Tetto del mondo … occupato

Introduzione al Dossier

La rivolta anticinese del marzo 2008 e relativa repressione hanno riportato alla ribalta il dramma del Tibet, dal 1949 occupato dalla Cina e oggetto di una colonizzazione genocida.
In quasi 60 anni si stima che circa 1,2 milioni di tibetani siano morti in conseguenza dell’occupazione cinese; il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano è stato distrutto; il trasferimento massiccio e ininterrotto di coloni cinesi (7 milioni) ha ridotto i tibetani a una minoranza nel proprio paese (6,5 milioni); la sistematica politica di discriminazione delle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, scolastico, religioso, lavorativo; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi…
E la tragedia continua: migliaia di tibetani sono in carcere per reati di opinione; lingua, religione, storia, cultura sono negate; le donne sono sottoposte al controllo delle nascite mediante sterilizzazioni forzate e aborti; il fragile ecosistema del Paese delle Nevi è compromesso da sfruttamento delle risorse, deforestazione, stoccaggio di materiale radioattivo…

Negli ultimi 50 anni la questione tibetana ha attratto su di sé un reale interesse che, pur se a fasi altee, continua fino ai nostri giorni. Numerose risoluzioni dalle Nazioni Unite (1959, 1961 e 1965), del Congresso Usa, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato il governo cinese per le violazioni dei diritti umani e delle libertà democratiche, ma senza concreti risultati.
Le Olimpiadi di Pechino riportano il problema del Tibet e di altre minoranze etniche cinesi sotto i riflettori inteazionali. Alcuni capi di stato hanno deciso di boicottare l’apertura dei giochi olimpici… Basterà tale protesta per piegare il colosso cinese a intavolare un dialogo serio e costruttivo per risolvere il problema? I dubbi sono molti, ma non bisogna perdere la speranza.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Dacci oggi il nostro barile quotidiano

La maledizione dell’«oro nero»

Sul pianeta Terra stiamo consumando più petrolio di quanto riusciamo a produe. E la tendenza è in forte aumento, perché Cina e India crescono rapidamente. Tutti gli stati cercano di garantirsi «riserve strategiche» per il futuro. L’Africa è l’ultima frontiera. Le sue potenzialità su nuovi giacimenti sono ancora elevate. Ma perché l’oro nero ha portato solo corruzione, guerre civili, povertà? E mai migliori condizioni di vita dei popoli africani? Se si riuscisse a bloccare la fuga delle rendite petrolifere non occorrerebbe più l’aiuto allo sviluppo. E l’Africa ci guarderebbe da eguali.

«L’Africa è all’alba di un nuovo boom petrolifero: il golfo di Guinea è diventato il nuovo terreno di gioco delle compagnie del petrolio. Queste prevedono di investirci tra i 30 e i 40 miliardi di dollari in dieci anni». Così il giornalista francese Xavier Harel, esperto di questioni africane e di petrolio, descrive il processo in corso nel suo libro – inchiesta Afrique, pillage à huis clos (Africa, saccheggio a porte chiuse). Processo  in forte accelerazione a causa della vertiginosa crescita dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.
Il continente detiene tra l’8 e il 10% delle riserve mondiali del prezioso olio, contando tra 80 e 100 miliardi di barili di riserve già verificate. Dati confermati  dalle statistiche della British Petroleum (gigante inglese dell’energia), che segnala 117 miliardi di barili.
La zona più ricca è il Golfo di Guinea, dove  Nigeria, Angola, Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville, Gabon e Camerun (nell’ordine) sono i maggiori produttori del continente. Ad eccezione del Sudan, grande produttore in Africa dell’Est (vedi box).

Sempre più in basso

Con la «paura» energetica, il prezzo del greggio è passato dai 70 dollari al barile del 2007 ai 135 di metà 2008 (vedi box). È diventato redditizio fare investimenti per perlustrazioni petrolifere là dove un tempo non lo era, o ancora, sfruttare il petrolio «non convenzionale», carissimo da estrarre.
Anche il miglioramento delle tecnologie ha permesso la ricerca su fondali marini fino (e oltre) i 3.000 metri di profondità. Si è passati dall’offshore (dall’inglese «costiero»), definito fino a 500 metri di profondità, all’«offshore profondo» (500 – 1.500 metri). Mentre ora si va verso l’«offshore ultra profondo» (1.500 – 3.000 metri).  Allo stesso modo si sta cercando petrolio in profondità anche nel deserto in Mali, Niger (dove un giacimento è stato trovato) e in Kenya, paesi che non ne hanno mai prodotto. In effetti, rispetto a quanto succede in altre zone del mondo, le mappe petrolifere dell’Africa si stanno ancora disegnando e c’è molto spazio per la scoperta di nuovi giacimenti. Quindi grandi e piccole compagnie (le cosiddette majors), sono tutte a caccia di permessi di «prospezione», anche in paesi ancora vergini.
Per questo motivo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e infine anche la Cina, considerano oggi «strategico» il continente africano, che fino a 5-10 anni fa era trascurato. Interessa in particolare il Golfo di Guinea, dove vi moltiplicano gli investimenti.
Gli Usa consumano, ogni giorno, un quarto della produzione mondiale di greggio, oggi stimata a 87 milioni di barili quotidiani. Dai 19,5 milioni di barili inghiottiti ogni giorno passeranno a 25,5 milioni nel 2020. Allo stesso tempo la produzione nazionale scenderà da 8,5 a 7 milioni di barili. Già a partire dalla prima amministrazione Bush (2001) il petrolio diventa una priorità strategica per gli Usa, essendo sinonimo di indipendenza energetica.
La Cina ha un’economia in crescita di quasi il 10% annuo. Dal 2005 è il secondo consumatore mondiale di petrolio e il suo bisogno arriverà al 20% di quello prodotto sul pianeta nel 2010. Con la sua popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il cui tenore di vita è in aumento, ha sempre più bisogno di energia. La sicurezza di riserve di petrolio a medio e lungo termine è dunque fondamentale. Obbligatorio buttarsi a capofitto nella ricerca di nuovi giacimenti e nello sfruttamento di quelli conosciuti nel continente, trascurato dal punto energetico fino a pochi anni fa.
Uno dei problemi dell’Africa sub sahariana è che non possiede le tecnologie e le possibilità di investimenti necessari per sfruttare i propri giacimenti di petrolio. Questo impone agli stati africani l’avvalersi di compagnie europee e statunitensi (e ultimamente cinesi). Fin qui nulla di così grave. Il problema è che grazie a personaggi senza scrupoli di varia nazionalità, dirigenti della majors, banchieri, intermediari, politici occidentali, venditori di armi e, non ultimi, i capi di stato africani, scatta il meccanismo del saccheggio o «evaporazione» dei soldi «pubblici» del petrolio africano. Saccheggio che assume dimensioni impensabili.

Quanto pesa sulle economie africane

I giacimenti africani sono (o potrebbero essere) generatori di un’enorme ricchezza per i rispettivi paesi. Le cifre in gioco fanno impallidire quelle dell’aiuto versate ogni anno dai paesi occidentali allo scopo di «sviluppare» l’Africa. Una stima dell’Unione africana parla di 148 miliardi di dollari che annualmente «lasciano» illegalmente l’Africa, per essere depositati su banche europee o nei paradisi fiscali. Illegalmente, perché si tratta di fondi pubblici, che dovrebbero essere acquisiti dal Tesoro.
Questa cifra approssimata per difetto va confrontata con 25 miliardi di dollari ricevuti ogni anno come aiuti dai paesi africani. Le élite di questi paesi avrebbero su conti privati esteri tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari di denaro pubblico. Conti spesso protetti e alimentati in modo non «tracciabile». Xavier Harel sostiene che: «La fuga di capitali è uno dei principali ostacoli al decollo dell’Africa».
In Nigeria le entrate dell’oro nero costituiscono il 98% di tutte le ricette in valuta e in Angola il 90%.
Facendo le proiezioni sulle produzioni dei giacimenti già sfruttati (escludendo quindi le future scoperte) di sette paesi dell’Africa dell’Ovest (Nigeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Ciad e Camerun), il Pfc Energy, ufficio studi statunitense, ha valutato le somme generate dal petrolio tra il 2002 e il 2019 intorno ai 183 miliardi di dollari, che vanno dai 110 miliardi per la Nigeria ai 2 miliardi per il Ciad. Piccola precisazione: i conti sono fatti con un costo del barile a 22,50 dollari!

Povertà, guerre civili e instabilità politica

Ma cosa portano, nella realtà, le rendite petrolifere in Africa? A sud del Sahara il petrolio sembra fare rima con povertà, corruzione, instabilità politica e guerre civili.
Con una certa sorpresa scopriamo che i paesi africani produttori di petrolio sono agli ultimi posti della classifica rispetto all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Nigeria e Angola, i maggiori produttori del continente, figurano addirittura tra gli ultimi della classe, nella zona definita a «basso sviluppo umano» (158.ma la prima e 162.ma la seconda). La Guinea Equatoriale occupa il 127° posto (grazie al basso peso demografico), il Congo il 139°, mentre il Camerun è 144° e il Sudan 147°, fino al Ciad al 170° posto su 177 paesi classificati. Nessuno si salva.
Un altro aspetto devastante è che questi paesi hanno tutti un enorme debito estero. Questo è dovuto al fatto che i vari capi di stato hanno chiesto sempre maggiori prestiti alle istituzioni inteazionali, garantendo con le riserve petrolifere dei loro paesi.
Non lascia ombra di dubbio il rapporto d’informazione della commissione Affari esteri del parlamento francese su «Il ruolo delle compagnie petrolifere nella politica internazionale e il suo impatto sociale e ambientale», citato da Harel nel suo libro. «In Africa, la manna petrolifera non ha aiutato lo sviluppo, i capi di stato l’hanno utilizzata per comprare armi in Angola e in Congo – Brazzaville, in Gabon, in Camerun, in Nigeria. Non si riesce a scoprire dove sia andata la rendita dovuta al petrolio, perché il debito aumenta, le popolazioni sono impoverite e le infrastrutture sono in uno stato deplorevole. Mantenere al potere delle dittature, corruzione, violenza larvata, attentati ai diritti umani e all’ambiente; questo è il bilancio, poco glorioso, dello sfruttamento petrolifero in tutta l’Africa».
L’Angola che – dicono gli esperti – avrebbe superato la Nigeria come produzione nel mese di aprile, è uno dei paesi più corrotti del mondo (secondo la classifica annuale dell’Ong Trasparency Inteational occupa il 147mo posto su 179), ha le infrastrutture ai minimi termini e le condizioni di vita dei suoi abitanti sono a livelli bassissimi (speranza di vita a 42 anni, mortalità infantile entro i 5 anni di 260 su 1.000 nati vivi, tre bambini su dieci sotto i 5 anni malnutriti, ecc.). Ma sempre l’Angola mostra negli ultimi anni una crescita economica record: 18,6% nel 2006, con proiezioni della Banca mondiale al 25%!
Racconta Harel a MC: «È un paese che ha il reddito petrolifero che è completamente esploso. Era a 1 milione di barili tre anni fa. In Angola c’è un boom economico non indifferente. Non che i soldi siano ben gestiti. Ce ne sono tantissimi, che potrebbe essere come un paese del Golfo (Persico, ndr), invece non esistono ricadute sulla popolazione. È un Brasile in peggio. Una piccola élite immensamente ricca e gli altri nelle bidonville a perdita d’occhio».
Senza contare che con i soldi del petrolio José Eduardo dos Santos e Jonas Savimbi, i due rivali della guerra civile, hanno pagato armi per tre decenni.
Molte altre sono le guerre civili alimentate dai soldi del petrolio: in Repubblica del Congo, Sudan, Ciad. E ancora l’instabilità politica generata in Nigeria, Guinea Equatoriale.

Corruzione? Sì grazie

«Le compagnie hanno bisogno di rinnovare le loro riserve, ovvero scoprire nuovi giacimenti e metterli in produzione. Per questo devono lavorare in un certo numero di stati, e ottenere i permessi. Normalmente ci sono delle aste, ma bisogna dire che spesso non funziona così, e che se si vuole essere “ben piazzati” occorre “accordarsi” con il regime del paese». Ci ricorda Xavier Harel. Da qui mazzette colossali, fondi occulti versati su conti svizzeri o nei paradisi fiscali, con triangolazioni tali da far perdere ogni traccia.
Ma non basta. La fuga di capitale pubblico si realizza anche dotandosi di compagnie di intermediazione. In Congo ad esempio Denis Gokana, un alto dirigente della Snpc (Società nazionale del petrolio del Congo, impresa di stato per la commercializzazione del petrolio), vendendo a prezzi ribassati a una società d’intermediazione (di cui è il principale azionista), la quale poi rivende il greggio a prezzi di mercato, riesce a incassare una commissione di 3,3 milioni di dollari per carico. Il meccanismo è stato ripetuto almeno per 45 carichi. E tutto con la benedizione del presidente Denis Sassou Nguessu, che di Gokana è padrino e creatore.
Senza contare i famosi «carichi fantasma» intere navi cisterna che lasciano il porto di Pointe Noire, sfuggendo a ogni contabilità ufficiale, per essere spartiti tra pochi eletti.

Di sangue e di petrolio

Un altro caso scuola sono i soldi rubati allo stato nigeriano dal dittatore Sani Abacha. Alla sua morte nel 1998 il nuovo governo indaga e tenta di recuperare il denaro pubblico. Il sanguinario Abacha ritirava i soldi in contanti dalla banca centrale della Nigeria, per poi versarli su altri conti nazionali o in società offshore (società basate nei paradisi fiscali, dove per legge, non è possibile risalire ai nomi degli azionisti).
In seguito i soldi transitavano verso conti in Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Bahamas a nome di sua moglie, suo figlio o un suo consigliere della sicurezza. La stima è di 3 – 4 miliardi di dollari rubati tra il 1993 e il ’98 di cui 2,2 sono stati rintracciati e in parte restituiti allo stato nigeriano.  L’aspetto buffo è che i soldi recuperati non risultano generati da rendite petrolifere, per un paese dove il petrolio rappresenta il 98% delle esportazioni. «Il sistema messo in piedi dalle compagnie petrolifere è talmente ben rodato, che è diventato impossibile tracciare le mance o altre commissioni accordate dalle compagnie ai regimi indelicati» dichiara Enrico Monfrini, avvocato svizzero incaricato dalla Nigeria di recuperare il soldi presi da Abacha. E la Cina? «È il principio dello scambio: i cinesi costruiscono strade, dighe, aeroporti, contro concessioni di esplorazione e sfruttamento petrolifero – ricorda Xavier Harel -. Non sono più trasparenti che europei e nordamericani, usano le stesse pratiche.  Ancora più opache, perché quando si fa del baratto si possono ancora di più falsare i prezzi, valorizzando i barili di petrolio come si vuole. Costruisco una diga per 1 milione di barili. Se li valorizzano a 50 dollari al barile, poi ne versano 10 su un conto in Svizzera, nessuno riuscirà a verificarlo. Le manipolazioni sono ancora peggiori, perché le possibilità di controllo sono più deboli». 
I cinesi sono affamati di riserve energetiche e per questo pagano molto di più delle grandi compagnie come ExxonMobil e Total (MC, dicembre 2007).  E questa concorrenza favorisce i capi di stato e facilita la corruzione.

Deboli segnali di cambiamento

In Ciad la Banca mondiale (Bm) ha cercato di fare un esperimento interessante. Scoperto il petrolio occorreva costruire le infrastrutture e anche un oleodotto di 1.070 km che attraversasse tutto il Camerun fino al Golfo di Guinea. La Bm è stata chiamata in causa dalle compagnie petrolifere come garante (e finanziatore). Ha imposto al Ciad che l’85% dei redditi da petrolio fossero destinati a cinque settori prioritari per il paese: salute, educazione, sviluppo rurale, infrastrutture, acqua; il 5% fosse investito nella regione di estrazione (Doba, nel sud del paese) e il 10% depositato su un conto «per le generazioni future».  Un collegio di sorveglianza è incaricato di verificare la buona gestione di queste risorse. Ma la crisi intea (vedi MC aprile 2008) e i difficili rapporti con il Sudan, hanno spinto il presidente Idriss Deby a dirottare parte delle rendite petrolifere nell’acquisto di armi, allo scopo di «garantire la sicurezza dello stato». Non tutto è perduto, occorre tenere il meccanismo sotto controllo.
Un altro tentativo per ridurre il saccheggio è stata l’«Iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva» (Eiti), un’idea lanciata da Tony Blair al G8 di Johannesburg nel 2002. Vorrebbe rendere trasparenti i pagamenti delle compagnie petrolifere ai paesi in cui esse estraggono, con l’obiettivo finale di ridurre il livello di corruzione. Molti stati vi antepongono la questione di «confidenzialità» sugli affari.
Il meccanismo consiste nell’avere un auditor indipendente che certifica tutti i versamenti delle compagnie al governo del paese di estrazione. Questi dati sarebbero pubblicati e confrontandoli con il bilancio dello stato, un qualunque cittadino potrebbe facilmente identificare i casi di appropriamento illecito.
Nel 2003 sette paesi aderirono all’Eiti, ma nessuno ha ancora pubblicato i dati.  Xavier Harel la definisce: «Una falsa buona idea che permette al G8 di affermare che si occupa del problema, mantenendo però lo status quo». «Non credo molto nell’iniziativa Eiti – ci racconta il giornalista –  perché funziona su base volontaria. In cinque anni non ha permesso di produrre statistiche affidabili sulle rendite petrolifere dei paesi produttori. Con l’eccezione dell’Azerbaigian».
I paesi aderiscono all’iniziativa, ma poi non pubblicano i dati, non c’è un avanzamento. A maggior ragione con l’impennata dei prezzi del barile, e quindi dei possibili guadagni, anche illeciti, nei prossimi anni.

Spunta la società civile

«L’importante è che c’è una pressione sempre maggiore della società civile, che inizia a portare qualche frutto». Xavier Harel si riferisce alla campagna internazionale «Pagate quello che pubblicate» lanciata da un centinaio di Ong, prima fra tutte la britannica Global Witness.
La campagna punta a obbligare le compagnie estrattive basate in Europa e Stati Uniti (petrolio e minerali) a pubblicare quanto versano agli stati produttori. Global Witness ha pubblicato interessanti e approfonditi rapporti sui legami tra petrolio, corruzione, povertà e conflitti in diversi paesi africani. 
Una piccola modifica giuridica nei paesi di origine delle majors, porterebbe enormi benefici alle popolazioni dei paesi esportatori. «C’è una recente proposta di legge al congresso americano (il parlamento Usa, ndr) che vorrebbe costringere tutte le compagnie estrattive, comprese quelle del petrolio, a rendere pubblici i dati sui soldi versati a paesi esteri superiori a 100.000 dollari. È il primo vero risultato del lobbing della società civile. Un primo passo enorme se si realizzasse».
Diventando legge negli Usa, le compagnie americane, per non essere svantaggiate rispetto alle colleghe europee, farebbero in modo che fosse integrata come convenzione all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).  È quanto è successo per la legge anticorruzione. In questo modo diventerebbe valida per tutte le compagnie occidentali.
Non è una proposta del governo ma del congresso. Il senatore che l’ha presentata dice che ci vorranno magari anni per farla passare.
«È comunque un fatto che la gente inizia a prendere coscienza del problema dell’opacità di queste transazioni e di tutte le conseguenze. La pressione della società civile e dei media fa poco a poco andare avanti le cose».
Secondo Joseph Stiglitz, economista premio Nobel, già alto funzionario della Banca mondiale: «I paesi industrializzati possono aiutare a garantire la trasparenza con una semplice misura: autorizzare le deduzioni fiscali solo per le royalities e gli altri pagamenti ai governi stranieri se la compagnia rivela totalmente quello che ha pagato e il volume delle risorse naturali estratte».
Stiglitz scrive nel suo ultimo libro La Globalizzazione che funziona: «Quello di cui questi paesi (ricchi in materie prime, ndr) hanno bisogno, non è un sostegno finanziario esterno maggiore, ma essere aiutati per ottenere il massimo valore dalle loro risorse e per spendere bene i soldi ricevuti».
Se il reddito delle materie prime che l’Africa esporta, delle quali il petrolio è in assoluto quella che rende di più, andasse sui conti degli stati e non su quelli senza nome nei paradisi fiscali, se questo denaro fosse reinvestito per sviluppare l’economia dei paesi produttori, migliorae le infrastrutture, la salute, l’educazione, i paesi africani avrebbero abbastanza risorse senza dover chiedere aiuti pubblici ai paesi industrializzati, che sono gli stessi a fare man bassa delle loro risorse naturali. 

Di Marco Bello


L’impennata del prezzo del petrolio

CARO BARILE, MA QUANTO MI COSTI

In pochi mesi il prezzo del barile di petrolio (unità di misura pari a 159 litri) è schizzato da 70 dollari a 135 (nel momento in cui scriviamo). E ce ne accorgiamo subito quando andiamo a fare il pieno di carburante. Ma l’aumento incide su tutti i trasporti e quindi sui generi trasportati. Il prezzo del barile trascina quindi con sé il costo di tutto quello che consumiamo nel quotidiano.
Ma si tratta del prezzo reale del greggio? Quali sono i meccanismi che hanno portato a questa crescita improvvisa? Ce lo spiega Xavier Harel, giornalista esperto in questioni petrolifere e africane.

«L’aumento del costo del petrolio è il risultato di una domanda che cresce molto rapidamente da parte dei paesi emergenti, soprattutto Cina e India, ma anche Medio Oriente e paesi del Golfo. Crescita combinata con una produzione che ha difficoltà a seguire. Questo crea una forte tensione tra la domanda e l’offerta su tutta la filiera petrolifera.
Ci sono 1,4 miliardi di cinesi con 16 automobili ogni 1.000 abitanti (quando negli Usa si parla di 812 e in Italia di 588). Ma il loro livello di vita è in aumento, si compreranno la macchina e inizieranno a consumare carburante. Quando si parla del 20% della popolazione mondiale, l’impatto sul consumo di petrolio è considerevole.
Alla fine degli anni ‘90 i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) avevano una capacità di produzione non utilizzata dell’ordine di 10-12 milioni di barili al giorno. Questo vuol dire avere impianti pronti e funzionanti che aprendo un po’ di più il rubinetto potevano aggiungere sul mercato queste quantità. Oggi se gli stessi paesi decidono di aprire si aggiungono solo 2-3 milioni di barili al giorno. Si dice che il mercato è in “fuga”.

Secondo problema: le grandi compagnie petrolifere private producono solo il 15% del greggio e i paesi produttori non hanno necessariamente voglia di investire nella produzione.
Recentemente c’è stata una dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdoullah il quale non vuole mettere in produzione nuovi giacimenti, perché li vuole conservare per le generazioni future.
La domanda mondiale è di circa 87 milioni di barili al giorno, e l’Arabia (che ha le più grandi riserve del mondo) ne produce 11 milioni e non vuole mettee di supplementari. Subito dopo viene la Russia, con quasi 9 milioni, ma la sua produzione sta diminuendo. Poi il Messico che è un grande esportatore, ma la sua produzione diminuisce molto rapidamente. In Venezuela la produzione stagna.
Per i più grossi produttori, i grandi giacimenti stanno andando verso l’esaurimento e la diminuzione di produzione è rapida. Questo crea un’inquietudine sul mercato, per i prossimi 2, 3, 5 anni.

Questione di riserve? Non è solo una questione di riserve, ma anche di estrazione. Si sta cercando del petrolio “non convenzionale”, come le sabbie bituminose (Canada) e petrolio extra pesante (Venezuela). L’estrazione è estremamente cara, ma oggi è diventata redditizia.
Se si considerano le riserve del petrolio extra pesante il maggior produttore al mondo diventa il Venezuela.
I giacimenti sono colossali. Ma la questione è metterli in produzione. E i paesi ricchi di petrolio non convenzionale decidono di gestire loro le proprie ricchezze. Ad esempio il Venezuela non investe massicciamente nell’estrazione ma preferisce tenere il petrolio per il futuro.

C’è anche della speculazione che è la punta dell’iceberg. Il petrolio viene venduto in anticipo. Gli industriali acquistano i diritti di avere petrolio a 5 anni (ma anche a tre mesi). Il padrone di una raffineria ha bisogno di essere sicuro che gli consegneranno petrolio in modo continuo, per poter produrre la benzina. Quindi acquista sul mercato un diritto che garantisce che in un mese gli daranno del petrolio a 130 dollari. Ma può anche acquistare un diritto a 5 anni. Oggi si sta vendendo il petrolio del 2016. In questo caso c’è speculazione nel senso che esistono fondi di investimento che fanno delle scom­messe, ma alla fine si arriva a un contratto d’acquisto di petrolio fisico.
La speculazione può funzionare un momento, può amplificare il prezzo. Ma se il petrolio è così caro oggi è perché c’è un vero problema».

(a cura di Marco Bello)

PAESI (SUB SAHARIANI) PRODUTTORI

Quattordici paesi produttori di cui 10 esportatori. Ecco i principali.

Nigeria – Capacità di produzione media 2,5-2,6 milioni di barili al giorno nel 2005, primo produttore africano sesto esportatore mondiale. È  sceso a 1,8 milioni di barili al giorno nel 2006 a causa delle violenze nel delta (vedi MC febbraio 2007). Il 98% delle sue entrate sono dovute al petrolio. Più della metà è prodotto da Shell. Il petrolio del delta del fiume Niger è di ottima
qualità.

Angola – Produzione media circa 2 milioni di barili al giorno. La metà è estratto dalla Cina. Sta vivendo un vero boom economico con crescite del Pil intorno al 20%. Ma i soldi vanno in infrastrutture e nelle tasche di pochissimi. La gente è sempre più povera.

Guinea Equatoriale – Produzione si avvicina ai 400.000 barili al giorno, in forte crescita negli ultimi anni. Sfruttamento totale da parte di compagnie statunitensi, ma ora stanno entrando i cinesi. La famiglia del presidente Teodoro Obiang Nguema gestisce tutta la ricchezza del petrolio.

Sudan – Verso i 500.000 barili al giorno. Primo fornitore della Cina.

Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) – 260.000 barili al giorno. Nuovi giacimenti di petrolio «non convenzionale» del tipo sabbie bituminose scoperti da Eni (2008) che ne ottiene la concessione.

Gabon – Produzione di circa 250.000 barili al giorno. La produzione in decrescita per esaurimento riserve. Primo paese sfruttato in Africa dalla fine degli anni ’50.

Camerun – Produzione di circa 63.000 barili, in stallo e verso la diminuzione.

Costa d’Avorio – Produzione di 50.000 barili al giorno va verso i 100.000 e le rendite del petrolio hanno già superato quelle di cacao e caffè. Sfruttata da compagnie statunitensi, nell’assenza di trasparenza totale.

Ciad – Produzione di 160.000 barili al giorno.

Mauritania – Giacimenti in via di sfruttamento.

Sao Tomé e principe – Scoperti giacimenti, subito sopo il colpo di stato (2003). Non ancora sfruttati.

Senegal – Riserve provate.

Niger – Giacimento trovato nel 2005.

Uganda – Giacimento trovato.

Praticamente in tutti i paesi africani si stanno facendo ricerche di greggio.

Qualche dato su cui riflettere

Consumi

Domanda mondiale
di petrolio
87 milioni
di barili al giorno

Consumo medio
giornaliero Usa
(il più alto del mondo)
 20 milioni
di barili, in crescita

Consumo medio
giornaliero Cina 
circa 17 milioni,
è in forte crescita

Produttori

Arabia Saudita è il primo produttore mondiale
(petrolio convenzionale)
11 milioni
di barili pompati ogni giorno

La Russia è il secondo con
9 milioni
di barili

L’Africa produce oggi circa
9,9 milioni
di barili al giorno
 (di cui 4,7 in Africa Occidentale,
Elevabile a 6 milioni
al giorno con
investimenti adeguati)

Le riserve provate dell’Africa sono
da 80 a 100 miliardi
di barili
(10% delle riserve
mondiali),
ma molto resta da scoprire

Marco Bello




Quelle donne dell’8 maggio

Buenos Aires / Visita ad un quartiere in cerca di riscatto

L’8 de Mayo è un barrio costruito su un’enorme discarica alla periferia di Buenos Aires. La gente vive sui rifiuti e spesso vive dei rifiuti. Ma i residenti hanno saputo organizzarsi, costituendo una comunità combattiva ed orgogliosa. Anima, mente e braccia del «Progetto comunitario 8 di Maggio» sono donne. Come Lorena, Nora, Monica, Andrea … Tante mujeres per una grande lezione di dignità. Ecco i loro racconti.

Al Centro comunitario del barrio «8 de Mayo» è arrivato l’Hospital móvil del comune. L’ospedale mobile è un camion attrezzato con due ambulatori medici. Un vero lusso, che risalta ancora di più quando, sulla strada sterrata e fangosa, passa un carretto trainato da un cavallo.
«Buenos dias». «Hola!». In attesa di salire la scaletta che porta all’ambulatorio ci sono soprattutto mamme,  alcune con il pancione, altre con i bambini accanto. Per i piccoli il camion è una vera e propria attrazione: tenerli fermi un attimo per la visita medica, è un’impresa.
Con l’ospedale mobile si cercano di affrontare le necessità sanitarie di base della popolazione dei quartieri più poveri. L’8 di Maggio è uno di questi. Anzi, è un barrio che, oltre ai problemi consueti degli insediamenti cosiddetti informali (mancanza di acqua corrente, fognature, elettricità, strade), ne ha un altro, molto pesante: è cresciuto infatti su una discarica e quasi non bastasse, oltre a questa tara genetica, sorge nelle vicinanze del Ceamse, una megadiscarica pubblica (riquadro a pagina 58). In siffatte condizioni, è chiaro che per i suoi abitanti i problemi di ordine sanitario sono numerosi e svariati.
Mentre sull’ospedale mobile le visite proseguono spedite, nel Centro comunitario un giovane medico ed alcune infermiere attendono altri pazienti. Il medico ci racconta che lui visita soprattutto gente con problemi di carattere dermatologico (dermatiti, infezioni della pelle, ecc.).
La struttura del Centro comunitario è la realizzazione più concreta ed utile di cui la comunità è riuscita a dotarsi. Il merito è dell’associazione Proyecto comunitario “8 de Mayo”, che per le sue attività ha trovato l’appoggio di Icei, una Organizzazione non governativa italiana (1).
Per «benedire» l’esistenza del Centro, basterebbe la presenza, al suo interno, del comedor popular che ogni giorno serve un pasto adeguato a più di 200 bambini del barrio. Un numero importante.
Oggi il barrio 8 de Mayo ospita 1.500 famiglie, circa 5.000 persone, con un’alta percentuale di pibes (bambini). Tuttavia, sono molte di più – si parla di 12.000 – le famiglie che, in questa immensa periferia della Gran Buenos Aires, stanno occupando terre inquinate.
Per sapere di più del barrio e dei suoi problemi, lasciamo il Centro per un’abitazione vicina, dove ci attendono alcuni leaders della associazione «8 de Mayo».

Nora, mamma da record 

Uno di questi è Nora, donna molto impegnata nella comunità ma conosciuta anche per un’altra sua caratteristica. 
«Ho 7 figli che mi regalò Dio», esordisce seria. Sette figli sono tanti, però non sono un evento eccezionale da queste parti. Lo sono tuttavia per Nora, perché lei non è la madre biologica di alcuno di essi: tutti e 7 sono suoi figli adottivi. Non sappiamo se è un record, ma certamente è una cosa fuori del comune.
Racconta: «Io non avevo né bambini né una famiglia. Un giorno incontrai Cesar, un uomo che aveva bisogno di una persona per stare dietro ai suoi figli, che andavano in strada ed erano abbandonati. Cesar divenne mio marito ed io mamma di 7 bambini, un regalo di Dio». Nora e Cesar sono insieme da 4 anni.
«Adesso ho una famiglia piuttosto numerosa, ma mi sento bene perché vedo che i bambini stanno bene. È migliorato il loro rendimento scolastico e in generale la loro vita». Il più grande ha 19 anni, la più piccola 8.
Come la maggioranza della gente del barrio, anche Nora non ha un lavoro stabile. Attualmente lavora per il Centro comunitario e per il programma Pro niño. E Cesar, chiediamo?
«Mio marito non lavora da 2 mesi. Per fortuna, c’è il Centro che provvede al sostentamento della famiglia».
Come tutti gli abitanti dell’8 di Maggio, Nora e Cesar vivono in una abitazione costruita sopra una discarica (basurero) e vicino alla discarica pubblica del Ceamse. «Il problema principale è la contaminazione della terra, dell’acqua, dell’aria. I bambini si ammalano».
Alla discarica pubblica, soprannominata «la quema», lavorano molti degli abitanti del barrio. Un lavoro non gradevole, ma tuttavia fondamentale per la sopravvivenza di molte famiglie.
«Mio figlio più grande – racconta Nora – lavorava alla quema. Ma si ammalava spesso e noi dovevamo spendere in medicamenti, quindi ha smesso. In ogni caso, abbiamo pensato che noi avevamo la responsabilità di mantenerli».
E lo stato che fa? «Si preoccupa di chi non ha mezzi soltanto quando ha bisogno del voto. Per i bambini il futuro che spero è che possano studiare, che non debbano soffrire ciò che noi abbiamo sofferto».
Il marito di Nora, Cesar, ha ascoltato con attenzione l’intervista alla moglie. Indossa un cappellino ed una tuta. Ha un’aria pacifica e parla sottovoce. È lui che a Nora ha portato in dote ben 7 figli. «Sì – ammette -, Nora è una gran signora».
«Il governo pensa che con 400 -600 pesos una famiglia possa vivere, ma ovviamente non è così. Nessun governo e nessun politico pensa alla gente. Il mio pensiero è sempre stato comunista. Soltanto un governo comunista serve, nonostante quanto si dica sul comunismo».
Cesar è stato uno dei fondatori del quartiere… «La prima cosa fu la presa di possesso dei terreni. Era l’8 di maggio, da qui il nome del barrio. Ci fermammo giorno e notte. E cominciammo a segnare i terreni».
Le occupazioni sono illegali ma è difficile che qualcuno – pubblico o privato – reclami dei terreni contaminati.
«Questo barrio – conclude Cesar – funziona bene, ma io vorrei che tutte le villas miserias sparissero».

Monica e Andrea 

Monica è timida. Lunghissimi capelli neri, corporatura robusta. Il viso è giovane, gli occhi un po’ tristi.
Ha 5 figli, ma come tutti non ha un lavoro sicuro. «Lavoro nel comedor dell’8 di Maggio. E vado alla quema, dove raccolgo alluminio, cobre, cartone, giornali. Tutto ciò che si può vendere, insomma. La gente va alla quema perché non ha lavoro e ha molti figli da mantenere».
Domandiamo a Monica del lavoro alla discarica. «Usciamo di casa verso le 3.30 o le 4 del pomeriggio, raggiungiamo l’entrata del Ceamse e lì aspettiamo di entrare. C’è un ponte dove si raccoglie tutta la gente (molta) che spera di arrivare per prima. Aspettano fino a che la polizia non dice che si può entrare. Abbiamo un’ora di tempo».
Andrea invece non ha ancora famiglia. È giovane e molto carina. Non abita all’8 di Maggio, ma qui trascorre la maggior parte del suo tempo.
«Lavoro con piccoli e adolescenti dell’8 de Mayo. Ho cominciato con i più piccoli con il tema del gioco. Ci capivamo bene. Un giorno sono passata ai giovani con cui mi trovo altrettanto bene».
Per vivere Andrea lavora in un centro culturale, ma la sua esistenza è scandita dal tempo che trascorre tra i giovani del barrio.
«Non è un lavoro né un’attività di volontariato, è una forma di vita. Lavoro giocando, ma non è un gioco: è il tentativo di cambiare una realtà».
Andrea, come descriveresti questo luogo? «Un posto è le persone che lo abitano. La mia vita ha un senso per merito di questo luogo e di questa gente, anzi di questi amici».
Due dei giovani dell’8 di Maggio sono qui. Damian e Isaias alla quema lavorano già da anni. Ti spiazzano perché dicono di essere felici di lavorarvi. Poi capisci che, a quell’età, è facile giudicare in modo inadeguato i fatti della vita.
Damian cominciò a lavorare alla quema all’età di 12 anni. Oggi ne ha 17. Ha la spensieratezza della sua età come confermano le sue risposte.
Gli domandiamo cosa provi a lavorare alla discarica. «Per me non significa nulla lavorare lì – risponde con fare apparentemente sicuro -. A me piace perché nessuno ti dice nulla. Non hai orario. Se vuoi vai, altrimenti no. E poi non è un lavoro duro. E si guadagna bene: 150-200 pesos alla settimana lavorando un’ora al giorno».
Insomma, a sentire Damian lavorare nella discarica è un lavoro come un altro, anzi migliore. Non si discostano molto le risposte dell’amico. Maglietta di una squadra di calcio, capelli corti, un orecchino al lobo sinistro, Isaias ha 15 anni e da 3 lavora alla quema.
«Sì, è un lavoro duro però mi piace. Lavoro dalle 5 alle 6 del pomeriggio. Partiamo da qui alle 4 e torniamo alle 7. Io raccolgo soprattutto cartone e metalli. E altre cose da vendere. Guadagno dai 10 ai 20 pesos al giorno».
Monica, Damian e Isaias sono alcune di quelle mille persone che ogni giorno si recano alla quema per trovare nei rifiuti la loro sopravvivenza.

Lorena, la mente (politica) 

Lorena Pastoriza è la padrona di casa, ma soprattutto è la leader riconosciuta della comunità cresciuta attorno all’«8 di Maggio». La sua casa dista poche decine di metri dal Centro comunitario.
Quella di Lorena è un’abitazione privilegiata dato che è in muratura. È composta da una grande stanza, sommariamente arredata con un fornello, un tavolo, un divano e l’immancabile televisione; accanto c’è un’altra stanza, un piccolo bagno e un soppalco.
La padrona di casa si accomoda sul divano, si versa un mate, si accende una sigaretta e tranquilla volge lo sguardo verso la telecamera. Lorena, avete invaso e preso possesso di una  terra che non era proprio un giardino verde e profumato. Tutt’altro… «Sì, viviamo sopra una discarica e ne abbiamo un’altra di fronte». Lorena anticipa la nostra obiezione. «Non abbiamo scelto noi di venire qui – ci spiega – . È stata una necessità. Dopo anni di impoverimento generalizzato, dopo aver lasciato un paese senza cultura e senza educazione, uno dei tanti problemi fu quello della casa. A causa di ciò migliaia di persone occuparono terre incolte e discariche. L’8 di Maggio fu il primo, ma poi altri ne crebbero: adesso ci sono 8 barrios consecutivi nati da un’occupazione».

La basura, morte e vita 

«Il problema è grande – ammette sconsolata Lorena -. Quotidianamente noi tutti, e soprattutto i nostri bimbi, soffriamo di scabbia, diarree con sangue, infezioni della pelle, impetigine. Ma queste sono soltanto le malattie visibili. Poi ci sono le altre, più subdole: piombo nel sangue, leucemie, cancro. Però è molto difficile denunciare questa contaminazione perché è un problema invisibile. Di più, non abbiamo acqua potabile, c’è una luce precaria, non c’è un sistema fognario… E non c’è alcuno che ascolta i nostri reclami. Non è una cosa incredibile in un paese che parla tanto di diritti umani?».
Eppure, la basura, l’immondizia, è allo stesso tempo tesi ed antitesi. Sui rifiuti gli abitanti di questi barrios abitano e si ammalano, ma allo stesso tempo con essi sopravvivono. Una sorta di némesi.
«La basura condiziona la nostra esistenza, perché viviamo di essa. Non è un problema soltanto dell’8 di Maggio, ma di tutto il paese. Dopo la crisi del 2001, sempre più famiglie hanno trovato nella spazzatura una anzi l’unica forma di sussistenza».
Lorena si riferisce al fenomeno dei cartoneros un fatto incredibile in un paese che era considerato il granaio del mondo. Ma c’è di più… «Da un lato – spiega -, abbiamo molti compagni che vanno in capitale a cercare cibo avanzato nei sacchi della spazzatura della gente che là abita: ciò che loro buttano a noi serve per sopravvivere. Dall’altro, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo: molti vanno alla discarica pubblica, quella che noi chiamiamo la quema. La gente ci va quotidianamente per cercare non soltanto cibo, ma anche carta, naylon, cartoni, elettrodomestici e qualsiasi cosa che possano vendere. Ci vanno donne, giovani, anche bimbi: è un lavoro di tutta la famiglia».
Insomma, l’alternativa è tra essere cartonero o quemero. Con la sostanza che non cambia: si tratta sempre di affondare le mani nella spazzatura, negli avanzi, negli scarti.
«Per questo ci siamo organizzati tra noi: per far capire che ci sono persone che decidono le nostre condizioni di vita. Questa è la cosa più angosciante. E per questo lottiamo: per cambiare alcune di queste situazioni». Lorena non crede al caso, ma analizza le cause che determinano gli eventi. «La nostra vita è legata a decisioni prese da altri che ci capitano sulla testa. Come quando dobbiamo andare a lavorare a 14-15 anni, senza poter vivere l’adolescenza e la gioventù: questo non può che produrre tristezza e risentimento in qualsiasi persona».
Lorena non reclama privilegi, ma soltanto pari opportunità, almeno per i figli. «Perché i nostri partono già svantaggiati: non hanno preparazione e istruzione per poter avere un lavoro degno». Ed aggiunge con una punta di amaro sarcasmo: «Possono al  massimo aspirare ad essere cartoneros professionisti o essere premiati come il miglior ciruja dell’anno (3)».
È un circolo vizioso da cui è difficile uscire. «Oggi i nostri figli non possono andare alla scuola obbligatoria (non dico all’università) perché magari non hanno un paio di scarpe. Ma se lo stato non riesce a garantire neppure il minimo, allora milioni di bambini partono già svantaggiati e probabilmente i pochi che hanno tutto domani saranno i loro padroni e li sfrutteranno o li faranno lavorare in pessime condizioni. Così il cerchio è completo».
Eppure, nonostante la triste realtà, i sogni di Lorena e delle donne dell’8 di Maggio resistono. «Sappiamo che è molto difficile, ma non vogliamo continuare a mangiare basura. Ciò che sogno per i nostri figli è che possano essere uomini e donne felici e che possano avere un progetto per il futuro. Che abbiano un buon lavoro. Insomma, nulla di particolare, ma il minimo per una vita degna. Oggi noi non l’abbiamo, perché, per sopravvivere, dobbiamo rimestare nella spazzatura».

E alla fine, rimasero
soltanto i poveri 

«Mi ricordo una bella canzone che dice: “Son los sueños los que todavía tiran de la gente” (sono i sogni quelli che ancora spronano la gente). Mi viene in mente quando sono pessimista che abbiamo un sogno che ci accumuna e ci sospinge. Non so se sarà possibile per noi vedere il cambio, ma credo che il nostro sogno lo vedranno i nostri figli. Per questo lottiamo. Per questo portiamo avanti la nostra mensa comunitaria: affinché i nostri figli abbiano garantito un piatto caldo tutte le sere. Per questo pensiamo ad un progetto di sradicamento del lavoro infantile, per dare ai nostri bambini la possibilità di frequentare la scuola, come tutti i bambini dovrebbero fare. Dobbiamo lottare per rompere queste barriere che ci vengono imposte tutti i giorni e che ci impediscono di progredire». Lorena parla con passione e trattiene a stento le lacrime.
«Tra i poveri come noi c’è solidarietà, ma non possiamo fare affidamento sullo stato, che preferisce fare o politiche estemporanee o politiche assistenzialiste per i poveri, considerati strumenti per guadagnare voti. Non si pensa mai ad una politica pubblica per cambiare le cose».
Chiediamo a Lorena di tornare agli anni più duri, quelli immediatamente successivi al crollo del 2001, per capire come si manifestò la solidarietà con gli argentini della classe media, anch’essi colpiti dalla crisi. La risposta è dura: «La nostra lotta iniziò nel 1997 con le associazioni dei piqueteros, seguiti da asentados (4), contadini, indigeni, etc.; tutti movimenti per i quali la soluzione era una lotta non individuale ma collettiva. Arrivò il 2001, quando la gente più povera fu costretta ad uscire per le strade non soltanto a fare “piquete”, ma a saccheggiare i negozi. Allora la classe media ci disse che la nostra lotta era la loro lotta. Mi ricordo la canzone che andava di moda: “Piquete y cacerola la lucha es una sola”. Alla fine però loro si accordarono. Così, terminata la fase acuta della crisi, la classe media toò nelle proprie case e toò a vederci come negri. E noi – il povero, il piquetero, l’asentado e tutti coloro che hanno i diritti violati – rimanemmo soli». Lorena chiude il discorso con aggettivi molto duri nei confronti della classe media. Potere del disincanto e della delusione.
La leader dell’8 di Maggio è severa anche con i Kirchner e con il peronismo in generale. «I peronisti hanno la capacità di farsi camaleonti. Quando sai che viene il lupo ti prepari per combatterlo, ma quando il lupo viene travestito da agnello, che fai? Continuiamo con le stesse politiche, continuiamo a ricevere gli stessi 150 pesos al mese come sussidio sociale per il capo famiglia che non ha lavoro, ma che può avere 4-5-6 figli. Peccato che la canasta basica (il reddito minimo di sopravvivenza) per una famiglia con uno o massimo due figli sia di 950 pesos. Insomma, i successi macroeconomici di Kirchner non hanno evitato che noi si debba andare alla quema per vivere e mangiare».

Queste donne

Lorena Pastoriza ha trasmesso ai suoi due figli, Facundo ed Elias, non soltanto il proprio sorriso ma anche la propria voglia di resistere e combattere per cambiare lo status quo. Una giovane donna che, pur avendo proprie ed enormi difficoltà, non ha esitato ad adottare Maria, una bambina bellissima ma sola al mondo.
Lorena, gentile, ma determinata, anzi testarda. Non si è tirata indietro durante le violente proteste del 2001, né nei conflitti con la polizia, né quando (di recente) si è trattato di occupare il locale municipio.
Lorena, Nora, Monica, Andrea: forti, queste donne dell’«8 de Mayo».

di Paolo Moiola

Esperienza- Nella discarica del Ceamse

UN GIORNO DA «QUEMEROS»
(con Alejandro, Elias, Isaias, Graziela)

Alejandro, Elias, Isaias, Graziela sono ragazzi dell’8 de Mayo. Due di loro, neppure sedicenni, vanno regolarmente a lavorare alla discarica, conosciuta come la quema. Oggi anche noi li seguiremo. I ragazzi ci foiscono di qualche indumento logoro e di un sacco di juta per la raccolta. Dobbiamo sembrare dei perfetti quemeros.
Ci incamminiamo a piedi dalla casa di Lorena. La discarica del l’azienda pubblica Ceamse (1) sta oltre l’autostrada. Si cammina per una mezz’ora fino a raggiungere un grande prato, luogo di ritrovo e di partenza. Prima del ponte che fa da confine con l’area del basurero, è schierato un cordone di polizia. Ad attendere davanti ai poliziotti che precludono l’entrata, sono già in molti, tutti muniti di sacchi e contenitori, alcuni con carretti, in parecchi con le biciclette. Mentre attendono l’ora convenuta, molti giovani si preparano aspirando colla (droga dei poveri) da buste di plastica o carta.
Finalmente scocca l’ora: il cordone si apre e la gente in attesa scatta. Le biciclette si lanciano come per la partenza di una gara. A pensarci bene, è una gara: prima si arriva alla discarica, meglio ci si serve.
Si cammina per un bel tratto, su una strada sterrata percorsa da camion del Ceamse, in mezzo a campi incolti e colline artificiali. Ecco, un bivio: da una parte si va alla discarica dove ci sono soprattutto rifiuti alimentari, dall’altra dove i rifiuti sono indistinti. Noi scegliamo questa seconda destinazione.
Ecco la meta. Ecco la spazzatura. È una distesa impressionante sulla quale le persone si disperdono. Nuovi del mestiere, seguiamo i nostri accompagnatori. Saliamo sui rifiuti. Si sprofonda un po’, ma per fortuna neppure troppo, perché i rifiuti più vecchi sono stati compressi. L’odore è forte, ma non c’è tempo per pensare perché occorre sfruttare ogni minuto. Occhi esperti individuano la plastica, il metallo, l’oggetto o il cibo. Insomma, tutto quanto possa essere venduto, riutilizzato o mangiato. La gente lavora in silenzio, sotto gli occhi della polizia che però si mantiene a relativa distanza, vicino alle ruspe ferme dell’impresa.
L’ora a disposizione dei quemeros è terminata. Bisogna andarsene. Si fà il percorso a ritroso. I quemeros escono carichi del frutto del loro lavoro. Poco oltre il ponte che segna il confine della discarica, c’è un casolare dove si può già vendere qualcosa. Ci sono le bilance per pesare i prodotti. Alcuni hanno trovato di più. Altri di meno. Tutti toeranno domani, stessa ora, stesso luogo.
Un’esperienza inusuale? Per due giornalisti «occidentali» (2) forse, ma tanto normale da essere quotidiana per milioni di persone in giro per il mondo. Facile capire i pensieri che si affollano nella testa: da una parte, c’è un mondo che consuma (troppo) e getta via (di nuovo, troppo); dall’altra, c’è un mondo (maggioritario) che vive o sopravvive degli scarti altrui.

Paolo Moiola

(1) Sul Ceamse – Coordinación Ecológica Area Metropolitana Sociedad del Estado – si veda: www.ceamse.org.gov.ar.
(2) Il redattore e il fotografo Davide Casali.

Buenos Aires/ I cartoneros, il «tren blanco» e Maurizio Macri

«LADRI» DI SPAZZATURA

Da alcuni anni l’Argentina è in lenta convalescenza, come dimostrano gli alti indici di crescita economica. Ma l´uscita dalla malattia è lungi dall´essere compiuta e una ricaduta è sempre dietro l’angolo.
Per capirlo basta uscire la sera e vedere quanti sono i cartoneros (1) che, con destrezza ed efficienza, frugano nei sacchetti e nei bidoni della spazzatura, raccogliendo quanto può servire a guadagnare qualche pesos: i cartoni e la carta (da qui, appunto, il nome di cartoneros), vetro e lattine, plastica, ferro, senza dimenticare gli avanzi di cibo utili per riempire la pancia.
I cartoneros vanno in giro in gruppi di 3-4 persone, spesso della stessa famiglia: la donna o l’uomo o entrambi con i figli. Per il loro lavoro si aiutano con carrelli dei supermercati o con carretti a 2 ruote, a volte trainati da un cavallo. Durante la notte, prima dell’arrivo dei camion della spazzatura, percorrono tutti i quartieri bene o della classe media di Buenos Aires (e delle maggiori città argentine), anche le zone centrali, dove stanno la Casa Rosada, il Congresso, l’obelisco, le vie dello shopping. Fanno il loro lavoro con dignità, senza curarsi degli sguardi di chi non è abituato a queste scene o di chi non vuole ammettere che c’è un’Argentina che, ogni giorno, per sopravvivere deve affondare le mani nei rifiuti.
I cartoneros non soltanto non fanno danni, ma svolgono addirittura una meritoria opera sociale dato che con la loro raccolta recuperano e riciclano una parte consistente dei rifiuti urbani, riducendo il conferimento alle discariche o agli inceneritori (2). Non tutti però sono d’accordo. Nei quartieri più ricchi o più turistici (Recoleta, Palermo, ecc.), una parte dei residenti non sopportano la presenza di queste persone nelle strade, anche perché, nello svolgere il loro lavoro, i cartoneros rompono i sacchetti delle immondizie e insudiciano il selciato…
Ma il nemico numero uno è il nuovo sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, leader emergente della destra menemista, soprannominato il «Berlusconi argentino». Da tempo Macri parla di togliere i cartoneros dalla strada («Los vamos a sacar de la calle»), di incarcerarli («meter presos») perché rubano la spazzatura («se roban la basura»).
Così, a fine 2007, è stato soppresso il cosiddetto Tren blanco, treno che i cartoneros utilizzavano in gran numero per arrivare in città dalle periferie e per tornare a casa nella notte con il loro carico di rifiuti recuperati. Ci sono state proteste, occupazioni di strade e piazze. Ma il sindaco continua per la sua strada, sicuro dell’appoggio della popolazione più benestante e degli operatori turistici.
Nel frattempo, come in ogni paese, qualche impresario argentino ha fiutato il business del riciclo dei rifiuti. Insomma, anche sulle briciole strappate dalle mani dei cartoneros si può fare profitto.

Paolo Moiola

Note:
(1)  Le cifre parlano di 20.000- 40.000 cartoneros nella sola Buenos Aires. Il massimo si ebbe nel 2001, il periodo più acuto della crisi argentina.
(2)  Nel marzo 2008 a Bogotà, in Colombia, si è tenuto un convegno dei «recicladores» del mondo. Si legga il settimanale Carta del 14 marzo 2008.

Paolo Moiola




L’EREDE

Intervista a don Marino Basso, rettore del Santuario della Consolata di Torino

Prete «da cortile», come si definisce egli stesso, don Marino guida ormai da qualche anno il cuore spirituale della città di Torino. In occasione della festa del 20 giugno lo abbiamo incontrato e gli abbiamo rivolto qualche domanda. Ci ha parlato di Maria, ma anche di una città che, seppur in rapido cambiamento, continua ad aprire il suo cuore alla Madre di Dio.

Alcuni dicono che nel volto somigli un po’ all’uomo che più di ogni altro ha legato il suo nome al santuario, essendone stato il rettore per ben 46 anni: il beato Giuseppe Allamano.  Ma le similitudini non si fermano qui. Don Marino è nato a Chieri, nell’aria dell’Allamano e dei grandi santi castelnuovesi. «L’aria mi ha fatto bene, ma la strada è ancora lunga…» dice ridendo.
Parecchia polvere mangiata negli oratori di periferia e della cintura torinese come vice curato: la pastorale nel sangue. Poi, un’altra comune esperienza con il santo predecessore: dal 1992 al 1997 è rettore del seminario maggiore. Un’esperienza che don Marino definisce «bellissima», al servizio di più di 70 studenti di teologia. Infine, dopo un’altra breve parentesi pastorale, arriva la «mazzata». «Nel 2001, all’età di 45 anni, sono stato nominato rettore del convitto e pro-rettore del santuario della Consolata. L’incarico a pieno titolo l’ho ricevuto il 2 febbraio 2006. Per uno che veniva dal lavoro sul campo, negli oratori, il cambio è stato grande. Mi sono dovuto abituare».
L’incontro con don Marino  si svolge in una saletta del convitto: «Luoghi frequentati dall’Allamano», mi ricorda. Gli chiediamo:

La gente continua anche oggi ad essere affezionata alla Consolata e al suo santuario?
Nel giugno 2004, durante la meditazione della novena, il cardinale  disse che il santuario della Consolata era «il cuore spirituale della diocesi». Il santuario è sempre visitato, abitato da qualcuno che viene a trovare la Consolata nella calma e nel silenzio. Le cappelle laterali permettono di raccogliersi nella libertà più personale e trovare l’intimità per incontrare la madre di Dio.
In questo silenzio della Consolata, che si avverte quando si entra nel santuario, c’è tutta l’attenzione ministeriale di Maria. Sembra che rimanga nel quadro invece, nel silenzio, si apre all’accoglienza e all’ascolto. Frutti di quest’attitudine sono la consolazione, la pace, la calma interiore, il grande dono di sentirsi visitati, anche nelle sofferenze più profonde, dalla Madre di Dio.
La chiesa sempre aperta permette un servizio a tempo pieno, anche nell’ora del pranzo, di cui la gente approfitta per venire a pregare o semplicemente a rimanere in silenzio. È certamente il luogo nel quale la gente viene in una situazione di felicità o in un momento di grande sofferenza e alla Consolata apre il cuore. Ciò che la Consolata raccoglie tutti i giorni, solo lei lo sa, di bello e di brutto, io faccio solo un po’ da segretario. Ciò che lei opera ogni giorno è racchiuso nel segreto della relazione che lei opera ogni giorno con chi a lei si affida.

Avvertite anche voi il senso di stanchezza spirituale che sembra avvolgere le nostre comunità di fede?
Più che di senso di stanchezza parlerei di calo matematico, quello sì innegabile. Si tratta di una diminuzione che noi avvertiamo soprattutto nel numero di persone che si avvicinano al sacramento della riconciliazione, che resta il servizio peculiare che offriamo qui alla Consolata. Al calo numerico cerchiamo di sopperire con la qualità, che è rimasta invariata, frutto anche di un continuo lavoro di preparazione e aggioamento. La gente, comunque, continua a venire perché sa che alla Consolata c’è sempre qualcuno pronto ad ascoltarla e ad offrire il perdono di Dio. E non sono solo torinesi, ma arrivano anche dalla Val d’Aosta, dalla Val di Susa, dalla diocesi di Ivrea. Giusto per dare due cifre: il santuario accoglie, per difetto, 1 milione e150 mila persone all’anno. Questa cifra corrisponde al conteggio che abbiamo fatto nell’anno 2006 con il contapersone sulle porte. In un anno passa praticamente la città di Torino.

Quante persone gestiscono di fatto tutte le attività del santuario?
Siamo in un momento di «bassa marea». Eravamo più di venti preti nel 2001, oggi siamo in sei ad occuparci direttamente dei servizi al santuario. Il cardinal Poletto ci ha confermato, che nel corso del 2008 alcuni preti lasceranno il loro ministero pastorale e verranno qui a darci una mano e spero tanto che la Consolata lo aiuti in questo proposito. Chi lavora al santuario passa almeno tra le 4 e le 6 ore al giorno in confessionale. Ora io sono fermamente convinto che questo tipo di ministero richieda necessariamente del riposo per poter offrire un servizio qualificato come quello che la Consolata è chiamata a rendere alla diocesi di Torino e anche alle diocesi vicine. Per essere buoni confessori bisogna prima di tutto essere degli uomini riposati. Essere riposati permette di poter pregare di più, formarsi adeguatamente e  servire meglio. Si rischia altrimenti di non avere la necessaria calma per ascoltare chi si rivolge a noi e si corre il rischio di diventare insofferenti. Le persone percepiscono immediatamente se siamo distratti, nervosi, stanchi. In questo modo, un servizio già reso carente dalla mancanza di personale rischia di allontanare la gente invece di avvicinarla. Questo è uno dei pochi luoghi in diocesi dove l’ascolto è sempre garantito, ed occorre darlo al massimo.

Chi sono, oggi, i visitatori tipo del santuario della Consolata?
Tantissime persone. È difficile anche solo immaginare quante generazioni sono passate per la porta del santuario nella sua storia millenaria. Eppure, resta un profondo legame filiale della gente con la Madre di Dio. In questo santuario c’è una tradizione così radicata di affetto sincero e manifesto nei confronti della Madonna, al punto che anche i non credenti ci vengono. Ci viene chi magari sta percorrendo un cammino di fede o chi ha qualche cruccio. In qualsiasi momento del giorno possono arrivare il giurista, l’avvocato, l’imprenditore di fabbrica, il primario dell’ospedale, il docente universitario, insieme al popolo, alla gente più comune senza titoli onorifici o accademici. Tutti con il bisogno di sentire come la mateità di Maria diventi avvolgente, avvolgente come l’abbraccio della madre al figlio, come si vede nella tela.
Questo vale anche per i cristiani che arrivano da più lontano, per i tanti migranti che, pur portando da casa le loro tradizioni e devozioni, hanno anche adottato la Patrona di Torino. La Consolata, ha un ministero che travalica le etnie; tutti, davanti a lei, si sentono mateamente amati.  La Vergine ci apre a una realtà che supera la diocesi, le etnie, le nazioni. Oserei dire che supera anche le religioni. Un esempio? Abbiamo mamme musulmane che portano i bambini a vedere la Consolata. Nella sura 19 del Corano, infatti, si parla della madre del profeta, di Gesù. C’è una grande venerazione per Maria e le mamme accompagnano volentieri i bambini a vederla; si fermano all’ingresso, indicando il quadro della Madre di Dio. Tempo fa abbiamo fatto una prova stampando immaginette della Consolata con l’«Ave Maria» scritta in arabo. Per rispetto di chi vive la fede islamica, avevamo omesso il termine «Madre di Dio», sostituendolo con «Madre di Gesù» e tentando così di venire incontro a una diversa sensibilità religiosa, senza rinunciare alla verità, ma mitigandola per poter dare  un annuncio anche a chi farebbe fatica a riceverlo in un linguaggio così dogmatico. Le immagini si sono esaurite molto velocemente.

Che cosa offre di specifico, oggi, il santuario della Consolata a chi lo visita?
Quando nel 2001 il cardinal Poletto ha ridisegnato la realtà del  santuario per renderla al passo con i tempi e le necessità della diocesi, è stato molto chiaro sui servizi che si serebbe aspettato dalla Consolata: celebrazioni liturgiche esemplari, possibilità costante di accedere al sacramento della riconciliazione e alla direzione spirituale, formazione dei confessori, enfasi sulla spiritualità mariana. A tutto ciò ha aggiunto un quinto punto che rappresenta per noi una novità e che ci qualifica ulteriormente: il cammino di accompagnamento dei «ricomincianti». Si tratta di un insieme di percorsi di riavvicinamento alla fede per coloro che ricominciano a credere. Abbiamo iniziato cinque anni fa aiutando più di 100 persone attraverso questo particolare ministero.  A questo servizio collabora anche suor Raffaella, missionaria della Consolata;  credo infatti che chi in qualche modo ha il carisma del primo annuncio possa aiutarci a formare queste persone per i quali la fede è una riscoperta totale. Non facciamo nessuna pubblicità, le persone si passano loro la voce da uno all’altro.
Oltre a tutto ciò il santuario non ha iniziative specifiche, per esempio nei confronti del mondo giovanile: tutti quelli che chiedono di poter fare un cammino vengono accompagnati, anche giovani, ovviamente. Desideriamo però che loro stiano il più possibile nelle loro parrocchie di provenienza; il santuario è una clinica un po’ particolare, specializzata per le «malattie spirituali», quelle malattie di cui uno si rende conto e che hanno bisogno di un momento di accompagnamento. Poi, basta. Il santuario può essere definito come un luogo senza frontiera, quella frontiera che invece ha la parrocchia. Dal santuario si può entrare ed uscire senza che nessuno ti chieda di dove sei o dove vai.
Dal suo osservatorio un po’ speciale, dovendo chiedere alla Consolata una grazia per la Torino di oggi, che cosa penserebbe? Che ferita o che progetto metterebbe nelle sue mani?
Dal nostro piccolo osservatorio abbiamo una percezione che sembra essere paradossale se letta nel contesto della vita di oggi. Viviamo infatti nel tempo che tutti dicono essere della comunicazione, il tempo dei telefonini… A quest’enfasi sulla comunicazione – e quindi sulla relazione, corrisponde invece una malattia profonda, radicata, a volte senza speranza che è la solitudine. Anche  solitudine da Dio, ci si sente abbandonati da  lui proprio per l’incapacità di una strutturazione positiva nell’ambito della fede. C’è poi l’esperienza della solitudine nelle relazioni umane. Relazioni ferite, saltate, interrotte, frantumate, a volte frutto di un abbandono. Gli anziani continuano a dire che i figli li hanno abbandonati, hanno preso la loro vita e si sono dimenticati di loro; i giovani dicono che nessuno si prende cura di loro. A metà della loro vita, alcuni quarantenni continuano a dire che sono talmente scissi tra il lavoro e la famiglia, da vivere interiormente delle grandi lacerazioni, create proprio da questa solitudine. C’è certamente anche il problema della solitudine di chi è immigrato. Noi raccogliamo grandi sofferenze, e anche grandi confidenze  da chi giunge e dice: «Nella mia terra… quando io ero…». Si coglie una grande fatica nell’inserimento di queste persone. Non dico che la città non sia accogliente, ma forse non ha strumenti per accogliere tutti, per creare ponti nelle solitudini.
La Consolata vuole incontrare le solitudini e non soltanto per consolarle, ma per costruire. La vera consolazione sta nell’aiutare a fare i primi, piccoli passi per riprendere i cammini interrotti, per riguadagnare coraggio interiore e anche per ridare speranza. Se c’è un frutto della consolazione è proprio la speranza di non sentirti perduto. Penso che l’Allamano avrebbe accolto questa inquietudine del cuore dell’uomo e avrebbe fatto certamente miracoli, come sapeva fare lui. La Consolata gli avrebbe suggerito qualcosa, così come continua a suggerire, nella storia, la medicina giusta per quest’infermità del cuore dell’uomo. Per l’uomo di oggi è importante sapere che alla Consolata c’è sempre qualcuno che ti accoglie, che ti ascolta: prima di tutto la Consolata stessa, e poi i preti che lavorano con lei al santuario.

Come rettore del santuario è l’erede dell’Allamano. Che cosa invidia di più al suo predecessore?
Aver avuto il Camisassa… questo non è un giudizio sui miei collaboratori, per la carità. In realtà, qui con me ho dei grandi Camisassa. Il guaio è che io non sono l’Allamano, e quindi loro fanno più fatica del Camisassa a capire che cosa vorrei fare. Il rapporto fra l’Allamano e il Camisassa, quello stile, ecco il punto a cui dovremmo tendere come comunità. Il vostro fondatore è riuscito a concretizzare l’intuizione donatagli dalla Consolata perché il Camisassa è stato capace di essere il tessitore del sogno missionario dell’Allamano. La loro frateità, il loro progettare e lavorare insieme, il loro volersi bene sono i punti che ci ispirano nel nostro vivere e costruire insieme. E devo dire che ci stiamo riuscendo. Il primo miracolo che la Consolata fa tutti i giorni al santuario è che tra noi preti ci si voglia bene.  Si lavora bene, ci si aiuta,  si è sereni, giorniosi… si è contenti di essere alla Consolata. Questo è il dono più grande che la Madonna può fare ogni giorno a noi, che in fondo siamo preti di parrocchia, di oratorio, ma felici di essere alla Consolata. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Rinascere … si può

Remolino compie 20 anni

In 20 anni di vita, la parrocchia di Remolino ha lanciato la sfida alla guerriglia e narcotraffico, proponendo alternative legali alla coltivazione della coca. Le comunità disseminate nella foresta amazzonica stanno maturando una nuova coscienza, ma il cammino è ancora lungo.
Anche quest’anno si è realizzato il «mistero pasquale», cioè, il passaggio dalla situazione di «passione» alla speranza di una esistenza più umana e dignitosa.

Mi trovavo nell’ufficio parrocchiale, situato a ridosso della chiesa, quando sentii dei bambini gridare; mi diressi verso la chiesa per vedere che cosa stesse succedendo e mi trovai di fronte tre fratellini: un bambino di 5 anni e due bambine di 7 e 9 anni. Stavano facendo un gioco che piace a tutti i bambini: gridare per sentire l’eco della voce riflessa dalle pareti della chiesa.
Mi avvicinai e, prendendo per mano il più piccino, li invitai a entrare in chiesa, li accompagnai vicino all’altare, di fronte al tabeacolo, alla presenza di Gesù nell’eucaristia.
«Dove ci troviamo?» domandai loro. «Nella chiesa» risposero in coro. «E chi c’è qui in chiesa?» continuai. «C’è Gesù!» esclamarono insieme. «E dov’è Gesù?» insistetti. «Lì» risposero senza esitazione, indicando il crocifisso appeso al centro del presbiterio.
Non volli «rovinare» la loro risposta, che mi parve la più naturale, per una popolazione che soffre oppressioni e ingiustizie. Li invitai a pregare insieme a me. Fecero il segno della croce con molta devozione e tutti insieme recitammo il Padre nostro.
L’emozione è forte e, grazie a questi bambini, mi rendo conto come questo popolo ha dentro di sé sete di Dio e di spiritualità, anche se molte volte si lascia trasportare da una religiosità popolare ricca di superstizione che lo rende cieco.
20 ANNI DI SFIDE
L’episodio che ho voluto ricordare fa parte del programma pastorale del nostro vicariato di San Vicente per il 2008: celebriamo infatti l’«anno dell’eucaristia», ispirandoci al testo dei discepoli di Emmaus: «E lo riconosciamo allo spezzare del pane». Per celebrare tale evento con iniziative concrete, ci siamo trovati con un gruppo di persone, che non oso chiamare «consiglio parrocchiale»: la nostra comunità non è ancora una parrocchia ben definita, anche se ha compiuto 20 anni di vita.
Giuridicamente, infatti, l’istituzione della parrocchia di Remolino e la nomina del primo parroco portano le date rispettivamente dell’1e 2 gennaio del 1988. Alla fine dello stesso anno padre Giacinto Franzoi si stabiliva definitivamente come fondatore e parroco della parrocchia di Sant’Isidoro Lavoratore in Remolino del Caguán.
Già da una decina di anni, salvo un breve periodo trascorso in Italia impegnato nell’animazione missionaria, padre Giacinto si recava periodicamente in questa remota zona, che apparteneva alla parrocchia di Cartagena del Chairá, per prendersi cura dei contadini che migravano nella foresta amazzonica in cerca di sopravvivenza.
Il nuovo parroco arrivava nel piccolo paese senza avere un piede a terra: per anni è vissuto in un bugigattolo in affitto e celebrato la messa nell’arena destinata alle lotte dei polli. Ma le sfide più grandi erano date dal clima di conflitto causato dalla presenza della guerriglia e dal boom della coltivazione della coca.
Fin dai primi mesi padre Giacinto ha dovuto difendere la gente di questo territorio durante il primo attacco armato da parte dell’esercito nazionale, che considerava gli abitanti di questo paese tutti guerriglieri. Il suo intervento presso il comandante riuscì a far liberare molti contadini, incarcerati per la semplice colpa di vivere in questo territorio.
Immediatamente padre Franzoi si preoccupò di liberare i suoi parrocchiani da un’altra schiavitù: quella della coltivazione della coca e conseguente narcotraffico. E lanciò la famosa campagna «No alla coca, sì al cacao», partendo da Milano, al tempo del cardinal Martini, e estendendola con notevole successo in tutta l’Italia. Con gli aiuti raccolti padre Giacinto poté attuare una serie di proposte alternative: coltivazioni di cacao e caucciù, allevamento del bestiame, piantagioni di frutta amazzonica, cornoperative di vario genere, fabbrica di cioccolato Chocaguan e altri derivati dalla trasformazione del cacao…
A tali iniziative se ne aggiunsero altre di carattere formativo a favore dei contadini della zona, senza trascurare le necessarie strutture parrocchiali: costruzione della casa per i missionari, una bellissima chiesa ottagonale, un efficiente oratorio per tutte le attività ricreative e formative per la comunità di Remolino e di quelle dei 40 villaggi sparsi nel territorio parrocchiale.
Poi vennero progetti speciali, come l’acquedotto con acqua potabile e il centro di formazione e studio per accogliere i giovani dei villaggi più lontani che vogliono continuare a studiare nella scuola superiore statale del paese.
Poche righe per riassumere 20 anni di impegno missionario, ma sufficienti per descrivere come questa missione, sperduta nella foresta amazzonica, ha acquistato una propria identità di parrocchia e di comunità cristiana. Merito certamente dell’indefesso lavoro di padre Giacinto e degli altri missionari che lo hanno coadiuvato, tra cui padre Giuseppe Cravero che ha speso otto anni in questa missione; senza dimenticare i tanti laici e laiche passati da qui. Tra tutti ricordiamo il signor Paolo Vianello di Bolzano: a Remolino ha fatto i primi passi nella collaborazione missionaria, per poi continuare in altre località del vicariato di San Vicente.
La parrocchia oggi
Attualmente la parrocchia di Remolino è ricca di personale, se confrontata con gli anni passati. C’è naturalmente padre Giacinto, che, con i suoi 30 anni di esperienza nella regione del Caguán, è il nostro punto di riferimento, sempre pronto a orientarci nelle nostre iniziative.
Negli ultimi anni sono arrivate a Remolino tre Hermanas de la Paz (suore della pace), una congregazione nata in Colombia nel 1950, negli anni in cui scoppiava l’ondata di violenza che insanguina ancora il paese. Sono suore che hanno desiderato essere presenti in questo territorio di missione, totalmente nuovo per loro, ma che rispondono al loro carisma: le tre sorelle, infatti, sono specializzate nella creazione di gruppi impegnati nella costruzione della pace interiore, familiare e comunitaria, mediante l’educazione scolastica e il lavoro pastorale.
Dallo scorso ottobre è con noi Beatriz Sierra, una missionaria laica colombiana che si occupa della parte amministrativa della parrocchia, segue vari progetti in corso, è impegnata nella pastorale caritativa e, al tempo stesso dà una mano nella catechesi, specialmente nel preparare i bambini alla prima comunione.
Tutti insieme formiamo l’équipe pastorale; ma cerchiamo di coinvolgere più persone possibili. Per questo organizziamo incontri aperti a tutti coloro che vogliono partecipare e cerchiamo di creare gruppi e comitati che si occupano di settori specifici della vita della comunità.
Per meglio vivere e celebrare l’anno dell’eucaristia siamo riusciti a creare un nuovo gruppo che si dedica all’animazione della liturgia domenicale. Ogni venerdì ci raduniamo e riflettiamo sulla parola di Dio della domenica seguente e, con il metodo della lectio divina, prepariamo la celebrazione del giorno del Signore.
Settimana Santa
Un consolante risultato del nostro lavoro è stata la partecipazione della gente di Remolino alle celebrazioni della settimana santa, soprattutto il venerdì santo, dove tutti, ma proprio tutti, hanno collaborato attivamente alla preparazione della via crucis. È stato un evento alquanto speciale, anche perché, per la prima volta da quando sono in Colombia, la celebrazione è avvenuta sotto una pioggia torrenziale, dall’inizio alla fine. Ma la gente ha accolto tutto questo come un sacrificio da offrire al Signore per i peccati propri e del mondo.
Alla stessa sera, secondo la tradizione locale, la gente si è radunata di nuovo in chiesa per riflettere sulle cosiddette «ultime 7 parole di Gesù». Riflessioni preparate da alcune persone del paese, che hanno incarnato la passione di Cristo nella cruda realtà colombiana e di Remolino. Per ben due ore, senza il minimo segno di stanchezza, la gente ha vissuto questo forte momento della liturgia, proseguendo poi nell’adorazione della croce, in cui hanno visto rispecchiate le proprie sofferenze.
La settimana santa è il periodo dell’anno più sentito nella tradizione religiosa della popolazione colombiana. E poiché è impossibile essere presenti lo stesso giorno nelle 40 comunità della parrocchia, anche quest’anno, 15 giorni prima di pasqua, ho iniziato la visita ad alcuni villaggi, soprattutto quelli più popolosi, per celebrare la settimana santa e il triduo pasquale.
Uno dei villaggi era ancora scioccato dagli scontri, avvenuti pochi giorni prima del mio arrivo, tra l’esercito nazionale e un gruppo di guerriglieri. Ma anche qui siamo riusciti a coinvolgere la comunità, usando la metodologia latino-americana della «comunione e partecipazione». Si inizia con qualche gioco per mettere la gente a proprio agio. All’inizio non tutti si mostrano interessati e attivi; ma poi giovani, adulti, uomini e donne partecipano gradualmente per creare un clima di festa e di frateità. A questo punto formiamo tre gruppi, ognuno dei quali è chiamato a riflettere su un giorno del triduo pasquale: meditazione sulle letture bibliche, ricerca del messaggio più profondo e attuale, sua applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, attraverso la conversione negli atteggiamenti e nei sentimenti più profondi del proprio cuore. Il lavoro di gruppo culmina con la scelta dei canti e la ricerca del «segno» che identifichi la giornata specifica del triduo. Ogni gruppo scrive su un cartellone i punti fondamentali della riflessione, che viene condivisa con tutta la comunità.
Dopo questo momento di «catechesi attiva», inizia la celebrazione, in cui ogni gruppo anima una parte della liturgia: il momento penitenziale è affidato a coloro che hanno preparato il venerdì santo; l’offertorio a quelli che hanno riflettuto sul significato del giovedì santo; dopo la Comunione il gruppo del sabato santo invita i partecipanti a imitare Maria Magdalena, l’altra Maria e i discepoli, cioè, annunciare con la vita l’incontro giornioso con il Cristo crocifisso e risorto e i fratelli. La celebrazione, infatti, che dura più di tre ore, è caratterizzato da un clima di gioia, vissuta con semplicità tra fratelli e sorelle,  con semplicità, espressione concreta del vero «clima pasquale».
USCITO DALLA GUERRIGLIA
Il significato della pasqua di risurrezione l’ho visto realizzato pochi minuti dopo la fine della celebrazione, in quello stesso villaggio. Un giovane con un berretto sportivo in testa, il poncho sulla spalla sinistra e la frusta per controllare il bestiame nella destra, mi si avvicina e comincia a parlarmi sottovoce, guardandosi attorno con aria circospetta. Capisco che si tratta di una cosa delicata e lo invito a uscire dal salone, per evitare occhi e orecchie indiscrete.
Comincia dicendomi il suo nome, che non riporto per la sua sicurezza personale. È nervoso. Comincia a parlare con mezze frasi, rendendomi difficile la ricostruzione della sua storia. Finalmente capisco che è uscito dalla guerriglia e mi chiede di aiutarlo a recuperare i documenti del suo stato civile.
«Non so quando sono nato – comincia a raccontare con più calma -. Avevo forse 7 anni quando ho dovuto lasciare la mia casa; oggi penso di avee 21. Da bambino mi piaceva giocare con le armi; quando mia mamma mi portava a messa, io scappavo per andare a giocare».  Mentre nomina la madre, il suo volto si fa più triste. «Mio fratello maggiore mi ha portato nella guerriglia – continua a raccontare -. È stato ferito in uno scontro armato ed è rimasto invalido. Un altro fratello è stato punito, cioè ucciso dagli stessi guerriglieri».
Le disgrazie capitate ai suoi fratelli hanno provocato in lui una forte crisi esistenziale circa il suo futuro personale e le motivazioni della guerriglia, e ideali dei guerriglieri. «Con loro la vita è durissima – continua a confidarsi -. Tutto è programmato e pianificato: ci sono tempi stabiliti anche per andare al bagno e chi sbaglia o disobbedisce è punito duramente. Quando sono entrato nel gruppo guerrigliero ero molto motivato; credevo nella loro ideologia politica: raggiungere il potere a ogni costo, perché questo è il solo modo per raggiungere in Colombia certi cambiamenti, come una vera riforma agraria… Padre, non so nemmeno se sono battezzato: con mia mamma ho imparato il Padre nostro… Ma tra i guerriglieri non si pratica alcuna religione; anzi, si predica che la chiesa è il nemico “numero uno”. Io, però ho sempre sentito dentro di me il bisogno di ricorrere a Qualcuno… E quando nei pacchetti di biscotti trovavo le immagini di santi e relative preghiere, le conservavo avvolte in pellicole di nailon e tutti i giorni invocavo la loro protezione. Tutte le volte che partecipavo a uno scontro con l’esercito pregavo perché tutto finisse al più presto, per potere uscire da una situazione che non sentivo più mia.
Sono stato 12 anni nella guerra e la mia salute ora è molto fragile, ho dolori in ogni parte del corpo. Dopo molte insistenze, ho ottenuto il permesso di uscire dalle file della guerriglia; ora posso vivere come un contadino qualsiasi di questo territorio. Vivo in questo villaggio, ma lavoro in varie fattorie e con il denaro che ricevo sto cercando di comprarmi una fattoria nella foresta, pagandola a rate. Mi dicono di piantare coca, ma non desidero mettermi in questo nuovo circolo. Ora vivo anche con una giovane di 26 anni, anche lei è scappata dalla guerriglia, che ho preso sotto la mia protezione: sono riuscito a parlare con i guerriglieri del suo gruppo che me l’hanno affidata.
Padre, mi aiuti a rintracciare mia madre: dovrebbe avere circa 50 anni e penso che viva ancora nel mio villaggio d’origine, in un’altra regione della Colombia…».

È questa una delle tante storie di vita quotidiana in Colombia e nella mia parrocchia. In questo momento stiamo vivendo una pace apparente: non basta far tacere le armi; bisogna recuperare tanti cuori afflitti e ricucire rotture che ogni guerra lascia attorno a sé.
«Cristo, nostra pace!» abbiamo proclamato e invocato nel tempo pasquale. L’esperienza di questi mesi mi convince sempre più che è possibile incontrare il Cristo risorto anche nelle situazioni più difficili e complesse e che, come missionari, è nostro compito principale farlo risorgere nel posto in cui viviamo, attraverso la fede e la speranza.
Lo sto scoprendo proprio in mezzo a questa popolazione, che è ancora attirata dal miraggio della coca, soldi facili, vita dissipata; ma al tempo stesso è in cerca di una via di uscita, attraverso le coltivazioni alternative, come quelle del cacao e caucciù, l’allevamento del bestiame e altre iniziative legali che stiamo promuovendo. 

Di Angelo Casadei

Angelo Casadei




In cerca di futuro

Svolta alle elezioni, aspettando il ballottaggio

Uno splendido paese. Un tempo granaio dell’Africa, quando era retto da un regime di apartheid. Ora, gestito da una dittatura, è in caduta libera. Le ultime elezioni hanno ancora scatenato la repressione. Ma fanno intravedere un possibile cambiamento. Però il presidente Mugabe è troppo attaccato al potere (che detiene da oltre 28 anni). Così sta trascinando il  suo popolo nel baratro.

Il sogno si è trasformato in un incubo. Il primo era quello di un paese africano nel quale convivevano bianchi e neri, con un’economia florida in grado di esportare derrate agricole e una classe politica lungimirante e in grado di creare infrastrutture eccellenti, un sistema scolastico di primo livello e un sistema sanitario quasi europeo.
L’incubo è uno stato in cui i bianchi sono quasi tutti scappati all’estero, l’economia è al tracollo, il sistema politico da democrazia si è trasformato in dittatura (o forse sarebbe meglio dire tirannia) di un anziano leader attaccato al potere come un mollusco alla roccia. Il sogno è quello che ha vissuto lo Zimbabwe negli anni Ottanta e Novanta. L’incubo è quello che, sempre lo Zimbabwe, sta vivendo da otto anni a questa parte.
«Quando arrivai ad Harare – ricorda un volontario italiano che da anni vive nel paese – avevo alle spalle  un’esperienza in Uganda, durante la sanguinosissima guerra civile, e un’altra in Etiopia, nel corso del conflitto che portò alla caduta di Menghistu. Erano gli anni Novanta e lo Zimbabwe mi sembrava un paradiso. Un Paese africano in cui tutto funzionava. Poi, dopo i primi anni felici, è iniziato il tracollo.
Ora stiamo vivendo una crisi tremenda dalla quale non credo riusciremo a risollevarci».

La genesi della crisi

Se la crisi si è manifestata all’inizio degli anni Duemila, le radici sono più profonde.  Tutto è iniziato nel 1979 con gli accordi di Lancaster House grazie ai quali la Rhodesia diventava Zimbabwe e finiva un regime di apartheid instaurato dalla minoranza bianca nel 1964.
Negli accordi era prevista la cessione del potere ai neri, ma non la cessione delle terre (le più fertili) possedute dai bianchi. I grandi proprietari di origine europea decisero quindi di non lasciare il paese, ma di continuare a coltivare le loro tenute.
Nel 1990, una legge intervenne per obbligare i bianchi, qualora avessero deciso di cedere le loro terre, a offrirle innanzitutto al governo di Harare.  Grazie a questa legge lo stato zimbabwiano riuscì a entrare in possesso di 500 mila ettari di terra fertile. Queste tenute, se fossero state ben distribuite, avrebbero potuto dare lavoro e benessere a migliaia di neri. Nei fatti però vennero cedute solo ai gerarchi del partito e ai militari che non le coltivavano.
Ciò però non impedì che l’economia marciasse a buoni livelli, grazie alla produzione delle tenute dei bianchi che, oltre a dare lavoro a 350 mila contadini (in gran parte neri), davano impulso a tutta l’economia nazionale. Da queste tenute arrivavano il 50% di tutte le esportazioni, il 65% del cibo necessario al paese e alimentavano il 60% dell’attività industriale zimbabwiana.

Come si affossa un paese

Nel 2000, la svolta. Robert Mugabe, al governo dal 1979, sente il suo potere vacillare. Indice un referendum che, modificando la costituzione, intende rafforzare i suoi poteri. La consultazione viene bocciata e Mugabe incolpa i bianchi della sconfitta. Inizia così una campagna di espropri delle loro tenute.
Una campagna portata avanti con violenza. Alcuni white farmers vengono uccisi. «In realtà – osserva un altro volontario -, la violenza non si diresse solo contro i bianchi, ma anche contro gli oppositori neri. Non esistono statistiche ufficiali, ma i morti per causa politica nel 2000 e 2001 furono centinaia, soprattutto tra i neri».
Le terre espropriate non vengono più coltivate. La produzione agricola crolla. Il paese da esportatore di derrate alimentari diventa importatore. I coltivatori bianchi fuggono all’estero. La povertà si accentua, soprattutto nelle zone rurali. Si diffonde il «mercato nero» e le speculazioni. «La gente è allo stremo – spiegano i volontari – non c’è lavoro, non c’è da mangiare. Oggi lo Zimbabwe è retto da un’oligarchia di famiglie legate a Robert Mugabe che gestiscono il “mercato nero”  facendo impennare l’inflazione e impoverendo la povera gente. L’inflazione è salita a livelli record: si parla del 160 mila % su base annua».
Anche il sistema sanitario è allo stremo. Con l’aggravarsi della crisi economica, la situazione è degenerata. Mancano gli strumenti di lavoro nei reparti di chirurgia. Aumentano i parti a rischio per la carenza di personale ostetrico. Stanno chiudendo anche i pochi centri d’eccellenza.
Negli ultimi dieci anni l’aspettativa di vita è scesa da 61 a 37 anni per gli uomini e a 34 per le donne. «La vita – spiega un sacerdote – è diventata intollerabile per la maggioranza della gente. Per questo motivo sta crescendo velocemente il malcontento».

Elezioni:  il sorpasso

Questo malcontento si è trasformato in un voto a favore del partito di opposizione, il Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc), alle elezioni del 29 marzo scorso. «Ormai è chiaro – spiega un giornalista sudafricano – che il presidente Robert Mugabe ha perso. Il dramma è che non vuole rassegnarsi a lasciare il potere. Così ha imposto alla commissione elettorale di non pubblicare i risultati delle elezioni presidenziali e ha forzato la stessa commissione a ordinare il riconteggio delle schede elettorali delle legislative in 23 collegi. Nel frattempo, in silenzio, ha ordinato a un gruppo di ufficiali dell’esercito di organizzare bande allo scopo di terrorizzare la popolazione rurale, che ha votato contro di lui alle elezioni.
Quello che più urta Mugabe è che province rurali che tradizionalmente lo sostenevano, questa volta abbiano appoggiato l’opposizione dell’Mdc».
I risultati dello scrutinio sono stati resi pubblici dalla Commissione elettorale solo il 2 maggio e danno all’Mdc una storica vittoria  (47,9% dei voti),  mentre il partito di Mugabe si attesta sul 43,2% e Simba Makoni (ex ministro) ha avuto l’8,3%.  Secondo l’Mdc, Tsvangirai avrebbe invece ottenuto oltre il 50%, aggiudicandosi la presidenza al primo tuo, ma molte son le denunce di brogli.
Lo Zanu-Pf (Zimbabwe african national union – Patriotic front),  il partito di governo al potere dall’indipendenza, ha inoltre, per la prima volta perso la maggioranza in parlamento nel quale l’Mdc conquista 109 seggi su 210 (mentre lo Zanu-Pf ne avrebbe 93 e 12 restano da assegnare).
Entrambi i partiti, intanto, hanno contestato i risultati del voto legislativo davanti al tribunale elettorale in metà delle circoscrizioni.
L’oppositore storico (sempre al sicuro in Sudafrica) accetterà di correre per il ballottaggio solo «se ci saranno le condizioni». Il clima di «violenze, torture e saccheggi», secondo la Sadc (Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe), renderebbe difficile, se non impossibile, un’ulteriore consultazione. Si è anche parlato di possibile «soluzione negoziata», ma finalmente il secondo tuo è tato fissato il 27 giugno prossimo.
Sempre l’Mdc denucia l’ondata di repressione, dichirando l’uccisione di 30 dei propri militanti dopo le elezioni del 29 marzo. Il sindacato degli agricoltori denuncia invece 40.000 sfollati in zona rurale.

Arroccato al potere

Purtroppo non si vede come Mugabe possa lasciare il potere. Il presidente gode ancora di forti appoggi all’estero. Il suo sponsor più importante è il presidente sudafricano Thabo Mbeki che lo ha sempre appoggiato in nome di una mal riposta solidarietà «rivoluzionaria».
Lo Zanu-Pf, , l’Anc (African national congress di Mandela e Mbeki) hanno a lungo combattuto insieme contro l’apartheid. «Ai tempi la loro è stata una lotta sacrosanta – spiegano alcuni osservatori -. Ma oggi in nome di quegli antichi legami non si può giustificare e sostenere una dittatura feroce come quella di Mugabe. In Zimbabwe stanno morendo migliaia di persone per fame. Ciò non è compreso neppure in Europa.
Molti pensano che Mugabe sia quel rivoluzionario che aveva combattuto l’apartheid. Anche alcuni giornali italiani lo appoggiano. A chi vive qui sembra incredibile». 

Di Tesfaie Gebremariam

SEGREGAZIONISMO AL POTERE

«Non credo che i neri potranno governare la Rhodesia, almeno per i prossimi mille anni». Ian Smith  non poteva essere più chiaro sul suo programma politico. La supremazia bianca andava difesa a tutti i costi. E la difese a tutti i costi anche contro la Gran Bretagna che lui considerava la patria di riferimento.
Nata nel 1898 e diventata colonia britannica nel 1923, la Rhodesia del Sud si differenziò rispetto alla Rhodesia settentrionale (gli attuali Zambia e Malawi) per il forte potere economico della piccola minoranza bianca (circa 250 mila persone contro una popolazione nera di 5 milioni). Un potere che i bianchi (quasi tutti di origine britannica) non vollero lasciare neanche quando nel 1964 il Malawi e lo Zambia diventarono indipendenti e anche la Rhodesia meridionale era in procinto di diventarlo.

Fu Ian Smith (1919-2007) a evitare l’indipendenza e la presa di potere da parte della maggioranza africana. Con un discorso divenuto celebre come «Dichiarazione unilaterale di indipendenza», Smith proclamò la Rhodesia meridionale indipendente dalla Gran Bretagna e le cambiò il nome in Rhodesia. Nel nuovo Stato vigeva un rigido apartheid e ciò gli procurò l’isolamento internazionale (attenuato solo dall’appoggio del Sudafrica allora governato anch’esso da un regime segregazionista). Ian Smith fu l’incarnazione vivente di quella Rhodesia bianca, anglosassone e razzista. Figlio di farmer di origine britannica, aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale nella Royal air Force (Raf). Venne abbattuto due volte: una nel deserto del Sahara e l’altra in Liguria, dove per mesi combatté con i partigiani italiani.

Dopo la guerra, si diede all’attività politica, diventando prima ministro e poi premier. Il suo governo dovette affrontare la durissima guerriglia combattuta dalle formazioni marxiste dello Zanu, guidata da Robert Mugabe, e dello Zapu, di Joshua Nkomo. La guerra civile cessò con gli Accordi di Lancaster House, nei quali il governo bianco cedeva il potere alla maggioranza nera. Ian Smith continuò a sedere in Parlamento fino al 1987.
Poi si dedicò alla sua tenuta agricola. A chi gli chiedeva un parere sulla situazione economica e politica dello Zimbabwe lui rispondeva che quando aveva lasciato la guida del paese, l’economia era solida e i neri comunque godevano di un buon livello di assistenza sociale. «Questo è quanto fecero i rhodesiani – disse poco prima di morire -. Mi piacerebbe sapere perché non ce ne viene dato atto». Forse è vero, l’economia era florida. Certo questo non giustificava l’apartheid.

T.G.

OPPOSIZIONE A OLTRANZA

Lo chiamano il Lech Walesa di Harare. E, infatti, come il leader polacco di Solidaosc, anche Morgan Tsvangirai proviene dal sindacato e, con il sindacato, ha combattuto le sue prime battaglie contro il potere politico. Ma le similitudini non fermano qui. Tsvangirai ha la stessa determinazione del leader polacco e la stessa volontà di non fermarsi davanti alla violenza e alla prepotenza del regime.

Tsvangirai è nato nel 1952 nel distretto di Gutu in quella che allora si chiamava Rhodesia meridionale. Figlio di un carpentiere, nel 1974 è costretto ad abbandonare gli studi per andare a lavorare in una miniera di nichel. La dura vita come minatore lo portano a impegnarsi nel Congresso dei sindacati dello Zimbabwe (Zctu), la più grande confederazione sindacale del Paese, fino a diventae il segretario generale nel 1989. Alla guida del sindacato, entra in rotta di collisione con il governo e rompe la tradizionale alleanza tra Zctu e Zanu-Pf (il partito unico al potere dal 1980). Da quel momento per lui la vita diventa un inferno. I pretoriani governativi lo minacciano, distruggono le sedi della sua organizzazione e picchiano lui e i suoi collaboratori. Tsvangirai però non si ferma e nel 1999 fonda il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) destinato ben presto a diventare il più grande partito d’opposizione del Paese. Promette una transizione senza violenze e un rilancio dell’economia nazionale, distrutta da un decennio di malgoverno. Si candida alle elezioni parlamentari del 2000 e a quelle presidenziali del 2002, perdendole entrambe. Ma il sospetto è che, dietro alla doppia vittoria di Mugabe e dello Zanu-Pf, ci siano stati enormi brogli e manipolazioni. Viene più volte arrestato con accuse diverse.

Nel 2007, dopo l’ennesimo arresto con un’imputazione fasulla, viene pesantemente torturato dalle forze speciali di Mugabe. Il cameraman zimbabwiano, che riprende la faccia tumefatta di Tsvangirai all’uscita dalla prigione, viene ucciso, probabilmente da sicari del regime. Il leader dell’Mdc è benvisto dai diplomatici americani e europei (soprattutto quelli britannici). Ma è riuscito a trovare sostegno anche in Sudafrica. Non quello di Thabo Mbeki che continua ad aiutare Robert Mugabe, ma quello di Jacob Zuma, il neo leader dell’Anc. Zuma, come Tsvangirai, ha un’esperienza sindacale e, come lui, appartiene alla generazione di leader che non hanno partecipato alle lotte anticoloniali. Forse proprio questa nuova alleanza favorirà il cambiamento in Zimbabwe.

T.G.

Tesfaie Gebremariam




Da vescovo dei poveri a presidente di tutti

Feando Lugo: da vescovo a presidente della Repubblica

Primo caso nella storia: mons. Feando Lugo lascia la sua carica episcopale e viene eletto presidente della Repubblica del Paraguay, paradiso per 500 famiglie in un mare di povertà: il neopresidente si è impegnato a cambiare il paese, combattendo la corruzione e promuovendone la crescita con equità sociale, con particolare riguardo alle categorie di persone più emarginate: indigeni, donne, disabili e giovani.

«La mia cattedrale è oggi l’intero Paraguay». Parola di un vescovo che è diventato presidente della Repubblica. Si chiama Feando Lugo, e la sua parabola sta facendo il giro del mondo. Ha sorpreso tutti, una mattina del dicembre 2006, quando decise di lasciare l’abito talare per buttarsi nelle acque vorticose della politica, dopo 30 anni di servizio vescovile. E ha meravigliato di nuovo tutti, il 20 aprile scorso, quando è riuscito a vincere le elezioni del suo paese con il 41% dei voti, 10% in più della rivale del partito al potere.
A dire il vero, non proprio tutti. I campesinos, gli indigeni, gli ultimi del suo paese lo sapevano già: sono andati in massa a votarlo, perché per loro Lugo era l’unica speranza di cambiamento. Sei milioni di abitanti, in un territorio poco più grande dell’Italia, e il 5% delle persone che ha in mano il 90% delle risorse economiche: il Paraguay è oggi una nazione allo sbando che, soia e ortaggi a parte, vive di importazioni. Asunción, la capitale, è per molti aspetti modea e viva, ma in netto contrasto con il resto del paese, così povero da essere inserito al penultimo livello dell’indice economico di sviluppo dell’Osce, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sicurezza e cooperazione.
Allo stato di cose attuale, come troppo spesso è accaduto in America Latina, ha contribuito non poco il malgoverno di una delle classi politiche più corrotte della storia. Quella del Partido Colorado, infatti, prima della sconfitta di aprile, è rimasto al potere per 60 anni ininterrotti, 35 dei quali (dal 1954 al 1989) con una feroce dittatura manovrata dal generale Alfredo Stroessner, condannato nel 1997 per crimini contro l’umanità e morto a Brasilia nel 2006. Sei decenni in cui la forbice tra ricchi e poveri si è aperta sempre di più, in cui il clientelismo era diventato la regola anche del presidente uscente, Nicanor Duarte Frutos.

Ma ora è arrivato Feando Lugo, il «vescovo dei poveri», chiamato così per il suo operato nel mezzo della foresta e degli indigeni guaraní, nella diocesi di San Pedro. «L’ho incontrato cinque anni fa: è una persona estremamente cordiale, alla mano, con un carisma enorme, ma molto semplice», dice di lui il cornoperante Giuseppe Polini, in Paraguay per conto dell’ong italiana Coopi.
 E la conferma alle parole del cornoperante è arrivata anche a noi, quando, all’indomani della richiesta a Lugo, tramite l’ufficio stampa della sua coalizione, di concederci un’intervista, la risposta è stata positiva. Mancavano ancora pochi giorni alle elezioni, ma l’ex vescovo sentiva già la vittoria vicina: «A parte colpi di scena o attentati, alcuni dei quali sono già stati minacciati» ha ammesso Lugo.
Tutto è poi filato liscio, ma ancora oggi, in ogni uscita, una folta schiera di giovani volontarie guardie del corpo lo segue. Come se non bastasse, il giorno precedente all’intervista, l’ex vescovo cattolico aveva ricevuto dal rappresentante spirituale degli indigeni guaraní un vero e proprio esorcismo contro «le forze maligne».
E il primo tema che il neopresidente affronta con noi è proprio legato alle fasce deboli del Paraguay: «Oggi nel mio paese solo uno sparuto gruppo di persone vive con dignità. La maggioranza sopporta gravi mancanze, soprattutto i più indifesi, come gli indigeni, le donne, le persone con disabilità e i giovani che, appena possono, lasciano il paese» spiega Lugo prima di entrare concretamente in quelle che saranno le sue priorità.
«La mia prima azione concreta come presidente sarà riformare l’apparato economico verso uno sviluppo che si basi sull’equità sociale. E non sto parlando solo di macroeconomia: deve crescere l’economia personale, familiare, il cambiamento deve farsi sentire nel portafoglio di ogni cittadino» aggiunge senza mezze misure. «Metteremo in atto una riforma agraria integrale che, oltre a ridistribuire terre ai contadini, li assista con forme di microcredito, protezione dal mercato, attenzione alla loro educazione, alla salute». Qual è l’obiettivo finale? «Ottenere un migliore sviluppo umano per tutti, senza discriminazioni, partendo dallo sradicare l’alta percentuale di povertà estrema».

La prima impressione è che le parole di Lugo non siano semplici promesse elettorali. A confermarlo il fatto che l’ex vescovo sia stato candidato da una serie di partiti di differenti origini, dai socialisti ai liberali, ma soprattutto da ben sette movimenti della società civile, che conoscono da vicino il suo operato avendo collaborato con lui in passato. «Lugo era l’uomo giusto al momento giusto, una figura che ha messo in moto una nuova riflessione nel paese e ha rotto a 360 gradi gli schemi politici anchilosati del passato» suggerisce Enrico Garbellini, cornoperante in Paraguay del Movimento laici America Latina (Mlal), che gestisce un progetto di sostegno agricolo a 3 mila famiglie di contadini del Chaco, un’immensa quanto desolata area che copre il 60% del territorio del paese e raccoglie solo il 2% degli abitanti.
La coalizione che ha fatto vincere Lugo è l’Alianza patriótica para el cambiamento, ma il movimento di cittadini che per primo lo ha sostenuto è il Tekojoja, parola che in guaraní (una delle due lingue ufficiali del paese, parlata più dello spagnolo, 94% contro 75%) significa «unità». «La mia scelta è stata ancora più avvalorata dall’appoggio di tante persone comuni: mi hanno fatto capire che un altro modo di fare politica è possibile» aggiunge Lugo, parafrasando il motto delle grandi mobilitazioni dei Forum sociali mondiali, da Porto Alegre a Mumbay, da Caracas a Nairobi. L’ex vescovo, e con lui la società civile del Paraguay, è riuscito a portare ai massimi livelli un modello, quello nato in seno ai Forum, che è fino ad oggi fallito in molte altre parti del mondo, soprattutto in Europa.
Qual è il segreto del successo? «Nessun segreto. Siamo riusciti a rendere la democrazia da rappresentativa a partecipativa. È quello che sta succedendo in America Latina da quasi un decennio, con l’avvento di nuove figure», spiega Lugo.
La lista di questi nuovi carismi è lunga: Lula in Brasile, i Kirchner in Argentina, Chavez (una figura però spesso discussa per il suo populismo e gli eccessi di antiamericanismo) in Venezuela, la Bachelet in Cile, Correa in Ecuador e Morales in Bolivia. «In generale, noto un crescente interesse per approfondire il concetto di democrazia, che non funziona solo tramite leggi o decreti, ma nasce da un nuovo soggetto politico, la società civile appunto, che esige uno spazio proprio sempre più ampio dove poter contare. Questo in Europa non è successo, le idee altermondialiste non hanno prosperato come molti speravano» analizza il neopresidente del Paraguay.
«Questa nuova onda creata dalla partecipazione attiva alla vita politica è in continuo avanzamento, e dalle nostre parti sta dando alla democrazia di oggi una ricchezza inestimabile. Da semplice oggetto nelle mani di poche persone al potere, la cittadinanza è diventata oggi la protagonista del proprio destino: reputo questo cambiamento la principale rivoluzione del xxi secolo».

Parole forti, dirette. Nel suo stile di vescovo abituato ad avere a che fare con problemi concreti, necessità profonde delle centinaia di suoi fedeli. Quei fedeli a cui ha dovuto dire addio un anno e mezzo fa, quando ha maturato la scelta di cambiare vita.
Su questo tema Lugo si sofferma volentieri, nonostante si trovi in una situazione delicata, soprattutto nei suoi rapporti con il Vaticano, tanto che due giorni dopo la vittoria ha chiesto ufficialmente scusa al papa per la sua richiesta di riduzione allo stato laicale, richiesta che gli era stata respinta; rimane invece la sospensione a divinis, cioè, la proibizione delle funzioni sacramentali.
«Della mia rinuncia al servizio di vescovo per dedicarmi in modo attivo alla politica si è parlato molto. E anch’io ho discusso molto con me stesso – confessa Feando Lugo -. Il 18 dicembre 2006 ho comunicato la mia decisione, ma devo confessare che la notte precedente, il 17, è stata la più lunga di tutta la mia vita. Non è stato per niente facile, non è facile lasciarsi alle spalle 30 anni di vita religiosa, totalmente dedicata alla chiesa, per poi decidere un giorno di abbandonarla e buttarsi in un’altra attività».
«Oggi, a distanza di tempo – continua il neopresidente, rivelando più apertamente i suoi sentimenti – mi sento felice, perché non ho alcun timore nel muovere i miei passi. Mi emoziona il contatto con le persone che incontro ogni giorno e sentire la speranza che suscita in loro il mio nuovo ruolo politico».
E sulla sua condizione attuale dice: «Penso di essere il primo vescovo della storia che rinuncia alla sua posizione per dedicarsi al 100% alla politica. Ho svolto i 30 anni della mia opera sacerdotale sempre in comunità rurali povere, o meglio impoverite, e ho sentito molto da vicino le loro privazioni, i loro dolori: ecco le radici del mio cambio di vita. Ho capito che la sola azione pastorale non era sufficiente, c’era bisogno di un impegno ancora più diretto. Per questo ho intrapreso la strada della politica».
Nel dire questo, Lugo non nasconde il suo terreno di formazione: «Sono un uomo religioso, fortemente influenzato dalla dottrina sociale della chiesa e dalla teologia della liberazione, che sono le fonti ispiratrici del mio pensiero e delle mie azioni».
Per molti, Feando Lugo ha raccolto l’eredità di monsignor Oscar Romero, l’arcivescovo salvadoregno ucciso da sicari governativi nel 1980 per la sua difesa incessante degli ultimi. La speranza è che, a differenza di Romero, il destino dell’ex vescovo paraguaiano prenda altre strade, quelle di un’America Latina finalmente libera dal terrorismo degli anni bui di quasi tutta la sua storia.
L’avere attorno a sé governi «amici», con cui raggiungere accordi in vari settori, di certo, può aiutare il Paraguay ad alleviare molti dei suoi problemi attuali; anche di questo aspetto il neopresidente non esita a parlare: «Mi rendo conto che il nostro è un piccolo paese tra vicini molto grandi e potenti, tanto che il nostro più celebre scrittore nazionale, Augusto Roa Bastos, lo descrisse come “un’isola circondata da terra”. Ma non ci sentiamo affatto isolati. Oggi vogliamo essere parte di questo cambiamento in atto nel continente, ovvero di un mondo in pieno processo di integrazione, che cerca con disperazione un destino migliore attraverso cammini diversi dal passato, che nascono da una sorta di “unità nella diversità”, che si riflette anche nei rapporti tra i vari leader».
A chi si sente più vicino Lugo? A Lula, che ha incontrato una settimana prima del voto? O a Chavez, che ha dichiarato di stimarlo molto? «Non ho una predilezione per l’uno o per l’altro – è la franca risposta dell’ex vescovo -. Non si cada nell’errore di cercare le similitudini fra me e loro: io rispetto tutti e mi aspetto di essere rispettato».

Il 15 agosto prossimo, giorno del passaggio di consegne tra governo uscente e nuovo, Feando Lugo siederà per la prima volta sulla poltrona presidenziale. Come arriverà a tale data? «Consapevole del grande compito che mi spetta, in primo luogo, voglio cancellare la corruzione radicata nel sistema e tradurla in onestà, per far capire ai giovani che il Paraguay è un posto dove poter rimanere a lavorare (oggi un giovane su cinque non ha un lavoro, ndr) e mettere su famiglia. La sola idea di partecipare alla costruzione di una società nuova è già di per sè una motivazione molto importante, che li può spingere ad amare il proprio paese anziché scappare altrove».
Il «vescovo dei poveri» ce la farà a essere il «presidente di tutti»? «Di sicuro l’inesperienza politica può essere un deficit per Lugo, per questo è importante che si circondi di buoni consulenti che giorno per giorno gli stiano a fianco nelle numerose battaglie che si troverà di fronte, su tutti i livelli» riprende il cornoperante del Mlal Garbellini.
Forse, da solo non ce la può fare; e comunque, se ne uscirà a testa alta, questa sua incredibile ascesa rimarrà un’esperienza che non può che far ben sperare a quanti credono nella politica sana, totalmente dedita ai bisogni della cittadinanza e non ai propri interessi.
Forse, la stessa chiesa cattolica lo rivorrà come vescovo. Forse no. Ma quella di Feando Lugo, primo vescovo-presidente della storia dell’America Latina e del mondo, rimarrà una conquista fondamentale nel campo dei diritti civili della società modea. La conferma sta nelle ultime parole che Lugo ci rivolge: «La tranquillità della mia coscienza e l’empatia verso la mia gente sono gli stimoli più grandi che posseggo in questo momento. Che mi chiamino ancora monsignore, come accade, o semplicemente Feando o signor Lugo, non ha importanza, ciò che importa è il rispetto e l’affetto che uno si è guadagnato nel tempo. Per quello che sento attorno a me, non posso che ritenermi soddisfatto. Vivo il mio nuovo cammino tenendo sempre in mente queste parole di papa Pio xi: “La politica è l’espressione più sublime dell’amore”».
Buona fortuna, Feando! 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Un Chicco di grano per la vita

La missione di padre Adalberto coninua … oltre la morte

Missionario della Consolata per oltre 30 anni e per altri 5 incardinato nella diocesi di Dar Es Salaam, padre Adalberto Galassi fu stroncato da infarto a 61 anni, nel 2002. I familiari e tanti amici hanno raccolto il testimone e continuano a sostenere i progetti da lui avviati nella missione di Kibiti. 

Quando guardo il manifesto del Consorzio agrario provinciale di Macerata, mi vengono alla mente due «icone» della mia fanciullezza. Nella prima c’è un’Apetta, guidata da un passionista che, nei giorni della trebbiatura, arrivava puntuale sull’aia per la questua: apriva il sacco, i contadini vi versavano alcuni chili di grano e il frate se ne andava ringraziando e benedicendo.
Nella seconda c’è una vecchia Fiat 500, in cui scompariva la bassa statura del mio parroco, don Giulio. Anche lui arrivava sull’aia, attaccava un sacco a una bocchetta della trebbiatrice, ve lo lasciava per una decina di minuti e intanto gridava: «Butta giù!», sventolando un pacchetto di sigarette per incoraggiare gli operai a gettare nel battitore più covoni possibili.
Erano gli anni del dopoguerra. I contadini avevano pochi soldi in tasca, per cui risultava più naturale fare la carità o sostenere le opere della chiesa con doni in natura. Oggi il grano passa dal campo al consorzio quasi in un baleno, senza quell’atmosfera romantica della trebbiatura di quei tempi; rimane tuttavia il senso di solidarietà degli agricoltori; per questo il Consorzio agrario di Macerata ha organizzato «una raccolta di beneficenza in “cereali” da donarsi alla missione di Kibiti-Tanzania di padre Adalberto Galassi».
E funziona: ogni anno vengono raccolti più di 200 quintali di grano, che, tradotto in moneta e inviata al nuovo parroco di Kibiti, serve a comperare granaglie sul posto da distribuire ai più poveri o a sostenere i progetti rimasti incompiuti per la morte prematura di padre Adalberto.
I donatori maceratesi conoscono bene il defunto missionario, ma non sanno affatto dove sia Kibiti.

IN CAPO AL MONDO A DESTRA
Kibiti si trova al centro della zona costiera tanzaniana a sud di Dar Es Salaam. Facile a dirsi; ma arrivarci è un’altra cosa. Ne ho fatto esperienza in una piovosa giornata del 1997. Si lascia la città e s’imbocca la Kiliwa Road, strada dal nome altisonante, ereditato dall’amministrazione coloniale inglese, ma che di quel periodo non conserva più nulla. Per evitare le buche prodotte nell’asfalto dalle intemperie e dall’incuria, viaggiamo sulla terra battuta ai cigli della strada, zigzagando tranquillamente da destra a sinistra e viceversa, poiché non si incontrava anima viva.
Dopo circa150 km e oltre quattro ore di viaggio siamo finalmente nel villaggio di Kibiti: sembra di essere arrivati in capo al mondo. Svoltiamo a destra ed ecco la missione: una vecchia cappella e un dispensario nuovo di zecca, costruito e gestito dalle missionarie della Consolata.
La popolazione di questo sperduto angolo del mondo è prevalentemente musulmana, ma vi sono parecchi cristiani, di etnia makonde, fuggiti dal Mozambico fin dagli anni ‘60, quando in quel paese infuriava la guerriglia contro il dominio portoghese.
Un frate cappuccino olandese, di tanto in tanto si faceva 250 km dell’impercorribile Kiliwa Road, tanto era estesa la sua missione, per incontrare i cristiani. Poi costruì a Kibiti, al centro del territorio affidato al suo zelo missionario, una cappella e una casetta destinata a ospitare una piccola comunità di suore, che si prendessero cura della gente per troppo tempo dimenticata. Il suo sogno si è avverato nel 1991, due anni prima della sua morte, divorato da un tumore, quando quattro missionarie della Consolata vi si stabilirono e costruirono il dispensario.
Per sei anni le religiose hanno visto il prete, un altro cappuccino, solo la domenica, quando riusciva a venire a Kibiti per celebrare l’eucaristia e incontrare le sperdute comunità cristiane, finché all’inizio del 1997 è arrivato padre Adalberto Galassi, che, essendo senza casa, ha ricavato uno stanzino nella sacrestia: 6 mq che fungono da camera da letto, laboratorio e da cucina, quando rincasa troppo tardi.
Oltre alla cappella, il missionario ha poco da mostrarci, eccetto un paletto infisso al suolo, poco lontano dalla chiesetta, dove sarà scavato un pozzo per fornire acqua alla gente e al dispensario. Proprio in quel punto, alcune settimane prima, la bacchetta del rabdomante, padre Egidio Crema, venuto apposta da Iringa, si era agitata freneticamente, individuando una ricca vena d’acqua.

A SERVIZIO DEI FRATELLI
Adalberto è nato nel 1941 a Caldarola, uno storico e ridente paese nella Val di Chieti, affacciato sull’omonimo lago artificiale. Un luogo ideale per fare qualche scampagnata con i miei familiari, sempre accolti con calore e simpatia dalla famiglia Galassi, ben nota nel paese e in gran parte del maceratese: mamma Rosa e papà Vincenzo, quattro giovanotti, di cui Adalberto è il secondogenito, e una zia ostetrica, che ha aiutato a venire al mondo metà degli abitanti del circondario.
Finite le scuole elementari, Adalberto entrò nel seminario della diocesi di Camerino, in un momento in cui si respirava un’atmosfera di forte entusiasmo missionario. Proprio in quegli anni Giovanni Monti entrava tra i missionari della Consolata. Poco dopo, nel 1958, lo stesso direttore del seminario, mons. Attilio Marinangeli, all’età di 45 anni, entrava nello stesso istituto e l’anno seguente raggiungeva il Tanzania.
Non c’è dubbio che l’esempio del rettore abbia contagiato anche Adalberto. Terminati i corsi liceali, nel 1961 iniziò il noviziato tra i missionari della Consolata, continuò gli studi a Torino e venne ordinato sacerdote nel 1966 a Caldarola. Due anni dopo era in Tanzania, nella diocesi di Iringa, dove il suo ex rettore era amministratore apostolico, ma per pochi mesi ancora, perché minato da una grave malattia che lo portò alla tomba.
«Fortunato chi ti avrà come compagno in missione» gli aveva detto un giorno, quando era ancora a Torino, un suo compagno di classe, invidiando le sue doti pratiche, soprattutto in fatto di meccanica ed elettrotecnica. Sereno e generoso, padre Adalberto nascondeva elogi e complimenti con un timido sorriso e una battuta di humour quasi inglese.
Arrivato in Tanzania con pochi effetti personali e una cassetta di attrezzi di ogni genere, fu subito richiesto dai confratelli per un’infinità di lavoretti pratici, dove si richiedevano mani esperte. «Le radioline di tutte le missioni sono passate tra le sue dita» racconta un confratello.
Nel 1973 i confratelli lo elessero consigliere della direzione regionale del Tanzania; gli fu affidato anche l’incarico di amministratore regionale, facendosi stimare per la sua «serietà e onestà a prova di bomba», come afferma un confratello, di solito non prodigo di elogi.
Nel 1979 fu destinato a Dar Es Salaam, come procuratore: un servizio importante e delicato, che comporta contatti con ambasciate, disbrigo di pratiche burocratiche e amministrative a favore del personale impegnato nelle missioni della Consolata e di altri istituti, accoglienza e accompagnamento di missionari, volontari, medici… venuti in città per acquisti o altre urgenze.
A troncare tale servizio, nel 1988, fu una brutta avventura: una sera, un energumeno, forse in preda all’alcol o alla droga, irruppe nel suo ufficio e gli assestò due colpi di machete alla testa; padre Adalberto riuscì ad attutire i colpi riparandosi con un braccio; ma le gravi ferite ricevute lo costrinsero a venire a Torino per farsi curare.
Ce l’ho ancora davanti agli occhi, con la testa avvolta in una retina bianca per tenere ferma la fasciatura. Anche di questa disavventura sapeva ridere e scherzare. Ma mi raccomandava: «Non dire niente a nessuno, neppure ai tuoi, perché non lo venga a sapere la mamma: ne soffrirebbe troppo». Solo quando fu guarito toò a casa, con vistose cicatrici sulla parte sinistra del viso e della testa, e cercò di tranquillizzare i suoi familiari.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
Nei 15 anni a servizio della missione come amministratore e procuratore, padre Adalberto era venuto a contatto con tante situazioni di povertà e abbandono, soprattutto nella zona a sud di Dar Es Salaam, dove si recava nei momenti liberi a prestare qualche servizio religioso. Era quello il tipo di missione da sempre sognato: vivere con la gente e come la gente del posto, condividee sofferenze e difficoltà, testimoniare concretamente amore e solidarietà.
Nel 1989 chiese ai superiori di affidargli una missione di quel genere. Fu invece sballottato da una missione all’altra: Matembwe, Pawaga, Kibao, Makambako, spesso per sostituire i missionari che andavano in vacanza. Finché nel 1997 chiese di andare nella missione di Kibiti.
La mancanza di personale rendeva impossibile aprire una nuova missione, tanto meno in una zona dove le autorità musulmane vedevano i cristiani con fumo negli occhi. Tuttavia, a malincuore i superiori lo lasciarono libero nella sua scelta, per mettersi, secondo le regole canoniche, sotto la diretta responsabilità del cardinal Pengo vescovo di Dar Es Salaam.  
Con una Land Rover scassata, cominciò a visitare i villaggi, radunare i cristiani emigrati dal Mozambico, stringere amicizie con i capi locali, prendere visione delle necessità della gente e abbozzare i primi progetti, che, in un breve viaggio in Italia, presentò a varie parrocchie e conoscenti per reperire i fondi necessari.
La prima urgenza della missione era promuovere la convivenza pacifica tra musulmani e cristiani. Un’opera già avviata dalle suore, presenti a Kibiti da sei anni. Dopo numerosi incontri è nata l’associazione Uwawaru, un acronimo di termini swahili che in italiano stanno per «Unione di musulmani e cristiani del Rufiji». Scopo dell’associazione è la coltivazione razionale dei cereali nel distretto di Rufiji, creando così lavoro e risorse alimentari per combattere indigenza e malnutrizione.
Un’altra urgenza ad attirare l’attenzione di padre Adalberto è stata la cecità epidemica, causata da un insetto microscopico, che infesta tuttora una vasta zona della sua missione. Per combattere tale epidemia, accettata dalla gente come una fatalità, egli avviò il progetto denominato semplicemente «Cure agli occhi». Contattati i medici della Cooperazione internazionale, che si offrirono di eseguire le operazioni agli occhi gratuitamente, cominciò a portare i pazienti accollandosi le spese di viaggio e di degenza nella struttura sanitaria.
Con un’altra iniziativa, chiamata «Progetto donna», mirava a salvare le partorienti denutrite e bisognose di speciali cure per sopravvivere insieme alla propria creatura. Le andava a prelevare nei villaggi più lontani per portarle al dispensario o, quando era necessario, farle ricoverare in ospedali più attrezzati a Dar Es Salaam.
Altrettanto a cuore gli stavano i giovani: con il progetto «Adozione studenti» li aiutò nella frequenza scolastica, con la quale potevano liberarsi da ignoranza e pregiudizi.
Con l’aiuto delle parrocchie della città di Macerata e della diocesi di Camerino, oltre a sostenere i suoi progetti, era riuscito a procurarsi un mezzo di trasporto più efficiente. Ma una notte fu assalito dai ladri, che lo legarono, lo percossero duramente e rubarono la macchina nuova insieme alla vecchia Land Rover delle suore.
Anche in questa occasione non disse nulla ai familiari, ma confidò il suo sconforto a un suo compagno di seminario, che gli pagò il biglietto dell’aereo per tornare in Italia e lo sostenne nel raccogliere i fondi necessari per continuare i suoi progetti.
Tre mesi dopo era di nuovo al volante con più entusiasmo che mai e senza risparmiarsi: portò a termine la realizzazione del pozzo, moltiplicò i trasporti di giovani non vedenti a Dar Es Salaam, si prodigò per procurare cereali per tanta gente, ridotta alla fame da un parassita che aveva distrutto le coltivazioni di granoturco.
Al tempo stesso progettò la costruzione di una modesta abitazione per accogliere un prete locale, promesso dalla diocesi per aiutarlo nella sua missione. I familiari spedirono materiale vario per realizzare la casetta; due suoi fratelli promisero di recarsi a Kibiti per eseguire i lavori di muratura, impianto elettrico a pannelli solari, condotte dell’acqua…
Mancavano pochi giorni alla partenza quando, il 14 settembre 2002, padre Adalberto fu colpito da grave infarto. Per una decina di giorni cercò di stare calmo, finché accettò di essere ricoverato all’ospedale di Dar Es Salaam, da dove i familiari furono avvisati dell’accaduto via fax.
Convinto a ritornare in Italia, fu ricoverato all’ospedale di Macerata, dove pregava i medici di guarirlo in fretta, perché a Kibiti lo aspettavano tante opere incompiute. Il suo recupero lasciava sperare per il meglio; invece, tornato in famiglia, fu colpito da un nuovo infarto: il 24 novembre padre Adalberto si spegneva serenamente tra le braccia della madre. «Il Signore ha visto tutta la sua vita, intessuta di grandi sofferenze e tante giornie, e ha deciso di premiarlo, chiamandolo con sé in paradiso» diceva mamma Rosa, accettando con tanta fede quest’ultimo sacrificio, consolando i familiari per la grave perdita.

LA MISSIONE CONTINUA
Mentre Adalberto era ricoverato all’ospedale e raccontava ciò che gli era accaduto, uno dei familiari ebbe un accento di rimprovero, quando sentirono che, il giorno dopo l’infarto, si era recato a una quindicina di chilometri, per consegnare dei soldi all’autista del pullman che doveva portare a Dar Es Salaam 40 ragazzi ciechi, per essere sottoposti a interventi chirurgici. «Senza soldi l’autista non sarebbe partito – rispose padre Adalberto -. Vi sarei andato anche carponi! Non potete immaginare cosa può provare una persona, soprattutto giovane, che riacquista la vista dopo aver vissuto per anni nella cecità».
Di fronte a tanta tenacia, i familiari decisero di continuare le opere avviate da padre Adalberto. Presi i contatti con la diocesi di Dar Es Salaam, le suore e il nuovo parroco di Kibiti, fu mantenuta la promessa fatta a suo tempo: andarono nella missione per costruire la nuova abitazione.
Gli altri progetti cari al missionario scomparso furono presentati a un centinaio di benefattori, tra singoli e associazioni (comunità e gruppi parrocchiali, centri missionari, caritas, organizzazioni sindacali e produttive…) che risposero all’appello e continuano la missione di padre Adalberto.
Il progetto «Cure agli occhi» ha già restituito la vista a oltre 4 mila persone, soprattutto giovani e bambini; il «Progetto donne» ha salvato la vita a centinaia di mamme e bimbi; l’«Adozione studenti» mantiene a scuola varie decine di alunni (ragazze e ragazzi) dalle scuole primarie alle superiori.
Visti i risultati, sembra che, appena arrivato in cielo, il missionario si sia rimesso subito al lavoro: nel maggio 2003, a sei mesi dalla sua morte, l’Associazione Uwawaru è stata riconosciuta dal governo tanzaniano; e l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo) ha cominciato a fornire il suo apporto istituzionale, gestionale e di assistenza tecnica. Nello statuto di questo primo progetto di padre Adalberto sono stabiliti anche i seguenti scopi: assistere orfani e disabili, combattere fame e malnutrizione, senza proselitismo e nel rispetto delle proprie convinzioni religiose. La realizzazione di tali principi può diventare un esempio da imitare, non solo per la popolazione del Tanzania, ma anche per quelle dei paesi confinanti. 

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Col favore delle stelle

Reportage dal paese asiatico «normalizzato» (cfr. MC, dicembre 2007)

A 7 mesi dalla repressione delle proteste contro il regime militare il paese è tornato alla «normalità»: monaci deportati o imprigionati, abbuffata di affari in barba all’embargo, opposizione divisa, minoranze etniche in fermento, generali al potere più vecchi.  Un futuro più democratico dipenderà dal cambio di generazioni, sia tra i militari che nei partiti… Cina e India permettendo.


L’aereo della Thai atterra all’aeroporto di Yangon. Sono pochi mesi che manco dal Myanmar, eppure, appena uscito dalla carlinga, noto già qualcosa di differente rispetto all’ultima visita: la hall degli arrivi e delle partenze è nuovissima, appena inaugurata, in attesa di ospitare turisti e uomini d’affari che, per ora, tardano ad arrivare. «Ma è solo questione di tempo – afferma un imprenditore singaporeano, incontrato durante il breve viaggio da Bangkok -. Le economie mondiali non possono ignorare un paese ricco e praticamente vergine come il Myanmar».
L’uomo d’affari ha ragione: quanto potrà resistere il mercato, sempre alla disperata ricerca di nuove opportunità di investimenti, prima di spartirsi questo lembo di terra paradisiaco? Più di 600 mila kmq disseminati di ogni primizia terrena, pronta a trasformarsi in moneta sonante: dalle pietre preziose alle foreste di tek, da fiumi impetuosi, potenziali generatori di energia elettrica, a giacimenti di gas naturale, carburante di economie che per sostenersi devono fagocitare milioni di metri cubi di idrocarburi.
ANTIPASTO PER IL TURISMO
Per non parlare del fascino esotico che le pagode e le culture di semisconosciute etnie tribali emanano nell’immaginario collettivo. Una manna per i tour operator, smaniosi di presentare ad annoiati vacanzieri nuove esperienze, nuove terre «inesplorate», nuove avventure da declamare ai colleghi e agli amici.
Sull’onda delle proteste inteazionali scaturite dalla repressione del governo, le agenzie di viaggi si sono trovate costrette, loro malgrado, a sospendere i tour nel paese. Per anni, il boicottaggio, decretato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, era stato aggirato, ma il drastico calo di prenotazioni dei viaggi in Myanmar da parte dei turisti, ha indotto numerose agenzie a depennare dal catalogo un nome che sarebbe divenuto per lo meno scomodo. Ma, come sempre accade, appena l’indignazione popolare è scemata e l’attenzione si è spostata altrove, le pagine che presentano le meraviglie del paese sono ricomparse. Magari aggiungendo una quota destinata a qualche progetto umanitario per mettere in pace la coscienza. No, è chiaro a chiunque che il Myanmar non potrà essere relegato a lungo nel limbo dell’embargo e del boicottaggio. Del resto non lo è mai stato e neppure ora, dopo la ola di biasimo che si è innalzata da mezzo mondo a seguito della violenta risposta dei militari alle manifestazioni dei monaci, lo sarà.
La nuova ala dell’aeroporto di Yangon, con gli schermi al plasma Samsung, l’aereo della Lauda Air parcheggiato poco distante, i due MiG 29 russi che sfrecciano nel cielo azzurro, sono solo l’antipasto della chiara dimostrazione che il mondo economico non ha mai chiuso le porte alla giunta militare.

INDIGESTIONE DEGLI AFFARI
Se l’aeroporto è l’antipasto, in città ecco l’indigestione. Gli incroci principali di Yangon mostrano i cartelli pubblicitari delle ditte che hanno sfidato apertamente l’embargo: Total, Alcatel, Chevron, Mitsubishi, Sony, Daewoo, Suzuki, Siemens. Sono solo alcune delle multinazionali che agiscono senza veli nel paese, nonostante le dichiarazioni ufficiali dei vari parlamenti europei, nonostante le proteste pubbliche, nonostante il boicottaggio. Non esistono sanzioni verso queste aziende; ma se si scava in qualsiasi ditta birmana, compare subito un qualche socio europeo o americano.
Nessuna economia vuole rischiare di perdere il Myanmar e le sue ricchezze. E se ufficialmente non si può trattare direttamente con la classe imprenditoriale del paese, legata a doppio filo con i generali dell’Spdc (acronimo per Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo), si trova sempre un mediatore compiacente.
Per l’Italia, ad esempio, il principale intermediario con cui scardinare la saracinesca che impedisce il commercio diretto con il Myanmar, è Singapore. Tramite questa minuscola repubblica, centinaia di aziende nazionali costruiscono hotels, vendono macchinari, esportano materie prime, compartecipano alla gestione di aziende che creano profitti sfruttando la manodopera a basso costo del paese. Insomma, nonostante si neghi ogni coinvolgimento, anche noi facciamo affari d’oro con i generali. Lo dimostra, del resto, anche il documento redatto dalla Cisl, in cui sono elencate più di un centinaio di aziende che hanno rapporti commerciali con il Myanmar.

I MONACI «SCOMPARSI»
Poco importa all’economia, a noi, al nostro portafoglio, se i monaci nelle principali città della nazione, sono drasticamente diminuiti, come conseguenza delle misure intraprese dal governo dopo che, nell’autunno 2007, le strade di Sittwe, Yangon, Mandaly, Pakkoku si erano colorate di arancione e le urla di protesta contro la giunta militare si erano levate dalle pagode. Sono stati migliaia i religiosi deportati a forza dal Tatmadaw (le Forze armate birmane), mentre altri, per prevenire le repressioni, si sono rifugiati volontariamente nei monasteri dei villaggi d’origine, da dove provenivano.
«È difficile quantificare il numero esatto di morti e di prigionieri» mi dice un bonzo, stretto collaboratore di U Gambira, leader dell’«Alleanza di tutti i monaci birmani», ancora imprigionato per essere stato riconosciuto come uno dei leaders delle rivolte. «Ma pensiamo che le cifre siano maggiori di quelle date dal governo». Poi azzarda dei numeri: più di 700 arrestati stanno ancora marcendo nelle carceri birmane, mentre oltre ai 22 morti, ufficialmente dichiarati dal governo, se ne dovrebbero aggiungere 140 di cui non si hanno notizie.  
Un bilancio tragico, è vero, ma pur sempre limitato se pensiamo che nel 1988 le manifestazioni studentesche vennero disperse al costo di migliaia di vittime. Inutile, però, tentare di fare un raffronto con i cortei di 20 anni fa e quelli del 2007. Tempi e protagonisti sono totalmente differenti. Tra le toghe arancioni che hanno sfilato l’anno scorso non si sono viste immagini del generale Aung San, non si sono levati canti patriottici, non c’erano giovani universitari.

L’OPPOSIZIONE DIVISA
La stessa Lega nazionale per la democrazia (Lnd), il partito di Aung San Suu Kyi, ha brillato per la sua assenza. Anzi, è riuscita a fare anche di peggio: nei primi giorni delle dimostrazioni, quando ancora erano poche decine i coraggiosi dimostranti che sfidavano i militari, U Lwin, segretario del partito, dichiarava a Radio Free Asia che «le proteste sono di piccola portata e non possono risolvere i problemi del paese… Ci sono molte persone che non prendono parte alle proteste. Come possiamo sapere se i manifestanti sono una reale espressione della volontà della maggioranza del popolo?».
Parole che hanno lasciato tutti sconcertati, anche perché i maggiori esponenti della cosiddetta Generazione 88, i veterani delle manifestazioni del 1988, erano stati arrestati da pochi giorni. C’è voluta ancora Aung San Suu Kyi, quando si è affacciata brevemente dalla sua casa, per riconciliare il partito con il popolo. Ma le dichiarazioni di U Lwin dimostrano quanto distante sia anche l’opposizione dalle reali esigenze della gente.
Gli appelli acritici a favore dell’Lnd e contro la giunta militare birmana levatisi da numerose piazze europee si scontrano da una parte con la sfiducia che operatori umanitari stranieri e intellettuali birmani all’interno del Myanmar nutrono verso i leaders dell’opposizione e dall’altra con la necessità della nazione di avere un esercito forte per restare unita.
«L’opposizione è fortemente disunita e i membri dell’Lnd non sono poi molto differenti dai militari – afferma uno storico birmano pur simpatizzante di Aung San Suu Kyi -. Guardo con apprensione il giorno in cui il popolo acclamerà la raggiunta democrazia, perché allora si aspetterà stravolgimenti economici e sociali che nessuno è in grado di garantire a breve termine».
La stessa «Lady», all’inizio della sua carriera politica, subodorando la possibilità che alcuni membri del partito sfruttassero la loro posizione per fini personali, avvertì che «alcuni politici cercano di aiutarmi in vari modi. Io voglio essere chiara con loro, dicendo che se lo fanno per ottenere posizioni di potere per loro stessi, non li appoggerò in alcun modo». Una pura. Una delle poche.
Mi consolo con quello che mi ha riferito un comico bandito dal regime, quando gli ho confessato gli stessi dubbi: «Ci salverà la religione buddista, la fede inconscia e profonda dei birmani verso il fato e verso la magia. Se qualcosa non andrà come ci si aspetta, potremo sempre dire che era destino, che le stelle non erano favorevoli. E diremo loro di aspettare…».
Tutto in Myanmar rotea attorno all’astrologia, in particolare la politica. Se il 9 è il numero considerato fortunato dai militari, l’8 lo è per l’opposizione. «Forse dobbiamo solo cambiare numero magico…» continua il comico. L’8, infatti, non ha portato molta fortuna ai dissidenti, visto che le manifestazioni iniziate l’8 agosto (8° mese dell’anno) 1988 alle ore 8.08 del mattino, sono terminate in un bagno di sangue.

LE ETNIE DIFFIDENTI
Ma il principale problema del futuro del Myanmar non si può dire sia la corruzione o la divisione intea che frantuma l’opposizione: è qualcosa di ben più grave, che affonda le radici nella base sociale stessa della nazione. Il paese è, infatti, un crogiuolo di etnie, ognuna con i propri dialetti, credenze, tradizioni, leggende e, soprattutto, fondanti su identità nazionali diverse e autonome da quella bamar, la principale etnia del paese.
Il nome stesso Birmania, utilizzato sino al 1989 anche in sede internazionale, non è altro che la storpiatura inglese di bamar. Il cambio di nome voluto dal regime identifica con più ampio respiro l’effettiva sovranità interetnica dello stato, che sin dalla sua nascita, ha dovuto combattere contro le fortissime istanze secessioniste che arrivavano dalla periferia.
Le manifestazioni del 2007 sono state pressoché ignorate nelle regioni non bamar, che non accettano neppure Aung San Suu Kyi come possibile capo di stato nel caso le fosse data questa remota possibilità. «Aung San Suu Kyi è una bamar e come tale non farebbe altro che cercare di perpetuare il potere bamar sui nostri stati, esattamente come sta facendo oggi l’Spdc» argomenta un leader karen.
Del resto, se si analizzano a fondo i risultati elettorali del 1990, liquidati dai mass media declamando semplicemente la vittoria dell’Lnd, ci si troverebbe dinanzi a un quadro allarmante della situazione del paese. Di fronte a un 58,7% di voti a favore della Lega nazionale per la democrazia, quasi tutti per altro ottenuti nelle regioni centrali del paese (la Birmania vera e propria), i partiti indipendentisti a base etnica hanno ottenuto un sorprendente 16,2% a livello nazionale, che, parametrato su base regionale, si innalza a valori altissimi. Basti dire che il principale partito etnico alleato all’Lnd, lo Shan Lnd, ha raggiunto appena l’1,7%, dimostrazione di quanto debole sia il legame che unisce qualsiasi tipo di politica dettata da Yangon alle zone di confine.

I GARANTI DELL’UNIONE
Per questo le richieste di allontanamento immediato dei militari dai centri decisionali, tanto invocato in Occidente, hanno ben poco senso e dimostrano quanto poco si conosca il Myanmar. Solo un esercito forte è in grado di mantenere uniti gli stati che compongono l’Unione. La stessa Aung San Suu Kyi ha ripetuto, sin dal primo comizio del 26 agosto 1988 di fronte alla Shwedagon Pagoda, il suo rispetto per un’istituzione fondata da suo padre e indispensabile per l’unità del paese: «Ho un forte senso di attaccamento al Tatmadaw – disse in quel frangente -, non solo perché è stato voluto e fondato da mio padre, ma anche perché da bambina i soldati di mio padre mi accudivano». Traducendo in altre parole, il senso della frase sarebbe questo: come i militari hanno accudito me, possono proteggere anche voi e la nazione intera. «Solo i militari possono garantire lo status quo della Birmania» spiega Win Min, professore di Storia birmana all’Università di Chiang Mai, in Thailandia.
Non è una questione esclusivamente nazionale: la disgregazione birmana creerebbe pericolosi squilibri regionali che nessuno vuole. Una eventuale indipendenza di uno qualsiasi degli stati dell’Unione, potrebbe innescare un pericoloso senso nazionalistico anche tra le etnie cinesi dello Yunnan e quindi di altre regioni critiche come il Tibet e lo Xinkjiang, mentre la Thailandia sarebbe costretta a rivedere la sua politica verso le minoranze del nord, da sempre bistrattate. Infine l’India dovrebbe contrastare i forti movimenti indipendentisti assamiti, la cui sopravvivenza è garantita dalle basi che li ospitano negli stati Chin e Rakhine.
«Spiace dirlo, ma il Tatmadaw (forze armate) è l’unica organizzazione in grado di garantire l’unità della nazione e la stabilità del Sud-Est asiatico» ammette un’importante personalità religiosa che preferisce mantenere l’anonimato.
Per questo, a parole tutti auspicano un ritorno di Aung San Suu Kyi, ma nessuno spinge perché si avveri. L’Unione Europea, dando ad un inutile Fassino il compito di rappresentarla presso il regime militare birmano, ha dimostrato quanto poco creda in un cambiamento radicale nella politica del paese. Non fa meglio l’Onu, con Gambari succube dell’Spdc. I vantati colloqui tra Suu Kyi e i generali, in realtà si riducono a formali scambi di battute senza senso e senza altro fine se non quello di dare in pasto ai media qualche notizia. La pasionaria birmana ha come interlocutore un militare di basso livello in pensione. Il classico due di picche quando la briscola è bastoni.

L’OCCASIONE PERDUTA
Ma anche Aung San Suu Kyi, pur relegata nella sua casa di University Avenue, ha gravi responsabilità sull’attuale situazione del paese. U Than Tun, ex esponente di spicco dell’Lnd, espulso nel 1997 dalla stessa Lady per essersi mostrato favorevole a un dialogo con i militari, mi confidò che «Daw (attributo di rispetto dato alle persone di sesso femminile, nda), è stata troppo intransigente. In Birmania occorre cogliere tutte le occasioni possibili per cambiare il corso della storia». Lei, l’eroina birmana, la sua occasione l’ha avuta nel 2004, quando il moderato e filocinese Khin Nyunt, aprì un dialogo con il plauso dell’Onu, della Cina e degli stessi Stati Uniti. Incomprensibilmente, fu Aung San Suu Kyi a ritrarsi, scatenando una ridda di polemiche e defezioni all’interno dell’Lnd.
«Non sappiamo ancora cosa l’abbia indotta a interrompere i colloqui con Khin Nyunt. Pensiamo che sia stata male informata dalle persone del partito che, allora, la consigliavano» spiega Beaudee Zawmin, portavoce del Goveo di coalizione nazionale dell’Unione birmana (Gcnub), il governo in esilio rappresentato anche all’Onu. Male informata o no, l’interruzione delle trattative favorì l’ascesa della fazione militare pro-indiana, guidata dal duro Than Shwe, l’attuale capo della giunta, che si premurò di epurare tutti i moderati, condannando lo stesso Khin Nyunt a 44 anni di carcere.
La democrazia in Myanmar è quindi irrimediabilmente perduta? No, non direi. I cambiamenti tanto auspicati arriveranno, questo è certo, ma solo dopo il cambio generazionale dell’attuale quartetto che comanda l’Spdc. Il dietrofront della Signora con Khin Nyunt ha solo rallentato la via verso la democrazia. Than Shwe e Maung Aye, le due figure di spicco dell’Spdc, entrambe ultrasettantenni e malate, non rimarranno ancora a lungo al potere.
Nessuno, però, conosce i papabili successori: Thura Shwe, numero tre del regime, ha pochi amici all’interno del Tatmadaw, mentre Thein Sein, primo ministro dal 24 ottobre 2007 e il militare più presente sui media nazionali, non è riuscito ancora a ritagliarsi uno spazio sufficiente per garantirsi il salto che lo porterebbe al vertice della giunta. Indispensabile sarà comunque l’appoggio a questa o quella fazione della Cina o dell’India, le due nazioni che più hanno influenzato la politica intea del Myanmar sin dalla sua nascita.
La storia insegna che i generali al potere, considerati intoccabili, sono stati spodestati da fazioni rivali che godevano dell’appoggio di Nuova Delhi (Ne Win e Than Shwe) o Pechino (Khin Nyunt). Un dialogo con i due colossi asiatici da parte dell’Occidente non farebbe altro che accelerare la ripresa del dialogo. Leaders birmani permettendo. 

di Piergiorgio Pescali

Facce vecchie del regime
Sono oramai 46 anni che in Birmania i vertici militari detengono il potere. Visto dall’esterno, il governo della giunta appare solido e unito: nel paese sono pochissime le voci che esprimono dissenso, i turisti che vengono scorazzati tra splendide pagode e monumenti non vedono grosse sacche di miseria, i sorrisi che li accompagnano ovunque mostrano la facciata di un popolo felice e sereno, i manifesti della propaganda riflettono un’unica via condivisa da tutti.
In realtà, rivalità individuali e frantumazione sociale rendono il governo assai più debole di quanto possa apparire. Neppure nell’atteggiamento da tenere verso Aung San Suu Kyi c’è unità di vedute. Lo dimostra la lunga serie di destituzioni, cambi di denominazioni e rimpasti al vertice avvenuti dal 1962 ad oggi. L’ultima, in ordine di tempo, si è consumata nel 2004, quando l’allora primo ministro, generale Khyn Nyunt, da molti indicato come colui che avrebbe traghettato il paese verso il pluralismo economico e politico, è stato posto agli arresti domiciliari.
Nessuno all’interno della Spdc può considerarsi intoccabile: Nyunt, ad esempio, era a capo dei potenti Servizi segreti, ma tale posizione privilegiata non lo ha preservato da una fine miserabile. Le informazioni in suo possesso non sono servite ad arrestare l’ascesa del suo più acerrimo nemico, quel generale Than Shwe che, partendo da un posto pubblico nelle poste birmane, è riuscito a mettere da parte prima il generale Ne Win e poi lo stesso Nyunt.

Molti analisti indicano nel rifiuto di Aung San Suu Kyi di accettare il dialogo offertole dal primo ministro, come una delle principali cause della sua caduta. Paradossalmente per questi osservatori (e per alcuni membri dell’Lnd poi espulsi dal partito per le critiche rivolte a Suu), l’intransigenza di Aung San Suu Kyi avrebbe favorito l’ascesa dell’ala dura dei militari. Oggi l’ottantenne Than Shwe è l’indiscusso presidente dell’Spdc e comandante delle Forze armate. Nonostante le sue apparizioni televisive cerchino di nascondere la paralisi al braccio dovuta a diversi attacchi di ischemia, è a tutti chiaro che la sua salute e, quel che è più grave, la sua mente, sono compromesse. In un suo discorso ha farfugliato che prima di morire non vuole vedere più una faccia bianca nel Myanmar e che nella nuova Costituzione vorrebbe reintrodurre la figura del re; ruolo che gli spetterebbe di diritto in caso di un suo ritiro dalle cariche militari.
Il suo vice, Maung Aye, potrebbe essere il successore di Than Shwe, ma il vizio di bere ha reso il suo fisico debole. Xenofobo, crudele, Maung Aye, oltre a essere contrario a ogni dialogo con Aung San Suu Kyi, è stato l’artefice degli accordi con i signori della droga in cambio di una pace con le diverse etnie.
Sono in molti, anche e soprattutto tra i militari, ad aspettare la morte di Than Shwe. È la sua presenza, infatti, che impedisce ogni cambiamento. La nuova generazione di militari, più moderata e incline al compromesso, è pronta a prendere le redini del potere per poi condividerlo con l’opposizione.

di Piergiorgio Pescali


Intervista con Beaudee Zawmin

Si commuove, Beaudee Zawmin, quando parla dei suoi concittadini oppressi in Birmania da un regime dispotico e dittatoriale. Lui, buddista cresciuto nelle scuole cattoliche di Rangoon, è uno dei pochi fortunati che, dopo essere fuggito alle pallottole dei militari, non ha mai smesso di lottare per la libertà del popolo che rappresenta. Oggi Beaudee è il volto di Aung San Suu Kyi nell’Unione Europea, l’esponente nel Vecchio Continente del governo in esilio della Birmania.

Signor Zawmin, dopo l’interesse per la rivolta delle toghe arancioni, la stampa italiana si è già dimenticata della Birmania.
Me ne sono accorto, purtroppo; eppure in Birmania si continua a soffrire. Migliaia di monaci sono ancora imprigionati, mezzo milione di persone accampate nei campi profughi in Thailandia e Bangladesh in condizioni pietose. All’interno l’economia è in sfacelo. Noi abbiamo bisogno della vostra attenzione e aiuto.

Oggi sembra che qualcosa si stia muovendo: oltre al rappresentante Onu, Gambari, Aung San Suu Kyi ha potuto incontrare alcuni membri della Lega nazionale per la democrazia e il dialogo con i militari sta procedendo.
Sono segnali positivi che fanno sperare in un futuro più roseo per il paese. I militari sembra si siano finalmente accorti che il popolo non è dalla loro parte. La pressione internazionale sui generali ha avuto il suo effetto, ma occorre continuare a mostrare loro che il mondo non si è scordato della Birmania.

È quindi tempo di abbandonare la propaganda e pensare a cose concrete. Avete già dei nomi da proporre per un eventuale governo di coalizione e per risollevare l’economia?
Abbiamo già dei nomi, ma non vogliamo forzare troppo le tappe.

Errori nel passato ne ha commessi anche Aung San Suu Kyi, il più evidente di tutti è il suo ostinato rifiuto di parlare con il moderato Khin Nyunt ritrovandosi oggi a dover dialogare con un dittatore come Than Shwe.
Sì, è vero. Abbiamo sbagliato e ne abbiamo pagato le conseguenze. Oggi, però, possiamo contare su una maggiore esperienza e su un movimento più giovane, snello e più pragmatico. È per questo che Aung San Suu Kyi ha accettato di dialogare con una giunta impresentabile come quella che oggi opprime il popolo birmano. È giunto il tempo di dare chiari segnali di speranza ai birmani.

L’immagine dell’Nld tra gli stranieri che vivono in Birmania non è così idilliaca come la si descrive in Occidente. Si teme che la corruzione e la carriera si siano insinuati anche tra molti dei leaders del partito.
Il pericolo della corruzione esiste ed è reale, ma oggi il principale obiettivo del partito è quello di raggiungere la democrazia e unirsi attorno ad Aung San Suu Kyi. Non possiamo garantire la cristallinità e la purezza, ma sappiamo anche che non possiamo permetterci di deludere il popolo.

Per far sopravvivere la Birmania alle lotte etniche che minano la sua unità, i militari dovranno mantenere un ruolo centrale anche in un futuro governo democratico. Siete disposti ad accettare la presenza dei generali?
L’esercito è una creazione di Aung San, l’eroe nazionale birmano e padre di Aung San Suu Kyi. Lei stessa ha sempre affermato di avere a cuore il futuro dei militari e tutti noi sappiamo che il paese ha bisogno di loro. Il problema sono i vertici che comandano le Forze armate. Ma sono vecchi e la nuova generazione ha una visione più ampia del mondo e della democrazia. È con loro che dialogheremo e costruiremo il futuro della nazione.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Minoranza «vigilata»

Chiesa cattolica in Myanmar

Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, è la figura più importante della chiesa cattolica birmana. Lo abbiamo incontrato a Pathein, città nella regione del delta dell’Ayerwaddy.

Arcivescovo, la vita dei birmani, dopo le manifestazioni del 2007, è cambiata?
In verità non ci sono stati molti cambiamenti: le manifestazioni hanno sicuramente lasciato il segno nel paese, ma il governo ha immediatamente «normalizzato» la situazione, fino ad affermare che tutto è tornato alla normalità e procede per il meglio. In realtà c’è stato uno screening attento su ogni monaco che si è riusciti a individuare dopo aver partecipato ai cortei: i più attivi e coinvolti sono stati imprigionati.

Mentre le manifestazioni erano al culmine, la Conferenza episcopale del Myanmar ha emesso un documento in cui si invitava i cattolici birmani a non partecipare alle manifestazioni. Mi scusi, ma non riesco a condividere l’idea di rimanere «fuori» in un contesto così importante. E, sentendo altri religiosi cattolici nel paese, anche loro sono rimasti spiazzati da tale documento.
La Conferenza episcopale ha invitato solo i preti e le suore a non scendere in strada aggregandosi ai cortei, lasciando ai singoli fedeli libertà di scelta. Il problema è che la chiesa cattolica in Myanmar è molto piccola e nel 1988, dopo aver appoggiato apertamente le proteste, ha subito enormi ripercussioni da parte del governo, faticando non poco a rimettersi in sesto. Per questo abbiamo chiesto ai nostri religiosi di unirsi alle preghiere.

Perché non avete invece chiesto l’immediato intervento della chiesa in Occidente e del Vaticano?
Il papa è intervenuto con un discorso trasmesso nei giorni più caldi delle dimostrazioni e le chiese di Hong Kong, Filippine e Thailandia hanno espresso duri giudizi nei confronti dei militari, appoggiando apertamente i manifestanti. Non si deve comunque dimenticare che le chiese cristiane sono state le uniche ad aver inviato un documento direttamente a Than Shwe affinché adottasse una soluzione pacifica e aprisse le porte al dialogo.

Ma nessun documento di condanna o di appoggio ai manifestanti è emerso dalla chiesa in Myanmar.
È vero, nessun documento ha condannato le repressioni e tantomeno ha espresso favore verso i monaci, ma occorre comprendere che la situazione della chiesa in Myanmar è assai differente da quella in cui si trovano altre chiese d’Oriente.

Ora siete in contatto con le comunità buddiste?
A livello privato. Ufficialmente non possiamo avere alcun contatto con loro, per i sospetti che creerebbe all’interno del governo. Sarebbe troppo pericoloso per loro e per noi.

Come giudica il ruolo dell’Onu e di Gambari nel processo di dialogo che ha con il governo?
Non siamo soddisfatti: l’Onu dovrebbe essere più incisiva. Ma come cristiani dobbiamo continuare ad avere speranza.

L’Spdc è un dinosauro anchilosato, che non mostra alcuna possibilità di smuoversi dalle sue posizioni. Solo la morte di Than Shwe potrebbe smuovere lo status quo?
Forse. La sua morte potrebbe cambiare qualcosa, ma altri tre o quattro generali sono subito pronti a rimpiazzarlo e nessuno sa quali siano esattamente le loro intenzioni.

Parliamo di remote eventualità: una partecipazione della Lega nazionale per la democrazia a un governo di coalizione potrebbe portare qualche cambiamento?
Lei parla di eventualità; io voglio parlare di realtà. E voglio anche essere chiaro: sono 60 anni che la Birmania si trova sotto dittatura militare. Non penso che, anche nel caso l’Lnd sia chiamato a condividere il potere con i militari, il sistema possa cambiare. È tutto troppo radicato. Radicato nell’animo delle persone. Di tutte le persone. Secondo me occorre rieducare, partendo dalle generazioni future, dalle scuole, dai più piccoli. Questo, come avrà capito, prenderà molto tempo. Inoltre ogni tipo di cambiamento nel paese dovrà essere graduale, non improvviso. Se i militari dessero tutto il potere all’Lnd e Aung San Suu Kyi, andremmo incontro a un periodo di enorme confusione. Questo lo ha capito anche  Aung San Suu Kyi, che non vuole isolare i militari escludendoli dal potere. La sua politica, molto saggia, è quella che lo cedano gradualmente. I birmani non sono pronti per la democrazia. La nazione andrebbe contro al caos più totale se i militari dovessero cedere completamente il potere.

Ha parlato di tempo: quanto ci vorrà, secondo lei?
Dipende dai militari. Non meno di 3-4 anni per iniziare la transizione. Ma devono sentirsi pronti alla cogestione del potere e sono sicuro che non lo sono. Non lo vogliono. Almeno sino a quando Than Shwe e la sua fazione sarà al potere.

Con Khin Nyunt c’è stata la possibilità che il Myanmar imboccasse una via democratica: è stata Aung San Suu Kyi, allora, a rifiutare il dialogo?
Khin Nyunt è stato arrestato nel 2004 e non si è mai capito il motivo. Sono due le possibili giustificazioni: il dialogo iniziato con Aung San Suu Kyi, che Than Shwe non voleva neppure iniziare o un progetto ideato dallo stesso Khin Nyunt per acquisire il totale controllo dei militari. In entrambi i casi è stato Than Shwe a sventare i progetti e prendere il posto di Khin Nyunt. Ma, ripeto, nessuno, tranne i vertici militari oggi al potere, sa esattamente per quale motivo il generale sia stato arrestato.

Ha parlato di una chiesa piccola e impotente: c’è qualcosa che può fare per indirizzare il Myanmar verso la democratizzazione senza cadere nel caos più completo?
La chiesa cattolica è l’unica organizzazione in Myanmar che ha un reale e costante contatto con la comunità internazionale. Neppure i buddisti possono avere contatti così capillari e influenti. Per questo il governo cerca di ostacolare in ogni modo la chiesa cattolica. Anche Aung San Suu Kyi ha ammesso che in Myanmar i birmani non hanno alcun potere.

Chi, oltre ai militari, può decidere il futuro dei birmani?
La comunità internazionale. E in Myanmar la chiesa cattolica ha l’influenza necessaria per far sì che la comunità internazionale agisca nei modi più opportuni.

Per sua stessa ammissione l’Onu, massima rappresentante mondiale, non sta agendo in modo soddisfacente.
Non esiste solo l’Onu…

Se parla dell’Unione Europea, non sarei tanto ottimista: come rappresentante per discutere con il governo birmano ha scelto un italiano che, dicono i dissidenti birmani residenti all’estero, ha una conoscenza superficiale dei problemi e la politica da lui adottata è, a dir poco, vergognosamente inutile. Come se non esistesse.
Anche noi abbiamo la stessa impressione…

Rimangono gli Stati Uniti, ma la loro ostilità verso i militari non permette di aprire un dialogo con loro…
Esattamente! Questo è il punto! Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leaders militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Usa in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi che potrebbero utilizzare per riportare il paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina, affinché induca i militari ad accettare i cambiamenti; seconda cosa, gli Usa devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti con il Myanmar.

La chiesa cattolica in Myanmar ufficialmente si è pronunciata contro l’embargo: come mai?
Sì, ufficialmente abbiamo detto di essere contrari all’embargo; non solo per il Myanmar, ma per tutti i paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma colpisce ancora di più i birmani. I militari riusciranno sempre ad aggirare l’embargo e fare soldi. Sono i semplici cittadini a non poterlo fare.

Cosa fate allora in concreto per alleviare le sofferenze dei birmani?
Essendo pochi e con poca influenza all’interno della nazione, non pretendiamo di cambiare il paese. Nel nostro piccolo, però, cerchiamo di educare la società al fine di renderla pronta per la svolta democratica. Questo nostro lavoro a lungo termine, è capito appieno dai militari: per questo ci è vietato organizzare servizi sociali su larga scala in Myanmar.

Continuiamo a parlare di Usa: ufficialmente Washington critica violentemente la giunta, ma a Yangon ha costruito un’ambasciata immensa e ultramodea a pochi metri dalla casa di San Suu Kyi. A che gioco stanno giocando? È un monito verso la giunta affinché non faccia alcun male a Daw? Un modo di dire «attenzione, noi siamo qui che vegliamo e proteggiamo Aung San Suu Kyi»?
Non so quali siano le reali intenzioni degli Stati Uniti. Ufficialmente la nuova ambasciata è stata costruita in quel luogo, in quel modo, per ragioni di sicurezza. Non ho mai pensato che il fatto di averla costruita a fianco della casa di Aung San Suu Kyi potesse essere un monito alla giunta, ma in effetti sarebbe una mossa molto efficace e psicologicamente astuta.

Dagli Stati Uniti ai due giganti che schiacciano il Myanmar: Cina e India. Che influenza hanno questi due paesi sulla giunta birmana? Si parla quasi sempre solo della Cina, ma anche l’India fa la sua parte…
Oggi la giunta è sotto l’ombrello di protezione cinese. Il problema è che la Cina è una nazione in cui il governo è privo di una morale religiosa, quindi per raggiungere i suoi fini, cioè annettere il Myanmar come sua provincia per avere uno sbocco sull’Oceano Indiano, è pronta a fare qualsiasi cosa.

E l’India?
L’India non ha grandi interessi in Myanmar. È però vero che è il principale fornitore di armi ai militari.

Non sono molto d’accordo con lei sul ruolo marginale dell’India, ma passiamo a questioni intee: recentemente e in particolare dopo le manifestazioni di settembre e ottobre, in alcune zone del Myanmar sono scoppiate alcune bombe artigianali che hanno causato anche delle vittime. Si ha idea di chi avrebbe potuto essee l’ideatore e l’esecutore? L’opposizione intea avrebbe la possibilità di organizzare questi attentati?
Come ha evidenziato lei, sono tutti ordigni artigianali, di scarsa potenza e che chiunque, con un po’ di esperienza, potrebbe fabbricare in casa. Può essere che le bombe siano state messe da movimenti etnici, i quali avrebbero la capacità di organizzare simili attentati. Escluderei siano opera dell’Lnd. Ma c’è chi sospetta gli stessi militari, per avere la giustificazione di avviare nuove repressioni.

Aung San Suu Kyi: che opinione ha la gente della Lady?
È un’icona. È vero che non ha mai avuto esperienza di amministrazione del potere, ma la gente ha piena fiducia in lei.

Tale fiducia potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cosa accadrebbe se la Signora non si dimostrasse all’altezza delle aspettative e non riuscisse a mantenere le promesse fatte al suo popolo? Lei che l’ha incontrata più volte, che opinione si è fatto?
Mi ha sorpreso. Piacevolmente sorpreso. Ammiravo la sua minuta conoscenza della situazione politica e sociale del paese che non avrei mai creduto di incontrare in una donna che era stata per così lungo tempo agli arresti domiciliari. Inoltre, Aung San Suu Kyi è una persona molto religiosa e mi ha assicurato che, nel caso andasse al potere, garantirebbe completa libertà di fede. A differenza di lei, Than Shwe, quando parla di sviluppo, intende uno sviluppo militare. Non l’ho mai sentito parlare di sviluppo sociale, economico, educativo. Daw, invece, parla principalmente di questo. E mi fa ben sperare.

Quale è la parola di cui i militari hanno più paura?
Dialogo. Appena sentono tale parola si allarmano, in particolare questa giunta guidata da Than Shwe.

Un dialogo però è in corso con Aung San Suu Kyi.
A livelli molto bassi. Il militare incaricato a parlare con Aung San Suu Kyi non ha alcuna influenza sui vertici. Serve come specchietto delle allodole.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali