saranno destinati a costruire un santuario dedicato alla Consolata a Karatina, per ringraziarla del ritorno in Kenya dei missionari che, durante la seconda guerra mondiale, erano stati portati in campo di concentramento in Sudafrica. Progetto mai decollato e poi costruito a Nairobi.
Il giorno dopo, 30 settembre, fratel Costardi si ammala ed è portato all’ospedale. Fratel Argese si trova solo a dirigere la costruzione della cattedrale: 80 lavoratori aspettano pazientemente le sue direttive.
È troppo! Due settimane prima era ancora in Italia e, all’improvviso, eccolo là, con una cattedrale tutta da costruire. Si rifugia nella sua camera e si siede sconsolato sul baule. Dopo pranzo prende la decisione: se una cosa va fatta, è meglio affrontarla subito. Esce e comincia a lavorare con gli 80 uomini.
La cattedrale cresce; artigiani e muratori si abituano al nuovo capo che non sa una parola della loro lingua (il kemeru), ma migliora di giorno in giorno nella comunicazione non verbale.?Tre anni dopo, il 10 settembre 1960, la cattedrale viene ufficialmente inaugurata.

COSTRUTTORE DI CHIESE

Quando mons. Bessone si stabilì a Meru, gli unici edifici in pietra nella diocesi erano l’abitazione dei missionari e la chiesa a Kyeni. La casa era stata costruita in pietra per motivi di sicurezza durante il periodo dell’emergenza mau-mau; ma la chiesa era in condizioni tali che poteva crollare da un momento all’altro.
A quei tempi, i fratelli abitavano a Meru, insieme al vescovo, ma operavano su tutto l’immenso territorio della diocesi, oggi suddiviso nelle diocesi di Meru, Embu, Garissa, parte di Malindi e vicariato di Isiolo.
La cattedrale di Meru è una delle tante chiese costruite dal gruppo dei missionari fratelli. Ma quasi tutte le chiese della diocesi di Meru portano l’impronta di fratel Argese: quella di Chuka, costruita nello stesso periodo della cattedrale, quella di Muthambe con colonne in calcestruzzo, e poi Egoji, Mkabone, Kianjai e Mujwa.
Anche a Isiolo la prima chiesa fu opera sua, provvisoria anch’essa, perché mancava l’autorizzazione per costruire strutture permanenti.
Correva l’anno 1963. Don Luigi Locati era giunto a Meru per aprire una missione affidata ai preti fidei donum della diocesi di Vercelli. Fratel Argese, su incarico del vescovo, portò il prete vercellese in lungo e in largo attraverso la diocesi, dal Tharaka a Garissa, da Wajir a Chuka, da Embu a Isiolo: qui don Luigi decise di fondare la nuova missione e il fratello gli costruì la prima chiesa e prima casa.
Quante volte fratel Argese, da solo, si recò a Merti, per portare acqua e viveri ai costruttori di una scuola-cappella. Sono quasi 300 km da Isiolo, in una regione desertica in cui incontrava solo la pattuglia della polizia, che si recava da quelle parti una volta la settimana.
Dopo 11 anni, nel 1968, fratel Argese toò in Italia. Fece appena in tempo a godersi le vacanze, che fu chiamato a risolvere i problemi della costruzione del santuario della Consolata a Nairobi: le fondamenta erano state fatte male, mettendo a rischio la stabilità di tutta la struttura in cemento armato.?Vi restò per sei mesi, quindi toò a Meru, ma si ammalò e dovette stare per qualche mese in ospedale.
Intanto crescevano altre chiese a Tuuru, Laare, Maua, Kirwa, Adero… L’ultima la sta costruendo con pazienza nel campo base dell’acquedotto di Mukululu.

ACQUA, PER FAVORE!

La passione di costruire chiese non lo ha mai lasciato, ma ciò che accadde nel 1967 cambiò per sempre la sua vita. Padre Franco Soldati aveva aperto, nella missione di Tuuru, un centro per bambini colpiti da poliomielite, una malattia epidemica nella zona di Igembe per la scarsità di acqua e igiene. La missione di Tuuru, come tutta l’area dell’Igembe, si stende su uno spesso strato di detriti vulcanici, privo di acqua potabile, fiumi o sorgenti. Il centro si trovò quasi subito a dovere affrontare il problema dell’acqua. Padre Franco lanciò la sfida a fratel Argese: «Hai trovato acqua per altri, trovala anche per noi!».
In altre località, come Chuka, Mujwa, Egoji, Mikinduri, grazie all’abbondanza di acqua, erano state costruite scuole, chiese e altre opere sociali. Nell’Igembe, invece, per la scarsità di acqua, era tutto in situazione di stallo, evangelizzazione compresa.
«Dateci l’acqua, per favore!». Più facile a dirsi che a farsi. Gli anziani del luogo avevano rivelato con riluttanza a padre Franco che nel profondo della foresta del monte Nyambene c’era una sorgente perenne, dove erano soliti recarsi per fare i loro sacrifici e celebrazioni. La foresta era a 25 km di distanza. Come fare per portare l’acqua fino a Tuuru?
Per fratel Argese era un grande rompicapo, finché entrò nella foresta, fece misurazioni varie, tracciò schizzi, disegnò mappe, studiò testi che trattavano di tubature, dighe, cistee, pressione… ed ecco scaturire il progetto da presentare al vescovo.
– Monsignore, sfruttando la legge di gravità, è possibile portare l’acqua dalla montagna fino a Tuuru.
– Va bene, ma dove troviamo i soldi?
– Monsignore, lei mi ha chiesto se fosse possibile ottenere l’acqua; ora, l’acqua è là, il progetto è qui; ci sono problemi, certo, ma se la cosa deve essere fatta, i soldi arriveranno.
«Non ho soldi» era un ritornello sentito tante volte, quando si trattava di costruire le chiese. «Mi faceva innervosire che monsignore buttasse tutto all’aria per questione di soldi -racconta fratel Argese -. Ci furono anche momenti di tensione. A volte, a Meru, quando ci incontravamo, facevamo percorsi diversi nella casa. Però, non smettemmo mai di cornoperare lealmente, alla ricerca di ciò che era meglio per la gente e la diocesi. Non lo adulavo mai; ma quando morì, piansi e piansi molto! E poi, il denaro necessario arrivava sempre».

Zappe Sì, caterpillar no

Uscito dall’ospedale, nel 1969, fratel Argese ebbe una bella notizia: Misereor, l’organizzazione della Conferenza episcopale tedesca, aveva approvato la prima fase del progetto idrico: 700 mila marchi. E si mise subito all’opera per allestire il campo base a Mukululu, vicino a una cappella fatta di pali, fango e tetto di paglia.
Dalla Germania, i sostenitori del progetto volevano che si comprasse un caterpillar per accelerare lo spostamento della terra e completare l’opera in pochi mesi. Ma fratel Argese non ne volle sapere. Un caterpillar avrebbe distrutto le piccole shambas (campi coltivati) dove doveva passare la conduttura principale. Inoltre, con il costo di una tale macchina avrebbe potuto pagare per più di tre anni il salario di 100 lavoratori, armati di zappe, pale e carriole. Il progetto risultò essere una gran benedizione per la popolazione locale: lavoro e acqua, oltre alla riduzione al minimo dell’impatto ambientale.
Nel gennaio del 1970 si iniziò a scavare. Il tempo non costituiva un problema. Per gente abituata da secoli a disporre di poca acqua, un giorno o un anno in più non avrebbero fatto tanta differenza. Il fattore tempo, però, una differenza l’ha fatta, e grossa pure: il fatto che nell’arco di quasi 40 anni siano state impegnate centinaia, anzi, migliaia di persone, ha fatto sì che il progetto arrivasse nel profondo del cuore della popolazione locale: non era un’opera calata dall’alto da un’efficiente Ong straniera, che arriva e se ne va; ma un progetto fatto con la gente, dalla gente e per la gente.

Goccia a goccia

Nonostante i timori di monsignore, il denaro arrivò fin dall’inizio del Tuuru Water Scheme (Progetto acquedotto di Tuuru) da donatori stranieri e harambee locali. Sono stati investiti milioni di dollari provenienti da vari paesi. Fratel Argese rimane sbalordito quando pensa al sostegno straordinario proveniente da ogni parte.
Come avviene nella foresta, dove l’acqua è raccolta goccia a goccia, formando milioni di litri per rispondere al fabbisogno quotidiano della gente, allo stesso modo, il danaro necessario è stillato goccia a goccia: un marco sull’altro, una peseta sull’altra, una lira sull’altra, un fiorino sull’altro, un euro sull’altro, un dollaro sull’altro… e persino uno scellino sull’altro!
Ed ecco i risultati. Un progetto nato su scala ridotta, è diventato una rete di oltre 250 km di condutture, decine di cistee e migliaia di punti di distribuzione: ogni giorno vengono distribuiti quasi 4 milioni di litri d’acqua a oltre 250 mila persone, più di 40 mila capi di bestiame, 20 mila pecore e capre. E il progetto continua, per rispondere alle necessità della gente nelle zone più remote.
L’acqua ha cambiato la vita alla regione: la poliomielite è quasi scomparsa, villaggi e commerci sono spuntati come funghi intorno ai punti di erogazione, le scuole sono progredite, la popolazione è cresciuta, le donne sono state liberate dalla schiavitù di dover attingere acqua in luoghi lontani e pericolosi, l’igiene personale è diventata più agevole, tanti uomini possono avere un lavoro fisso, molti hanno imparato nuovi mestieri, i problemi di salute si sono ridotti (anche se ne sono sorti altri, come quelli legati al consumo delle foglie narcotiche della miraa).
Si dice che una goccia fa traboccare il vaso; ma in questo caso le gocce d’acqua raccolte con pazienza nella foresta del Nyambene hanno messo in moto un lento ma solido processo di cambiamenti di un distretto che, negli anni ’60, era uno dei più poveri ed emarginati del Kenya.

Mukiri

Dietro a tutto ciò, ecco il nostro uomo, il costruttore di chiese, l’uomo dell’acqua, come è chiamato dalla gente del posto. Il Tuuru Water Scheme ha impegnato gli anni migliori della sua vita. A 75 anni (compiuti il giorno di san Martino), l’uomo ha perduto l’agilità e vigore fisico che aveva quel pomeriggio del 30 settembre 1957, quando iniziò a lavorare alla cattedrale di Meru; la sua mente, però, è più lucida che mai, non solo nel seguire la miriade di progetti intrapresi, ma anche nel pensare a qualcosa di nuovo e imprevedibile.
Per conoscere quest’uomo un po’ più da vicino, curiosiamo fra i suoi libri! Entrando nella sua casetta di tronchi d’albero, a sinistra troviamo scaffali zeppi di libri messi alla rinfusa. Ci sono, naturalmente, libri relativi all’acqua: prese, pompe, dighe, depurazione, tubature, foreste pluviali e così via.?Testi su arte muraria, edilizia e architettura, carpenteria e falegnameria, disegno tecnico e di rilevamento. C’è una nutrita selezione di testi religiosi, sulla sua famiglia, i missionari della Consolata, sulla chiesa in Kenya, spiritualità, vite di santi, sacra scrittura, storia della chiesa.
La storia dell’evangelizzazione lo appassiona: conosce a memoria gli episodi più significativi dell’evangelizzazione dell’Africa e del Kenya in particolare. E poi libri su geografia, popoli e culture del paese di adozione. Infine, e non ci sorprende conoscendo l’uomo, libri su agricoltura, frutteti, fiori, insetti e uccelli, colture resistenti alla siccità e una sezione speciale su ulivi e vigneti. In più, libri su cure con erbe medicinali e metodi naturali.
Su un altro scaffale, libri scelti di cucina, su come preparare marmellate e, perché no, su come fare del buon formaggio. Ci sono pure libri fotografici, sulla sua bella città natale, Martina Franca, sull’Africa, il Kenya e il suo acquedotto… Anch’esso è stato fotografato dentro e fuori, descritto in libri e in video. Non troviamo molti romanzi; quei pochi, si può arguire, sono regali di amici che hanno goduto della sua squisita ospitalità.
Prima di arrivare in Africa, fratel Argese aveva frequentato un corso di edilizia per corrispondenza presso un istituto professionale di Luino, ma non lo aveva terminato. Lo ha completato sul campo, con la costruzione della cattedrale di Meru, fino a diventare, a livello mondiale, un esperto nel raccogliere l’acqua nella foresta equatoriale e un grande ambientalista. Le due realtà, infatti, sono strettamente connesse: la foresta può fornire acqua solo se rimane nelle condizioni originarie.
Difendere la foresta del Nyambene da disboscamento e speculazione edilizia è stata una priorità, portata avanti dalla gestione dell’acquedotto di Tuuru da parte della diocesi di Meru.?Tale impresa, però, è aperta a molte iniziative: dalla cooperazione con università locali e straniere al coinvolgimento di entomologi, botanici, oitologi, zoologi per scoprire biodiversità e peculiarità di una foresta speciale come quella del Nyambene; da campagne educative nelle scuole a dibattiti con le comunità circostanti; da attività di promozione agro-turistica a istruttive visite guidate; da documentari filmati a pubblicazioni.
La gente del luogo lo chiama «mukiri», il silenzioso. Fratel Argese è, infatti, un uomo di azione più che di parole; la sua comunicazione, essenziale, misurata e diretta, è scevra di inutili giri di parole. I suoi operai hanno imparato ad ascoltarlo attentamente, perché non ama ripetere le cose. Insegnamento di base, comunicazione chiara e fiducia sono il fondamento su cui ha costruito il rapporto con i suoi lavoratori.
È questo il segreto delle molte attività che porta avanti da Mukululu. Un lavoro su quattro fronti: progetto idrico, fattoria e vigneto di Liliaba, costruzione del santuario della Consolata, attività di consulenza in tutti i progetti di sviluppo diocesani.

Mukiri tagli la torta della festa con padre Aquileo Fiorentini, allora superiore generale

Il Missionario

Quando aprì il campo di Mukululu, Mukiri poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche… tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo.
Il santuario è la sintesi dello stile di evangelizzazione di Mukiri: costruisci la persona nella sua pienezza e ne farai un cristiano che dà gloria a Dio; e potrebbe essere il paradigma della relazione tra evangelizzazione e promozione umana: due facce della stessa azione salvifica di Dio. È lo stile dell’Allamano, che ai suoi missionari partenti per la missione tra gli africani raccomandava: «Fateli prima uomini e poi cristiani».

SOGNI SENZA Tramonto

A 75 anni, Mukiri è consapevole che non può essere attivo come ai vecchi tempi, ma va avanti, riposando un po’ di più e spronando altri ad assumere le responsabilità. Nel luglio scorso si è realizzato un altro sogno: dopo 7 anni di duro lavoro, ha visto riempirsi la seconda diga sul fiume Ura, che ha una capacità di 55 mila metri cubi. Ad agosto l’ha vista tracimare, così pure all’inizio di ottobre: ormai l’acquedotto di Tuuru può affrontare le siccità più spaventose.
E Mukiri può dedicare più tempo alla costruzione del santuario, alla vigna piantata a Liliaba, dove una volta c’era un campo di prigionia mau-mau. Gli amici lo aiutano a piantare nuovi vitigni e migliorare la qualità del vino. I vescovi lo incoraggiano a produrre vino da messa di qualità. Ma la sua più grande soddisfazione è vedere che circa 200 famiglie hanno piantato le viti nelle proprie shambas e sono in grado di vendere 20-50-100 kg di uva. Non è molto, ma aiuta i magri introiti familiari.
Eppure, di fronte alla crescente domanda d’acqua in altre aree del Nyambene, Mukiri ha un ultimo grande sogno: una terza diga nella foresta, capace di quasi 1 milione di metri cubi! Un’impresa ciclopica, che solo un uomo di fede come lui è in grado di sognare. Costerà milioni di ore di lavoro e miliardi di scellini… La gente lo vuole e ha bisogno di lavorare; di tempo ce n’è in abbondanza; il progetto è quasi pronto e i donatori sono interessati; presto sarà contattato il governo per le necessarie autorizzazioni. Riuscirà a vedere anche questa diga tracimare? Mukiri non lo sa e non gli importa di saperlo. Se deve essere fatta (cioè, se Dio lo vuole), sarà fatta, perché Dio provvederà!

Luigi Anataloni




ELOGIO DELLA TENEREZZA

Bambini disabili e comunità indigene andine

Llaqui causaimanta cushicui causaicama: in lingua quechua significa:
«Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso.

Il racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secondo la versione che ce ne dà l’evangelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, infatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?… E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57).
Non è il contenuto dell’insegnamento di Gesù ciò che causa scandalo, bensì il modo e il metodo di insegnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-storia» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospettiva di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi».
Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerentemente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi educativi che servano da premessa obbligata a futuri pedagogici impensati e inauditi.
Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare domande scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disabili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali. Cosa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, in modo particolare di un bambino «speciale» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordinarie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspettare di raggiungere nuovi orizzonti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, adesso?

Doppiamente svantaggiati

Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi valere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appoggio che non sia vincolato a una scadenza da onorare non ha posto a sedere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nulla; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere. Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamente; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con  il cristianesimo non l’hanno più fatto, ma il disagio nei confronti di un membro della comunità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito. Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bisogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere, ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra… Questo incide molto sulla vita di tutti i giorni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’appoggio che si potrebbe offrire agli altri figli sani.
Nel contesto indigeno tradizionale le famiglie non possono neppure aspettarsi un grande aiuto dalle proprie autorità comunitarie. Un bimbo con handicap è un evento straordinario e ha bisogno di sostegni straordinari. In questi anni abbiamo cercato di portare avanti un lavoro di educazione dei dirigenti indigeni, orientato al rispetto per la persona, soprattutto per i bambini, spingendo affinché la comunità sentisse l’importanza di dare ai giovani sussidi e sostegni per la loro formazione. Ma il cammino è ancora lungo; nel mondo indigeno non esiste ancora uno spirito di gratuità: aiutano perché sono aiutati. L’idea di sacrificare qualche cosa di personale a titolo gratuito e a beneficio altrui non appartiene ancora a una cultura che fonda la propria etica della relazione sulla reciprocità e, quindi, sul do ut des: ti do se mi dai, oppure mi aspetto qualcosa da te in cambio di quanto ti ho dato. Al contrario, il gesto verso un bambino disabile è pura solidarietà, perché un bambino del genere non può darti nulla in cambio.
Con pazienza abbiamo insinuato l’idea che la situazione delle persone in difficoltà deve diventare una priorità dell’organizzazione e della progettazione comunitaria. La famiglia fa parte di una comunità, ne rappresenta la sua porzione più piccola; i suoi problemi e le sue priorità sono di interesse comune e non si limitano ai membri della famiglia stessa. Ne consegue che una buona progettazione comunitaria non deve pensare esclusivamente alla strada, all’acquedotto, ma puntare al benessere della gente inteso in un senso complessivo. Lo stesso discorso vale anche per gli anziani. Diventando vecchie e malate le persone iniziano a rimanere al margine della società e cominciano ad aver paura, paura, persino, che si dia loro qualcosa per andarsene da questo mondo il più in fretta possibile. Finché una persona serve, lavora e produce si guadagna il rispetto; quando invece la stessa persona non riesce più a contribuire alla vita della comunità diventa un peso, un valore passivo nel bilancio che deve essere limitato al massimo in attesa di venire eliminato del tutto. Chiaramente generalizzare non è possibile, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa mentalità è ancora viva. È una degenerazione del concetto di reciprocità che diventa un assoluto soffocante e schiavizzante.

Medicina «del cuore»

È dunque possibile che a tali sfide si possa rispondere con la tenerezza? La tenerezza non è solo una capacità affettiva, ma un trattamento che la pedagogia educativa deve cominciare a stimare e considerare come prezioso alleato. Diventare umani nelle relazioni reciproche e vincolanti per vari motivi di vicinanza e di mutuo riconoscimento è compito di tutti i giorni e di ogni giorno in particolare. Per questo parliamo di quotidianità educativa nella costruzione dell’elemento umano, cercando e avvicinandoci al più concreto, più conosciuto e più prossimo. Lì, di fronte alla persona reale e vicina, suggeriamo gli accorgimenti della sopravvivenza, come resistenza agli sconforti e come speranza di un modo di vivere nuovo, adatto a divenire parte ordinaria della vita.
Vogliamo educare esseri umani a diventare più umani e «meglio» umani, ben consapevoli che l’umanità in sé comporta una condizione non conclusa e incompiuta.
Nella cosmovisione andina l’armonia tra le creature è essenziale per la convivenza. Ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni o abusi spaziali. Se uno, invece, non occupa il proprio posto per insufficienza o provvisorietà di qualsiasi genere bisogna aiutarlo ad arrivare ad assumere una posizione propria nel contesto comunitario.
Sorge allora incontrastato il diritto alla tenerezza: amorosa, sensibile, affettiva. La tenerezza è la qualità che rende possibile la convivenza umana rispettando la singolarità e la diversità di ognuno, che fa volgere lo sguardo e prestare attenzione verso il più debole, la persona svantaggiata che non ha una posizione definita e conclusa nell’armonia del cosmo.
Più che attribuzione, la tenerezza è un paradigma di convivenza che deve realizzarsi nel terreno familiare, sociale e comunitario, conquistando progressivamente il diritto ad esistere nei territori che, per varie ragioni, si sentono autorizzati ad escludere i differenti, i «non conclusi», coloro che non hanno posizione, come nel caso dei portatori di disabilità.
A Nazaret, Gesù si stupì della incredulità dei suoi compaesani. La sua pedagogia aveva indicato come realtà prioritarie momenti umani non conclusi:  poveri, ciechi, prigionieri, sordomuti, ecc. che aspettavano attenzione e considerazione. Aveva anche lasciato capire che i loro affetti e le loro cosmovisioni senza tenerezza per la povera gente erano progetti lontani da Dio.
Sarà un messaggio valido anche per noi, oggi? Nel nostro mondo c’è la tenerezza? Nella chiesa, nelle nostre comunità religiose c’è la tenerezza? Domande scomode, ma che è urgente farsi. Nella lettera ai Romani (10, 10), San Paolo parla di: parola e cuore. Con la parola proclami e con il cuore credi. È difficile far entrare la tenerezza in un determinato contesto perché oltre alle parole bisogna saper mettere il cuore.
In questo oggi latinoamericano, così pieno di sfide e così scao di incoraggiamenti e speranze, irrompe una riflessione nuova e promettente che, senza permesso, avvicina e articola campi teorici e pratici nella pedagogia e nella scienza dell’educazione. Il progetto di Gesù conserva tutta la sua forza e la sua attualità.
In un mondo senza tenerezza abbiamo provato a porci la domanda: «La tenerezza fa bene o no? Anche a coloro che sembrano escluderla dalle loro relazioni interpersonali?». Quando si è iniziata la nostra attività con i bambini disabili delle nostre comunità indigene, si è agito su un piano di scommessa: «Scommettiamo che la tenerezza piace?». È piaciuta ed è stata la prima medicina, che ha letteralmente trasformato bambini rifiutati, marginalizzati, senza possibilità e che adesso si sentono stupendi. Solo poco tempo fa mi è giunta la notizia che due bambine della nostra comunità hanno partecipato alle paraolimpiadi, organizzate in Ecuador dall’esercito, e una di esse ha vinto una medaglia. La tenerezza ha fatto effetto, è entrata in piccole dosi, ma ora non se ne può più fare a meno. Ricordo la «battaglia delle scarpe», combattuta tempo fa: cosa non c’è voluto per inculcare l’importanza di usare scarpe in un ambiente come quello montano della provincia del Chimborazo in Ecuador, dove si vive a circa tremila metri d’altezza! Adesso tutti mettono le scarpe e non possono fae a meno. Quando si comincia ad usare una cosa e si fa esperienza della sua utilità, poi non se ne può più fare a meno! Se mettiamo tenerezza nelle nostre relazioni con i bambini, questa viene da loro assimilata con naturalezza e altrettanto spontaneamente trasmessa ad altri.
Sono solamente 5 anni che si lavora in questo campo, ma già si vedono piccoli risultati che confortano e fanno ben sperare per il futuro; bisogna assolutamente confidare nel tempo. In particolare lo si nota fra le ragazze del posto che abbiamo iniziato a formare come educatrici: che bello vedere con che tenerezza trattano questi bambini. Un’indigena che si preoccupa di un’altra indigena è un bel segno! Ragazzi che si preoccupano di altri indigeni che non appartengono direttamente alla loro comunità rappresentano un bel passo avanti, si creano delle trasformazioni che produrranno del bene non soltanto ai bambini più svantaggiati, ma alle famiglie e, attraverso di loro, a tutta la comunità.  

di Giuseppe Ramponi

    QUANDO LA TENEREZZA PAGA

Una goccia d’ acqua fresca nell’oceano della solitudine: questa è l’esperienza di Bucapne (Buscar casa para niños especiales), un progetto che si propone di cercare casa per bambini diversamente abili.
Il progetto è nato cinque anni fa, al rientro dalle mie vacanze in Italia. Avevo fresca nella memoria la triste visione di bambini emarginati da qualsiasi contesto sociale ed educativo perché indigeni e disabili. Nelle comunità indigene il «problema disabili» esiste, anche se molte volte in modo nascosto, ed è generalmente avvertito come una disgrazia. Nessuno però, si sente di dare a questa «disgrazia» una risposta concreta; chi, del resto, investirebbe con coscienza un solo dollaro su una scommessa già persa in partenza? In una cultura dove neanche una moglie merita sostegno economico quando si ammala e non può più essere fonte di guadagno, come ci si potrebbe aspettare di veder finanziate opere per bambini che sono e saranno sempre problemi costosi senza soluzione?
Nelle città esistono istituzioni adeguate all’assistenza di persone disabili, ma accettano soltanto i bambini le cui famiglie presentano determinati requisiti come una certa possibilità economica e la disponibilità di tempo per accompagnare e seguire la persona nel cammino di riabilitazione.
Quando ho deciso di occuparmi di questi  bambini, ho cercato di fare una diagnosi della situazione reale. Era infatti importante avere un quadro generale dei possibili fruitori del programma. I miei collaboratori si sono messi all’opera e alla fine delle loro ricerche hanno presentato una lista di ben ottanta casi da prendere in considerazione. Davanti a tale numero ho deciso che se proprio dovevo pensare ad un’opera conclusiva della mia carriera missionaria, non poteva essere che quella.
Amici generosi mi hanno animato e concesso l’appoggio di cui avevo bisogno. Alcuni di essi dovranno andare in cielo a «furor di poveri» per l’incoraggiamento e la mano che hanno saputo darmi.
Comprai un pulmino perché la prima cosa da fare era accompagnare i bambini presso specialisti che ci aiutassero a selezionare bene i casi su cui intervenire. Il risultato di questo lavoro iniziale fu positivo: grazie ai primi interventi molti bambini migliorarono la vista, l’udito, il modo di parlare. Altri bambini vennero inseriti in vari centri educativi della zona. Rimasero quelli che avevano bisogno di trattamento speciale, i cosiddetti «formula 3A»: Amore, Attenzione e Alimentazione. Tra di essi vi erano bambini ciechi, denutriti, con gravi problemi motori, di espressione, epilettici, ecc. Tutte creature da «rifare» nei cinque sensi.
Oggi come oggi, anno 2008, posso dire che si sono conseguiti dei buoni risultati. L’azione continua, anche se essendo dovuto rientrare in Italia agisco a distanza e mi appoggio a preziosi collaboratori del posto che continuano a setacciare le comunità nella ricerca di casi non ancora individuati. Ora le mamme non si vergognano più nel portare sulla schiena i loro bambini disabili e si avvicinano al progetto (un tempo guardato con sospetto) con fiducia e speranza.
I punti positivi si sommano in titoli di «missione compiuta». Ecco i principali.
✔ Bambini che si pensava essere inguaribili sono stati invece ricuperati con successo.
✔ Bambini sono stati iscritti in scuole speciali per sordi, ciechi e down.
✔ Bambini con disabilità cronica e irrimediabile hanno trovato casa permanente in istituzioni governative specializzate.
✔ Una dozzina di bambini con gravi problemi di denutrizione sono stati ricuperati e avviati a frequentare centri educativi normali.
✔ Varie ragazze indigene hanno ricevuto una formazione specializzata, diretta a migliorare l’assistenza dei bambini affetti da disabilità fisica e mentale nelle comunità locali.
✔ Sono stati formati e abilitati anche alcuni animatori comunitari in grado di aiutare le famiglie che vivono il problema di un figlio disabile a conoscersi e a crescere in modo da creare intorno al bambino un ambiente sereno e idoneo alla crescita. Tali animatori si occupano anche di avviare relazioni con i dirigenti locali, così da creare un fronte comune e organizzare iniziative mirate e comuni in favore dei bambini svantaggiati.
Rimane il problema di finanziare un progetto che ha solo uscite economiche e nessuna entrata sicura. Il progetto dei bambini speciali è cominciato nel dicembre 2002. Da allora siamo diventati tutti evangelici perché, come dice il vangelo: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi ascoltano;  tutti ricevono molta tenerezza e molto amore e sono felici. Le entrate sicure non esistono. Di sicuro ci sono solo la Provvidenza e la tenerezza di Dio. Se il Signore vorrà continuare a servirsi del nostro ministero non ci farà mancare i mezzi economici necessari e sufficienti a dare a un bambino disabile un po’ di felicità.

Giuseppe Ramponi




Dove osano le aquile

Viaggio nel Kelmend, la regione montuosa più settentrionale del paese

Il suo vero nome è Shqipëria (Paese delle aquile), dove per 46 anni
il regime comunista ha cercato di cancellare la presenza cristiana, togliendo di mezzo vescovi, preti e religiosi, perseguitando i semplici fedeli. Grazie all’opera di missionari italiani e all’aiuto di varie associazioni umanitarie, oggi le comunità cristiane stanno rifiorendo, anche nel Kelmend, regione dell’estremo nord del paese.

Sono arrivata in Albania al seguito di Anemon (acronimo di «aiutare nel mondo»), un’associazione di medici e volontari che si propone di sostenere il lavoro delle suore francescane di Susa e di padre Sergio, frate minore cui è stata affidata la regione montuosa del Kelmend, dove da molti secoli vivono isolate alcune tribù cattoliche.
Tirana ci sorprende, con il suo aeroporto moderno e luminoso, per l’ampia arteria che porta in città, fiancheggiata da nuove costruzioni commerciali e industriali. Chi tra noi ha già visitato questo paese si rende conto di un grande cambiamento. I nuovi edifici del centro si distinguono per la sobrietà e il colore. La gente pare molto cordiale; molti conoscono l’italiano. Come Migena, che significa «fior di melo», una giovane albanese cui mi rivolgo per un’informazione. «Ho imparato l’italiano da mio nonno, che aveva fatto il militare in Italia. Quando ancora non andavo a scuola, mi raccontava le fiabe in italiano».
Resta grave il problema dei contadini inurbati di recente, sistemati in case fatiscenti che non ricevono regolarmente né acqua né luce.
Piazze e viali del centro di Tirana ricordano le altre capitali dei paesi comunisti, ma i numerosi caffè all’aperto sono affollati e ci sono anche giovani donne, mentre in quelli dei villaggi che visiteremo gli avventori saranno solo uomini.

Scutari è una città molto antica. Un’antica fortezza domina la città e il lago, che in parte appartiene al vicino Montenegro. La sua storia testimonia la serena convivenza, da sempre, di cristiani e musulmani: dopo gli anni bui di ateismo e chiusura al mondo, hanno ricostruito la grande chiesa ortodossa e restaurato la moschea.
Scutari è la prima tappa del nostro viaggio umanitario: abbiamo promesso di ingrandire la casa che le suore hanno aperto per accogliere le studentesse provenienti dai remoti villaggi del Kelmend per proseguire gli studi nella città, rompendo così una tradizione che negava l’istruzione superiore alla donna.
Lasciamo le rive del grande lago e risaliamo la montagna punteggiata da ginepri e folti cespugli di melograno. La strada sale attraverso strette gole, supera pietraie e ripide scarpate sul fiume, sulle cui rive alcuni terrazzamenti alluvionali permettono le colture e l’allevamento. Le case di pietra hanno il tetto fatto di lamelle di legno, con i pagliai a forma di cono.
Nel villaggio di Stare le suore hanno la base per il loro lavoro nelle valli, evangelizzazione e assistenza sanitaria. Il dottor Veronese, un medico torinese in pensione, dopo una sua prima visita due anni fa, ha deciso di ritornare ogni due o tre mesi e collaborare con suor Anna, infermiera. Il piccolo ambulatorio richiama gente dalle valli più remote, ma sovente il medico si sposta nei villaggi di montagna, dove opera nelle sale di riunione o nelle cappelle.
Leggendo le sue relazioni ero rimasta colpita dal fatto che, dopo tanti anni in cui la gente di Albania pensava solo ad emigrare, pare sia nato tra i giovani un nuovo sentimento di orgoglio. Oggi chiedono di poter ricostruire il paese, evitando la fuga di massa, ma chiedono anche una vita più dignitosa.
A Fare incontriamo anche Iolanda da molti anni impegnata nel volontariato: ha trascorso alcuni anni nell’ospedale di Fogo in Capoverde. Da tempo in pensione, l’anno scorso accettò volentieri l’invito del dottor Veronese a seguirlo nella regione del Kelmend.
«Fui molto colpita dalle donne albanesi, che rappresentano la maggioranza dei pazienti. Sono donne che soffrono, abbandonate da uomini partiti per cercar lavoro o per delinquere, umiliate da una mentalità ferocemente maschilista che le ha sempre private di un minimo di cultura» racconta la volontaria.
Pare che la depressione sia la patologia ricorrente in queste creature, che dimostrano forte imbarazzo durante le visite, anche se al medico si affianca sempre suor Anna e un’altra donna. Iolanda mi spiega che le donne arrivano spesso accompagnate dalla suocera. La tradizione vuole infatti che le giovani, quando si uniscono a un uomo (e non sempre questa unione viene regolarizzata dal matrimonio), lascino per sempre la propria famiglia e vadano a servire quella del marito.

Proseguiamo risalendo la valle con difficoltà: il mezzo è vecchio, le gomme lisce e perdiamo pure la marmitta. Prima di arrivare a Tamare, dove padre Sergio ha avviato un allevamento di trote con buon successo, prendiamo una stretta deviazione che ci condurrà a Vukli, dove ci aspetta per la messa.
Dopo altre due ore di viaggio e strapiombi da brivido, la strada termina in un’ampia vallata. Una specie di paradiso perduto, con greggi di pecore, muli che trasportano il fieno e case dai tetti alti e spioventi.
Arriviamo quando la messa è già iniziata. Sotto il portico sostano i giovani maschi, la sigaretta tra le dita e l’aria sfrontata da guappi. Conoscono poco l’italiano, ma riescono a farsi capire: sognano di emigrare, per far soldi e non lavorare nei campi. Dentro la chiesa, le nonne hanno il velo nero da vedove, le rughe e il viso rassegnato. Le madri mi guardano e il viso si allarga in un sorriso. I lunghi capelli neri sono fermati da forcine in onde piatte sulla fronte, incoiciata dal foulard. Tra le ragazze ce ne sono di molto belle, sono vestite per la festa e si lasciano ammirare.
Dobbiamo partire, la strada per Vermosh è ancora lunga; facciamo una sosta a Nikc, dove troviamo la chiesa piena di fedeli che da ore aspettano il padre per la messa. Come sta avvenendo per tanti edifici di culto, anche questa chiesa è stata ricostruita sui resti di quella distrutta nel periodo della dittatura, con i soldi inviati dagli emigrati.

L’autista del nostro vecchio pulmino è molto abile, guida nel buio sulla strada impervia, che vedremo solo al ritorno, spettacolare. In meno di due ore arriviamo davanti al cancello della proprietà di due fratelli emigrati da anni in America. Padre Sergio è riuscito a farsi dare in comodato per 15 anni l’intera proprietà, da anni abbandonata. La casa è stata da poco restaurata con gli aiuti che il francescano raccoglie tra gli amici quando viene in Italia.
Ma il padre sta attuando un progetto più ambizioso: trasformare la proprietà in agriturismo; sono già arrivate prenotazioni di gruppi di austriaci e svizzeri per la prossima estate. A gestire il tutto sono Giovanili e sua moglie Mariana, che durante l’estate si trasferiscono nella casa e coltivano i campi della proprietà; mentre durante l’inverno tornano nella casa dei genitori, per affrontare l’isolamento che può durare a lungo.
La mattina partiamo a piedi per raggiungere il nucleo centrale di Vermosh, dove ci sono la scuola e la chiesa. Nei campi recintati pascolano cavalli e pecore. Ciò che maggiormente attrae l’attenzione sono le croci, poste dappertutto: sulle case, sui ponti, al collo dei bambini e delle donne, persino sui pali della luce.
Intanto, il signor Giovanili, la cui famiglia ha avuto un ruolo importante nella comunità della valle, ci racconta la sua storia, mentre camminiamo insieme lungo il torrente: «Abbiamo sofferto molto, prima sotto il dominio turco, poi sotto la lunga dittatura comunista, ma siamo rimasti fermi nella nostra fede. Mio padre e i miei zii, fratelli di mia madre, sono stati in carcere, a lungo». Uno di essi, uscito di prigione, fuggì in Belgio e a causa sua la famiglia venne perseguitata.
Dopo il 1990, quando si aprirono le frontiere, Giovanili volle raggiungere lo zio. Trovò lavoro per due anni a Bruxelles, in una pizzeria italiana; ma non riuscì a ottenere il permesso di soggiorno. Il francese imparato in quegli anni gli consente di comunicare con noi e con i rari visitatori.
Quindi prosegue: «Quando si decise la costruzione della chiesa, mio padre si recò in visita alle nostre comunità di New York e Detroit e riuscì a raccogliere i fondi necessari». Altri aiuti sono arrivati anche da Austria e Italia; così si spera di frenare l’esodo dei giovani con iniziative come quelle di padre Sergio, che vuole far conoscere queste montagne all’estero, creando basi di appoggio per un turismo sportivo e sostenibile in una natura selvaggia e incontaminata.
D’estate arrivano i cicloturisti dal Montenegro e già si pensa di predisporre un’area campeggio per ospitarli. Le idee sono buone, ma le difficoltà enormi. Il suo entusiasmo si confronta con le difficoltà di far capire i progetti alla gente, che tanti anni di sottomissione e chiusura ha umiliato e resa inerte.
Al tempo stesso, padre Sergio vuole incrementare l’artigianato locale: ha in programma un viaggio in Italia, con l’auto carica di tappeti tessuti dalle donne di Tamare. Lo accompagneranno anche Giovanili e Mariana, che saranno ospitati da famiglie di amici e potranno imparare l’italiano e l’arte dell’accoglienza.

Sulla via del ritorno, l’ultima tappa del nostro viaggio è Selce, un villaggio ai piedi di un’impressionante scarpata rocciosa. Ci accoglie Angelina, una bella donna, alta, elegante e vestita di scuro. Direttrice della locale scuola media, sta affrontando i problemi dell’educazione delle giovani e per questo ha fondato un’associazione femminile. Le iscritte sono già 50, alcune tra loro sono anziane. «Se vogliamo migliorare la qualità della nostra vita, dobbiamo cominciare con l’educazione delle donne. Il futuro del paese è nelle mani delle giovani madri».
Angelina parla con fervore, crede in quello che fa e le do ragione. Quando ci abbracciamo per lasciarci, la stringo e sento il calore delle sue gote arrossate. Le chiedo: «A casa tua, che educazione hai ricevuto, per avere una mentalità così aperta?». «Mia madre ha avuto sette figli, era un’educatrice meravigliosa» mi risponde. 

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Rivincita della storia

Secondo le ultime statistiche gli albanesi sono: 38% musulmani e 35% cristiani
(di cui 22,5% ortodossi e 12,5% cattolici), 16% agnostici o senza appartenenza religiosa.

La diffusione del cristianesimo in Albania risale al I sec. d.C., quando il paese faceva parte della provincia romana dell’Illiricum. San Paolo afferma di aver predicato il vangelo nell’Illiria (Rom 15,19) e la leggenda narra di una sua visita a Durazzo. L’evangelizzazione fu portata avanti da missionari provenienti da Roma e da Bisanzio, attraverso l’antica Via Egnatia. Con la divisione dell’impero romano tra Oriente e Occidente (395), la regione rimase legata amministrativamente a Costantinopoli, ma ecclesiasticamente dipendente da Roma. La maggioranza degli albanesi gheghi, che vivevano a nord del fiume Shkumbini, aderirono alla chiesa di Roma; a sud, gli albanesi toschi entrarono nella chiesa bizantina. Con lo scisma d’Oriente (1054) il sud dell’Albania mantenne i legami con Costantinopoli e la chiesa greca, mentre il nord rimase sotto la giurisdizione romana.
Per 47 anni la comunità cristiana resistette agli eserciti turchi, sotto la guida dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, detto Skanderbeg (1405-1468), definito dai papi contemporanei «atleta Christi». Ma con la sua scomparsa, l’occupazione ottomana ebbe il sopravvento (1479); terrorizzati dai metodi repressivi dei dominatori, forti nuclei di popolazione albanese emigrarono in Italia, insieme a prelati e ordini religiosi, eccetto i francescani. L’impossibilità di regolari relazioni con Roma lasciò le comunità del nord in balia di se stesse, mentre quelle del sud ebbero una sorte migliore, essendo legata al patriarcato di Costantinopoli, unica autorità civile cristiana riconosciuta dall’impero turco.
La crescente infiltrazione di colonie musulmane nel territorio, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione attuata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana, che concedeva carriere civili e militari agli albanesi purché musulmani, provocarono un graduale passaggio all’islam di individui, famiglie e interi villaggi; uno stillicidio cessato solo con l’avvento dell’indipendenza (1912).
A partire dal secolo xvii, riprese l’organizzazione della chiesa, la formazione del clero (in seminari «illirici» in Italia), l’avvio di missioni francescane. Tale ripresa culminò nel secolo xix, grazie all’indebolimento dell’impero turco e alla protezione dell’Austria, che garantiva la sussistenza del clero e delle opere cattoliche in Albania; i francescani aprirono scuole in varie città; altrettanto fecero i gesuiti: il loro collegio a Scutari foiva il clero a tutto il paese e con le «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più montagnosi, promuovendo istruzione e fervore religioso.
Al momento dell’indipendenza, la chiesa cattolica godeva di prestigio eccezionale, sia per il sostegno dato alla lunga lotta di liberazione nazionale, sia per l’elevatezza culturale. Il cattolicesimo aveva dato un’impronta decisiva all’identità nazionale: i più grandi poeti, scrittori, giuristi albanesi sono cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Non per nulla Enver Hoxha si accanì subito come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944-1990) una dittatura spietata e crudele, stupida e malvagia, ridusse il paese in un gigantesco lager. Una generazione di albanesi è cresciuta in un regime di terrore che ha messo gli uni contro gli altri, dividendoli tra vittime o carnefici: pare che metà della popolazione albanese fosse coinvolta con il «sigurimi», la famigerata polizia segreta del regime, con cui il dittatore controllava tutte le manifestazione di vita della società albanese.
Nel suo furore ideologico, Hoxha si è scagliato contro i credenti di tutte le religioni, ortodossi e musulmani compresi, ma la sua persecuzione si è accanita con inaudita brutalità soprattutto contro i cattolici: i campanili furono abbattuti in tutta l’Albania; molte chiese (e moschee) distrutte; gli edifici di culto risparmiati dalla distruzione vennero trasformati in sale di cultura, palestre, tribunali, prigioni, magazzini e stalle.
Fin dal 1945, bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli.  «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo» diceva uno dei motti del regime.  Vescovi, preti, religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati, inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito: quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio, torture e inviate ai lavori forzati. Accusati di essere «fascisti» o «antisocialisti» clero e laici cristiani venivano sottoposti a processi farsa, diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa; titolo della trasmissione era: «L’ora giorniosa».
All’inizio del 1967, il dittatore Enver Hoxha impose l’ateismo «ufficiale», emanando leggi che imponevano la chiusura di i luoghi di culto di tutte le associazioni religiose, proibiva ogni manifestazione di culto, la pubblicazione e vendita di materiale religioso, l’insegnamento di qualsiasi religione. Tali disposizioni furono confermate nella Costituzione del 1976 negli articoli 37 («lo stato non riconosce alcuna religione») e 55, in cui veniva sancito il divieto di qualsiasi associazione, propaganda e attività religiosa. Al tempo stesso la «rivoluzione culturale cinese» fu estesa negli angoli più sperduti del paese.
Ma poiché nel segreto della vita familiare i cristiani continuavano qualche tradizione religiosa, la repressione continuava, insieme alla propaganda, all’odio e al fanatismo anticattolico, senza che alcuno potesse contraddire. Nelle scuole gli alunni erano invitati a denunciare le pratiche religiose e «antisocialiste» dei loro familiari. I funzionari del «sigurimi» entravano nelle case, con le scuse più banali, e le perquisivano, frugando perfino nei bauli del corredo delle donne, per scoprire segni religiosi, e poi accusare gli inquilini come «antisocialisti». Il venerdì santo del 1967, per esempio, gruppi dell’associazione «Pionieri» entrarono nelle case dei quartieri cattolici di Scutari, per controllare la situazione e la pulizia; ma il vero scopo era quello di riferire alla polizia in quali case si stavano preparando dolci o si coloravano le uova di pasqua, oppure dove si trovavano rosari, croci e immagini sacre.
Ormai tutti i preti, nessuno escluso, erano stati tolti dalla circolazione. I gerarchi del partito comunista si vantavano di aver fatto dell’Albania «il primo paese ateo al mondo». Il triste primato non è l’unico. Il livello di repressione religiosa è stato superiore a quello di altri regimi rossi, sia per la durata che per la crudeltà, il sadismo e le perfide modalità orientali con cui la persecuzione veniva perpetrata. Il comunismo aveva affidato compiti e poteri per il lavoro più sporco ai musulmani. Riportiamo alcuni esempi.
A don Lazer Shantoja furono spezzati piedi e mani. A vederlo così ridotto, sua madre esclamò disperata: «Compro io il proiettile per ucciderlo, ma non lasciatelo più in queste terribili condizioni. Fu il primo martire, fucilato, nel 1945.
Padre Serafin Koda, francescano, spirò con la trachea strappata fuori dalla gola; papas Pandit, prete cattolico di rito bizantino, fu decapitato e la testa fu lasciata in mostra sul petto; papas Josif, anche lui prete di rito orientale, fu sepolto vivo nel campo di lavoro della palude di Maliq. A don Mark Gjini fu chiesto, sotto indicibili torture, di rinnegare Cristo; rispose invece: «Viva Cristo re!»: morì legato in modo da soffocare e il suo corpo fu gettato ai cani; i resti poi furono buttati nel fiume. Suor Maria Tuci, fu sottoposta a torture inumane: morì all’ospedale di Scutari poco dopo gli interrogatori. Padre Frano Kiri, francescano, rimase legato con un cadavere in decomposizione per tre giorni e tre notti. Il gesuita padre Gjon Karma fu chiuso vivo in una cassa da morto. Padre Beardin Palaj morì di tetano causato dai ferri con cui fu torturato. Don Lekë Sirdani e don Pjetër Çuni morirono immersi con la testa in giù nel pozzo nero. Don Mikel Beltoja fu a lungo torturato con punteruoli e poi fucilato.
C on la morte di Hoxha, nel 1985, finiva un incubo; ma anche sotto Ramiz Alia (presidente fino al 1992), non mancarono le forme subdole della dittatura comunista contro la chiesa cattolica, almeno fino al 4 novembre 1990. Quel giorno fu celebrata una santa messa nel cimitero cattolico di Scutari, la prima dopo decenni di terrore.
La chiesa cattolica poté cominciare a riorganizzarsi e, soprattutto, a raccontare la sua storia di martirio. Dei circa 200 perseguitati tra preti diocesani, religiosi e vescovi, solo in 27 erano sapravvissuti. Dei circa 170 martiri, molti erano caduti per morte violenta (5 vescovi, 60 preti diocesani, 30 frati francescani,13 gesuiti, 10 seminaristi e 6 suore), gli altri erano deceduti a causa di stenti e di fatica durante la lunga detenzione.
Ma la storia non è ancora finita: nell’elenco mancano soprattutto migliaia di laici, dal momento che, per affermarsi, il regime comunista ha dovuto sbarazzarsi anche di tutta la classe dirigente e intellettuale del paese, costituita in prevalenza da personalità del mondo cattolico.
Nel 2002 è stato avviato il processo di beatificazione di 40 martiri albanesi, 38 dei quali uccisi durante la dittatura comunista: sono vescovi, preti diocesani, religiosi francescani e gesuiti, laici, tra cui anche una donna. Il numero può sembrare esiguo, ma è sufficiente per stimolare il ricordo e la venerazione di tutte le altre vittime, conosciute e sconosciute, cristiani o appartenenti a altre confessioni religiose, il cui sacrificio ha permesso agli albanesi di ritornare a sentirsi uomini liberi.

Una cinquantina di anni fa, il montenegrino Milovan Djilas, sostenitore e poi oppositore del comunista iugoslavo Tito, scriveva: «Fra 40 anni il mondo si meraviglierà delle realizzazioni grandiose compiute dal comunismo e si vergognerà dei metodi usati per compierle». Ma in Albania del comunismo è rimasta solo vergogna. Simbolo inquietante e grottesco del regime di Hoxha sono gli orridi «bunker» che dominano il paesaggio in tutto il territorio: piccole fortificazioni di cemento, di cui emerge nei campi e prati solo un pezzo di superficie emisferica con due feritornie. Dicono che ce ne siano più di un milione. Dentro i bunker i soldati dovevano sparare contro chissà quale invasore; naturalmente non sono mai stati usati.
Oggi nei bunker più grandi, quelli allestiti per i carri armati, la gente si ritrova per la santa messa. È la rivincita della storia. 

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




PIEDRAS 1597

Reportage / Tra i bambini di strada della capitale argentina (1.a puntata)

Quasi tutte le metropoli del mondo vivono il fenomeno dei bambini di strada. Una tragedia fatta di droga, abusi sessuali, furti, violenze della polizia. A Buenos Aires abbiamo visitato un Hogar Don Bosco, dove volontari laici accolgono bambine e bambini cresciuti troppo in fretta. Un lavoro durissimo ma svolto con un entusiasmo straordinario. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Buenos Aires. L’indirizzo è Piedras 1597, ma l’entrata è su Avenida Caseros. Il barrio è quello di Constitución, noto soprattutto perché ospita la più grande e frequentata stazione ferroviaria del paese. L’ingresso è una porta in ferro, posta tra due finestroni protetti da grate metalliche di color giallo ocra. Daniel Blanco, giovane educatore salesiano, è un anfitrione entusiasta: «Benvenuti al Centro Miguel Magone».
Entriamo in un cortile interno, spoglio, ma funzionale. Da un lato, c’è una stanza con le docce, dall’altra un’aula scolastica e al centro un’ampio spazio per giocare a palla, protetti da spesse mura. 
Il Centro Miguel Magone (El Santa) è un centro di accoglienza per bambine e bambini di strada. O meglio, per attenersi alla terminologia usata da Daniel, per bambine e bambini in situazione di strada (chicas y chicos en situación de calle). A Buenos Aires, tra città e provincia, sarebbero parecchie migliaia, anche se non esistono dati certi.  Ma che età hanno?, chiediamo. «Ci sono anche bambini di 5 o 6 anni», risponde Daniel.
Provengono da famiglie povere, segnate dalla mancanza di lavoro o da un lavoro precario. Nel 90 per cento dei casi sono famiglie in cui la figura del padre è assente o negativa. Quando c’è un patrigno (padrasto), spesso questi non ha relazioni buone con i figli della donna. I motivi per preferire la strada sono dunque diversi, non ultimo quello della droga, che ha invaso Buenos Aires. I bambini fanno uso di colle e di paco, la pasta base di cocaina che dà subito assuefazione e che produce gravi danni fisici e mentali.
Il Santa è organizzato su due tui: uno per il giorno ed uno per la notte (Centro de día y de noche).  È un centro d’aiuto immediato. «Questo non è un centro residenziale – spiega Daniel -. Per chi vuole proseguire e costruire un progetto differente da quello della strada ci sono altri hogares, strutturati per una permanenza prolungata».
Al centro di Piedras 1597 i ragazzi trovano riparo, cibo, educazione. E quel po’ di affetto, che certamente a loro è mancato. Una scala in ferro porta al piano superiore. Qui ci sono i bagni ed alcune stanze. Sulla parete che precede la sala da pranzo e la cucina è dipinto il volto sorridente di Don Bosco, fondatore dei salesiani.
«Per camminare assieme – spiega Daniel -, occorre instaurare relazioni di fiducia reciproca tra bambini ed educatori». Una relazione di fiducia che chiunque può vedere osservando il comportamento degli educatori, tutti giovani ma motivatissimi e ricchi di entusiasmo.

Storia di Lisa, ex bambina di strada

Lalo ha 34 anni e da 15 lavora con i salesiani. Non ha competenze specifiche («Sono allenatore di calcio»), ma soltanto una predisposizione a lavorare con i bambini.  Mentre parla con noi, è abbracciato da due piccoli ospiti. «Io sono stato fortunato – racconta -. Anche se i miei genitori erano separati, la mia famiglia mi ha sempre seguito».
Non altrettanto può dire Lisa, occhi gentili, i capelli neri che le scendono lisci su un volto giovane. Ha soltanto 23 anni, ma è come ne avesse vissuti il doppio tante sono state le prove che ha dovuto affrontare. Papà mai conosciuto, mamma morta di Aids, quando lei era ancora una bambina. Poi la strada, la droga, un marito morto giovanissimo, due figli.
«Il Poxiran mi venne offerto per la prima volta a 8 anni. Cominciai a prendere di tutto. Mi ricoverarono più volte da tanta droga che avevo in corpo. Ma non ho mai provato il paco. Il paco è vizioso. Dura un secondo e subito ne hai ancora voglia. Ti viene l’ansia. Adesso nelle villas una dose costa un solo peso. In altre zone viene venduto a 5 pesos da gente che l’ha comprato nelle villas. Io vedo subito se i bambini sono fatti di Poxi o di paco».
In strada la vita è difficile, soprattutto per le ragazze, ma Lisa è riuscita a venie fuori. 
«Oggi sto bene. Sono tranquilla. Anche se la situazione che sto vivendo non è facile con due bambini. Non so immaginare come sarà il mio futuro. Ma non voglio che i miei figli crescano senza una madre. Non voglio che facciano le esperienze che ho fatto io».
«Vorrei stare qui al centro. Mi piacerebbe continuare ad aiutare le persone ad uscire dalla loro condizione, come ho fatto io».
Ci chiamano per il pranzo. Ci accomodiamo sulle panche, tutti – bambini, educatori, ospiti – attorno ad un grande tavolo di legno. È un pranzo comunitario, consumato con gusto e tranquillità.

La polizia, i vicini, i media

I bambini sono nell’aula al piano terreno, seduti dietro un banco scolastico per la lezione con due giovani insegnanti.  Ne approfittiamo per conversare con Hean, 23 anni, da 8 educatore.
Parla con calma, però le sue parole sono dure ed accusatrici.
«La polizia di Buenos Aires è molto violenta. Probabilmente ha mantenuto il modo di agire repressivo appreso durante il golpe militare del 1976. È aggressiva. Ad esempio, al mattino, quando alle 5 si apre la metropolitana, i bambini che dormono sotto vengono svegliati dai poliziotti a suon di botte». 
Chiediamo dei vicini di casa, che da tempo promuovono azioni – denunce, raccolte di firme, eccetera – per far chiudere il Miguel Magone.
«La cosa che dà più fastidio è avere questi bambini, mal vestiti e magari con una borsa di Poxiran tra le mani, vicino a casa. Se fossero lontani, non avrebbe importanza, ma sulla porta di casa non li sopportano. La verità è che la maggioranza dei vicini non conosce la situazione di questi giovani, non comprende i motivi della loro vita, non sa gli scopi di questo centro. Un giorno è venuta l’amministratrice di un palazzo a fianco. Era adirata perché diceva che la presenza dei bambini di strada faceva perdere di valore agli appartamenti del suo condominio».
Hean è durissimo anche con i mezzi di comunicazione. «Troppi programmi televisivi – spiega – mostrano il problema dei bambini di strada in modo distorto. Ad essi non importa nulla dei ragazzi:  mostrano le loro facce o quando si drogano. Si tratta di programmi sensazionalistici che cercano di suscitare emozioni nei telespettatori. Insomma, un giornalismo di m…».
Su istigazione dei vicini di casa questo giornalismo si è occupato anche del centro di Piedras 1597. Racconta Hean: «Un’importante rete televisiva – America Tv Canal 2 – ha filmato il centro durante il fine settimana, quando è chiuso. Ha fatto domande ai bambini che stavano fuori dalla porta. Non potendo entrare, hanno trasmesso immagini di altri luoghi. Hanno raccontato un mucchio di bugie: che il luogo non ha luce, che è sporco, che non c’è da mangiare, che non ci sono referenti. Una cosa incredibile! Alcuni bambini si sono sentiti responsabili, colpevoli per quel servizio televisivo. E noi educatori abbiamo provato un’arrabbiatura terribile, vedendo infangato in pochi minuti un lavoro in cui riversiamo fatica e cuore».

La notte picchia più forte

Piedras 1597, barrio Constitución, notte. La notte è più buia nel quartiere di Constitución.  I taxi passano veloci e per le strade è meglio stare accorti.  Il Centro Miguel Magone apre alle nove e mezza. La porta in ferro è il confine tra una notte all’addiaccio e una con doccia, pasto caldo, lezioni, materasso pulito e pareti protettive. Ma non tutti possono oltrepassare quel confine. Questa sera al varco c’è Adrian. Gentile ma fermo, Adrian si erge sulla soglia ed interroga i ragazzi che, da fuori, spingono per entrare: deve accertarsi del loro stato. 
«Non possiamo far entrare i bambini che sono sotto l’effetto del paco. Troppo alterati, troppo violenti. Purtroppo, non siamo attrezzati per affrontare quest’emergenza». Un’emergenza crescente, se si considera che il paco costa meno della marijuana e «sballa» di più.
Adrian è paziente. Ha studiato in una scuola pubblica, ma si considera un alunno salesiano. Conosce i bambini di strada e le loro problematiche. Conosce le dinamiche intee alle ranchadas.  «È il leader della ranchada – spiega – che decide cosa il gruppo deve fare. Può essere un capo positivo o negativo. Questo secondo abusa del suo potere, fa violenza sugli stessi membri del gruppo, non frena il consumo di droghe».  
Al Santa il tuo della notte è, più o meno, strutturato come quello del giorno: dopo l’entrata, i bambini si lavano, fanno cena, qualche attività di svago (lezioni di arti marziali o d’arte) e verso mezzanotte vanno a letto; al mattino, alle 8, viene servita la colazione e poi sono liberi.
Ci fermiamo a parlare con le bambine e i bambini che attendono la lezione. Le femmine, giovanissime ma già segnate dalla vita (anche fisicamente, qualche occhio pesto, qualche livido sul corpo), si atteggiano a «donne» con il rossetto sulle labbra e le movenze adulte. I maschi sono più bambini, anche se si comportano da bulli senza paura.  Mario, l’insegnante di arti marziali, chiama alla lezione e tutti corrono via.

Finalmente è mezzanotte

È passata la mezzanotte. Nelle due stanze – una per le femmine, un’altra per i maschi – la luce è stata spenta. Qualcuno già dorme, qualche altro ancora bisbiglia con il vicino di materasso. Adrian, Eduardo, Mario e il cuoco possono finalmente sedersi attorno ad un tavolo. 

Di Paolo Moiola

Le parole della strada
Il glossario  
paco: nome con cui si indica la droga più a buon mercato reperibile nelle strade di Buenos Aires. È pasta base di cocaina, mischiata con cherosene ed acido solforico (o altri agenti chimici). Viene fumata in rudimentali pipe di metallo. Lo smercio avviene nelle villas miserias più degradate.  Negli ultimi anni ha avuto una diffusione esponenziale, anche in ragione del suo basso prezzo: una dose costa da uno ad un massimo di 5 pesos. Il paco argentino è il bazuco diffuso in Colombia, il pitillo della Bolivia, il kete del Perù.

pegamento / pegar: è la colla inalata dai bambini di strada, di norma è racchiusa in un sacchetto da cui essi aspirano. Il termine «pegar» indica l’atto di inalare droghe. In Argentina, il pegamento più diffuso è il Poxiran.

ranchada: nel gergo della strada indica bambine e bambini che formano un gruppo. Si ritrovano in un luogo detto «rancho», che costituisce una sorta di rifugio dove dormono e si sentono teoricamente più protetti.  Ogni ranchada ha un proprio leader. Il termine deriva dal gergo del carcere.

villas miserias: si chiamano così i quartieri informali (cioè senza permessi e strutture) cresciuti nelle periferie delle città argentine, in particolare di Buenos Aires. Sono la versione argentina delle favelas brasiliane, dei pueblos jovenes peruviani, dei ranchitos venezuelani.
(a cura di Paolo Moiola)

Le droghe dei poveri
Gli inalanti 

Gli inalanti sono sostanze chimiche che producono vapori in grado di alterare l’umore. Vengono assunti per inalazione. Esistono più di 1.000 prodotti commerciali che rientrano in questa categoria. La maggioranza di essi è economica e facilmente reperibile, anche per questa ragione sono prodotti utilizzati più dai ragazzi che dagli adulti. I più diffusi sono le colle, le veici, i solventi.
Gli effetti degli inalanti sono simili a quelli dell’alcornol. A dosi basse negli utilizzatori si produce eccitazione, euforia, aumento della sicurezza, riduzione dell’ansia, comportamento disinibito. Poiché gli effetti di queste sostanze scompaiono in breve tempo, il soggetto tende ad assumere un’altra dose. Ciò determina un utilizzo pressoché continuativo, con rischi gravi per la salute, fino a mettere in pericolo la vita. I più pericolosi sono quelli contenenti toluene e nitriti.
Gli inalanti provocano mal di testa, nausea, vomito, disturbi dell’eloquio, perdita della cornordinazione motoria, riduzione dei riflessi, tremori, problemi respiratori. L’uso a lungo termine può provocare perdita di peso, disturbi cutanei, problemi cardiorespiratori, compromissione della memoria, danni al sistema nervoso, al fegato e ai reni.
È difficile stabilire a che livello inizia il pericolo di vita. La morte può sopravvenire quando si usano per la prima volta o dopo molto tempo. Va ricordato che il metodo di inalazione più diffuso – quello dal sacchetto – aumenta notevolmente la concentrazione delle sostanze e dunque i rischi per la salute.
Le inchieste suggeriscono che l’uso di inalanti nasce di norma in ambienti socioeconomici sfavoriti, dove sono presenti povertà, abusi sessuali infantili, abbandono scolastico.  
(a cura di Paolo Moiola)

Intervista – Padre Francisco De Rito, salesiano

Hogares Don Bosco
(e i guasti di una società diseguale)

Buenos Aires. In Calle Don Bosco tutto ha il marchio dei salesiani. Abbiamo appuntamento con padre Francisco De Rito, salesiano di origini calabresi, che dopo 10 anni in Patagonia da tempo ha iniziato a seguire il progetto degli Hogares Don Bosco.

Padre, come descriverebbe in poche parole il progetto degli Hogares?
«Delicato e di grande emergenza. A Buenos Aires ci sono almeno 4.000 bambine e bambini che vivono nelle strade. Molti di essi hanno famiglia, ma preferiscono la strada. Attraverso gli educatori noi li contattiamo offrendo case di accoglienza, scolarizzazione, recupero del rapporto con le famiglie d’origine. In una parola, un altro progetto di vita».

Dopo la spaventosa crisi del 2001, in questi anni  l’Argentina guidata dai coniugi Kirchner ha fatto dei passi in avanti, almeno a livello economico. È migliorato il problema dei bambini di strada?
«In questi anni la situazione è peggiorata. Molte famiglie sono arrivate dall’interno del paese, credendo di trovare qui la soluzione ai loro problemi economici. Ma non è andata così.  Oltre a ciò, sono aumentate le situazioni di violenza all’interno delle famiglie dove, tra l’altro, spesso ci sono patrigni o matrigne».

Perché tanta violenza?
«La causa prima è la società diseguale, con troppe differenze tra chi accumula e chi non ha nulla. La scelta liberista e di mercato ha prodotto questa frattura. Stiamo migliorando, ma l’Argentina rimane un paese diseguale».

Secondo lei, quali sarebbero le prime contromisure da adottare?
«Migliorare il mondo del lavoro. Offrire a tutti un’occupazione dignitosa con cui si possa affrontare la vita, provvedere alla salute e all’educazione dei figli. Sì, il peccato peggiore è non dare alla gente un lavoro degno.  Senza di esso si genera delinquenza e passività sociale».
(pa.mo.)

Paolo Moiola




Richiamo etico

Il rispetto della vita universale presuppone una profonda coscienza etica

Da Cartesio a Kant, da Schweitzer a Gandhi è sempre più attuale l’esigenza del rispetto per la vita umana e della pace nel mondo. È però indispensabile una concezione etica che induca ad una maggiore responsabilità nei rapporti interpersonali e della collettività.

Oggi più che mai il problema dei diritti umani acquista sempre più valore e considerazione, tanto da rievocare, ad esempio, gli scritti di Immanuel Kant (1724-1804), in uno dei quali egli si pose la domanda «se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio». Un interrogativo che potrebbe auspicare una risposta ottimistica, se non fosse per la continuità degli eventi che ormai quotidianamente turbano la serenità di tutti noi.
Ma io credo che l’argomento vada ulteriormente approfondito e più «attualizzato» ricordando il principio fondamentale del pensiero di Albert Schweitzer (1875-1965), ossia il «rispetto per la vita» applicato a ogni settore dell’attività umana che entri in contatto con esseri viventi. «L’uomo – sosteneva il grand docteur alsaziano – ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia».
Nel corso della sua esistenza Schweitzer ha espresso questo principio applicandolo concretamente con il rispetto del diritto alla vita, la sua libertà e dignità, il suo sviluppo, il suo valore, intendendo per vita sia quella umana, sia quella della natura. Ha insegnato a mettere in pratica la propria idea di fondo: con l’impegno della propria vita di teologo, filosofo e medico ha impresso al proprio pensiero la rara forza del testimone, ponendo in primo piano e vivendo in prima persona la solidarietà con ogni forma di vita.
Considerazioni, suggerimenti e moniti a riguardo sono riportati nella pubblicazione del 1923 Cultura ed etica; ma soprattutto il suo contributo proviene dai testi relativi al discorso che fece in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace, a Oslo nel 1953, e in occasione del discorso «Appello all’umanità», trasmesso nel 1957 da Oslo attraverso diverse fonti radiofoniche. Ma anche dalla sua dissertazione sulla pace fatta nel 1963, toccando i grandi problemi fondamentali della salvaguardia della vita nella situazione attuale (relativa alla sua epoca, n.d.r.) del mondo.
Nei primi anni del secolo scorso, e anche in seguito, si dedicò a una lunga ricerca: voleva conoscere la posizione dei filosofi degli ultimi decenni nel campo dell’etica, per rilevare il nostro pensiero riguardo al comportamento nei confronti del creato.
Un giorno del 1915, mentre navigava sulle acque del fiume Ogoouè per recarsi al capezzale di un ammalato, doveva costeggiare un isolotto in quel tratto di fiume. Sopra un banco di sabbia quattro ippopotami si muovevano nella sua direzione. In quel momento gli venne in mente l’espressione «rispetto per la vita». Si rese conto che tale espressione aveva in sé la soluzione del problema che lo stava assillando. Gli venne in mente un’etica incompiuta e parziale che, per quanto lui sapesse, non aveva mai sentito né letto; ossia un’etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere una piena energia.

Ma cos’è il rispetto per la vita, e come nasce in noi? «Se l’uomo vuol far luce su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo – sosteneva Schweitzer -, deve prescindere dalla congerie di elementi che costituiscono il suo pensiero e la sua cultura e rifarsi al primo fatto della sua coscienza, il più immediato, quello che è perennemente presente. Solo di qui può giungere a una visione ragionata del mondo… L’affermazione della vita è l’atto spirituale con cui egli cessa di lasciarsi vivere e comincia a dedicarsi alla sua vita con rispetto per elevarla al suo vero valore. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare ed esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita, nato dalla volontà di vivere divenuta consapevole, contiene strettamente congiunte l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità».
Tutta l’etica di Schweitzer deriva dal semplice e profondo pensiero che il «rispetto per la vita», di cui ci indica le possibili applicazioni: l’etica, a suo avviso, non ha nulla a che vedere con un’interpretazione del mondo; essa deve essere cosmica e mistica senza cadere nell’astratto… Egli fonda razionalmente il rispetto per la vita, come René Descartes (Cartesio 1596-1650) fondava razionalmente la certezza della propria esistenza. Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», e poi si perde nell’astratto, Schweitzer rimane sul concreto e afferma: «Io sono la vita che vuole vivere in mezzo a vita che vuole vivere. Bisogna dunque rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente. Ossia l’essere umano può chiamarsi essere etico soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia la vita umana sia quella di ogni altra creatura».

Ma con il passare degli anni, con gli avvenimenti bellici e altri eventi, constatò che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti. Da un’analisi dei due conflitti mondiali e delle relative conseguenze, Schweitzer si domandava come si potesse presentare a tutti il problema della pace; in modo del tutto particolare dato che la guerra di epoche precedenti, rispetto a quella attuale, ha a disposizione mezzi di distruzione e di morte enormemente più sofisticati di quelli del passato.
Un tempo si poteva considerare la guerra un male accettabile come utile, in qualche modo, se non addirittura necessario. Era diffusa l’opinione che mediante la guerra i popoli più forti si imponessero su quelli più deboli, determinando il corso della storia. E dai molti esempi che si potrebbero citare è possibile dedurre che una guerra favorisca il progresso, ma è anche possibile che conduca a un regresso.
Se già ai tempi di Schweitzer si potevano avere meno speranze che la guerra modea procurasse un progresso, oggi, tali speranze sono ancora più lontane, in quanto la modeità e le tecnologie più avanzate sono causa di una ben più ampia distruzione, e quindi di un immane regresso.
«È evidente – ammoniva il grande filosofo – che una guerra rappresenta una orribile calamità, e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nei due ultimi conflitti ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura».
Se nelle diverse manifestazioni la pace, che ben comprende il rispetto per la vita, è più che altro un fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni diverse vanno fatte in riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, e quindi come un valore da perseguire e, da questo punto di vista, diverse sono le inteazionalità e intensità. Ma ciò che è importante è l’individuazione di strade razionali e fattibili che portino alla pace: privando, in via minimale, gli eventuali contendenti dei loro strumenti di guerra (disarmo); intendere la pace come prodotto di intese politiche (più o meno libere), che si traducono quindi in accordi fondati sulla potenza, ritenere che la pace discenda da una scelta matura e consapevole (pacifismo), la cui forma più intensa è la non violenza (l’antesignano della quale fu Indira Gandhi, 1917-1984).
In decenni caratterizzati dalla grande incidenza del dibattito sui problemi della vita e sul rispetto della stessa, con il contributo di Schweitzer si è venuta a formare una concezione etica che richiama la nostra responsabilità per la vita dai rapporti interpersonali all’atteggiamento nei confronti del mondo e della natura. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




Aria di patriottismo

Paese geograficamente e culturalmente in bilico tra Europia e Asia

Una lunga successione di imperi, invasioni, guerre e massacri, ex repubblica sovietica, indipendente dal 1991, la Georgia è pervasa da forti tensioni intee (tra i vari gruppi etnici) e a livello internazionale (distacco dall’influenza russa e legami con gli Stati Uniti). Il vento del patriottismo si riflette anche
a livello religioso: la piccola comunità cattolica rivendica le proprie chiese, usurpate dalla maggioranza ortodossa, unica chiesa riconosciuta ufficialmente dallo stato.

I n nessuna delle repubbliche ex-sovietiche da me visitate ho mai avuto problemi a orientarmi, sia nelle città che nei villaggi, grazie alla mia conoscenza del russo. In Georgia, invece, la prima volta nel metrò di Tbilisi sono rimasta interdetta: tutte le indicazioni erano nel ricciuto alfabeto georgiano. Non c’era traccia né di cirillico né di latino. Come capire in che direzione andare, a quale fermata scendere?
Era dal mio ultimo viaggio nel nord della Cina che non provavo quella sgradevole sensazione d’isolamento; eppure la Georgia è molto più vicina a noi, in tutti i sensi: è quasi Europa, o perlomeno aspira a diventarlo.
La sera, dopo aver assistito a uno spettacolo di balli nazionali georgiani, a vedere la gente che si accalcava all’uscita, sulle prime mi ero chiesta cosa ci facessero tanti italiani in quel luogo. Poi avevo sorriso della mia ingenuità: non mi ero ancora abituata alla straordinaria somiglianza di tratti tra i nostri due popoli; e mentre camminavo per le vie di Tbilisi, tutti si ostinavano a volermi parlare in georgiano. Di tale somiglianza ero cosciente dai lontani tempi degli studi a Mosca, dove venivo sistematicamente scambiata per una «gruzinka».
Raramente in un paese ho respirato un’aria tanto patriottica. I balli folcloristici appena visti, eseguiti con maestria e virtuosismo eccezionali, erano tutti un’esaltazione dello spirito nazionale georgiano; giornali e televisione inneggiavano alle qualità delle tradizioni, carattere, prodotti georgiani; nelle parole della gente risuona spesso l’orgoglio per il proprio passato eroico, le virtù guerriere, i martiri per la fede cristiana, abbracciata da questo popolo fin dal iv secolo.
«La Georgia è la nuova terra promessa. Vedrà, la rinascita del cristianesimo partirà da qui!» mi diceva una donna incontrata mentre salivo alla gigantesca cattedrale della Santa Trinità, finita di costruire nel 2004 su una collina che domina la capitale.
UNA TERRA TORMENTATA
Il Caucaso è una cerniera tra Asia ed Europa; è terra di montagne, ma anche di fertili piane e passi, attraverso cui dall’antichità sono passati popoli ed eserciti. La Georgia si distende tra le due catene del Grande e del Piccolo Caucaso, di qui occupa la parte centro occidentale.
Per buona parte montagnosa, ha al suo centro i due bacini idrici del Rioni, che corre a occidente verso il Mar Nero, e del Kura, molto più lungo, che forma la depressione transcaucasica e degrada a oriente verso il lontano Caspio. Il loro basso spartiacque divide le due antiche regioni della Colchide e dell’Iberia.
Il Caucaso costituisce un confine naturale sia per la pianura russa a nord, sia per gli altipiani iranico, a sud, e anatolico, a est: è il punto in cui sono venuti a cozzare i grandi imperi che li hanno di volta in volta dominati.
È lungo l’elenco delle potenze che si sono contese questo lembo di terra, rendendo la vita assai difficile ai popoli che lo abitavano: medi, persiani, sciti, cimmeri, parti, romani, sasanidi, bizantini, arabi, selgiuchidi, mongoli, ottomani, e, da ultimi, i russi, cui è riuscito di riunire in un unico stato cristiano le terre georgiane, dalla metà del xv secolo divise in piccoli regni soggetti ai persiani o ai turchi.
Furono i sovietici a tracciare i confini dell’attuale repubblica di Georgia. Al suo interno i georgiani costituiscono la stragrande maggioranza, più del 70%; il rimanente 30% è costituito da altre etnie: abkhazi, osseti, armeni, russi, azeri, greci.
Dal momento in cui è entrata in crisi la compagine sopranazionale dell’Urss, la presenza di queste minoranze, esigue ma territorialmente concentrate, ha reso assai tormentata la vita della repubblica. Dal 1990 essa ha vissuto due guerre civili, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi: tra georgiani e osseti nel 1990-92, tra georgiani e abkhazi nel 1992-93. Se gli ultimi avvenimenti lasciano sperare in una distensione nei rapporti con l’Ossezia, la possibilità di ricomporre la frattura con l’Abkhazia rimane assai remota.
Altre due regioni inquiete sono l’Agiaria, abitata da georgiani etnici, ma di fede musulmana, e il Giavakheti, a maggioranza armena. Una ex-minoranza è quella dei turchi meskheti, deportati in massa in Asia Centrale da Stalin durante il secondo conflitto mondiale: fino a poco tempo fa, il governo georgiano ha negato il permesso di ritornare, ma ora stanno rientrando alla spicciolata.
Problemi non da poco per un paese che è meno di un quarto dell’Italia.
OCCUPAZIONE SOVIETICA
I georgiani hanno sempre manifestato un forte senso d’identità. Nel 1978, ancora in pieno totalitarismo sovietico, estese manifestazioni popolari costrinsero Mosca a modificare la nuova costituzione repubblicana, che stabiliva il russo come lingua di stato, e a riconfermare la priorità del georgiano. Essi furono tra i primi e più convinti sostenitori della secessione dall’Urss. Con l’indipendenza e l’erompere dei nazionalismi uguali e contrari di abkhazi e osseti, il patriottismo dei georgiani si è ulteriormente acuito. A fae le spese è stato anche il vicino russo, cui viene attribuita la causa di tutti i mali che affliggono la repubblica.
«I russi, che brutta razza» sono le prime parole udite sul loro conto al mio arrivo in Georgia, durante uno degli ormai ricorrenti conflitti tra i governi dei due paesi. Tbilisi da anni accusa Mosca, e non senza fondamento, di sostenere il separatismo abkhazo e osseto; Mosca accusa Tbilisi di dare rifugio ai guerriglieri ceceni. Quella volta sembrava che dovesse finire peggio del solito e l’esercito georgiano aveva già avuto l’ordine di mobilitazione. 
L’occupazione sovietica è sempre stata mal digerita dai georgiani. Subito dopo la rivoluzione del 1917 la Georgia si era resa indipendente e solo nel febbraio del 1921 fu riconquistata dall’armata rossa e costretta ad aderire all’Urss. In seguito, tuttavia, i georgiani diedero un considerevole contributo al regime sovietico, i cui crimini non si possono imputare ai soli russi. Georgiani erano Stalin e Berija, dal 1942 capo dell’Nkvd e della polizia politica: la Georgia non può certo chiamarsene fuori.
Ai tempi dell’Urss la repubblica godeva di un tenore di vita alto rispetto ad altre parti dell’Unione, crollato rapidamente dopo l’indipendenza con la chiusura delle fabbriche e lo scatenarsi dei conflitti sopra accennati. Eppure, a differenza di altre repubbliche ex sovietiche, qui non ho sentito nessuno lamentarsi che, almeno dal lato economico, si stava meglio prima.
Patriottismo… indolenTE
L’amor di patria non è certo un cattivo sentimento; ma, allora, perché tutte quelle braccia giovani e forti pendono inerti dalle spalle, perché tutti quegli uomini seduti ai bar o appoggiati al muro di una casa? Perché le buche nelle strade non vengono colmate, i campi rimangono incolti, gli edifici cadono a pezzi senza che nessuno li ripari?
Appena si lascia la Georgia e si entra in Turchia, attraverso il remoto posto di frontiera tra le montagne del Samtskhe, sembra di essere catapultati in Svizzera, tanto è stupefacente il contrasto tra le due parti del confine. D’improvviso l’auto prende a scivolare su un asfalto lucente, ovunque si vedono i segni del lavoro dell’uomo nei campi ordinati, nelle case, nei paesi.
Qualche ora prima, in territorio georgiano, la nostra jeep arrancava su una strada tutta buche, con un pallido ricordo dell’antico fondo asfaltato; si attraversava paesi decrepiti e campi incolti. Nella cittadina di Vale, il maggiore centro urbano prima della frontiera, il luogo più animato era la fontana, dove la gente veniva di continuo ad attingere acqua, che le tubature rotte ormai non portano più nelle case. Seduti sulle panche sistemate lì accanto o appoggiati agli alberi della via, c’erano diversi giovani in attesa, di che cosa? Forse, di un autobus che non passa mai. Di scene simili in Georgia se ne possono osservare a ogni passo, nelle città come nei villaggi.
Il conte polacco Jan Potocki, che viaggiò nel 1797 da Mosca al Caucaso, così scriveva nel suo diario: «Ho attraversato ancora un villaggio cosacco e sebbene non fosse più giorno festivo, ma feriale, non ho visto nessuno che si occupasse di alcuna opera e il far niente mi sembra in gran favore presso questo popolo». Almeno sotto quest’aspetto russi e georgiani sono fratelli. Anche a chi viaggia in terra georgiana viene da pensare che la cultura del lavoro non vi sia molto sviluppata, se non altro nella sua parte maschile, perché le donne sembrano avere un ruolo più attivo nell’economia.
Non se ne può dare tutta la colpa al periodo sovietico, che ha inibito la libera iniziativa, o alla mancanza di lavoro, che ha spinto i più intraprendenti ad andarlo a cercare in altri paesi, soprattutto in Russia. Padre Carlo, della missione stimmatina di Kutaisi, così spiega l’indolenza degli uomini: «Nel passato il loro compito era difendere la famiglia e la terra dagli aggressori, la casa non interessava perché poteva andare distrutta. Anche oggi l’uomo presidia il territorio, lo tiene sotto controllo, ed è pronto a prendere le armi in qualsiasi momento per difenderlo. Partirebbero tutti quanti alla riconquista dell’Abkhazia, che considerano terra loro, se il governo non lo impedisse».
È vero, i georgiani erano famosi e apprezzati per le loro doti guerresche, sviluppate in secoli di lotte contro invasori e razziatori d’ogni sorta. Nel xiii secolo i mongoli li utilizzarono addirittura nelle campagne contro Baghdad e l’Egitto, con ottimi risultati. Oggi, però, l’abilità nel guerreggiare purtroppo non è sufficiente a fare andare avanti il paese.
TRA RUSSIA E OCCIDENTE
La Georgia era il frutteto dell’Urss. Le condizioni climatiche vi permettono la coltivazione di una gran varietà di colture, non solo frutticole. Nella piana del Rioni, che ha un microclima subtropicale, crescono grano, riso, tabacco, cotone, tè; la Kakhetia, a ovest, è il regno della vite. Sono scarse, invece, le risorse del sottosuolo, se si esclude il manganese. Per questo, mentre l’industria vi era relativamente poco sviluppata, sulle tavole di tutta l’Urss si gustavano i prodotti della terra georgiana: vino, acque minerali, agrumi, tè.
Il fatto d’avere la sua maggiore ricchezza nell’agricoltura è stata una fortuna per il paese. Con la fine dell’Urss, mentre molte fabbriche, qui come in altre repubbliche ex sovietiche, erano costrette a chiudere per l’interrompersi di un ciclo economico atto a funzionare solo all’interno del gran corpo dell’Unione, la Russia ha continuato a consumare i prodotti georgiani, di cui è rimasta il maggior importatore. Ora, però, la politica apertamente russofoba del nuovo governo ha compromesso rapporti commerciali consolidati, causando ingenti perdite al settore agricolo.
Questo nuovo corso si è inaugurato all’inizio del 2004 con l’elezione alla presidenza di Mikhail Saakashvili, un giovane avvocato di 35 anni. Egli ha fatto una scelta decisamente filo-occidentale, rivolta in primo luogo agli Stati Uniti. Non ha, però, abbandonato gli slogan nazionalisti. Oltre a guardare a ovest, oltre alla lotta alla corruzione, il suo Movimento nazionale ha come obiettivo quello di ripristinare il controllo centrale sulle regioni secessioniste. Un programma ampiamente condiviso, se gli ha permesso di conquistare il 97% dei voti.
Questo governo dei «ragazzini» – come qualche georgiano lo definisce con condiscendenza, riferendosi alla squadra di trentenni e quarantenni di cui il presidente si è circondato – qualche risultato l’ha ottenuto. Tbilisi è riuscita a spodestare dall’Agiaria il governatore Aslan Abashidze, che dagli anni ‘90 l’aveva retta come un feudo personale, e sta ora cercando di riprendersi l’Ossezia con una politica di divide et impera e di allettamenti economici.
Anche la lotta alla corruzione ha dato qualche esito, per lo meno tra le forze dell’ordine. Da un giorno all’altro sono stati licenziati tutti i poliziotti. «Per tre mesi non se ne è visto uno in giro – ricorda padre Carlo -; poi, al posto dei vecchi agenti, tronfi e panciuti, ne sono comparsi di nuovi: tutti in perfetta tenuta, magri, puliti, rasati, educati e, soprattutto, che non chiedono soldi. Bisogna dire che adesso la polizia funziona».
Dopo l’arrivo al potere di Saakashvili gli aiuti occidentali sono più che raddoppiati: si calcola che, in rapporto alla popolazione, la Georgia sia la maggiore beneficiaria delle elargizioni americane, dopo Israele. Il presidente, e con lui la maggioranza dei georgiani, ha scelto di stare con l’Occidente, ignorando i russi. Ma, a meno che il paese non intenda vivere di sussidi, permane un ragionevole dubbio su quanto tale scelta sia compatibile con i suoi reali interessi.
Dal punto di vista economico la Georgia interessa all’Occidente soprattutto come terra di passaggio del gas e petrolio del Caspio. È in questo settore che si concentrano gli investimenti esteri. Ma quella legata agli idrocarburi è ricchezza volatile, che dura tanto quanto dura il greggio e che tende a finire nelle mani di pochi.
Lo sbocco naturale per l’economia georgiana rimane la Russia, e non solo come mercato di beni, ma anche di forza lavoro. Le rimesse di coloro che vi lavorano costituiscono da sole il 5% del bilancio della repubblica.
In ogni caso, a dispetto di sussidi e investimenti la Georgia continua a vivere in povertà. Ciò è evidente perfino nella capitale Tbilisi, dove non sembra che molto sia stato fatto dai tempi sovietici. Negli ultimi anni alcuni edifici sono stati ristrutturati, altri sono stati costruiti, qualche cantiere è aperto. In centro sono state rimesse a posto un paio di vie pedonali, dove hanno aperto ristoranti, caffè e negozi alla moda; ma appena ci si allontana di pochi metri ci si trova tra case semidiroccate, balconi sbilenchi, muri pericolanti, cortili ingombri di macerie. È un peccato. Delle tre capitali caucasiche Tbilisi è di gran lunga la più interessante.
PRIMO STATO CRISTIANO
Forse gli edifici che hanno maggiormente beneficiato della fine dell’Urss sono quelli religiosi. Sono tante le chiese a Tbilisi e in tutta la Georgia scampate alla furia del bolscevismo e in questi anni ritornate in possesso del Patriarcato; molte di esse sono state restaurate. Abituata alle pareti spoglie, severe delle chiese in Armenia, l’altro paese cristiano del Caucaso, che nell’architettura sono molto simili a quelle georgiane, la prima volta che sono entrata in una chiesa di Tbilisi sono rimasta a bocca aperta: le pareti erano coperte da affreschi in cui predominavano le tinte allegre e luminose, l’azzurro negli sfondi, il rosso, il giallo e il bianco nelle figure. Le figure erano disegnate con tratti ingenui, occhi grandi, facce buffe e buone. Una vera gioia per gli occhi.
In Georgia le chiese raramente sono vuote; in qualsiasi giorno e a qualsiasi ora c’è sempre un via vai di fedeli che si fermano a pregare davanti a un’icona, mettono una candelina ed escono segnandosi devotamente. Anche per la via o durante un viaggio, molti nel passare accanto a una chiesa si segnano con larghi gesti.
La conversione della Georgia al cristianesimo avvenne intorno al 330. La tradizione la fa risalire al battesimo del re d’Iberia Mirian a opera di santa Nino, una giovane prigioniera della Cappadocia. Da allora il cristianesimo fu accettato come religione di stato e formò l’identità nazionale dei georgiani, contraddistinguendoli dagli altri popoli della regione, dove, col passare dei secoli, la presenza dell’islam si andava facendo sempre più soverchiante.
La Georgia ha una lunga lista di martiri per la fede cristiana. Si ricordano anche episodi di martirio collettivo, come quello dei 100 mila abitanti di Tbilisi, uomini, donne, bambini, che nel 1227, durante l’invasione del turco Jelal ad-din, si rifiutarono di calpestare le icone della Vergine e del Salvatore e furono decapitati. Stessa sorte toccò nel 1616 a 6 mila monaci del monastero di Davit Garegia ad opera dei soldati dello scià di Persia Abbas I.
Il sentimento religioso ha raggiunto in Georgia espressioni altissime soprattutto in architettura e lavorazione dei metalli. Dopo secoli di invasioni e saccheggi, è ancora molto grande la quantità di opere d’arte sacra che oggi possiamo ammirare. Basterebbe una visita al Tesoro, custodito all’interno del Museo dell’arte di Tbilisi, dove sono esposti alcuni dei capolavori dei maestri orafi: oggetti liturgici, icone, croci di grande valore artistico testimoni della storia del cristianesimo georgiano.
La Georgia è stata nei secoli un raro esempio di tolleranza religiosa, vi hanno vissuto insieme ortodossi e musulmani, ebrei e cattolici. Queste comunità, tutt’ora presenti nel paese, hanno una lunga tradizione di convivenza pacifica e hanno tutte ugualmente sofferto durante i 70 anni di regime sovietico. Ma negli anni ‘90, con l’indipendenza, il vento del nazionalismo ha cominciato a soffiare anche in campo religioso.
CATTOLICI DIMEZZATI
Kutaisi, al centro della fertile piana del Rioni, è la seconda città della Georgia. Qui si sente la vicinanza del mare, il caldo è umido e la vegetazione lussureggiante. Un tempo capitale del regno d’Imereti, sede di alcune delle vestigia più care al cuore dei georgiani, oggi la città dà un’impressione di sordida miseria. Nel periodo sovietico era un importante centro industriale, ma ora le fabbriche sono chiuse e il lavoro manca.
Mia destinazione a Kutaisi era il Centro cattolico, tenuto da tre padri stimmatini e tre suore della congregazione delle Piccole figlie di san Giuseppe. Il Centro ha sede nel quartiere ebraico, in una palazzina ristrutturata da padre Gabriele, il primo ad arrivare in Georgia. Al piano terra è stata allestita una cappella, unico luogo di preghiera per la comunità locale, perché la chiesa cattolica è stata presa dagli ortodossi e da anni se ne chiede inutilmente la restituzione.
Ad accogliermi ho trovato padre Carlo, suor Annamaria e suor Josephina. A cena, naturalmente, si è parlato della situazione in Georgia. Mi era rimasta impressa una frase detta quella mattina da padre Rolandas, della nunziatura, dopo la messa celebrata nella chiesa dei santi Pietro e Paolo a Tbilisi: «La chiesa cattolica non ha status ufficiale nel paese. Non è mai stata riconosciuta dal governo e funziona solo come associazione privata». La cosa mi era sembrata strana, perché perfino in Russia, dove notoriamente i rapporti tra Patriarcato e Santa Sede non sono facili, la chiesa cattolica è ufficialmente riconosciuta. Ero convinta di avere inteso male.
«Proprio così – mi diceva padre Carlo -. Però siamo in buona compagnia. Qui di ufficiale c’è solo la chiesa ortodossa, nessuna delle altre comunità religiose è riconosciuta. Per motivi nazionalistici. Eppure gli ebrei, per esempio, non sono arrivati ieri: nel 2000 a Kutaisi hanno celebrato i 2.500 anni di permanenza».
I padri stimmatini sono qui da 14 anni. «Siamo arrivati nel 1994, perché i cattolici di Kutaisi, attraverso la nunziatura aperta nel 1992, avevano chiesto di avere dei preti – ha spiegato padre Carlo -. L’ultimo prete cattolico era morto nel 1943. Gli italiani sono più bene accetti dei polacchi, che tradizionalmente servono i territori della Russia e dell’ex Urss. Italiano è stato anche il primo rettore del seminario di Tbilisi. Ai tempi dell’Urss c’erano, tra georgiani e armeni circa 50 mila cattolici, ma dagli anni ‘90 in poi questo numero si è dimezzato».
Era un’altra notizia di cui facevo fatica a capacitarmi: come è possibile che il numero dei cattolici si sia dimezzato, rispetto al periodo sovietico, quando non c’era libertà di culto, le chiese quasi tutte chiuse e senza preti, mentre adesso si può liberamente professare la propria fede? «La faccenda non è semplice. Domani vai a trovare padre Gabriele a Batumi: è lui la persona più indicata a spiegartela» mi disse suor Annamaria.
Dopo cena, insieme a suor Annamaria, ho dato un’occhiata a una delle sinagoghe di Kutaisi, a pochi passi dalla casa dei missionari. Il prospiciente giardinetto, risistemato in occasione del 2.500° anniversario della comunità, mostrava già segni di degrado. Poco lontano s’intravedeva la grande mole dell’ormai ex-chiesa cattolica, proprio di fronte al promontorio dove spiccano le rovine dell’antica cattedrale di Bagrat, lasciate a memoria della furia turca che la distrusse nel 1692.
Al mattino siamo partite presto, io per Batumi, suor Annamaria e suor Josephina per la regione impervia a sud della Georgia dove vivono alcune comunità di cattolici armeni. Meno male che guidavano una solida jeep perché, come ho già detto, le strade georgiane mettono a dura prova ruote e sospensioni. «I preti cattolici georgiani sono solo due, quindi dobbiamo trottare parecchio per raggiungere tutti coloro che hanno bisogno di noi» mi spiegavano le suore.
A Batumi ho trovato padre Gabriele nella sua «nave», così padre Carlo mi aveva descritto l’architettura della nuova chiesa cattolica, costruita nel 2000, al posto della cattedrale in centro città, passata ora agli ortodossi. Il paragone è tanto più appropriato in quanto la chiesa si trova proprio di fronte al porto.  Padre Gabriele non poteva fermarsi molto a lungo, ma mi ha concesso tutto il tempo necessario per rispondere alle mie domande. È stata una conversazione cordiale, ma che ha lasciato l’amaro in bocca (vedi riquadro).
La giornata termina con la visita alla nuova chiesa, anch’essa, come la cappellina di Kutaisi, progettata da padre Gabriele. Sebbene molto più piccola della vecchia cattedrale cattolica, è pur sempre spaziosa, atta a ospitare una discreta assemblea di fedeli, che però, se trovassero conferma le parole del vescovo di Batumi, presto potrebbe non esserci più. 

Di Bianca Maria Balestra

L’ECUMENISMO CHE NON C’È

Padre Gabriele mi aveva ritagliato uno spazio fra i suoi tanti impegni. Il tempo era poco e tante erano le cose che avrei voluto chiarire, così ci siamo messi subito al lavoro.

Se la chiesa di Roma non è riconosciuta, come si spiega la visita di Giovanni Paolo ii nel novembre 1999?
«Il papa è venuto come capo di stato e come personaggio storico che ha contribuito alla fine dell’Urss. È stato invitato dall’allora presidente Shevaadze; il patriarca non ha potuto opporsi, l’ha accolto a denti stretti. Però la chiesa ortodossa ha chiesto che la messa non si facesse in piazza, così si è celebrata allo stadio. Nel frattempo alla televisione veniva detto che chi vi avesse partecipato sarebbe stato scomunicato».

Come mai tanta acrimonia verso i cattolici? Forse per ragioni storiche?
«Niente affatto. I georgiani hanno sempre avuto rapporti con la chiesa di Roma. La Georgia è rimasta lontana dalle vicende legate allo scisma, non ci sono rotture ufficiali con Roma. Domenicani e francescani sono arrivati su invito dei re locali, qui avevamo scuole, chiese e monasteri. Nel tempo ci sono stati diversi scambi di lettere tra i re georgiani, il Patriarcato e la Santa Sede. Tra le nostre chiese c’è una storia di bellissimi rapporti fratei. Quando, ad esempio, nel 1918 fu ricostituito il Patriarcato, che era stato sostituito da un sinodo dopo l’arrivo dei russi alla fine del xviii secolo, la prima chiesa a congratularsi fu quella di Roma. Fino a 20 anni fa i cattolici che venivano in Georgia partecipavano alla messa e venivano ammessi alla comunione; ciò valeva anche per le delegazioni ufficiali inviate dal Vaticano. Durante il comunismo i preti cattolici erano sostenuti dai preti del Patriarcato. Ci si aiutava a vicenda per l’amministrazione dei sacramenti. Ci si faceva battezzare o sposare da preti ortodossi e cattolici indifferentemente».

Ma, allora, cos’è successo?
«È successo che all’ideologia comunista è subentrata quella nazionalista, secondo la quale il georgiano deve essere ortodosso. Adesso l’ortodossia georgiana è la più chiusa di tutte. Non per caso una delle colpe che ci rimproverano è l’ecumenismo. E non soltanto a noi. Quando nel 2003 il patriarca di Costantinopoli è venuto a Kutaisi, ha fatto un discorso sull’unità delle chiese. Ciò non è piaciuto ad alcuni gruppi fanatici, che lo hanno duramente contestato. Anche una mia conferenza ad Akhaltsikhe è stata interrotta da gruppi estremisti. I giovani che vogliono essere ortodossi entrano in questi gruppi. Ufficialmente la chiesa non li sostiene, ma, di fatto, se ne serve».

E come spiegare che il numero di cattolici oggi si è dimezzato rispetto ai tempi dell’ateismo di stato?
«Non è poi così strano. I cattolici sono sottoposti a mille pressioni. Sui mass media c’è un bombardamento in favore dell’ortodossia. Alla televisione, ad esempio, è stato trasmesso il matrimonio di un cattolico diventato ortodosso. Gruppi fanatici hanno distribuito viveri ai villaggi cattolici perché passassero all’ortodossia; mentre la Caritas viene tacciata di fare proselitismo. E poi c’è la dolorosa questione delle chiese.
Nel 1988-89 i cattolici di Kutaisi hanno chiesto di poter riaprire la loro chiesa. Essa è stata sì riaperta, ma per essere consegnata agli ortodossi. Il processo che ne è seguito non ha portato alla restituzione, nonostante che i documenti prodotti dimostrassero senza possibilità di dubbio la sua appartenenza alla comunità cattolica. La Santa Sede non ha voluto insistere per non creare contrasti. A Batumi è successo qualcosa di simile; qui, però, siccome siamo in Agiaria, che è regione autonoma, abbiamo potuto almeno costruire un’altra chiesa. Sono cinque le chiese cattoliche prese dagli ortodossi: a Kutaisi, Batumi, Gori e due nel sud. Sembra che siamo noi ad averle rubate un tempo e che adesso gli ortodossi se le stiano giustamente riprendendo.
Roma chiede di far silenzio per l’unità dei cristiani, come se qui la giustizia non contasse. Il Vaticano ha detto: non preoccupatevi delle chiese, il dialogo è più importante. Va bene, non parliamo delle chiese. E del fatto che la gente viene ribattezzata? Neanche. È un fenomeno iniziato negli anni ‘90. Ci sono stati anziani ottantenni ribattezzati, perché il prete aveva detto loro che altrimenti non sarebbero entrati in paradiso con la moglie o il marito. Si riesce a immaginare che trauma è stato per quelle persone? Piangevano mentre lo raccontavano.
La chiesa di Roma non sta aiutando quei georgiani che hanno sofferto per rimanerle uniti. In questo modo si sta facendo morire il cattolicesimo. Il vescovo di Batumi lo ha detto: costruite pure la vostra chiesa, tanto fra poco sarà mia, perché non ci saranno più cattolici. Prima intorno alla chiesa di Kutaisi abitavano cattolici, adesso non più. Si sta perdendo la memoria del passato e le nuove generazioni non hanno più il riferimento di un luogo fisico.
In compenso per i giovani ortodossi quella chiesa è loro, perché vi sono stati battezzati. Andrebbe ancora bene se ci considerassero fratelli, ma quando ci dicono che siamo figli di satana… Qui mi sono sentito chiamare eretico, mi hanno anche buttato fuori dalle chiese.

Eppure il dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa sembra procedere bene, più che con le altre confessioni cristiane.
Non in Georgia. Purtroppo qui l’evoluzione è in negativo, ma in Europa non lo si percepisce. I bei discorsi del patriarca restano tra le quattro mura. Il pubblico georgiano non sa che è venuto il cardinale Kasper; che la chiesa ortodossa georgiana partecipa agli incontri ecumenici a Belgrado o al funerale del papa. Tali notizie non vengono date sul giornale del patriarcato. Si scrive di una delegazione andata a Bari a vedere le reliquie di san Nicola, si omette che quella è una chiesa cattolica, dove i georgiani hanno celebrato una messa. Infatti, all’estero i georgiani celebrano nelle chiese cattoliche.
Adesso ha preso il via una commissione mista cattolica-ortodossa. Nel 2004 si era detto: se voi smettete il processo per la chiesa cattolica di Kutaisi ne parliamo attorno a un tavolo. Ebbene, il primo incontro si è tenuto nel 2007. Noi abbiamo espresso la nostra posizione, ma finora nessuna risposta è arrivata da parte degli ortodossi. D’altronde, cosa ci aspettiamo, se di questi problemi non riusciamo a parlarne neanche tra noi cattolici?».                                            

Bianca Maria Balestra

Biancamaria Balestra




Un passo verso la pace

Nord e Sud Corea più vicine dopo l’incontro tra i due presidenti

L’armistizio che concluse la Guerra di Corea (1950-1953) ha diviso in due blocchi un popolo
con la stessa storia, lingua e cultura. Oltre 50 anni di regime marxista ha negato ai nord-coreani i diritti e i beni fondamentali. All’inizio di ottobre 2007, i leaders dei due paesi hanno firmato un patto di riconciliazione, impegnandosi anche a sviluppare i legami economici. Ma per la riunificazione si dovrà ancora attendere.

Quarant’anni di spietata colonizzazione giapponese, poi la guerra. Prima quella mondiale, poi quella fratricida, conosciuta come Guerra di Corea, innescata da profonde divisioni ideologiche, strumentalizzate a propri fini dalle grandi potenze d’allora.
Al termine di questo conflitto milioni di morti, feriti, senzatetto, sfollati, rifugiati, un paese completamente distrutto e diviso. Un popolo diviso. Famiglie divise. Un retaggio che, a più di 50 anni di distanza, i coreani stanno pagando a caro prezzo.
 MURO DI SILENZIO E NOIA
Questo dramma, che ha sconvolto l’esistenza di milioni di persone, si materializza qui a Panmunjom, al 38° parallelo, in un bordo sottile di cemento alto poco più di dieci centimetri. Tanto basta per mantenere separati 70 milioni di persone che condividono storia, lingua, cultura, tradizioni, leggende. Una striscia che anche un pupetto di pochi mesi, barcollando a quattro zampe, potrebbe facilmente superare e che invece, qui, riesce a mantenere divisi eserciti tra i più potenti al mondo.
Ai fragori dei cingoli dei carri armati, alle urla dei soldati, ai pianti dei civili in fuga, ai sibili delle bombe, ora si è sostituito il silenzio. Che, però, equivale al clamore della disperazione. Un silenzio assordante che dura da quel 27 luglio 1953, quando le due delegazioni, da una parte quella nordcoreana e dall’altra quella statunitense in rappresentanza dell’ONU, apposero sul documento dell’armistizio le loro firme, fondamenta per quella striscia di cemento invalicabile.
In seguito, Seoul eresse lungo tutta la Dmz (zona demilitarizzata) un muro, questa volta vero, di cemento armato, identico a quello eretto a Berlino. La sua costruzione, come del resto quello che divide Cipro, non indignò il mondo «libero», perché eretto da una potenza ad esso alleata e per di più in prima linea a fronteggiare il «pericolo rosso».
Dalla mia postazione privilegiata, oggi posso vedere i volti dei turisti che, dalla parte meridionale, osservano curiosi ed emozionati, questo «regno eremita» con binocoli, cannocchiali, cineprese, macchine fotografiche. Hanno espressioni grevi, non so se dovute al fatto di essere consci dei tragici eventi che Panmunjom simbolizza o per la paura di essere di fronte a quello che è stato per anni descritto come un paese guidato da pazzi guerrafondai, pronti a lanciare ordigni nucleari a destra e a manca.
Le guardie nord e sud coreane si scrutano a vicenda. Nei loro occhi non vedo odio, neppure rancore, ma noia, quella sì. Le giornate passano lente, monotone, tutte uguali da 50 anni a questa parte. Solo qualche allarme, di tanto in tanto, e del resto subito rientrato, ha aumentato la tensione. Se invasione ci dovesse essere, non è certo da qui che inizierebbe.
Gioate lente, scandite dal ritmo cadenzato dei passi al cambio delle guardie o dalle bandiere che garriscono svogliatamente al vento. Il vento… solo lui, assieme agli uccelli e alle nuvole, che non conosce confini. Neppure qui a Panmunjom.

EGUALITARISMO COREANO

Avevo impiegato 24 ore ad attraversare in treno il breve tratto che da Pyongyang arriva a Sinuiju, al confine cinese. Innumerevoli black out sconvolgevano continuamente la tabella di marcia. Ora che compio il tratto inverso, la locomotrice sembra correre verso la capitale; non «divora la pianura» come quella cantata da Guccini, ma arranca faticosamente; e forse non va neppure verso la giustizia proletaria, se al confine ritrovo la situazione, purtroppo familiare, di guardie nordcoreane che pretendono dai commercianti e dalle famiglie cinesi parte della loro mercanzia o bagagli: meloni, scarpe, vino, carne, cappellini non importa quali, purché abbiano un marchio «global» ben visibile, magliette dai colori sgargianti che faranno distinguere chi le indossa dalla massa di uniformi verdi e grigie.
Un dazio illegale, certo, ma accettato da tutti. Del resto, qui in Corea del Nord, l’illegalità va a braccetto con la rigidità delle regole emanate dal governo. Ci vogliono 2.000 dollari per comprare un passaporto; ma per chi non può permettersi di pagare tale somma (la quasi totalità della popolazione), ne bastano 100 per corrompere una guardia di confine e sgattaiolare al di là dell’Amnok, il fiume che separa i due paesi. «È l’egualitarismo coreano – mi ha detto una volta un rifugiato incontrato a Dandong -. Puoi raggiungere gli stessi sogni percorrendo strade diverse».
A Pyongyang l’atmosfera è rilassata, come sempre. Nessuno è sceso per le strade a manifestare a favore o contro l’accordo a Sei o per la visita del nemico Roh Moon-hyun. Non ce n’è bisogno, in un paese dove il dissenso è vietato e tutti sono sempre d’accordo con le scelte di Kim Jong Il. Il compito dei cittadini è quello di contribuire a far prosperare il paese.
Compito arduo perché, pur volendolo, per molti non c’è possibilità alcuna di farlo. Le fabbriche faticano a sopravvivere con una tecnologia antiquata, pezzi di ricambio fatiscenti, continue interruzioni energetiche. Nelle campagne i trattori sono fermi nelle officine per mancanza di carburante e le famiglie dei contadini riescono a sopravvivere solo grazie al raccolto dei campi che il governo ha dato loro in concessione dopo le riforme economiche varate nel 2002.
Colpa dell’embargo imposto dagli Stati Uniti, accusano i dirigenti nordcoreani, colpa della politica collettivistica imposta dal governo in tutti questi decenni, replicano i governi occidentali. Fifty fifty, concludono diplomaticamente le agenzie non governative che operano nella nazione. Fatto sta che, secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal World Food Programme in un rapporto stilato in collaborazione con lo stesso governo di Pyongyang e l’Unicef, il 7% dei bambini è gravemente malnutrito, mentre il 34% è classificato come «cronicamente malnutrito».
A Pyongyang visito un orfanotrofio che accoglie un centinaio di bambini: «I loro genitori sono morti durante le carestie degli anni precedenti» dice la direttrice. Molti di questi piccoli ospiti sono malati. Non c’è un frigorifero dove mantenere medicine; ma anche se ci fosse non ci sarebbero medicine. L’embargo colpisce anche questi prodotti. Le differenze sociali, un tempo visibili tra gli abitanti delle città e i contadini, cominciano a farsi sempre più vistose.

QUALCUNO È PIù UGUALE…

In un’economia che marcia a moneta quadrupla (won, yen, euro e dollaro), solo chi ha rapporti con l’estero può permettersi una vita piuttosto agiata. A Pyongyang si può trovare di tutto: dallo stereo Hi-Fi ultima generazione agli spaghetti Barilla o la Nutella. Ma tutto è venduto in moneta forte. Chi non ha «agganci» all’estero, si deve accontentare degli scaffali semivuoti dei negozi popolari.
Una nuova classe sta sorgendo oggi. Non la possiamo chiamare «media», ma ha un livello di vita leggermente superiore allo standard locale. Sono gli operai delle multinazionali sudcoreane, giapponesi e europee, che stanno investendo nel nuovo mercato nordcoreano e i contadini «ricchi», coloro che riescono a ricavare dai loro appezzamenti di terreno sufficienti prodotti per rivenderli ai mercatini protocapitalistici che il governo organizza ogni settimana nelle città distrettuali.
Le riforme volute da Kim Jong Il nel 2002 e applaudite dal consesso internazionale hanno però impoverito ulteriormente la maggioranza della popolazione. Non quella che «non ha voglia di lavorare», come direbbero subito alcuni, ma quella che non ha possibilità di lavorare meglio e di più. La proporzionalità diretta tra produttività e salario, introdotta dal governo, avrebbe dovuto aumentare la produzione industriale e agricola, ma così non è stato. «Nella nostra fabbrica i macchinari obsoleti non ci consentono di produrre quanto si produce nella vicina fabbrica Hyundai. Eppure lavoro in media due ore di più al giorno, guadagnando molto di meno del mio collega» si lamenta un operaio di una ditta metalmeccanica della regione di Kaesong.
Fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile sentire una critica simile alla politica economica del partito. Il fatto che, seppur timidamente, qualche parola in più oggi venga detta fa ben sperare anche le organizzazioni che si occupano di diritti umani, a cui il governo ha sempre negato l’accesso per verificare direttamente la condizione della popolazione.

Due passi per cambiare la storia

Sono bastati solo due passi al presidente sudcoreano Roh Moon-hyun per dare nuove speranze al futuro della penisola coreana. Lo scorso ottobre, lo abbiamo visto su tutte le televisioni, l’inquilino della Cheon Wa Dae, la Casa bianca di Seoul, è entrato in Corea del Nord varcando quello che, per quattro lunghi decenni, è stato il confine più sigillato della terra: il 38° parallelo.
Roh è stato il secondo capo di stato della Corea del Sud a fare visita a Kim Jong Il, dopo il famoso viaggio di Kim Dae Jung nel 2000, viaggio che valse a quest’ultimo il premio Nobel per la pace. Ma se allora Kim Dae Jung andò a Pyongyang in aereo, oggi il successore Roh Moon-hyun ha voluto andarci via terra, a significare la volontà di riunificazione della penisola e la definitiva cancellazione della linea di confine tra i due paesi.
È dal 1953 che questa frontiera, saldamente chiusa al transito sia di merci che di uomini, segna la proiezione simbolica in Asia di quello che per l’Europa era il Muro di Berlino. In quell’anno, un armistizio pose temporaneamente fine a una sanguinosa lotta armata costata la vita a due milioni e mezzo di uomini fra coreani, cinesi e statunitensi.
La Guerra di Corea fu il primo conflitto «per procura», che pose di fronte le due superpotenze uscite vittoriose dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti e Unione Sovietica. A queste se ne aggiunse in seguito una terza, la Cina, che cominciava a riaffacciarsi alla scena mondiale dopo le umiliazioni subite nell’Ottocento da parte dei paesi europei.
Pechino non solo interpretava il coinvolgimento di Usa e Urss in un paese a lei confinante, come un pericolo alla sua stessa esistenza, ma entrando direttamente nella contesa, voleva far sapere a tutto il pianeta che una terza potenza mondiale era nata dopo il 1945. Mao Zedong, in Corea, ci perse il suo figlio prediletto, uno dei 150.000 cinesi morti a fianco dei soldati di Pyongyang. Da allora l’intera penisola rimase divisa e ancora oggi le due Coree sono ufficialmente in stato di belligeranza, visto che non è mai stato siglato un trattato di pace.
Il 38° parallelo resta così l’ultimo tratto della Cortina di ferro non ancora smantellato. Un retaggio di Yalta eduna contraddizione al tempo stesso, visto che la contesa mondiale del xxi secolo non si esplica più come opposizione tra mondo capitalista e mondo socialista. E proprio in questo nuovo ordine mondiale, diviso più dall’appartenenza religiosa che da quella ideologica e politica, la Corea del Nord, ultimo regime a economia socialista «pura» esistente sulla terra, si sente isolata e respinta da quelle stesse nazioni che, un tempo, la appoggiavano, come la Cina.
Pyongyang allora cerca di sopravvivere cercando alleati tra quelle potenze che, pur combattendo apertamente l’idea marxista, si contrappongono al nemico comune: gli Stati Uniti. Iran, Siria, Pakistan intrattengono ottimi rapporti diplomatici e economici con Kim Jong Il. In cambio di assistenza militare, campo in cui la scienza nordcoreana eccelle, ecco arrivare quel petrolio che Clinton aveva promesso nel 1994 per sopperire alla chiusura delle centrali nucleari, ma che Bush ha negato appena salito al governo.
Le continue tensioni tra Pyongyang e Washington hanno infastidito anche Seoul, timorosa che un’escalation del nervosismo influisca negativamente sulla crescita economica. È per questo che sulla linea di demarcazione valicata a piedi da Roh Moon-hyun campeggiavano due parole ben visibili: «Pace» e «Prosperità», due condizioni essenziali per lo sviluppo dei 70 milioni di coreani.

DIALOGO E INVESTIMENTI

E pace e prosperità erano anche le parole d’ordine che hanno concluso gli attesi negoziati a sei tenutisi a Pechino contemporaneamente all’incontro tra i due capi di stato coreani. Al termine dei loro mandati, sia Bush che Roh hanno voluto lasciare in eredità ai successori uno spiraglio per risolvere al meglio il nodo coreano.
«Una Corea del Nord economicamente stabile è un vantaggio per tutti» afferma Son Key-young, studioso dei rapporti tra le due Coree, che nel 2000 aveva analizzato attentamente la politica di dialogo avviata da Kim Dae Jung. «Dapprima è un vantaggio per il Sud, che può allargare il proprio bacino economico e avere una manodopera culturalmente preparata, senza barriere linguistiche ma a basso prezzo.
È un vantaggio anche per il Giappone, che può dirottare il budget per la difesa missilistica su altre voci. Infine, rafforzare socialmente il governo di Kim Jong Il garantirebbe stabilità sociale all’intera area e al tempo stesso un trapasso meno traumatico da un’economia socialista a una di mercato».
Sono in molti, anche in Corea del Sud, a storcere il naso di fronte alle dichiarazioni di Son Key-young. Come si può sperare che un governo dispotico e autoritario come quello di Kim Jong Il rimanga al potere? E perché, ci si chiede, non seguire, invece, la politica delineata da Richard Armitage all’inizio dell’amministrazione Bush, che auspicava un totale blocco degli aiuti al Nord per accelerare il tracollo economico e una rivoluzione intea? «Una crisi alimentare potrebbe uccidere centinaia di migliaia di nordcoreani, ma alla fine ci sarebbe una ribellione che porterebbe al potere una fazione più propensa al dialogo» aveva auspicato Armitage, aggiungendo che «il sacrificio di poche migliaia di nordcoreani salverebbe la vita a milioni di persone, in caso Usa, Corea del Sud e Giappone si trovassero costretti a intervenire militarmente per arginare la prepotenza di Kim Jong Il».
Per fortuna la linea Armitage non fu perseguita e oggi il dialogo avviato da Kim Dae Jung e Kim Jong Il nel 2000 sta portando i suoi frutti. Lentamente l’economia nordcoreana si sta ravvivando. Sono numerose oramai le aziende sudcoreane che intendono investire al nord. La Hyundai, che per prima ha rotto la titubanza capitalista, guida ancora la cordata delle 26 ditte che hanno investito nella zona a economia speciale di Kaesong.
In un’intervista rilasciata in esclusiva, Noh Young-Don, presidente della multinazionale, mi dice che «investire a Kaesong ci permette di essere pionieri nel nuovo mercato nordcoreano e, al tempo stesso, ci rende fieri di contribuire al dialogo e alla conoscenza reciproca di un popolo unito, ma diviso, che per 57 anni non ha potuto parlarsi».

PER L’UNIFICAZIONE… CI VUOLE  PAZIENZA

E per quanto riguarda l’unificazione politica dell’intera penisola? «Ah, per quella non se ne parla. Secondo me per almeno un’altra cinquantina d’anni almeno. Prima dobbiamo adoperarci per diminuire il divario economico esistente tra i due stati» conclude Noh Young-Don. Nessuno dimentica quanto difficile è stata l’integrazione economica delle due Germanie dopo l’unificazione della Ddr nella Repubblica Federale. E in quel caso si parlava di una proporzione economica di 5 a 1. Qui, in Corea, siamo a livelli di 30 o 40 a 1. Vale a dire che l’economia della Corea del Sud ha un Pil 40 volte superiore a quella del Nord. Piuttosto si preferisce parlare di federalismo: un paese con due economie, ma una sola politica estera e libero scambio tra cittadini. Sono queste le basi su cui oggi si parla di una sola Corea.
Anche nel campo nucleare, il regime di Kim Jong Il ha mostrato di essere più disponibile di quanto si potesse credere. Il suo governo ha l’arduo compito di traghettare la Corea del Nord verso nuovi lidi. «Ora speriamo di non fare l’errore che abbiamo fatto con l’Iran, quando abbiamo abbandonato Khamanei e i progressisti, lasciando il campo libero ai conservatori» sospira David Khang, coautore del libro Nuclear North Korea: a Debate on Engagement Strategies.
Secondo Khang l’Occidente e gli stati asiatici hanno tutto l’interesse a favorire Kim Jong Il, che ha mostrato la volontà di apertura e di cambiamento. «Abbandonare Kim Jong Il significherebbe consegnare la Corea del Nord all’incertezza e ai militari» conclude infine lo studioso. La caduta del governo di Shinzo Abe in Giappone ha scongiurato questo pericolo, almeno per ora. Ma il sentirnero da percorrere è ancora molto lungo e scosceso. Per vedere un’effettiva pace tra il popolo coreano occorre ancora molta pazienza. 

Di Piergiorgio Pescali

Orfanotrofio di Pyongyang

Anche quando il raccolto di cereali in Corea del Nord è abbondante, la penuria di cibo attanaglia il paese. Agenzie di sviluppo imputano la colpa a vari fattori: mancanza di collegamenti tra i centri di produzione e i villaggi; sistema economico che spreca troppe risorse umane senza avere un adeguato ritorno in termini di produttività; soprattutto, penuria di mezzi agricoli, fermi per mancanza di carburante e mezzi di ricambio, merci sottoposte a embargo dagli Usa.
Oggi le autorità nordcoreane non nascondono le difficoltà economiche cui sono costrette a far fronte: in una cornoperativa situata in una zona il cui accesso è solitamente proibito agli stranieri, trovo una situazione intollerabile: pensionati, donne e bambini frugano tra i rifiuti alla ricerca di resti ancora commestibili e legna da ardere, bene prezioso nel gelido inverno montano. Il presidente del distretto mi elogia la meccanizzazione raggiunta: 34 trattori, 10 camion, 6 mietitrebbiatrici. Poi, dietro mia insistenza, mi dice che quel camion è fermo per manutenzione, la mietitrebbia ha il mozzo rotto e così via.  Alla fine, solo un trattore è operativo, «almeno sino a quando avremo benzina».

L’ospedale regionale è sovraffollato, mancano le medicine, si opera senza anestesia; eppure il personale si prodiga all’inverosimile per alleviare la sofferenza dei loro concittadini. È da zone come queste che arrivano i bambini dell’orfanotrofio di Pyongyang, vicino al seminario buddista, i cui genitori sono morti a causa delle carestie. Pulito e accogliente, l’edificio ospita un centinaio di bambini che hanno pochi mesi di vita. Sono tra i pochissimi occidentali a entrare in questo mondo di sofferenza, dove languono diversi bambini malnutriti, alcuni dei quali hanno già raggiunto lo stadio finale. «Lo dica pure in Italia che manca il cibo. Dobbiamo salvare i nostri figli. Abbiamo bisogno del vostro aiuto, abbiamo bisogno di medicine, di cibo… Chi vuole venire ad aiutarci è il benvenuto» dichiara un alto dirigente del partito.
La mancanza di corrente elettrica («non possiamo permetterci un generatore perché non abbiamo gasolio») costringe il personale a lavorare in condizioni proibitive. Mi mostrano alcune stanze: bambini scheletrici inermi fissano il vuoto con i loro occhi infossati; un altro continua a battere la testa contro la barriera in ferro del letto, lacerandosi il labbro e la fronte, altri ancora presentano eczemi in diverse parti del corpo, dovuti alla mancanza di difese immunitarie.
«Il 10% di questi bambini non raggiungerà l’anno, alcuni arrivano qui già morti o moribondi come questo» mi dice la direttrice mostrandomi un fagotto in cui è avvolto un bimbo dalla pelle raggrinzita. Lo accarezzo e lui istintivamente mi stringe il mignolo con le sue dita. Pak, la mia guida si commuove. Organismi cattolici come la Caritas, Misereor, i monaci Benedettini (la congregazione più numerosa in Nord Corea prima del 1950) hanno avviato programmi di collaborazione e sviluppo e il governo stesso non cela la sua preferenza verso questo tipo di interventi, meno politicamente interessati rispetto agli aiuti convogliati in via ufficiale dagli stati e dalle agenzie collegate all’Onu.
Alla sera, tornato in albergo, Pak mi annuncia che il bambino scheletrico mostratomi dalla direttrice è morto. Al suo posto ne hanno già accolto un altro.

Piergiorgio Pescali




Ma papà dov’è?

Antropologia della miseria

Fond de Blancs, amena località sul Mar dei Caraibi. Un gruppo di villaggi sulle montagne. La terra è dura da coltivare e si soffre la fame. Le famiglie sono disgregate a causa di una storia disastrosa di persecuzioni e boat people. Un «bianco» passa alcuni mesi con le comunità del luogo. Ad ascoltare. Per poi raccontare tutto in un libro. Ecco una parte di quella storia.

Nel primo pomeriggio, quando arrivo a casa di Funfun, sua madre, Marie, è sdraiata su una stuoia, stanca e accaldata. Tiene sopra di sè la figlia più piccola, Jená, la allatta e a tratti la imbocca con alcuni cucchiai di bouyon (una zuppa molto sostanziosa), preparata la mattina come piatto unico per tutta la famiglia. Funfun si precipita, come al solito, a casa del nonno per prendere l’unica sedia a disposizione.
Ci scambiamo le frasi rituali di saluto che introducono ogni nuovo incontro. La piccola Jená nel frattempo, si è addormentata tra le sue braccia, Jezibon, l’altro figlio, è seduto a terra in un angolo che mangia quel che resta della sua razione di minestra. Scambio alcune brevi battute con Marie e, parlando dei bambini, mi informo, delicatamente, sulla loro salute e sulla scuola.
Le parole che riesco a scambiare sono poche, il dialogo non è facile, in cuor suo, probabilmente, pensa di non avere un gran che da raccontare. Le risposte di Marie sono spesso monosillabi, seguiti da lunghi momenti di silenzio. Forse la mia presenza la intimorisce o forse, è solo esausta della giornata.
Nel sottotetto, a vista, noto che sono appesi alcuni abiti, una borsa dalla quale sbucano dei documenti e dei vecchi fogli e su un lato si intravede una piccola «valigia» di legno che contiene il misero guardaroba familiare. Chiedo a Marie l’età dei suoi bambini. La donna si alza, lascia per un attimo a terra la figlia e dalla borsa tira fuori gli atti di nascita e me li porge.

La famiglia

In Haiti la copia dell’atto di nascita è molto importante, spesso è l’unico documento ufficiale che la persona possiede insieme, per taluni, al certificato di battesimo. Con esso si stabilisce lo stato civile del bambino: se si tratta di un figlio naturale, se è riconosciuto dal padre, oppure di un bambino legittimo, se i genitori sono sposati.
Dai documenti, custoditi gelosamente, risulta che Marie, ha trentasette anni pur dimostrandone almeno dieci in più, Funfun ne ha undici, il fratello maggiore, Prudent, quattordici, mentre Jezibon e Jená hanno rispettivamente sei anni e dieci mesi. Non vive con loro la figlia maggiore, Tina, che ha quindici anni e lavora a Port-au-Prince, presso una famiglia di Capin emigrata.  Tina rientra a casa per qualche giorno due volte all’anno: a Natale e durante il periodo estivo.
Dalle carte scopro che Funfun è il suo soprannome, in realtà sul suo atto di nascita è scritto Jezilen ma la gente della zona la conosce unicamente con il suo nomignolo. Nessuno a parte la madre pronuncia il suo vero nome. Questa abitudine molto comune, è legata ad una pratica di segretezza secondo la quale al momento della nascita si dà ai figli un nome segreto che solo i membri della famiglia conoscono e che verrà utilizzato quando saranno adulti. La vera identità dei bambini deve rimanere, per quanto possibile, sconosciuta perché conoscere il loro nome può esporli ad eventuali malefici.

L’importanza del nome

La funzione del nome è molto radicata nella cultura popolare. Al tempo della colonia, un po’ per derisione e un po’ per non doverli associare ad un nome del calendario cristiano, i padroni davano spesso ai loro schiavi dei nomi abbinati a personaggi mitologici o storici dell’antica Roma o Grecia (Néron, Pompée, Phaéton, Charlemagne, Brutus, Cirus, Moïse, ecc.). Oggi, se tra coloro che abitano la capitale c’è la ricerca di nomi nordamericani che evochino personaggi di successo, in campagna il nome spesso porta alla luce una speranza dei genitori oppure un particolare sentimento religioso.
Quando una madre, ad esempio, è stanca di avere solo figlie chiama l’ultima arrivata Assefille (basta bambine, ndr) nella speranza che i loa (spiriti del vodou, intermediari tra Dio e gli uomini) le risparmino «il disonore» di un’altra figlia femmina. In altri casi il nome materializza un sentimento religioso: Jezilà, Dieufort, Dieuseul, Dieujuste, Mercidieu, ecc.
Marie vive sola nella sua casa con i quattro figli. Il padre dei suoi bambini non abita con loro, ha un’altra donna e passa raramente per un breve saluto o per lasciare un mezzo sacco di patate o poco altro per aiutare a sfamare i figli.
L’abbandono del tetto familiare da parte del marito o convivente è molto frequente ed esso si trasforma spesso in una vera tragedia per chi resta. Normalmente infatti, è il padre che lavora la campagna ed è tenuto a fornire i principali mezzi di sostentamento. Spesso succede che quando l’uomo lascia la famiglia per andare a vivere con un’altra donna rompe i contatti con la prima e molti sono i casi di distacco completo. Il padre da quel momento in avanti non invia né denaro né cibo e si disinteressa completamente dei figli.
Funfun, un giorno a proposito del padre mi racconta: «Sai, se papà mi incontra per strada mi ignora, gira la faccia dall’altra parte e prosegue».
I genitori si relazionano in maniera brusca e talvolta violenta rispetto ai figli, non c’è un vero e proprio dialogo ed i più piccoli a colpi di bastone apprendono le regole dell’educazione. «Non bisogna permettere che i bambini abbiano troppa familiarità con gli adulti. Diventano maleducati! Un bambino non deve guardare negli occhi un adulto che gli rivolge la parola, non va bene!» mi dice una donna durante una conversazione nel centro sanitario di Sainton. Quando un adulto si rivolge ad un bambino quest’ultimo deve rispondere con lo sguardo rivolto a terra e con un tono di voce acuto e sottomesso, detto appunto «voce da bambino».
Molte donne hanno più figli con differenti conviventi. L’uomo in questa situazione tende a privilegiare quelli che considera come i suoi figli, trascurando e maltrattando, in molti casi, i bambini che la donna ha avuto nelle precedenti unioni.
Ho potuto osservare anche alcuni casi di uomini abbandonati dalla donna che si prendono cura dei figli ma si tratta di un fenomeno marginale, molto più frequenti sono le situazioni di donne che vivono sole con i figli oppure i casi di mariti che vivono «sulle spalle» delle mogli. È la donna infatti, che in molte famiglie procura il reddito maggiore attraverso le mille piccole attività che porta avanti con la sua grande operosità.

Mancanza di riferimenti

«Il ruolo di genitore e marito, oggi in Haiti costituisce una grossa questione – è l’opinione di mons. Louis Kebreaux, vescovo di Hinche, fine pedagogo e profondo conoscitore della realtà familiare haïtiana – se da una parte la donna-madre rimane in una situazione fortemente subalterna ed assume un ruolo sociale che è quasi esclusivamente quello riproduttivo, dall’altra parte il padre, a cui spetterebbe nella famiglia il ruolo di colui che apre il bambino alla realtà circostante, è spesso assente. Ci troviamo in una “società senza padri” con tutte le conseguenze che ciò comporta. La debolezza, che talvolta è totale assenza, della figura patea influisce drammaticamente sulla crescita dei figli. Spesso, accade che al bimbo manchino persone di riferimento significative in grado di accompagnarlo nelle fasi più delicate della sua vita. Questa condizione d’insicurezza genera in lui stati di angoscia, di paura e di ripiegamento su se stesso. Il bambino riceve una formazione egocentrica che lo porta a sviluppare con il passare del tempo alcune situazioni patologiche: frustrazioni, nevrosi, ansie e paure. Queste si manifestano anche nel permanere di atteggiamenti infantili in individui ormai adulti».
A sei-sette anni, quando cioè raggiunge l’età scolare, avviene un cambiamento brutale nella vita del bambino. È l’età infatti in cui comincia a svolgere numerose attività nella casa e l’atteggiamento dei genitori nei suoi confronti muta: da tollerante ed accondiscendente, essi passano ad un comportamento esigente ed in alcune occasioni violento. Molto interessante la testimonianza di una donna, Yaya, che discute con un altro genitore,  a proposito dell’educazione dei figli: «Allora quando tu hai dei bambini, se ti rispondono male quando gli parli, bisogna frustarli perché gli entri nella memoria, perché se lo ricordino. Mia cara, dal momento in cui un bambino comincia a capire, tu hai il diritto di dirgli di togliere quella pietra [cioè di farlo lavorare]. Se non la toglie, devi frustarlo perché se lo ricordi. Ma se si attacca ancora al seno della madre, è troppo piccolo, non può capire e non si può picchiarlo».

Bambini: al lavoro!

I figli lavorano duramente sin dalla tenera età. Le bambine dai 7 – 8 anni sono incaricate di spazzare la corte, di andare a prendere l’acqua, di aiutare nella preparazione dei pasti, di lavare i panni, di accompagnare al mercato la madre,… I figli maschi portano il cibo al padre nei campi, guardano il bestiame e lo accompagnano all’abbeveraggio; quando raggiungono i 10 – 12 anni, cominciano ad aiutare il genitore nel duro lavoro dei campi e a 14 anni al bambino viene affidato una piccola porzione di terreno da coltivare.
Oltre al lavoro, se le condizioni familiari lo permettono, i bambini frequentano la scuola. Al bambino viene impartita un’educazione severa a colpi di una piccola frusta di fibre vegetali, sia la famiglia che la scuola, gli insegnano la paura del mondo, della magia, di Dio. Un timore generalizzato che non lo abbandonerà più e che lo condizionerà per tutta la sua esistenza: una diffidenza indifferenziata verso l’altro.  Tutto ciò pregiudica ulteriormente la sua già difficile situazione, obbligandolo a subire e quindi a elaborare sin da piccolo una mentalità di sottomissione ed esclusione che li spingerà sempre più a fondo nella miseria.
La struttura familiare haitiana, in città e nelle zone rurali, ha fortemente sofferto del difficile clima politico e sociale che si è creato nel paese, in particolare a partire dal 1986, anno della fuga di Baby Doc. Mireille che lavora nel centro sanitario di Fond des Blancs, ha vissuto la sua infanzia nella capitale, a Cité Soleil (la baraccopoli della capitale più estesa e violenta). «Negli anni Settanta – racconta – vivere in una cité di Port-au-Prince non era male. C’era povertà ma la gente si aiutava reciprocamente. È a partire dagli anni Ottanta che il clima è cambiato, è iniziata l’insicurezza e la violenza ha cominciato a crescere velocemente». Sono gli anni caotici della caduta del sistema duvalierista al quale succedono vari regimi golpisti fino al 1994, anno che segna il ritorno ad una democrazia, almeno di facciata, con il rientro dall’esilio del presidente Jean Bertrand Aristide.

Generazioni da buttare

«Molti dei ladri e delinquenti di oggi – continua Mireille – sono i figli della violenza degli anni Ottanta, di stupri commessi ai danni di migliaia di donne. Questi giovani ed adolescenti che hanno oggi un’età tra i tredici e i venticinque anni sono cresciuti senza genitori, in un ambiente duro dove hanno sviluppato un forte istinto alla sopravvivenza che li spinge a fare qualsiasi cosa pur di rimanere a galla. Sono pronti a tutto: uccidono a dodici anni per pochi dollari, assaltano senza pietà in pieno giorno nelle strade della capitale, sono abituati ad uno stile di vita che raramente sono disposti a cambiare. Socialmente parlando, oggi sono loro i più pericolosi».  Vivono nelle numerose bidonville di Port-au-Prince dai nomi che ricordano, talvolta, quelli delle grandi metropoli nordamericane. Sono giovani ed adolescenti spesso succubi di droghe a basso costo, fatte circolare ad arte da personaggi senza scrupoli che li sfruttano, per mantenere Haiti sotto l’incubo costante della violenza e del caos. La prossima generazione, nata alla fine del millennio, non sarà molto diversa da questa: la violenza è aumentata, il consumo di droga è cresciuto e soprattutto tra i giovanissimi, migliaia sono quelli che crescono per strada, senza alcun riferimento familiare.
Le ultime generazioni sono state duramente provate. Molti adolescenti nascondono la loro angoscia dietro il sorriso e la seduzione. Un sorriso che nasconde però, la paura dello straniero e del prossimo in generale. Una paura che si trasforma rapidamente nella violenza più feroce, senza nessun rispetto per l’altro. Impotenti, davanti all’angoscia che li distrugge, arrivano a commettere e a giustificare con un semplice «non è colpa mia» i delitti più orribili.

Senza capofamiglia

Numerosi capifamiglia nella prima metà degli anni Ottanta furono uccisi dalle milizie paramilitari e dall’esercito, sia in campagna sia in città. Il clima di violenza e la povertà di quel periodo, favorì un forte aumento della migrazione verso la capitale e verso l’estero e gli Stati Uniti diventarono sempre più la meta più ambita del movimento migratorio legale e illegale (boat people).
Moltissimi nuclei familiari si sfaldarono a causa della partenza del padre e dei figli maggiori. «Moltissimi bambini – mi dice ancora Mireille – sono cresciuti e crescono oggi in famiglie senza padri, in un clima di grave disordine e di paura. Le madri, costrette dalla necessità, passano molte ore fuori di casa a racimolare i mezzi di sopravvivenza. I figli vengono affidati a terzi o ad altri fratelli o sorelle di poco maggiori. Il sistema d’allattamento irregolare e disordinato, l’abitudine di trascurare il bimbo durante la fase delicata dello svezzamento, il quasi abbandono nel quale vive sin dai primi anni, il duro lavoro a partire dall’età di sei – sette anni procurano delle ferite al bambino che difficilmente, da adulto, riuscirà a rimarginare».
Le conseguenze di questa drammatica situazione del mondo infantile si possono osservare tra i piccoli pazienti che frequentano il centro sanitario di Sainton. Spesso si presentano bambini con forti ritardi nella crescita e disturbati psicologicamente perché mal accuditi dalla madre che, a causa delle difficoltà economiche, vive con i propri figli un’esistenza disordinata, inquieta, schiacciata dalle preoccupazioni quotidiane. Il bambino cresce in un ambiente caotico, senza una corretta cognizione del tempo e dello spazio e diviene il catalizzatore di tutte le tensioni accumulate dal genitore. 

Di Massimo Miraglio

Massimo Miraglio




Una rivoluzione in tonaca rossa

Reportage dal paese asiatico

Una delle più longeve dittature del mondo è stata messa in crisi dalla protesta, pacifica ma determinata, dei monaci buddisti (mezzo milione su 54 milioni di abitanti). Questo reportage nasce da un viaggio effettuato durante le prime manifestazioni di agosto e settembre. Poi la situazione
è precipitata.  La giunta militare del generale Than Shwe ha risposto con la forza, sparando sui monaci e sulla gente, cingendo con filo spinato le pagode, incarcerando i dissidenti. La rivoluzione in tonaca rossa per ora è finita nel sangue. 

Mandalay, agosto 2007. A 698 chilometri da Yangon, verso nord, distesa su un’assolata pianura, c’è Mandalay, la seconda città del Myanmar. Vivace e vitale, è considerata il centro del buddismo birmano. Si calcola che, su oltre mezzo milione di monaci, circa il 60 per cento viva in questa città, cresciuta sulle rive del Ayeyarwaddy (già Irrawaddy).
Dall’alto della storica collina di Mandalay, la vista sembra confermare le informazioni. Il fiume scorre lento tra pagode e monasteri. Più lontane ci sono le colline di Sagaing e Mingun, anch’esse ricoperte di templi e pagode. Ma una conferma viene anche dai visitatori, molti dei quali sono proprio monaci.
Mentre ammiriamo i colori che il calar del sole dona al panorama, iniziamo a conversare con un gruppo di loro. Tonaca rossa e testa rasata a zero, si intrattengono volentieri. Sono studenti ed uno parla inglese.
 In Myanmar, per i maschi di fede buddista è consuetudine entrare per qualche tempo – sia da ragazzi (come novizi) che da adulti (dopo i 20 anni) – in monastero, per apprendere i principi fondamentali del buddismo, per acquisire meriti (che serviranno per una rinascita più felice) o semplicemente per un periodo di studio e meditazione.
Chiediamo come si svolge la loro vita di monaci e studenti: se ogni mattina vanno a bussare alle porte della gente per riempire di cibo (quasi sempre riso) le loro ciotole; se è duro rispettare la proibizione di mangiare dopo mezzogiorno; cosa studiano in monastero. Ma quando cerchiamo di andare sull’attualità, sulle proteste di questi giorni, la nostra guida ed interprete dà segni di impazienza, inusuali per lei. Dice che è buio e che occorre salutare ed andarsene.  Le obbediamo, promettendo ai monaci un improbabile contatto via internet. Lasciamo la collina di Mandalay, interdetti rispetto allo strano comportamento della guida.   
«C’era un militare in borghese che ascoltava la vostra conversazione», ci spiega. «In Myanmar, è preferibile evitare qualsiasi riferimento alla politica e ad altri problemi del paese».

Le pagode e le foto
dei generali

Rispetto ad una volta, negli ultimi anni l’esercito birmano – noto come Tatmadaw – aveva assunto un atteggiamento molto più discreto, meno visibile, pur mantenendo uno  stretto controllo sul paese. Ora la situazione è di nuovo in ebollizione, inizialmente a causa di una motivazione economica: l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante avvenuto questo agosto.
Il Myanmar è molto ricco e tra l’altro non sovrappopolato come altri paesi vicini: come si giustificano aumenti di questa entità? Probabilmente c’entrano l’ingordigia e la corruzione dei generali al potere. Un comportamento il loro che, tra l’altro, stride con l’incredibile gentilezza e cordialità della popolazione.
La giunta dei generali birmani è al potere ininterrottamente dal 1962. Dal 1997 si chiama «Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo» (State Peace and Development Council). 
La giunta – in un modo o nell’altro, con il bastone e la carota – è riuscita a tenere unito un paese con decine di etnie diverse e a tenere il Myanmar lontano dalle guerre che hanno insanguinato i paesi vicini (Cambogia, Vietnam), ma ha represso qualsiasi opposizione politica, in particolare la Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy), riunita attorno ad Aung San Suu Kyi, 62 anni, premio Nobel per la pace nel 1991, che ha trascorso in carcere o agli arresti domiciliari 14 degli ultimi 19 anni.
Sulla prima pagina de The New Light of Myanmar (La nuova luce del Myanmar) le foto sono sempre e soltanto quelle dei generali: un incontro, una inaugurazione, un successo economico della giunta militare. Ma le foto dei generali si incontrano anche in altri luoghi, ben più importanti di uno spazio sul quotidiano governativo. Sono nelle pagode, in teche di vetro, non lontane dalle statue del Budda: il generale Than Shwe che fa un’offerta, che si genuflette, che è in raccoglimento, che è in posa accanto ad un monaco. Un segno di rispetto per la religione buddista? Oppure un modo per ingraziarsi i monaci e di conseguenza la popolazione che verso di loro ha grande rispetto e devozione? Certamente la seconda motivazione prevale sulla prima.
I rapporti tra la giunta e la sangha, la comunità buddista, sono sempre stati appesi ad un filo, come la storia testimonia. Sul finire degli anni Ottanta, ad esempio, ci fu una forte contrapposizione perché i monaci appoggiavano le manifestazioni studentesche. Nel 1990, a Mandalay e poi nel resto del paese, i religiosi buddisti attuarono un temibile boicottaggio: non accettavano le offerte dalle famiglie dei soldati e non officiavano i loro matrimoni e funerali. Un’umiliazione inaccettabile per i militari, che infatti risposero con durezza. Centinaia di monasteri vennero occupati e molti religiosi incarcerati.

La «signora Bianca»,
un nome da tacere

Nella hall dell’albergo, da una poltrona all’altra, commentiamo ad alta voce alcuni articoli pubblicati da The New Light of Myanmar, il quotidiano governativo ha anche una versione in lingua inglese. Ad un certo punto, nella foga della discussione, uno di noi cita Aung San Suu Kyi. All’udire quel nome i due inservienti dell’hotel, che lì accanto stanno sistemando le piante, si girano di scatto e, per pochi secondi, guardano chi ha osato pronunciare quel nome ad alta voce. Noi, capita la situazione, ci scusiamo, cercando subito di stemprare la gaffe in una risata che però non riesce a nascondere l’imbarazzo. 
Siamo più discreti quando dobbiamo chiedere come andare al luogo in cui si esibiscono i Moustache Brothers, un gruppo di artisti popolari caduto in disgrazia. I taxisti ufficiali preferiscono evitare di avvicinarsi al luogo delle loro esibizioni, ma a questo si può rimediare.

A casa dei «Fratelli baffoni»,
artisti coraggiosi

La strada è buia, perché l’illuminazione pubblica è quasi inesistente. Ma il nostro improvvisato taxista sa dove fermarsi. Le insegne sono quelle di un negozio. Sì, siamo arrivati: ecco il teatro dei Moustache Brothers, i «Fratelli baffoni». In realtà, non è un vero e proprio teatro, ma una sorta di garage adibito a teatro. Non sarà un teatro, ma certamente è un luogo che colpisce appena si entra. Una struttura in legno, che si alza qualche centimetro sopra il pavimento, funge da palco. Attoo ad esso una ventina di sedie di plastica, a disposizione del pubblico. La parete dietro il palco è piena di splendide marionette di legno e di cartelli con frasi o singole parole – in inglese, francese, tedesco, italiano -, che fanno riferimento ai servizi segreti, al potere ed ai suoi «vizi»: Cia, Mossad, Guardia Civil, Most wanted, Moustache Brothers are under surveillance, e via dicendo. Un’altra parete è zeppa di manifesti, articoli di giornale, fotografie. La più grande ritrae Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, che – come recita la didascalia – nel giugno 2002 visitò i Moustache Brothers. E nella foto accanto la stessa è immortalata con i tre artisti.  Mentre osserviamo le immagini, si avvicina per salutarci un uomo mingherlino, con baffoni bianchi, una maglietta gialla con la foto del gruppo, il tipico longyi (1) e le ciabatte infradito, che in Myanmar indossano tutti. Sprizza energia ed entusiasmo. Si chiama Lu Maw ed è uno dei tre «fratelli».
Il 4 gennaio 1996, giorno dell’anniversario dell’indipendenza birmana, i fratelli fecero uno spettacolo nel giardino di Aung San Suu Kyi, come ricorda lei stessa in un suo libro (Letters from Burma, 1995). Presero in giro anche la giunta e i suoi generali. Che non risero affatto. Due dei fratelli – Par Par Lay (2) e Lu Zaw – vennero arrestati e condannati a sette anni di lavori forzati. Uscirono nel 2002, con la proibizione di fare spettacoli in luoghi pubblici. Oggi i Moustache Brothers si esibiscono nella loro casa di Mandalay al cospetto di piccoli gruppi di stranieri.
L’esibizione inizia con Lu Maw che, inginocchiato sulla vecchia moquette del palco, parla a raffica (in inglese) dentro un vecchio microfono. Lo spettacolo, tipicamente birmano, è un insieme di danza, teatro, musica e satira, chiamato a-nyeint. Ad assistere alla rappresentazione ci sono una ventina di persone, tutte straniere.  Non tutto è comprensibile per degli occidentali, ma il loro racconto servirà per far conoscere l’attività di questa compagnia di artisti coraggiosi.

Dal teck al gas,
le grandi ricchezze del paese

Verso l’altopiano dello Shan.  Da Bagan per arrivare a Kalaw, cittadina di villeggiatura già ai tempi della dominazione inglese, si percorre una strada sconnessa e piena di buche. Il nostro autobus non incrocia auto, ma decine di grossi camion, carichi all’inverosimile di enormi tronchi. Sono tronchi di teck,  un albero dal legno pregiatissimo per la sua durezza, impermeabilità e bellezza.
La guida ci spiega che tutto il legno viene esportato verso la Cina, sempre più ingorda di materie prime. Se si proseguirà con questa velocità di disboscamento, le foreste pluviali del paese rischiano di estinguersi nel giro di pochi anni.
Ma non ci sono soltanto le foreste. il sottosuolo del paese è ricco di ogni genere di minerali. Negli ultimi anni si è poi scoperto che i giacimenti di gas della zona sud-occidentale  del Myanmar, nello stato Rakhin (Arakan), sono tra i più cospicui dell’area. Già rifoiscono la vicina India, la Cina e la Thailandia. Mentre sono in fase di progettazione oleodotti verso lo Yunnan cinese e verso l’India.
La giunta militare ha potuto rimanere al potere dal lontano 1962, perché ha saputo trovare importanti partners commerciali, Cina, Thailandia ed India sopra tutti, come abbiamo visto. In questo modo, ben difficilmente questi paesi sceglieranno di schierarsi contro i generali al potere.
È certo che la giunta militare e le lobby ad essa legate si sono arricchite enormemente alle spalle delle popolazioni birmane. Rispetto alle altre accuse non c’è invece certezza assoluta. Negli anni passati il regime è stato accusato di usare lavoro forzato (donne, bambini, anziani) nella costruzione di strade, oleodotti ed altre opere pubbliche. La giunta sostiene di aver abolito il lavoro forzato nel 1999, ma esistono segnalazioni di diverso avviso. Sarebbe coinvolta anche la Total, la multinazionale francese dell’energia, che da anni ha investito nello sfruttamento del giacimento gassifero di Yadana.
Altra accusa pesante nei confronti dei generali riguarda il loro coinvolgimento nel narcotraffico. Il Triangolo d’oro, territorio montagnoso dove si coltiva il papavero da oppio, rientra in buona parte nello stato birmano di Shan (dell’etnia shan, ma anche di quella wa, la più indiziata per il narcotraffico). Tuttavia, la giunta si vanta di aver risolto il problema, arrestando nel 1996 Khun Sa, conosciuto come il «re dell’oppio», che da allora si è ritirato a vita privata. Invero, la produzione continua. Secondo le Nazioni Unite (3), per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%).

Il volere del popolo
(secondo la giunta)

Yangon, settembre 2007.  Atterriamo a Yangon (Rangoon), la ex capitale del paese, verso sera. Sulla strada che conduce dall’aeroporto all’hotel, passiamo l’incrocio che porta ad University Avenue, dove al numero 54 vive – reclusa e guardata a vista – Aung San Suu Kyi.
In hotel girano voci di nuove proteste avvenute il 5  e il 6 settembre a Pakokku, cittadina non lontana da Bagan. Prendiamo il quotidiano della giunta per vedere se e come ha trattato l’argomento. The New Light of Myanmar ne parla. A suo modo, ovviamente. Dice che le stazioni televisive straniere hanno esagerato le notizie sulle proteste e che alle dimostrazioni hanno partecipato soltanto una o due persone ed una cinquantina di monaci. Dice che i monaci sono stati incitati da esponenti locali della Nld (Lega nazionale per la democrazia). Dice che la gente ha compreso l’atteggiamento del governo ed apprezzato la sua magnanimità nei confronti dei religiosi. 
Yangon sembra tranquilla. La gente affolla la grande pagoda di Shwedagon, i mercati, i marciapiedi del centro. E, nonostante tutto, non dimentica mai di mostrare il proprio sorriso.
È ormai tempo di ripartire. Mentre andiamo verso l’aeroporto, ad un incrocio ci imbattiamo in un gigantesco cartellone rosso che, in lingua inglese, pubblicizza il people’s desire, il volere del popolo. Secondo la giunta militare, i quattro desideri della gente birmana sarebbero i seguenti:  «opporsi a quanti prestano ascolto ad elementi estranei, fantocci che sobillano il popolo diffondendo opinioni disfattiste: opporsi a quanti tentano di compromettere la stabilità dello stato e il progresso della nazione; opporsi alle nazioni straniere che interferiscono negli affari interni dello stato; annientare ogni elemento nocivo, interno ed esterno, in quanto nostro comune nemico».
No, i popoli del Myanmar non meritano di vivere sotto un simile regime.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola