FREI BETTO. La mosca blu e le lusinghe del potere

 

Il famoso programma «fame zero» si è trasformato in un progetto assistenziale (bolsa familia) e collettore di voti. Avrebbe dovuto essere molto di più: un programma emancipatorio. A parte questo, i problemi strutturali del Brasile sono ancora tutti irrisolti: la riforma agraria e i senzaterra, la corruzione del potere, le incredibili diseguaglianze. Tutto male, dunque? No, perché sempre meglio «un’America Latina con Lula che senza». Su questo Frei Betto, teologo e scrittore di chiara e meritata fama, non ha alcun dubbio.

Durante gli anni dei governi militari, un’emittente televisiva lo chiamava «il frate del terrore». In carcere è stato dal 1969 al 1973, quando aveva 25 anni. Quattro anni che Carlos Alberto Libânio Christo conosciuto come Frei Betto non ha dimenticato. Religioso domenicano, teologo, scrittore di fama internazionale, Frei Betto è certamente una delle voci più autorevoli del Brasile e dell’America Latina.
Militante di movimenti e comunità cattoliche di base, è stato responsabile della pastorale operaia per 22 anni nella cintura industriale di San Paolo (detta ABC dalle iniziali delle città satelliti). Era stato nominato da mons. Claudio Hummes.
Qui conosce e diventa amico di un operaio e sindacalista di nome Luiz Inacio da Silva noto come Lula (1).
Ancora oggi, c’è sempre qualcuno che prova a rinfacciargli qualcosa: l’essere di sinistra, apertamente di sinistra; l’adesione alla Teologia della liberazione (Tdl); la stima verso la Cuba di Fidel Castro e il Venezuela di Hugo Chávez, il presidente latinoamericano più odiato dai media e dai politici occidentali. Lui non si scompone. Tranquillo, pacato, sicuro nelle risposte. Pur non essendo mai stato affiliato ad alcun partito politico (neppure al Partido dos trabalhadores, di cui fu tra i promotori assieme a Lula), Frei Betto ha dalla sua la forza della coerenza: l’essersi sempre schierato a fianco dei poveri e degli impoveriti, anche quando «la mosca azul» del potere lo ha blandito da vicino.

Il Brasile di Lula:
più delusioni o più successi?

Frei Betto perché è finita la sua collaborazione con il governo del suo amico Lula?  E soprattutto, lei è rimasto deluso da questi anni di presidenza?
«Prima di cominciare, chiariamo subito un punto di partenza: sia il Brasile che l’America Latina sono – oggi – migliori con Lula che senza Lula».

Detto questo, cosa non ha condiviso delle scelte politiche operate dall’ex operaio metallurgico e sindacalista divenuto presidente?
«La statura politica di Lula è stata costruita attraverso un movimento popolare. Una volta giunto al potere ha sbagliato appoggiandosi ad una sola gamba, quello del Congresso, dimenticando quella dei movimenti sociali.
Era l’unico presidente nella storia del Brasile ad avere la possibilità di reggersi su 2 gambe. Invece, non ha mantenuto i vincoli con i movimenti. Lula ha preferito un contatto diretto con i poveri senza la mediazione dei movimenti popolari. Questo, secondo me, è grave.
Adesso Lula ha l’appoggio dei più poveri e dei più ricchi.  I poveri perché oggi hanno migliori condizioni di vita, i ricchi perché oggi sono diventati ancora più ricchi.
Tutti gli altri che stanno nel mezzo sono – invece – sostenitori critici di Lula».

La riforma agraria,
assente ingiustificata

Il movimento dei sem terra aveva riposto molte speranze in Lula. Ma è rimasto deluso: il latifondo continua ad imperare e la riforma agraria non si vede…
«È vero. Sono convinto che il futuro capitalista del Brasile non esiste se non ci sarà una riforma agraria. Tra l’altro, questa è una proposta storica del partito di Lula, ma non c’è alcun segnale che si farà.
Assieme all’Argentina, il Brasile è il solo paese americano che non ha mai fatto una riforma agraria.
Eppure il Brasile è il paese con più terre coltivabili delle 3 Americhe. Senza contare l’Amazzonia che non è coltivabile, ma che è ricchissima di risorse e soprattutto regolatrice del clima dalla Florida alla Patagonia».

Lula e il Brasile si sono buttati nel business dei cosiddetti «biocombustibili», per la produzione di etanolo partendo dalla canna da zucchero. Lei è stato durissimo al riguardo…
«Affamare le persone per nutrire le automobili? Assurdo! Non si dovrebbe parlare di biocombustibili, ma di necrocombustibili. In greco, “bio” significa “vita”, mentre “necro” significa “morte”. Questo, secondo me, è il termine corretto per questi prodotti».

A gennaio 2009, Belem ospiterà il «Forum social mundial». Che ne pensa?
«Penso che avrà molto impatto perché si terrà in Amazzonia. Qui un territorio pari a 22 volte il Belgio è stato deforestato. E non ci sono misure contro questo disastro: il governo Lula è stato incapace di difendere l’Amazzonia. Non si chiede un santuario ecologico da chiudere al mondo, ma almeno uno sviluppo sostenibile.
Ora il governo ha un piano di strade da costruire o per pavimentare quelle esistenti. Però questo favorirà i latifondisti, i cercatori di pietre preziose, gli sfruttatori clandestini delle ricchezze del sottosuolo e delle foreste.
In Amazzonia, un metro cubo di legno prezioso vale 10 euro, mentre al porto di Genova vale 3.000 euro. Meglio che il commercio della cocaina il cui rapporto è di molto inferiore, più o meno100 a 1000!».

Anche gli affamati
votano…

Lei ha partecipato all’ideazione e – dal 2003 al 2004 – alla prima applicazione del programma «Fame zero» (Fome zero in brasiliano, Hambre cero in spagnolo, ndr).  Poi se ne è andato, quasi sbattendo la porta…
«Fondamentalmente il programma Fome zero era dato da 60 politiche pubbliche per beneficiare 11 milioni di famiglie, 44 milioni di persone, molto povere, miserabili. In un anno e mezzo queste persone avrebbero dovuto essere capaci di abbandonare il programma e andare avanti con le proprie forze. Insomma. Si trattava di un programma emancipatorio. Nel 2003 andò molto bene ed io ero molto carico. Nel 2004 Lula dimette il ministro e ne nomina un altro. Si cambia radicalmente il programma: ci sono famiglie entrate nel 2003 che ancora sono dentro; delle 60 politiche pubbliche ne è rimasta una sola – bolsa familia -, quella che prevede la distribuzione ogni mese di una somma a ciascuna famiglia.
Perché cambiarono? Perché scoprirono che il programma era una fonte fantastica di voti. Ogni famiglia che riceve questi sussidi vota per Lula e per i suoi. Soprattutto nel Nord-est.
All’inizio c’era un comitato di garanti della società civile, che decideva che famiglie entravano e uscivano. Lo hanno azzerato sostituendolo con sindaci e burocrati, pur sapendo dell’altissimo grado di corruzione di questi: infatti cominciarono ad entrare come beneficiari parenti, nipoti e così via.
Insomma, il programma era completamente cambiato rispetto agli inizi ed io non ero d’accordo. Pertanto, ne uscii. Dissi a Lula, che non avrei continuato con il programma. Era il dicembre del 2004 e ancora non si sapeva dei gravi casi di corruzione».

Vuoi conoscere una persona?
Dagli il potere…

La sua esperienza all’interno delle stanze del potere le ha consentito di scrivere qualcosa – qualcosa di forte – al riguardo…
«È vero. Ci sono 2 letterature perenni: quella mistica e quella che tratta del potere. Platone, Aristotele, Machiavelli: tutte le loro opere hanno resistito fino ad oggi perché sono rimaste attuali.
Dopo la mia esperienza al governo, anch’io ho scritto due libri. Il primo è stato A mosca azul: reflexão sobre o poder, La mosca blu: riflessione sul potere. Mi ha molto impressionato vivere nel potere per quasi 2 anni e allora mi sono chiesto cosa accade alla gente quando arriva lì.
Sono uscito dal governo con due convinzioni: il potere non cambia nessuno ma fa sì che uno si riveli, si mostri nella sua vera natura. Qualsiasi potere!
La seconda convinzione è invece questa. L’essere umano ha 5 grandi tentazioni: primo il potere, secondo il potere, terzo il potere, quarto il denaro e quinto il sesso. Sono convinto di ciò. Per mesi mi sono preparato a scrivere questo libro sul potere.
Dopo ne presentai un altro dal titolo Calendario do poder, Calendario del potere, che è il mio diario all’interno del potere: riunioni, lettere, tutto. L’ho scritto perché io sentivo che ero pagato dalla popolazione del Brasile: res publica, cosa pubblica.
Come ho detto all’inizio: meglio con Lula che senza. Però, io sono un sostenitore critico».

Quali sono le cose significative fatte da Lula e dal suo governo?
«Il governo Lula ha ottenuto cose importanti. Per esempio, la stabilità economica del paese, in primis con l’inflazione ferma al 3-5%. Ora la gente può preparare meglio i propri bilanci familiari. Secondo, il salario minimo. Ai tempi di Cardoso era un sogno che superasse i 100 dollari, oggi passa i 300.
C’è “Luce per tutti”: con questo programma l’energia elettrica arriva in ogni angolo e la gente può comprarsi il suo frigorifero e il suo televisore. Non c’è repressione dei movimenti popolari, nonostante le grida di protesta dei ricchi e dei media. Al governo non stanno bene le manifestazioni dei semterra, ma non c’è repressione.
Ancora: non c’è più privatizzazione del patrimonio pubblico e delle aziende pubbliche. Lula inoltre ha aperto il Brasile alle relazioni inteazionali. È stato il primo presidente brasiliano ad entrare nel mondo arabo, prima riservato agli Usa.
Insomma, ci sono cose estremamente positive. Il problema è che il governo di Lula non ha cambiato le fondamenta del Brasile come la struttura fondiaria. Cosa succederà quando al governo non ci saranno più queste persone?».

Nel 2010 scadrà il mandato di Lula. Essendo il secondo consecutivo, non potrà ripresentarsi per un terzo periodo. È fiducioso sulla successione?
«Mica tanto. Perché il partito di Lula si è mosso confusamente.
Aveva 2 candidati per la successione a Lula ma ora non ha nessuno dei 2. Sono sospettati di mancanza di etica ed ora stanno fuori dai giochi. Quindi, Lula non sa su chi puntare. Quello di trasferire i voti ad un proprio successore designato non è una cosa automatica: occorre che questi abbia un minimo di carisma e di simpatia.
Aveva puntato su Dilma Rousseff, ministra della Casa civil, per importanza la seconda carica dello stato. Ma la donna è senza carisma e poi è stata coinvolta nello scandalo delle targhette di credito dei politici.
La legge non permette che un candidato sia eletto per 3 volte consecutive, ma nel 2014 Lula può tornare e, rimanendo così le cose, sono sicuro che questo accadrà. Sarà il primo brasiliano ad essere eletto presidente della Repubblica per 3 volte».

Chávez e gli altri:
l’importante è demonizzarli

Detto del Brasile di Lula, parliamo di America Latina in generale. Da qualche anno per essa si parla di «primavera democratica». Cosa ne pensa?
«Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto 3 periodi: le dittature militari, i governi neoliberali ed ora i governi democratici popolari.
Le dittature militari hanno prodotto un costo umano estremamente grave, oltre ad un costo economico. Tutti i paesi andarono in bancarotta sotto quelle dittature. Poi le oligarchie abbracciarono la soluzione neoliberista uscita dal Consenso di Washington (2).
Ci furono la privatizzazione del patrimonio pubblico, la repressione brutale dei movimenti popolari e sindacali, una corruzione tremenda e – anche in questo caso – disastro economico (debito estero, dipendenza, deindustrializzazione).
A quel punto le popolazioni latinoamericane respinsero quelle oligarchie che avevano appoggiato prima le dittature e poi il modello neoliberalista. E iniziarono a cercare candidati che avevano “cara de pueblo” e non appartenevano a quelle classi sociali.
Da qui il prestigio politico di un Chávez, di un Lula, di un Morales, di un Correa, di un Ortega.
Una cosa va sottolineata: tutti costoro sono diventati presidenti attraverso processi impeccabilmente democratici».

Ma ciò sembrerebbe non bastare: molti dei presidenti che lei ha citato godono di pessima stampa negli Stati Uniti, in Spagna, in Italia. Ad esempio, Evo Morales e soprattutto Hugo Chávez Frias. Come lo spiega?
«Chávez può non essere una persona simpatica, ma non vi è alcun dubbio che per 8 volte è stato vincitore di competizioni democratiche. Come ha rispettato il giudizio popolare quando ha perso – per un solo punto percentuale – l’ultimo referendum sulla nuova Costituzione (dicembre 2007, ndr)».

Nel maggio 2007 Chávez non confermò la concessione dello stato a Radio Caracas Televisión (Rctv). Apriti cielo…
«Il presidente era nella piena legittimità quando non ha rinnovato una concessione statale a Radio Caracas Televisión appartenente ad un privato! In tutta l’America Latina, la televisione è proprietà dello stato e non del privato. Mi spiego: lo stato dà le concessioni, ma può ritirarle in qualsiasi momento, perché sono situazioni che rientrano nella sicurezza nazionale. La gente si dimentica di questo particolare.
Quando vedo questi mezzi di comunicazione che parlano di Chávez come fosse un mostro, mi viene rabbia. Perché questa gente non si rende conto che per l’America Latina questa potrebbe essere l’ultima occasione per dar vita ad un cambiamento in maniera pacifica e democratica. Se – ancora una volta – Europa e Stati Uniti creeranno instabilità politica nelle Americhe, allora non so cosa potrà accadere».

La situazione della Colombia si discosta molto da quella degli altri paesi latinoamericani. Che ne pensa lei?
«C’è un consenso tra la sinistra latinoamericana che in Colombia la lotta armata non ha futuro. Noi (ed io mi includo) abbiamo la responsabilità di pacificare la Colombia.
In 40 anni governo colombiano e Usa con le armi non sono riusciti a distruggere la guerriglia.  Dunque, occorre cercare un’uscita politica come in Salvador, come in Guatemala, come nello stesso Brasile.
Il piano era liberare i sequestrati e, come contropartita, i prigionieri. E poi inserire la guerriglia come partito politico, come in Nicaragua, in Salvador, in Guatemala.
Chi potrebbe parlare con le Farc? Nessuno meglio di Fidel Castro, che però è malato. Dopo Fidel, la miglior persona che possiede credibilità è Chávez. Bush, non volendo dare meriti al presidente venezuelano, ha ordinato ad Uribe di fare gli attacchi che hanno compromesso tutto il delicato disegno politico. Vedremo se le cose cambieranno con il nuovo presidente Usa».

Mettendo da parte la Colombia, in generale come vede la situazione dell’America Latina?
«Io sono molto ottimista. Stiamo vivendo il nostro migliore momento per l’integrazione latinoamericana. Abbiamo il Mercosur, l’Alba. E nessuno dà importanza all’Organizzazione degli stati americani (Oea)».

Lo stato nell’economia:
ieri «ospite sgradito», oggi…

Appena fino a ieri, l’intervento dello stato nel sistema economico capitalista era visto come una disgrazia. Oggi tutto sembra rovesciato: patas arriba, «gambe all’aria», direbbe Eduardo Galeano…
«Se c’è una bugia ben raccontata è quella secondo la quale lo stato non deve entrare nell’economia. La realtà di oggi dimostra l’esatto contrario.
Se io volessi fare soldi, fonderei una banca. Il banchiere è come qualcuno che si getta in mare senza saper nuotare tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a salvarlo.  È quello che sta accadendo, iniziando dagli Stati Uniti».

A parte i cambi di rotta dettati dalle contingenze del presente, cosa dovrebbe fare lo stato?
«Non è sufficiente che esso sia l’arbitro. Lo stato deve provvedere alla popolazione e, per principio etico, soprattutto ai poveri.
Un esempio concreto:  i paesi che hanno la migliore sanità ed istruzione sono quelli dove lo stato è più presente in queste aree.
In America Latina, qual è il paese  che presenta le migliori condizioni di salute ed istruzione? È Cuba.
Non c’è competizione tra un bambino brasiliano ed uno cubano!  In Brasile, ci sono 4 ore di lezione con una maestra impreparata e senza strumenti; a Cuba, le ore sono 8 e gli strumenti didattici (computers, in primis) non mancano. Insomma, c’è un altro livello di cultura e formazione.
Il Brasile ha uno dei più alti indici di violenza urbana del mondo: più di 40.000 morti all’anno. Quali sono le cause? Non è la povertà: ci sono paesi più poveri, per esempio in Africa. È la mancanza di scolarità.
Tra Rio e San Paolo ci sono 2.300.000 giovani (il dato è del 2004), tra i 14 e i 24 anni, che non hanno completato le scuole dell’obbligo, uscendone prima.
L’80 per cento degli assassinati e l’80 per cento degli assassini viene da qui. Mi sembra che questo dica molto».

Quando la Tdl era
più temuta del marxismo

La Teologia della liberazione sta perdendo il contatto con la base?
«La Teologia della liberazione non è una scienza che si produce nei seminari o nelle accademie. La Tdl non è Leonardo Boff o Gustavo Gutiérrez (3). La Tdl sono le comunità di base e non il contrario.
Gli anni d’oro della Tdl furono gli anni Settanta-Ottanta. La Tdl nacque dalla pratica dei cristiani nella loro lotta per la liberazione e trovò molta forza dall’imperialismo Usa in America Latina.
Nelson Rockefeller (rappresentante  del presidente Nixon ed autore del controverso The Rockefeller Report on Latin America, ndr) considerava la Tdl come più minacciosa dello stesso  marxismo. Effettivamente la Tdl ebbe molta influenza sia nella rivoluzione sandinista che in El Salvador.
Una volta sconfitta la rivoluzione sandinista e i movimenti guerriglieri dell’America Latina, la Tdl cominciò a non preoccupare più l’imperialismo.
Un altro fattore che ha contribuito a ridurre la spinta della Tdl è stata la fine delle dittature militari».

D’accordo sul ruolo dell’imperialismo Usa e delle dittature militari. Ma quale è stata la posizione del Vaticano rispetto alla Tdl?
«Con papa Giovanni Paolo II si ebbe un processo di “vaticanizzazione” dei vescovi, con un’attenzione particolare a favorire la nomina di coloro che non fossero legati alla Tdl.
Molti vescovi sono passati dalle comunità di base ai movimenti pentecostali e catecumenali, Comunione e liberazione, Rinnovazione carismatica. Ma le comunità ecclesiastiche di base non sono sparite. Oggi si concentrano non tanto sulla materia teologica quanto su quella biblica, sullo studio della Bibbia attraverso circoli biblici che producono una quantità incredibile di materiali. Però, sono guardati con pregiudizio dai vescovi.
Certamente non c’è più quella fame di conoscenza teologica degli anni Settanta, quando i libri di Gustavo e Boff si vendevano come pane caldo e c’era la fila davanti alle librerie quando uscivano.
Siamo in un momento di transizione non tanto per la teologia, ma per i riflessi politici nella teologia».

A proposito di libri, in quell’epoca anche lei fece notizia con un lavoro di risonanza internazionale…
«Fu nel 1985, quando uscì il mio libro intervista a Fidel, in cui questi riconosceva la validità della fede cattolica. Era la prima volta da parte di un presidente comunista al potere e questo ebbe un impatto tremendo in tutta la sinistra. In Cuba questo libro vendette un milione di copie con una popolazione di appena 11 milioni di abitanti».
Come religioso, come vede la situazione attuale della chiesa cattolica latinoamericana?
«Il modello organizzativo della chiesa ha fallito. Il suo è un metodo parrocchiale, premoderno, preurbano che presuppone che la gente comunichi per “prossimità geografica”. No, non è così: oggi la gente comunica per “prossimità elettronica”.
Il mio migliore amico può vivere in Torino anche se io vivo in San Paolo. Posso parlargli 3-4 volte al giorno per internet.
La chiesa cattolica in America Latina, e specialmente in Brasile, perde l’1% di fedeli all’anno. In 20 anni è passata dal comprendere il 91% della popolazione brasiliana all’attuale 71%. Anche perché non sappiamo usare i mezzi di comunicazione. Siamo artigianali, amatoriali. Parliamo nella televisione cattolica di noi e per noi. Ma non sappiamo parlare al pubblico non cattolico».

Quali alternative
al capitalismo in crisi?

Dove va l’America Latina? Anzi, cosa sogna lei per l’America Latina?
«Nessuno vuole più una lotta armata. E l’orizzonte socialista appare molto lontano. Oggi chiediamo di costruire un processo democratico partecipativo all’interno di una struttura che rimane capitalistica».

Il capitalismo sta vivendo una grave crisi di credibilità.  Ma sulle alternative non sembra esserci molta chiarezza…
«Molti di noi, di sinistra o vicini alla sinistra, pensano che il socialismo sia ormai una cosa del passato.
Io sono dell’idea che si debba costruire una società in cui tutti abbiano una democrazia politica ma anche una democrazia economica. Quest’ultima si avrà soltanto quando i beni saranno equamente divisi tra la gente, cosa che adesso non avviene. Questo significa che non esiste una democrazia economica.
In ogni caso, io continuo ad essere convinto che il capitalismo sia incompatibile con i diritti umani e con il vangelo».

Di Paolo Moiola

Note

(1)  Il tornitore che sfidò i potenti, intervista a Luis Inacio da Silva detto Lula, MC dicembre 1999, a cura di Paolo Moiola. Disponibile anche in spagnolo e in inglese. Si veda inoltre: Paolo Moiola, Il Brasile riconferma la speranza, MC, gennaio 2007.
(2) Il termine «Consenso di Washington» fu coniato nel 1989 dal ricercatore John Williamson dell’Istituto di Economia internazionale della capitale Usa. Da una riunione tra gli Usa e 10 paesi dell’America Latina, Williamson trasse un documento – appunto il Consenso di Washington – in cui si prescrivevano 10 misure per riformare la politica economica latinoamericana: rigida disciplina fiscale, riduzione della spesa pubblica, politica di liberalizzazioni, privatizzazione dei beni pubblici, eccetera. Era la rigida applicazione della filosofia e dei dettami neoliberisti.
(3)  Si leggano le interviste a Gustavo Gutiérrez raccolte da Paolo Moiola: Gli esclusi non si arrenderanno, MC, febbraio 1998; «Ma i giovani statunitensi mi dicono che…», MC, dicembre 2003. Sul teologo peruviano e sulla teologia della liberazione si leggano – inoltre – le opinioni (contrapposte) di Mons. Bambaren e Mons. Cipriani: MC, maggio 2000, a cura di Paolo Moiola.

Il Mondo capovolto

Ieri: libero mercato, privatizzazioni, deregulation, profitti, crescita. E il loro corollario: speculazioni, diseguaglianze crescenti, devastazione ambientale. Oggi: crollo, crisi, recessione, disoccupazione. A gran voce si reclama l’intervento dello stato, fino a ieri ripudiato. Ma basterà? E ancora: è utopia costruire qualcosa di diverso e migliore?


Sta avvenendo come per le guerre in Iraq ed Afghanistan, che da «giuste», «inevitabili», «umanitarie» sono diventate uno sbaglio che si vorrebbe riparare ma non si sa come. Il modello economico fondato sul capitalismo neoliberista è caduto in disgrazia, travolto da errori e contraddizioni. Fino a ieri, il libero mercato era la soluzione, anzi l’unica soluzione, per il progresso dell’umanità. Non si volevano regole e lacciuoli perché frenavano il dispiegarsi delle forze economiche (private). La fantasia umana ha così potuto volare libera ed ha partorito un mondo fondato sulla speculazione finanziaria e sull’inganno che ha portato vantaggi a pochi e danni a molti, in primis alle popolazioni del cosiddetto Terzo mondo (impoverite) e all’ambiente (devastato).
Oggi, fa effetto sentire politici ed economisti neoliberisti che spiegano (tentano di spiegare) il crollo di quello che consideravano il solo sistema economico possibile. Ci dicono che il fallimento è dovuto ad alcune mele marce che, per proprio tornaconto, hanno tradito lo spirito del capitalismo e che lo stato (fino a poco tempo fa, disprezzato secondo i notissimi slogan: «meno stato, più mercato»; «meno pubblico, più privato») deve tornare in campo per riparare i danni e ripristinare la fiducia. Oggi è giusto ricordare quelle organizzazioni (dal Forum social mundial ad Attac alla maggior parte delle Ong) e quei presidenti (soprattutto latinoamericani: Chávez e Morales su tutti), che – pur attaccati e spesso derisi –  hanno sempre criticato quel sistema.
Un discorso a parte meritano i mezzi di informazione. In Italia, è interessante vedere l’imbarazzo di coloro che – su media importanti – avevano magnificato il sistema, mentre persone competenti e preparate su piccoli media – Tonino Pea e Francuccio Gesualdi su Altreconomia, Andrea Di Stefano su Valori, tanto per citae alcuni – da tempo parlavano di insostenibilità di questo modello economico e della sottostante filosofia neoliberista. Rispettabile la posizione de Il Sole 24Ore, quotidiano della Confindustria, che nella prefazione di un suo ottimo libro scrive: «Dalla grande crisi non usciremo soltanto più poveri, ma verranno profondamente cambiati molti dei paradigmi della nostra vita contemporanea: l’idea stessa della libertà di mercato, la natura dei rapporti fra pubblico e privato (…) un altro mondo, ma non per questo necessariamente peggiore, se avremo la capacità e la lungimiranza di riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandoci dall’illusione , fortemente diseducativa, che il denaro produca da solo altro denaro» (2).
Ma le notizie più sorprendenti arrivano dall’estero. L’inglese The Times, quotidiano conservatore, in ottobre pubblica un lungo articolo (2) in cui, inopinatamente, si chiede: «Ma allora aveva ragione Marx?». Meno tecnica ma più umana l’opinione di Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera: «Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione (…) ci sono punti inconfutabili. (Marx) ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita. (…) Con il tipo di capitalismo ereditato dalla Seconda guerra mondiale non andiamo lontano» (3).
Assai più modestamente, avevamo visto giusto anche noi di Missioni Consolata quando – pur criticati da una parte dei lettori – scrivevamo dei guasti prodotti dal neoliberismo e dalle politiche delle amministrazioni statunitensi.
L’economia non è una scienza esatta. Anzi, forse non è neppure una scienza (4). Sarebbe importante che tornasse ad essere una materia finalizzata all’interesse collettivo, avendo come elementi centrali l’equità distributiva, la sobrietà dei consumi e il rispetto degli equilibri ambientali. Insomma, l’esatto contrario di quanto avvenuto fino ad oggi.

Paolo Moiola

(1) Ferruccio de Bortoli, Il mondo che verrà cambierà la vita di tutti, in AaVv, La grande crisi. Domande e risposte, i libri de Il Sole 24 Ore, ottobre 2008.
(2) Philip Collins, Karl Marx: did he get it all right?, The Times, 21 Ottobre 2008; reperibile sul sito del quotidiano.
(3) Su Der Spiegel, settimanale tedesco, 25 ottobre 2008, ripreso dal quotidiano La Stampa del 26 ottobre 2008; le tematiche sono analizzate nel recente libro del prelato tedesco dal titolo Il capitale. Una difesa dell’uomo.
(4)  Come suggerisce Giovanni Sartori, Corriere della sera, 19 ottobre 2008.

Paolo Moiola




Cina: Anche gli Uiguri vogliono esistere

Reportage dal Xinjiang

Sono 8 milioni gli uiguri, popolazione altaica di
religione musulmana.  Abitano il Xinjiang, regione nell’estremo
Nord-Ovest cinese, dove il governo centrale sta inviando – già dal 1950
– gente di origine han, che ha occupato tutte le posizioni strategiche.
La pratica islamica è fortemente limitata, come l’uso della lingua
uigura. Pechino non ammette discussioni su una regione dalla posizione
strategica e ricca di risorse minerarie. Ma il movimento separatista
non si dà per vinto, nonostante sia stato inserito tra le
organizzazioni terroristiche.

«Siamo di Kucha (1), ma
da tre mesi viviamo in quella tenda». Milawa indica un accampamento
improvvisato di fianco alla profonda buca che sta scavando. Mentre
parla, il suo yaglik, il velo islamico, si scosta e lascia intravedere
una ciocca di capelli corvini. «Aiuto Memtimin Akhun (2). Ormai lui è
anziano e questo lavoro gli è diventato faticoso» racconta la donna,
mentre l’uomo si sistema il doppa, il tradizionale copricapo uiguro.
Memtimin
e Milawa sono due dei circa 8 milioni di uiguri che popolano la regione
autonoma del Xinjiang 新疆, letteralmente «nuovi territori».
Il letto
del fiume Yulong 玉龙  (3) attraversa la storica città di Khotan (4), ed
è uno dei pochi luoghi dove ancora si trova la giada. «Lavoriamo qui da
marzo a settembre – continua Milawa -, ma alcuni di noi scavano tutto
l’anno, sotto la pioggia e la neve, nella speranza di trovare
qualcosa». I cercatori di giada lavorano a mani nude con pale e
picconi, incuranti di eventuali frane o piene che la stagione calda può
riservare. «Ogni anno in media muoiono quindici persone, molti sono
bambini». Dice il settantenne Memtimin Akhun. Mostrando le mani
callose, continua: «Da quando siamo qui abbiamo trovato due pietre: per
una piccola i commercianti cinesi ci danno 900 kuai (circa 90 euro,
ndr), ma se la pietra è grande e pura possiamo arrivare a guadagnare
15.000 kuai (circa 1500 euro, ndr)». Nel frattempo sono arrivati due
compratori han, mentre parliamo le contrattazioni si fanno serrate.
Lasciato il letto del fiume e la periferia della città, ci spostiamo
nel centro di Khotan: nei negozi di oggetti di giada, in uno dei corsi
principali della città e tutti gestiti da cinesi han, i prezzi dei
preziosi oscillano dai 20 ai 300 mila kuai. Tutte le attività hanno i
laboratori annessi, sul retro, dove gli incisori lavorano senza sosta.

C’era un tempo in cui…

Gli
artigiani della giada un tempo erano uiguri, oggi non hanno più la
possibilità, soprattutto per ragioni economiche, di praticare questa
antica arte. Durante la dinastia Qing (5), fuori dalle mura della
«Città proibita», a Pechino, c’era il quartiere musulmano uiguro, oggi
via Xichangan: vi erano orafi, artigiani della giada, danzatori e
musicisti. Secondo la leggenda, l’imperatore Qianlong lo fece costruire
per la sua amatissima concubina, originaria di quelle lontane terre
occidentali, la leggendaria Xiang Fei (6), appena catturata dai
territori conquistati: la ragazza aveva nostalgia di casa, per questo
passava la vita alla finestra, osservando la vita e l’attività del
quartiere appena fuori le mura, dalla torre in cui abitava, reclusa.
Popolazione
altaica, gli uiguri parlano una lingua del ceppo turcico scritta in
caratteri arabi, sono di religione musulmana e si sentono parte del
cuore dell’Eurasia (7), i territori comunemente chiamati Asia Centrale.
Costituiscono ancora la maggioranza nella regione, che formalmente è
autonoma, ma di fatto il controllo delle autorità centrali e del
Partito comunista è percepibile in tutti i settori della vita pubblica
e privata della popolazione. Dagli anni Cinquanta, con la fondazione
della Repubblica popolare, incoraggiate dal governo centrale, le
migrazioni di cinesi han, l’etnia maggioritaria in Cina, stanno
ridisegnando il volto di questa area, che Pechino considera di
importanza cruciale, soprattutto per i suoi confini con gli stati
centroasiatici e le sue risorse energetiche, tra cui petrolio e uranio.
Pechino vede lo sviluppo economico del Xinjiang come un suo grande
successo e un’ottima strategia per preservare l’unità nazionale.

Se il Xinjiang
si chiamasse Uyghuristan

«Siamo
un popolo orgoglioso e fiero della nostra cultura». Abdulwahab alza la
voce per farsi sentire, mentre danze e musiche catalizzano l’attenzione
dei partecipanti al matrimonio di un lontano cugino, «La nostra storia
e la nostra cultura sono ricche di incontri e influenze dall’antica
Persia, dall’India e dalla Cina. Questo ci dà qualcosa in più, possiamo
vantare una tradizione che ha preso il meglio di queste grandi
civiltà». Il matrimonio per gli uiguri è un’occasione per stare insieme
a parenti e amici, ma anche per conoscere nuove persone, che spesso
vengono invitate per strada. Il ballo si scatena al ritmo del dap
(tamburo suonato a mano), del dutar (strumento a due corde di seta dal
lungo collo), del tämbur (lunghissimo liuto a cinque corde metalliche),
del balaman (corto strumento a fiato a due canne verticali con sette
cavità per le dita, che si accorda con una canna orizzontale fissata
vicino alla parte superiore dove c’è la bocca) e altri strumenti a
corde e a fiato finemente intagliati e ricoperti da pelli, generalmente
di rettili (8).
Situata nell’estremo Nord-Ovest cinese, grande tre
volte la Francia, la regione fu conquistata definitivamente nel XIX
secolo, durante le campagne espansionistiche della dinastia Qing. I
suoi confini con Mongolia, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzistan, Tagikistan,
Afghanistan, Pakistan e India la rendono una regione strategica,
rappresenta un ponte per l’Asia centrale, che attira la Cina come fonte
di risorse e nuovi mercati.
Molti uiguri vorrebbero chiamare il
Xinjiang «Turkestan Orientale» o «Uyghuristan», termini che possono
valere il carcere se pronunciati pubblicamente: coloro che vengono
sorpresi a parlarne vengono tacciati di separatismo. La fisionomia
della gente varia dall’occhio a mandorla con zigomo alto, capelli neri
e pelle scura, fino al biondo con occhi chiari. Vivono tra deserti,
steppe, depressioni e altopiani battuti dai venti, in origine erano
nomadi dediti alla pastorizia e si spostavano attraverso la Mongolia e
in tutto il centro Asia. Dal IX secolo sono stanziali e vivono
principalmente nelle oasi a sud del deserto del Taklamakan,
letteralmente «dove entri e non esci più». Kashgar, Khotan, Yarkand e
Yenghissar: in passato questi centri erano antichi e potenti regni
buddisti situati sul segmento meridionale della Via della seta,
diventati musulmani nel XIV secolo quando l’islam conquistò quelle
terre soppiantando buddismo,  nestorianesimo e manicheismo.

Urumqi
e un museo
con troppi segreti

«I
primi annali cinesi riferivano degli stravaganti barbari alle frontiere
occidentali: una marmaglia dalla pelle bianca e i capelli rosso acceso,
nasi enormi e occhi verdi o azzurri» (9). Victor H. Mair, sinologo e
archeologo che ne ha studiato le origini, sostiene che siano
discendenti dei Tocari, antico popolo indoeuropeo che viveva nel bacino
del Tarim nel III millennio a.C. Secondo questa teoria, una tra le
tante sulle origini di questo popolo, i loro antenati riposano nelle
teche e nei magazzini del museo di Urumqi, capitale del Xinjiang.
Furono
gli archeologi Sven Hedin, Albert Von le Coq e Aurel Stein a trovare
decine di mummie seppellite e preservate dalle sabbie del deserto del
Taklamakan. In seguito a queste prime spedizioni del XX secolo ce ne
furono tante altre che portarono alla luce più di cento corpi. La
statura e le fattezze delle mummie preoccupano il governo cinese: sono
alti, dal metro e ottanta ai due metri, i resti dei capelli sono
chiari, le fattezze dei visi vicine a quelle europee. Gli abiti e le
maschere, preservati dal clima secco e dal terreno alcalino del bacino
del Tarim, sono decorati e rifiniti con tecniche e motivi tipicamente
indoeuropei.
Scoperte scomode per le autorità, che tardano a dare
i permessi per fare i test genetici: e se queste verifiche attestassero
origini non cinesi delle mummie? È un interrogativo scottante, il
governo teme che i separatisti uiguri si possano avvalere di questo
eventuale risultato per rafforzare le loro tesi indipendentiste. Il
tempo passa e gli antichi corpi continuano a deteriorarsi nei magazzini
dei musei cinesi, ma nel 2004 gli archeologi riescono a far prevalere
le necessità scientifiche sugli intrighi e le controversie politiche.
Gli studi hanno collocato le esistenze degli antichi uomini tra i 4000
e i 3000 anni fa, mentre i test genetici hanno rilevato un Dna europeo,
provando definitivamente che i primi popoli della Cina occidentale non
erano estremo orientali. Archeologi e studiosi stanno cercando di
capire la provenienza di queste popolazioni e il motivo che li aveva
spinti a insediarsi in quelle aree. Il saggio di Victor H. Mair The
Tarim – Mummies: Ancient China and the Earliest Peoples from the West –
analizza scientificamente molti degli enigmi di mummie che nei circoli
scientifici e storici sono considerate alla stregua di quelle egizie,
ma che, per motivi essenzialmente politici, il grande pubblico
difficilmente ne sente parlare. Solo qualche esemplare è esposto ora al
museo di Urumqi.

Uiguri ed han:
esistenze parallele

«I
miei studenti non trovano lavoro. Alcuni sono già laureati ma le
aziende cinesi preferiscono assumere gli han». Nabjan insegna inglese
in una scuola privata di Ghuljia, città al confine con il Kazakhstan, e
mentre parla si guarda nervosamente intorno: nonostante siamo in un
mercato e siano le 11 del mattino, ha paura, la polizia e i corpi
anti-sommossa pattugliano la città 24 ore su 24, e chi viene sorpreso a
parlare con occidentali rischia come minimo un interrogatorio. I suoi
occhi azzurri sembrano privi di speranza, ma a un certo punto si
illuminano: «Per noi è difficilissimo e molto costoso ottenere il
passaporto, non è che ci puoi dare una mano dall’Italia?».
Uiguri e
han costituiscono oggi l’85% della popolazione della multietnica
regione, si incontrano difficilmente, più spesso si scontrano. Le loro
vite sono esistenze parallele: i centri urbani sono prevalentemente
abitati da han, gli uiguri vivono invece in appositi quartieri e nei
villaggi rurali. La regione è una tra quelle dove il gap città-campagna
è più alto, nonostante i sussidi del governo, nelle campagne la povertà
è estrema.
Uscendo dai centri urbani si incontrano villaggi dove
la gente vive delle attività del mercato, i barbieri lavorano di buona
lena e i chioschi di manta   (10) e laghman (11) vanno per la maggiore.
Le attività seguono i ritmi della campagna, dove si lavora senza
macchinari con metodi antiquati. Mentre si cucina e nei piccoli
esercizi si vende di tutto, nella parte han della città di Ghuljia i
dipendenti di ChinaTelecom praticano gli esercizi di tajiquan a ritmo
di musica, un metodo che tiene in salute e rafforza lo spirito di
gruppo.
Al sistema scandito dalla terra e dalla religione degli
uiguri si contrappongono l’ordine e la gerarchia della cultura
confuciana (12), che dominano i ritmi della popolazione han. A Kashgar,
importante centro sull’antica Via della seta, un «esercito» di cuochi
alle dipendenze di un albergo è in fila sul marciapiede. Il capo, come
ogni giorno, li chiama per nome e dà loro la valutazione sul lavoro
svolto. «È un sistema molto utile per rafforzare lo spirito di gruppo e
premiare chi si distingue sul lavoro», mi dice con convinzione Zhigang,
trasferitosi dal Qinghai e da cinque anni responsabile del personale
dell’albergo. Nello stesso momento a Yekshembe, villaggio contadino
fuori città, si lavora con mezzi rudimentali. I carretti trainati dagli
asini portano la gente nel mercato, gli anziani vanno dal barbiere e
bevono ayrun, una bevanda a base di acqua, sale e yogurt acido di
capra. Sono a pochi km di distanza, ma qui città e campagna sembrano
separate da due secoli di storia.  

«Bingtuan» e «mandarino»:
 i piani di Pechino

Dopo
il 1949, anno della fondazione della Repubblica popolare cinese, il
Xinjiang divenne un territorio da «sinizzare» (13). Si cominciò con il
trasferimento di guaigioni militari e contadini han che fondarono i
bingtuan, unità di produzione agricola e industriale distribuite su
tutto il territorio e aventi la duplice funzione di sfruttamento delle
risorse e controllo del territorio.
Contestualmente si attuarono
politiche ad hoc per incoraggiare il dislocamento della popolazione
dalle varie regioni della Cina allo Xinjiang.
«Qui guadagno il
triplo di quello che guadagnavo nello Shaanxi – mi confessa un
ingegnere han – e le case hanno dei prezzi molto bassi rispetto a tutte
le altre zone della Cina».
Il 59,4% della popolazione della
regione non è di etnia han, sono uiguri, mongoli, hui e kazaki, ma
molto presto questa maggioranza diventerà una minoranza.
Human
Rights in China denuncia che «l’educazione bilingue è messa in pratica
solo nelle scuole primarie, dove la lingua delle minoranze viene
utilizzata nelle classi e nei libri di testo. A livello di scuole
secondarie il medium d’insegnamento diventa il mandarino». Durante i
colloqui di lavoro è un prerequisito fondamentale conoscere alla
perfezione il mandarino, lingua ideografica, isolante e tonale del
gruppo sino-tibetano, che non ha alcuna somiglianza con lo uiguro,
lingua alfabetica, flessiva e altaica del ceppo turcico. Questo fattore
linguistico, insieme a una palese discriminazione del popolo uiguro,
«sono egoisti e arretrati, molto diversi da noi cinesi», confessa il
mio amico han di Urumqi, vittima di una propaganda che raggiunge tutti,
costituisce un elemento fondamentale per la perdita dell’identità
culturale e la formazione di un’élite uigura urbana e sinizzata da una
parte,  e sacche di povertà nelle campagne e nei quartieri uiguri.
Le
rivendicazioni separatiste si sono fatte sentire nel corso dei decenni
attraverso dimostrazioni e manifestazioni, talvolta con la formazione
di veri e propri gruppi politici. Gli storici sostengono che nei
periodi in cui l’autonomia reale fu riconosciuta, tutti precedenti al
1949, la situazione era positiva, ma il petrolio e la grande quantità
di risorse naturali hanno fatto sì che le attuali autorità cinesi non
percorressero la via del dialogo, ma quella più «facile e immediata»
della repressione. 
Il Xinjiang del XXI secolo è una terra dal
futuro incerto, la sua situazione è sconosciuta ai più e la stampa
dedica all’argomento poco inchiostro, un’attenzione uniforme e
superficiale. La sua storia millenaria fatta di passaggi di culture e
religioni tra le più diverse, che si sono succedute e hanno convissuto
dando vita a un sincretismo culturale e religioso oramai raro, si
preserva in parte in seno alla comunità uigura.

Se le mummie
del Taklamakan parlassero

Lo
scrittore inglese Colin Thubron, mentre osserva le mummie del
Taklamakan durante il viaggio raccontato in Ombre sulla Via della Seta,
così le descrive: «I corpi provocano un guizzo di apprensione. Sembrano
paralizzati nell’atto di morire, qui rinviato come per caso, quasi
fossero uccelli bloccati in volo. All’ingresso del museo un avviso
informa che le reliquie esposte provano che la provincia è parte
inalienabile della Cina. In realtà, naturalmente, suggeriscono il
contrario. I cadaveri non riposano in pace. La loro strana
conservazione li solleva dalla preistoria nel presente politico, più
potenti di uno scheletro o di un frammento di Dna. Sono in attesa, come
una famiglia solenne. Sembra che le loro posture – le ginocchia piegate
di traverso, le mani serrate in maniera incerta – non siano definitive,
quasi che un giorno debbano alzarsi e portare il loro bambino in
strada».

Di Alessandra Cappelletti

Note

(1) Città nel nord del Xinjiang.
(2) Akhun è un titolo che nella cultura uigura indica rispetto per un anziano, di cui ne accompagna il nome.
(3)   Letteralmente «Drago di Giada».
(4) Antico centro della Via della Seta nel sud della regione.
 (5) Ultima dinastia imperiale, 1644-1911.
 (6) Nome cinese, quello uiguro è Iparxan.
(7) Franco Mazzei e Vittorio Volpi, Asia al centro, EGEA, Milano 2007.
 (8)
Un’ampia panoramica sugli strumenti di musica uigura si può trovare sul
sito http://www.uyghurensemble.co.uk/
en-html/nf-research-article1.html, storia e tipologie di musica al
link:
http://www.amc.org.uk/education/articles/Music%20of%20the%20Uyghurs.htm, mentre esempi di muqam si possono ascoltare su:
http://www.meshrep.com/music/index.html(9) Colin Thubron, Ombre sulla via della seta, Ponte alle Grazie, Milano 2006, p. 127
(10) Profumati fagottini ripieni di carne di capra, cotti in tradizionali foi di pietra.
(11) Una specie di tagliatelle condite con carne e verdura, molto speziate.
 (12)
Tra i principi cardine: rispetto per i superiori, ordine, parsimonia e
gerarchia. Il testo fondamentale è il Lunyu, i dialoghi di Confucio.
(13)
Con il termine sinizzazione si fa riferimento all’applicazione di
politiche volte a diffondere i valori confuciani in contesti usualmente
estranei.

Alessandra Cappelletti




Nuova Russia, vecchie abitudini

La Russia negli anni di zar Putin

Cos’è diventata la Russia negli anni di Vladimir Putin? Un’analisi accurata che spazia dalla politica all’economia fino alle libertà fondamentali, che…

Da anni durante i miei soggiorni moscoviti sono ospite di una coppia di amici che hanno la fortuna di abitare in una posizione invidiabile. Abitano in pieno centro, su uno dei lungofiumi, al penultimo piano di uno degli edifici più alti del quartiere: davanti alle finestre del salotto si stende mezza città.
Per anni il panorama che si presentava ai miei occhi è rimasto, visita dopo visita, pressoché invariato. Ogni tanto compariva qualche piccolo cambiamento, che però non modificava di molto il quadro d’insieme. Verso la fine degli anni ‘90, invece, questo quadro s’è messo in movimento, prima lentamente, poi con sempre maggior dinamismo. Adesso, ogni volta che too, corro a vedere che cosa è cambiato.
Si è cominciato con la palazzina costruita su parte del bel prato antistante alla casa, un pezzo di terreno lasciato libero, anche perché declina verso il fiume ed è a rischio smottamento. Poi, sulla riva opposta, nella piazza davanti alla facciata neoclassica della stazione ferroviaria, sono comparsi una brutta fontana e una costruzione cilindrica: un bar-ristorante, dicono. In seguito, uno sgraziato centro commerciale ha occupato tutta l’area sul fianco della stazione, dove un tempo c’era un ampio spiazzo con aiuole e panchine.
Se si alza lo sguardo oltre la linea dei primi edifici, là, dove un tempo c’era il cielo, si stanno affastellando torri gigantesche, da cui partono potenti fasci di luce, che, come fari, illuminano la notte di Mosca.
Recentemente, sulla sommità del centro commerciale è stato eretto un maxi schermo, che giorno e notte proietta immagini di auto in corsa e coppe di champagne. Ti tiene buona compagnia, come se in camera avessi un televisore sempre acceso.
Dal 2000 la Russia ha vissuto un periodo di costante crescita economica e Mosca è, naturalmente, la città dove più evidenti sono i segni di questi anni fortunati: è in cima alle classifiche mondiali per concentrazione di Mercedes e di milionari.
Il 2000 è anche il primo anno della presidenza di Vladimir Putin, cui si attribuisce il merito di aver tirato fuori il paese dalle secche dell’era El’cyn, di avee favorito la ripresa economica, di avergli ridato stabilità e fiducia nel futuro.
Il turista in visita a Mosca non potrà non trovarsi d’accordo con un tale giudizio e, forse, non gli parrà così strano che i russi abbiano per la terza volta riconfermato la fiducia verso quest’uomo, votando in massa alle presidenziali di marzo il candidato da lui voluto. Lo avrebbero sicuramente rieletto per altri quattro anni, se solo si fosse presentato di nuovo. Si è, addirittura, formato il movimento «Per Putin», a sostegno di una sua candidatura; ma la costituzione russa non consente un terzo mandato consecutivo, e in questo è stata rispettata.
Come stupirsi di un tale consenso, se il PIL cresce di un 7% annuo, i salari reali dal 2000 sono aumentati di quattro volte e mezzo, c’è stato un aumento della produttività e dei consumi, il rublo si è rinforzato e l’inflazione è diminuita.
Senz’altro ci sono molte più persone che stanno meglio adesso che otto anni fa. Il ceto medio è cresciuto e ha preso d’assalto le località turistiche in tutta Europa. La Russia è tornata a far sentire il proprio peso tra le nazioni. Eppure…

I conti non tornano

I dati macroeconomici, si sa, non bastano a descrivere la realtà di un paese. Se si prendono in considerazione altri aspetti della vita in Russia, il quadro appena descritto apparirà diverso e mostrerà evidenti segni di un profondo malessere. Uno dei più preoccupanti è il calo demografico. Questo fenomeno si è manifestato all’inizio degli anni ‘90, quindi molto prima dell’arrivo di Putin, ma i suoi otto anni non hanno portato variazioni di tendenza.
Con una densità di 8 abitanti per kmq, la Russia è uno dei paesi più vuoti al mondo; un’ulteriore perdita di popolazione potrebbe mettere a repentaglio intere regioni, in particolare la Siberia orientale, dove è più accentuata la tendenza allo spopolamento. Oltre agli evidenti problemi di sicurezza che ne conseguirebbero, il fenomeno in sé non è certo indice di buona salute.
La natalità in Russia era calata già ai tempi dell’Urss come conseguenza di diversi fattori: l’attacco ideologico alla istituzione della famiglia, la liberalizzazione di aborto e divorzio, scarsezza di alloggi, lavoro femminile, equiparato a quello maschile. Con la fine del sistema sovietico a ciò si sono aggiunte le aumentate difficoltà economiche e il peggioramento del sistema scolastico.
Tuttavia, quello che più impressiona oggi non è tanto la bassa natalità, quanto l’alta mortalità. In questi ultimi anni si è addirittura avuto un leggero incremento delle nascite, ma, ai fini demografici, questo dato è reso nullo da un maggiore incremento delle morti. L’aspettativa di vita per gli uomini è scesa in Russia a 58 anni: 20 anni sotto la media europea.
Alta mortalità è indice di bassa qualità della vita. È vero che in questi anni, grazie al buon andamento economico è circolata più ricchezza ed è diminuita la percentuale di persone che vivono sotto la soglia della povertà, ma è anche vero che la differenza tra ricchi e poveri si è accentuata e che lo stato non ha investito in servizi per i cittadini il denaro arrivato nelle sue casse.
Se si eccettuano i grandi centri urbani, le infrastrutture in Russia sono rimaste quelle dei tempi sovietici. Così, si muore sulle strade, insufficienti e maltenute; si muore perché il sistema sanitario è antiquato e non garantisce un’adeguata assistenza; si muore perché nei posti di lavoro, nelle abitazioni, nelle strutture pubbliche mancano i più elementari sistemi di sicurezza; si muore per le malattie contratte nei luoghi di detenzione, malsani e sovraffollati; si continua a morire per mano di criminali, che rimangono impuniti nella stragrande maggioranza dei casi.
Povertà, precarietà del vivere, mancanza di prospettive sono tra i motivi che spiegano l’accresciuto consumo di alcolici, una delle principali cause di morte, e un numero di suicidi tra i più alti nel mondo.
È difficile capire come mai un paese dove 140 milioni di persone si dividono un territorio di 17 milioni di kmq, tra i più ricchi al mondo di risorse naturali, non riesca a garantire a tutti i suoi abitanti un’esistenza almeno dignitosa. Forse, la ragione è in parte da ricercare proprio in questa abbondanza, che ha formato il carattere dei russi, abituati a non calcolare, a non risparmiare nell’uso di risorse apparentemente illimitate.
Ciò si è tradotto, nei secoli, in trascuratezza, poca razionalità nel gestire il bene comune, tendenza allo spreco. Proprio per questo sugli amministratori ricade una grossa responsabilità, e il primo e più responsabile di loro è il presidente, che ha creato di sé un’immagine di politico razionale ed efficiente e che ha concentrato nelle proprie mani un enorme potere. Basterebbe un esempio a mettere in dubbio l’oculatezza della sua gestione del paese: dopo la de facto rinazionalizzazione del settore energetico da lui perseguita, con le riserve che ha, la Russia non riesce a soddisfare il fabbisogno interno di gas.

Economia: il ritorno dello Stato padrone

È noto che l’attuale prosperità della Russia si fonda innanzitutto sulle materie prime. Le risorse del sottosuolo, metalli e idrocarburi, costituiscono circa l’80% delle esportazioni russe ed è la crescita dei loro prezzi che ha dato il maggior contributo al boom economico di questi anni.
Nonostante le eccezionali condizioni del mercato internazionale, il settore petrolifero russo è in piena crisi. Fino al 2003 la produzione di greggio cresceva di un 8-9% annuo; ma dal 2004 questo indice si è andato riducendo. Nel 2007 è stato solo del 2,5% e nel primo trimestre di quest’anno si è addirittura registrato un declino.
In campo economico il primo mandato di Putin è giudicato in modo positivo: furono approvate la riforma fiscale, che semplifica e riduce il sistema di tassazione, la riforma del bilancio, che introduce maggiore chiarezza e realismo nelle spese dello stato, fu finalmente consentito il libero mercato della terra.
A metà del 2003, però, ci fu il primo segnale di un cambiamento nella politica economica del presidente: la compagnia petrolifera privata Yukos fu messa sotto indagine dalla magistratura e qualche mese dopo fu arrestato il suo proprietario, Mikhail Khodorkovskij. Il caso Yukos ha dato il via a un’azione concordata di magistratura, guardia di finanza e governo, volta a riportare in mani statali il comparto energetico, in buona parte privatizzato ai tempi di El’cyn.
Il secondo mandato di Putin ha visto lo stato riprendersi un ruolo primario nell’economia del paese. Non solo nel caso di gas e petrolio, ma anche in altri importanti settori economici lo stato è intervenuto in maniera crescente, con acquisizioni che hanno ricondotto molte grandi imprese sotto il suo controllo; imprese, al cui vertice Putin ha posto le stesse persone che aveva chiamato a svolgere ruoli importanti nella propria amministrazione, o nel governo: ex compagni di università, ex colleghi di lavoro, collaboratori di vecchia data, tra cui Dmitrij Medvedev, che, prima di essere eletto presidente della Russia, era contemporaneamente vice primo ministro e direttore di Gasprom.
In poco tempo il rapporto tra capitale dello stato e capitale privato nella borsa russa si è invertito: se qualche anno fa il primo ne deteneva il 24% e il secondo il 50%, adesso le percentuali sono, rispettivamente, del 40% e del 33%. È ovvio che un simile capovolgimento non è stato in alcun modo volontario e non è potuto avvenire senza gravi violazioni del diritto di proprietà. Inoltre, ha avuto come conseguenza una diminuzione di efficienza del sistema economico. Vari analisti fanno presente che l’attuale crescita economica in Russia è inferiore alle potenzialità del paese. Altre repubbliche ex sovietiche stanno crescendo altrettanto, se non di più, senza avere le risorse di cui dispone la Russia. L’Ucraina è una di queste.
Sono anni che, nelle nostre conversazioni, Andrej, un mio conoscente di Mosca indica nell’abbondanza di gas e petrolio il guaio della Russia; non vede l’ora che siano sostituiti da altre fonti di energia e profetizza che ciò avverrà molto prima di quanto si creda. Sulle prime, simile posizione potrebbe suonare antipatriottica, ma non lo è. Per capirlo, basterebbe il suo racconto, di ritorno da un viaggio a Kiev: «La città in questi anni ha cambiato faccia, non meno di Mosca. Eppure gli ucraini non hanno una goccia di petrolio. La prosperità se la guadagnano col lavoro e non vendendo idrocarburi».
Il fatto di non avere a disposizione una ricchezza già pronta, le materie prime, costringe un popolo a mettere in campo iniziativa e ingegno per costruire il proprio benessere. Dall’altra parte, un governo che non possa far conto sui facili proventi ricavati dalla loro vendita è costretto a cercare l’attiva collaborazione dei cittadini. Questi due fattori combinati insieme favoriscono l’instaurarsi di un regime di libertà. «Quando sono uscito dalla stazione di Kiev, la prima cosa che ho visto è la parola “Libertà”, scritta in caratteri cubitali su un cartellone» ricordava Andrej, senza nascondere la sua ammirazione.

I media sotto controllo

«Libertà» non è una parola di moda in Russia: non la usano i governanti, non aleggia nelle aule del parlamento e, ciò che più conta, non è neppure sulla bocca dei comuni cittadini; altrimenti negli ultimi otto anni tante cose non sarebbero potute avvenire. Com’è successo con quello economico, questi otto anni hanno visto il progressivo accentramento del potere politico nelle mani del presidente e di un’élite a lui personalmente legata. Si è cominciato col ridurre l’autonomia delle regioni, sia istituendo ispettori presidenziali, col compito di controllare l’operato delle amministrazioni locali, sia tagliando loro le risorse economiche. Si è, poi, passati a modificare i criteri di scelta dei governatori regionali, non più eletti dai cittadini, ma nominati dal presidente. In tal modo Putin si è, di fatto, assicurato il controllo del Consiglio federale, la camera alta del parlamento, dove siedono i rappresentanti regionali, designati dai governatori.
L’altra camera, la Duma, è stata progressivamente occupata da deputati di partiti, apparentemente diversi e in competizione, ma, di fatto, tutti governativi e tutti creati dal Cremlino per attirare diverse tipologie di elettori. La vera opposizione è stata emarginata per mezzo di ostacoli burocratici, cavilli legali, campagne di diffamazione, una magistratura compiacente e limitazioni nell’accesso ai mass media.
Ai tempi di El’cyn era diventato interessante guardare la televisione. Dopo il lungo periodo sovietico, quando il partito comunista controllava i mass media con pugno di ferro, i russi avevano finalmente cominciato a sentire il gusto della libera informazione. Caduto il monopolio statale, comparvero numerosi quotidiani e riviste indipendenti, ma la vera rivoluzione avvenne grazie alla TV, che arrivava in tutte le case. Sui canali privati, finalmente consentiti, trovavano spazio le più diverse posizioni: si parlava di tutto, si criticava, si discuteva, si denunciava. Molto seguiti erano alcuni programmi di satira politica, un genere del tutto nuovo per il pubblico russo.
Le cose cominciarono a cambiare subito dopo l’arrivo di Putin, ma fu la tragedia del Kursk a dare una brusca accelerata al processo di restaurazione. Nell’agosto del 2000, 118 marinai rimasero intrappolati nel sottomarino atomico Kursk, in avaria sul fondo del Mare di Barents. Forse si sarebbe potuto salvarli, se l’emergenza fosse stata affrontata in modo tempestivo dalle autorità. Non fu così e Putin vide la propria popolarità cadere nei sondaggi.
Da quel momento si fece sistematico l’attacco alle emittenti private e, già da settembre, furono posti i fondamenti legislativi di una «dottrina nazionale dell’informazione», che doveva da allora in avanti rispondere anche a criteri di patriottismo.
Nei mesi e anni successivi, mentre il panorama fuori dalla finestra si andava trasformando, quello sulla TV in salotto diventava sempre più monotono. I canali televisivi erano nuovamente controllati. Dovunque ti spostavi trovavi immancabilmente la faccia del presidente: Putin che visita una fabbrica, che incontra un gruppo di cittadini, che ammaestra i suoi ministri o li chiama a rapporto, che riceve un capo di stato straniero, e via dicendo.
Da quando, poi, la definizione di attività estremistica è stata estesa a comprendere la diffamazione di pubblico ufficiale e l’umiliazione dell’orgoglio nazionale, criticare l’operato delle autorità è diventato ancora più rischioso. La nuova legge è stata usata per tacitare giornalisti, ong, gruppi di cittadini troppo intraprendenti. Ad esempio, di estremismo sono stati di recente accusati i parenti delle vittime di Beslan.
Si ricorderà il tragico episodio della scuola di Beslan, dove nel settembre 2004 una quarantina di terroristi tenne in ostaggio per alcuni giorni un migliaio tra bambini, insegnanti e genitori. Più di 300 di loro furono uccisi nel corso di un raid lanciato dalle truppe d’assalto russe per liberarli. Da subito furono sollevati dubbi su come tutta l’operazione era stata condotta. Si costituì un comitato di cittadini che in questi anni ha condotto un’inchiesta indipendente sul massacro, da cui sono emersi elementi che proverebbero il comportamento irresponsabile delle autorità. Il tentativo di renderli pubblici e di ottenere giustizia ha, però, portato all’incriminazione per attività estremistica.
Con un’informazione controllata e filtrata i russi hanno smesso di sapere cosa avviene realmente nel paese. Sarà anche per questo che hanno cominciato a sentirsi più sicuri. All’inizio della sua presidenza Putin si era prefisso di dare maggiore sicurezza e stabilità al paese, due beni preziosi, per i quali i russi sono disposti a rinunciare a una fetta delle proprie libertà. Quell’obiettivo è stato effettivamente raggiunto?

Più corruzione meno sicurezza

Alla fine dello scorso anno, mentre mi trovavo nella sala periodici della centralissima Biblioteca statale di Mosca, si avvertì una detonazione che ne fece tremare la grande vetrata. Si seppe poi che si era trattato di un piccolo ordigno, lasciato in un centro commerciale adiacente al Cremlino, che, fortunatamente, non aveva fatto vittime. Al momento mi stupii per la naturalezza con cui avevo accettato l’idea che fosse scoppiata una bomba. Da qualche anno penso spesso a quest’eventualità durante i miei soggiorni a Mosca, soprattutto quando scendo nel metrò, o mi trovo in un luogo affollato.
Non è solo la capitale russa ad avere problemi di sicurezza. Nel 2004 quando comunicai che ero in partenza per il Dagestan, vidi il mio interlocutore impallidire, perché, mi disse, quella repubblica caucasica è diventata più pericolosa anche della Cecenia: attentati e rapimenti erano quasi quotidiani. E lo sono tuttora.
Gli otto anni di Putin sono costellati di assassini su commissione, attentati e attacchi terroristici, che hanno prodotto un alto numero di vittime e le cui responsabilità e connivenze rimangono ancora in buona parte da chiarire: omicidi di politici e giornalisti, bombe in metrò, su autobus, treni, aerei, centri commerciali. I due episodi più noti sono quelli del teatro Nord-Ost di Mosca e della scuola di Beslan. Ne hanno parlato giornali e TV di tutto il mondo, ma notizie di molti altri fatti meno sensazionali faticano ad arrivare. Il Caucaso continua a essere potenzialmente esplosivo e vi si muore quotidianamente.
Sicurezza e corruzione sono due cose inversamente proporzionali. Per indice di corruzione la Russia in questi ultimi anni è passata dal 126° al 143° posto su 180 paesi. Molti fatti che avvengono nel paese si giustificano solo con la corruttibilità dei pubblici ufficiali. Non è mai stato chiarito, ad esempio, come sia stato possibile per terroristi ben noti alle autorità russe attraversare indisturbati tutto il paese, dal Caucaso a Mosca, e infilarsi nel teatro Nord-Ost con un arsenale d’armi e munizioni.
Pochi giorni dopo la tragedia di Beslan, quando tutta la Russia era sotto shock e le misure di sicurezza rafforzate, un conoscente mi raccontò un fatto appena capitatogli. Quel pomeriggio lui e i suoi colleghi dovevano fare delle riprese alla fiera dell’editoria a Mosca. Siccome erano parecchio in ritardo, per evitare di perder tempo al posto di controllo avevano allungato qualche rublo al poliziotto, che li aveva lasciati passare senza ispezionare il loro furgone. Ripensandoci a freddo, però, il mio conoscente non era più tanto contento di una così buona riuscita. «Il furgone avrebbe potuto essere pieno di armi!» mi diceva costeato.

«La Russia ai russi»

In un primo tempo era corsa la voce, poi smentita, che tra i terroristi di Beslan ci fossero, oltre ai ceceni, molti stranieri provenienti da diversi paesi islamici. I russi hanno la tendenza a cercare fuori di sé la causa dei propri mali: un tempo erano i nemici del popolo, i capitalisti, l’Occidente, a congiurare contro il regime sovietico; adesso sono i rappresentanti di etnie diverse a rendere difficile la vita nel paese. Così, i terroristi sono tutti ceceni o arabi, i mafiosi sono tutti caucasici o centroasiatici, i criminali pure.
Novaja Gazeta, il giornale per cui lavorava Anna Politkovskaja, una delle poche testate indipendenti rimaste, ha recentemente pubblicato un’inchiesta curiosamente intitolata «55%» (N° 15, 3-5 marzo 2008). È la percentuale di chi dichiara di approvare lo slogan: «La Russia ai russi». Purtroppo non si tratta solo di parole, come risulta dalle statistiche pubblicate dal giornale. Sempre più frequenti si sono fatte le uccisioni di cittadini stranieri da parte di gruppi neonazisti o di bande organizzate. Nel 2007 si è a conoscenza di 543 aggressioni per motivi xenofobi, di cui 57 mortali. Questi numeri sono in rapida crescita. Nel 2006 i casi registrati furono rispettivamente 376 e 44, nel 2004 furono 147 e 34. Mosca e San Pietroburgo stanno di gran lunga in cima alle classifiche.
Oggetto della violenza di questi gruppi non sono i «bianchi», vale a dire europei, bensì i «neri», chjoye, i rappresentanti delle etnie caucasiche e centroasiatiche. Dal Caucaso e dall’Asia Centrale provengono i lavoratori stagionali, che arrivano in Russia a svolgere i lavori più umili e duri, quelli per cui la domanda è molto superiore all’offerta. È una soluzione che accontenta tutti, perché la Russia, con i suoi problemi demografici, ha urgente bisogno di forza lavoro, mentre nel sud dell’ex Urss la disoccupazione è cronica. Si tratta di una forza lavoro spesso sottopagata e bistrattata, soprattutto, ma non solo, nel caso dei lavoratori senza un permesso di soggiorno. Nei confronti di questi gruppi etnici gli attacchi xenofobi sono diventati così frequenti da spingere i rappresentanti delle loro comunità in Russia e, in taluni casi, le autorità in patria, a intervenire presso il governo di Mosca.
L’odio razziale non si esprime solamente verso una certa categoria di cittadini stranieri, ma anche verso gli stessi cittadini della federazione, etnicamente non russi. Per gli aggressori fa poca differenza che uno abbia in tasca un regolare passaporto russo. Il crescere di sentimenti nazionalisti e apertamente xenofobi è segno di una società non in pace con se stessa, che ha bisogno di trovare un capro espiatorio per giustificare il proprio malessere.
A noi italiani può capitare di essere scambiati per caucasici e, quindi, di subire le aggressioni verbali solitamente destinate a loro. Un giorno, a una fermata d’autobus, mi si avvicinò un signore che stava mangiando dei lupini. La mia faccia non deve essergli piaciuta, perché cominciò subito una filippica contro chi, come me, invece di starsene a casa propria, veniva a occupare lo spazio degli altri. Io non gli svelai l’equivoco in cui era incorso, ma, poiché gli risposi pacatamente, anche l’uomo moderò il proprio tono e, di lì a qualche minuto, mi offrì addirittura una parte dei suoi lupini.
In una persona possono convivere i sentimenti più diversi; l’importante è fare sì che prevalga la sua parte migliore. Anche in questo caso la responsabilità dei governanti è grande: con le loro parole e azioni essi possono eccitare, o, al contrario, sopire il nazionalismo latente nelle persone. L’accento posto dalla presidenza Putin sull’orgoglio nazionale non sembra andare in quest’ultima direzione.
Zar buono,
ministri cattivi
Per tracciare un bilancio più equilibrato dell’era Putin, oltre ad argomenti economici, come la crescita del PIL, boom delle costruzioni, aumento dei consumi, non sarebbe male tener presente anche gli aspetti di cui si è sopra parlato: l’accresciuto controllo dello stato sull’economia e mezzi d’informazione, la perdita di autonomia delle amministrazioni locali, la concentrazione di potere nelle mani del presidente e degli uomini della sua amministrazione, la polarizzazione della società in buoni e cattivi, nostri e vostri.  «I nostri», così, appunto, si chiama il movimento dei giovani putiniani. Per chi ha conosciuto la Russia sovietica tutto ciò ha un suono stranamente familiare.
Sono sicura che quando toerò la prossima volta dai miei amici di Mosca troverò qualcosa di nuovo all’orizzonte della loro finestra. La Russia va avanti e sceglie il proprio futuro. Per quante previsioni, analisi, o critiche noi possiamo esprimere, esso è in mano ai russi ed è giusto che sia così. Putin non avrebbe potuto cambiare così radicalmente l’assetto economico e politico del paese senza il consenso, tacito o manifesto, dei russi: essi sono contenti per il ritrovato orgoglio nazionale, perché si parla nuovamente di grandezza del loro paese; sono contenti di avere un presidente forte e un governo stabile, anche a prezzo di non avere un’opposizione in parlamento; sono contenti che lo stato si sia ripreso il controllo delle risorse naturali. Azioni come quella contro Khodorkovskij trovano il sostegno della gente, che non ama gli oligarchi arricchitisi con le privatizzazioni.
Il ceto medio è quello che ha più beneficiato degli anni di Putin; grazie al considerevole aumento degli stipendi è aumentato il suo potere d’acquisto e, di conseguenza, il suo senso di sicurezza rispetto al futuro. La sua maggiore autonomia economica non si è, però, tradotta in maggiore autonomia nelle scelte politiche. Alle scorse elezioni parlamentari il ceto medio ha votato per il 60% in favore di Russia unita, il partito del presidente.
Non che i russi abbiano smesso di lamentarsi dei disservizi, burocrazia, carovita e tante altre difficoltà che affliggono la loro esistenza quotidiana. Ma le lamentele, chissà perché, non vengono indirizzate al presidente, bensì ai ministri inetti o ai funzionari rapaci e corrotti. È sorprendente il risultato di un sondaggio che attribuiva a Putin un indice di gradimento del 70%, mentre quello del suo governo si fermava al 30%.
A questo punto, torna alla mente uno dei miti più persistenti di tutta la storia russa, in cui il contadino, oppresso da tributi e obblighi di ogni genere, trovava una sorta di conforto: il mito dello zar buono e dei cattivi ministri. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




TERRA INDIGENA, TERRA CONTESA

Roraima: continua la lotta per la terra

Dopo 30 anni di lotta gli indios di Roraima ottengono legalmente la loro terra. Ma i potenti locali non ci stanno. Così, a furia di ricorsi (e di pressioni), costringono la più alta Corte federale a  rivedere il decreto. Intanto continuano le violenze, nella totale impunità. E il parlamento brasiliano sta per approvare la legge sullo sfruttamento minerario delle aree indigene. Dove si celano giacimenti di minerali che sconvolgeranno i mercati mondiali. Primo fra tutti quello dell’uranio.

Aprile 2005, dopo tre decenni di lotta degli indios, il presidente Ignacio Lula da Silva, firma il decreto di «omologazione» dell’area indigena nell’estremo Nord dello stato di Roraima (e del paese).
Zona di savana, di circa 17.400 chilometri quadrati, vi abitano oltre 16.000 indios di cinque gruppi principali: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Patamona e Ingarikò. La società civile, come il Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e gli stessi missionari della Consolata, che vi lavorano dagli anni ’50, avevano spinto, alcuni anni prima, l’allora candidato presidente a fare dell’omologazione una delle sue promesse elettorali. Ma Lula, solo durante il secondo mandato riesce a fare un colpo di mano e ad apporre la fatidica firma. Forti gruppi di potere locali, ma anche nazionali, sono contrari a questa operazione. Romero Jucà, senatore di Roraima, è rappresentante del governo al senato. Ha dichiarato di essere contro la politica indigena di Lula.
Con l’omologazione scatta anche il decreto di espulsione di tutti quelli che abitano o sfruttano la terra in zona indigena. Lo stato ha previsto un indennizzo per chi è costretto ad andarsene. Così la polizia federale inizia a mandare via i contadini e fazendeiros non indigeni.
Questo non piace ai possieros, alcune famiglie (6 per l’esattezza) che «possiedono» o meglio sfruttano la terra dentro l’area indigena.
«Sono famiglie potenti che coltivano riso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. Alcuni in buona fede altri meno. Oriundi del sud del Brasile, discendenti di giapponesi, italiani. Si sono integrati nel potere e si sono fatti un capitale in questa terra di confine» racconta fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata originario di Varallo Sesia (Vc), dal 1965 a Roraima a fianco degli indios.
«Gli invasori si sono organizzati e hanno formato bande e fatto azioni anche terroristiche. Chi entrava nell’area era minacciato di sequestro». Nel 2004 furono sequestrati pure tre missionari, mentre nel settembre del 2005 fu incendiata la scuola di Surumù. «E questo nella totale impunità, nessuno è mai stato punito. È una legge a favore dei ricchi, hanno in mano gli avvocati migliori, addirittura quelli del governo dello stato sono messi a disposizione» racconta Zacquini.
L’ultimo attacco sanguinoso è del 5 maggio scorso. Un gruppo di indios della comunità Barro stava costruendo delle case in una zona espropriata. I posseiros li hanno fatti sloggiare attaccandoli con bombe molotov. Dieci sono stati i feriti. I responsabili sono stati in prigione pochi giorni e subito liberati.

Un balzo indietro

Ad aprile di quest’anno la svolta. Il Tribunale supremo federale del Brasile accoglie uno dei numerosi ricorsi contro la terra indigena Raposa Serra do Sol che, dal 2005, sono presentati dai potenti dello stato di Roraima (dei 30 ricorsi uno è depositato dal governo dello stato). L’omologazione così com’è oggi è definita «continua» ovvero delimita un territorio nella sua integrità, a eccezione del municipio di Uramutã, dalla caserma del sesto plotone e da alcune strade principali. I fazendeiros propongono una nuova demarcazione «discontinua» o a macchia di leopardo, in modo che molte aree restino sotto il loro controllo. Così l’alta corte brasiliana dovrà decidere sulla costituzionalità o meno dell’omologazione.
«Se il Tribunale supremo darà loro ragione si rischia di minare un diritto acquisito dagli indios e sancito dalla costituzione del 1988. Si creerebbe un pericoloso precedente, per cui tutte le altre aree indigene potrebbero essere rimesse in discussione». La posta in gioco, soprattutto in termini di diritti degli indigeni è dunque elevatissima, ricorda Zacquini.
Proprio per presentare questo dramma a inizio luglio una delegazione di indios di Roraima, composta da Jacir de Sousa (macuxi) del Cir e Pierlangela Nascimiento de Cunha (wapichana), ha visitato alcuni paesi europei, tra i quali l’Italia. Il 2 luglio sono stati ricevuti da Benedetto XVI, che ha dichiarato: «Faremo tutto il possibile per aiutarvi a proteggere le vostre terre». La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) si è già pronunciata apertamente a favore della questione indigena, e così tutti i livelli della chiesa cattolica del Brasile.

Il contesto: qualcosa cambia

«In questi ultimi anni, c’è qualcosa al di fuori dalla normalità, anche del particolare contesto di Roraima» racconta il missionario. «C’è una grande campagna per screditare tutte le attività delle persone e delle entità che lavorano per la causa indigena. In modo nuovo, più accanito, cattivo, con calunnie e divulgazione di false notizie». Anche Abin (Agenzia brasiliana di intelligence), il servizio informazioni del governo federale, divulga notizie false in ambienti calcolati affinché non possano essere contestate. Mi ha sconvolto perché ero convinto che Lula avesse cambiato qualcosa all’interno di questo organo. Portano avanti una guerra di informazione».
Oltre a questo, è stato difficile portare alla luce la realtà di corruzione presente nelle istituzioni che si occupano di sanità indigena. Dopo anni di denunce alcuni dei personaggi coinvolti in queste truffe sono stati arrestati, ma subito rilasciati e sono rientrati nello stesso organo.
Il numero dei progetti di legge tendenti a togliere alcuni privilegi degli indigeni sono aumentati anche con il governo Lula, denuncia fratel Carlo.
«Viviamo inoltre manifestazioni frequenti di autorità, anche militari, contrastanti con le affermazioni e misure pratiche del governo di Lula. Ultimo gravissimo fatto: i generali hanno dato appoggio pubblico a manifestazioni anti indios nella caserma di Boa Vista».
Alcuni militari, in pubblico, hanno detto: «in Brasile chi comanda è Lula, ma in Amazzonia siamo noi». Purtroppo in Raposa Serra do Sol sembra una cosa vera. Il governo federale potrebbe influire di più sulla politica locale di Roraima che è marcatamente anti indigenista.

Divisioni e propaganda

Molti indios, pagati o stipendiati dai posseiros, si schierano contro l’area indigena. La propaganda afferma che sono «la maggior parte degli indios di Roraima». Assolutamente falso, secondo i missionari.
Gli argomenti citati dagli invasori sono sempre gli stessi: pericolo per la frontiera (con il Venezuela e la Guyana, ma non ci sono mai stati problemi) e l’impossibilità di avere un reale sviluppo per lo stato senza sfruttare questa terra.
«Roraima ha una superficie quasi vasta come l’Italia, ma vi abitano 400.000 persone, non vedo come l’area indigena sia così necessaria allo sviluppo» commenta Zacquini.
Hanno creato associazioni miste, bianchi – indios, che danno appoggio agli invasori. Sono una minoranza ma hanno molto spazio sulla stampa.
Dall’altra parte la società civile indigena e chi la appoggia, in lotta per la terra e i diritti dei nativi di queste terre. Il Cir, l’Associazione dei professori indigeni di Roraima, Associazione dei popoli indigeni, l’Organizzazione delle donne indigene, Associazione terra di São Marcos. Solo per citae alcuni.

Oltre al riso, l’uranio

Un’altra questione molto importante sta scuotendo il mondo degli indios e di quelli che vi stanno attorno, di Roraima e tutto il bacino amazzonico: lo sfruttamento minerario dei territori indigeni.
La Costituzione non riconosce agli indios il sottosuolo, che è dello stato federale. Ma piuttosto la superficie della terra, sulla quale possono vivere e avolgere le loro attività tradizionali. Manca però una legge ordinaria che metta in applicazione la Costituzione.
Le aree indigene sono ricchissime di minerali anche molto pregiati: oro, diamanti, tantalio, niobio, terre rare, cassiterite e uranio (vedi anche box). Strategici per l’energia e per l’industria ad elevata tecnologia. «Ve  ne sono quantità enormi, che sconvolgerebbero i mercati mondiali» ricorda fratel Carlo. «Il Brasile possiede la quasi totalità delle riserve conosciute di niobio del mondo, la maggior parte localizzate nell’alto Rio Negro, in Amazzonia, in un’area trasformata in riserva naturale in seguito a pressioni degli ambientalisti inteazionali» scriveva, nel febbraio 1999, Alerta en rede, agenzia brasiliana on line. In quell’epoca infatti furono rese pubbliche le riserve minerarie (e parte dei giacimenti di uranio) dell’area di Pitinga, già sfruttate dagli inizi degli anni ’80.
È attualmente al vaglio della camera la «Legge per lo sfruttamento minerario delle terre indigene», che è già passata al senato, dove è stata promossa proprio da Romero Jucà.
La legge definisce un insieme di regole per poter accedere alle ricchezze del sottosuolo anche nelle aree protette. Con il «permesso» degli indios. In questo caso l’impresa sfruttatrice dovrà pagare delle royalitis. «La mancanza di una legge sugli indios,  implica che le imprese firmino con individi e non con i  rappresentanti dei popoli» ricorda padre Silvano Sabatini, «questo cavillo giuridico renderà molto più facile lo sfruttamento».  «È ovvio che c’è una lobby spaventosa per questa legge.   Vediamo già pressioni sugli indigeni per avere poi i permessi» ricorda Zacquini.
Ed è già iniziata la propaganda per convincere gli indios che grazie ai soldi delle concessioni potranno avere scuole, strutture sanitarie, ecc. «Tutte cose che il governo ha il dovere di fornire, al di là delle royalitis minerarie».

Biodiversità

Senza contare che la presenza di indios è anche garanzia di preservazione della foresta amazzonica e della sua biodiversità. Lo prova il fatto che in alcuni stati brasiliani, dall’analisi della copertura vegetale si scopre che questa è ancora presente solo dove ci sono terre indigene . Una delle conseguenze dell’invasione delle terre degli indios sono infatti i disboscamenti massicci.
L’omologazione delle aree (come nel caso di Raposa) fornisce una copertura legale perfetta, ma in pratica gli invasori ci sono sempre stati, fanno quello che vogliono e di solito restano totalmente impunti (come i numerosi cercatori d’oro in area yanomami).
«Il ruolo dei missionari non è parlare al posto degli indios, ma appoggiarli affinché abbiano condizioni reali di difesa, sappiano farsi rispettare, capiscano l’importanza di queste cose. Questo significa favorie l’accesso all’educazione e all’informazione necessaria per giudicare se è un vantaggio o no una certa legge. Ad esempio quella sull’estrazione mineraria. Dare loro gli strumenti necessari affinché possano fare valutazioni serie e non siano ingannati». 

Di Marco Bello

Il volontario

VERSO CATRIMANI

Siamo partiti da Ajaranì 1, caricando la barca, facendo l’ultima colazione in questa palafitta di legno che ci aveva ospitato per due giorni. Lasciamo quell’odore di pesce e di farinha che era la base dei nostri pasti, pronti per partire su questo fiume instabile sapendo che dopo 5 ore incontreremo la zona più difficile dove ci sono delle rapide. Uno yanomami siede sulla punta della barca per guardare se sotto il pelo dell’acqua incontriamo degli alberi caduti o delle pietre. Io viaggio in uno stato di stupore, senza fermarmi dal guardare questa natura selvaggia: uccelli di tutti i tipi che scappano al rumore del motore, qualche scimmia che si muove sugli alberi più alti.
Mi sembra di vivere dentro ad un documentario, pensando di essere sperduto in questo punto lontano da tutto quello che la nostra società è riuscita a «toccare». È emozionante vivere questo viaggio pensando di aprire un nuovo cammino per arrivare a Catrimani. L’ultima volta la strada è stata percorsa nel 2000, pian piano la foresta l’ha inghiottita e i numerosi ponti sono caduti. La missione è ora accessibile solo attraverso un piccolo aereo per 5 persone.

Per arrivare ad Ajaranì 2 percorriamo a piedi questi ultimi sette km che ci separano dalla maloca dove pensiamo di chiedere ospitalità. L’umidità, gli insetti si fanno sentire. Bisogna passare sopra o sotto gli alberi caduti, uscire dal tracciato perché le piante sono più fitte che nella foresta. Quando ci avviciniamo alla maloca i primi a circondarci e a darci il benvenuto sono i bambini, le donne immersi nella loro vita: che vita! Tutto si svolge dentro ed intorno a questa grande casa comunitaria: vicino alle amache c’è sempre il fuoco acceso, qualcuno prepara la farina, altri arrivano dagli orti portando banane o frutti che ancora non conosco.
Il bambino più piccolo è ancorato con una corda alla schiena della mamma. Più tardi giungono gli uomini dalla caccia, dalla pesca, con i loro archi, frecce e qualche preda nelle borse fatte di erba intrecciata.
Mi siedo su una panca a osservare, facendo un salto nel passato, dimenticando tutte le mie convinzioni. In quel momento ho gli occhi del bambino che guarda senza sapere niente.

Il mattino dopo padre Laurindo parte con la bici per percorrere da solo gli ultimi 40 km e andare a prendere il trattore. Jenesio è già partito con un gruppo di yanomami per pulire il tratto di strada che porta fino al fiume. Io mi ritrovo da solo. Si avvicina qualche bambino e senza fare grandi giochi rimaniamo lì, cercando di trovare un contatto con i gesti, sorrisi… Poi non sapendo cosa fare improvviso una piccola lezione di matematica che prende la dimensione di un gioco.
Il primo giorno non  riesco a mangiare niente guardando la pentola in cui abbiamo preparato il riso il giorno prima. Sul nostro cibo girano liberamente scarafaggi e altri insetti. Mi trovo già davanti al mio primo limite e guardandomi capisco che per me è difficile. Reagisco accettando di mangiare come loro. All’inizio chiudo un po’ gli occhi e la gola sembra non volersi aprire, poi inizio a sentirmi tranquillo e con la voglia di vivere pienamente quello che mi circonda…

Nove giorni dopo arriviamo insieme a Catrimani, base centrale, un’isola in questa foresta dove le costruzioni dei missionari che arrivarono qui 40 anni fa, sembrano un grand hotel. In realtà sono case di legno, ma ci sono stanze, bagno, doccia, una cucina, un po’ di pulizia, erba tagliata. Dopo questi giorni dove ogni metro di cammino nella foresta era da «conquistare», cucinare su dei pezzi di legno, lavarsi in una pozza di acqua.
Mi sono fatto molte domande osservando questo popolo: vita semplice, legata a quello che la natura gli offre. Ma una profondità nel loro vivere, dove il loro essere religioso è il loro stesso stile di vita. Percepisco questo enorme distacco culturale e di valori che ci separa e mi chiedo dove è il punto di unione, chi ha la verità…

DI Tommaso Lombardi*
*L’autore è  partito per Roraima per impegnare
 un periodo della sua vita al servizio degli indios.

Un progetto culturale

Come missionari della Consolata la nostra presenza a Roraima si caratterizza per l’attività tra gli indios. Quello che è stato fatto da decine di noi in passato,ha portato a questa situazione, diversa da quando sono arrivato, quando nessun indio si riconosceva tale. Adesso sono fieri di esserlo. Ancora oggi, però, quando i giovani vanno in città fanno tutto per occultare la loro origine indigena e non essere discriminati.
Nel passato abbiamo fatto molte attività tra i non indios, le nostre forze sono state messe al servizio delle città e degli invasori stessi, e questo ha permesso che si arrivasse a una situazione ancora di grande discriminazione e preconcetto che vorremmo debellare.
Il modo migliore che abbiamo trovato è mettere a disposizione di tutte le persone di buona volontà un ambiente a Boa Vista che dia accesso ai dati e documenti. Questo per sapere cosa vuol dire per uno stato come Roraima avere la fortuna di essere ancora abitato da molti popoli indigeni. Non solo in termini di folklore o turismo, ma anche in economici. Sono popolazioni che contribuiscono all’economia e all’immagine dello stato e potrebbero fare molto di più se le loro peculiarità fossero riconosciute, rispettate, messe in evidenza. Di questo Brasile di cui si sentono profondamente figli.

Si tratterà di un Centro culturale indigeno che permetterebbe di fare attività per far conoscere meglio le popolazioni e la loro cultura. Valorizzare la storia, le lingue, le tradizioni, la ricchezza di questi popoli.
Vogliamo contribuire a cambiare il modo di pensare dei bianchi, contrari ai diritti degli indios. Allo stesso tempo dare agli indios un centro di riflessione e studio per guardare al futuro con sguardo sul passato, con orgoglio, senza vergognarsi dei loro avi.
Non sarà un museo, gli indigeni non sono storia passata, ma di oggi e domani con le loro particolarità a beneficio di tutto lo stato. Ogni volta che muore uno di questi anziani stiamo perdendo un capitale enorme non solo culturale ma anche economico e sociale.
La nostra società mostra i limiti della cultura acquisita nell’ultimo secolo. Credo che faremmo bene a fare un’analisi, guardando a queste altre società, che sono ancora di oggi e hanno cose che possono farci riflettere e farci cambiare per proseguire verso un futuro più umano.

Di Carlo Zacquini


Marco Bello




MASSACRO ( complotti, interessi, bugie)

40 anni dall’uccisione di padre Giovanni Calleri

«Questa è la storia di un martirio. Di un uomo che voleva portare la pace, ma ha trovato la morte».
Padre Silvano Sabatini questa storia la conosce bene, sia per averla in parte vissuta, sia per aver condotto un’approfondita inchiesta alla ricerca di giustizia. Ma molti sono ancora i misteri che circondano questo massacro.
Continua Sabatini:  «Non si può capire la realtà di Roraima di oggi se non si conosce questa storia».
Il primo novembre prossimo ricorre un triste anniversario: il massacro di padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata e di 8 suoi compagni della missione di pacificazione in terra Waimiri-Atroari.
Nel 1968 il governo brasiliano stava costruendo la strada BR174, per collegare Manaus con Boa Vista e, più a Nord, con il Venezuela. Si stava tagliando una fetta di foresta amazzonica che attraversava da Sud a Nord lo stato di Roraima. Ma i lavori erano stati perturbati dai frequenti attacchi degli indios Waimiri-Atroari, che si opponevano alla strada, in quanto questa passava sul loro territorio.
Nel 1967 il rapporto Figueredo aveva reso pubblici massacri e vessazioni ai danni delle popolazioni indigene dell’Amazzonia ad opera di militari e poteri locali brasiliani interessati a invadere le loro terre ricche di legnami e minerali di ogni tipo. L’inchiesta fu bloccata ma in parte trapelò, causando uno scandalo internazionale.
Il governo dovette fare un’operazione di facciata, creando la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) in sostituzione dell’Spi (Servizio di protezione dell’indio). La Funai era costituita da personaggi più o meno credibili. Di fatto, però tutto continuava come prima.

Missione di pace

Fu proprio la Funai che chiese a padre Giovanni Calleri di guidare una missione per pacificare gli indios Waimiri-Atroari, che in caso contrario, sarebbero stati massacrati, per far spazio alla BR174 (cosa che poi avvenne). Calleri, nato a Carrù nel 1934 era arrivato in Brasile a fine ’64 e aveva subito mostrato una grande capacità di relazione con gli indios diventandone buon conoscitore. Lavorando a Catrimani, aveva inventato un sistema iconografico per avere la collaborazione degli yanomami: il «Mamo», ancora utilizzato fìno al 1980, ed era riuscito a pacificare malocas (gruppi o comunità) avversari.
Il progetto di Calleri, appoggiato dall’Istituto nella persona di padre Domenico Fiorina, superiore generale, era chiaro. Convincere gli indios a spostarsi in una zona a 200 km dal sito scelto per la strada, e qui creare un «parco protetto» per preservare il loro gruppo e la cultura. Per far questo, la missione di padre Calleri avrebbe convinto altri indios come intermediari, andando nella zona del rio Alalaù. Questi, trasferitisi nella zona del parco, avrebbero attirato anche il gruppo del rio Abonarì (quelli più vicini al tracciato della strada), che avrebbero così abbandonato le ostilità.
Ma i missionari non sapevano qualcosa di molto importante, che avrebbe influito su questa storia. Nel febbraio del 1968, in quell’area si era recata una missione di prospezione mineraria, guidata dal colonnello William Thomson, con l’appoggio della missione protestante Meva, basata a Kanaxen, in Guyana. La Meva era rappresentata dal suo pastore statunitense Claude Leawitt. Questi, rimase poi quattro mesi nell’area.
Si seppe più tardi che quella zona celava importanti giacimenti di minerali, più o meno preziosi: niobio, tantalite, zirconio, terre rare, cassiterite e uranio. In quella zona alcuni anni dopo si impiantò la compagnia mineraria brasiliana Paranapanema per estrarre (ufficialmente) cassiterite. L’area è ancora oggi super protetta ed è impossibile penetrarvi.

Cambio di programma

Il progetto di Calleri era geniale, ma si scontrava con gli interessi di alcuni potenti locali e stranieri.
Giunto a Manaus il 25 settembre, cinque giorni dopo il padre viene costretto a un cambio di programma: la missione si recherà direttamente presso gli indios del rio Abonarì, per convincerli a cessare le ostilità. «Per accettare una modifica così drastica e rischiosa il padre fu minacciato» racconta Sabatini, che ebbe un lungo colloquio con il missionario subito dopo. Il colonnello Carijò, capo della Der-am (Dipartimento delle strade dell’Amazzonia) promette a Calleri l’appoggio di un elicottero e viveri e materiale.  La Funai dell’Amazzonia è la mandante della spedizione.
Gli altri componenti della missione, sette uomini e due donne, gli furono imposti. Tra loro Alvaro Paulo da Silva, personaggio ambiguo, pagato dalla Der-am.
La spedizione parte da Manaus in aereo il 14 ottobre e raggiunge la base al km 220 del rio Abonarì. Da qui dovrà spostarsi nell’interno. Ci sono i primi conflitti tra il padre e Alvaro Paulo. Questi vuole che la missione si sposti via terra, il padre invece sceglie il fiume.
«In quel momento nella stessa area è nascosto un gruppo di bianchi, brasiliani, organizzati da Alvaro Paulo» riportano le testimonianze raccolte da Sabatini presso gli stessi indios «e vi arriva anche Claude Leawitt, accompagnato da quattro indios Wai-Wai». Anche loro sono lì per far fallire la missione.

Il progetto dei bianchi

«Il disegno era di fare massacrare la spedizione dagli indios. I bianchi avrebbero dovuto verificare che tutto ciò avvenisse».
Ma non andò così. Il genio di Calleri fece in modo da farsi accogliere dai Waimiri-Atroari della maloca del capo Maroaga come visitatore e non aggressore. Alvaro Paulo (allontanato dal gruppo da Calleri che aveva constatato il tradimento) e Claude Leawitt dovettero minacciare «pesantemente» gli indios per farsi accompagnare all’accampamento della spedizione, nel cuore della notte. «Ma furono loro, i bianchi, a compiere il massacro, con armi da fuoco. Poi obbligarono gli indios a trafiggere i corpi di frecce» ricorda padre Sabatini. Era il primo novembre del 1968. Di quel gruppo furono recuperate solo le ossa, 30 giorni più tardi, dai paracadutisti del Parasar, corpo speciale brasiliano.
Tutti i giornali parlarono del massacro di una missione di pace, perpetrato dai bellicosi indios Waimiri-Atroari, che non volevano la BR174 sulla loro terra. Questa è la versione ufficiale, ancora oggi dopo 40 anni. Qualcuno voleva liberarsi di questo popolo, e per far questo occorreva dimostrare che erano feroci indios impossibili da pacificare. Da qui il disegno di una spedizione votata al massacro.
 «Calleri non voleva convertire gli indios nell’immediato. Voleva salvarli. Fu martire della carità, della difesa dell’uomo e dei suoi diritti, della sua identità e cultura» continua padre Sabatini. I Waimiri-Atroari da 3.000 che erano nel 1968 furono sterminati e ridotti a circa 300. Oggi sono un migliaio.

La missione di pacificazione si scontrò con qualcosa di molto grosso e ignoto ai missionari. Tutta la zona tra Roraima, stato di Amazzonia e Sud della Guyana è un’importante regione mineraria. Già nel 1944 gli statunitensi vi avevano fatto missioni di esplorazione mineraria. Potenti locali, politici e militari, avevano questa informazione. La stessa Missione evangelica Meva, basata a Kanaxen, ma presente anche a Roraima, non è estranea a interessi inteazionali in quest’area. Ma non basta. Nel 1999 il governo brasiliano, attraverso l’Industria nucleare brasiliana, pubblica un dato: nella zona del bacino del rio Uatuma (ribattezzato rio Pitinga) sono presenti (almeno) 75.000 tonnellate di uranio, di quello buono. La quantità sarebbe addirittura di 200.000 tonnellate, secondo le più recenti pubblicazioni. Il che porta il Brasile al quarto posto al mondo come riserve del prezioso minerale.

 Di Marco Bello

Marco Bello




Perù. La bianca che voleva farsi Ashaninka

Lima: incontro con una donna speciale

Italiana per nascita, tedesca per matrimonio, peruviana per adozione. Etnologa con alle spalle molti anni vissuti tra le popolazioni indigene del Perú. Un’avventura affascinante, vissuta con una passione e un entusiasmo incredibili. Lei si chiama Maria Heise Mondino. Siamo andati a trovarla nella sua casa di Lima.

Lima, quartiere di Monterrico. Maria abita in una bella casa con il figlio, la moglie di lui e la nipotina. «Datemi del “tu” , così mi sento meno vecchia». Maria è nata a Parma nel 1928, ma la sua freschezza mentale farebbe invidia ad un giovane.

Maria, vediamo se abbiamo capito bene: tu sei italiana di nascita, tedesca per matrimonio e peruviana per adozione… È così?
«È proprio così. Conobbi mio marito ad Innsbruck, in casa di un’amica. Mio padre non era tanto contento di avere un fidanzato tedesco per sua figlia dato che era stato prigioniero dei tedeschi. Alla fine cedette, noi ci sposammo e andammo a Berlino dove mio marito era assistente all’Università. Rimasi in Germania dal 1956 al 1978.
Laureata in lingue straniere alla Bocconi di Milano, io volevo insegnare, ma in Germania la mia laurea non era accettata. Dopo un periodo di depressione, decisi che dovevo ricominciare a studiare, anche se avevo già 41 anni.
Scelsi etnologia (1) con specializzazione su Centro e Sud America».

Come venne l’idea di venire in Perú?
«All’epoca davano delle piccole borse di studio per chi stava facendo ricerche particolari. Io presentai un mio progetto: volevo andare a vedere come funzionava l’educazione nella sierra peruviana per i bambini che parlavano quechua. Io sapevo che l’educazione era impartita soltanto in spagnolo. Lo accettarono e il 9 febbraio dell’anno 1973 partii con destinazione Huanta, una delle province di Ayacucho».

Come fu l’impatto con la gente che parlava quechua?
«Forte. Io avevo studiato la lingua a Berlino, ma mi mancava la pratica. Però provai subito una grande simpatia per loro. Era un villaggio di contadini molto poveri che lavoravano quasi come schiavi nelle aziende del luogo.
  Quella mia prima esperienza fu tanto interessante che ci tornai per alcuni mesi anche l’anno seguente.  E poi ancora nel 1977. Infine, la cooperazione tedesca mi offrì di seguire un progetto sull’educazione bilingue a Puno».

Si dice che a Puno faccia sempre freddo…
«Tanto che gli abitanti stessi giocano sulla parola estación, che significa stagione ma anche stazione dei treni. A Puno – dicono – ci sono 2 estaciones, quella invernale e quella del treno.
Verso mezzogiorno la temperatura sale anche a 22-23 gradi, ma la notte scende terribilmente. Puno è a quasi 4.000 metri d’altezza. L’unica cosa bella è il Lago Titicaca. In compenso, la regione ha una grandiosità e paesaggi incredibili.
Io andavo in lungo e in largo con un Wolkswagen per cercare le scuole che potessero entrare nel progetto».

Le lingue quechua e aymara

Dove si parlano il quechua e l’aymara?
«L’aymara si parla da Puno verso la parte boliviana, mentre il quechua si parla da Puno verso Arequipa».

Ma che tipo di lingue sono?
«Le due lingue hanno un’origine comune. Sono lingue agglutinanti, che hanno la particolarità di essere formate da tanti pezzettini che si uniscono tra di loro.
Si aggiungono questi suffissi che danno il significato alle parole. Suffissi locativi, di direzione, di movimento, eccetera.
Come tutte le lingue amerindie, anche il quechua e l’aymara sono molto differenti dalle lingue indoeuropee. E sono molto differenti anche tra loro. Per esempio, molto diversa è la lingua che si parla nella selva tra gli ashaninka, con cui io lavorai dopo l’esperienza di Puno».

Dalla sierra alla selva. È un bel passaggio…
«Passai in effetti da 4.000 metri sul livello del mare alla foresta, dove  l’ambiente vegetale ed animale era completamente diverso. Per me la selva è di una bellezza straordinaria.
All’epoca poi era incontaminata o quasi. Si arrivava al Rio Tambo con un piccolo aereo Cesna».

Per seguire un progetto di educazione bilingue con chi…
«Con gli ashaninka, popolazione che parla una lingua completamente diversa dal quechua e dall’aymara. Gli ashaninka sono il gruppo più numeroso della selva: si calcola che siano 50.000. Assieme agli aguaruna, sono un gruppo particolarmente combattivo. Difesero il loro territorio fino all’inizio del Novecento, quando entrò l’esercito e con esso commercianti e faccendieri».

Gli ashaninka e Sendero Luminoso

Gli ashaninka divennero famosi durante gli anni di Sendero Luminoso. Tu cosa ricordi di quel periodo?
«Arrivarono in un caldissimo pomeriggio. Il villaggio era semideserto perché la gente era uscita al mattino presto con le 2 canoe. Dalla mia capanna intravidi la canna di un fucile. Andai fuori e trovai almeno 7 persone che mi puntavano addosso i fucili. “Noi siamo dell’esercito di liberazione Sendero Luminoso”, dissero. “Venga con noi che dobbiamo interrogarla”.
Va bene, dissi. Poi, aggiunsi: “Mi mancano le mie sigarette. Sono sul mio tavolo. Se non ci credete, venite con me”.  “Vada, vada, signora”, risposero.
Fui di una sfacciataggine immensa. E ancora oggi mi chiedo “ma come ho fatto?”. Presi dunque le sigarette e poi li seguii fino alla Posta medica. Era tutta pitturata di rosso e avevano issato due bandiere rosse. Due capi, a volto scoperto, cominciarono a farmi domande.
Faceva un caldo terribile, ma uno dei due indossava uno di quei copricapo di lana che coprono anche le orecchie. Mi faceva una pena, ma decisi che era meglio non dire nulla.
Assieme a me, avevano catturato anche un collega, che sembrava piuttosto spaventato, e soltanto due ashaninka, dato che tutti gli altri erano riusciti a dileguarsi nella foresta.
A questi due, che quasi non parlavano spagnolo, chiesero: “Ma come vi tratta questa signora?”. Io pensai che si metteva male per me, ma loro risposero: “Bene, bene”.
C’era un gruppo di uomini di Sendero, molto giovani (avranno avuto 17 anni), che parlavano quechua. Detto per inciso, l’odio degli ashaninka verso quelli della sierra è rimasto anche perché loro li associano a quelli di Sendero.
Il capo politico, quello che faceva i discorsi, disse: “Noi non rubiamo niente. Accettiamo soltanto delle donazioni”. Mentre parlava, vidi uno dei ragazzi che se ne stava andando con la mia valigetta. “Guardi, guardi”, dissi al capo, che subito intervenne facendosi portare la valigetta. Me la fece aprire. C’erano una macchina fotografica e un impermeabile, cioè due strumenti di lavoro. Ed una stecca di sigarette. Io di nuovo sfacciata dissi: “Facciamo metà per uno”. Il capo accettò. Aprì subito un pacchetto, mi offrì una sigaretta e me l’accese con un fiammifero.
Alla fine, ci dissero che se ne andavano e che dovevamo non uscire di casa per mezzora».

«Quella gringa è stata fortunata»

«La sera raccontammo l’avventura agli ashaninka tornati al villaggio. Decidemmo che era opportuno andarsene a Lima per almeno 15 giorni. Perché da una parte potevamo essere accusati dall’esercito di essere collaboratori di Sendero, dall’altra i guerriglieri avrebbero potuto tornare.
Fummo fortunati. Il giorno dopo arrivò un’altra colonna di Sendero, ma questa era molto più dura della precedente. “Dove sta la gringa?”, domandarono subito. “È andata a Lima”, risposero gli indios. “È stata fortunata, perché l’avremmo ammazzata e con lei tutti gli altri”.
Questa vicenda con Sendero segnò però la fine del progetto. Avevo il cuore a pezzi dal dispiacere.
Tutta la zona del Rio Tambo da allora fu sotto il controllo di Sendero per alcuni anni. Gli ashaninka furono costretti a lavorare per i guerriglieri.
In condizioni simili alla schiavitù, dato che la quasi totalità di loro era contro i senderisti, anche a causa del loro spirito libero e indipendente che contraddistingue i popoli della selva e gli ashaninka in particolare. Era come mettere un uccello in gabbia. Sopportarono per alcuni anni.
Un giorno arrivò nel mio ufficio di Lima, Emilio Rios, capo degli ashaninka del Rio Tambo. “Sono venuto per dirti che da ora siamo in lotta armata contro Sendero”.  “È un suicidio”, gli dissi subito. Voi non avete armi. “Abbiamo i fucili con cui andiamo a caccia. Abbiamo i nostri archi e le nostre frecce. Ma non possiamo più sopportare. Per convincerci ad obbedire ai loro ordini, sono arrivati ad uccidere con il machete le nostre donne incinte. Fanno togliere il feto ed obbligano i familiari a mangiarlo.
Fecero anche questo per rompere la loro resistenza.
Cominciò allora una lotta terribile, veramente terribile, senza esclusione di colpi (anche fino al taglio delle teste), tra Sendero e gli ashaninka del Rio Tambo. Però alla fine gli ashaninka riuscirono a respingere Sendero. Fu la sola popolazione indigena, che con le sue sole forze riuscì a vincere, a obbligare Sendero ad andarsene. Fu una pagina eroica di  resistenza, mai adeguatamente ricordata».

Razzismo alla peruviana: «Bianco è meglio»

 Nella tua trentennale esperienza peruviana non hai visto il paese diventare meno razzista?
«No, il Perú continua ad essere razzista. Una cosa che m’indigna riguarda il colore della pelle: più chiaro sei, più vali…».

È ancora molto diffusa questa idea?
«La cosa che più mi scandalizza è che l’idea è diffusa anche fra le classi più modeste. C’è una signora che viene qui tutti i giorni. È un po’ robusta, sui 45 anni.  Un giorno, visto che era nato il suo nipotino, le ho chiesto: “Signora Carmen, com’è il suo nipotino?”. “È molto carino – mi ha risposto -. Assomiglia tutto a me. È bianco come me!”. Non avevo mai osservato il colore della sua pelle e ti posso assicurare che non è tanto bianca. Ma lei ne è orgogliosa… Ha un colore normale, ma lei si vede chiara. Probabilmente questo suo pensare di essere l’aiuta a superare un complesso di inferiorità».

In questi anni i popoli indigeni sono stati protagonisti in America Latina. Come in Bolivia, in Ecuador, in Cile. È stato lo stesso in Perú?
«Non vedo che ci sia questo fenomeno in eguale misura anche qui in Perú, il movimento indigeno è ancora troppo debole».

E diviso?
«Sì. Forse diviso, perché Lima è sulla costa. A Lima c’è tanta popolazione indigena, ma non si fa sentire come dovrebbe».

Eppure in questo paese un indio è stato eletto presidente della Repubblica. Ci riferiamo ad Alejandro Toledo (2001-2006)…
«Per me Toledo è stato una grande delusione. Da quando io sono in questo paese, il migliore è stato Velasco».

Maria, sui libri e su internet si legge che Velasco (1968-1975) più che un presidente fu un dittatore… Ai nostri giorni, lo stesso trattamento viene riservato al presidente venezuelano Hugo Chávez…
«Velasco era molto ingenuo, mal consigliato, male accompagnato. È stato quello che ha fatto la riforma agraria e la riforma educativa, fondamentali… Ma la sinistra invece di appoggiarlo fece di tutto per boicottare le sue riforme e farlo cadere. Imperdonabile.
Ricordo che io arrivai in piena riforma agraria che prevedeva la distribuzione delle terre ai contadini.
Per farti capire come fossero la maggioranza dei latifondisti, ti racconto cosa accadde ad una festa.
C’era una ragazza che teneva un bambino con quei fazzoletti tipici della sierra. Mi disse che nella casa non c’era posto e che avrebbe dormito fuori. Eravamo a duemila metri, e di notte faceva freddo…
Mi venne in mente che avevo ancora il mio sacco a pelo e volevo darglielo. Ma la padrona saltò su come una furia. “Tu creeresti un precedente deleterio… Se tu fai questo, io ho conoscenze molto in alto e ti faccio buttare fuori dal Perú. Ti faccio negare il permesso di soggiorno”.
La ragazza ha dormito fuori coprendosi solo con una coperta…  Io mi sono detta: che mostri che sono queste proprietari terrieri. I loro lavoratori li consideravano poco più che animali».

Insomma, la riforma agraria di Velasco era una cosa necessaria. E quella educativa?
«Un’altra cosa che m’indignò fu l’affossamento della riforma educativa, che era stata elaborata dai migliori pensatori ed educatori del Perú.
Un giorno mi invitarono ad una riunione di maestri. Si cominciò a leggere:  primo articolo bocciato, secondo bocciato, eccetera. Non si discuteva nulla perché arrivava tutto dalla riforma di Velasco. Poi si arrivò ad un articolo che diceva: si fa obbligo a tutti i maestri del Perú di conoscere una lingua veacola. Allora chiesi la parola.
“Guardate – dissi loro – che questo articolo sarebbe a favore dei vostri fratelli campesinos, contadini che soffrono tanto perché i maestri non sanno la loro lingua. Quindi, questo articolo non lo potete bocciare”.
Invece, tutti in coro gridarono: “No, no. Dal governo di Velasco non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Mi venne voglia di dire una brutta parola… Invece, salutai e me ne andai».

Rimanendo sui presidenti di questo paese, nel 2006 i peruviani hanno rieletto Alan García, anche se la sua prima presidenza era stata disastrosa…
«Altro che  disastrosa era stata… C’era un’inflazione a tre cifre… mensili. Sicuramente la cattiva gestione dell’economia da parte di Alan García portò alla vittoria di Fujimori, che era sconosciuto all’epoca…
Pensa che Fujimori abitava nella casa di fronte…  E già a quel tempo era separato da sua moglie, Susanna, un’architetta. Lui veniva qui a vedere i suoi figli ogni 15 giorni.
Un giorno, appena rientrata dall’ Europa, vidi che c’era un cartello fuori della loro casa: in vendita. Allora chiesi in giro e mi dissero che erano andati via perché lui si era messo in politica. Pensavo potesse mirare ad essere rettore universitario, deputato, senatore e invece un bel giorno me lo ritrovai presidente».

Ma Fujimori che tipo di persona era?
«Ricordo che un giorno, forse in campagna elettorale, voleva andare per il Rio Ene. Lui arrivò con una grande carta e disse:  “Voglio andare lì con amici evangelici” (si era messo con le sette evangeliche). Gli dicemmo che era molto pericoloso andare perché era area di Sendero, ma lui insistette e andò con l’elicottero. Lo incrociai tempo dopo e gli chiesi com’era andata. Lui disse: bene. Ancora oggi non so perché fosse andato là e per cosa. Forse aveva dei traffici anche con Sendero…
Comunque, Fujimori era una persona poco appariscente».

E di Alan García che puoi dirci?
«Non l’ho conosciuto di persona, ma non mi è mai piaciuto.
Penso che ad un certo punto ci sia stato un grande imbroglio. Alan García doveva essere processato, ma lui scappò in Francia. Poi, negli ultimi giorni del governo Fujimori, lo graziarono.
Alan García è tornato e ce lo siamo ritrovati prima libero, poi addirittura presidente. Che vergogna. Proprio un bel regalo del signor Fujimori. E adesso io mi domando se Alan García, per ricambiare quel regalo, non farà tornare Fujimori in libertà».

Appunto… Se Alberto Fujimori tornasse libero e potesse ripresentarsi alle elezioni, quanti lo rivoterebbero?
«Purtroppo molta gente, io penso. Ci sono tanti fujimoristi anche fra le classi medio-alte… Andava molto bene, perché ha fatto le strade, faceva regali a tutti, magliette con il suo nome, aveva ristabilito l’ordine… Era un grande populista!».

Anche nella selva le donne…

Tu hai raccontato delle tue esperienze tra gli indigeni. Che ci dici della condizione delle donne indigene, oggi?
«Che anche nelle comunità indigene le donne sono quelle che lavorano più di tutti e che anche gli uomini della selva sono dei macisti.  Gli abbandoni della famiglia da parte dell’uomo sono frequenti e la donna è quella che paga e lavora. Poi la vita vuole che arrivi un altro uomo, lei si illude che possa andare diversamente e nascono altri figli. Poi anche questo se ne va e lei continua a mandare avanti da sola la famiglia…
Mia figlia ha lavorato qui nella salute pubblica, come ostetrica e nei programmi infantili. Quando tornava a casa, raccontava delle cose pazzesche.
Mi raccontò ad esempio di un uomo, compagno di una donna che aveva una figlia 14enne, di cui lui abusava. La bambina rimase in stato interessante. Ma il brutto della storia è che la mamma non buttò fuori casa l’uomo, ma la figlia.
Quando tornava dal lavoro, mia figlia aveva una rabbia… In particolare verso gli uomini…».

«Valiamo per quello che facciamo»

Maria, per concludere, sono 30 anni che ti sei stabilita in Perú. E molti di essi li hai trascorsi a sostenere le istanze indigene. Cosa vorresti dire per chiudere questa lunga intervista?
«Che credo nella popolazione indigena, nei suoi diritti. Credo nell’idea dell’interculturalità della quale tutti parlano ma nessuno sa cosa vuol dire. Nell’idea che tutti valiamo uguali, valiamo per quello che facciamo, non per il colore della nostra pelle. Che se una persona ha una cultura differente dobbiamo cercare di capirla e non pensae male perché è diversa dalla mia. Questo è un errore fondamentale che la gente fa. Ci sono tanti preconcetti, tanto razzismo…». 
Grazie , Maria.  

di Paolo Moiola

L’infinita lotta per la terra

Un sogno che non si avvera

È una pubblicità che rimane nella testa quella della Ong Mani Tese: c’è la suola di uno scarpone da lavoro su cui è rimasta attaccata della terra e sopra una frase tanto significativa quanto lapidaria: «Terra di proprietà. In America Latina milioni di contadini possiedono solo la terra che rimane sotto le loro scarpe».
Passano gli anni, ma il problema della proprietà e della concentrazione delle terre rimane quasi ovunque insoluto. Neppure il presidente brasiliano Lula è riuscito nell’intento di varare una seria riforma agraria che portasse ad una distribuzione delle terre. Anzi, ha fatto arrabbiare sia lo storico movimento dei semterra che gli indios dell’Amazzonia (vedi articolo a pagina 45). Identiche situazioni si riscontrano in Argentina, Ecuador, Colombia e su verso nord fino al Guatemala.
In Perú, in vista della prossima entrata in vigore  (1 gennaio 2009) del discusso «Trattato di libero commercio» (Tlc), il 20 maggio 2008 il governo del presidente Alan García ha approvato il decreto legislativo 1.015 con cui si riduce – dal 66,6% al 50% dei voti dei membri della comunità campesina o indigena – il consenso necessario per vendere o dare in concessione le terre comunitarie. Addirittura, la percentuale del 50% non dovrà più essere calcolata sui membri effettivi delle comunità, ma soltanto sui partecipanti all’assemblea, con il rischio quindi che decisioni di vitale importanza vengano prese da una minoranza.
Il decreto 1.015 è dunque un tentativo esplicito di aprire la strada alle imprese e alle multinazionali, in violazione dei diritti delle comunità campesine ed indigene della sierra e della selva.
D’altra parte, la filosofia ultra-liberista del presidente Alan García era stata già manifestata. In un articolo pubblicato su El Comercio (1), il principale quotidiano del paese,  García accusava chi non consente lo sfruttamento delle risorse del Perú. In primis, dell’Amazzonia. Nonostante l’età e l’esperienza, certi presidenti non migliorano mai. Alan García è certamente uno di questi: fu disastroso durante la sua prima esperienza di governo, oggi prosegue su quella stessa strada.

di Paolo Moiola

Note:
(1)  El síndrome del perro del hortelano, pubblicato su El Comercio del 28 ottobre 2007.

Popoli indigeni ed identità linguistica

¿Runasimita rimanquichu?  

Si chiamano Hilaria Supa Huaman e Maria Cleofé Sumire de Conde sono due donne elette al Congresso peruviano per il partito nazionalista di Ollanta Humala (1). Entrambe provengono dal dipartimento del Cusco e soprattutto sono quechua. Nell’agosto del 2006, le due congressiste sono salite agli onori della cronaca nazionale a causa delle polemiche suscitate dalla loro scelta di giurare in lingua quechua anziché in spagnolo. 
Il quechua (runasimi, nella terminologia nativa), lingua nativa americana, è parlata da circa 10 milioni di persone in vari stati sudamericani: Perú, Bolivia, Ecuador, Colombia (meridionale), Argentina (nord-occidentale), Cile (settentrionale). Fu lingua ufficiale durante l’impero Inca. Per importanza, il quechua precede altre due lingue native, l’aymara e il guaraní.
In Perú, il quechua è idioma ufficiale accanto all’aymara e allo spagnolo. È parlato da circa 3 milioni di peruviani (su 28 totali). Tuttavia, gode di scarsa considerazione e rispetto, come dimostra la vicenda delle due congressiste, forse perché è parlato soprattutto da gente di bassa condizione sociale (indigeni, contadini, donne).
¿Runasimita rimanquichu? ¿Hablas quechua? (2) Parli quechua?

di Paolo Moiola

Note:
(1)  Su Ollanta Humala si legga: Paolo Moiola, Ollanta e Nadine, MC marzo 2008.
(2)  Abbiamo preso a prestito il titolo da un interessante articolo di Hildegard Willer, pubblicato su Noticias Aliadas / Latinamerica Press, 25 aprile 2007.

Paolo Moiola




Piccola luce, grande speranza

Pasqua a Rumuruti, tra le vittime delle tensioni etniche e politiche

Da villaggio di frontiera, Rumuruti è cresciuto a dismisura per l’immigrazione di molte etnie del Kenya; una scintilla ha fatto esplodere le tensioni tra le due opposte culture di pastori e agricoltori, provocando una reazione a catena di distruzione e morte. I missionari hanno accolto gli sfollati e provveduto all’emergenza; ora si stanno attivando per ricostruire soprattutto il tessuto sociale, più difficile
delle ricostruzioni materiali.

Q uest’anno, Pasqua del Signore 2008, ho cambiato: ho lasciato l’ambiente familiare del santuario della Consolata in Nairobi per la missione di Rumuruti. Sono solo 232 km di strada, tutto asfalto, ma è passare da un mondo all’altro, dall’altopiano alla bassa pianura, dalla città alla frontiera. E là dove l’asfalto finisce è Rumuruti.
Scendendo da Nyahururu, a 2.366 metri slm, dopo 35 km ci si affaccia sulla piana di Rumuruti (1.845 m. slm). Il luccichio delle lastre zincate rivela la presenza del grosso villaggio, che ha le sue radici nei tempi dei coloni inglesi, che ne avevano fatto un punto di riferimento per le loro grandi aziende.
FRONTIERA ESPLOSIVA
Fino al 1990 Rumuruti era una manciata di case allineate lungo la strada, con la prigione come attività produttiva principale, e qualche negozio al servizio dei contadini e pastori di quella vasta area semi-arida; oggi è un villaggio cresciuto a dismisura per la continua immigrazione di gente di tutte le etnie: kikuyu, attirati dalle vaste fattorie dei coloni, lottizzate e messe in vendita a prezzi accessibili; turkana scappati da Baragoi (nel distretto Samburu) a causa degli scontri con i samburu; kalenjin (tugen e altri) in cerca di nuovi pascoli dal Baringo; samburu in fuga dalla siccità e dagli scontri con pokot e turkana.
Questa immigrazione di migliaia di persone ha certamente rotto gli equilibri di un tempo, in una zona che era principalmente di passaggio e per gran parte aperta alla pastorizia stagionale. Rumuruti era un villaggio di frontiera, cuscinetto tra varie etnie, terreno aperto e/o ripulito da presenze stabili e prolungate, a causa dei tanti ranch di migliaia di ettari dei grossi proprietari dediti soprattutto all’allevamento.
Dopo l’indipendenza, i coloni, a maggioranza di origine sudafricana, pensarono bene di andarsene, perché il loro modo di trattare i lavoratori locali non li aveva resi amabili. Andandosene, vendettero le loro farms ai migliori acquirenti. Alcune andarono nelle mani di altri grossi proprietari neri e bianchi (come la farm della famosa italiana Kuki Gallmann, o la farm-eden del Colchecchio di un altro italiano), altre furono vendute a gente comune, suddivise in piccoli appezzamenti, non sufficienti a produrre abbastanza per sfamare la famiglia. Altre furono vendute da truffatori a ignari contadini, che si son ritrovati con titoli di proprietà falsi in mano.
Una situazione esplosiva, aggravata dal fatto che spesso due vicini provengono da due culture diverse: l’agricoltore e il pastore. L’agricoltore tiene le sue due vaccherelle di razza nella stalla e cerca di coltivare al massimo i suoi pochi ettari di terra. Il pastore se non ha almeno cento vacche, senza contare le capre, non si sente realizzato. Ma cento vacche non possono vivere in un terreno sufficiente per due. Allora le vacche del pastore trasbordano e invadono il campicello del vicino agricoltore, divorando fino alle radici mais, cavoli, patate e tutto quello che vi è piantato…
Poi ci sono i vicini impoveriti: non sono più pastori, perché hanno perso il bestiame quando son dovuti scappare dalle loro aree originarie; non sono ancora agricoltori, perché non hanno mai avuto la possibilità di imparare. Allora vivono di lavori precari, giornalieri. Ma quando è secco, e può essere secco per lunghi mesi ogni anno, lavoro non se ne trova. Ecco allora che la via più semplice per sopravvivere è quella di rubacchiare.
RIFUGIATI NELLA MISSIONE
Lo scorso marzo, il 6 per l’esattezza, uno di questi poveracci è stato pescato a rubare capre in un villaggio a poco più di 10 km da Rumuruti. La gente del villaggio, esasperata dai continui rubalizi, ha fatto quello che purtroppo succede molte volte in Kenya, quando essa si sente abbandonata dall’apparato di sicurezza dello stato: ha linciato il malcapitato a sassate. La reazione degli amici del morto non si è fatta attendere: aizzati (e finanziati) da un altro gruppo di pastori, con connessioni politiche più potenti, si son scagliati sul villaggio uccidendo e bruciando.
Questo ha innescato una reazione a catena senza precedenti in un’area pur avvezza a tensioni e scontri. Risultato: in pochi giorni più di 20 morti, tra cui donne e bambini, case bruciate, scuole chiuse, gente in fuga, soprattutto tra i contadini, negozi chiusi, mercato del bestiame rimandato a tempi migliori.
Rifugiata in un primo tempo nei posti di polizia o nelle scuole, la gente, soprattutto donne e bambini, ha optato per la sicurezza della missione cattolica di Rumuruti, mentre la maggioranza degli uomini ha trovato sistemazione precaria tra la gente della stessa tribù alla periferia del villaggio. La missione ha aperto le porte a quelli che sono eufemisticamente chiamati Inteally Displaced People (Idp), gente «spiazzata» all’interno della propria nazione: l’inglese è incredibile a inventare sigle per tutte le situazioni.
I rifugiati interni hanno «occupato» la missione: donne e bambini nel grande salone polivalente; vecchi e ragazzi nelle classi dell’asilo; cucina in un angolo del centro pastorale; magazzino del cibo in una classe delle elementari; bagni: tutti occupati e (in breve) straripanti; acqua, fino a bruciare la pompa del pozzo…
In questa situazione padre Mino Vaccari non ha perso la calma. Chiamati a raccolta il suo viceparroco, padre Juan Puentes, le suore Dimesse, Peter Wambugu, il catechista del centro, gli altri catechisti e la gente del consiglio pastorale, ha in breve messo la missione in condizione di poter accogliere tutti con dignità e senza panico, mantenendo anzi il ritmo delle attività ordinarie soprattutto a pasqua.
NOTTE DI Venerdì santo
In questa situazione sono arrivato bel bello la mattina del venerdì santo, a pochi minuti dalla conclusione della via crucis. Dopo i primi contatti con i padri Mino e Puentes, è subito ora di pranzo. Non me la sento di andare subito in giro e sparare foto alla pazza. Prima vorrei capire dove sono.
A me tocca presiedee la celebrazione della Passione, alle 4 del pomeriggio; loro vanno a celebrare in due delle tante cappelle della vastissima missione (circa 90×60 km). Dopo la celebrazione, con il passio cantato, è subito notte, come al solito qui, prima delle sette è già buio. Dopo la cena faccio un giro con padre Juan nelle zone dormitorio. Nel grande salone alcune donne sono indaffarate a stendere in terra i grandi teloni di politene offerti dalla Croce Rossa, altre tirano fuori coperte dai sacchi ammassati sulle scalinate, solitamente riservate agli spettatori, altre preparano i bambini per la notte…
Entriamo salutando, quasi in punta di piedi. Cerco di cogliere l’atmosfera, scattando un po’ di foto senza flash per non attirare l’attenzione dei bambini, ma la luce è così povera che i risultati sono penosi. Allora sparo un paio di flash e… i bambini tornano in vita: di colpo mi trovo davanti alla lente un sacco di mani ondeggianti, riesco a convincere i piccoli che voglio le loro facce non le loro mani, ma ormai non si può più fotografare sul serio. Metto via la macchiana fotografica, scambio un po’ di saluti, cerco di memorizzare ogni particolare dell’ambiente, e poi buona notte.
Ci muoviamo verso le aule dell’asilo, dove i ragazzi più grandi e gli anziani si stanno preparando per la notte. Qui c’è un sacco di luce. In una classe i ragazzi stanno stendendo i soliti teli di politene; in un’altra stanza, i vecchi hanno già arrangiato il tutto e qualcuno sta già per sdraiarsi. Sulla porta due vegliardi pensosi, appoggiati ai loro bastoni, tristezza sul volto, sguardo distante, forse pensando alla loro casetta perduta, alle vacche rubate, al calore del fuoco scoppiettante nella notte fredda, all’odore familiare del tè che borbotta sul fuoco. Ora, qui, solo la prospettiva di un’altra giornata di tedio, lontano da casa, una notte su un giaciglio duro e freddo, in compagnia di vicini e magari amici, ma non certo la famiglia.
Per i ragazzi nell’aula vicina è invece un altro affare, non consapevoli della tragedia vivono questo momento come un grande gioco. Chiacchieriamo un po’, frateizziamo, ma niente foto. Mi sembra di aggiungere violenza a violenza.
MATTINO DI SABATO SANTO
Sole rosso stamattina, promessa di pioggia. La vita in missione comincia presto. Entro nella chiesa ancora buia, cerco l’interruttore della luce, nell’angolo dietro la porta laterale. C’è qualcosa in quell’angolo, cerco di non calpestarlo. Accendo un neon per me. Tra un salmo e l’altro, mi scappa l’occhio. Il fagotto nell’angolo si muove, due gambe emergono dall’ombra, un bastone… si alza, esce… Allora mi ricordo del vecchio turkana cieco, che ogni mattina è il primo a entrare in chiesa e si rintana là, in quell’angolo, all’ombra del tabeacolo, in silenziosa preghiera.
A colazione ci vediamo con i due missionari. I piani del giorno son presto fatti. Pulizia, distribuzione del cibo, appuntamento settimanale con i ciechi e i poveri, controllo dell’acqua, manutenzione ai bagni che sono a rischio di travasare, preparazione della veglia pasquale, incontro con i 70 che riceveranno il battesimo durante la veglia, connessione del generatore alla chiesa nel caso (normale) che la luce manchi, e tante altre piccole cose ordinarie e straordinarie…
Armato di macchina fotografica comincio a osservare la vita che ricomincia negli spazi sicuri della missione. Mamme e bambini cominciano a emergere dal salone. I vecchi sono seduti su una scalinata per riscaldarsi al primo sole dopo una notte umida e fredda. E non è solo il freddo che li rende mesti, ma è l’incertezza del futuro.
Le mamme sono già indaffarate a lavare i panni e con i panni i loro bambini più piccoli, attente a usare l’acqua con parsimonia. Anche se animata dai colori dei panni che si stanno progressivamente impossessando di ogni siepe, rete e filo della missione, la scena dà tristezza, perché quello che normalmente è gestito in privato, ora è davanti agli occhi di tutti, non essendoci spazi privati per l’igiene personale, senza arrivare al lusso di una doccia.
Bimbi e bimbe più grandi sono sparsi qua e là nel campo da pallone e quello di pallavolo. Un gruppetto gioca in un angolo: una buchetta nella terra e una manciata di sassi, e il tempo passa in allegria. Alcuni maschietti ha messo le mani su un pezzo di fil di ferro. Tutti son concentrati sulle mani del più grandicello che piega e ripiega per dar forma a quelli che dovrebbero essere un paio di occhiali.
Più in là alcune bambine vanno su e giù negli scivoli dell’asilo, mentre altre si ammucchiano su un girello fatto girare a tutta forza. Una bimbetta dalla risata facile è tutta bagnata nel tentativo di aiutare la mamma a lavare i panni. Più in là, un capanello di bambine ha trovato un nuovo gioco: sono indaffarate a rifare le trecce alla loro mamma. In un angolo riparato dal vento, dietro il centro pastorale, è la «cucina» dei rifugiati. La luce radente del mattino esalta il fumo e plasma il vapore delle pentole fumanti, piene di uji (misto di latte e farina) per la colazione mattutina.
Una ragazza in età scolare mescola e rimescola la bollente mistura prima di versarla agli anziani che, lasciato il conforto del sole, attendono, non proprio pazienti, la loro razione. La colazione diventa momento di socializzazione, tanto più che durante il giorno c’è ben poco da fare.
L’uji bollente ridona un po’ di caldo, ma la tristezza rimane. Il pensiero va alle case bruciate o saccheggiate, ai bambini senza scuola e futuro incerto, all’insicurezza generale, al timore dei vicini di etnie diverse.
Come tornare a casa, ricostruire, se sono stati proprio i tuoi vicini a bruciarti la casa e rubarti tutto? I grandi, le autorità fan presto a dire «tornate a casa»; ma quale casa? E chi offrirà la sicurezza necessaria? La polizia? Sì, di giorno si fanno vedere, ma «gli altri» si muovono di notte.
Intanto la gente arriva alla spicciolata, per tutti c’è l’uji bollente, mentre un gruppo di donne e di ragazze (a tuo) stanno già lavorando per il pranzo. Oggi è githeri (mais a fagioli), più cavoli e zucche. Primo passo è la pulizia e selezione del granturco e dei fagioli. I larghi coperchi delle pentole diventano setacci, mani veloci, occhi svelti, concentrazione, tanti sorrisi e poche parole, la selezione va veloce. In poco tempo due grosse pentole borbottano sul fuoco per le tre-quattro ore necessarie alla cottura. La scena ha un suo fascino indicibile: il fumo, il sole, la pula, i colori dei vestiti… provo e riprovo a catturare l’atmosfera grazie alla flessibilità della macchina digitale.
I POVERI DI SEMPRE…
Il sole è ormai alto nel cielo; nella missione si vanno radunando due gruppi diversi, uno di fronte alla chiesa, l’altro nel campo di pallavolo. Davanti alla chiesa ci sono donne e vecchi, ciechi e no, quasi tutti turkana (ben riconoscibili dai loro oamenti), più alcuni samburu o di altri gruppi. L’aspetto tradisce l’estrema povertà. Sembra che in particolare gli immigrati turkana (immigrati perché Rumuruti non era certo la loro area tradizionale, come non lo era delle altre etnie) trascurino i loro vecchi e i loro bambini. Questo gruppo comunque costituisce i poveri di sempre… oggi in competizione con i rifugiati dei cui privilegi (razioni di cibo, distribuzione di coperte e vestiti) vorrebbero poter godere.
Nel campo di pallavolo un grosso gruppo, donne in particolare, si stanno radunando intorno al catechista Peter Wambugu, incaricato di cornordinare l’assistenza ai rifugiati in cooperazione con la Croce Rossa. Sono i rifugiati che hanno cercato protezione nella stazione di polizia o in case di amici e conoscenti a Rumuruti, quasi duemila persone. Oggi è il giorno della razione settimanale, distribuita in collaborazione tra governo e Croce Rossa. Tutti si allineano in ordine per il rituale della registrazione e del controllo dei nomi.
C’è nell’aria mestizia, timidezza e pudore. Gente abituata a essere in totale controllo della propria vita, famiglie relativamente benestanti e contadini che riuscivano comunque a produrre il loro cibo, si trovano ora a mendicare e dover dipendere completamente da altri. C’è uno stridente contrasto tra il catechista che deve urlare i nomi per farsi sentire e il timido sussurro di chi deve registrare la propria indigenza.
Chi è registrato si sposta verso l’aula-deposito, ammassandosi in ogni zona d’ombra, visto che il sole è ormai cocente. Finalmente, con la lentezza di un rito, i sacchi di mais vengono allineati e aperti sui grandi teli di politene. Su un altro telo trova spazio un mucchio di vestiti assortiti. I nomi vengono chiamati; sporte, secchi, sacchi si vanno riempiendo. Le donne che hanno ricevuto la razione per la famiglia preparano l’involto con cura, mentre attendono di accedere al mucchio dei vestiti… Quando non si ha più niente non si può essere schizzinosi.
Mezzogiorno è passato da un pezzo; mi chiamano per il pranzo. La distribuzione continua. A tavola cerco di sapere di più, di capire che ne sarà di questa gente. Padre Mino mi assicura che il nuovo commissario distrettuale è in gamba e ha preso sul serio la questione della sicurezza. È vero, le autorità vogliono che i bambini ritornino a scuola, che le scuole riaprano il martedì dopo pasqua e la gente torni a casa. Probabilmente le scuole che hanno anche il dormitorio per gli alunni potranno riaprire, anche perché in tutte ci sono distaccamenti di soldati e poliziotti.
Ma la gente è esitante a tornare a casa. A quale casa? Per ritornare hanno bisogno di due cose essenziali: sentirsi sicuri ed essere aiutati a ricominciare. In questo momento realizzare il secondo obiettivo sembra più facile che assicurare il primo. Infatti, mentre ci sono amici e organizzazioni che possono aiutare a ricostruire (di questo padre Vaccari non ha dubbio), non basta la presenza delle forze di sicurezza per far sentire la gente tranquilla e soprattutto per ricostruire rapporti umani profondamente lacerati. Per tutta la comunità sarà una grande sfida.
Rumuruti continua a restare terra di «missione» e non solo perché i cattolici sono una minoranza (circa il 10% della popolazione), non solo per la povertà estrema e la natura semi-arida della regione, ma anche perché le ferite causate da anni di violenza richiederanno un lunghissimo paziente servizio di annuncio, guarigione, trasformazione e riconciliazione.
LUCE DI SPERANZA
La sera arriva presto. Alle sette cominciamo la veglia pasquale. Un grande fuoco è acceso nel cortile, attorno moltissima gente. Alcuni dei rifugiati guardano incuriositi da lontano; la maggioranza di loro non è cattolica. I chierichetti mi aprono il passo a fatica. Cominciamo attorno a quel fuoco la celebrazione della vita che vince la morte, della luce che scaccia le tenebre, dell’amore che guarisce l’odio.
Entrando nella chiesa alzo il cero dalla luce tremolante e canto quelle parole grandissime: «Cristo è la luce del mondo!». Mi fa pensare quell’annuncio accompagnato da quel segno così debole. Nella notte buia punteggiata dalle stelle, che in questo angolo di mondo sfavillano ancora, perché l’inquinamento non è ancora arrivato e la luna non è ancora sorta, la fiammella di quel piccolo cero osa proclamare la più grande speranza. Che splendida pazzia! E in quel posto, tra quella gente così provata da povertà, divisione, violenza, ingiustizia, sradicamento.
E il miracolo della pasqua diventa vero ancora una volta anche a Rumuruti. Quella notte battezzo oltre 70 persone, uomini e donne, vecchi e bambini, kikuyu e turkana, samburu e kipsigis… L’acqua della vita che verso abbondante, l’olio che guarisce e consacra, lo Spirito che santifica. In quella piccola chiesa nella piana desolata di Rumuruti continuava a nascere un popolo nuovo capace di dire no al tribalismo, all’odio, all’indifferenza, all’ingiustizia. 

Di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Taita obispo

Vent’anni fa moriva mons. Leonidas Proaño, profeta dei popoli indigeni

La vita di Monsignor Proaño è la cronaca di un sogno, che diventa promessa e dovere: «Agli indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione». Un missionario che l’ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita pennella alcuni tratti della sua figura nel contesto sociale e culturale dell’Ecuador che l’ha avuto vescovo e in particolare di quello indigeno
che l’ha eletto padre.

Per ricordare in modo appropriato e degno mons. Proaño, si dovrebbero raccogliere le voci del suo paese e della sua gente. Ancora oggi il segno da lui lasciato è oltremodo evidente, nonostante siano passati due decenni dal giorno della sua scomparsa e altri personaggi ne abbiano invaso e occupato il posto che gli apparteneva. La sua memoria rimane intatta; non c’è traccia di mito nei ricordi, ma nostalgia per questa persona importante e autorevole, che sapeva voler bene ai poveri ed era da essi amata.
Posso dire di averlo conosciuto da vicino per essere stato assieme a lui nei mesi introduttivi della mia presenza missionaria a Riobamba, quando mons. Proaño si era ritirato a vita privata e viveva a Santa Cruz, il centro dei raduni e degli incontri della diocesi. Sono stati due mesi preziosi, in cui ho potuto approfittare della sua esperienza.
Oggi, ho al mio attivo vent’anni di Ecuador, pienamente a contatto con il mondo degli indigeni; quegli stessi indigeni che continuano a riferirsi a mons. Proaño come loro vescovo, anche se in realtà a Riobamba si è ormai insediato da tempo un successore titolare, con altre direttive e differenti opzioni pastorali.
Per ricordare mons. Proaño bisognerebbe infine lasciare che l’Ecuador sveli la sua storia, dagli infiniti scenari e contraddizioni, rincorrendone gli eventi fino al punto in cui la terra tocca il cielo: sulle alte montagne della cordigliera dove vivono gli amici di «Taita Obispo» (papà vescovo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni.
La cultura coloniale
L’Ecuador è un paese multiculturale: in modo più o meno conflittuale vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala, bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» (Tawantinsuyo) simbolizzava l’insieme di popoli integrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola.
Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’apparato coloniale causò la fine delle varie forme di arte urbana, espresse fino a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizionale dei seminati. Immense estensioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire. Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine. Gli indigeni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consumavano.
Tuttavia, nonostante la sottomissione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservarono la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali.
Nell’epoca coloniale, che si prolungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologicamente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da elementi che provenivano dai settori dominanti.
Nella vita quotidiana di tutta la società si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradizioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica.
Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana; molti, però, conservano tracce e lineamenti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la morale sfugge i rigidi precetti cristiani, ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, non mentire, non oziare.
Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador cominciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della borghesia mercantile promossero condizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, più modea e tollerante.
I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportarono benefici alle zone rurali. Gli indigeni continuarono a vivere e lavorare relegati nelle fattorie dei proprietari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rimaneva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantaggi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordigliera andina, si ribellavano all’oppressione solo mediante il reclamo delle terre.
In un paese dalle marcate contrapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea, ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contatto con le culture indigene, soprattutto nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di origine distinta. Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali. 
Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti, ma attento solamente a rispondere agli interessi di una incipiente nazione ispano-ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristiche e necessità dei popoli indigeni. In questo modo si sanzionò legalmente l’opposizione che già esisteva tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse.
La cultura Proaño
A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di contrasto e di rottura con la cultura dominante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolgevano con venerazione o di avversione. Ciò che mons. Proaño diceva, insegnava e promuoveva per gli indigeni diventava parola sacra, da ricordare e attuare.
Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mondo indigeno senza tenee conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e culturale identificato con la figura di mons. Proaño.
Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla variegata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indigeno, nulla fu più come prima. Il «metodo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diventare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno.
«Ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò anche un metodo pastorale molto vincolante, che obbligava coloro che lavoravano con lui ad andare a qualsiasi riunione «disarmati», cioè, disposti a vedere la realtà, possibilmente con gli occhi della gente che la vive e soffre, collaborando ad ampliare questa visione con una informazione teorica che aiuti a capire le cause e le conseguenze di tale realtà.
Poi, in un momento di riflessione più profonda, la realtà veniva passata al vaglio delle aspettative di Dio; il risultato pratico doveva dare vita a un’azione capace di scatenare un nuovo vedere, un nuovo giudicare e un nuovo attuare.
Vent’anni dopo
Oggi, insieme alla coscienza della dominazione subita, gli indigeni hanno maggior consapevolezza del valore della propria cultura. Ciò include anche il rapporto con la propria lingua, il quichua, in confronto con lo spagnolo, lingua ufficiale (e dominante) dello stato ecuadoriano.
Come idioma ufficiale lo spagnolo fu imposto fin dall’epoca coloniale. È la lingua che si usa nelle leggi, nelle istituzioni statali, nell’insegnamento, nei mezzi di comunicazione collettiva, in tutti gli ambiti e istanze della vita pubblica. Si usa anche nella letteratura e nelle pubblicazioni scientifiche e tecniche.
Le lingue dei popoli indigeni sono state invece relegate agli ambienti familiari e sono rimaste circoscritte a forme di comunicazione limitata. Uno sforzo significativo per avviare un sistema educativo bilingue è stato fatto. Purtroppo l’insegnamento della lingua propria è sempre rimasto facoltativo, l’organizzazione dei corsi è sempre stata fatta in modo approssimativo; altrettanto deficitaria è stata la disponibilità di insegnanti validi e materiale didattico adeguato.
Nelle culture e lingue si radicano l’essenza e il senso di identità storica degli indios. Ogni persona che prende coscienza politica della propria oppressione, sa che deve appoggiarsi sulla lingua e sulla cultura per poter affermare la propria personalità e dignità. Sotto questo punto di vista, la spinta data dall’azione di mons. Proaño è stata fondamentale.
Oggi, per la prima volta, si vedono indios in posti pubblici; fatto, questo, che distrugge la figura stereotipata dell’indigeno. Si nota un rinnovamento culturale che porta alla maturazione di nuovi paradigmi di rapporti sociali; la rinnovata presa di coscienza dà i suoi frutti anche a livello politico. La capacità degli indigeni di far fronte comune contro le ingiustizie del sistema si ripercuote sulla situazione culturale del paese intero. Le rivolte e i sollevamenti indigeni sono attività di forte intensità sociale, che hanno generato molti studi e tesi accademiche.
La convivenza tra le culture non è cosa facile da acquisire. Multiculturalità e interculturalità suppongono una posizione ideologica infestata da interessi politici ed economici; imposta questioni di identità, alterità, differenziazione, originalità, razzismo ecc. Tuttavia bisogna sempre tener presente che la pluralità di culture interagenti non comporta la rinuncia alle differenze, ma piuttosto la loro accettazione in una unità equilibrata e totalizzante. Non si tratta di rinunciare alla cultura propria, ma di rivendicare e accettare la permeabilità delle culture secondo un processo di coesistenza che faccia del bene a tutti.
Questo criterio, alla base della pedagogia elaborata da mons. Proaño, è oggi obbligatorio per chiunque voglia avvicinarsi alla pastorale indigena. Molte idee del vescovo sono state accettate e il metodo «vedere-giudicare-agire» è premessa obbligatoria per ogni programma pastorale. Anche la pastorale d’insieme è oramai ovvia e presente ovunque.
Certe persone hanno sviluppato in maniera impressionante il dono di comunicare con la gente: vengono subito capite e altrettanto rapidamente suscitano entusiasmo. Una di esse è stato mons. Proaño. Ancora oggi, basta nominarlo che all’indigeno si accende il cuore e diventa subito pronto a riattivare i ricordi.
Per quanto mi riguarda, invece, continuo a pensare che il vangelo non sia un’opera «chiusa», ma continui ad affermarsi nella storia come composizione permanente, grazie a testimonianze encomiabili e straordinarie; ma esistono anche versioni nuove basate su come il vangelo è stato creduto, amato e praticato. Sarebbe bello e opportuno si pubblicasse finalmente «Il vangelo di nostro Signor Gesù Cristo secondo Proaño, vescovo degli indios». 

Di Giuseppe Ramponi


UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITà

Leonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrionale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavoratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continuamente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere accettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri.
Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario maggiore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pastorale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, decisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conservatrice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi.
Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo.

Sono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della celebrazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, popolo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privilegi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese.
Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative – come la concessione di terre di proprietà della diocesi a una cornoperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali – lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete scomodo che, insieme all’etichetta di comunista, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. (Escuelas radiofónicas populares de Ecuador) gli attira le ire delle classi «nobili» e potenti del paese, che scorgono intenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetizzazione bilingue (quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della parola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani.
Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cristiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprie la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988.

HA DETTO DI SE STESSO

«C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei poveri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di capirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’.
Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che faccio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli».

«T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certamente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella difesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, perché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane».

«P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sinceramente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la povertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale».
(Dall’autobiografia: Creo en el hombre y en la comunidad)

Giuseppe Ramponi




Avanti, c’è posto … (ma non per tutti)

Un paese in cammino verso la modeità

Toando in India a distanza di 10 anni non si può non notare i profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto nelle grandi città. Industrializzazione e turismo creano sviluppo e ricchezza, ma non per tutti, specialmente nelle campagne, dove sembra che il tempo si sia fermato.

S orridente e impeccabile nella sua camicia bianca, il giovane Raj Koli ci accoglie all’arrivo in aeroporto e ci accompagna in auto attraverso una Mumbai che trovo molto cambiata dalla mia ultima visita: molti edifici modei, case restaurate, arterie sopraelevate e un notevole traffico di auto private.
È notte, ma per qualcuno il lavoro continua. Ragazze in motorino, avvolte in scialli, stanno ritornando a casa dal lavoro nei call centers. «Nessun problema, questa è una città tranquilla, sicura per le donne» assicura Raj. Allineati sui marciapiedi vedo figure dormienti avvolte in teli, prova che il benessere raggiunto dall’India non ha toccato tutti.
Costeggiando Mahim Bay noto che sono scomparse le capanne dei koli, gli antichi abitanti di Bombay. Chiedo a Raj se vi sia relazione con il suo cognome. «Certamente, mio padre e tutti i miei antenati erano pescatori e vivevano sul mare, sull’isola di Colaba – spiega Raj -. Da bambino ho imparato a pescare; poi sono andato a scuola e ho potuto frequentare il college». Qualche anno fa il governo ha ripulito le spiagge, fatto togliere le capanne e trasferito tutte le famiglie koli in abitazioni modee.
«Ho quasi 25 anni e i miei mi a-vrebbero trovato moglie, come da tradizione; ma voglio aspettare almeno i trenta e farmi prima una posizione» continua iI ragazzo, che mostra di avere idee chiare.
Ricordo la visita che feci 10 anni fa a Sassoon Docks, il porto peschereccio sull’estrema punta dell’isola di Colaba. All’alba le pescivendole, sedute su grandi cesti di giunco, aspettavano l’arrivo dei battelli, mentre le donne koli camminavano fiere sui moli, nei costumi tribali ricchi di colore e specchietti. Avevano il diritto di vivere sul mare che circonda Mumbai, ora abitano come Raj case dotate di acqua ed elettricità, ma raggiungibili in due ore di treno.
Il giorno dopo mi rendo conto che l’atmosfera è cambiata nella vecchia Bombay: una fiera d’arte contemporanea è aperta accanto al museo archeologico. Qui si possono vedere ragazze con il cellulare, che vestono in jeans e frequentano locali alla moda, tra i quali un paio di gelaterie italiane.
Amy, Rashna e Aban sono tre dame che incontro sulla soglia di casa, un condominio sul lungomare che conduce alla Gate of India. Le saluto, mi fermo a chiacchierare, poi chiedo: «Siete parsi?». Stupite, annuiscono e scoppiano a ridere quando rispondo alla loro curiosità, spiegando che la pelle chiara e il profilo del naso non potevano che essere parsi.
«Siamo 65 mila a Bombay, ma in questi giorni siamo molti di più: è stagione di matrimoni e riceviamo le visite della diaspora. Dall’America, dall’Australia, da ogni dove arrivano e si fermano presso amici e parenti». Nel quartiere vi sono alcuni dei 9 grandi complessi di appartamenti parsi esistenti a Mumbai, chiusi e controllati da una guardia. Vedove, anziani e famiglie vi abitano e si sentono protetti.
Questa metropoli cosmopolita mi affascina anche per la sua ricchezza culturale e la possibilità di venire a contatto con gente di diversa estrazione e cultura.

HYDERABAD
Partiamo dal moderno terminal nazionale con un aereo della Jettlite, una delle nuove compagnie indiane, diretti a sud, nel cuore del subcontinente. Sorvoliamo un territorio aspro e scuro, segnato da fratture drammatiche, dighe e laghi artificiali, oggi oggetto di polemiche e ripensamenti, a causa delle conseguenze negative sull’ambiente e sulle popolazioni.
Hyderabad è estesissima; su una superficie di 170 kmq gli abitanti sono saliti in pochi anni a 5 milioni. Nel centro congestionato dal traffico è difficile camminare: non vi sono marciapiedi e il nuovo tecnologico convive con la vecchia India di accattoni, mucche, carretti e moto.
La città si è ampliata a ovest, nei nuovi quartieri di Cyber City, dove sono sorti alti edifici avveniristici, tuttora circondati da cantieri e lembi di campagna in cui pascolano le pecore. Sui quotidiani si vedono pubblicità che ricordano l’America: qui come a Mumbai si offrono case di lusso con aria condizionata e campi da golf, nonostante l’allarme sul futuro incerto per quanto riguarda l’energia e l’acqua.

GULBARGA

L’autista che ci guida in questo viaggio verso lo stato del Kaataka si chiama Shankar, è indù e sovente si ferma per donare offerte ai templi. Robusto, dalla pelle scura e dall’in-glese incerto, mi parla con orgoglio della sua famiglia. La moglie è un’in-segnante che ha lasciato il lavoro per curare i due figli. «Voglio che i ragazzi abbiano una buona educazione e li ho iscritti in una scuola privata». Poi li chiama al cellulare e me li passa, per farmi sentire l’ottima pronuncia della lingua inglese.
A Gulbarga, una delle città del nostro itinerario, ricche di preziose architetture islamiche, non vi sono solo moschee, santuari e fortezze, ma anche ottime facoltà universitarie.
Ceniamo nella family room dell’albergo, riservata alle donne e alle famiglie. Un gruppo di studentesse di farmacia mi circonda con curiosità. Anitra e Prathisha vengono dal Kera-la e vivono in ostello con le compagne Sindhu e Prachi provenienti da Hyderabad. Tutte hanno intenzione di conseguire una specializzazione all’estero, magari in Australia o in Inghilterra. Sono ragazze forti e decise, indù e musulmane, ma non si nota differenza nel comportamento.

BIJAPUR
Bijapur è una città dalla storia interessante. Capitale di un grande regno indù, venne conquistata dai sultani di Delhi, che la arricchirono di monumenti straordinari. Tra palazzi modei, moschee ed edifici antichi in pietra scura, incontro anche una chiesa cristiana dedicata a tutti i santi, come testimonia la scritta: «All Saints Catholic Church».
Non lontano, in un viale alberato, sorge la piccola chiesa di sant’Anna, dove incontro alcuni gesuiti e giovani studenti universitari che si preparano al sacerdozio. Vengono quasi tutti dal Kerala, hanno un viso aperto e sorridente; oltre allo studio, sono impegnati su vari fronti: Arun lavora negli slums della città. Sono 90 quelli non riconosciuti dal governo, per cui sono privi di elettricità, ricevono rifoimenti d’acqua ogni 8 giorni.
A Bijapur e dintorni, mi spiega padre Teyol, vi sono cinque gesuiti impegnati in varie opere a beneficio dei più poveri: gestiscono una scuola che ospita 480 ragazzi degli slums, dal 1°all’8° grado; vicino all’o-spedale islamico hanno aperto il centro di cura per l’Hiv, che colpisce duramente la popolazione, anche a causa di carenze alimentari, mancanza di igiene e prevenzione. Diverse congregazioni di suore sono presenti nella provincia e, in particolare, a MudoI, città distante 80 km, dove si occupano di circa 4 mila disabili.
La sera sono invitata a cena nella casa dei gesuiti, che ospita anche 45 bimbi orfani. Dopo la cena a base di riso e curry e servita dagli stessi bambini a tuo, mi chiedono di intonare un canto del mio paese.

IL DECCAN
Per un breve tratto percorriamo la strada che collega Mumbai a Bangalore, dove il traffico è pesante, di soli camion. Proseguiamo su strade secondarie attraverso una campagna ben coltivata, dove la vita ha ritmi ancestrali. I contadini hanno steso il raccolto di sorgo e ceci sull’asfalto, perché vengano sgranati dalle ruote dei veicoli, per poi ripulirli dalla pula con i setacci e folate di vento. I carri sono trainati da buoi dalle lunga coa, dipinte in colore azzurro o rosso; lungo i fiumi e ai lavatorni le lavandaie usano le pietre come un tempo.
I siti archeologici che incontriamo in questo vasto altopiano sono numerosi e importanti per la storia del-l’arte indiana. Il triangolo d’oro, formato da Aiole, Badami e Pattadakal, conserva i preziosi templi di tre importanti fasi dell’architettura indù, dal v al ix secolo d.C. Numerose sono le classi scolastiche in visita, istituti d’arte e licei, provenienti da città molto lontane. Tutti amano farsi fotografare insieme a noi o fotografarci, chi possiede una fotocamera.
Hampi è un luogo magico. I resti di un antico regno indù sono sparsi in una vasta zona, attraversata da un fiume e punteggiata da grandi massi di granito. Monumenti, palazzi, templi, lunghi colonnati dei mercati sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione portata dai sultani islamici. Restano anche le antiche canalizzazioni utilizzate per l’agricoltura, ma ridotte a oggetto archeologico, da quando è stata costruita una nuova diga, il cui vasto invaso ha provocato un’eorme quantità di zanzare che oggi infesta tutto il territorio.
A 25 km dal sito archeologico vi è un’acciaieria che assorbe grande quantità di energia e ha richiamato migliaia di persone, un tempo semplici contadini, per lavorare in questa industria. Fa parte della Jsw (Jindal South West), una compagnia che appartiene a uno dei magnati indiani, tra i primi nella lista dei ricchi della terra, come mi ha raccontato il vice direttore dell’acciaieria, signor Ugale, incontrato insieme alla sua famiglia in un ristorante dove ci eravamo fermati per il pranzo.

NAGA
«Mi chiamo Naga, come il serpente sacro, e dovrei avere 33 o 34 anni. Allora le nascite non venivano registrate – racconta la nostra guida mentre percorriamo l’area archeologica di Hampi -. Ho sofferto la fame da bambino; i miei erano molto poveri, della casta dei shudra, agricoltori. La mamma raccoglieva la legna in fascine, le caricava sul capo e andava a venderle, ma non sempre riusciva a comprare cibo per sfamarci».
Donne con fascine sulla testa se ne vedono ancora lungo le strade del Kaataka. Scalze, con anelli alle caviglie, vesti leggere dai colori vivi, il viso avvizzito dalla fatica e dal sole, a volte ricoperto dai monili tribali.
Da quando il sito archeologico di Hampi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, è aumentato il turismo culturale e Naga guadagna bene. «Ho studiato – continua Naga -. Sono entrato all’università con le quote riservate alle caste più basse. Dopo un anno di legge, ho conseguito il diploma di guida turistica e mi sono messo a lavorare. I miei mi hanno trovato una brava moglie che mi ha dato un bimbo, che ora ha 4 anni. L’abbiamo chiamato Ganesh, come l’elefantino figlio di Shiva, un nome che porta fortuna».
Naga vuole dare una buona educazione al figlio, che frequenta una scuola matea privata. Ora si sente forte e orgoglioso di mantenere tutta la famiglia, i nonni e perfino i due fratelli fannulloni, che non hanno voluto studiare.
Gli incontri con questi piccoli indiani, dalla pelle scura e gli occhi vivaci, ammirevoli per l’impegno e la determinazione, mi aiutano a capire il loro paese, che si sta evolvendo pur nelle contraddizioni di situazioni molto diverse.
Naga ha superato una doppia tragedia l’anno scorso. Dopo aver contribuito coi suoi risparmi alla dote di una nipote, figlia di quel perdigiorno del fratello maggiore, suo padre si è ammalato ed è rimasto paralizzato. La giovane moglie, costretta ai lavori pesanti di casa e di assistenza al nonno, ha perso la secondogenita, nata prematura.

GOA
II caldo, i colori, la polvere, il traffico, la povertà: l’India non lascia mai indifferente, quando si percorrono le sue strade in un viaggio che coinvolge profondamente anche l’anima.
Sono stanca di viaggiare in pullman. Lascio l’altipiano del Deccan con un comodo treno che da Hospet mi porta a Goa, attraverso la foresta tropicale, paragonata al bacino delle Amazzoni per ricchezza di biodiversità. La vista di tanto verde e cascate ricche d’acqua che scendono verso il Mar Arabico, è inusuale in India, paese profondamente segnato dal lavoro dell’uomo.
Goa è il più piccolo stato indiano (3 mila kmq), ma con il migliore tenore di vita per tutti i suoi abitanti, grazie alle miniere di ferro, le industrie di tecnologia avanzata, le buone scuole e, soprattutto, iI turismo. Sono diversi milioni i turisti occidentali che arrivano in inverno per godersi il sole e le splendide spiagge del piccolo stato indiano. È impressionante lo sviluppo dell’attività, dovuto alle esigenze di nuovi alberghi e alle richieste di seconde case da parte della nuova classe borghese indiana. Alcune zone sono già state rovinate dalla speculazione. Ma basta allontanarsi dalla costa per ritrovare il fascino delle antiche chiese, costruite nei secoli dai portoghesi.
Goa è una regione ricca di storia, che affonda le radici nel 3° secolo a.C., quando faceva parte dell’impero dei Maurya, per poi passare sotto il dominio dei regni indù dell’altipiano del Deccan. Nel 1312 fu occupata dal sultanato di Delhi; ma fu riconquistata nel 1370 dal re Harihara e per un secolo fece parte del grande impero indù di Vijayanagar, finché ricadde nuovamente sotto il dominio islamico, prima del sultano di Gulbarga, poi di quello di Bijapur, che ne fece la capitale del suo dominio. In fine Goa fu conquistata da Alfonso di Albuquerque (1510), che gettò le basi di quella che doveva diventare la splendida capitale della più importante colonia portoghese del subcontinente, centro di controllo per il traffico delle spezie che giungevano dall’Oriente e della diffusione della religione cristiana in tutto il continente asiatico.
La presenza portoghese durò per quattro secoli e mezzo. Quando infatti l’India si rese indipendente dal dominio inglese (1947), i portoghesi non vollero cedere la loro colonia e resistettero fino al 1961, quando furono cacciati dall’esercito indiano e Goa diventò (1987) il 25° stato della federazione indiana, il più piccolo e il più ricco.
Oggi, dell’inquieta storia dei secoli in cui indù e islamici alternarono su Goa il loro potere non rimane alcuna traccia; mentre abbondano gli edifici storici, cupole e campanili, che svettano tra gli alberi secolari che avvolgono la Vehla Goa.
Fa un certo effetto visitare la cattedrale, la chiesa di San Francesco, la basilica del Bom Jesus, dove i gesuiti custodiscono le spoglie di san Francesco Saverio, il grande missionario che portò il vangelo in Estremo Oriente. Rimango ancora più stupita nel vedere i numerosi drappelli di fedeli in preghiera, che a tutte le ore riempiono le cappelle ricche di decorazioni.

Il mio viaggio si conclude sul colle in cui sorge la piccola chiesa di Nostra Signora della Carità. Il sole sta tramontando nel Mar Arabico e lo sguardo spazia sulla densa foresta tropicale che nasconde case e mercati, segnata da fiumi e canali, percorsi da lunghe navi arrugginite, cariche di minerali. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Sotto la sabbia

Ai confini (2a)

Il lutto, la perdita di una parte della propria esistenza. Occorre rielaborare, ma anche riorganizzarsi. E per questo può essere necessario un appoggio sociale. Come i gruppi di mutuo aiuto. E per gli immigrati ci sono pure altre difficoltà. La necessità di adattarsi, senza però perdere la propria cultura.  

Tema doloroso, quello della morte. Imbarazzante, pungente, difficile da affrontare. La perdita di una persona cara è l’abbandono di un pezzo di vita, di  pochi o tanti fotogrammi che hanno composto il nastro di un’esistenza. Morte e lutto sono trasversali a tutte le etnie, a tutte le culture e gli strati sociali. E se la ferita è tanto profonda per il cittadino italiano, quali e quante risposte trova l’immigrato in un contesto di alterità? Lontano dalla propria rete familiare e dal medesimo tessuto sociale. Ne abbiamo indagato alcuni aspetti, nell’anno del dialogo interculturale.

La ricerca profonda

Lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere. È un concetto che si lega indissolubilmente alla sofferenza e al momento delle lacrime. Certo è che, in primis, il lutto scardina e scompagina il nostro esistere. È  uno schiaffo in pieno giorno, una caduta dall’alto, un male dentro che non trova conforto. Soprattutto dalla perdita fisica della persona cara. Perché, in realtà,  qualsiasi separazione a cui l’essere umano è sottoposto nel corso della propria esistenza è un lutto. Un evento che implica uno stravolgimento e rende imperativo l’accettare che  una parte della vita si è conclusa ma che rimane intatta nella memoria e in fondo al cuore.
È il momento della ricerca del senso, di un’evoluzione più profonda, di un «ritrovarsi» in maniera autentica.
Ma cosa accade dentro la scatola umana quando si affronta tale esperienza? «Il lutto, sia esso relativo alla morte fisica di una persona, oppure a una separazione tra viventi o anche una migrazione da un contesto geografico e sociale verso un altro, necessita di tempo per essere elaborato» sono le parole di  Désirée Boschetti, 34 anni, psicologa psicoterapeuta. «L’elaborazione è un percorso emotivo attraverso il quale la persona non dimentica quanto è accaduto ma trova la forza per guardare avanti, in un certo qual modo  è la sofferenza a venire elaborata, cessando di essere invasiva e distruttiva e mantenendo inalterato il ricordo».
Il tempo diventa protagonista di un processo umano complesso e tortuoso: quello dell’elaborazione. L’orologio non si ferma, ore e minuti proseguono la loro corsa. Come avviene l’elaborazione di una sofferenza così inspiegabile? «Alcune fasi psicologiche sono ricorrenti davanti a un evento luttuoso. Si passa dallo shock iniziale, alla rabbia, alla depressione e alla tristezza, fino a giungere a una sana riorganizzazione della vita stessa. Ri-progettare l’esistenza alla luce del fatto che «l’altro» non c’è più, ri-organizzare spazi fisici e sociali. Ma come sempre questa è la prassi antologica, poi ogni lutto è a sé. Nel peggiore delle ipotesi può capitare che si faccia fatica ad uscire dalla fase depressiva, bloccando e rendendo così patologico il percorso di elaborazione. Questo accade spesso quando la relazione tra le persone era di tipo simbiotico e pertanto non si perde solo l’altra  persona ma una parte centrale della  propria identità».

Scollamento dalla verità

«Sotto la sabbia» è un film di François Ozon che, con delicatezza, restituisce allo spettatore il dramma di una moglie, che alla scomparsa in mare del marito mette in moto una scissione tra mondo reale e mondo immaginario, negando la morte anche davanti alla realtà finale.
È il dramma della separazione improvvisa, della sparizione che non offre neanche la possibilità di un ultimo commiato. «Quando la negazione è così rigida si ha uno scollamento netto dalla verità dei fatti che tende a diventare patologico. Quando parliamo di “elaborazione” tutto è soggettivo. Entrano in gioco le differenti personalità, il rapporto con il defunto, il tipo di decesso, se improvviso o “atteso”,  altri lutti recenti in famiglia e soprattutto se era una relazione pacifica o conflittuale. In questo caso, quando non è più possibile ricucire i conflitti e permangono “sospesi” verbali e affettivi, tutto si complica».
Per non passare dal dolore della perdita al dramma della non accettazione e all’incapacità di ricominciare a vivere, esiste un antidoto che si possa iniziare a prendere da «viventi»? «Sicuramente più sincera e autentica è la relazione  tra le persone,  meno il tema della morte diventa tabù e più diventa semplice salutarsi. Per quanto possibile è dunque fondamentale cercare di esteare i disagi e i conflitti, esprimerli e trovare insieme delle soluzioni. E soprattutto non nascondere “segreti significativi”, taciuti importanti della propria vita,  che possano venire alla luce dopo il decesso della persona e che possano danneggiare l’altro, mettendo alla prova l’autostima e obbligandolo a ridefinire un passato che ormai trova impregnato di finzione».

Gruppi di mutuo aiuto

In una società centrata sull’individuo e sull’individualismo non si sente la necessità di ritualizzare il lutto, di risocializzarlo? Quanto siamo cambiati e quanto si è modificata socialmente e storicamente l’esperienza del  lutto?
Marina Sozzi, docente di tanatologia (parte della psicologia che studia l’elaborazione del lutto) presso l’Università di Torino e Direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, ci spiega: «In Occidente, fino agli inizi del Novecento, la morte di una persona si costituiva come evento sociale e pubblico. In diverse zone dell’Europa meridionale, in particolar modo in quelle rurali, esistono ancor oggi diversi rituali che coinvolgono gran parte della comunità. Queste modalità  permettono di “addomesticare” la morte.
È invece peculiare della nostra epoca modea evitare il disagio emotivo che causa il morire. Respingere e dissimulare la morte comporta però un alto prezzo da pagare. La sofferenza interiore per la perdita e la solitudine che l’accompagna incrementa le sindromi depressive e la difficoltà a ritornare a una vita normale».
Sembrerebbe quasi che parlare di morte sia diventato osceno e che la tristezza non possa essere manifesta. La privatizzazione del lutto, dunque, l’ha reso un evento troppo psicologizzato e poco sociale. Esistono rimedi o progetti per riconsiderarlo a livello comunitario e far sì che la gente si senta meno sola?
«La Fondazione Fabretti di Torino ha recentemente aperto un servizio di supporto al lutto totalmente gratuito che comprende uno sportello in città, gestito da uno psicologo esperto in materia, alcuni gruppi di mutuo aiuto, una campagna informativa presso i cittadini, la formazione dei medici di base e la collaborazione con la curia e con le molteplici associazioni di volontariato. Questo dovrebbe creare una rete di solidarietà estendibile a macchia d’olio, una specie di comunità protettiva per arginare stati di solitudine».
Nello specifico come si differenzierà lo sportello dai gruppi di mutuo aiuto e come sensibilizzerete gli operatori sanitari?
«Lo sportello si traduce in un centro di ascolto in cui è lo psicologo a valutare quali strade consigliare all’utente. I gruppi di mutuo aiuto, che nei paesi anglosassoni esistono già da diversi anni, si basano sulla formazione  di gruppi che “condividono” il medesimo disagio. Il mutuo aiuto inizia con l’auto aiuto, ossia nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva per risolverlo.
L’esperienza di condivisione giova a esprimere i propri sentimenti, a riflettere sulle proprie modalità di comportamento, ad aumentare le capacità individuali nel far fronte ai problemi, sia psicologici sia pratici. Ma anche  a incrementare la stima di sé e a facilitare la nascita di nuove relazioni sociali e di una migliore qualità della vita. A supportare il gruppo ci sarà un esperto, non per tecnicizzare ma per pilotare le dinamiche emotive.
La sensibilizzazione e la formazione presso i medici di base faciliterà invece la possibilità di dar valore a una relazione umana medico-paziente in modo tale che l’operatore sanitario individui campanelli d’allarme importanti nelle persone in lutto e sappia indirizzarli verso il nostro servizio.
Si cercherà inoltre di coinvolgere la curia affinché si creino nuove figure di assistenti spirituali, meno attenti all’orologio ma più aperti al dialogo e pronti a ridare speranza nella vita».

Immigrazione e lutto ovvero: adattarsi

Un’operazione capillare, dunque, per sanare ferite ma anche per ricordare al mondo che senza la condivisione è impossibile sconfiggere il malessere.
Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita avviene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino,  studioso di religione e immigrazione, oltre che assegnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro interculturale della Città di Torino.
«Indubbiamente le domande di senso, in questo caso,  aumentano di intensità. Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche perché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare” la situazione funebre.
La lacerazione della morte necessita infatti di una sorta di spiegazione e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’esperienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antropologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi simile lo è ancor di più».
A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigrati vengano importate in misura identica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’impossibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi.  «La popolazione autoctona tende a dar per scontato alcune usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso storico e culturale basato sul cristianesimo. Il migrante deve invece trovare una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adattare al contesto in cui vive. Incontrando pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico.
I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso hanno l’esigenza religiosa di essere seppelliti entro 24 ore dal decesso ma secondo la nostra legislazione occorre attendere 2 o 3 giorni. Questo è un chiaro intoppo legislativo.
Dal punto di vista pratico un rituale fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavaggio  del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad esempio) con una fonte di acqua pura, ossia utilizzata solo per quella evenienza. Questo è un limite che potrebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dando così il giusto rispetto che meritano i rituali delle culture “altre”. In tal senso sono in corso progetti pionieristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne».
Ma limitazioni di vario genere e prepotenti  gap culturali non provocano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di doversi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origine? «Se consideriamo che i musulmani, per religione, dovrebbero essere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato. A cui devono rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la situazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la nostra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte degli immigrati.
In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebbero minime modifiche nelle legislazioni, ma soprattutto maggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comunità multietnica».
Il lutto, nel suo stravolgente dirompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche legate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli antipodi. Si creano così  nuovi spazi sociali, nuove reti comunitarie. Dal dolore non fuoriesce sempre solo depressione e isolamento. Attoo al credo religioso, alla solidarietà e al bisogno comune si possono formare nuovi gruppi con personali identità».

Una permanenza transitoria

Il significato del rimpatrio ci offre l’idea di quanto l’immigrato consideri il suo vivere «altrove» ossia nel nostro «qui» una permanenza transitoria, ben distinta dal concetto di eternità che può essere vissuta solo nel proprio paese d’origine.
Un ritorno alla terra, in comunione con i propri avi. Il senso della famiglia, delle amicizie e delle tradizioni che la lontananza non può spezzare. «Il desiderio di portare a casa il defunto è prioritario per noi rumeni. C’è un senso di appartenenza alla propria comunità e alle proprie radici molto forte. Soprattutto in ambito rurale, tutta la collettività partecipa al rituale funerario che assume così connotati festivi. Il funerale non deve essere consumato in fretta.
Qui (in Italia, ndr), il tenore di vita è più alto ma si è perso il senso delle tradizioni più profonde. La “fretta” è diventata una costante della vita e ha cancellato l’importanza del sapersi assaporare il momento. Un passaggio doloroso, come quello di una  morte, ha bisogno di sospendere la corsa. Di riflettere, di organizzarsi, di compatire insieme».
Sono le parole di  Rodica Manciu, mediatrice culturale rumena presso l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino. «Da noi la veglia funebre dura tre giorni, durante i quali la vita è sospesa. Tutta la comunità accorre a casa dello scomparso, che non rimane mai  solo.
Al defunto viene lasciata una candela tra le mani, che possa illuminargli la strada verso l’aldilà. Si mangia qualcosa, si beve, si canta  e soprattutto si parla. È un dialogo diretto sulla vita, sulla morte e sulla naturalezza che tutto ciò deve avere. La paura viene esorcizzata attraverso un’autentica ritualità partecipativa».
Queste parole chiariscono l’esigenza di riportare alla terra natia il defunto. Ma i costi sono elevati e la burocrazia infinita.
Come e chi interviene a favore degli immigrati in tale situazione? Ne parliamo con Ranà Nahas, mediatrice culturale musulmana dell’associazione Alma Mater di Torino: «Le pratiche sono lunghe, il rapporto con le Istituzioni non sempre fluido. Attoo all’imam si forma la nostra comunità religiosa, che solitamente lavora insieme per arginare gli ostacoli. Quando l’esigenza è quella di rimpatriare la salma vengono richiesti  degli aiuti finanziari durante la preghiera quotidiana. Solitamente c’è molta solidarietà.
Se il defunto viene sepolto in Italia (recentemente è stato creato uno spazio apposito per i musulmani nel  Cimitero Parco, di Torino Sud), invece, si segue l’iter di presentare la documentazione al Comune che, in caso di indigenza, procura la bara e gli oamenti funerari. 
Il cammino è ancora in salita. Sarebbe auspicabile che l’informazione fosse estesa anche alla comunità italiana, affinché ci fosse un sentire comune che creasse una rete sociale sensibile più estesa e compatta in questi momenti».

Riconoscere le culture ma senza stereotipi

Come trasformare il nostro pensiero affinché si possa considerare «multietnica» la società in cui viviamo? Ci dice ancora Javier Gonzales: «La concezione in voga è quella del “pacchetto culturale”,  ma nessuna cultura va impacchettata. All’interno di un’etnia ci sono gli individui e sono loro, differenti gli uni dagli altri per mentalità e vissuto personale, a fare delle scelte. Si rischia sempre di toccare le estremità di un discorso: da un lato appiattire tutto, negando che ci siano differenze. Dall’altro estremizzare creando solo stereotipi culturali. L’ideale sarebbe riconoscere le diversità, senza applicare delle etichette, altrimenti si ricade nella società segregazionista che tanto assomiglia al modello di apartheid.
Le soluzioni non arrivano mai dall’alto, attraverso scelte autoritarie o politiche, le decisioni vanno condivise attraverso il dialogo, rendendo le persone parti attive nella negoziazione delle scelte. Questo è il modello della vera società multiculturale che profuma di elasticità mentale, informazione e soprattutto della capacità di ascoltare». 

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini