Sogni in catene

Vivere a Joaquim Gomes (Alagoas, Brasile)

Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro vacanze aiutando le suore di San Giuseppe di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina brasiliana: un’esperienza indimenticabile, a contatto con situazioni disperate e nell’impegno di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare  diritti umani e dignità.

La BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di marcia che, nella stagione delle piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio dei lunghi camion che, lungo questa strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile pista di curve, che si insinuano tra le colline, e arriviamo al bivio che ci porterà finalmente alla cittadina di Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo è un enorme cartello su cui, anche da lontano, si può leggere a chiare lettere il nome del paese e, appena sotto, la scritta: «Construindo con Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni amministrative e che ha trasformato il suo bagaglio di denaro in una scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso del termine, il titolo di sindaco, che da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra casa per più di un mese e sarà il nostro «campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie e di diritti negati in questo Brasile in cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di speranza del vangelo. Sono le suore di San Giuseppe di Pinerolo, in parte missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte più debole della popolazione; una popolazione che attualmente risulta composta dalle donne, da qualche anziano e da moltissimi bambini.

Di uomini a Joaquim Gomes se ne vedono davvero pochi; la maggioranza di essi, infatti, è costretta a emigrare in altre regioni dove la manodopera è più richiesta, finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila abitanti, in cerca di un lavoro che permettesse loro di far sopravvivere le proprie famiglie; ma quasi sempre sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros, che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio, e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a nessuno è permesso lasciare il posto di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane ancora il problema di acquistare il biglietto del viaggio di ritorno, che permetta loro di percorrere i tre giorni di pullman che separano il Mato Grosso (terra solitamente di destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.

In assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza dei loro figli, portando avanti la casa e provvedendo alle loro necessità. Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le sentiamo passare per le vie, fuori dalla porta della casa che ci ospita; le vediamo scendere al fiume; in testa portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in braccio quelli più piccoli, pronti per il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini rimasti nel paese ci svegliano mentre, seduti in piazza, colpiscono con lunghe e forti strisciate del machete le pietre della pavimentazione, per preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo, passano vecchi pullman per caricarli e portarli nelle piantagioni, dalle quali toeranno soltanto quando farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di canna tagliata, sotto il sole cocente e con i vestiti che li coprono da capo a piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman uno ad uno e diramarsi nei vari quartieri, con passo rapido, machete in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove, consumato un misero pasto, toeranno finalmente a riposarsi per riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes, nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorgere, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati nella sperduta area del sertão.

La capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa 800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna. Verso l’oceano sorgono i quartieri più ricchi, dove si trovano palazzi e alberghi di lusso, boutique di alta moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas, quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono situate le baracche. Vediamo adulti e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie masse di fango putrido, mischiato alle conformazioni di molluschi che, portate a riva, vengono passate alle donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia, esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che, una volta ripulite, vengono vendute ai ristoratori di lusso per un prezzo irrisorio: un secchio pieno di tali molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani suore brasiliane, che operano in questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le baracche, che, oltre ad essere stretti da permettere il passaggio di una sola persona, sono spesso pieni di rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la sua storia: è nata nella favela; sin da ragazzina è stata coinvolta nei giri della droga, prostituzione e narcotraffico; ha avuto 12 figli, di cui sei morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per i propri diritti, superando la lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e consiglio, per spiegare alla gente chi siamo; nel frattempo il suo sguardo è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti che passano nell’avenida, bambini drogati con la colla,  che tornano dal centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata appena i padroni hanno scoperto che viveva nella favela… E tante altre storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime opportunità.
Con fierezza ci racconta come la Caritas tedesca l’abbia mandata a Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua gente e rivendicare i diritti basilari.

Nella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si consuma un altro dramma di sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini piccoli, dopo aver perso la moglie e le figlie in morti violente, è costretto a sprangare la porta della baracca per impedie l’entrata alla figlia di 12 anni, poiché la ragazza, che vive in strada, ogni volta che torna a casa cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno seguito nella nostra visita, ci aspetta l’incontro più inatteso. Nell’ultima baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il paradosso più grande dell’amore materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi mentali, sviluppati in un mondo che da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile pezzo di gommapiuma, Thiago, un ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito con un sorriso di felicità, ma il suo sguardo è perso nei drammi di una vita bruciata da droga e violenza. Un suo polpaccio è avvolto da una grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da quando ha deciso di tenere il figlio così legato per cercare in qualche modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e per allontanarlo dalla droga, ha chiesto aiuto ai servizi sociali, ma non ha ricevuto alcun aiuto; per cui ha messo in atto una soluzione così drastica, già usata con la sorella e sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà davvero breve. 

Un ragazzo così giovane, ma con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente tutti gli altri contrasti e sofferenze incontrate nella breve esperienza in Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito in modo indelebile nei nostri ricordi, insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda anche l’impegno di tante persone, come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a chi rischia di perderla, a chi non ne ha mai potuto godere pienamente, a chi, ancora così giovane, di tutto questo è stato derubato. 

Di Fabrizio Mola


* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa in una rissa fra ragazzi di strada alla fine di novembre 2008.

Come vincere le Elezioni

Il 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese, consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi alle ue. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle ue per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione per non essersi presentati alle ue o autodenunciarsi essendo rimasti implicati nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni. Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29 novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.

Fa.Mol.

Fabrizio Mola




Zappa, kalashnicov e coca-cola

Breve viaggio nel Mozambico di oggi. Reportage.

Una nazione ricca con l’economia in forte crescita.
Un popolo povero che ha sofferto la colonizzazione e 30 anni di guerra.
Uno degli ultimi regimi socialisti del continente, ma al tempo stesso
aperto al neoliberismo. Il Mozambico è costretto ad accettare
le imposizioni dei donatori inteazionali, perché il bilancio dello stato
dipende da loro. Intanto la democrazia fa piccoli passi
in avanti, in attesa di un necessario decentramento
amministrativo e di un migliore sfruttamento delle terre.

Lichinga, Mozambico. Il boeing 737-200 della Lam (Lineas aereas moçambicanas) atterra nella capitale della provincia di Niassa. Sulla pista, ad attenderlo da un paio d’ore, decine di bandiere rosse, donne e uomini in abiti colorati, frenetici suonatori di tamburi e di bidoni di plastica. Sono alcune centinaia, arrivati con i camion dalle diverse zone della provincia, una delle più povere ma più fertili del paese. Sull’aereo c’è una folta delegazione che accompagna Felipe Paunde, segretario generale del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al potere. Decollato la mattina dalla capitale Maputo, ha anticipato l’ora della partenza, lasciando a terra molti passeggeri «normali».
È il penultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni municipali, previste per il 19 novembre, in un paese che, a sedici anni dagli accordi di pace, fatica ancora a trovare una via verso lo sviluppo. Il segretario generale viene ad appoggiare il candidato alla presidenza del comune di Lichinga.
Elezioni importanti in un paese enorme (800 mila kmq, due volte e mezza l’Italia, ma con un terzo di abitanti), dove il decentramento amministrativo, essenziale per governare un paese così grande, sta muovendo solo i primi passi. Mentre tutto o quasi, resta centralizzato a Maputo, capitale troppo lontana, situata all’estremo sud del paese (circa 2.300 km da Lichinga), incastrata tra il mare e il vicino ricco di sempre: il Sudafrica.
Nella consultazione elettorale si affrontano soprattutto i due maggiori schieramenti: il Frelimo e la Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico). Sono i vecchi nemici di sempre, della feroce guerra civile che ha insanguinato il paese dalla sua indipendenza dal Portogallo, nel 1975, alla firma degli accordi di pace a Roma nel1992. Oggi si affrontano con le ue, in un contesto di grande differenza di mezzi a disposizione. Il Frelimo al potere da 33 anni, ha dalla sua parte una macchina propagandistica ben rodata e mezzi economici a volontà. Non così i concorrenti.
Quest’anno sono 43 i consigli municipali e i presidenti dei comuni (sindaci) che devono essere eletti. Di questi 10 sono nuovi, ovvero è la prima volta che si costituiscono. Segno che qualche piccolo passo avanti nel decentramento si sta facendo.
Il segretario generale è appena sceso dall’aereo e rilascia la prima intervista. Intanto i passeggeri rimasti scendono e attoniti cercano di farsi largo tra la folla per raggiungere l’area recupero bagagli.

La guerra non perdona

Il paese oggi resta segnato da 500 anni di dominazione portoghese, ma anche da quasi tre decadi di guerra che contraddistinguono la sua storia recente. All’inizio degli anni ’60 quando la maggior parte dei paesi africani diventavano indipendenti, le colonie portoghesi si vedevano negato questo fondamentale passaggio.
Nel 1964 l’intellettuale Eduardo Mondlane, in esilio in Tanzania, fonda il Frelimo e dichiara l’inizio della guerra d’indipendenza.
Il conflitto è cruento e i portoghesi non mollano. Il Frelimo riesce a controllare vaste zone nel Nord del paese. È il 1975 i tempi sono maturi. L’anno prima la ribellione militare in Portogallo ha chiuso con i regimi dittatoriali di Salasar e del successore Caetano. Il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo si vede consegnato il potere e Samora Machel è il primo presidente della repubblica popolare. Il regime opta per l’ideologia marxista-leninista e una sua applicazione piuttosto rigida. Nazionalizzazioni, emigrazioni forzate per popolare il nord e campi di rieducazione. I beni della chiesa sono confiscati e i missionari costretti a lasciare le missioni sono radunati nelle città.
Negli stessi anni, portoghesi fuoriusciti appoggiati dalla Rhodesia di Jan Smith (l’attuale Zimbabwe) e dal Sudafrica dell’apartheid, organizzano una guerriglia controrivoluzionaria: la Renamo. La guerra fratricida è cruenta, i campi pullulano di mine e diventa difficile per i contadini far rendere la terra. Solo gli accordi di  pace generali di Roma (4 ottobre 1992), con un importante ruolo giocato dalla chiesa, riportano la pace.
Il Mozambico indipendente è devastato, e inizia allora i primi passi verso lo sviluppo. L’intervento dei donatori inteazionali, di Fondo monetario internazionale (Fmi) e di Banca mondiale (Bm) sono massicci.

Economia: macro e micro

Negli ultimi 5 anni il paese ha presentato indicatori macroeconomici che rispecchiano un’economia dinamica: crescita del pil intorno al 7- 8%, inflazione tenuta al 13,2% da un ambizioso piano governativo, buoni scambi commerciali. Ma il mozambicano medio continua ad avere una speranza di vita intorno ai 42 anni, mentre solo il 38,7% dei maggiori di 15 anni risultano alfabetizzati. Una situazione socio-economica complessa che vede il paese al 172simo posto su 177 della classifica Onu basata sull’indice di sviluppo umano. Quanto basta per dire che è «tra i più poveri del mondo».
«L’economia mozambicana, incluso il bilancio dello stato, continua a essere finanziata in larga parte dai donatori esteri. Un gruppo di 19 partner, tra cui Unione europea, Canada, Usa, Giappone, ma anche Fmi e Bm». Chi snocciola l’elenco è Brazão Mazula, professore, già rettore della maggiore università del paese, la Eduardo Mondlane. Membro storico del Frelimo, che nel 1994 gli affidò l’organizzazione delle prime elezioni libere nel paese. Mazula si è formato come missionario della Consolata, diventando anche padre per poi uscire dall’Istituto.
«Se il governo vuole gli aiuti inteazionali, sono i donatori che decidono qual è la direzione che deve prendere il Mozambico per il suo sviluppo. Anche questi indicatori economici rispondono a un loro desiderio. A novembre una missione del Fmi ha valutato positivamente la performance dell’economia mozambicana».
Ma il professore è realista: «Un’altra cosa è dimostrare che questa crescita economica ha un impatto sul benessere della gente. Non ci si può fermare a Maputo per dire che questo è il paese». Maputo è una città modea, con centri commerciali, grosse vie con marciapiedi, palazzi, luci e vecchie case in architettura coloniale. Circolano molte automobili, anche costose. Ma come accade spesso in Africa, la capitale non è specchio della situazione e le condizioni di vita nell’«interno» sono molto diverse.

Poveri in un paese ricco

«La povertà è reale – continua il professore – secondo dati ufficiali il 70% della popolazione è in stato di indigenza e la maggior parte di essa risiede in campagna».
Ma come vive e sopravvive il mozambicano medio, nel mezzo di questa situazione così grave, nel contrasto tra uno sviluppo economico effettivo e una povertà diffusa?
«La popolazione è ancora orientata a un’economia di sussistenza. In particolare è importante la questione della terra per il contadino: se ha terra sufficiente, coltiva il suo mais, la manioca. Il problema sorge quando la legge mette a rischio la sicurezza della terra per il futuro. Togliere la terra al contadino è come togliergli la cittadinanza» insiste il professor Mazula. E continua: «Le politiche macro economiche degli ultimi anni portano alla privatizzazione delle imprese, ma anche della terra. Il contadino un giorno si trova di fronte un connazionale (o uno straniero), che gli presenta dei documenti e gli dice che la terra, suo unico sostentamento, fa parte di un’altra proprietà e non è più sua. «È questo che aggrava la povertà».
«Un esempio concreto sono i bio-combustibili, come quelli ricavati dalla canna da zucchero. Le imprese produttrici hanno bisogno di migliaia di ettari. Se questi progetti non sono ben applicati i sacrificati saranno i contadini».
Le potenzialità agricole del paese sono enormi e variano a seconda della regione e fascia climatica. La terra è fertile (in particolare al nord), bagnata da grandi fiumi e da una stagione delle piogge estesa, in media, da fine novembre a marzo.
Le produzioni principali per uso alimentare sono mais, manioca, sorgo, riso, legumi, patata dolce e banane. Per l’esportazione si produce canna da zucchero, tabacco, tè, cotone e palma da cocco.
Ma la terra in generale non è ben sfruttata: resterebbero almeno 4 milioni di ettari da valorizzare. Inoltre ci sono ancora mine antiuomo nei campi (sono sempre all’opera squadre di «sminamento»). Molto diffusa è l’agricoltura famigliare di sussistenza.
«La minaccia è che nella visione di economia di scala, si vuole trasformare il contadino in un lavoratore per grandi imprese agro-industriali. Un problema è che il nostro contadino è analfabeta. Non è un’operazione che si può fare da un giorno all’altro. C’è la questione dell’educazione».
Gli interessi economici inteazionali sono grandi e quindi ci sono molte pressioni sul governo: «Dipende da noi, dobbiamo accrescere la nostra capacità di negoziazione. Nessun investitore investe per perdere. Le istituzioni inteazionali non vengono a fare la carità, ma affari. Dobbiamo avere capacità tecnica e di negoziazione, in modo che entrambi, noi e loro, possiamo guadagnare da questa situazione».
Si ricorda che metà del bilancio dello stato è appannaggio dei donatori inteazionali, mentre si parla di aiuti per 435 milioni di dollari nel 2008. Una parte dei quali per finanziare l’ambizioso «Piano d’azione per la riduzione della povertà assoluta (Parpa)».
Da qui il ruolo della formazione superiore, per formare risorse umane in quantità e qualità, che conoscano le leggi, l’economia, il commercio internazionale. «È una nostra sfida. La stabilità economica e politica passa dall’educazione e dalla formazione del cittadino. Lo sviluppo, per me, è libertà di scegliere» continua il professore.
Non solo educazione di base quindi, che Bm e Fmi «impongono e limitano», ma una formazione che porti il cittadino a essere meno manipolabile possibile e in grado di scegliere.
«Il governo decide le politiche, ma dovrebbe negoziare con il cittadino. Al contrario, per la crescita economica, il nostro governo rende conto di più ai donatori che ai mozambicani… perché da questi non vengono soldi».
Sul piano dell’educazione il paese si è dato un piano strategico 2006-2011. «Questo mostra buona volontà. La coscienza che c’è qualcosa da cambiare: centrare lo sviluppo sul cittadino e non sui desideri delle istituzioni finanziarie inteazionali.
Non possiamo pretendere che tutte le persone vadano all’università… ma che ogni cittadino, a qualsiasi livello termini la sua formazione, sia in grado di lavorare o dare lavoro e di produrre ricchezza. Il ministero dell’educazione sta facendo uno sforzo, in questo senso».
Il programma prevede la costruzione di 4.100 aule scolastiche in ambito rurale ogni anno e che in ogni distretto ci sia la scuola secondaria.

Verso il Marxismo neoliberale

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, il Frelimo ammorbidisce il modello socialista e inizia le riforme per far spazio al mercato. Il cambiamento è favorito da un avvicendamento al vertice: Samora Machel, leader intransigente, muore in un misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1986. Disastro in cui sarebbero implicati i servizi segreti sudafricani.
Gli succede Joaquim Chissano, uomo diplomatico, comunicatore, che imposta la transizione e traghetta il paese alla pace. Il nuovo presidente, pragmatico, accetta le condizioni dei partner inteazionali, come una nuova costituzione di fine 1990 che legalizza il multi partitismo (ancora rivista nel 2004). Si procede poi a una serie di privatizzazioni, non prive di scandali. Si forma così una nuova classe borghese legata al Frelimo, che si arricchisce grazie alle vendite dei beni statali. E la corruzione, fenomeno quasi sconosciuto per i dirigenti del partito all’indomani dell’indipendenza, aumenta.
«La corruzione deve essere combattuta, ma occorre anche capire come è iniziato questo fenomeno nel nostro paese – denuncia Felipe Couto, missionario della Consolata, magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane e persona influente nel Frelimo -. Noi eravamo l’unico partito: ci hanno imposto il multi partitismo. Poi ci hanno detto: dovete entrare nel Fmi, nella Bm, dovete aprirvi al neoliberismo economico. Così sono arrivate le agenzie inteazionali e le Ong. Hanno iniziato a girare molti soldi. La corruzione dipende da noi, ma non solo».
Nel novembre 2000 è assassinato il giornalista Carlos Cardoso, che portava avanti un’inchiesta sulla privatizzazione delle due più grandi banche del paese: il Banco Comercial de Moçambique e il Banco Austral. Ci sono stati alcuni arresti, ma i veri mandanti sono ancora liberi.
Nelle elezioni del 2004 Chissano si ritira e gli succede Armando Guebuza (febbraio 2005), l’allora segretario generale. È un avvicendamento al vertice non privo di cambiamenti. Guebuza, oltre a essere numero uno di un partito comunista è anche uno dei più ricchi uomini d’affari mozambicani. La sua rete di business va dalla birra alle costruzioni, all’export, al traffico nel porto di Beira.
In politica si rivela più tradizionalista. Subito cerca di imporre un maggior rigore: lancia la seconda fase della riforma del settore pubblico (2005-2011), che include un ambizioso programma di lotta alla corruzione.

Donne e integrità al governo

«Il programma del governo prevede quattro punti: riduzione della burocrazia, lotta alla corruzione, alla criminalità e alle malattie endemiche come l’Aids» ci racconta Vitória Diogo, ministro della Funzione pubblica. Testa alta e parlata chiara, quasi da campagna promozionale. Fiera di essere, donna e capo del maggior datore di lavoro del paese, con 167.000 impiegati.
Nel governo mozambicano, ci sono otto donne ministro (incluso il premier) e si arriva a tredici con i viceministri. Anche nel parlamento, forte è la partecipazione femminile, circa il 30%.
La «strategia di lotta alla corruzione» varata dal governo nell’aprile 2006 prevede, dice il ministro di «istituzionalizzare l’integrità» ovvero promuovere l’integrità come valore umano. «Tra il 2006 e il 2007 sono stati identificati 2.414 casi di corruzione, seguiti da processi disciplinari, di cui 813 espulsioni». Sicura, il ministro Diogo, elenca i risultati per quello che riguarda la «piccola corruzione».
Di fatto la corruzione è ancora molto radicata a tutti i livelli e si può avvertire non appena si passa la dogana in aeroporto. C’è però anche una campagna pubblica, con tanto di manifesti, che invita la società civile e la gente in generale, a denunciare casi di pressioni e malversazioni dei funzionari.
Ma il salario minimo legale è ancora molto basso: 1.950 meticais (65 euro) al mese, anche se si stanno studiando sistemi di incentivo. In un paese in cui il costo della vita (almeno in città) è simile a quello europeo. La benzina, madre di tutti i prezzi, in quanto influisce sui trasporti, arriva a costare anche 1,5 euro al litro, il gasolio 1,23. Il regime di stipendi bassi non facilita la riduzione di questa piaga.
La strategia anti corruzione dipende dal Gabinetto centrale di lotta alla corruzione, di competenza del primo ministro, Luisa Diogo, sorella di Vitória.
Secondo la classifica della corruzione, stilata ogni anno dall’Ong Transparency Inteational, il Mozambico è sempre nella fascia dei paesi più corrotti al mondo: nel 2008 occupa il 128simo posto su 180.
La riforma del settore pubblico, prevede inoltre il miglioramento delle prestazioni dei servizi, vuole «mettere il cittadino al centro», incentivare la buona governance e aumentare la professionalizzazione delle risorse umane.
«Il funzionario per servire ogni volta meglio il cittadino» è lo slogan ufficiale della riforma.
Programmi questi molto amati (e sollecitati) dai donatori e che il governo cerca, tra mille difficoltà, di mettere in atto.

Le priorità

Come decano dell’università, il professor Brazão Mazula identifica quattro aree importanti per far uscire il paese dalla povertà e portarlo verso lo sviluppo. Aree che identificano settori prioritari  per la formazione di quadri del paese: educazione integrata, formativa e critica, sanità, agricoltura e pesca (il mare è una ricchezza), turismo. Quest’ultimo, grazie alla posizione geografica e alle bellezze del paese (parchi naturali, spiagge da sogno, isole) è diventata la prima industria del paese. Gli investimenti dei vicini sudafricani in questo settore sono notevoli. Basti pensare che per i mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica, i pacchetti turistici prevedono, dopo le partite, alcuni giorni sulle spiagge del Mozambico.
Sul piano della salute l’emergenza maggiore è l’Aids. «I casi sono in costante aumento, non si riesce a frenare – racconta suor Raquel Gil Mas, missionaria dominicana, medico, che si spende ormai da anni sul tema -. In alcune province si parla del 27% di sieropositivi». Mentre i dati ufficiali sono intorno al 17% a livello nazionale. Un programma del governo fornisce farmaci antiretrovirali gratuitamente a tutti coloro che risultano positivi e si affidano alle cure di un centro. «Questo è un aiuto fondamentale perché riusciamo a far vivere tanta gente che altrimenti sarebbe già morta. Il problema è che arrivano da noi quando ormai sono in stato terminale».

Elezioni monocromatiche

Alle elezioni municipali di novembre il Frelimo ha stravinto, togliendo alla Renamo anche i cinque municipi storicamente sotto il suo controllo, e ottenendo la maggioranza nelle assemblee municipali e i sindaci. Tranne a Beira, seconda città del paese, dove succede a se stesso l’indipendente Daviz Simango, già Renamo.
Il leader della Renamo, Alfonso Dhlakama ha da tempo perso in popolarità ma non vuole farsi da parte. Questa sconfitta, però, lo mette in seria difficoltà e si parla di avvicendamento alla testa del partito, il più grande, nonostante tutto, all’opposizione.
«Ci sarà vera opposizione solo quando il Frelimo avrà una scissione al suo interno» sostiene qualche osservatore. Intanto, si attendono le elezioni presidenziali di fine 2009, nel perenne equilibrio tra compiacere ai donatori e autodeterminazione del proprio futuro. 

Di Marco Bello

Marco Bello




È accaduto a Cornuda …

Esperienza esemplare di incontro interreligioso

«Non v’è costrizione in religione»: l’espressione, tratta da una sura del Corano, è stato il tema del sesto incontro-dibattito tra cristiani e musulmani nella diocesi di Treviso. L’originalità dell’esperienza sta nel fatto che tale incontro si è tenuto nella sala del municipio
di Couda (TV), a promuoverlo e dirigerlo sono stati il sindaco e il vicesindaco.

È stato sicuramente eccessivo il mio entusiasmo quando, in occasione dell’incontro interreligioso di sabato 27 settembre 2008, ho paragonato Couda alla Baghdad dei califfi. Ma, ne valeva la pena!
Couda è un comune del trevigiano, di circa 6 mila abitanti, nella cui aula consigliare, il giorno successivo alla «Notte del destino», 27ª di Ramadan, si è svolto un incontro tra cristiani e musulmani sul tema della libertà religiosa. I due relatori principali furono Brunetto Salvarani, per la parte cattolica, e Adel Jabbar, per la parte musulmana. Il parroco di Couda, don Mauro Motterlini, ha presentato il messaggio vaticano di fine Ramadan ai musulmani presenti, consegnandone il testo all’imam della città di Treviso.
Lo cheick Mahamoud Khalil, in qualità di ospite speciale delle comunità islamiche della provincia di Treviso durante tutto il mese di Ramadan 2008, ha esposto la dottrina musulmana circa i rapporti con le altre religioni. Il professor Ometto, un fervente cristiano sposato con una musulmana sciita, ha citato integralmente a memoria in arabo e interpretato filologicamente i versetti coranici che fanno riferimento alla libertà religiosa e da cui era stato tratto il tema della giornata: «Non v’è costrizione in religione».
La città di Treviso sovente finisce nei giornali, soprattutto come prototipo dell’intolleranza e del becero rifiuto della convivenza con la comunità islamica. Il centinaio di persone, cristiani e musulmani in parti quasi uguali, che hanno partecipato durante tutto il pomeriggio a questo evento, costituisce una secca smentita all’omologazione giornalistica avvenuta in questi anni tra la città di Treviso, ma soprattutto i suoi rappresentanti politici, e il resto del territorio provinciale.
Salvate le proporzioni tra ciò che è avvenuto a Couda e ciò che accadeva con frequenza alla corte dei califfi, dove si ripetevano con una certa regolarità incontri e dibattiti tra esponenti di varie religioni, non era infondato il nostro sentimento di sentirci per una sera un po’ anche cittadini di Baghdad.

SESTO INCONTRO
L’esperienza di Couda non è la prima di questo genere nel territorio della diocesi di Treviso. È ormai da sei anni che alcuni cristiani e alcuni musulmani si danno appuntamento verso la fine del Ramadan per passare insieme mezza giornata, confrontandosi sulla base di esperienze religiose vissute dalle due parti e rompendo il digiuno della giornata all’ora stabilita.
I primi quattro incontri, a partire dal Ramadan 2003, si sono svolti nella comunità monastica di Marango. Si pensava allora, e continuiamo a pensarlo anche oggi, che «il monastero» in sé è un luogo di incubazione di civiltà e di tempi nuovi. Esso si pone sui punti terminali di una civiltà in crisi, per aprirla a un nuovo futuro.
La nostra voleva essere una sfida a una società che, pur fondata su un immenso potere scientifico, tecnologico ed economico, non è ancora in grado di affrontare e risolvere i problemi della convivenza.
Noi di parte cristiana in maniera particolare abbiamo la convinzione che «il monastero» era e rimane il supplemento d’anima, il luogo di rigenerazione di energie e atteggiamenti che hanno in sé le potenzialità che occorrono per rendere più umana la nostra convivenza, basandosi su rapporti densi di profonda spiritualità.
Inoltre il fascino indubbio che suscita un luogo di preghiera, nato all’interno di una società opulenta e apparentemente priva di Dio come quella occidentale, ci sembrava il clima più adatto per vivere insieme con i musulmani qualche ora del loro lungo percorso ascetico e spirituale.
Queste furono le ragioni che ci avevano spinti per 4 anni di seguito a domandare ospitalità alla giovane comunità monastica di Marango (Venezia) per realizzare i nostri incontri. Essi si svolgevano con grande discrezione e impegnavano esclusivamente la ricerca e la coscienza delle persone che vi partecipavano.
A partire dall’anno 2007 questi incontri hanno incominciato a svolgersi invece dentro un quadro pubblico, offerto direttamente da due amministrazioni comunali: Giavera e Couda. Ma se l’anno scorso questo significativo spostamento si riduceva a essere poco più di un’intuizione, quest’anno invece esso è frutto di una scelta ormai matura e ragionata.

DAL MONASTERO   ALL’AULA CONSIGLIARE
Il ragionamento che sta alla base di questo spostamento parte dalla semplice constatazione della realtà plurale delle nostre comunità paesane, comprese quelle più piccole.
Sono molti i musulmani, buddisti, sik che ormai si sono radicati all’interno delle nostre comunità tradizionalmente cristiane. La presenza di queste persone di religione e cultura diversa ha acquisito in questi due decenni delle caratteristiche nuove. Non ci sono soltanto musulmani e sik; ci sono ormai delle comunità musulmane e sik, che progressivamente sono venute strutturandosi.
Potremo a tal proposito fare un paragone con la presenza ebraica in Italia. Essa non si limita al fatto che ci siano nel nostro territorio, da sempre, un numero più o meno grande di ebrei, ma essa ha le caratteristiche di una comunità che ha una sua immagine, una sua rappresentanza, una sua struttura e visibilità anche a partire dai luoghi di culto che le sono propri. La stessa cosa potremmo dire di queste altre giovani comunità che si sono affermate tra noi.
L’obiezione più frequente che viene rivolta, soprattutto alla comunità musulmana, è che essa tende ad accorpare nella dimensione religiosa anche quella civile e politica. Ciò è probabilmente vero in molti paesi a larga maggioranza musulmana, anche se non in tutti. Ma questo non è il caso dell’Italia.
Ora è evidente che, nell’attuale panorama inedito offertoci dalla nostra società, occorre che qualcuno prenda l’iniziativa per costruire una piattaforma d’intesa, che si proponga di favorire la pace sociale tra gruppi caratterizzati da religioni e culture diverse e di confermare i valori fondamentali della nostra cultura civile, sociale e politica, in vista di una condivisione di essi da parte di tutti: sia i vecchi che i nuovi cittadini.
Occorre perciò rimettersi all’iniziativa di un «terzo» attore, che non può essere nessuna delle comunità religiose in quanto inevitabilmente esse sarebbero di parte. Un attore che necessariamente abbia l’autorità di convocare tutti e che possa esigere da tutti il rispetto delle regole del gioco.
Ai promotori dell’incontro è sembrato che questo potrebbe e dovrebbe essere il compito di un’amministrazione comunale, ma anche di ogni altro livello dell’amministrazione pubblica. La sua natura, infatti, può favorire un ruolo di «terzietà» che la può costituire moderatrice di un eventuale «tavolo delle religioni» in vista del bene comune e della pace sociale.
A Couda è accaduto proprio questo: al centro del tavolo sedevano il sindaco e il vicesindaco e ai due lati i vari rappresentanti delle due comunità religiose, quella cattolica e quella musulmana.
L’impressione che se ne ricavava era molto forte. La laicità di cui si offriva la prova non era quella dell’indifferenza dell’ente pubblico nei confronti dell’individuale scelta religiosa, ma quella di un’amministrazione comunale laicamente attiva, consapevole del proprio ruolo, senza alcuna invasione di campo.

IL TEMA
Il tema dell’incontro è stato ricavato da una sura del Corano : «Non v’è costrizione in religione», filologicamente tradotto dal prof. Ometto: «Non si può costringere nessuno ad abbracciare una credenza verso la quale si prova un netto rifiuto».
Il tema della libertà religiosa è sicuramente un tema sensibile particolarmente in questi tempi in cui tutte le società, anche le più tradizionalmente omogenee, tendono a diventare pluraliste o a causa del mescolamento di popolazione o per l’incursione dei messaggi e degli stili di vita veicolati dai mass media.
Il prof. Jabbar, rifacendosi al patto di Medina, ha ricordato la capacità che l’islam ha avuto, soprattutto agli inizi e in certi momenti storici, di mettere insieme culture e religioni diverse, facendole convergere verso un patto di cittadinanza che non costringeva all’assimilazione.
Ad ascoltarlo si ricavava l’impressione che ci siano zone e tempi inesplorati dell’islam, che sarebbe utile riportare alla memoria sia per noi sia, a dire del prof. Jabbar, per i musulmani stessi.
Il prof. Salvarani, oltre ad affermare la necessità e la convenienza del dialogo, ha parlato della libertà religiosa come condizione mai totalmente compiuta e che occorre continuamente porre in essere, perché essa non si situa mai in un punto di non ritorno. Più che una condizione già raggiunta è una continua conquista. Per questo sarebbe preferibile parlare, non solo di libertà come valore, ma di liberazione come processo e acquisizione di gradi sempre più elevati di libertà per tutti.
Successivamente il parroco di Couda ha consegnato all’imam il messaggio vaticano, facendone una breve sintesi riguardante la famiglia come valore condiviso da cristiani e musulmani e come luogo «in cui si apprende il rispetto dell’altro, nella sua identità e nella differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della cittadinanza non possono dunque che beneficiae».
Alla conclusione dell’incontro ci fu una brevissima preghiera, durante la quale ognuno ha accolto con interiore partecipazione la preghiera dell’altro. Un momento brevissimo, ma efficace quanto un lampo nella notte.
La rottura del digiuno, con i cibi che caratterizzano le varie abitudini alimentari e che erano stati generosamente offerti dalle diverse comunità etniche presenti, ha confermato l’impressione che ci eravamo detti al momento di lasciare l’aula consigliare: «Usciamo da quest’incontro con l’impressione di sentirci un po’ migliori di prima». 

Di Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Non solo corano

Cosa succede nelle scuole coraniche

Affidati da piccoli al «Maestro» imparano a memoria il libro sacro. Ma non solo.  La daara è una scuola di vita e di formazione integrale. Si insegnano valori come l’umiltà,  la solidarietà e la convivenza pacifica. Ma quando il Maestro si trasferisce in città i rischi di sfruttamento e di mendicità sono elevati. Non bisogna generalizzare.

Lo studio del «libro santo», il Corano, permette ai fedeli musulmani di orientarsi nel mondo e di conoscere la loro missione terrena, perché: «La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo stesso».
Le tre strutture fondamentali nella trasmissione del sapere religioso contenuto nel Corano sono: le moschee, all’interno delle quali secondo la tradizione profetica è sempre prevista una zona dedicata all’educazione dei fedeli; le associazioni religiose (dahira); le scuole coraniche.
Nelle prime due il maestro riunisce attorno a sé i discepoli adulti e celebra e commenta alcuni passaggi dei testi fondamentali della religione islamica: il Corano, la Sunna e i testi delle scienze islamiche.
Le scuole coraniche, invece, hanno lo scopo di formare i giovani allievi (generalmente di età compresa fra i 5 e i 15 anni) sia da un punto di vista morale che conoscitivo, per forgiare uomini e donne al servizio di Dio e delle sue leggi. L’Islam propone un’educazione omogenea del corpo e dello spirito, in coerenza con i dettami della religione. Per questo motivo l’insegnamento islamico è un processo di formazione e di trasformazione intellettuale, morale e spirituale, sulla base dei principi del Corano.
In Senegal, la scuola coranica è la daara, termine che deriva dal nome arabo dâr, che significa dimora, casa. Le famiglie affidano i bambini in tenera età a un maestro, con cui solitamente hanno legami di parentela o di conoscenza, e gli chiedono di adempiere alla formazione dei loro figli.
I maestri religiosi sono considerati tra gli esseri più vicini a Dio, perché sono le guide degli uomini sul cammino della fede. Essi godono di un riconoscimento speciale in seno alle comunità religiose e sono considerati garanti dell’armonia sociale, nel rispetto delle norme coraniche.
L’appellativo marabout (marabutto), attribuito ai maestri coranici, è originario della Mauritania e significa «uomo votato alla vita ascetica» per descrivere l’attitudine alla preghiera, allo studio e all’insegnamento che li contraddistingue.

La lingua sacra

Il bambino soggioa presso il maestro per diversi anni, durante i quali percorre le varie tappe dell’insegnamento islamico, iniziando dalla recitazione mnemonica del Libro, atto di lode a Dio, per proseguire con lo studio di tutte le altre materie religiose, come la teologia, il diritto musulmano e la tradizione profetica. La pratica corretta della religione islamica, a cominciare dall’obbligo della preghiera cinque volte al giorno, presuppone, infatti, la memorizzazione dei versi coranici e la capacità di pronunciarli correttamente in lingua araba (celebrare la parola di Dio in modo scorretto è considerato un grave sacrilegio).
Il Corano è un’opera colossale: è composto da 114 sure, raggruppate in trenta parti, ciascuna suddivisa in due porzioni, le hizb, ripartite in quarti, i rubu, articolati a loro volta in otto parti, i sumun, composte ciascuna da 17 o 18 linee. È evidente quanto sia ardua l’impresa di memorizzare integralmente tutta l’opera (necessario in passato per la rarità delle opere scritte), non solo per la quantità di versi che la compongono, ma soprattutto per la lingua in cui essa è scritta, di difficile accesso per le popolazioni non arabe.
In quanto lingua della rivelazione divina, l’arabo classico è considerato dai popoli musulmani come l’alfabeto santo per eccellenza e come tale deve essere tramandata di generazione in generazione. Essa stessa è considerata uno strumento di accesso al soprannaturale.
La sacralità della scrittura, secondo la percezione dei credenti musulmani, è confermata dalla progressiva sostituzione degli amuleti della tradizione africana con i sacchetti di cuoio contenenti un pezzo di carta con alcuni versi coranici, ma anche dalla tradizione popolare, la quale vuole che un foglio su cui siano scritti versi coranici resista alle fiamme. Il libro non può essere toccato se non dopo aver eseguito le abluzioni minori ed esso stesso viene sovente adoperato come amuleto contro la cattiva sorte.
Per quanto riguarda lo studio dei contenuti, seconda tappa nel percorso formativo, la conoscenza del «libro» permette di scoprire la ricchezza delle indicazioni divine che regolano ogni aspetto della vita dell’individuo. Non solo da un punto di vista spirituale, nel suo rapporto con l’Onnipotente, ma anche per il ruolo che egli deve svolgere all’interno della società. Il libro racchiude tutta la legislazione musulmana rispetto alle questioni religiose, giuridiche, sociali ed economiche. L’educazione coranica, in senso ampio, comprende quindi non solo la nozione di istruzione, ma anche quella di formazione dell’allievo ed è considerata fondamentale nella vita di ogni musulmano.

A scuola di semplicità

La scuola coranica in cui i giovani discepoli vengono formati si trova quasi sempre all’interno della casa del maestro. L’austerità del luogo in cui viene dispensato l’insegnamento ha radici profonde e risponde a una scelta pedagogica ben precisa, che raramente cambia al variare delle possibilità economiche del marabout. Egli educa i propri allievi sotto un semplice riparo, una tettornia o un albero, e i bambini sono seduti a gambe incrociate su stuoie di paglia, le stesse che servono come giaciglio durante la notte.
L’unico strumento di cui dispongono gli allievi, almeno per i primi anni di formazione destinati alla memorizzazione del Corano, è una tavoletta in legno su cui quotidianamente il maestro scrive i versi coranici da memorizzare nel corso della giornata.
La giornata dei taalibe (dall’arabo tâlib, ossia studente) comincia all’alba con la recita della preghiera del mattino e si conclude con la preghiera della sera.
Lo studio dei versi impegna l’allievo per diverse ore al giorno, in alternanza con le faccende domestiche e il lavoro agricolo. La distribuzione dei compiti fra gli studenti è proporzionale all’età di ognuno. Secondo la tradizione, il maestro possiede alcuni terreni coltivabili, fonti di sostegno per la sua famiglia e per tutti i suoi discepoli. Le famiglie degli allievi contribuiscono raramente e in minima parte al mantenimento dei bambini, che spetta invece al maestro stesso. Per definizione, infatti, il marabout beneficia del sostegno divino per adempiere alla sua missione e ciò rappresenta per le famiglie la garanzia più importante della buona sorte dei propri figli.
Oltre a partecipare ai lavori agricoli, i bambini lasciano la daara negli orari dei pasti per percorrere il villaggio più vicino e chiedere del cibo di casa in casa, per necessità materiale, ma al tempo stesso affinché imparino il valore dell’umiltà. L’elemosina concessa ai piccoli costituisce una partecipazione reale della comunità alla formazione religiosa dei suoi giovani membri.

Pareri a confronto

Il modello della daara tradizionale presenta elementi di forza e di debolezza. Da un punto di vista pedagogico è riconosciuta l’efficacia della metodologia adottata riguardo allo sviluppo della memoria. Infatti, gli esercizi di memorizzazione ripetuti per diversi anni sembrano avere effetti prodigiosi sulla capacità di immagazzinare informazioni. È frequente incontrare allievi delle scuole coraniche che, avendo proseguito lo studio delle scienze islamiche, riescono a ricordare migliaia di versetti in lingua araba tra quelli che compongono le opere di teologia, di diritto e di grammatica.
Tuttavia, diversi studiosi avanzano molti dubbi rispetto all’efficacia di questa metodologia educativa, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della capacità di rielaborazione dei concetti, inibita dalla predominanza della facoltà mnemonica su quella analitica.
Va evidenziato che molti insegnanti della scuola pubblica elementare non sono dello stesso avviso, poiché la loro esperienza dimostra che, se l’allievo ha frequentato una daara per alcuni anni prima di essere introdotto nell’insegnamento laico, ha più facilità nell’apprendimento e recupera il ritardo sul programma in tempi relativamente brevi.
Nella stessa prospettiva, molti quadri senegalesi, sia del settore pubblico che privato, riconoscono negli anni trascorsi presso il loro maestro la chiave del loro successo sociale ed economico.
Tra gli elementi di forza del sistema va segnalato, infatti, che la scelta della daara da parte delle famiglie è giustificata non solo dal desiderio di rispettare le indicazioni coraniche riguardo all’educazione dei giovani musulmani, ma anche dalla promozione sociale che questi studi assicurano. L’hafitz (colui che ha completato lo studio del Corano), nel sistema tradizionale, gode infatti di un grande prestigio sociale.
Dal punto di vista dell’educazione morale, la permanenza prolungata presso la daara (per diversi anni) vuole creare le naturali condizioni per l’assimilazione dei principi morali e delle norme sociali che il maestro e la realtà comunitaria trasmettono.

Formazione integrale

Contemporaneamente all’istruzione, il sistema educativo coranico si propone di sviluppare la personalità del bambino, stimolando lo spirito comunitario tra i taalibe della stessa daara che per anni condividono momenti di studio, di lavoro e di quotidianità. La solidarietà fra i bambini è una conseguenza naturale della convivenza prolungata in condizioni difficili, che stimolano l’unione, al fine di superare le avversità di tutti i giorni.
A questo riguardo, tuttavia, sono pertinenti le considerazioni di P. Marty sull’autonomia pedagogica del maestro coranico, dalle cui qualità personali dipende interamente l’insegnamento dei principi morali, poiché non sottomesso a controlli estei di strutture superiori.
La lontananza fra bambini e genitori, che si protrae per anni, è in parte voluta dal sistema educativo della daara, che vede in questa separazione un fattore essenziale per il processo di crescita del giovane taalibe. Allo stesso tempo, i genitori si sentono autorizzati in molti casi ad abbandonare i bambini nelle mani del marabout, non facendogli visita per tutta la durata del soggiorno nella scuola e non informandosi del suo stato di salute.
Questo fenomeno può essere in parte giustificato sulla base delle difficoltà economiche, che impediscono alla famiglia di affrontare il viaggio per raggiungere la zona in cui si trova la daara, e della tradizione che prevede l’affidamento totale del bambino a un parente per consolidare i legami tra i membri della famiglia, fenomeno valido a maggior ragione se il congiunto in questione è un maestro spirituale.
Tuttavia, questi elementi di riflessione sulle cause del disimpegno genitoriale non trovano giustificazione nei testi sacri, poiché sia il Corano che la tradizione profetica insistono sulla responsabilità della famiglia, in primo luogo, rispetto all’educazione del bambino. Inoltre, non alleviano il dramma del sentimento di estraneità che si crea fra il bambino, allontanato troppo presto dal nucleo famigliare, e i genitori, che può essere accompagnato da frustrazione e senso di abbandono. Il rapporto affettivo con il maestro coranico può compensare solo in parte il vuoto lasciato dai genitori, poiché questi è responsabile di diverse decine di bambini tra i quali deve dividere le proprie attenzioni.

Studio e lavoro

Riguardo alle prove che il bambino deve superare nel suo percorso di formazione in seno alla daara tradizionale, è fondato il dubbio che possano essere eccessive per la giovane età dell’allievo, poiché il taalibe può raggiungere livelli di sofferenza che rischiano di inibie lo sviluppofisico e intellettuale.
La carenza di riposo, date le poche ore di sonno concesse fra la sessione serale di studio e la sveglia mattutina per pregare (si tratta solitamente di un tempo inferiore alle sei ore), e le rare occasioni di vacanza, possono sul lungo periodo indebolire il fisico del bambino.
Solo una minoranza dei maestri è favorevole all’interruzione delle lezioni e al ritorno presso la famiglia, in occasione delle feste religiose della Korité, la festa della rottura del digiuno del mese di Ramadan (il nono mese dell’anno lunare) e della Tabaski, la festa del sacrificio (celebrata nel dodicesimo mese dell’anno lunare, in ricordo della fede di Abramo, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per obbedire a Dio).
Molto più comune è l’usanza di consacrare il riposo settimanale, dal mercoledì pomeriggio al venerdì pomeriggio, e le ricorrenze religiose ai lavori domestici o al ripasso delle lezioni apprese. I maestri coranici ritengono in genere che una pausa possa interferire negativamente sulla concentrazione dei taalibe, che una volta rientrati alla daara dovranno spendere più energie per riprendere il ritmo di studio abituale. Per questa ragione molti allievi non rientrano presso la casa patea, che una volta completato lo studio integrale del Corano.
Riguardo ai metodi correttivi adottati, va rilevato che in alcuni casi è stata constatata una dismisura nel ricorso alle punizioni corporali. Poiché oltre al maestro, anche i taalibe più grandi sono autorizzati a punire il discepolo, gli atti di questi ultimi, a causa dell’immaturità, possono degenerare in gravi incidenti.

Le scuole migranti
 
Le considerazioni fatte riguardano il sistema della daara tradizionale, che, per quanto austero, garantisce le condizioni essenziali di sicurezza e di crescita del bambino. Esse assumono, invece, una connotazione grave se analizzate alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema delle scuole coraniche nella seconda metà del XX secolo.
Come abbiamo detto, l’insegnamento coranico tradizionale si sviluppa originariamente in ambito rurale, in una dimensione comunitaria di villaggio, dove i piccoli taalibe, anche al di fuori della daara, beneficiano del controllo e della protezione sociale, su cui si basano i rapporti fra le famiglie che abitano lo stesso territorio.
Tuttavia, dopo l’indipendenza, esso non rimane indenne al fenomeno migratorio verso i centri urbani, che colpisce tutta la società senegalese.
Alla fine degli anni ’70, infatti, la situazione economica nazionale si trasforma rapidamente, a causa di lunghi periodi di siccità che colpiscono il paese, obbligando i contadini ad abbandonare i loro villaggi e a spingersi verso i poli economici in cui dominano settori diversi da quello agricolo.
L’esodo rurale, che spinge migliaia di persone verso le città, fa sì che le infrastrutture cittadine, ancora deboli, non riescano a contenere la pressione demografica, con un riversamento in direzione delle periferie dove si sviluppano distese di case abusive, le cosiddette fakk-dekk, costruite con materiali di recupero, sprovviste di tutti i servizi e in cui la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie precarie.
In queste circostanze si sviluppa il fenomeno delle scuole coraniche migranti, le noorane kat. Poiché, come tutti gli altri contadini, i marabutti installati nelle campagne hanno grandi difficoltà ad assicurare l’alimentazione delle decine di bambini che hanno in affidamento, sono costretti a trasferirsi verso le zone urbane.
Le scuole coraniche migranti si distinguono in due categorie: le scuole stagionali e quelle stanziali. Le prime si installano nelle periferie delle città solo durante i mesi della stagione secca, per cercare nei centri urbani i mezzi di sostentamento, poiché i terreni aridi non garantiscono più un raccolto sufficiente a coprire i bisogni di tutto l’anno.
Durante la stagione delle piogge, nel periodo che va da giugno a settembre, il marabout e i suoi discepoli tornano nel villaggio originario per praticare l’agricoltura.
Le scuole stanziali, invece, sono quelle in cui il maestro, proveniente da un’altra regione o dalle campagne, si trasferisce definitivamente con i suoi taalibe ai margini della città. Naturalmente il fenomeno migratorio non riguarda solo il nucleo famigliare del maestro, ma anche tutti i suoi discepoli, che egli porta con sé. Le famiglie stesse dei taalibe incitano il marabutto a trasferirsi, identificando nella migrazione l’unica soluzione di sopravvivenza per i loro figli ed, eventualmente, un’occasione di inserimento nel mercato del lavoro, che il villaggio non offre e che potrebbe portare beneficio a tutta la famiglia.

Sfruttamento e mendicità

Le conseguenze della migrazione verso i centri urbani sulle condizioni di vita dei taalibe sono spesso drammatiche, poiché la principale fonte di reddito del marabutto diventa la mendicità degli allievi, che ogni giorno, oltre a occuparsi del proprio nutrimento, devono assicurare una certa cifra che permetta al maestro e alla sua famiglia di sopravvivere.
È evidente che in questo contesto il rischio di sfruttamento del bambino è elevato. Egli si trova in un contesto estraneo, meno protetto rispetto alla realtà comunitaria di villaggio, esposto a nuovi pericoli, legati al traffico automobilistico, al rischio di abuso, alle condizioni igieniche e alimentari penose.
Le violenze subite dei taalibe che praticano la mendicità attirano sempre di più l’attenzione dell’opinione pubblica, che chiede allo stato e agli organismi inteazionali di intervenire per tutelare la salute fisica e mentale del bambino, pur conservando la tradizionale trasmissione del sapere religioso attraverso le scuole coraniche.
Il contesto urbano è inoltre più soggetto al fenomeno di installazione di scuole coraniche create da falsi maestri, che vedono nell’insegnamento una possibile fonte di reddito. In questi casi il bambino trascorre tutta la giornata per strada a raccogliere l’elemosina e, se interrogato sul verso coranico che sta imparando, risponde a stento e con una pronuncia scorretta i primi versi della fâtiha, la prima sura insegnata nelle scuole coraniche. In generale, il traguardo della memorizzazione del libro in questi casi non viene mai raggiunto.
In questi casi estremi, che non devono essere generalizzati a tutto il sistema delle scuole coraniche, il taalibe non beneficia né di un’istruzione in materia religiosa né di un accompagnamento nel suo processo di crescita e di formazione ai valori morali e sociali. Al contrario, le situazioni che vive quotidianamente possono compromettere profondamente il suo sviluppo, creargli traumi fisici e psicologici che lo accompagneranno per tutta la vita. 

Di Giulia Lanzarini


Giulia Lanzarini




Degli zingari si può anche parlare bene

«Il viaggio musicale dei Gitani» al MITO Settembre Musica 2008

A Milano, dal 7 al 12 settembre, la seconda edizione del MITO (Festival Internazionale della musica organizzato dai comuni di Milano e Torino) ha dato risalto alla cultura dei Gitani, con un «viaggio musicale» dal Rajasthan all’Andalusia, passando per Pakistan, Iran, Turchia, Balcani. Un’occasione per superare pregiudizi e stereotipi verso un popolo affascinante per la sua storia e cultura millenaria. 

Non è usuale per una rivista missionaria occuparsi di musica, in particolare di una manifestazione in prevalenza dedicata alla musica «classica». Pur a distanza di tempo, diventa quasi un obbligo farlo quando, nell’ambito di essa, si colgono aspetti che la rendono interessante anche oltre lo specifico valore musicale.
Il riferimento è alla seconda edizione di «MITO Settembre Musica, il Festival Internazionale che, dal 2007, vede l’esperienza trentennale della storica rassegna torinese estendersi al capoluogo lombardo e ad altre importanti città attorno alle due metropoli. Quasi un intero mese di spettacoli che ha proposto oltre 230 eventi di musica – classica, contemporanea, jazz, pop, rock, etnica -, rassegne cinematografiche, incontri di «arte e musica», cicli monografici. È stato appunto uno di questi ultimi, il «Viaggio musicale dei Gitani» a offrirci lo spunto per scriverne su Missioni Consolata.
Pur ponendosi l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più ampio rispetto a quello che usualmente frequenta le sale da concerto, il MITO resta un festival di musica colta che, per lo più, si svolge in prestigiosi teatri quali la Scala e gli Arcimboldi di Milano o il Regio e l’Auditorium Rai di Torino; frequenta Conservatori, storici circoli dove si fa cultura, luoghi ricchi di arte e architetture monumentali; e non trascura il sacro di chiese e basiliche che offrono a credenti e non credenti momenti di significativa elevazione spirituale.
Si tratta evidentemente di un contesto che appare quanto di più lontano possa esistere dalla realtà di vicende drammaticamente tragiche e di quotidiana disperazione di vita ai margini delle nostre città, che i media ogni giorno, continuamente, descrivono quando si occupano di coloro che, semplificando, chiamiamo «zingari».
Sia chiaro, nessuno nega i problemi e le difficoltà che il porsi in relazione con queste persone presenta, né in questa sede si vogliono commentare in alcun modo i provvedimenti presi dalle autorità o quelli che si vorrebbe prendessero.
Tuttavia, il fatto che nell’ambito di un festival con le caratteristiche descritte fosse ospitata, non marginalmente ma, anzi, promossa come una rassegna di rilievo, un’intera settimana dedicata a questo particolare viaggio musicale, ci è parsa già di per sé una notizia degna di rilievo.
Un’occasione per parlare dei popoli nomadi anche in positivo. Non per nulla la musica è, forse, il linguaggio umano che più accomuna e commuove; anche nel senso letterale di «muovere con», predisponendo ragione ed emozione al rapporto con l’altro.

Così è stato oltremodo significativo che, nella stessa manifestazione, sui cui palchi si sono avvicendate grandi orchestre inteazionali come la London Symphony e l’Orchestre National de France, ad aprire la sezione del «Viaggio musicale dei Gitani» sia stata, nel salone d’onore della Triennale di Milano, proprio la «Banda del villaggio solidale».
È, quest’ultima, un gruppo musicale costituitosi nell’ambito della milanese Casa della Carità: istituzione voluta dal cardinal Martini, per aiutare le persone in difficoltà a superare la propria condizione di disagio. Don Virginio Colmegna, presidente dell’omonima fondazione che la sostiene, ricordando il migliaio di persone di 80 nazionalità accolte dalla struttura in un triennio, ha presentato l’ensemble definendolo: concreta manifestazione di un operare che vuole promuovere e far crescere l’espressione culturale dei diversi mondi ospitati; nella convinzione che dando visibilità alle rappresentazioni artistiche e musicali delle culture immigrate si possa aumentare il livello di comunicazione positiva e favorire la coesione sociale.

Le foto pubblicate in queste pagine descrivono perciò un viaggio sonoro, cominciato con saltimbanchi, musicisti e danzatrici appartenenti alle ultime caste erranti del Rajasthan (India del nord) e origine stessa del popolo Rom; gente che ha conosciuto lo scintillio delle pietre preziose di antichi palazzi come la ruvidezza delle rocce del deserto.
Un viaggio proseguito con i Gitani che hanno attraversato il Medio Oriente per arrivare fino in Tunisia. Fra questi, quelli dell’Alto Egitto tuttora tramandano nella musica l’epopea del mondo beduino del x secolo; in Turchia, invece, sono maestri di clarinetto e a loro si deve la conservazione del repertorio festivo e virtuosistico delle danze regionali, oltre all’aver posto il loro strumento in posizione preminente in tutti i Balcani.

La terza tappa ha ricondotto il pubblico in Asia, con artisti arrivati dalle montagne di Pakistan e Afghanistan, che hanno portato al MITO la loro tradizione millenaria (risalente al 4.000 a.C.), mostrandone anche le somiglianze con quelle dell’antica Grecia evidenziate, ad esempio, nel comune uso del flauto a due canne.
I contributi dall’Europa sono, invece, venuti in primo luogo da due tradizioni della Romania. Quella dei discendenti delle famiglie di «ursari» (ammaestratori di orsi) superstiti all’olocausto e alle persecuzioni della polizia comunista, che si esibiscono nel canto accompagnato da percussioni rudimentali e dal ballo delle donne che fanno roteare gonne e scialli coloratissimi.
E quella dei «lăutari», i migliori musicisti popolari di Romania. Fino alla metà del xix secolo essi erano schiavi del principe regnante, raccolti in corporazioni professionali fondate nel xvii secolo; oggi vedono rinascere l’interesse del pubblico per la loro musica, i cui stili si adattavano alla realtà storica e ambientale dei gruppi sociali cui era destinata: contadini, operai, intellettuali…
Immancabile è poi stato il passaggio attraverso l’icona della donna gitana nella musica colta occidentale: principalmente identificata nel mito della Carmen di Bizet, ma presente, affascinante e ambigua, anche in Verdi, Brahms, Leoncavallo, Liszt… fino alla grazia del chitarrista Django Reinhardt, che sedusse la Francia degli anni Trenta.
Il «Viaggio musicale dei Gitani» non poteva, infine, che concludersi con la chitarra flamenca e il cante jondo (canto profondo) che, partiti dai locali e dai porti di Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera negli anni ’40 del 1800, e pur restando fedeli alla tradizione, continuano però a evolversi, conservando la capacità, descritta da Federico Garcia Lorca, di trasportare il pubblico sul margine dell’abisso.
Una ricchezza dunque, quella qui tratteggiata, seppur sinteticamente, che merita di essere più conosciuta, perché il nostro giudizio su un popolo e sulla sua cultura, pur non disconoscendo le difficoltà che sono reali, non sia limitato a stereotipi negativi. 

Di Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Società civile, americana

Forum sociale delle Americhe: terza edizione

Pochi mezzi ma molto entusiasmo per il terzo Forum sociale delle Americhe.
Gli incontri continentali si alternano a quello globale,  il più famoso Forum sociale mondiale, con scadenza biennale.  Nell’atmosfera variopinta e fiera della cosmogonia Maya donne e uomini del Nord, del Centro e del Sud America si sono incontrati per 4 giorni. In un momento storico importante, con il continente attraversato
da venti di cambiamento, i movimenti sociali hanno discusso di sovranità alimentare, agrocombustibili, ambiente, sfruttamento delle risorse naturali… Reportage da Città del Guatemala.

Al grido: «un’altra America è possibile» si è aperto il 7 ottobre scorso a Città del Guatemala il terzo Foro sociale delle Americhe (Fsa). «Tutti i paesi del continente sono rappresentati» sostiene lo staff dell’organizzazione. Sono stati registrati 7.200 partecipanti per i 526 eventi organizzati del Forum (Foro in spagnolo). Non sono certamente mancate le critiche al comitato organizzativo che negli ultimi dodici mesi ha lavorato in Guatemala per gestire al meglio l’evento. L’organizzazione si può dire abbia rispecchiato uno spaccato veritiero del tessuto sociale guatemalteco, contraddistinto da una estrema frammentarietà e divisione intea.
A inizio pianificazione si era stabilito un budget di oltre un milione di dollari che è stato successivamente ridotto, a causa della carenza di finanziamenti estei, a 111.000 dollari. Malgrado i vari momenti critici dei preparativi, le numerose polemiche e un repentino tentativo di boicottaggio all’ultimo minuto da parte del rettore dell’Università di San Carlos, che ha concesso gli spazi per il Foro, il risultato finale è notevole.

obiettivi ambiziosi

Il Fsa fa parte del Forum sociale mondiale (si veda MC luglio 2006, ndr) e nasce come spazio di incontro a livello continentale per dialogare, analizzare e proporre soluzioni o strategie di lotta contro le regole della globalizzazione capitalista.
Il primo Forum a livello americano fu realizzato a Quito in Ecuador mentre il secondo in Venezuela. Il 2008 è invece l’anno del Guatemala. Il terzo Fsa viene realizzato in un momento chiave per il continente americano, in cui si presenta una doppia sfida: ampliare e consolidare un percorso di cambiamenti che si è aperto negli ultimi anni e fronteggiare la persistenza di forme di dominio oligarchico, vecchie e nuove, che ostacolano la corrente trasformatrice. 
Gli obiettivi del Foro sono quattro: creare uno spazio ampio per la costruzione di una strategia condivisa a favore della difesa delle risorse naturali e del territorio; articolare i movimenti sociali del continente favorendone la cornordinazione; rafforzare i processi di resistenza e identificare vie alternative di sviluppo basate sulla cooperazione tra i popoli americani; potenziare l’intercambio socio-culturale degli abitanti del continente.
Il Guatemala contraddistingue l’apertura del Foro con il richiamo alle tradizioni ancestrali dei popoli indigeni. Il giorno dell’inaugurazione, davanti al rettorato dell’Università, si svolge una cerimonia sacra Maya. Le guide spirituali bruciano aghi di pino, foglie e petali invocando la protezione degli antenati, del sole e della luna. Le migliaia di partecipanti che giungono per ultimare l’iscrizione, osservano il rito attonite.
La pioggia cerca di ostacolare il momento, ma per i guatemaltechi non è sufficiente a fermare la tradizione. Il sindaco indigeno, autorità che affianca il sindaco eletto, di Chichicastenango, cittadina che vanta il mercato indigeno più grande del centro America, indossa con fierezza il suo abito tradizionale. Attraverso un interprete dice che mai aveva visto così tanta gente da così tanti paesi diversi: per questo il Foro è un atto sociale e di solidarietà, perché riunisce i popoli.

Intoppi linguistici e
organizzativi

La musica spontanea, i colori, i banchetti dei prodotti più svariati, fanno da coice a quattro giorni di eventi densi e significativi. Il calendario prevede tre sessioni giornaliere di seminari, dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio, dislocati in svariate aule sul campus universitario.
I temi di confronto e di approfondimento sono innumerevoli ed è difficile scegliere cosa seguire. Il comitato organizzativo ha cercato di individuare sei assi tematici ma questo non facilita i partecipanti ad orientarsi. Una linea seguita da molti è selezionare i seminari in base all’ente responsabile del contenuto, che spesso ne garantisce la validità.
I temi più discussi riguardano la sovranità alimentare e la difesa delle risorse naturali, soprattutto in relazione allo sfruttamento minerario e allo sviluppo degli agrocombustibili; l’uguaglianza di genere; il riconoscimento e il rispetto delle diversità. 
Tutti i workshop sono in spagnolo e questo risulta un punto di critica diffuso: molta gente delle comunità rurali non parla castillano ma solo le lingue indigene, così come i numerosi partecipanti degli Stati Uniti e Canada si trovano in forte difficoltà a seguire gli eventi.
Don Santo Perez, promotore agricolo del Municipio di Comitancillo, nel Nord del Guatemala, è giunto al Foro con la moglie e il figlio maggiore. Incontrare altri contadini, rendersi conto della grandezza del movimento sociale e capire che la lotta dei campesinos della sua comunità è la stessa lotta di milioni di altri campesinos in tutto il continente americano, è una gioia immensa per lui.
La moglie invece sembra un po’ persa, non parla una sola parola di spagnolo e per lei gli agrocombustibili o gli Ogm (organismi geneticamente modificati) sono soggetti senza significato. È difficile valutare l’impatto del Foro su gente semplice, spesso analfabeta, che per la prima volta esce dal proprio piccolo mondo per unirsi al grido di: «Un altro mondo è possibile, un’altra America è possibile».

Evo manda un messaggero

Giovedì 9 ottobre tutti si chiedevano se il tanto annunciato Evo Morales sarebbe davvero arrivato per condividere la sua lotta all’interno del Fsa. La gente lo aspettava ma si è dovuta accontentare di un messaggio letto sul palco centrale, che il presidente boliviano (indigeno) ha voluto trasmettere ai movimenti sociali riuniti nella giornata continentale di solidarietà con la Bolivia. 
«Fratelli e sorelle, quello che è successo il 10 agosto con il referendum revocatorio in Bolivia (vedi MC ottobre 2008, ndr) è un atto importante non solo per i boliviani ma per tutti i popoli dell’America Latina. Lo dedichiamo a tutti i rivoluzionari del continente e del mondo, rivendicando la lotta di tutti i processi di cambio. Io venivo a esprimere la forma per recuperare il buon vivere, ritrovare la nostra visione della madre terra, che per noi è vita, perché non è possibile che il modello capitalista converta la natura in merce.
Vediamo sempre maggiori coincidenze tra i movimenti indigeni e le organizzazioni sociali, che lottano per il vivir bien.  Il mio saluto abbraccia tutti, perché possiamo, in forma unita, trovare un certo equilibrio nel mondo».
Un ampio programma artistico e culturale completa il quadro del Foro: lo spazio del Cinema Alteativo, il Teatro Permanente e il Teatro all’aria aperta consacrano l’arte come espressione di lotta e di educazione popolare. E quando i riflettori si spengono e i cancelli dell’Università di San Carlos si chiudono il Foro si sposta nelle strade del centro storico o nei tanti luoghi allestiti per dare ospitalità alle migliaia di persone a simboleggiare una mobilizzazione vera, condivisa e continua.
Non importa se i mezzi di comunicazione di massa non ne parlano e se non esce un solo articolo sui quotidiani locali: il movimento sociale americano esiste e ha dimostrato in questi giorni del Foro di essere forte e combattivo. 

Di Ermina Martini

Crisi o sovranità (alimentare)?
Sono vari i momenti di discussione all’interno del terzo Foro Sociale delle Americhe sugli effetti e sulle cause della crisi alimentare che si sta abbattendo sul continente.
Alcuni fattori sono specifici della situazione attuale: un 5% della causa della crisi è legato alla produzione degli agrocombustibili e alla sottrazione di terreno per produzione agricola. Indubbiamente ha anche influito l’aumento del prezzo del petrolio.
Un’altra causa molto attuale è l’ingresso del capitale speculativo nell’agrobusiness: esistono prodotti finanziari per le principali produzioni cerealicole mondiali. In Messico per esempio, è già stata comprata la produzione di mais dei prossimi tre anni, sotto forma di futures (vedi MC giugno 2008, ndr). Questo significa che non importa quanto si produrrà ma il valore dato alle azioni acquisite.

Esistono poi cause più antiche, nate nel momento in cui si è smesso di vedere l’agricoltura come cultura e la si è trasformata in business.
L’82% delle sementi presenti nel mercato mondiale è oggi retto dalle norme della proprietà intellettuale. Cinquanta anni fa 7.000 imprese commerciavano sementi, oggi ne esistono 17, tre delle quali controllano oltre il 50% del mercato.  Business piuttosto piccolo, se confrontato ad altri settori: arriva a soli 23 milioni di dollari.
Sono nate, spiega Silvia Ribeiro ricercatrice presso l’Etc Group (istituto di ricerca privato, si occupa di studi socio economici e ambientali) in Messico, quelle che vengono chiamate imprese «glocali». Neologismo nato da globale-locale, indica un’impresa multinazionale che si insedia nel mercato locale (in questo caso di sementi) e adatta i propri prodotti al contesto e alla cultura locale.

La crisi alimentare odiea non è dovuta a una crisi produttiva: dal 1961 a oggi la produzione agricola mondiale è triplicata, mentre la popolazione è solo duplicata, per cui sarebbe in grado di coprire il fabbisogno di tutti. La crisi odiea è una crisi di sistema: oggi la priorità politica non è garantire l’accesso agli alimenti ma far si che il mercato dell’agrobusiness sia redditizio. E per questo è lasciato in mano alla speculazione finanziaria.
Bisogna insistere per affermare il concetto di sovranità alimentare e non solo di sicurezza alimentare. Occorre proclamare il diritto umano ad avere accesso agli alimenti. La speranza diffusa è che la crisi finanziaria attuale sia seguita da una crisi dell’economia reale: collasseranno le esportazioni di beni quali caffè, zucchero e bisognerà riconvertire la produzione a favore di beni per il consumo locale.
Più profonda sarà la crisi più ampie saranno le possibilità di cambio politico.

E.Ma.

La sfida degli agrocombustibili

Chi pensa che la produzione degli agrocombustibili possa essere la soluzione per limitare il cambio climatico, purtroppo si sbaglia.
Questo è il concetto più chiaro che emerge da un pre-forum di due giorni sul tema svoltosi a Città del Guatemala al quale hanno partecipato i principali studiosi del settore. Concetto ribadito nei vari seminari di divulgazione promossi durante il Forum stesso. «Il tema degli agrocombustibili è estremamente complesso e quanto mai attuale» spiega Alexandra Strickner dell’Institute for Agricolture and Trade Policy, «si mischiano dinamiche differenti, come le politiche di sicurezza energetica, la minaccia alla biodiversità, lo stress idrico e l’insicurezza alimentare dei paesi produttori».

Lo scenario del continente americano è molto vario. Il caso della Colombia rappresenta indubbiamente il quadro più negativo: la struttura produttiva del paese si basa sulla canna da zucchero e la palma africana: 12.000 lavoratori sono impegnati nella produzione della prima e guadagnano 2 dollari per ogni tonnellata di canna tagliata. Il 40% dei colombiani soffre di malnutrizione e la Colombia importa tutti i suoi alimenti, fatta eccezione del riso.
Il Guatemala è invece il paese dove la produzione di agrocombustibili ha avuto un peso maggiore nella perdita di terreno utilizzato per la produzione alimentare, tale da ridurre il raccolto di grano dell’80%. Il Brasile vede gli agrocombustibili come fonte di indipendenza energetica, ma anche come sostegno alla produzione familiare, impegnata per il biodiesel. Oltre 10 milioni di ettari di terra servono per produrre etanolo e il paese è leader nel trasferimento di tecnologia per il processamento.
Stupisce quasi che sul tema si sia espressa con giudizio negativo anche la Banca mondiale. L’istituzione ha definito la produzione di agrocombustibili non redditizia sul lungo periodo e fattore causa di una maggiore insicurezza alimentare.
Una produzione si definisce sostenibile se ha un basso impatto ambientale, se non necessita di risorse estee e se rispetta una certa equità nell’uso del beneficio prodotto.

Nel caso degli agrocombustibili nessuno di questi elementi viene rispettato: una tonnellata di palma africana produce un’emissione di CO2 dieci volte superiore a quella del petrolio e necessita di un’enorme quantità di acqua. Tutta la catena produttiva, dalle sementi alla trasformazione è controllata da un numero ristretto di imprese multinazionali, mentre la maggior parte della produzione per agrocombustibili dei paesi latino americani è destinata all’esportazione, con l’eccezione del Brasile.
«Stiamo fronteggiando una crisi energetica perché consumiamo più di quanto produciamo» spiega Roberto Stuart del Centro de Estudios y Analisis Politico de Nicaragua, «è quindi il modello che bisogna cambiare, agendo a livello di riduzione del consumo e non solo cercando nuove fonti». Occorre iniziare a controllare la domanda di agrocombustibili, applicare un sistema di certificazione di produzione sostenibile che tuteli le condizioni dei lavoratori e preservi l’ambiente.

Ermina Martini

Accordi tranello

A volte le agende della politica internazionale si dimenticano di tenere in considerazione i grandi appuntamenti dei movimenti sociali, e così è accaduto ad ottobre in Guatemala.
Mentre infatti si svolgeva il terzo Forum sociale delle Americhe, non molto distante dal campus universitario, erano in corso all’interno dell’Hotel Camino Real il quinto Vertice di negoziazione per il tanto criticato Accordo di Associazione (Ada) tra Unione europea (Ue) e Centro America. L’Accordo di associazione coinvolgerebbe i 27 paesi dell’Ue e  gli stati centro americani Nicaragua, Guatemala, Honduras, Salvador e Costa Rica. Sembra che da entrambi i lati ci siano vari motivi per accelerare le negoziazioni.
L’Ue si trova infatti di fronte a una fase di stallo nei negoziati con i paesi della Comunità andina delle nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù). Si registra il fallimento di quelli con i paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (i cosiddetti accordi Acp) e la «stanchezza» di quelli con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay). Dall’altro lato alcuni governi centro americani sono favorevoli a firmare un trattato che di per sé non si differenzia molto dal Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti.

Allo stato attuale delle negoziazioni l’Ada servirà soprattutto a difendere i diritti delle imprese private europee nella regione, mentre non si garantiscono i diritti fondamentali dei popoli locali. Anzi, si rischia, in mancanza dell’inserimento di norme precise di tutela dei diritti dei lavoratori, protezione dell’ambiente e  promozione dei diritti umani di compromettere una realtà regionale già altamente precaria. Sfortunatamente la strategia europea sembra piuttosto chiara, ovvero cercare di sottrarre fette di mercato a potenziali concorrenti spingendo accordi commerciali più competitivi rispetto ai trattati di libero commercio già conclusi dagli statunitensi.

All’interno del Foro sono stati organizzati innumerevoli momenti di confronto e di approfondimento sul tema e il 9 ottobre le organizzazioni Via Campesina, Amici della Terra e altre ancora hanno convocato una marcia di protesta contro l’Ada. I manifestanti, partiti dal Parque Central di Città del Guatemala sono giunti davanti all’Hotel dove si svolgevano i negoziati facendo sentire le loro grida di contestazione.
Portavoce del movimento sociale spiegano che devono essere garantiti e inclusi nell’Accordo il diritto all’alimentazione, il diritto alla salute e al lavoro, così come i diritti delle popolazioni indigene. L’Ue non può pretendere di lavarsene le mani includendo semplicemente i temi di cooperazione e dialogo politico, corollari all’asse commerciale. La gente vuole garanzie di una forma di sviluppo che possa portare benefici diffusi alla popolazione e non solo alle multinazionali europee.
E. Ma.

Ermina Martini




Migliaia di croci … rosa

Ciudad Juarez, città di frontiera e di femminicidi

Accade a Ciudad Juárez, infeale città di frontiera tra Messico e Usa: centinaia di giovani donne vengono sequestrate, torturate, abusate, uccise e gettate nel deserto come spazzatura. Per tal genere di violenza è stato coniato un triste neologismo: femminicidio. Un’associazione
di madri delle vittime chiede inutilmente verità e giustizia.

Questa è una brutta storia. Orribile. Di quelle che succedono nei film, ma che poi hanno un lieto fine. Invece la storia, vera, dei femminicidi a Ciudad Juárez (Stato di Chihuahua, Messico), non ha nessun lieto fine. Anzi. È sempre peggio. È dal 1993 che donne poco più che ragazzine, dai 12 ai 22 anni al massimo, vengono rapite, abusate, torturate e uccise da uomini senza scrupoli, che dopo avere nascosto il risultato della loro efferatezza, fanno perdere le proprie tracce.
Sono tante, a oggi, le vittime di queste pratiche inumane: almeno 500 accertate; altre 600 ancora desaparecidas, scomparse. Nel solo 2008, 60 morte o scomparse. Tutte che lasciano una famiglia, spesso bambini, orfani in piccolissima età. Ancora più sconcertante è il fatto che i colpevoli restano tutti o quasi impuniti.
La giustizia messicana, infatti, è impotente, se non indifferente. Gli organi di polizia, quelli che dovrebbero garantire la sicurezza della gente comune, sono spesso collusi, corrotti; in alcuni casi si trasformano addirittura in carnefici. È successo, infatti, che qualche poliziotto venisse incriminato per atti di violenza contro le donne, per poi essere, naturalmente, prosciolto. Oppure, in mancanza di colpevoli per le numerose morti del femminicidio, gli stessi corpi di polizia, alla ricerca disperata di capri espiatori, obbligassero innocenti a confessare un reato mai commesso.
È un inferno, oggi, essere donna a Ciudad Juárez. Più ancora donna e povera, costretta a lavori umili come i tui massacranti delle maquiladoras, le enormi catene di montaggio di quei prodotti di alta tecnologia che poi inondano le case dei benestanti del primo mondo. Stati Uniti in primis: le almeno 800 maquiladoras si trovano proprio a ridosso del confine statunitense.
È durante i viaggi nottui verso questi lavori, nei cambi di tuo, che il tragico destino di centinaia di giovani messicane si compie. Rapite alla discesa dall’autobus, alla fermata, oppure dagli autisti stessi a fine corsa. Poi, dopo le assurde sevizie e una morte tanto lenta quanto atroce, l’abbandono del corpo in luoghi sperduti, nei quali gli investigatori arriveranno solo giorni dopo, a decesso ormai avvenuto da tempo.
Proprio come nel film di denuncia Bordertown, quello con Jennifer Lopez e Martin Sheen nei panni di giornalisti che vogliono scoprire la verità sugli omicidi della città di frontiera messicana. Nel film verrà ucciso lui, ridotta al silenzio lei. Un po’ come succede nella realtà: si susseguono gli attentati, le intimidazioni a chi cerca di far uscire dal silenzio questa storia di delitti e impunità atroci. Basti pensare che anche regista e attori di Bordertown sono stati minacciati di morte, e il film è andato in onda in Messico solo il 16 maggio di quest’anno, più di due anni dopo la sua uscita nel resto del mondo.

M a c’è un gruppo di persone le quali, più di tutte, hanno la propria vita appesa a un filo, in conseguenza al loro coraggio civile e volontà di raccontare al Messico e al mondo intero quello che succede nelle notti di Ciudad Juárez. Sono le donne di Nuestras hijas de regreso a casa (Le nostre figlie tornino a casa), un’associazione dal 2001 in prima linea nella ricerca della verità sulle morti impunite.
La storia dell’associazione è quella delle sue fondatrici: quattro donne che in un modo o nell’altro hanno toccato con mano cosa vuol dire perdere una persona cara in quel modo orrendo. Ora quelle donne sono rimaste tre, perché Julia Cano, madre-coraggio a cui nel marzo 1995 avevano ucciso la figlia 15enne e che da allora aveva preso in affido sei orfani di altre donne assassinate, è morta il 29 settembre 2008: il suo cuore non ha retto all’ennesima tragedia, la morte durante una rissa di uno dei suoi figli affidatari, appena 24enne (il Messico è un paese con i più alti indici di violenza al mondo).
Gli altri cinque sono ora rimasti senza una madre per la seconda volta, e mentre si cerca loro una nuova famiglia, i parenti e conoscenti di Julia hanno attivato un conto, rintracciabile anche sul sito web dell’associazione, dove raccogliere donazioni.
Le altre tre fondatrici di Nuestras hijas de regreso a casa si chiamano Norma Andrade, María Luisa García Andrade e Marisela Ortiz Rivera. Nel corso degli anni sono state affiancate da decine di persone, raggiunte da migliaia di attestati di solidarietà, e da questo trovano la forza per andare avanti nella loro lotta ardua contro un nemico tanto enorme quanto invisibile. È la stessa Marisela Ortiz che lo dice in ogni occasione pubblica. È lei la portavoce più conosciuta dell’associazione, sempre in prima linea alle marce settimanali per il centro della città, con le croci rosa in mano (simbolo dei femminicidi), spesso in viaggio all’estero; così pure le altre due donne, per sensibilizzare l’opinione pubblica a muoversi, a fare qualcosa per aiutare l’universo femminile di Ciudad Juárez a uscire dal proprio incubo.
«Non smetteremo mai di chiedere giustizia, anche a costo di sacrificare la vita» spiega Marisela, che quando ti parla ti guarda in faccia, con uno sguardo risoluto e tenero allo stesso tempo. È lo sguardo di una madre di due figlie, segnata da anni di sofferenze, di atrocità vissute da vicino: nel febbraio 2001, mentre lavorava nella scuola come insegnante, ha conosciuto la realtà del femminicidio in prima persona. «Alejandra, la mia alunna migliore, venne rapita e mai più ritrovata. Aveva 17 anni. Da quel momento ho cambiato vita» racconta Marisela.
Da allora è diventato un volto noto, e, con Norma, Marìa Luisa e le altre donne dell’associazione non hanno mai smesso di parlare. «Anche alcuni uomini ci aiutano, ma non si fanno vedere in pubblico» rivela la donna, ben cosciente che il machismo (maschilismo) in Messico è ancora oggi una piaga quotidiana.

F inora, il frutto del loro impegno è poco, troppo poco in patria. Tutta colpa, senza ombra di dubbio, delle istituzioni latitanti. Molto eco, invece, all’estero; ne sono una conferma la serie di condanne pubbliche da parte di istituzioni inteazionali contro il governo centrale messicano e le amministrazioni dei distretti federali.
Su tutte, la risoluzione del Parlamento europeo dell’11 ottobre 2007, che, all’interno di una denuncia delle violenze di genere perpetrate nell’America centrale, faceva particolare riferimento alle efferatezze di Ciudad Juárez. Solo a quel punto, del resto, il Goveo messicano, ha dato segni di cedimento del proprio immobilismo: il presidente, Felipe Calderón ha dichiarato che si sarebbe impegnato in prima persona per cambiare le cose.
Salito al potere grazie a brogli elettorali, spesso accusato di chiudere gli occhi di fronte a varie situazioni di palesi violazioni dei diritti umani, come le repressioni contro i movimenti degli insegnanti nello Stato di Oaxaca e le esperienze non violente di democrazia dal basso degli zapatisti nel Chiapas,  il presidente ha lasciato le cose inalterate a un anno dalla sua promessa. L’unico ufficio creato ad hoc, quello «per la ricerca di donne scomparse», gestito dalla Procura della giustizia dello stato di Chihuahua, ha chiuso i battenti lo scorso aprile, con la scusa dei tagli imposti da una riforma governativa; così viene evidenziato ancora una volta il disinteresse delle istituzioni, che non vuole considerare la lotta al femminicidio una priorità.
Anche per questo, il 25 luglio 2008, una nuova condanna al governo messicano è arrivata dalla Coidh, la «Corte interamericana dei diritti umani», importante organizzazione continentale, che ha deciso di citare in giudizio lo stato messicano per le sue colpe e negligenze in una udienza pubblica, che si terrà i primi mesi del 2009 a San José in Costa Rica, sede della Coidh.
Poco conta che, nel frattempo, il 17 settembre scorso, si sia finalmente consumato il primo vero processo orale per femminicidio. Una donna di nome Dolores Tarín, sopravvissuta per miracolo al suo aguzzino, ha potuto testimoniare contro di lui, grazie anche a un giudice ostinato, che ha voluto a tutti i costi l’udienza in aula, alla quale si è arrivati nonostante le pressioni governative che richiedevano, incredibilmente, il patteggiamento. Ma conta molto, invece, per le associazioni in difesa dei diritti umani messicane.
Purtroppo, l’impunità continuerà a dilagare: per un caso che arriva in tribunale, ce ne sono altre centinaia che mai arriveranno. Oppure ci arrivano tramite menzogne e la ricerca di un colpevole a tutti i costi, come nel caso di David Meza Argueta: fu arrestato nel 2003 ed è stato prosciolto nel 2006, dopo tre anni di carcere, quando si è arrivati alla detenzione dei due poliziotti che gli avevano estorto, sotto tortura, la confessione di un omicidio mai commesso.

A d accrescere l’amarezza di dovere accettare che fino ad oggi poco o nulla è cambiato, si aggiunge il prezzo da pagare da parte di chi alza la voce chiedendo giustizia ed è altissimo.
«Dal maggio 2005, i bus nottui che trasportano le operaie, entrano nelle maquiladoras della città e le portano fino sotto casa, senza lasciarle ai bordi di strade buie; e quando una donna scompare, viene subito cercata senza attendere 48 ore dalla denuncia come succedeva prima» dice Marisela.
Ma è poca cosa. A cominciare dalla stessa donna, dal 2001 alle prese con attentati di ogni tipo. «In questi anni sono stata attaccata più volte da persone con il volto coperto – rivela Marisela. Hanno minacciato, se non la smetto di parlare, di rapire e uccidere le mie figlie, poi avrebbero fatto lo stesso con me. Un giorno sono stata inseguita in macchina, tamponata, spinta fuori strada. Il primo agosto  2007 mi hanno sparato due pallottole che per fortuna hanno colpito la carrozzeria della macchina e non me. Dal 2005 cammino con un bastone: il piede zoppo è il triste ricordo di una macchina che mi ha investita».
E questo nonostante che la donna vada in giro con la scorta; dal 2003 al 2005 ha avuto quella statale, ma è stata un’esperienza controproducente: poco professionale, non si presentava all’ora prestabilita e, aggiunge la stessa Marisela, «sembrava un modo per controllarmi, per questo ho chiesto di sospenderla».
Poche settimane fa, la sfortunata donna ha perso un nipote: anche lui prima rapito, poi torturato e ammazzato. Non si sa se il fatto sia direttamente connesso alla sua attività, di certo ha contribuito ulteriormente ad accrescere la paura. Per questo, si è mossa ancora una volta Amnesty Inteational, che già negli scorsi anni l’aveva appoggiata con appelli urgenti al governo messicano. In questi giorni, tramite soprattutto una delle sue reti locali, il gruppo 108 di Vimercate (MI), Marisela è riuscita a rimediare una scorta governativa dalla commissione per prevenire e sradicare la violenza contro le donne a Ciudad Juárez.
Anche le altre donne girano ora sotto scorta; ma il pericolo è ritornato alto dopo il 3 ottobre 2008, quando è stato proiettato nelle maggiori città messicane, tra cui la stessa città dei femminicidi, un crudo documentario fatto da due dei pochi giornalisti impegnati nella causa. «Sì, perché tutti gli altri sono corrotti dalle autorità – aggiunge sconcertata Marisela -. Basti pensare che in televisione noi appariamo pochissimo, e quando accade è per screditarci: viene detto alla gente che con la nostra attività roviniamo l’immagine di Ciudad Juárez nel mondo». Incredibile.
E l’opinione pubblica? «O ci crede, o è consenziente: abbiamo fatto un sondaggio, chiedendo ai passanti se sapevano la storia del femminicidio. Ebbene, solo uno su dieci conosceva la situazione in modo soddisfacente». Di fronte a tutte queste difficoltà, le donne dell’associazione non si danno (ancora) per vinte. E continuano a viaggiare per il Messico e il mondo per svegliare le coscienze.
In Italia, Marisela torna proprio a dicembre 2008. Viene ricevuta, con Amnesty, dall’ambasciata messicana. È candidata per ricevere la cittadinanza onoraria dalla città di Torino. Tiene anche molti incontri pubblici: andiamola a conoscere. Lei ha un sogno, smettere di scrivere quotidianamente sul sito dell’associazione: «Oggi è il giorno tale e ancora non si è risolto niente»; vorrebbe invece scriverci: «Da oggi in poi non ci saranno più femminicidi a Ciudad Juárez».

Un sogno da sostenere e realizzare: una eventuale sconfitta sarebbe una grave disfatta per l’intera società umana. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Incontro tra bisogno e risposta

Pietro Gamba: medico dei campesinos

L’avvincente avventura di un ex operaio meccanico che ha deciso di diventare medico per dedicarsi ai meno fortunati di Anzaldo e di altri sperduti paesi della Bolivia. Ha fondato un ospedale e tra mille difficoltà riesce a curare il fisico e lo spirito, meritandosi stima e fiducia dell’intera popolazione.

Quella del bergamasco Pietro Gamba può essere definita un’avventura, che ha avuto inizio nel 1975, quando, a 23 anni, decise l’obiezione di coscienza anziché il normale servizio di leva. Lasciato il lavoro di operaio, tale scelta lo portò a dedicarsi al servizio dei più sfortunati, in particolare dei campesinos boliviani di Challviri. Tale avventura è ampiamente raccontata e illustrata nel libro scritto da Riccardo Scotti, con fotografie di Giovanni Diffidenti, «Il medico dei campesinos. La vita e l’opera di Pietro Gamba in Bolivia», ed. Ananke, Torino.
Ma perché venire proprio in questo paese sperduto e così lontano dalla vita civile e dai propri famigliari? Secondo il suo pensiero e la sua convinzione tutto nasce dal desiderio di pensare in modo diverso, e dalla necessità di divenire un «uomo nuovo»: rinunciare alle comodità e alle sicurezze e mettersi in gioco con i più poveri, con i semplici, e gli umili.
«La storia – spiega il dottor Gamba – è il bene che vince la realtà, modificandola… La mia scelta trae origine da due eventi fondamentali: la contestazione del ’68, con tutte le sue implicazioni socio-politiche che la stessa ha comportato, e l’evento del Concilio Vaticano II, che ha dato nuova luce e nuova veste all’impegno dei laici nella chiesa e per la chiesa».
Pietro, primo di nove fratelli, è nato a Stezzano nel 1952, in una famiglia di modesti contadini. Fin da ragazzo amava frequentare l’oratorio costituendo un gruppo di collegamento epistolare con i carcerati e militari del paese, che lamentavano problemi come il senso di inutilità che avvertivano nel prestare un anno di servizio militare, anziché occuparlo in modo più utile socialmente… In seguito si diploma come tornitore meccanico, lavorando in una fabbrica per tre anni e, giunto il momento di svolgere il servizio militare, decide di impegnare la propria vita al prossimo meno fortunato.
Nonostante in Italia non fosse ancora prevista l’obiezione di coscienza il giovane bergamasco si rivolse agli organismi missionari per ottenere l’esenzione dal servizio militare in alternativa a un impegno nella missione.

Determinante fu l’incontro con Bepo Valvassori, fondatore del Patronato San Vincenzo di Bergamo, che gli fece conoscere la sua Opera dedita all’accoglienza e all’assistenza degli orfani e degli emarginati. Oltre a essere stato il suo padre spirituale, don Bepo ascoltò le richieste di Pietro sostenendo e rafforzando il suo desiderio di impiegare la propria esistenza al servizio dei più bisognosi, suggerendogli di compiere la sua caritatevole missione in Bolivia.
Nel settembre del 1975, Pietro si imbarcò nel porto di Genova per raggiungere l’America Latina e dopo un mese di viaggio sbarcò ad Antofagasta, sulla costa cilena, per poi proseguire per Ciudad de Niño di La Paz. Si stabilì ad Anzaldo, piccolo paese di montagna a 3.200 metri di altitudine, dalle strade strette e tortuose, ma passaggio obbligato per i commerci degli indios.
Dopo due anni di stretto contatto con questa realtà, condividendo ogni loro problema ed esigenza e rendendosi conto che quella popolazione necessitava anche di un medico, il giovane Gamba toò in Italia per laurearsi in medicina e chirurgia all’università di Padova. Dopo un breve periodo di tirocinio in Svizzera, dove fondò «Asociacion Humanitaria dott. Pietro Gamba», gruppo di appoggio di alcune persone sensibili alla sua iniziativa, toò in Bolivia.
Con l’aiuto di tanti volontari nel corso degli anni, l’intera comunità di circa 12 mila abitanti distribuiti in un’area di quasi 60 chilometri quadrati, venne dotata di un ospedale, sistema elettrico, acquedotto e rete fognaria. Notevoli conquiste per una più umana condizione di vita, nonostante l’approccio iniziale con i campesinos non sia stato facile, soprattutto per la comprensibile diffidenza di questa gente.
Molti i problemi che dovette affrontare soprattutto all’inizio, come la difficoltà di comunicare con gli abitanti del posto che conoscevano soltanto il quechua, l’idioma delle popolazioni di origine incaica, ancora sconosciuto a Pietro. La loro naturale riservatezza, non disgiunta dal forte senso d’unione all’interno della loro comunità, fu uno degli aspetti che più lo colpirono, tanto da condividere sin dall’inizio usi e costumi (compreso l’abbigliamento) dei contadini con cui voleva affrontare questa esperienza.
Partecipò attivamente al lavoro collettivo e a riunioni della comunità principalmente per promuovere una sensibilizzazione cristiana che si sarebbe concretizzata con la preghiera domenicale comunitaria. Ma le esigenze di comunicazione diventavano sempre più impellenti, tanto che dovette studiare il quechua. L’idioma era particolarmente impegnativo e difficile da imparare, tanto da dubitare sulla possibilità di proseguire questa esperienza.
Una delle prime realizzazioni comunitarie fu l’edificazione di una scuola, alla quale Pietro partecipò senza risparmiare fatica e dedizione. In tal modo poté avvicinarsi sempre più alla gente umile e ospitale, rendendosi disponibile anche alle attività più normali della popolazione; un impegno e generosità molto apprezzato dai campesinos, che permisero al dottore di insegnare ai loro bambini un po’ di catechismo e la lingua spagnola, che non parlavano neppure a scuola.

Oltremodo significativa e importante è la sua opera di medico, che esercita soprattutto tra la popolazione di Anzaldo.
Nelle zone più depresse della Bolivia la mortalità infantile era molto elevata: un bambino su tre entro il primo anno di vita e uno su due entro i cinque anni. Le cause erano dovute alle pessime condizioni igieniche, all’ alimentazione insufficiente, alla carenza di vitamine, oltre alle complicazioni provocate da malattie polmonari; a ciò si aggiungeva la scarsa assistenza medica, sia perché molto costosa, sia per la naturale diffidenza nei confronti della medicina ufficiale; i campesinos, infatti, non la ritenevano capace di risolvere i loro problemi di salute, ma pensavano fosse un mezzo per approfittare delle loro scarse risorse economiche.
Nel suo impegno medico e sanitario, il dottor Gamba è coadiuvato da altri quattro medici (un internista, un chirurgo e due biochimici) e alcune infermiere. L’ospedale, attraverso una convenzione con i padri Scolopi che gestiscono la parrocchia e la scuola locale, fornisce un’assistenza sanitaria a circa 800 studenti e con i Comuni di Acacio e San Pedro de Buenavista sono stati firmati degli accordi per il Sumi (Seguro universal materno infantil), per la risoluzione dei problemi inerenti alla gravidanza, al parto e ai primi anni di vita del neonato.
«Durante l’anno – spiega il dott. Gamba – si visitano circa 4 mila pazienti, che provengono da Anzaldo e dalle aree limitrofe, e si effettuano circa 200 interventi di chirurgia; in particolare sono stati praticati finora interventi per l’applicazione di pace-maker, impianti di protesi d’anca e interventi di correzione della colonna vertebrale, e di oftalmologia».
La dedizione di Pietro Gamba continua senza interruzione ormai da oltre un ventennio, a parte una breve pausa nei mesi scorsi per ricongiungersi con la famiglia e presentare il suo libro. In tale occasione ha richiamato l’attenzione sul concetto di assistenzialismo puro, come di una vera piaga per la povertà. E ha così spiegato: «Non di rado, di fronte all’estrema povertà, ci si sente come in preda a un delirio di onnipotenza benefico. Questa volontà di dare conforto e aiuto, se esasperata, può favorire una forma di welfare patealistico, che non risolve alla radice i problemi ma, al contrario e più concretamente, spreca molto denaro».
Anche per questa ragione il dottor Gamba vorrebbe che l’orgoglio dei campesinos fosse più forte e sentito, tanto da indurlo a responsabilizzarli maggiormente con la richiesta di piccoli contributi per le cure loro prestate, rendendoli così più partecipi alla propria vita. Proprio come intendeva il medico alsaziano Albert Schweitzer: non solo una assistenza non gratuita per il bene di tutti, ma anche condivisione e solidarietà con i propri simili. 

Di Eesto Bodini

Eesto Bodini




Un cuore caldo sotto i ghiacci

Viaggio nella terra di vulcani e geyser

Isola vasta ma spopolata, a 3 km dal circolo polare artico, ricca di secolari fenomeni vulcanici, meta turistica per intenditori, l’Islanda ha deciso di sfruttare le sue ingenti riserve energetiche con impianti industriali inquinanti, mettendo a rischio la sua fama di paese meno inquinato del mondo.

Una terra nera, rugosa e drammatica che sprigiona densi vapori bianchi: è la prima immagine che l’Islanda offre di sé appena l’aereo atterra all’aeroporto di Keflavik, a un’ora dalla capitale Reykjavik (baia fumosa). La zona è tra le più calde dell’isola, con fenomeni geotermici violenti, solfatare e soffioni: queste forze della natura vengono sfruttate per produrre energia e altre comodità per la vita degli abitanti e la delizia dei turisti, come le vasche di acqua termale all’aria aperta. 
Il primo tuffo lo facciamo nella piscina pubblica di Reykjavik. Appena ci ha sentite parlare, un operaio addetto allo stabile si avvicina e ci racconta la sua storia avventurosa: si chiama Roberto, ha 68 anni e vive in Islanda da 35 anni; è fuggito da Napoli, lasciando moglie e figli, per trasferirsi in Canada; ha lasciato la seconda moglie e si è rifugiato in Islanda, dove ha deciso di rimanere con una terza moglie e tre dei suoi cinque figli.
«Tutti gli anni ritorno a Napoli, ma non è più la mia città. Oramai il mio paese è questo e ci vivo bene» afferma con il suo forte accento napoletano. E quando gli faccio notare la modestia di negozi e abitazioni, mi spiega che gli islandesi non vivono per l’immagine, sono persone vere, genuine e democratiche. Poi mi indica un anziano signore con barba bianca che sta entrando nello stabile della piscina con la sacca a tracolla, e aggiunge: «È il presidente del senato».
L’Islanda è ritenuta il primo paese europeo a darsi un governo democratico. Era il 930: la comunità locale si riunì presso il lago Thingvellir e scelse i loro rappresentanti che formarono l’Assemblea (Althing) con il potere di legiferare e governare il paese.
La storica località si trova a cavallo della frattura che divide le due placche continentali dell’Eurasia e dell’America. Il lungo canyon spacca la pianura, con due muraglioni di basalto nero che continuano ad allontanarsi, al ritmo di un millimetro all’anno. La terra in Islanda non è mai stata ferma ed è in continua evoluzione: qui sono avvenuti e avvengono più della metà dei fenomeni vulcanici nel mondo.
geyser, crateri e caldere
Lasciata Reykjavik, città piacevole e luminosa, con una piccola Toyota a nolo imbocchiamo la Ring Road, più di 2 mila km di strada che corre lungo tutta la costa islandese. Ci inoltriamo in un territorio per certi aspetti terrificante, segnato profondamente da fenomeni vulcanici, caldere fumanti, campi neri di lava e monti erosi e scarsa vegetazione.
Deviando verso la costa per raggiungere i villaggi di pescatori, troviamo un pugno di casette, protette da una lunga barriera di rocce nere, costruita dopo un devastante tsunami. Continuando la Ring Road verso est, attraverso immense distese di sabbia nera solcata da rivoli scuri, ci avviciniamo alle calotte glaciali, le più grandi d’Europa. Confesso che i primi due giorni mi sono trovata spaesata, oppressa dal grigio infinito di paesaggi drammatici e da una luce spettrale.
Spaventose eruzioni, documentate nei secoli passati, hanno lasciato il segno: la lava solidificata nelle forme più strane, è ricoperta oggi da uno spesso strato di muschio. Per chilometri si viaggia in un paesaggio fatto di campi coperti da enormi cuscini verdi. Nelle lagune lungo la costa vi sono ancora i ghiacci e moltissimi uccelli, che ho imparato a conoscere e amare durante i precedenti viaggi nei paesi del nord. Scopro che i villaggi segnati sulla mappa, dai nomi impronunciabili, sono in realtà case isolate, alla base di monti che paiono cumuli di cenere nera.
Siamo a metà maggio, i rari salici nani hanno gemme vellutate, ma i lupini devono ancora schiudersi. Il sole pare non voglia mai tramontare: in pochi giorni accenderà i colori del cielo e delle acque, fiumi, lagune e oceano. Minuscoli fiori rosa si apriranno sulla lava nera e la luce incredibile del nord ci terrà compagnia anche di notte.
solitudine
Gudveig vive da oltre 50 anni a Skaftafell, ai margini del più grande parco nazionale dell’Islanda. Si era sposata a 18 anni, nel 1954, quando ancora andava a scuola, a Reykjavik. «Mio padre era cattolico e io conservo un bellissimo ricordo della scuola della cattedrale e delle suore».
I primi anni a Skaftafell furono molto duri. Il giovane marito aveva scelto questa fattoria isolata, posta su di un ripido pendio, tra due grandi lingue di ghiaccio della calotta glaciale del Vatnajokull, per allevare pecore e cavalli. Allora non c’era acqua né luce e tutti i lavori dovevano essere fatti a mano. Uno dopo l’altro nacquero 5 figli.
«Mio marito era una persona meravigliosa» continua commossa, indicandomi il ritratto alla parete, che mostra un uomo dai bei lineamenti e ridenti occhi azzurri. «Quando nel ’64 gli fu offerto il lavoro di guardia nel parco nazionale appena costituito, la vita cambiò e arrivarono alcune comodità. L’allevamento da allora è proibito, per proteggere flora e fauna autoctoni, mentre il turismo è aumentato molto». L’ anziana signora è felice di ricevere durante l’estate gli ospiti, che, oltre a rompere la solitudine delle interminabili notti boreali, portano anche denaro buono.
Per più di 50 anni lo sguardo di questa donna gentile ha spaziato sull’immensa distesa grigia del Sandur, una deprimente pianura di fine sabbia nerastra e limo, che i torrenti glaciali hanno portato a valle fino alla costa. Nelle lunghe notti invernali Gudveig ha tempo per tessere e ricamare, ricoprendo sedie, poltrone e pareti della casa minuscola, dalle molte stanzette. Ha pure dipinto quadri, ispirandosi alla natura. I cinque figli hanno viaggiato molto e ora vivono nella capitale. Gli 11 nipoti vengono a passare le vacanze qui, a casa della nonna, e aiutano ad accogliere i turisti.

ALLA RICERCA DI SE STESSI
Naturalmente non tutti gli islandesi si rassegnano all’isolamento. Uno di essi è Petrus. Lo incontriamo in una pensione con vista sul porto di Seydisfjordur, una cittadina situata nell’omonimo fiordo della costa nordorientale dell’isola. È arrivato la sera da Reykjavik dopo otto ore di auto con la bella moglie e due gemelle di 12 anni.
Petrus ha studiato e lavorato negli Stati Uniti per 7 anni, poi è voluto ritornare in patria, stabilendosi nella capitale. «Viaggio molto per lavoro e conosco Milano e Roma» mi spiega. Hanno in progetto di imbarcarsi per l’Europa e spendere un mese di vacanza in Scozia, con tappe intermedie in Norvegia e a Copenaghen.
L’Islanda, infatti, continua a mantenere i suoi legami storici con le nazioni che l’hanno dominata. Per quasi tre secoli la Danimarca ha mantenuto il controllo politico e commerciale dell’Islanda, fino al giorno dell’indipendenza ottenuta solo dopo la seconda guerra mondiale (1944).
Mentre Petrus e famiglia s’imbarcano, dal traghetto sono appena scesi due giovani neozelandesi, in bicicletta. Arrivano da un anno di viaggio in Asia. Cinque mesi li hanno passati in India e ora contano di fermarsi un mese in Islanda, sempre in bici, dormendo in tenda.
Sulla strada che porta al lago Mivatn incontriamo un ventunenne di Tabor, Repubblica Ceca, che viaggia solo e spera di vendere foto e reportage a Praga per pagarsi il prossimo viaggio. Sulla bicicletta ha la sua casa, compreso un fornello col quale ci prepara un caffè, al tavolo di un rifugio che troviamo a metà percorso, perfettamente attrezzato e pulito, con servizi, docce e piscina termale, anche se incustodito, non essendo ancora in piena stagione turistica.
Qui incontro Peter, giovane ungherese che viaggia solo, a piedi e in autostop, da oltre un mese. Ha lasciato l’università ed è partito alla ricerca di se stesso. Ci sono anche due cinesi di Singapore, con auto a nolo e perfetta attrezzatura d’alta montagna. Per loro questo viaggio, programmato da tempo con molta cura, è la realizzazione di un sogno.

TERRA DI MIGRATORI
Procedendo verso il nord, per chilometri non incontriamo altri veicoli, il paesaggio è ancora segnato dalla neve, i colori sono brillanti, l’aria fredda, le lagune popolate di uccelli.
Ad Akureyri alloggiamo nella pensione di Elin. Ci racconta che da bambina aveva imparato a pescare sulla barca del padre, quando vivevano a Darvik, villaggio di pescatori situato in un’ansa dell’Eyiafjordur. Dopo il diploma, si era iscritta all’università di Akureyri e aveva insegnato nel college di agraria di Hòlar, finché ha aperto la guest house dove ci siamo sistemate.
«Devi andare a Hòlar – mi raccomanda Elin -, è una zona storica e molto bella». La cittadina si trova a una settantina di chilometri da Akureyri. Nel medioevo era stata sede vescovile, capitale ecumenica e pedagogica fino alla Riforma, quando il re della Danimarca impose il luteranesimo e l’ultimo, battagliero vescovo cattolico venne decapitato, insieme ai suoi due figli (1550). Il college, che prepara anche per il turismo, ha sede accanto all’antica chiesa.
Anche la storia della chiesa in Islanda è interessante: si dice che siano stati i monaci irlandesi i primi abitanti dell’isola, trovandola ideale per la loro vita eremitica (vedi riquadro). Nell’anno mille gli islandesi furono convertiti al cristianesimo, per volere dell’Assemblea di Thingvellir, pur lasciando la libertà di onorare le divinità tradizionali: Thor e Odino.
Il predominio della confessione luterana è ben testimoniata dalla cattedrale di Akureyri, che con le sue torri di cemento sovrasta il centro città. La chiesa cattolica, invece si trova in una zona residenziale ed è stata ricavata da una villetta.
La domenica vi incontriamo padre Patrick, un prete arrivato 20 anni fa dall’Irlanda per prendersi cura della minuscola comunità, formata prevalentemente da migranti filippini. La comunità ha riempito la chiesetta, anche perché ci sono le prime comunioni. Vi incontro pure una coppia di genovesi, in visita al figlio che lavora all’università come insegnante di storia: da pochi giorni gli è nato il secondo figlio. La moglie è scozzese, entrambi si dicono entusiasti di vivere in questa città, dove la famiglia è molto aiutata dalle strutture pubbliche.
Inquinamento
La guest house di Elin si è riempita per il fine settimana. Alcuni sono giovani operai della fonderia di alluminio della multinazionale Alcoa, al centro di polemiche con gli ambientalisti. Sono arrivati dal lontano Reydarfjordur per trascorrere una notte di festa nei locali di questa cittadina, che ha fama di essere vivace.
«Lavoriamo alla produzione, senza maschere filtranti, in condizioni molto dure – mi confida Chris, un immigrato ungherese -. L’ambiente è saturo di polvere di alluminio, molto tossica. Ma la paga è 10 volte quella che guadagnerei in patria».
Chris sa benissimo che le polveri danneggiano la salute, in particolare il cervello. «Ho 28 anni e spero di lasciare tra due o tre anni e ritornare a casa». Le navi arrivano dall’Australia, mi dice. Ma io so che caricano il minerale anche a Iryan Jaia, in Indonesia, dove esiste una enorme, ricchissima miniera sfruttata dalla Bechtel americana, a 4 mila metri, su un vulcano coperto ancora da ghiacci. Il materiale estratto, ricchissimo di minerali preziosi, scende direttamente al mare, dove viene imbarcato e spedito in Islanda, da molti anni ormai.
L’Islanda possiede ingenti riserve energetiche quasi intatte. Sino ad oggi l’Islanda ha impiegato un ventesimo dell’energia geotermica e appena un decimo di quella idroelettrica, esclusivamente per l’uso domestico (l’80% delle abitazioni sono riscaldate dalle caldissime acque del sottosuolo) e per le coltivazioni in serra. Si tratta di energie rinnovabili, pulite e a basso costo, che il governo ha deciso di vendere al mercato internazionale. Un’operazione semplice in apparenza, se non fosse che l’Islanda è nel mezzo dell’Atlantico, per cui è impossibile trasferire altrove i suoi preziosi megawatt.
L’unica soluzione è quella di ospitare sul proprio suolo imprese straniere che abbiano bisogno di grandi quantitativi di energia. Per questo, nel 2003 la compagnia energetica nazionale, la Landsvirkjun, ha firmato un contratto miliardario con la più grande multinazionale dell’alluminio, l’americana Alcoa.
Altre fonderie sono in progetto, che dovranno essere alimentate da una nuova grande diga, che sommergerà una vasta zona selvaggia e remota. I promotori del progetto parlano di compromesso sostenibile, rischi contenuti, opportunità di lavoro per la gente, che viene comunque reclutata all’estero, per i lavori a rischio. Il pericolo di inquinamento è grave, nel mare, nei fiumi e in un territorio ricco di acqua, finora rimasto incontaminato. La società civile appare divisa tra ottimisti e scettici, e solo un piccolo gruppo di persone sembra disposto a battersi per portare alla luce le molte questioni controverse di tali imprese, tra cui i rischi ambientali e quelli economici.
«Credo che potremmo fare a meno di queste fabbriche di alluminio – afferma Elin -. Il turismo è la nostra industria più forte. Ma il paese è diviso su questo argomento. Vi è crisi economica, i prezzi sono alti e la popolazione scende, specialmente nei villaggi».
A Husavik pare che la gente sia favorevole al nuovo insediamento industriale dell’Alcoa, previsto nelle vicinanze. Tuttora il villaggio vive della pesca e soprattutto del turismo, perché è qui che si osservano facilmente i cetacei, che in questa zona sono protetti e la pesca non è stata riaperta come è avvenuto altrove dopo anni di chiusura.
«Anche io ho lavorato sui pescherecci – mi dice Michael, che ci ospita nella sua bella casa -. Dovevo pulire il pesce appena pescato: una vita durissima, che gli islandesi non vogliono più fare. Oggi sono i polacchi a imbarcarsi per lunghi periodi nei mesi freddi e bui della pesca, da gennaio a marzo».
L e famiglie islandesi possono essere molto numerose, i giovani amano viaggiare, girano il mondo e poi magari ritornano. Pare che la gente d’Islanda sia tra le più felici in Europa. Ma allora, mi domando, perché l’anno scorso 20 giovani madri sono morte per overdose? Una percentuale altissima, se consideriamo la popolazione di appena 300 mila anime. La notte è molto lunga e in inverno le ore di luce sono 3 o 4. Anche l’alcornol è un problema, come in tutti i paesi freddi. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Dove va il Kenya?

Gravi incognite di un paese che sembrava ricco e felice

Dietro i disordini scoppiati in seguito ai controversi risultati elettorali del dicembre 2007, si celano gravi problemi irrisolti: possesso della terra, tensioni etniche, squilibri economici e sociali, corruzione…
I due contendenti leaders politici si sono messi d’accordo, ma cresce il malcontento della gente, mettendo a rischio il futuro del paese.

I più sprovveduti non se lo aspettavano, i più attenti sì. Il Kenya è oggi in fondo alla classifica della pace. Secondo il Global Peace Index, compilato dall’Istituto per l’Economia e la Pace in Australia, su 140 nazioni il Kenya è precipitato al 119° posto. Le cause principali della sua caduta nella classifica della pace sono state le violenze post-elettorali del gennaio scorso, le bande dei Mungiki e dei Sabaot nel distretto del monte Elgon al confine con l’Uganda, il crescente numero di rapine a mano armata e gli omicidi a contratto, l’abbondanza di armi da fuoco illegali, l’aumento delle razzie di bestiame e i sequestri di autoveicoli pubblici e privati.
Naturalmente questo non è tutto il Kenya; ma lo si credeva un paese ricco e felice, a differenza di molte altre nazioni africane. Sembravano sparite anche le divisioni etniche tra le numerose tribù che lo compongono. Oggi invece molti africani non kenioti che vengono in Kenya restano sorpresi da queste divisioni e si sentono spesso chiedere «a quale tribù appartieni?»; una domanda che sarebbe considerata scortese nelle loro nazioni di provenienza.
Il Kenya, le cui dimensioni territoriali sono all’incirca quelle della Francia, ha sette province. Quella di Nyanza, situata sulle rive del Lago Vittoria, è la patria della comunità etnica luo, il cui modo di vita tradizionale è strettamente legato alla pesca. All’epoca dell’indipendenza del paese, i luo erano la seconda comunità etnica del Kenya numericamente più grande. Insieme al gruppo maggioritario, i kikuyu, avevano combattuto per l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Al contrario dei luo, situati sul confine occidentale del Kenya lontano dalla capitale Nairobi, i kikuyu vivevano e vivono ancora oggi prevalentemente nella Provincia Centrale che circonda il monte Kenya. Al tempo del colonialismo britannico furono l’etnia maggiormente danneggiata dalle espropriazioni di terre, volute dalle autorità coloniali per permettere agli agricoltori bianchi di stabilirsi in zone vicine alla capitale. Ne derivò una violenta ribellione, quella dei Mau-Mau, repressa nel sangue dall’esercito britannico negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il Kenya ottenne l’indipendenza nel 1963 e tutte le comunità etniche del paese accolsero con entusiasmo l’elezione a primo presidente della giovane repubblica Jomo Kenyatta, un kikuyu imprigionato per anni nelle carceri inglesi perché favorevole all’indipendenza.
Nel 1978, dopo la morte di Kenyatta, fu scelto a succedergli Daniel Arap Moi, un candidato di compromesso, appartenente all’etnia kalenjin, che abita la provincia della Rift Valley, una depressione di grande bellezza naturale che attraversa il Kenya da nord a sud, tradizionalmente abitata da popolazioni dedite alla pastorizia, tra le quali emerge l’etnia dei kalenjin.
Fino a qualche tempo fa, la Rift Valley era considerata il granaio del Kenya, ma dal gennaio 2008, colpita da sanguinosi conflitti etnici e con quasi 300 mila rifugiati, l’agricoltura è stata quasi del tutto devastata e abbandonata.
Nello stesso tempo, in Kenya si era verificato un rapido incremento della popolazione e il governo si rese conto che un gran numero di piccoli agricoltori era in cerca di terra da coltivare. Si decise di risolvere il problema assegnando a questi agricoltori zone fuori dalla Provincia Centrale, a scarsa densità demografica, ma dotate di terre fertili. Tali terre furono trovate soprattutto nella provincia della Rift Valley e furono subito occupate da coloni kikuyu oltre che da etnie provenienti dall’altro lato della Rift Valley, come i luo. Ciò provocò il risentimento delle popolazioni che da secoli abitavano la Rift Valley. 
Negli anni ‘80 e ‘90 gli scontri per il possesso della terra avvennero soprattutto dove i kalenjin avevano cominciato a razziare il bestiame e a cacciare gli agricoltori di altre etnie. L’evento peggiore si verificò nel 1992, quando furono uccise 1.500 persone. Sembra che in questi atti di violenza fosse addirittura coinvolto lo stesso governo del presidente Moi di etnia kalenjin.

Tuttavia, dietro alle violenze avvenute in Kenya con un numero considerevole di morti e di profughi, non c’è solo il problema delle terre, ma anche il conflitto tra luo e kikuyu; questi ultimi oggetto di una spropositata politica di investimenti considerata dai luo sfavorevole nei loro confronti. Scoppiarono così rivolte in tutta la provincia e il leader politico luo di allora, Oginga Odinga, fu arrestato con l’accusa di fomentare le rivolte. Un altro luo, il ministro della pianificazione economica Tom Mboya, filoccidentale e moderato, fu ucciso in una serrata lotta con Odinga per la successione all’ormai vecchio Kenyatta.
Dietro le recenti violenze avvenute in Kenya permane dunque il conflitto tra luo e kikuyu. Forse il principale teatro di queste violenze fu il Kibera slum di Nairobi, un luogo periferico della capitale dove è evidente la disuguaglianza economica e dove coloro che provengono dai territori dei luo tendono a gravitare in cerca di una sistemazione economica migliore. Il Kenya ha uno dei più alti redditi pro capite fra i paesi africani, ma ha anche il maggior divario nella distribuzione delle ricchezze. Negli ultimi decenni le proporzioni raggiunte dalla corruzione politica hanno inoltre messo il paese in una posizione anche peggiore rispetto a quella dei suoi vicini e, inevitabilmente, i tassi di crescita economica sono rimasti indietro.
Non solo a Nairobi, ma in molte altre città keniote la disuguaglianza economica è evidente nell’architettura delle zone ricche e nell’architettura fatiscente di quelle povere. Una foto scattata dal satellite e reperibile su internet mostra come all’interno dei confini della città c’è una superficie occupata da una serie di campi da golf e un’altra uguale occupata dagli slums, in cui vivono fino a tre milioni di persone. La consapevolezza di questa disuguaglianza, unita al risentimento etnico, si è combinata in una miscela esplosiva con forti tensioni e violenze nei primi mesi di quest’anno.

I n tale situazione le elezioni del dicembre 2007, che portarono di nuovo al potere il kikuyu Mwai Kibaki, furono giudicate dagli osservatori inteazionali «molto irregolari». Buona parte di loro ritennero infatti che il presidente legittimamente eletto fosse il capo dell’opposizione, Raila Odinga, appartenente all’etnia luo, membro del Parlamento di Nairobi e rappresentante di un’area che include Kibera slum. È anche figlio di Oginga Odinga, il leader politico della comunità luo imprigionato durante i disordini del 1969.
Le violente proteste contro le irregolarità avvenute alle elezioni del dicembre scorso sono con ogni probabilità non un fatto marginale, ma piuttosto una risposta alle molte tensioni che aspettavano soltanto di esplodere. È perciò importante che ora tra il presidente kikuyu Mwai Kibaki e il luo Raila Odinga si sia raggiunto un accordo di pace e che tale accordo abbia successo.
L’accordo propone un’autentica condivisione del potere, considerato il primo passo verso il superamento di rancori profondamente e storicamente radicati, in modo da costruire uno stato riconciliato, dove prevalga il senso del bene comune. L’auspicio è che in questo frangente i cristiani, tra cattolici e protestanti in Kenya sono più della metà della popolazione, abbiano un ruolo significativo nella maturazione del paese verso un’autentica democrazia. La strada è senza dubbio difficile. I rancori storici si sono accumulati e non sono stati affrontati per tempo.
Nel maggio scorso nei campi dei circa 300 mila rifugiati a causa dei conflitti etnici è stata lanciata dal governo l’operazione «Toate a casa». A Eldoret, in uno dei campi di questi rifugiati, si è tenuta una cerimonia interreligiosa, con la partecipazione di parlamentari locali di etnia kalenjin che predicavano il perdono e la pace. Alcuni di questi leaders sono sospettati di aver incitato il massacro dei kikuyu nel gennaio scorso.
Le difficoltà sono comunque enormi. L’agricoltura è stata devastata. Molte zone sono rimaste incolte, il prezzo delle sementi, dei fertilizzanti e del carburante sono alle stelle e la pioggia tarda a venire. Per coloro che hanno perso casa, bestiame e tutto il resto «tornare a casa» è un grosso problema, circondati come sono dai vicini che non li potevano vedere e che hanno razziato tutto quello che potevano. Per coloro che possedevano solo una capanna e un piccolo negozio di beni di consumo, si troveranno invece un cumulo di ceneri. «Toare a casa» sarà difficile, molto difficile.

E non è tutto finito qui! Come sempre succede in simili casi, i disordini di fine 2007 e inizio 2008 si sono trascinati dietro altri fatti incresciosi. Decine di piccoli commercianti, che avevano fornito del materiale a sostegno del partito del presidente Kibaki, non hanno ancora ricevuto alcun pagamento per un totale di 14 milioni di scellini (140 mila euro). Trattandosi per lo più di piccoli commercianti, ora rischiano la bancarotta. I dirigenti del partito del presidente, che avevano raccolto tale materiale, affermano di non avere nessuna responsabilità nel pagamento.
Inoltre, dopo parecchi mesi dai disordini elettorali, nei campi della Rift Valley vi sono ancora circa 20 mila rifugiati in precarie condizioni, malgrado gli aiuti dall’estero. A Timboroa il governo italiano ha costruito 200 piccole abitazioni per i più bisognosi; altre centinaia sono in costruzione da parte di diverse organizzazioni di assistenza umanitaria.
Ma succede anche qui come con i poveri polli di Renzo di manzoniana memoria: delle 2 mila stufe d’emergenza, donate dalla Germania, i rifugiati denunciano la sparizione di un certo numero; dove sono andate a finire? Non si sa! I rifugiati lamentano anche la scomparsa di vettovaglie, naturalmente vendute al pubblico dagli amministratori locali.
Infine, secondo la polizia, almeno 30 bambini sono stati abbandonati nelle vicinanze dei campi dei rifugiati di Eldoret e della tendopoli della Rift Valley. Tutto questo mentre il presidente Kibaki e il primo ministro Odinga discutono tra loro come punire gli arrestati responsabili delle violenze post-elettorali. Odinga chiede l’amnistia per tutti; Kibaki promette severe condanne. Odinga cerca il dialogo con i Mungiki; il capo della polizia promette severe repressioni finché la «setta» è fuorilegge.
Nel frattempo i parlamentari, già abbondantemente stipendiati dal governo, si rifiutano di pagare le tasse. «Ci vogliono ridurre alla miseria come i nostri elettori» diceva un parlamentare; e un altro: «Pagheremo le tasse quando ci aumenteranno lo stipendio che ci compensi di quanto abbiamo perso».
E non basta: la polizia avvisa che una nuova banda criminale, denominata «Siafu» (formiche caivore), sta operando negli slums di Nairobi, in conflitto con quelle già esistenti, ossia i Mungiki, i Talebani e i Kamjeschi. Queste bande raggruppano gruppi etnici diversi tra loro e si dividono determinate aree della baraccopoli di Nairobi.
Veramente a questo punto ci si può chiedere: «Dove va il Kenya?». 

Di Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi