TERRA INDIGENA, TERRA CONTESA

Roraima: continua la lotta per la terra

Dopo 30 anni di lotta gli indios di Roraima ottengono legalmente la loro terra. Ma i potenti locali non ci stanno. Così, a furia di ricorsi (e di pressioni), costringono la più alta Corte federale a  rivedere il decreto. Intanto continuano le violenze, nella totale impunità. E il parlamento brasiliano sta per approvare la legge sullo sfruttamento minerario delle aree indigene. Dove si celano giacimenti di minerali che sconvolgeranno i mercati mondiali. Primo fra tutti quello dell’uranio.

Aprile 2005, dopo tre decenni di lotta degli indios, il presidente Ignacio Lula da Silva, firma il decreto di «omologazione» dell’area indigena nell’estremo Nord dello stato di Roraima (e del paese).
Zona di savana, di circa 17.400 chilometri quadrati, vi abitano oltre 16.000 indios di cinque gruppi principali: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Patamona e Ingarikò. La società civile, come il Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e gli stessi missionari della Consolata, che vi lavorano dagli anni ’50, avevano spinto, alcuni anni prima, l’allora candidato presidente a fare dell’omologazione una delle sue promesse elettorali. Ma Lula, solo durante il secondo mandato riesce a fare un colpo di mano e ad apporre la fatidica firma. Forti gruppi di potere locali, ma anche nazionali, sono contrari a questa operazione. Romero Jucà, senatore di Roraima, è rappresentante del governo al senato. Ha dichiarato di essere contro la politica indigena di Lula.
Con l’omologazione scatta anche il decreto di espulsione di tutti quelli che abitano o sfruttano la terra in zona indigena. Lo stato ha previsto un indennizzo per chi è costretto ad andarsene. Così la polizia federale inizia a mandare via i contadini e fazendeiros non indigeni.
Questo non piace ai possieros, alcune famiglie (6 per l’esattezza) che «possiedono» o meglio sfruttano la terra dentro l’area indigena.
«Sono famiglie potenti che coltivano riso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. Alcuni in buona fede altri meno. Oriundi del sud del Brasile, discendenti di giapponesi, italiani. Si sono integrati nel potere e si sono fatti un capitale in questa terra di confine» racconta fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata originario di Varallo Sesia (Vc), dal 1965 a Roraima a fianco degli indios.
«Gli invasori si sono organizzati e hanno formato bande e fatto azioni anche terroristiche. Chi entrava nell’area era minacciato di sequestro». Nel 2004 furono sequestrati pure tre missionari, mentre nel settembre del 2005 fu incendiata la scuola di Surumù. «E questo nella totale impunità, nessuno è mai stato punito. È una legge a favore dei ricchi, hanno in mano gli avvocati migliori, addirittura quelli del governo dello stato sono messi a disposizione» racconta Zacquini.
L’ultimo attacco sanguinoso è del 5 maggio scorso. Un gruppo di indios della comunità Barro stava costruendo delle case in una zona espropriata. I posseiros li hanno fatti sloggiare attaccandoli con bombe molotov. Dieci sono stati i feriti. I responsabili sono stati in prigione pochi giorni e subito liberati.

Un balzo indietro

Ad aprile di quest’anno la svolta. Il Tribunale supremo federale del Brasile accoglie uno dei numerosi ricorsi contro la terra indigena Raposa Serra do Sol che, dal 2005, sono presentati dai potenti dello stato di Roraima (dei 30 ricorsi uno è depositato dal governo dello stato). L’omologazione così com’è oggi è definita «continua» ovvero delimita un territorio nella sua integrità, a eccezione del municipio di Uramutã, dalla caserma del sesto plotone e da alcune strade principali. I fazendeiros propongono una nuova demarcazione «discontinua» o a macchia di leopardo, in modo che molte aree restino sotto il loro controllo. Così l’alta corte brasiliana dovrà decidere sulla costituzionalità o meno dell’omologazione.
«Se il Tribunale supremo darà loro ragione si rischia di minare un diritto acquisito dagli indios e sancito dalla costituzione del 1988. Si creerebbe un pericoloso precedente, per cui tutte le altre aree indigene potrebbero essere rimesse in discussione». La posta in gioco, soprattutto in termini di diritti degli indigeni è dunque elevatissima, ricorda Zacquini.
Proprio per presentare questo dramma a inizio luglio una delegazione di indios di Roraima, composta da Jacir de Sousa (macuxi) del Cir e Pierlangela Nascimiento de Cunha (wapichana), ha visitato alcuni paesi europei, tra i quali l’Italia. Il 2 luglio sono stati ricevuti da Benedetto XVI, che ha dichiarato: «Faremo tutto il possibile per aiutarvi a proteggere le vostre terre». La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) si è già pronunciata apertamente a favore della questione indigena, e così tutti i livelli della chiesa cattolica del Brasile.

Il contesto: qualcosa cambia

«In questi ultimi anni, c’è qualcosa al di fuori dalla normalità, anche del particolare contesto di Roraima» racconta il missionario. «C’è una grande campagna per screditare tutte le attività delle persone e delle entità che lavorano per la causa indigena. In modo nuovo, più accanito, cattivo, con calunnie e divulgazione di false notizie». Anche Abin (Agenzia brasiliana di intelligence), il servizio informazioni del governo federale, divulga notizie false in ambienti calcolati affinché non possano essere contestate. Mi ha sconvolto perché ero convinto che Lula avesse cambiato qualcosa all’interno di questo organo. Portano avanti una guerra di informazione».
Oltre a questo, è stato difficile portare alla luce la realtà di corruzione presente nelle istituzioni che si occupano di sanità indigena. Dopo anni di denunce alcuni dei personaggi coinvolti in queste truffe sono stati arrestati, ma subito rilasciati e sono rientrati nello stesso organo.
Il numero dei progetti di legge tendenti a togliere alcuni privilegi degli indigeni sono aumentati anche con il governo Lula, denuncia fratel Carlo.
«Viviamo inoltre manifestazioni frequenti di autorità, anche militari, contrastanti con le affermazioni e misure pratiche del governo di Lula. Ultimo gravissimo fatto: i generali hanno dato appoggio pubblico a manifestazioni anti indios nella caserma di Boa Vista».
Alcuni militari, in pubblico, hanno detto: «in Brasile chi comanda è Lula, ma in Amazzonia siamo noi». Purtroppo in Raposa Serra do Sol sembra una cosa vera. Il governo federale potrebbe influire di più sulla politica locale di Roraima che è marcatamente anti indigenista.

Divisioni e propaganda

Molti indios, pagati o stipendiati dai posseiros, si schierano contro l’area indigena. La propaganda afferma che sono «la maggior parte degli indios di Roraima». Assolutamente falso, secondo i missionari.
Gli argomenti citati dagli invasori sono sempre gli stessi: pericolo per la frontiera (con il Venezuela e la Guyana, ma non ci sono mai stati problemi) e l’impossibilità di avere un reale sviluppo per lo stato senza sfruttare questa terra.
«Roraima ha una superficie quasi vasta come l’Italia, ma vi abitano 400.000 persone, non vedo come l’area indigena sia così necessaria allo sviluppo» commenta Zacquini.
Hanno creato associazioni miste, bianchi – indios, che danno appoggio agli invasori. Sono una minoranza ma hanno molto spazio sulla stampa.
Dall’altra parte la società civile indigena e chi la appoggia, in lotta per la terra e i diritti dei nativi di queste terre. Il Cir, l’Associazione dei professori indigeni di Roraima, Associazione dei popoli indigeni, l’Organizzazione delle donne indigene, Associazione terra di São Marcos. Solo per citae alcuni.

Oltre al riso, l’uranio

Un’altra questione molto importante sta scuotendo il mondo degli indios e di quelli che vi stanno attorno, di Roraima e tutto il bacino amazzonico: lo sfruttamento minerario dei territori indigeni.
La Costituzione non riconosce agli indios il sottosuolo, che è dello stato federale. Ma piuttosto la superficie della terra, sulla quale possono vivere e avolgere le loro attività tradizionali. Manca però una legge ordinaria che metta in applicazione la Costituzione.
Le aree indigene sono ricchissime di minerali anche molto pregiati: oro, diamanti, tantalio, niobio, terre rare, cassiterite e uranio (vedi anche box). Strategici per l’energia e per l’industria ad elevata tecnologia. «Ve  ne sono quantità enormi, che sconvolgerebbero i mercati mondiali» ricorda fratel Carlo. «Il Brasile possiede la quasi totalità delle riserve conosciute di niobio del mondo, la maggior parte localizzate nell’alto Rio Negro, in Amazzonia, in un’area trasformata in riserva naturale in seguito a pressioni degli ambientalisti inteazionali» scriveva, nel febbraio 1999, Alerta en rede, agenzia brasiliana on line. In quell’epoca infatti furono rese pubbliche le riserve minerarie (e parte dei giacimenti di uranio) dell’area di Pitinga, già sfruttate dagli inizi degli anni ’80.
È attualmente al vaglio della camera la «Legge per lo sfruttamento minerario delle terre indigene», che è già passata al senato, dove è stata promossa proprio da Romero Jucà.
La legge definisce un insieme di regole per poter accedere alle ricchezze del sottosuolo anche nelle aree protette. Con il «permesso» degli indios. In questo caso l’impresa sfruttatrice dovrà pagare delle royalitis. «La mancanza di una legge sugli indios,  implica che le imprese firmino con individi e non con i  rappresentanti dei popoli» ricorda padre Silvano Sabatini, «questo cavillo giuridico renderà molto più facile lo sfruttamento».  «È ovvio che c’è una lobby spaventosa per questa legge.   Vediamo già pressioni sugli indigeni per avere poi i permessi» ricorda Zacquini.
Ed è già iniziata la propaganda per convincere gli indios che grazie ai soldi delle concessioni potranno avere scuole, strutture sanitarie, ecc. «Tutte cose che il governo ha il dovere di fornire, al di là delle royalitis minerarie».

Biodiversità

Senza contare che la presenza di indios è anche garanzia di preservazione della foresta amazzonica e della sua biodiversità. Lo prova il fatto che in alcuni stati brasiliani, dall’analisi della copertura vegetale si scopre che questa è ancora presente solo dove ci sono terre indigene . Una delle conseguenze dell’invasione delle terre degli indios sono infatti i disboscamenti massicci.
L’omologazione delle aree (come nel caso di Raposa) fornisce una copertura legale perfetta, ma in pratica gli invasori ci sono sempre stati, fanno quello che vogliono e di solito restano totalmente impunti (come i numerosi cercatori d’oro in area yanomami).
«Il ruolo dei missionari non è parlare al posto degli indios, ma appoggiarli affinché abbiano condizioni reali di difesa, sappiano farsi rispettare, capiscano l’importanza di queste cose. Questo significa favorie l’accesso all’educazione e all’informazione necessaria per giudicare se è un vantaggio o no una certa legge. Ad esempio quella sull’estrazione mineraria. Dare loro gli strumenti necessari affinché possano fare valutazioni serie e non siano ingannati». 

Di Marco Bello

Il volontario

VERSO CATRIMANI

Siamo partiti da Ajaranì 1, caricando la barca, facendo l’ultima colazione in questa palafitta di legno che ci aveva ospitato per due giorni. Lasciamo quell’odore di pesce e di farinha che era la base dei nostri pasti, pronti per partire su questo fiume instabile sapendo che dopo 5 ore incontreremo la zona più difficile dove ci sono delle rapide. Uno yanomami siede sulla punta della barca per guardare se sotto il pelo dell’acqua incontriamo degli alberi caduti o delle pietre. Io viaggio in uno stato di stupore, senza fermarmi dal guardare questa natura selvaggia: uccelli di tutti i tipi che scappano al rumore del motore, qualche scimmia che si muove sugli alberi più alti.
Mi sembra di vivere dentro ad un documentario, pensando di essere sperduto in questo punto lontano da tutto quello che la nostra società è riuscita a «toccare». È emozionante vivere questo viaggio pensando di aprire un nuovo cammino per arrivare a Catrimani. L’ultima volta la strada è stata percorsa nel 2000, pian piano la foresta l’ha inghiottita e i numerosi ponti sono caduti. La missione è ora accessibile solo attraverso un piccolo aereo per 5 persone.

Per arrivare ad Ajaranì 2 percorriamo a piedi questi ultimi sette km che ci separano dalla maloca dove pensiamo di chiedere ospitalità. L’umidità, gli insetti si fanno sentire. Bisogna passare sopra o sotto gli alberi caduti, uscire dal tracciato perché le piante sono più fitte che nella foresta. Quando ci avviciniamo alla maloca i primi a circondarci e a darci il benvenuto sono i bambini, le donne immersi nella loro vita: che vita! Tutto si svolge dentro ed intorno a questa grande casa comunitaria: vicino alle amache c’è sempre il fuoco acceso, qualcuno prepara la farina, altri arrivano dagli orti portando banane o frutti che ancora non conosco.
Il bambino più piccolo è ancorato con una corda alla schiena della mamma. Più tardi giungono gli uomini dalla caccia, dalla pesca, con i loro archi, frecce e qualche preda nelle borse fatte di erba intrecciata.
Mi siedo su una panca a osservare, facendo un salto nel passato, dimenticando tutte le mie convinzioni. In quel momento ho gli occhi del bambino che guarda senza sapere niente.

Il mattino dopo padre Laurindo parte con la bici per percorrere da solo gli ultimi 40 km e andare a prendere il trattore. Jenesio è già partito con un gruppo di yanomami per pulire il tratto di strada che porta fino al fiume. Io mi ritrovo da solo. Si avvicina qualche bambino e senza fare grandi giochi rimaniamo lì, cercando di trovare un contatto con i gesti, sorrisi… Poi non sapendo cosa fare improvviso una piccola lezione di matematica che prende la dimensione di un gioco.
Il primo giorno non  riesco a mangiare niente guardando la pentola in cui abbiamo preparato il riso il giorno prima. Sul nostro cibo girano liberamente scarafaggi e altri insetti. Mi trovo già davanti al mio primo limite e guardandomi capisco che per me è difficile. Reagisco accettando di mangiare come loro. All’inizio chiudo un po’ gli occhi e la gola sembra non volersi aprire, poi inizio a sentirmi tranquillo e con la voglia di vivere pienamente quello che mi circonda…

Nove giorni dopo arriviamo insieme a Catrimani, base centrale, un’isola in questa foresta dove le costruzioni dei missionari che arrivarono qui 40 anni fa, sembrano un grand hotel. In realtà sono case di legno, ma ci sono stanze, bagno, doccia, una cucina, un po’ di pulizia, erba tagliata. Dopo questi giorni dove ogni metro di cammino nella foresta era da «conquistare», cucinare su dei pezzi di legno, lavarsi in una pozza di acqua.
Mi sono fatto molte domande osservando questo popolo: vita semplice, legata a quello che la natura gli offre. Ma una profondità nel loro vivere, dove il loro essere religioso è il loro stesso stile di vita. Percepisco questo enorme distacco culturale e di valori che ci separa e mi chiedo dove è il punto di unione, chi ha la verità…

DI Tommaso Lombardi*
*L’autore è  partito per Roraima per impegnare
 un periodo della sua vita al servizio degli indios.

Un progetto culturale

Come missionari della Consolata la nostra presenza a Roraima si caratterizza per l’attività tra gli indios. Quello che è stato fatto da decine di noi in passato,ha portato a questa situazione, diversa da quando sono arrivato, quando nessun indio si riconosceva tale. Adesso sono fieri di esserlo. Ancora oggi, però, quando i giovani vanno in città fanno tutto per occultare la loro origine indigena e non essere discriminati.
Nel passato abbiamo fatto molte attività tra i non indios, le nostre forze sono state messe al servizio delle città e degli invasori stessi, e questo ha permesso che si arrivasse a una situazione ancora di grande discriminazione e preconcetto che vorremmo debellare.
Il modo migliore che abbiamo trovato è mettere a disposizione di tutte le persone di buona volontà un ambiente a Boa Vista che dia accesso ai dati e documenti. Questo per sapere cosa vuol dire per uno stato come Roraima avere la fortuna di essere ancora abitato da molti popoli indigeni. Non solo in termini di folklore o turismo, ma anche in economici. Sono popolazioni che contribuiscono all’economia e all’immagine dello stato e potrebbero fare molto di più se le loro peculiarità fossero riconosciute, rispettate, messe in evidenza. Di questo Brasile di cui si sentono profondamente figli.

Si tratterà di un Centro culturale indigeno che permetterebbe di fare attività per far conoscere meglio le popolazioni e la loro cultura. Valorizzare la storia, le lingue, le tradizioni, la ricchezza di questi popoli.
Vogliamo contribuire a cambiare il modo di pensare dei bianchi, contrari ai diritti degli indios. Allo stesso tempo dare agli indios un centro di riflessione e studio per guardare al futuro con sguardo sul passato, con orgoglio, senza vergognarsi dei loro avi.
Non sarà un museo, gli indigeni non sono storia passata, ma di oggi e domani con le loro particolarità a beneficio di tutto lo stato. Ogni volta che muore uno di questi anziani stiamo perdendo un capitale enorme non solo culturale ma anche economico e sociale.
La nostra società mostra i limiti della cultura acquisita nell’ultimo secolo. Credo che faremmo bene a fare un’analisi, guardando a queste altre società, che sono ancora di oggi e hanno cose che possono farci riflettere e farci cambiare per proseguire verso un futuro più umano.

Di Carlo Zacquini


Marco Bello




MASSACRO ( complotti, interessi, bugie)

40 anni dall’uccisione di padre Giovanni Calleri

«Questa è la storia di un martirio. Di un uomo che voleva portare la pace, ma ha trovato la morte».
Padre Silvano Sabatini questa storia la conosce bene, sia per averla in parte vissuta, sia per aver condotto un’approfondita inchiesta alla ricerca di giustizia. Ma molti sono ancora i misteri che circondano questo massacro.
Continua Sabatini:  «Non si può capire la realtà di Roraima di oggi se non si conosce questa storia».
Il primo novembre prossimo ricorre un triste anniversario: il massacro di padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata e di 8 suoi compagni della missione di pacificazione in terra Waimiri-Atroari.
Nel 1968 il governo brasiliano stava costruendo la strada BR174, per collegare Manaus con Boa Vista e, più a Nord, con il Venezuela. Si stava tagliando una fetta di foresta amazzonica che attraversava da Sud a Nord lo stato di Roraima. Ma i lavori erano stati perturbati dai frequenti attacchi degli indios Waimiri-Atroari, che si opponevano alla strada, in quanto questa passava sul loro territorio.
Nel 1967 il rapporto Figueredo aveva reso pubblici massacri e vessazioni ai danni delle popolazioni indigene dell’Amazzonia ad opera di militari e poteri locali brasiliani interessati a invadere le loro terre ricche di legnami e minerali di ogni tipo. L’inchiesta fu bloccata ma in parte trapelò, causando uno scandalo internazionale.
Il governo dovette fare un’operazione di facciata, creando la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) in sostituzione dell’Spi (Servizio di protezione dell’indio). La Funai era costituita da personaggi più o meno credibili. Di fatto, però tutto continuava come prima.

Missione di pace

Fu proprio la Funai che chiese a padre Giovanni Calleri di guidare una missione per pacificare gli indios Waimiri-Atroari, che in caso contrario, sarebbero stati massacrati, per far spazio alla BR174 (cosa che poi avvenne). Calleri, nato a Carrù nel 1934 era arrivato in Brasile a fine ’64 e aveva subito mostrato una grande capacità di relazione con gli indios diventandone buon conoscitore. Lavorando a Catrimani, aveva inventato un sistema iconografico per avere la collaborazione degli yanomami: il «Mamo», ancora utilizzato fìno al 1980, ed era riuscito a pacificare malocas (gruppi o comunità) avversari.
Il progetto di Calleri, appoggiato dall’Istituto nella persona di padre Domenico Fiorina, superiore generale, era chiaro. Convincere gli indios a spostarsi in una zona a 200 km dal sito scelto per la strada, e qui creare un «parco protetto» per preservare il loro gruppo e la cultura. Per far questo, la missione di padre Calleri avrebbe convinto altri indios come intermediari, andando nella zona del rio Alalaù. Questi, trasferitisi nella zona del parco, avrebbero attirato anche il gruppo del rio Abonarì (quelli più vicini al tracciato della strada), che avrebbero così abbandonato le ostilità.
Ma i missionari non sapevano qualcosa di molto importante, che avrebbe influito su questa storia. Nel febbraio del 1968, in quell’area si era recata una missione di prospezione mineraria, guidata dal colonnello William Thomson, con l’appoggio della missione protestante Meva, basata a Kanaxen, in Guyana. La Meva era rappresentata dal suo pastore statunitense Claude Leawitt. Questi, rimase poi quattro mesi nell’area.
Si seppe più tardi che quella zona celava importanti giacimenti di minerali, più o meno preziosi: niobio, tantalite, zirconio, terre rare, cassiterite e uranio. In quella zona alcuni anni dopo si impiantò la compagnia mineraria brasiliana Paranapanema per estrarre (ufficialmente) cassiterite. L’area è ancora oggi super protetta ed è impossibile penetrarvi.

Cambio di programma

Il progetto di Calleri era geniale, ma si scontrava con gli interessi di alcuni potenti locali e stranieri.
Giunto a Manaus il 25 settembre, cinque giorni dopo il padre viene costretto a un cambio di programma: la missione si recherà direttamente presso gli indios del rio Abonarì, per convincerli a cessare le ostilità. «Per accettare una modifica così drastica e rischiosa il padre fu minacciato» racconta Sabatini, che ebbe un lungo colloquio con il missionario subito dopo. Il colonnello Carijò, capo della Der-am (Dipartimento delle strade dell’Amazzonia) promette a Calleri l’appoggio di un elicottero e viveri e materiale.  La Funai dell’Amazzonia è la mandante della spedizione.
Gli altri componenti della missione, sette uomini e due donne, gli furono imposti. Tra loro Alvaro Paulo da Silva, personaggio ambiguo, pagato dalla Der-am.
La spedizione parte da Manaus in aereo il 14 ottobre e raggiunge la base al km 220 del rio Abonarì. Da qui dovrà spostarsi nell’interno. Ci sono i primi conflitti tra il padre e Alvaro Paulo. Questi vuole che la missione si sposti via terra, il padre invece sceglie il fiume.
«In quel momento nella stessa area è nascosto un gruppo di bianchi, brasiliani, organizzati da Alvaro Paulo» riportano le testimonianze raccolte da Sabatini presso gli stessi indios «e vi arriva anche Claude Leawitt, accompagnato da quattro indios Wai-Wai». Anche loro sono lì per far fallire la missione.

Il progetto dei bianchi

«Il disegno era di fare massacrare la spedizione dagli indios. I bianchi avrebbero dovuto verificare che tutto ciò avvenisse».
Ma non andò così. Il genio di Calleri fece in modo da farsi accogliere dai Waimiri-Atroari della maloca del capo Maroaga come visitatore e non aggressore. Alvaro Paulo (allontanato dal gruppo da Calleri che aveva constatato il tradimento) e Claude Leawitt dovettero minacciare «pesantemente» gli indios per farsi accompagnare all’accampamento della spedizione, nel cuore della notte. «Ma furono loro, i bianchi, a compiere il massacro, con armi da fuoco. Poi obbligarono gli indios a trafiggere i corpi di frecce» ricorda padre Sabatini. Era il primo novembre del 1968. Di quel gruppo furono recuperate solo le ossa, 30 giorni più tardi, dai paracadutisti del Parasar, corpo speciale brasiliano.
Tutti i giornali parlarono del massacro di una missione di pace, perpetrato dai bellicosi indios Waimiri-Atroari, che non volevano la BR174 sulla loro terra. Questa è la versione ufficiale, ancora oggi dopo 40 anni. Qualcuno voleva liberarsi di questo popolo, e per far questo occorreva dimostrare che erano feroci indios impossibili da pacificare. Da qui il disegno di una spedizione votata al massacro.
 «Calleri non voleva convertire gli indios nell’immediato. Voleva salvarli. Fu martire della carità, della difesa dell’uomo e dei suoi diritti, della sua identità e cultura» continua padre Sabatini. I Waimiri-Atroari da 3.000 che erano nel 1968 furono sterminati e ridotti a circa 300. Oggi sono un migliaio.

La missione di pacificazione si scontrò con qualcosa di molto grosso e ignoto ai missionari. Tutta la zona tra Roraima, stato di Amazzonia e Sud della Guyana è un’importante regione mineraria. Già nel 1944 gli statunitensi vi avevano fatto missioni di esplorazione mineraria. Potenti locali, politici e militari, avevano questa informazione. La stessa Missione evangelica Meva, basata a Kanaxen, ma presente anche a Roraima, non è estranea a interessi inteazionali in quest’area. Ma non basta. Nel 1999 il governo brasiliano, attraverso l’Industria nucleare brasiliana, pubblica un dato: nella zona del bacino del rio Uatuma (ribattezzato rio Pitinga) sono presenti (almeno) 75.000 tonnellate di uranio, di quello buono. La quantità sarebbe addirittura di 200.000 tonnellate, secondo le più recenti pubblicazioni. Il che porta il Brasile al quarto posto al mondo come riserve del prezioso minerale.

 Di Marco Bello

Marco Bello




Perù. La bianca che voleva farsi Ashaninka

Lima: incontro con una donna speciale

Italiana per nascita, tedesca per matrimonio, peruviana per adozione. Etnologa con alle spalle molti anni vissuti tra le popolazioni indigene del Perú. Un’avventura affascinante, vissuta con una passione e un entusiasmo incredibili. Lei si chiama Maria Heise Mondino. Siamo andati a trovarla nella sua casa di Lima.

Lima, quartiere di Monterrico. Maria abita in una bella casa con il figlio, la moglie di lui e la nipotina. «Datemi del “tu” , così mi sento meno vecchia». Maria è nata a Parma nel 1928, ma la sua freschezza mentale farebbe invidia ad un giovane.

Maria, vediamo se abbiamo capito bene: tu sei italiana di nascita, tedesca per matrimonio e peruviana per adozione… È così?
«È proprio così. Conobbi mio marito ad Innsbruck, in casa di un’amica. Mio padre non era tanto contento di avere un fidanzato tedesco per sua figlia dato che era stato prigioniero dei tedeschi. Alla fine cedette, noi ci sposammo e andammo a Berlino dove mio marito era assistente all’Università. Rimasi in Germania dal 1956 al 1978.
Laureata in lingue straniere alla Bocconi di Milano, io volevo insegnare, ma in Germania la mia laurea non era accettata. Dopo un periodo di depressione, decisi che dovevo ricominciare a studiare, anche se avevo già 41 anni.
Scelsi etnologia (1) con specializzazione su Centro e Sud America».

Come venne l’idea di venire in Perú?
«All’epoca davano delle piccole borse di studio per chi stava facendo ricerche particolari. Io presentai un mio progetto: volevo andare a vedere come funzionava l’educazione nella sierra peruviana per i bambini che parlavano quechua. Io sapevo che l’educazione era impartita soltanto in spagnolo. Lo accettarono e il 9 febbraio dell’anno 1973 partii con destinazione Huanta, una delle province di Ayacucho».

Come fu l’impatto con la gente che parlava quechua?
«Forte. Io avevo studiato la lingua a Berlino, ma mi mancava la pratica. Però provai subito una grande simpatia per loro. Era un villaggio di contadini molto poveri che lavoravano quasi come schiavi nelle aziende del luogo.
  Quella mia prima esperienza fu tanto interessante che ci tornai per alcuni mesi anche l’anno seguente.  E poi ancora nel 1977. Infine, la cooperazione tedesca mi offrì di seguire un progetto sull’educazione bilingue a Puno».

Si dice che a Puno faccia sempre freddo…
«Tanto che gli abitanti stessi giocano sulla parola estación, che significa stagione ma anche stazione dei treni. A Puno – dicono – ci sono 2 estaciones, quella invernale e quella del treno.
Verso mezzogiorno la temperatura sale anche a 22-23 gradi, ma la notte scende terribilmente. Puno è a quasi 4.000 metri d’altezza. L’unica cosa bella è il Lago Titicaca. In compenso, la regione ha una grandiosità e paesaggi incredibili.
Io andavo in lungo e in largo con un Wolkswagen per cercare le scuole che potessero entrare nel progetto».

Le lingue quechua e aymara

Dove si parlano il quechua e l’aymara?
«L’aymara si parla da Puno verso la parte boliviana, mentre il quechua si parla da Puno verso Arequipa».

Ma che tipo di lingue sono?
«Le due lingue hanno un’origine comune. Sono lingue agglutinanti, che hanno la particolarità di essere formate da tanti pezzettini che si uniscono tra di loro.
Si aggiungono questi suffissi che danno il significato alle parole. Suffissi locativi, di direzione, di movimento, eccetera.
Come tutte le lingue amerindie, anche il quechua e l’aymara sono molto differenti dalle lingue indoeuropee. E sono molto differenti anche tra loro. Per esempio, molto diversa è la lingua che si parla nella selva tra gli ashaninka, con cui io lavorai dopo l’esperienza di Puno».

Dalla sierra alla selva. È un bel passaggio…
«Passai in effetti da 4.000 metri sul livello del mare alla foresta, dove  l’ambiente vegetale ed animale era completamente diverso. Per me la selva è di una bellezza straordinaria.
All’epoca poi era incontaminata o quasi. Si arrivava al Rio Tambo con un piccolo aereo Cesna».

Per seguire un progetto di educazione bilingue con chi…
«Con gli ashaninka, popolazione che parla una lingua completamente diversa dal quechua e dall’aymara. Gli ashaninka sono il gruppo più numeroso della selva: si calcola che siano 50.000. Assieme agli aguaruna, sono un gruppo particolarmente combattivo. Difesero il loro territorio fino all’inizio del Novecento, quando entrò l’esercito e con esso commercianti e faccendieri».

Gli ashaninka e Sendero Luminoso

Gli ashaninka divennero famosi durante gli anni di Sendero Luminoso. Tu cosa ricordi di quel periodo?
«Arrivarono in un caldissimo pomeriggio. Il villaggio era semideserto perché la gente era uscita al mattino presto con le 2 canoe. Dalla mia capanna intravidi la canna di un fucile. Andai fuori e trovai almeno 7 persone che mi puntavano addosso i fucili. “Noi siamo dell’esercito di liberazione Sendero Luminoso”, dissero. “Venga con noi che dobbiamo interrogarla”.
Va bene, dissi. Poi, aggiunsi: “Mi mancano le mie sigarette. Sono sul mio tavolo. Se non ci credete, venite con me”.  “Vada, vada, signora”, risposero.
Fui di una sfacciataggine immensa. E ancora oggi mi chiedo “ma come ho fatto?”. Presi dunque le sigarette e poi li seguii fino alla Posta medica. Era tutta pitturata di rosso e avevano issato due bandiere rosse. Due capi, a volto scoperto, cominciarono a farmi domande.
Faceva un caldo terribile, ma uno dei due indossava uno di quei copricapo di lana che coprono anche le orecchie. Mi faceva una pena, ma decisi che era meglio non dire nulla.
Assieme a me, avevano catturato anche un collega, che sembrava piuttosto spaventato, e soltanto due ashaninka, dato che tutti gli altri erano riusciti a dileguarsi nella foresta.
A questi due, che quasi non parlavano spagnolo, chiesero: “Ma come vi tratta questa signora?”. Io pensai che si metteva male per me, ma loro risposero: “Bene, bene”.
C’era un gruppo di uomini di Sendero, molto giovani (avranno avuto 17 anni), che parlavano quechua. Detto per inciso, l’odio degli ashaninka verso quelli della sierra è rimasto anche perché loro li associano a quelli di Sendero.
Il capo politico, quello che faceva i discorsi, disse: “Noi non rubiamo niente. Accettiamo soltanto delle donazioni”. Mentre parlava, vidi uno dei ragazzi che se ne stava andando con la mia valigetta. “Guardi, guardi”, dissi al capo, che subito intervenne facendosi portare la valigetta. Me la fece aprire. C’erano una macchina fotografica e un impermeabile, cioè due strumenti di lavoro. Ed una stecca di sigarette. Io di nuovo sfacciata dissi: “Facciamo metà per uno”. Il capo accettò. Aprì subito un pacchetto, mi offrì una sigaretta e me l’accese con un fiammifero.
Alla fine, ci dissero che se ne andavano e che dovevamo non uscire di casa per mezzora».

«Quella gringa è stata fortunata»

«La sera raccontammo l’avventura agli ashaninka tornati al villaggio. Decidemmo che era opportuno andarsene a Lima per almeno 15 giorni. Perché da una parte potevamo essere accusati dall’esercito di essere collaboratori di Sendero, dall’altra i guerriglieri avrebbero potuto tornare.
Fummo fortunati. Il giorno dopo arrivò un’altra colonna di Sendero, ma questa era molto più dura della precedente. “Dove sta la gringa?”, domandarono subito. “È andata a Lima”, risposero gli indios. “È stata fortunata, perché l’avremmo ammazzata e con lei tutti gli altri”.
Questa vicenda con Sendero segnò però la fine del progetto. Avevo il cuore a pezzi dal dispiacere.
Tutta la zona del Rio Tambo da allora fu sotto il controllo di Sendero per alcuni anni. Gli ashaninka furono costretti a lavorare per i guerriglieri.
In condizioni simili alla schiavitù, dato che la quasi totalità di loro era contro i senderisti, anche a causa del loro spirito libero e indipendente che contraddistingue i popoli della selva e gli ashaninka in particolare. Era come mettere un uccello in gabbia. Sopportarono per alcuni anni.
Un giorno arrivò nel mio ufficio di Lima, Emilio Rios, capo degli ashaninka del Rio Tambo. “Sono venuto per dirti che da ora siamo in lotta armata contro Sendero”.  “È un suicidio”, gli dissi subito. Voi non avete armi. “Abbiamo i fucili con cui andiamo a caccia. Abbiamo i nostri archi e le nostre frecce. Ma non possiamo più sopportare. Per convincerci ad obbedire ai loro ordini, sono arrivati ad uccidere con il machete le nostre donne incinte. Fanno togliere il feto ed obbligano i familiari a mangiarlo.
Fecero anche questo per rompere la loro resistenza.
Cominciò allora una lotta terribile, veramente terribile, senza esclusione di colpi (anche fino al taglio delle teste), tra Sendero e gli ashaninka del Rio Tambo. Però alla fine gli ashaninka riuscirono a respingere Sendero. Fu la sola popolazione indigena, che con le sue sole forze riuscì a vincere, a obbligare Sendero ad andarsene. Fu una pagina eroica di  resistenza, mai adeguatamente ricordata».

Razzismo alla peruviana: «Bianco è meglio»

 Nella tua trentennale esperienza peruviana non hai visto il paese diventare meno razzista?
«No, il Perú continua ad essere razzista. Una cosa che m’indigna riguarda il colore della pelle: più chiaro sei, più vali…».

È ancora molto diffusa questa idea?
«La cosa che più mi scandalizza è che l’idea è diffusa anche fra le classi più modeste. C’è una signora che viene qui tutti i giorni. È un po’ robusta, sui 45 anni.  Un giorno, visto che era nato il suo nipotino, le ho chiesto: “Signora Carmen, com’è il suo nipotino?”. “È molto carino – mi ha risposto -. Assomiglia tutto a me. È bianco come me!”. Non avevo mai osservato il colore della sua pelle e ti posso assicurare che non è tanto bianca. Ma lei ne è orgogliosa… Ha un colore normale, ma lei si vede chiara. Probabilmente questo suo pensare di essere l’aiuta a superare un complesso di inferiorità».

In questi anni i popoli indigeni sono stati protagonisti in America Latina. Come in Bolivia, in Ecuador, in Cile. È stato lo stesso in Perú?
«Non vedo che ci sia questo fenomeno in eguale misura anche qui in Perú, il movimento indigeno è ancora troppo debole».

E diviso?
«Sì. Forse diviso, perché Lima è sulla costa. A Lima c’è tanta popolazione indigena, ma non si fa sentire come dovrebbe».

Eppure in questo paese un indio è stato eletto presidente della Repubblica. Ci riferiamo ad Alejandro Toledo (2001-2006)…
«Per me Toledo è stato una grande delusione. Da quando io sono in questo paese, il migliore è stato Velasco».

Maria, sui libri e su internet si legge che Velasco (1968-1975) più che un presidente fu un dittatore… Ai nostri giorni, lo stesso trattamento viene riservato al presidente venezuelano Hugo Chávez…
«Velasco era molto ingenuo, mal consigliato, male accompagnato. È stato quello che ha fatto la riforma agraria e la riforma educativa, fondamentali… Ma la sinistra invece di appoggiarlo fece di tutto per boicottare le sue riforme e farlo cadere. Imperdonabile.
Ricordo che io arrivai in piena riforma agraria che prevedeva la distribuzione delle terre ai contadini.
Per farti capire come fossero la maggioranza dei latifondisti, ti racconto cosa accadde ad una festa.
C’era una ragazza che teneva un bambino con quei fazzoletti tipici della sierra. Mi disse che nella casa non c’era posto e che avrebbe dormito fuori. Eravamo a duemila metri, e di notte faceva freddo…
Mi venne in mente che avevo ancora il mio sacco a pelo e volevo darglielo. Ma la padrona saltò su come una furia. “Tu creeresti un precedente deleterio… Se tu fai questo, io ho conoscenze molto in alto e ti faccio buttare fuori dal Perú. Ti faccio negare il permesso di soggiorno”.
La ragazza ha dormito fuori coprendosi solo con una coperta…  Io mi sono detta: che mostri che sono queste proprietari terrieri. I loro lavoratori li consideravano poco più che animali».

Insomma, la riforma agraria di Velasco era una cosa necessaria. E quella educativa?
«Un’altra cosa che m’indignò fu l’affossamento della riforma educativa, che era stata elaborata dai migliori pensatori ed educatori del Perú.
Un giorno mi invitarono ad una riunione di maestri. Si cominciò a leggere:  primo articolo bocciato, secondo bocciato, eccetera. Non si discuteva nulla perché arrivava tutto dalla riforma di Velasco. Poi si arrivò ad un articolo che diceva: si fa obbligo a tutti i maestri del Perú di conoscere una lingua veacola. Allora chiesi la parola.
“Guardate – dissi loro – che questo articolo sarebbe a favore dei vostri fratelli campesinos, contadini che soffrono tanto perché i maestri non sanno la loro lingua. Quindi, questo articolo non lo potete bocciare”.
Invece, tutti in coro gridarono: “No, no. Dal governo di Velasco non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Mi venne voglia di dire una brutta parola… Invece, salutai e me ne andai».

Rimanendo sui presidenti di questo paese, nel 2006 i peruviani hanno rieletto Alan García, anche se la sua prima presidenza era stata disastrosa…
«Altro che  disastrosa era stata… C’era un’inflazione a tre cifre… mensili. Sicuramente la cattiva gestione dell’economia da parte di Alan García portò alla vittoria di Fujimori, che era sconosciuto all’epoca…
Pensa che Fujimori abitava nella casa di fronte…  E già a quel tempo era separato da sua moglie, Susanna, un’architetta. Lui veniva qui a vedere i suoi figli ogni 15 giorni.
Un giorno, appena rientrata dall’ Europa, vidi che c’era un cartello fuori della loro casa: in vendita. Allora chiesi in giro e mi dissero che erano andati via perché lui si era messo in politica. Pensavo potesse mirare ad essere rettore universitario, deputato, senatore e invece un bel giorno me lo ritrovai presidente».

Ma Fujimori che tipo di persona era?
«Ricordo che un giorno, forse in campagna elettorale, voleva andare per il Rio Ene. Lui arrivò con una grande carta e disse:  “Voglio andare lì con amici evangelici” (si era messo con le sette evangeliche). Gli dicemmo che era molto pericoloso andare perché era area di Sendero, ma lui insistette e andò con l’elicottero. Lo incrociai tempo dopo e gli chiesi com’era andata. Lui disse: bene. Ancora oggi non so perché fosse andato là e per cosa. Forse aveva dei traffici anche con Sendero…
Comunque, Fujimori era una persona poco appariscente».

E di Alan García che puoi dirci?
«Non l’ho conosciuto di persona, ma non mi è mai piaciuto.
Penso che ad un certo punto ci sia stato un grande imbroglio. Alan García doveva essere processato, ma lui scappò in Francia. Poi, negli ultimi giorni del governo Fujimori, lo graziarono.
Alan García è tornato e ce lo siamo ritrovati prima libero, poi addirittura presidente. Che vergogna. Proprio un bel regalo del signor Fujimori. E adesso io mi domando se Alan García, per ricambiare quel regalo, non farà tornare Fujimori in libertà».

Appunto… Se Alberto Fujimori tornasse libero e potesse ripresentarsi alle elezioni, quanti lo rivoterebbero?
«Purtroppo molta gente, io penso. Ci sono tanti fujimoristi anche fra le classi medio-alte… Andava molto bene, perché ha fatto le strade, faceva regali a tutti, magliette con il suo nome, aveva ristabilito l’ordine… Era un grande populista!».

Anche nella selva le donne…

Tu hai raccontato delle tue esperienze tra gli indigeni. Che ci dici della condizione delle donne indigene, oggi?
«Che anche nelle comunità indigene le donne sono quelle che lavorano più di tutti e che anche gli uomini della selva sono dei macisti.  Gli abbandoni della famiglia da parte dell’uomo sono frequenti e la donna è quella che paga e lavora. Poi la vita vuole che arrivi un altro uomo, lei si illude che possa andare diversamente e nascono altri figli. Poi anche questo se ne va e lei continua a mandare avanti da sola la famiglia…
Mia figlia ha lavorato qui nella salute pubblica, come ostetrica e nei programmi infantili. Quando tornava a casa, raccontava delle cose pazzesche.
Mi raccontò ad esempio di un uomo, compagno di una donna che aveva una figlia 14enne, di cui lui abusava. La bambina rimase in stato interessante. Ma il brutto della storia è che la mamma non buttò fuori casa l’uomo, ma la figlia.
Quando tornava dal lavoro, mia figlia aveva una rabbia… In particolare verso gli uomini…».

«Valiamo per quello che facciamo»

Maria, per concludere, sono 30 anni che ti sei stabilita in Perú. E molti di essi li hai trascorsi a sostenere le istanze indigene. Cosa vorresti dire per chiudere questa lunga intervista?
«Che credo nella popolazione indigena, nei suoi diritti. Credo nell’idea dell’interculturalità della quale tutti parlano ma nessuno sa cosa vuol dire. Nell’idea che tutti valiamo uguali, valiamo per quello che facciamo, non per il colore della nostra pelle. Che se una persona ha una cultura differente dobbiamo cercare di capirla e non pensae male perché è diversa dalla mia. Questo è un errore fondamentale che la gente fa. Ci sono tanti preconcetti, tanto razzismo…». 
Grazie , Maria.  

di Paolo Moiola

L’infinita lotta per la terra

Un sogno che non si avvera

È una pubblicità che rimane nella testa quella della Ong Mani Tese: c’è la suola di uno scarpone da lavoro su cui è rimasta attaccata della terra e sopra una frase tanto significativa quanto lapidaria: «Terra di proprietà. In America Latina milioni di contadini possiedono solo la terra che rimane sotto le loro scarpe».
Passano gli anni, ma il problema della proprietà e della concentrazione delle terre rimane quasi ovunque insoluto. Neppure il presidente brasiliano Lula è riuscito nell’intento di varare una seria riforma agraria che portasse ad una distribuzione delle terre. Anzi, ha fatto arrabbiare sia lo storico movimento dei semterra che gli indios dell’Amazzonia (vedi articolo a pagina 45). Identiche situazioni si riscontrano in Argentina, Ecuador, Colombia e su verso nord fino al Guatemala.
In Perú, in vista della prossima entrata in vigore  (1 gennaio 2009) del discusso «Trattato di libero commercio» (Tlc), il 20 maggio 2008 il governo del presidente Alan García ha approvato il decreto legislativo 1.015 con cui si riduce – dal 66,6% al 50% dei voti dei membri della comunità campesina o indigena – il consenso necessario per vendere o dare in concessione le terre comunitarie. Addirittura, la percentuale del 50% non dovrà più essere calcolata sui membri effettivi delle comunità, ma soltanto sui partecipanti all’assemblea, con il rischio quindi che decisioni di vitale importanza vengano prese da una minoranza.
Il decreto 1.015 è dunque un tentativo esplicito di aprire la strada alle imprese e alle multinazionali, in violazione dei diritti delle comunità campesine ed indigene della sierra e della selva.
D’altra parte, la filosofia ultra-liberista del presidente Alan García era stata già manifestata. In un articolo pubblicato su El Comercio (1), il principale quotidiano del paese,  García accusava chi non consente lo sfruttamento delle risorse del Perú. In primis, dell’Amazzonia. Nonostante l’età e l’esperienza, certi presidenti non migliorano mai. Alan García è certamente uno di questi: fu disastroso durante la sua prima esperienza di governo, oggi prosegue su quella stessa strada.

di Paolo Moiola

Note:
(1)  El síndrome del perro del hortelano, pubblicato su El Comercio del 28 ottobre 2007.

Popoli indigeni ed identità linguistica

¿Runasimita rimanquichu?  

Si chiamano Hilaria Supa Huaman e Maria Cleofé Sumire de Conde sono due donne elette al Congresso peruviano per il partito nazionalista di Ollanta Humala (1). Entrambe provengono dal dipartimento del Cusco e soprattutto sono quechua. Nell’agosto del 2006, le due congressiste sono salite agli onori della cronaca nazionale a causa delle polemiche suscitate dalla loro scelta di giurare in lingua quechua anziché in spagnolo. 
Il quechua (runasimi, nella terminologia nativa), lingua nativa americana, è parlata da circa 10 milioni di persone in vari stati sudamericani: Perú, Bolivia, Ecuador, Colombia (meridionale), Argentina (nord-occidentale), Cile (settentrionale). Fu lingua ufficiale durante l’impero Inca. Per importanza, il quechua precede altre due lingue native, l’aymara e il guaraní.
In Perú, il quechua è idioma ufficiale accanto all’aymara e allo spagnolo. È parlato da circa 3 milioni di peruviani (su 28 totali). Tuttavia, gode di scarsa considerazione e rispetto, come dimostra la vicenda delle due congressiste, forse perché è parlato soprattutto da gente di bassa condizione sociale (indigeni, contadini, donne).
¿Runasimita rimanquichu? ¿Hablas quechua? (2) Parli quechua?

di Paolo Moiola

Note:
(1)  Su Ollanta Humala si legga: Paolo Moiola, Ollanta e Nadine, MC marzo 2008.
(2)  Abbiamo preso a prestito il titolo da un interessante articolo di Hildegard Willer, pubblicato su Noticias Aliadas / Latinamerica Press, 25 aprile 2007.

Paolo Moiola




Avanti, c’è posto … (ma non per tutti)

Un paese in cammino verso la modeità

Toando in India a distanza di 10 anni non si può non notare i profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto nelle grandi città. Industrializzazione e turismo creano sviluppo e ricchezza, ma non per tutti, specialmente nelle campagne, dove sembra che il tempo si sia fermato.

S orridente e impeccabile nella sua camicia bianca, il giovane Raj Koli ci accoglie all’arrivo in aeroporto e ci accompagna in auto attraverso una Mumbai che trovo molto cambiata dalla mia ultima visita: molti edifici modei, case restaurate, arterie sopraelevate e un notevole traffico di auto private.
È notte, ma per qualcuno il lavoro continua. Ragazze in motorino, avvolte in scialli, stanno ritornando a casa dal lavoro nei call centers. «Nessun problema, questa è una città tranquilla, sicura per le donne» assicura Raj. Allineati sui marciapiedi vedo figure dormienti avvolte in teli, prova che il benessere raggiunto dall’India non ha toccato tutti.
Costeggiando Mahim Bay noto che sono scomparse le capanne dei koli, gli antichi abitanti di Bombay. Chiedo a Raj se vi sia relazione con il suo cognome. «Certamente, mio padre e tutti i miei antenati erano pescatori e vivevano sul mare, sull’isola di Colaba – spiega Raj -. Da bambino ho imparato a pescare; poi sono andato a scuola e ho potuto frequentare il college». Qualche anno fa il governo ha ripulito le spiagge, fatto togliere le capanne e trasferito tutte le famiglie koli in abitazioni modee.
«Ho quasi 25 anni e i miei mi a-vrebbero trovato moglie, come da tradizione; ma voglio aspettare almeno i trenta e farmi prima una posizione» continua iI ragazzo, che mostra di avere idee chiare.
Ricordo la visita che feci 10 anni fa a Sassoon Docks, il porto peschereccio sull’estrema punta dell’isola di Colaba. All’alba le pescivendole, sedute su grandi cesti di giunco, aspettavano l’arrivo dei battelli, mentre le donne koli camminavano fiere sui moli, nei costumi tribali ricchi di colore e specchietti. Avevano il diritto di vivere sul mare che circonda Mumbai, ora abitano come Raj case dotate di acqua ed elettricità, ma raggiungibili in due ore di treno.
Il giorno dopo mi rendo conto che l’atmosfera è cambiata nella vecchia Bombay: una fiera d’arte contemporanea è aperta accanto al museo archeologico. Qui si possono vedere ragazze con il cellulare, che vestono in jeans e frequentano locali alla moda, tra i quali un paio di gelaterie italiane.
Amy, Rashna e Aban sono tre dame che incontro sulla soglia di casa, un condominio sul lungomare che conduce alla Gate of India. Le saluto, mi fermo a chiacchierare, poi chiedo: «Siete parsi?». Stupite, annuiscono e scoppiano a ridere quando rispondo alla loro curiosità, spiegando che la pelle chiara e il profilo del naso non potevano che essere parsi.
«Siamo 65 mila a Bombay, ma in questi giorni siamo molti di più: è stagione di matrimoni e riceviamo le visite della diaspora. Dall’America, dall’Australia, da ogni dove arrivano e si fermano presso amici e parenti». Nel quartiere vi sono alcuni dei 9 grandi complessi di appartamenti parsi esistenti a Mumbai, chiusi e controllati da una guardia. Vedove, anziani e famiglie vi abitano e si sentono protetti.
Questa metropoli cosmopolita mi affascina anche per la sua ricchezza culturale e la possibilità di venire a contatto con gente di diversa estrazione e cultura.

HYDERABAD
Partiamo dal moderno terminal nazionale con un aereo della Jettlite, una delle nuove compagnie indiane, diretti a sud, nel cuore del subcontinente. Sorvoliamo un territorio aspro e scuro, segnato da fratture drammatiche, dighe e laghi artificiali, oggi oggetto di polemiche e ripensamenti, a causa delle conseguenze negative sull’ambiente e sulle popolazioni.
Hyderabad è estesissima; su una superficie di 170 kmq gli abitanti sono saliti in pochi anni a 5 milioni. Nel centro congestionato dal traffico è difficile camminare: non vi sono marciapiedi e il nuovo tecnologico convive con la vecchia India di accattoni, mucche, carretti e moto.
La città si è ampliata a ovest, nei nuovi quartieri di Cyber City, dove sono sorti alti edifici avveniristici, tuttora circondati da cantieri e lembi di campagna in cui pascolano le pecore. Sui quotidiani si vedono pubblicità che ricordano l’America: qui come a Mumbai si offrono case di lusso con aria condizionata e campi da golf, nonostante l’allarme sul futuro incerto per quanto riguarda l’energia e l’acqua.

GULBARGA

L’autista che ci guida in questo viaggio verso lo stato del Kaataka si chiama Shankar, è indù e sovente si ferma per donare offerte ai templi. Robusto, dalla pelle scura e dall’in-glese incerto, mi parla con orgoglio della sua famiglia. La moglie è un’in-segnante che ha lasciato il lavoro per curare i due figli. «Voglio che i ragazzi abbiano una buona educazione e li ho iscritti in una scuola privata». Poi li chiama al cellulare e me li passa, per farmi sentire l’ottima pronuncia della lingua inglese.
A Gulbarga, una delle città del nostro itinerario, ricche di preziose architetture islamiche, non vi sono solo moschee, santuari e fortezze, ma anche ottime facoltà universitarie.
Ceniamo nella family room dell’albergo, riservata alle donne e alle famiglie. Un gruppo di studentesse di farmacia mi circonda con curiosità. Anitra e Prathisha vengono dal Kera-la e vivono in ostello con le compagne Sindhu e Prachi provenienti da Hyderabad. Tutte hanno intenzione di conseguire una specializzazione all’estero, magari in Australia o in Inghilterra. Sono ragazze forti e decise, indù e musulmane, ma non si nota differenza nel comportamento.

BIJAPUR
Bijapur è una città dalla storia interessante. Capitale di un grande regno indù, venne conquistata dai sultani di Delhi, che la arricchirono di monumenti straordinari. Tra palazzi modei, moschee ed edifici antichi in pietra scura, incontro anche una chiesa cristiana dedicata a tutti i santi, come testimonia la scritta: «All Saints Catholic Church».
Non lontano, in un viale alberato, sorge la piccola chiesa di sant’Anna, dove incontro alcuni gesuiti e giovani studenti universitari che si preparano al sacerdozio. Vengono quasi tutti dal Kerala, hanno un viso aperto e sorridente; oltre allo studio, sono impegnati su vari fronti: Arun lavora negli slums della città. Sono 90 quelli non riconosciuti dal governo, per cui sono privi di elettricità, ricevono rifoimenti d’acqua ogni 8 giorni.
A Bijapur e dintorni, mi spiega padre Teyol, vi sono cinque gesuiti impegnati in varie opere a beneficio dei più poveri: gestiscono una scuola che ospita 480 ragazzi degli slums, dal 1°all’8° grado; vicino all’o-spedale islamico hanno aperto il centro di cura per l’Hiv, che colpisce duramente la popolazione, anche a causa di carenze alimentari, mancanza di igiene e prevenzione. Diverse congregazioni di suore sono presenti nella provincia e, in particolare, a MudoI, città distante 80 km, dove si occupano di circa 4 mila disabili.
La sera sono invitata a cena nella casa dei gesuiti, che ospita anche 45 bimbi orfani. Dopo la cena a base di riso e curry e servita dagli stessi bambini a tuo, mi chiedono di intonare un canto del mio paese.

IL DECCAN
Per un breve tratto percorriamo la strada che collega Mumbai a Bangalore, dove il traffico è pesante, di soli camion. Proseguiamo su strade secondarie attraverso una campagna ben coltivata, dove la vita ha ritmi ancestrali. I contadini hanno steso il raccolto di sorgo e ceci sull’asfalto, perché vengano sgranati dalle ruote dei veicoli, per poi ripulirli dalla pula con i setacci e folate di vento. I carri sono trainati da buoi dalle lunga coa, dipinte in colore azzurro o rosso; lungo i fiumi e ai lavatorni le lavandaie usano le pietre come un tempo.
I siti archeologici che incontriamo in questo vasto altopiano sono numerosi e importanti per la storia del-l’arte indiana. Il triangolo d’oro, formato da Aiole, Badami e Pattadakal, conserva i preziosi templi di tre importanti fasi dell’architettura indù, dal v al ix secolo d.C. Numerose sono le classi scolastiche in visita, istituti d’arte e licei, provenienti da città molto lontane. Tutti amano farsi fotografare insieme a noi o fotografarci, chi possiede una fotocamera.
Hampi è un luogo magico. I resti di un antico regno indù sono sparsi in una vasta zona, attraversata da un fiume e punteggiata da grandi massi di granito. Monumenti, palazzi, templi, lunghi colonnati dei mercati sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione portata dai sultani islamici. Restano anche le antiche canalizzazioni utilizzate per l’agricoltura, ma ridotte a oggetto archeologico, da quando è stata costruita una nuova diga, il cui vasto invaso ha provocato un’eorme quantità di zanzare che oggi infesta tutto il territorio.
A 25 km dal sito archeologico vi è un’acciaieria che assorbe grande quantità di energia e ha richiamato migliaia di persone, un tempo semplici contadini, per lavorare in questa industria. Fa parte della Jsw (Jindal South West), una compagnia che appartiene a uno dei magnati indiani, tra i primi nella lista dei ricchi della terra, come mi ha raccontato il vice direttore dell’acciaieria, signor Ugale, incontrato insieme alla sua famiglia in un ristorante dove ci eravamo fermati per il pranzo.

NAGA
«Mi chiamo Naga, come il serpente sacro, e dovrei avere 33 o 34 anni. Allora le nascite non venivano registrate – racconta la nostra guida mentre percorriamo l’area archeologica di Hampi -. Ho sofferto la fame da bambino; i miei erano molto poveri, della casta dei shudra, agricoltori. La mamma raccoglieva la legna in fascine, le caricava sul capo e andava a venderle, ma non sempre riusciva a comprare cibo per sfamarci».
Donne con fascine sulla testa se ne vedono ancora lungo le strade del Kaataka. Scalze, con anelli alle caviglie, vesti leggere dai colori vivi, il viso avvizzito dalla fatica e dal sole, a volte ricoperto dai monili tribali.
Da quando il sito archeologico di Hampi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, è aumentato il turismo culturale e Naga guadagna bene. «Ho studiato – continua Naga -. Sono entrato all’università con le quote riservate alle caste più basse. Dopo un anno di legge, ho conseguito il diploma di guida turistica e mi sono messo a lavorare. I miei mi hanno trovato una brava moglie che mi ha dato un bimbo, che ora ha 4 anni. L’abbiamo chiamato Ganesh, come l’elefantino figlio di Shiva, un nome che porta fortuna».
Naga vuole dare una buona educazione al figlio, che frequenta una scuola matea privata. Ora si sente forte e orgoglioso di mantenere tutta la famiglia, i nonni e perfino i due fratelli fannulloni, che non hanno voluto studiare.
Gli incontri con questi piccoli indiani, dalla pelle scura e gli occhi vivaci, ammirevoli per l’impegno e la determinazione, mi aiutano a capire il loro paese, che si sta evolvendo pur nelle contraddizioni di situazioni molto diverse.
Naga ha superato una doppia tragedia l’anno scorso. Dopo aver contribuito coi suoi risparmi alla dote di una nipote, figlia di quel perdigiorno del fratello maggiore, suo padre si è ammalato ed è rimasto paralizzato. La giovane moglie, costretta ai lavori pesanti di casa e di assistenza al nonno, ha perso la secondogenita, nata prematura.

GOA
II caldo, i colori, la polvere, il traffico, la povertà: l’India non lascia mai indifferente, quando si percorrono le sue strade in un viaggio che coinvolge profondamente anche l’anima.
Sono stanca di viaggiare in pullman. Lascio l’altipiano del Deccan con un comodo treno che da Hospet mi porta a Goa, attraverso la foresta tropicale, paragonata al bacino delle Amazzoni per ricchezza di biodiversità. La vista di tanto verde e cascate ricche d’acqua che scendono verso il Mar Arabico, è inusuale in India, paese profondamente segnato dal lavoro dell’uomo.
Goa è il più piccolo stato indiano (3 mila kmq), ma con il migliore tenore di vita per tutti i suoi abitanti, grazie alle miniere di ferro, le industrie di tecnologia avanzata, le buone scuole e, soprattutto, iI turismo. Sono diversi milioni i turisti occidentali che arrivano in inverno per godersi il sole e le splendide spiagge del piccolo stato indiano. È impressionante lo sviluppo dell’attività, dovuto alle esigenze di nuovi alberghi e alle richieste di seconde case da parte della nuova classe borghese indiana. Alcune zone sono già state rovinate dalla speculazione. Ma basta allontanarsi dalla costa per ritrovare il fascino delle antiche chiese, costruite nei secoli dai portoghesi.
Goa è una regione ricca di storia, che affonda le radici nel 3° secolo a.C., quando faceva parte dell’impero dei Maurya, per poi passare sotto il dominio dei regni indù dell’altipiano del Deccan. Nel 1312 fu occupata dal sultanato di Delhi; ma fu riconquistata nel 1370 dal re Harihara e per un secolo fece parte del grande impero indù di Vijayanagar, finché ricadde nuovamente sotto il dominio islamico, prima del sultano di Gulbarga, poi di quello di Bijapur, che ne fece la capitale del suo dominio. In fine Goa fu conquistata da Alfonso di Albuquerque (1510), che gettò le basi di quella che doveva diventare la splendida capitale della più importante colonia portoghese del subcontinente, centro di controllo per il traffico delle spezie che giungevano dall’Oriente e della diffusione della religione cristiana in tutto il continente asiatico.
La presenza portoghese durò per quattro secoli e mezzo. Quando infatti l’India si rese indipendente dal dominio inglese (1947), i portoghesi non vollero cedere la loro colonia e resistettero fino al 1961, quando furono cacciati dall’esercito indiano e Goa diventò (1987) il 25° stato della federazione indiana, il più piccolo e il più ricco.
Oggi, dell’inquieta storia dei secoli in cui indù e islamici alternarono su Goa il loro potere non rimane alcuna traccia; mentre abbondano gli edifici storici, cupole e campanili, che svettano tra gli alberi secolari che avvolgono la Vehla Goa.
Fa un certo effetto visitare la cattedrale, la chiesa di San Francesco, la basilica del Bom Jesus, dove i gesuiti custodiscono le spoglie di san Francesco Saverio, il grande missionario che portò il vangelo in Estremo Oriente. Rimango ancora più stupita nel vedere i numerosi drappelli di fedeli in preghiera, che a tutte le ore riempiono le cappelle ricche di decorazioni.

Il mio viaggio si conclude sul colle in cui sorge la piccola chiesa di Nostra Signora della Carità. Il sole sta tramontando nel Mar Arabico e lo sguardo spazia sulla densa foresta tropicale che nasconde case e mercati, segnata da fiumi e canali, percorsi da lunghe navi arrugginite, cariche di minerali. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Sotto la sabbia

Ai confini (2a)

Il lutto, la perdita di una parte della propria esistenza. Occorre rielaborare, ma anche riorganizzarsi. E per questo può essere necessario un appoggio sociale. Come i gruppi di mutuo aiuto. E per gli immigrati ci sono pure altre difficoltà. La necessità di adattarsi, senza però perdere la propria cultura.  

Tema doloroso, quello della morte. Imbarazzante, pungente, difficile da affrontare. La perdita di una persona cara è l’abbandono di un pezzo di vita, di  pochi o tanti fotogrammi che hanno composto il nastro di un’esistenza. Morte e lutto sono trasversali a tutte le etnie, a tutte le culture e gli strati sociali. E se la ferita è tanto profonda per il cittadino italiano, quali e quante risposte trova l’immigrato in un contesto di alterità? Lontano dalla propria rete familiare e dal medesimo tessuto sociale. Ne abbiamo indagato alcuni aspetti, nell’anno del dialogo interculturale.

La ricerca profonda

Lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere. È un concetto che si lega indissolubilmente alla sofferenza e al momento delle lacrime. Certo è che, in primis, il lutto scardina e scompagina il nostro esistere. È  uno schiaffo in pieno giorno, una caduta dall’alto, un male dentro che non trova conforto. Soprattutto dalla perdita fisica della persona cara. Perché, in realtà,  qualsiasi separazione a cui l’essere umano è sottoposto nel corso della propria esistenza è un lutto. Un evento che implica uno stravolgimento e rende imperativo l’accettare che  una parte della vita si è conclusa ma che rimane intatta nella memoria e in fondo al cuore.
È il momento della ricerca del senso, di un’evoluzione più profonda, di un «ritrovarsi» in maniera autentica.
Ma cosa accade dentro la scatola umana quando si affronta tale esperienza? «Il lutto, sia esso relativo alla morte fisica di una persona, oppure a una separazione tra viventi o anche una migrazione da un contesto geografico e sociale verso un altro, necessita di tempo per essere elaborato» sono le parole di  Désirée Boschetti, 34 anni, psicologa psicoterapeuta. «L’elaborazione è un percorso emotivo attraverso il quale la persona non dimentica quanto è accaduto ma trova la forza per guardare avanti, in un certo qual modo  è la sofferenza a venire elaborata, cessando di essere invasiva e distruttiva e mantenendo inalterato il ricordo».
Il tempo diventa protagonista di un processo umano complesso e tortuoso: quello dell’elaborazione. L’orologio non si ferma, ore e minuti proseguono la loro corsa. Come avviene l’elaborazione di una sofferenza così inspiegabile? «Alcune fasi psicologiche sono ricorrenti davanti a un evento luttuoso. Si passa dallo shock iniziale, alla rabbia, alla depressione e alla tristezza, fino a giungere a una sana riorganizzazione della vita stessa. Ri-progettare l’esistenza alla luce del fatto che «l’altro» non c’è più, ri-organizzare spazi fisici e sociali. Ma come sempre questa è la prassi antologica, poi ogni lutto è a sé. Nel peggiore delle ipotesi può capitare che si faccia fatica ad uscire dalla fase depressiva, bloccando e rendendo così patologico il percorso di elaborazione. Questo accade spesso quando la relazione tra le persone era di tipo simbiotico e pertanto non si perde solo l’altra  persona ma una parte centrale della  propria identità».

Scollamento dalla verità

«Sotto la sabbia» è un film di François Ozon che, con delicatezza, restituisce allo spettatore il dramma di una moglie, che alla scomparsa in mare del marito mette in moto una scissione tra mondo reale e mondo immaginario, negando la morte anche davanti alla realtà finale.
È il dramma della separazione improvvisa, della sparizione che non offre neanche la possibilità di un ultimo commiato. «Quando la negazione è così rigida si ha uno scollamento netto dalla verità dei fatti che tende a diventare patologico. Quando parliamo di “elaborazione” tutto è soggettivo. Entrano in gioco le differenti personalità, il rapporto con il defunto, il tipo di decesso, se improvviso o “atteso”,  altri lutti recenti in famiglia e soprattutto se era una relazione pacifica o conflittuale. In questo caso, quando non è più possibile ricucire i conflitti e permangono “sospesi” verbali e affettivi, tutto si complica».
Per non passare dal dolore della perdita al dramma della non accettazione e all’incapacità di ricominciare a vivere, esiste un antidoto che si possa iniziare a prendere da «viventi»? «Sicuramente più sincera e autentica è la relazione  tra le persone,  meno il tema della morte diventa tabù e più diventa semplice salutarsi. Per quanto possibile è dunque fondamentale cercare di esteare i disagi e i conflitti, esprimerli e trovare insieme delle soluzioni. E soprattutto non nascondere “segreti significativi”, taciuti importanti della propria vita,  che possano venire alla luce dopo il decesso della persona e che possano danneggiare l’altro, mettendo alla prova l’autostima e obbligandolo a ridefinire un passato che ormai trova impregnato di finzione».

Gruppi di mutuo aiuto

In una società centrata sull’individuo e sull’individualismo non si sente la necessità di ritualizzare il lutto, di risocializzarlo? Quanto siamo cambiati e quanto si è modificata socialmente e storicamente l’esperienza del  lutto?
Marina Sozzi, docente di tanatologia (parte della psicologia che studia l’elaborazione del lutto) presso l’Università di Torino e Direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, ci spiega: «In Occidente, fino agli inizi del Novecento, la morte di una persona si costituiva come evento sociale e pubblico. In diverse zone dell’Europa meridionale, in particolar modo in quelle rurali, esistono ancor oggi diversi rituali che coinvolgono gran parte della comunità. Queste modalità  permettono di “addomesticare” la morte.
È invece peculiare della nostra epoca modea evitare il disagio emotivo che causa il morire. Respingere e dissimulare la morte comporta però un alto prezzo da pagare. La sofferenza interiore per la perdita e la solitudine che l’accompagna incrementa le sindromi depressive e la difficoltà a ritornare a una vita normale».
Sembrerebbe quasi che parlare di morte sia diventato osceno e che la tristezza non possa essere manifesta. La privatizzazione del lutto, dunque, l’ha reso un evento troppo psicologizzato e poco sociale. Esistono rimedi o progetti per riconsiderarlo a livello comunitario e far sì che la gente si senta meno sola?
«La Fondazione Fabretti di Torino ha recentemente aperto un servizio di supporto al lutto totalmente gratuito che comprende uno sportello in città, gestito da uno psicologo esperto in materia, alcuni gruppi di mutuo aiuto, una campagna informativa presso i cittadini, la formazione dei medici di base e la collaborazione con la curia e con le molteplici associazioni di volontariato. Questo dovrebbe creare una rete di solidarietà estendibile a macchia d’olio, una specie di comunità protettiva per arginare stati di solitudine».
Nello specifico come si differenzierà lo sportello dai gruppi di mutuo aiuto e come sensibilizzerete gli operatori sanitari?
«Lo sportello si traduce in un centro di ascolto in cui è lo psicologo a valutare quali strade consigliare all’utente. I gruppi di mutuo aiuto, che nei paesi anglosassoni esistono già da diversi anni, si basano sulla formazione  di gruppi che “condividono” il medesimo disagio. Il mutuo aiuto inizia con l’auto aiuto, ossia nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva per risolverlo.
L’esperienza di condivisione giova a esprimere i propri sentimenti, a riflettere sulle proprie modalità di comportamento, ad aumentare le capacità individuali nel far fronte ai problemi, sia psicologici sia pratici. Ma anche  a incrementare la stima di sé e a facilitare la nascita di nuove relazioni sociali e di una migliore qualità della vita. A supportare il gruppo ci sarà un esperto, non per tecnicizzare ma per pilotare le dinamiche emotive.
La sensibilizzazione e la formazione presso i medici di base faciliterà invece la possibilità di dar valore a una relazione umana medico-paziente in modo tale che l’operatore sanitario individui campanelli d’allarme importanti nelle persone in lutto e sappia indirizzarli verso il nostro servizio.
Si cercherà inoltre di coinvolgere la curia affinché si creino nuove figure di assistenti spirituali, meno attenti all’orologio ma più aperti al dialogo e pronti a ridare speranza nella vita».

Immigrazione e lutto ovvero: adattarsi

Un’operazione capillare, dunque, per sanare ferite ma anche per ricordare al mondo che senza la condivisione è impossibile sconfiggere il malessere.
Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita avviene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino,  studioso di religione e immigrazione, oltre che assegnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro interculturale della Città di Torino.
«Indubbiamente le domande di senso, in questo caso,  aumentano di intensità. Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche perché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare” la situazione funebre.
La lacerazione della morte necessita infatti di una sorta di spiegazione e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’esperienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antropologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi simile lo è ancor di più».
A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigrati vengano importate in misura identica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’impossibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi.  «La popolazione autoctona tende a dar per scontato alcune usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso storico e culturale basato sul cristianesimo. Il migrante deve invece trovare una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adattare al contesto in cui vive. Incontrando pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico.
I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso hanno l’esigenza religiosa di essere seppelliti entro 24 ore dal decesso ma secondo la nostra legislazione occorre attendere 2 o 3 giorni. Questo è un chiaro intoppo legislativo.
Dal punto di vista pratico un rituale fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavaggio  del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad esempio) con una fonte di acqua pura, ossia utilizzata solo per quella evenienza. Questo è un limite che potrebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dando così il giusto rispetto che meritano i rituali delle culture “altre”. In tal senso sono in corso progetti pionieristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne».
Ma limitazioni di vario genere e prepotenti  gap culturali non provocano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di doversi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origine? «Se consideriamo che i musulmani, per religione, dovrebbero essere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato. A cui devono rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la situazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la nostra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte degli immigrati.
In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebbero minime modifiche nelle legislazioni, ma soprattutto maggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comunità multietnica».
Il lutto, nel suo stravolgente dirompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche legate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli antipodi. Si creano così  nuovi spazi sociali, nuove reti comunitarie. Dal dolore non fuoriesce sempre solo depressione e isolamento. Attoo al credo religioso, alla solidarietà e al bisogno comune si possono formare nuovi gruppi con personali identità».

Una permanenza transitoria

Il significato del rimpatrio ci offre l’idea di quanto l’immigrato consideri il suo vivere «altrove» ossia nel nostro «qui» una permanenza transitoria, ben distinta dal concetto di eternità che può essere vissuta solo nel proprio paese d’origine.
Un ritorno alla terra, in comunione con i propri avi. Il senso della famiglia, delle amicizie e delle tradizioni che la lontananza non può spezzare. «Il desiderio di portare a casa il defunto è prioritario per noi rumeni. C’è un senso di appartenenza alla propria comunità e alle proprie radici molto forte. Soprattutto in ambito rurale, tutta la collettività partecipa al rituale funerario che assume così connotati festivi. Il funerale non deve essere consumato in fretta.
Qui (in Italia, ndr), il tenore di vita è più alto ma si è perso il senso delle tradizioni più profonde. La “fretta” è diventata una costante della vita e ha cancellato l’importanza del sapersi assaporare il momento. Un passaggio doloroso, come quello di una  morte, ha bisogno di sospendere la corsa. Di riflettere, di organizzarsi, di compatire insieme».
Sono le parole di  Rodica Manciu, mediatrice culturale rumena presso l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino. «Da noi la veglia funebre dura tre giorni, durante i quali la vita è sospesa. Tutta la comunità accorre a casa dello scomparso, che non rimane mai  solo.
Al defunto viene lasciata una candela tra le mani, che possa illuminargli la strada verso l’aldilà. Si mangia qualcosa, si beve, si canta  e soprattutto si parla. È un dialogo diretto sulla vita, sulla morte e sulla naturalezza che tutto ciò deve avere. La paura viene esorcizzata attraverso un’autentica ritualità partecipativa».
Queste parole chiariscono l’esigenza di riportare alla terra natia il defunto. Ma i costi sono elevati e la burocrazia infinita.
Come e chi interviene a favore degli immigrati in tale situazione? Ne parliamo con Ranà Nahas, mediatrice culturale musulmana dell’associazione Alma Mater di Torino: «Le pratiche sono lunghe, il rapporto con le Istituzioni non sempre fluido. Attoo all’imam si forma la nostra comunità religiosa, che solitamente lavora insieme per arginare gli ostacoli. Quando l’esigenza è quella di rimpatriare la salma vengono richiesti  degli aiuti finanziari durante la preghiera quotidiana. Solitamente c’è molta solidarietà.
Se il defunto viene sepolto in Italia (recentemente è stato creato uno spazio apposito per i musulmani nel  Cimitero Parco, di Torino Sud), invece, si segue l’iter di presentare la documentazione al Comune che, in caso di indigenza, procura la bara e gli oamenti funerari. 
Il cammino è ancora in salita. Sarebbe auspicabile che l’informazione fosse estesa anche alla comunità italiana, affinché ci fosse un sentire comune che creasse una rete sociale sensibile più estesa e compatta in questi momenti».

Riconoscere le culture ma senza stereotipi

Come trasformare il nostro pensiero affinché si possa considerare «multietnica» la società in cui viviamo? Ci dice ancora Javier Gonzales: «La concezione in voga è quella del “pacchetto culturale”,  ma nessuna cultura va impacchettata. All’interno di un’etnia ci sono gli individui e sono loro, differenti gli uni dagli altri per mentalità e vissuto personale, a fare delle scelte. Si rischia sempre di toccare le estremità di un discorso: da un lato appiattire tutto, negando che ci siano differenze. Dall’altro estremizzare creando solo stereotipi culturali. L’ideale sarebbe riconoscere le diversità, senza applicare delle etichette, altrimenti si ricade nella società segregazionista che tanto assomiglia al modello di apartheid.
Le soluzioni non arrivano mai dall’alto, attraverso scelte autoritarie o politiche, le decisioni vanno condivise attraverso il dialogo, rendendo le persone parti attive nella negoziazione delle scelte. Questo è il modello della vera società multiculturale che profuma di elasticità mentale, informazione e soprattutto della capacità di ascoltare». 

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Tetto del mondo … occupato

Introduzione al Dossier

La rivolta anticinese del marzo 2008 e relativa repressione hanno riportato alla ribalta il dramma del Tibet, dal 1949 occupato dalla Cina e oggetto di una colonizzazione genocida.
In quasi 60 anni si stima che circa 1,2 milioni di tibetani siano morti in conseguenza dell’occupazione cinese; il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano è stato distrutto; il trasferimento massiccio e ininterrotto di coloni cinesi (7 milioni) ha ridotto i tibetani a una minoranza nel proprio paese (6,5 milioni); la sistematica politica di discriminazione delle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, scolastico, religioso, lavorativo; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi…
E la tragedia continua: migliaia di tibetani sono in carcere per reati di opinione; lingua, religione, storia, cultura sono negate; le donne sono sottoposte al controllo delle nascite mediante sterilizzazioni forzate e aborti; il fragile ecosistema del Paese delle Nevi è compromesso da sfruttamento delle risorse, deforestazione, stoccaggio di materiale radioattivo…

Negli ultimi 50 anni la questione tibetana ha attratto su di sé un reale interesse che, pur se a fasi altee, continua fino ai nostri giorni. Numerose risoluzioni dalle Nazioni Unite (1959, 1961 e 1965), del Congresso Usa, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato il governo cinese per le violazioni dei diritti umani e delle libertà democratiche, ma senza concreti risultati.
Le Olimpiadi di Pechino riportano il problema del Tibet e di altre minoranze etniche cinesi sotto i riflettori inteazionali. Alcuni capi di stato hanno deciso di boicottare l’apertura dei giochi olimpici… Basterà tale protesta per piegare il colosso cinese a intavolare un dialogo serio e costruttivo per risolvere il problema? I dubbi sono molti, ma non bisogna perdere la speranza.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Dacci oggi il nostro barile quotidiano

La maledizione dell’«oro nero»

Sul pianeta Terra stiamo consumando più petrolio di quanto riusciamo a produe. E la tendenza è in forte aumento, perché Cina e India crescono rapidamente. Tutti gli stati cercano di garantirsi «riserve strategiche» per il futuro. L’Africa è l’ultima frontiera. Le sue potenzialità su nuovi giacimenti sono ancora elevate. Ma perché l’oro nero ha portato solo corruzione, guerre civili, povertà? E mai migliori condizioni di vita dei popoli africani? Se si riuscisse a bloccare la fuga delle rendite petrolifere non occorrerebbe più l’aiuto allo sviluppo. E l’Africa ci guarderebbe da eguali.

«L’Africa è all’alba di un nuovo boom petrolifero: il golfo di Guinea è diventato il nuovo terreno di gioco delle compagnie del petrolio. Queste prevedono di investirci tra i 30 e i 40 miliardi di dollari in dieci anni». Così il giornalista francese Xavier Harel, esperto di questioni africane e di petrolio, descrive il processo in corso nel suo libro – inchiesta Afrique, pillage à huis clos (Africa, saccheggio a porte chiuse). Processo  in forte accelerazione a causa della vertiginosa crescita dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.
Il continente detiene tra l’8 e il 10% delle riserve mondiali del prezioso olio, contando tra 80 e 100 miliardi di barili di riserve già verificate. Dati confermati  dalle statistiche della British Petroleum (gigante inglese dell’energia), che segnala 117 miliardi di barili.
La zona più ricca è il Golfo di Guinea, dove  Nigeria, Angola, Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville, Gabon e Camerun (nell’ordine) sono i maggiori produttori del continente. Ad eccezione del Sudan, grande produttore in Africa dell’Est (vedi box).

Sempre più in basso

Con la «paura» energetica, il prezzo del greggio è passato dai 70 dollari al barile del 2007 ai 135 di metà 2008 (vedi box). È diventato redditizio fare investimenti per perlustrazioni petrolifere là dove un tempo non lo era, o ancora, sfruttare il petrolio «non convenzionale», carissimo da estrarre.
Anche il miglioramento delle tecnologie ha permesso la ricerca su fondali marini fino (e oltre) i 3.000 metri di profondità. Si è passati dall’offshore (dall’inglese «costiero»), definito fino a 500 metri di profondità, all’«offshore profondo» (500 – 1.500 metri). Mentre ora si va verso l’«offshore ultra profondo» (1.500 – 3.000 metri).  Allo stesso modo si sta cercando petrolio in profondità anche nel deserto in Mali, Niger (dove un giacimento è stato trovato) e in Kenya, paesi che non ne hanno mai prodotto. In effetti, rispetto a quanto succede in altre zone del mondo, le mappe petrolifere dell’Africa si stanno ancora disegnando e c’è molto spazio per la scoperta di nuovi giacimenti. Quindi grandi e piccole compagnie (le cosiddette majors), sono tutte a caccia di permessi di «prospezione», anche in paesi ancora vergini.
Per questo motivo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e infine anche la Cina, considerano oggi «strategico» il continente africano, che fino a 5-10 anni fa era trascurato. Interessa in particolare il Golfo di Guinea, dove vi moltiplicano gli investimenti.
Gli Usa consumano, ogni giorno, un quarto della produzione mondiale di greggio, oggi stimata a 87 milioni di barili quotidiani. Dai 19,5 milioni di barili inghiottiti ogni giorno passeranno a 25,5 milioni nel 2020. Allo stesso tempo la produzione nazionale scenderà da 8,5 a 7 milioni di barili. Già a partire dalla prima amministrazione Bush (2001) il petrolio diventa una priorità strategica per gli Usa, essendo sinonimo di indipendenza energetica.
La Cina ha un’economia in crescita di quasi il 10% annuo. Dal 2005 è il secondo consumatore mondiale di petrolio e il suo bisogno arriverà al 20% di quello prodotto sul pianeta nel 2010. Con la sua popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il cui tenore di vita è in aumento, ha sempre più bisogno di energia. La sicurezza di riserve di petrolio a medio e lungo termine è dunque fondamentale. Obbligatorio buttarsi a capofitto nella ricerca di nuovi giacimenti e nello sfruttamento di quelli conosciuti nel continente, trascurato dal punto energetico fino a pochi anni fa.
Uno dei problemi dell’Africa sub sahariana è che non possiede le tecnologie e le possibilità di investimenti necessari per sfruttare i propri giacimenti di petrolio. Questo impone agli stati africani l’avvalersi di compagnie europee e statunitensi (e ultimamente cinesi). Fin qui nulla di così grave. Il problema è che grazie a personaggi senza scrupoli di varia nazionalità, dirigenti della majors, banchieri, intermediari, politici occidentali, venditori di armi e, non ultimi, i capi di stato africani, scatta il meccanismo del saccheggio o «evaporazione» dei soldi «pubblici» del petrolio africano. Saccheggio che assume dimensioni impensabili.

Quanto pesa sulle economie africane

I giacimenti africani sono (o potrebbero essere) generatori di un’enorme ricchezza per i rispettivi paesi. Le cifre in gioco fanno impallidire quelle dell’aiuto versate ogni anno dai paesi occidentali allo scopo di «sviluppare» l’Africa. Una stima dell’Unione africana parla di 148 miliardi di dollari che annualmente «lasciano» illegalmente l’Africa, per essere depositati su banche europee o nei paradisi fiscali. Illegalmente, perché si tratta di fondi pubblici, che dovrebbero essere acquisiti dal Tesoro.
Questa cifra approssimata per difetto va confrontata con 25 miliardi di dollari ricevuti ogni anno come aiuti dai paesi africani. Le élite di questi paesi avrebbero su conti privati esteri tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari di denaro pubblico. Conti spesso protetti e alimentati in modo non «tracciabile». Xavier Harel sostiene che: «La fuga di capitali è uno dei principali ostacoli al decollo dell’Africa».
In Nigeria le entrate dell’oro nero costituiscono il 98% di tutte le ricette in valuta e in Angola il 90%.
Facendo le proiezioni sulle produzioni dei giacimenti già sfruttati (escludendo quindi le future scoperte) di sette paesi dell’Africa dell’Ovest (Nigeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Ciad e Camerun), il Pfc Energy, ufficio studi statunitense, ha valutato le somme generate dal petrolio tra il 2002 e il 2019 intorno ai 183 miliardi di dollari, che vanno dai 110 miliardi per la Nigeria ai 2 miliardi per il Ciad. Piccola precisazione: i conti sono fatti con un costo del barile a 22,50 dollari!

Povertà, guerre civili e instabilità politica

Ma cosa portano, nella realtà, le rendite petrolifere in Africa? A sud del Sahara il petrolio sembra fare rima con povertà, corruzione, instabilità politica e guerre civili.
Con una certa sorpresa scopriamo che i paesi africani produttori di petrolio sono agli ultimi posti della classifica rispetto all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Nigeria e Angola, i maggiori produttori del continente, figurano addirittura tra gli ultimi della classe, nella zona definita a «basso sviluppo umano» (158.ma la prima e 162.ma la seconda). La Guinea Equatoriale occupa il 127° posto (grazie al basso peso demografico), il Congo il 139°, mentre il Camerun è 144° e il Sudan 147°, fino al Ciad al 170° posto su 177 paesi classificati. Nessuno si salva.
Un altro aspetto devastante è che questi paesi hanno tutti un enorme debito estero. Questo è dovuto al fatto che i vari capi di stato hanno chiesto sempre maggiori prestiti alle istituzioni inteazionali, garantendo con le riserve petrolifere dei loro paesi.
Non lascia ombra di dubbio il rapporto d’informazione della commissione Affari esteri del parlamento francese su «Il ruolo delle compagnie petrolifere nella politica internazionale e il suo impatto sociale e ambientale», citato da Harel nel suo libro. «In Africa, la manna petrolifera non ha aiutato lo sviluppo, i capi di stato l’hanno utilizzata per comprare armi in Angola e in Congo – Brazzaville, in Gabon, in Camerun, in Nigeria. Non si riesce a scoprire dove sia andata la rendita dovuta al petrolio, perché il debito aumenta, le popolazioni sono impoverite e le infrastrutture sono in uno stato deplorevole. Mantenere al potere delle dittature, corruzione, violenza larvata, attentati ai diritti umani e all’ambiente; questo è il bilancio, poco glorioso, dello sfruttamento petrolifero in tutta l’Africa».
L’Angola che – dicono gli esperti – avrebbe superato la Nigeria come produzione nel mese di aprile, è uno dei paesi più corrotti del mondo (secondo la classifica annuale dell’Ong Trasparency Inteational occupa il 147mo posto su 179), ha le infrastrutture ai minimi termini e le condizioni di vita dei suoi abitanti sono a livelli bassissimi (speranza di vita a 42 anni, mortalità infantile entro i 5 anni di 260 su 1.000 nati vivi, tre bambini su dieci sotto i 5 anni malnutriti, ecc.). Ma sempre l’Angola mostra negli ultimi anni una crescita economica record: 18,6% nel 2006, con proiezioni della Banca mondiale al 25%!
Racconta Harel a MC: «È un paese che ha il reddito petrolifero che è completamente esploso. Era a 1 milione di barili tre anni fa. In Angola c’è un boom economico non indifferente. Non che i soldi siano ben gestiti. Ce ne sono tantissimi, che potrebbe essere come un paese del Golfo (Persico, ndr), invece non esistono ricadute sulla popolazione. È un Brasile in peggio. Una piccola élite immensamente ricca e gli altri nelle bidonville a perdita d’occhio».
Senza contare che con i soldi del petrolio José Eduardo dos Santos e Jonas Savimbi, i due rivali della guerra civile, hanno pagato armi per tre decenni.
Molte altre sono le guerre civili alimentate dai soldi del petrolio: in Repubblica del Congo, Sudan, Ciad. E ancora l’instabilità politica generata in Nigeria, Guinea Equatoriale.

Corruzione? Sì grazie

«Le compagnie hanno bisogno di rinnovare le loro riserve, ovvero scoprire nuovi giacimenti e metterli in produzione. Per questo devono lavorare in un certo numero di stati, e ottenere i permessi. Normalmente ci sono delle aste, ma bisogna dire che spesso non funziona così, e che se si vuole essere “ben piazzati” occorre “accordarsi” con il regime del paese». Ci ricorda Xavier Harel. Da qui mazzette colossali, fondi occulti versati su conti svizzeri o nei paradisi fiscali, con triangolazioni tali da far perdere ogni traccia.
Ma non basta. La fuga di capitale pubblico si realizza anche dotandosi di compagnie di intermediazione. In Congo ad esempio Denis Gokana, un alto dirigente della Snpc (Società nazionale del petrolio del Congo, impresa di stato per la commercializzazione del petrolio), vendendo a prezzi ribassati a una società d’intermediazione (di cui è il principale azionista), la quale poi rivende il greggio a prezzi di mercato, riesce a incassare una commissione di 3,3 milioni di dollari per carico. Il meccanismo è stato ripetuto almeno per 45 carichi. E tutto con la benedizione del presidente Denis Sassou Nguessu, che di Gokana è padrino e creatore.
Senza contare i famosi «carichi fantasma» intere navi cisterna che lasciano il porto di Pointe Noire, sfuggendo a ogni contabilità ufficiale, per essere spartiti tra pochi eletti.

Di sangue e di petrolio

Un altro caso scuola sono i soldi rubati allo stato nigeriano dal dittatore Sani Abacha. Alla sua morte nel 1998 il nuovo governo indaga e tenta di recuperare il denaro pubblico. Il sanguinario Abacha ritirava i soldi in contanti dalla banca centrale della Nigeria, per poi versarli su altri conti nazionali o in società offshore (società basate nei paradisi fiscali, dove per legge, non è possibile risalire ai nomi degli azionisti).
In seguito i soldi transitavano verso conti in Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Bahamas a nome di sua moglie, suo figlio o un suo consigliere della sicurezza. La stima è di 3 – 4 miliardi di dollari rubati tra il 1993 e il ’98 di cui 2,2 sono stati rintracciati e in parte restituiti allo stato nigeriano.  L’aspetto buffo è che i soldi recuperati non risultano generati da rendite petrolifere, per un paese dove il petrolio rappresenta il 98% delle esportazioni. «Il sistema messo in piedi dalle compagnie petrolifere è talmente ben rodato, che è diventato impossibile tracciare le mance o altre commissioni accordate dalle compagnie ai regimi indelicati» dichiara Enrico Monfrini, avvocato svizzero incaricato dalla Nigeria di recuperare il soldi presi da Abacha. E la Cina? «È il principio dello scambio: i cinesi costruiscono strade, dighe, aeroporti, contro concessioni di esplorazione e sfruttamento petrolifero – ricorda Xavier Harel -. Non sono più trasparenti che europei e nordamericani, usano le stesse pratiche.  Ancora più opache, perché quando si fa del baratto si possono ancora di più falsare i prezzi, valorizzando i barili di petrolio come si vuole. Costruisco una diga per 1 milione di barili. Se li valorizzano a 50 dollari al barile, poi ne versano 10 su un conto in Svizzera, nessuno riuscirà a verificarlo. Le manipolazioni sono ancora peggiori, perché le possibilità di controllo sono più deboli». 
I cinesi sono affamati di riserve energetiche e per questo pagano molto di più delle grandi compagnie come ExxonMobil e Total (MC, dicembre 2007).  E questa concorrenza favorisce i capi di stato e facilita la corruzione.

Deboli segnali di cambiamento

In Ciad la Banca mondiale (Bm) ha cercato di fare un esperimento interessante. Scoperto il petrolio occorreva costruire le infrastrutture e anche un oleodotto di 1.070 km che attraversasse tutto il Camerun fino al Golfo di Guinea. La Bm è stata chiamata in causa dalle compagnie petrolifere come garante (e finanziatore). Ha imposto al Ciad che l’85% dei redditi da petrolio fossero destinati a cinque settori prioritari per il paese: salute, educazione, sviluppo rurale, infrastrutture, acqua; il 5% fosse investito nella regione di estrazione (Doba, nel sud del paese) e il 10% depositato su un conto «per le generazioni future».  Un collegio di sorveglianza è incaricato di verificare la buona gestione di queste risorse. Ma la crisi intea (vedi MC aprile 2008) e i difficili rapporti con il Sudan, hanno spinto il presidente Idriss Deby a dirottare parte delle rendite petrolifere nell’acquisto di armi, allo scopo di «garantire la sicurezza dello stato». Non tutto è perduto, occorre tenere il meccanismo sotto controllo.
Un altro tentativo per ridurre il saccheggio è stata l’«Iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva» (Eiti), un’idea lanciata da Tony Blair al G8 di Johannesburg nel 2002. Vorrebbe rendere trasparenti i pagamenti delle compagnie petrolifere ai paesi in cui esse estraggono, con l’obiettivo finale di ridurre il livello di corruzione. Molti stati vi antepongono la questione di «confidenzialità» sugli affari.
Il meccanismo consiste nell’avere un auditor indipendente che certifica tutti i versamenti delle compagnie al governo del paese di estrazione. Questi dati sarebbero pubblicati e confrontandoli con il bilancio dello stato, un qualunque cittadino potrebbe facilmente identificare i casi di appropriamento illecito.
Nel 2003 sette paesi aderirono all’Eiti, ma nessuno ha ancora pubblicato i dati.  Xavier Harel la definisce: «Una falsa buona idea che permette al G8 di affermare che si occupa del problema, mantenendo però lo status quo». «Non credo molto nell’iniziativa Eiti – ci racconta il giornalista –  perché funziona su base volontaria. In cinque anni non ha permesso di produrre statistiche affidabili sulle rendite petrolifere dei paesi produttori. Con l’eccezione dell’Azerbaigian».
I paesi aderiscono all’iniziativa, ma poi non pubblicano i dati, non c’è un avanzamento. A maggior ragione con l’impennata dei prezzi del barile, e quindi dei possibili guadagni, anche illeciti, nei prossimi anni.

Spunta la società civile

«L’importante è che c’è una pressione sempre maggiore della società civile, che inizia a portare qualche frutto». Xavier Harel si riferisce alla campagna internazionale «Pagate quello che pubblicate» lanciata da un centinaio di Ong, prima fra tutte la britannica Global Witness.
La campagna punta a obbligare le compagnie estrattive basate in Europa e Stati Uniti (petrolio e minerali) a pubblicare quanto versano agli stati produttori. Global Witness ha pubblicato interessanti e approfonditi rapporti sui legami tra petrolio, corruzione, povertà e conflitti in diversi paesi africani. 
Una piccola modifica giuridica nei paesi di origine delle majors, porterebbe enormi benefici alle popolazioni dei paesi esportatori. «C’è una recente proposta di legge al congresso americano (il parlamento Usa, ndr) che vorrebbe costringere tutte le compagnie estrattive, comprese quelle del petrolio, a rendere pubblici i dati sui soldi versati a paesi esteri superiori a 100.000 dollari. È il primo vero risultato del lobbing della società civile. Un primo passo enorme se si realizzasse».
Diventando legge negli Usa, le compagnie americane, per non essere svantaggiate rispetto alle colleghe europee, farebbero in modo che fosse integrata come convenzione all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).  È quanto è successo per la legge anticorruzione. In questo modo diventerebbe valida per tutte le compagnie occidentali.
Non è una proposta del governo ma del congresso. Il senatore che l’ha presentata dice che ci vorranno magari anni per farla passare.
«È comunque un fatto che la gente inizia a prendere coscienza del problema dell’opacità di queste transazioni e di tutte le conseguenze. La pressione della società civile e dei media fa poco a poco andare avanti le cose».
Secondo Joseph Stiglitz, economista premio Nobel, già alto funzionario della Banca mondiale: «I paesi industrializzati possono aiutare a garantire la trasparenza con una semplice misura: autorizzare le deduzioni fiscali solo per le royalities e gli altri pagamenti ai governi stranieri se la compagnia rivela totalmente quello che ha pagato e il volume delle risorse naturali estratte».
Stiglitz scrive nel suo ultimo libro La Globalizzazione che funziona: «Quello di cui questi paesi (ricchi in materie prime, ndr) hanno bisogno, non è un sostegno finanziario esterno maggiore, ma essere aiutati per ottenere il massimo valore dalle loro risorse e per spendere bene i soldi ricevuti».
Se il reddito delle materie prime che l’Africa esporta, delle quali il petrolio è in assoluto quella che rende di più, andasse sui conti degli stati e non su quelli senza nome nei paradisi fiscali, se questo denaro fosse reinvestito per sviluppare l’economia dei paesi produttori, migliorae le infrastrutture, la salute, l’educazione, i paesi africani avrebbero abbastanza risorse senza dover chiedere aiuti pubblici ai paesi industrializzati, che sono gli stessi a fare man bassa delle loro risorse naturali. 

Di Marco Bello


L’impennata del prezzo del petrolio

CARO BARILE, MA QUANTO MI COSTI

In pochi mesi il prezzo del barile di petrolio (unità di misura pari a 159 litri) è schizzato da 70 dollari a 135 (nel momento in cui scriviamo). E ce ne accorgiamo subito quando andiamo a fare il pieno di carburante. Ma l’aumento incide su tutti i trasporti e quindi sui generi trasportati. Il prezzo del barile trascina quindi con sé il costo di tutto quello che consumiamo nel quotidiano.
Ma si tratta del prezzo reale del greggio? Quali sono i meccanismi che hanno portato a questa crescita improvvisa? Ce lo spiega Xavier Harel, giornalista esperto in questioni petrolifere e africane.

«L’aumento del costo del petrolio è il risultato di una domanda che cresce molto rapidamente da parte dei paesi emergenti, soprattutto Cina e India, ma anche Medio Oriente e paesi del Golfo. Crescita combinata con una produzione che ha difficoltà a seguire. Questo crea una forte tensione tra la domanda e l’offerta su tutta la filiera petrolifera.
Ci sono 1,4 miliardi di cinesi con 16 automobili ogni 1.000 abitanti (quando negli Usa si parla di 812 e in Italia di 588). Ma il loro livello di vita è in aumento, si compreranno la macchina e inizieranno a consumare carburante. Quando si parla del 20% della popolazione mondiale, l’impatto sul consumo di petrolio è considerevole.
Alla fine degli anni ‘90 i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) avevano una capacità di produzione non utilizzata dell’ordine di 10-12 milioni di barili al giorno. Questo vuol dire avere impianti pronti e funzionanti che aprendo un po’ di più il rubinetto potevano aggiungere sul mercato queste quantità. Oggi se gli stessi paesi decidono di aprire si aggiungono solo 2-3 milioni di barili al giorno. Si dice che il mercato è in “fuga”.

Secondo problema: le grandi compagnie petrolifere private producono solo il 15% del greggio e i paesi produttori non hanno necessariamente voglia di investire nella produzione.
Recentemente c’è stata una dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdoullah il quale non vuole mettere in produzione nuovi giacimenti, perché li vuole conservare per le generazioni future.
La domanda mondiale è di circa 87 milioni di barili al giorno, e l’Arabia (che ha le più grandi riserve del mondo) ne produce 11 milioni e non vuole mettee di supplementari. Subito dopo viene la Russia, con quasi 9 milioni, ma la sua produzione sta diminuendo. Poi il Messico che è un grande esportatore, ma la sua produzione diminuisce molto rapidamente. In Venezuela la produzione stagna.
Per i più grossi produttori, i grandi giacimenti stanno andando verso l’esaurimento e la diminuzione di produzione è rapida. Questo crea un’inquietudine sul mercato, per i prossimi 2, 3, 5 anni.

Questione di riserve? Non è solo una questione di riserve, ma anche di estrazione. Si sta cercando del petrolio “non convenzionale”, come le sabbie bituminose (Canada) e petrolio extra pesante (Venezuela). L’estrazione è estremamente cara, ma oggi è diventata redditizia.
Se si considerano le riserve del petrolio extra pesante il maggior produttore al mondo diventa il Venezuela.
I giacimenti sono colossali. Ma la questione è metterli in produzione. E i paesi ricchi di petrolio non convenzionale decidono di gestire loro le proprie ricchezze. Ad esempio il Venezuela non investe massicciamente nell’estrazione ma preferisce tenere il petrolio per il futuro.

C’è anche della speculazione che è la punta dell’iceberg. Il petrolio viene venduto in anticipo. Gli industriali acquistano i diritti di avere petrolio a 5 anni (ma anche a tre mesi). Il padrone di una raffineria ha bisogno di essere sicuro che gli consegneranno petrolio in modo continuo, per poter produrre la benzina. Quindi acquista sul mercato un diritto che garantisce che in un mese gli daranno del petrolio a 130 dollari. Ma può anche acquistare un diritto a 5 anni. Oggi si sta vendendo il petrolio del 2016. In questo caso c’è speculazione nel senso che esistono fondi di investimento che fanno delle scom­messe, ma alla fine si arriva a un contratto d’acquisto di petrolio fisico.
La speculazione può funzionare un momento, può amplificare il prezzo. Ma se il petrolio è così caro oggi è perché c’è un vero problema».

(a cura di Marco Bello)

PAESI (SUB SAHARIANI) PRODUTTORI

Quattordici paesi produttori di cui 10 esportatori. Ecco i principali.

Nigeria – Capacità di produzione media 2,5-2,6 milioni di barili al giorno nel 2005, primo produttore africano sesto esportatore mondiale. È  sceso a 1,8 milioni di barili al giorno nel 2006 a causa delle violenze nel delta (vedi MC febbraio 2007). Il 98% delle sue entrate sono dovute al petrolio. Più della metà è prodotto da Shell. Il petrolio del delta del fiume Niger è di ottima
qualità.

Angola – Produzione media circa 2 milioni di barili al giorno. La metà è estratto dalla Cina. Sta vivendo un vero boom economico con crescite del Pil intorno al 20%. Ma i soldi vanno in infrastrutture e nelle tasche di pochissimi. La gente è sempre più povera.

Guinea Equatoriale – Produzione si avvicina ai 400.000 barili al giorno, in forte crescita negli ultimi anni. Sfruttamento totale da parte di compagnie statunitensi, ma ora stanno entrando i cinesi. La famiglia del presidente Teodoro Obiang Nguema gestisce tutta la ricchezza del petrolio.

Sudan – Verso i 500.000 barili al giorno. Primo fornitore della Cina.

Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) – 260.000 barili al giorno. Nuovi giacimenti di petrolio «non convenzionale» del tipo sabbie bituminose scoperti da Eni (2008) che ne ottiene la concessione.

Gabon – Produzione di circa 250.000 barili al giorno. La produzione in decrescita per esaurimento riserve. Primo paese sfruttato in Africa dalla fine degli anni ’50.

Camerun – Produzione di circa 63.000 barili, in stallo e verso la diminuzione.

Costa d’Avorio – Produzione di 50.000 barili al giorno va verso i 100.000 e le rendite del petrolio hanno già superato quelle di cacao e caffè. Sfruttata da compagnie statunitensi, nell’assenza di trasparenza totale.

Ciad – Produzione di 160.000 barili al giorno.

Mauritania – Giacimenti in via di sfruttamento.

Sao Tomé e principe – Scoperti giacimenti, subito sopo il colpo di stato (2003). Non ancora sfruttati.

Senegal – Riserve provate.

Niger – Giacimento trovato nel 2005.

Uganda – Giacimento trovato.

Praticamente in tutti i paesi africani si stanno facendo ricerche di greggio.

Qualche dato su cui riflettere

Consumi

Domanda mondiale
di petrolio
87 milioni
di barili al giorno

Consumo medio
giornaliero Usa
(il più alto del mondo)
 20 milioni
di barili, in crescita

Consumo medio
giornaliero Cina 
circa 17 milioni,
è in forte crescita

Produttori

Arabia Saudita è il primo produttore mondiale
(petrolio convenzionale)
11 milioni
di barili pompati ogni giorno

La Russia è il secondo con
9 milioni
di barili

L’Africa produce oggi circa
9,9 milioni
di barili al giorno
 (di cui 4,7 in Africa Occidentale,
Elevabile a 6 milioni
al giorno con
investimenti adeguati)

Le riserve provate dell’Africa sono
da 80 a 100 miliardi
di barili
(10% delle riserve
mondiali),
ma molto resta da scoprire

Marco Bello




Quelle donne dell’8 maggio

Buenos Aires / Visita ad un quartiere in cerca di riscatto

L’8 de Mayo è un barrio costruito su un’enorme discarica alla periferia di Buenos Aires. La gente vive sui rifiuti e spesso vive dei rifiuti. Ma i residenti hanno saputo organizzarsi, costituendo una comunità combattiva ed orgogliosa. Anima, mente e braccia del «Progetto comunitario 8 di Maggio» sono donne. Come Lorena, Nora, Monica, Andrea … Tante mujeres per una grande lezione di dignità. Ecco i loro racconti.

Al Centro comunitario del barrio «8 de Mayo» è arrivato l’Hospital móvil del comune. L’ospedale mobile è un camion attrezzato con due ambulatori medici. Un vero lusso, che risalta ancora di più quando, sulla strada sterrata e fangosa, passa un carretto trainato da un cavallo.
«Buenos dias». «Hola!». In attesa di salire la scaletta che porta all’ambulatorio ci sono soprattutto mamme,  alcune con il pancione, altre con i bambini accanto. Per i piccoli il camion è una vera e propria attrazione: tenerli fermi un attimo per la visita medica, è un’impresa.
Con l’ospedale mobile si cercano di affrontare le necessità sanitarie di base della popolazione dei quartieri più poveri. L’8 di Maggio è uno di questi. Anzi, è un barrio che, oltre ai problemi consueti degli insediamenti cosiddetti informali (mancanza di acqua corrente, fognature, elettricità, strade), ne ha un altro, molto pesante: è cresciuto infatti su una discarica e quasi non bastasse, oltre a questa tara genetica, sorge nelle vicinanze del Ceamse, una megadiscarica pubblica (riquadro a pagina 58). In siffatte condizioni, è chiaro che per i suoi abitanti i problemi di ordine sanitario sono numerosi e svariati.
Mentre sull’ospedale mobile le visite proseguono spedite, nel Centro comunitario un giovane medico ed alcune infermiere attendono altri pazienti. Il medico ci racconta che lui visita soprattutto gente con problemi di carattere dermatologico (dermatiti, infezioni della pelle, ecc.).
La struttura del Centro comunitario è la realizzazione più concreta ed utile di cui la comunità è riuscita a dotarsi. Il merito è dell’associazione Proyecto comunitario “8 de Mayo”, che per le sue attività ha trovato l’appoggio di Icei, una Organizzazione non governativa italiana (1).
Per «benedire» l’esistenza del Centro, basterebbe la presenza, al suo interno, del comedor popular che ogni giorno serve un pasto adeguato a più di 200 bambini del barrio. Un numero importante.
Oggi il barrio 8 de Mayo ospita 1.500 famiglie, circa 5.000 persone, con un’alta percentuale di pibes (bambini). Tuttavia, sono molte di più – si parla di 12.000 – le famiglie che, in questa immensa periferia della Gran Buenos Aires, stanno occupando terre inquinate.
Per sapere di più del barrio e dei suoi problemi, lasciamo il Centro per un’abitazione vicina, dove ci attendono alcuni leaders della associazione «8 de Mayo».

Nora, mamma da record 

Uno di questi è Nora, donna molto impegnata nella comunità ma conosciuta anche per un’altra sua caratteristica. 
«Ho 7 figli che mi regalò Dio», esordisce seria. Sette figli sono tanti, però non sono un evento eccezionale da queste parti. Lo sono tuttavia per Nora, perché lei non è la madre biologica di alcuno di essi: tutti e 7 sono suoi figli adottivi. Non sappiamo se è un record, ma certamente è una cosa fuori del comune.
Racconta: «Io non avevo né bambini né una famiglia. Un giorno incontrai Cesar, un uomo che aveva bisogno di una persona per stare dietro ai suoi figli, che andavano in strada ed erano abbandonati. Cesar divenne mio marito ed io mamma di 7 bambini, un regalo di Dio». Nora e Cesar sono insieme da 4 anni.
«Adesso ho una famiglia piuttosto numerosa, ma mi sento bene perché vedo che i bambini stanno bene. È migliorato il loro rendimento scolastico e in generale la loro vita». Il più grande ha 19 anni, la più piccola 8.
Come la maggioranza della gente del barrio, anche Nora non ha un lavoro stabile. Attualmente lavora per il Centro comunitario e per il programma Pro niño. E Cesar, chiediamo?
«Mio marito non lavora da 2 mesi. Per fortuna, c’è il Centro che provvede al sostentamento della famiglia».
Come tutti gli abitanti dell’8 di Maggio, Nora e Cesar vivono in una abitazione costruita sopra una discarica (basurero) e vicino alla discarica pubblica del Ceamse. «Il problema principale è la contaminazione della terra, dell’acqua, dell’aria. I bambini si ammalano».
Alla discarica pubblica, soprannominata «la quema», lavorano molti degli abitanti del barrio. Un lavoro non gradevole, ma tuttavia fondamentale per la sopravvivenza di molte famiglie.
«Mio figlio più grande – racconta Nora – lavorava alla quema. Ma si ammalava spesso e noi dovevamo spendere in medicamenti, quindi ha smesso. In ogni caso, abbiamo pensato che noi avevamo la responsabilità di mantenerli».
E lo stato che fa? «Si preoccupa di chi non ha mezzi soltanto quando ha bisogno del voto. Per i bambini il futuro che spero è che possano studiare, che non debbano soffrire ciò che noi abbiamo sofferto».
Il marito di Nora, Cesar, ha ascoltato con attenzione l’intervista alla moglie. Indossa un cappellino ed una tuta. Ha un’aria pacifica e parla sottovoce. È lui che a Nora ha portato in dote ben 7 figli. «Sì – ammette -, Nora è una gran signora».
«Il governo pensa che con 400 -600 pesos una famiglia possa vivere, ma ovviamente non è così. Nessun governo e nessun politico pensa alla gente. Il mio pensiero è sempre stato comunista. Soltanto un governo comunista serve, nonostante quanto si dica sul comunismo».
Cesar è stato uno dei fondatori del quartiere… «La prima cosa fu la presa di possesso dei terreni. Era l’8 di maggio, da qui il nome del barrio. Ci fermammo giorno e notte. E cominciammo a segnare i terreni».
Le occupazioni sono illegali ma è difficile che qualcuno – pubblico o privato – reclami dei terreni contaminati.
«Questo barrio – conclude Cesar – funziona bene, ma io vorrei che tutte le villas miserias sparissero».

Monica e Andrea 

Monica è timida. Lunghissimi capelli neri, corporatura robusta. Il viso è giovane, gli occhi un po’ tristi.
Ha 5 figli, ma come tutti non ha un lavoro sicuro. «Lavoro nel comedor dell’8 di Maggio. E vado alla quema, dove raccolgo alluminio, cobre, cartone, giornali. Tutto ciò che si può vendere, insomma. La gente va alla quema perché non ha lavoro e ha molti figli da mantenere».
Domandiamo a Monica del lavoro alla discarica. «Usciamo di casa verso le 3.30 o le 4 del pomeriggio, raggiungiamo l’entrata del Ceamse e lì aspettiamo di entrare. C’è un ponte dove si raccoglie tutta la gente (molta) che spera di arrivare per prima. Aspettano fino a che la polizia non dice che si può entrare. Abbiamo un’ora di tempo».
Andrea invece non ha ancora famiglia. È giovane e molto carina. Non abita all’8 di Maggio, ma qui trascorre la maggior parte del suo tempo.
«Lavoro con piccoli e adolescenti dell’8 de Mayo. Ho cominciato con i più piccoli con il tema del gioco. Ci capivamo bene. Un giorno sono passata ai giovani con cui mi trovo altrettanto bene».
Per vivere Andrea lavora in un centro culturale, ma la sua esistenza è scandita dal tempo che trascorre tra i giovani del barrio.
«Non è un lavoro né un’attività di volontariato, è una forma di vita. Lavoro giocando, ma non è un gioco: è il tentativo di cambiare una realtà».
Andrea, come descriveresti questo luogo? «Un posto è le persone che lo abitano. La mia vita ha un senso per merito di questo luogo e di questa gente, anzi di questi amici».
Due dei giovani dell’8 di Maggio sono qui. Damian e Isaias alla quema lavorano già da anni. Ti spiazzano perché dicono di essere felici di lavorarvi. Poi capisci che, a quell’età, è facile giudicare in modo inadeguato i fatti della vita.
Damian cominciò a lavorare alla quema all’età di 12 anni. Oggi ne ha 17. Ha la spensieratezza della sua età come confermano le sue risposte.
Gli domandiamo cosa provi a lavorare alla discarica. «Per me non significa nulla lavorare lì – risponde con fare apparentemente sicuro -. A me piace perché nessuno ti dice nulla. Non hai orario. Se vuoi vai, altrimenti no. E poi non è un lavoro duro. E si guadagna bene: 150-200 pesos alla settimana lavorando un’ora al giorno».
Insomma, a sentire Damian lavorare nella discarica è un lavoro come un altro, anzi migliore. Non si discostano molto le risposte dell’amico. Maglietta di una squadra di calcio, capelli corti, un orecchino al lobo sinistro, Isaias ha 15 anni e da 3 lavora alla quema.
«Sì, è un lavoro duro però mi piace. Lavoro dalle 5 alle 6 del pomeriggio. Partiamo da qui alle 4 e torniamo alle 7. Io raccolgo soprattutto cartone e metalli. E altre cose da vendere. Guadagno dai 10 ai 20 pesos al giorno».
Monica, Damian e Isaias sono alcune di quelle mille persone che ogni giorno si recano alla quema per trovare nei rifiuti la loro sopravvivenza.

Lorena, la mente (politica) 

Lorena Pastoriza è la padrona di casa, ma soprattutto è la leader riconosciuta della comunità cresciuta attorno all’«8 di Maggio». La sua casa dista poche decine di metri dal Centro comunitario.
Quella di Lorena è un’abitazione privilegiata dato che è in muratura. È composta da una grande stanza, sommariamente arredata con un fornello, un tavolo, un divano e l’immancabile televisione; accanto c’è un’altra stanza, un piccolo bagno e un soppalco.
La padrona di casa si accomoda sul divano, si versa un mate, si accende una sigaretta e tranquilla volge lo sguardo verso la telecamera. Lorena, avete invaso e preso possesso di una  terra che non era proprio un giardino verde e profumato. Tutt’altro… «Sì, viviamo sopra una discarica e ne abbiamo un’altra di fronte». Lorena anticipa la nostra obiezione. «Non abbiamo scelto noi di venire qui – ci spiega – . È stata una necessità. Dopo anni di impoverimento generalizzato, dopo aver lasciato un paese senza cultura e senza educazione, uno dei tanti problemi fu quello della casa. A causa di ciò migliaia di persone occuparono terre incolte e discariche. L’8 di Maggio fu il primo, ma poi altri ne crebbero: adesso ci sono 8 barrios consecutivi nati da un’occupazione».

La basura, morte e vita 

«Il problema è grande – ammette sconsolata Lorena -. Quotidianamente noi tutti, e soprattutto i nostri bimbi, soffriamo di scabbia, diarree con sangue, infezioni della pelle, impetigine. Ma queste sono soltanto le malattie visibili. Poi ci sono le altre, più subdole: piombo nel sangue, leucemie, cancro. Però è molto difficile denunciare questa contaminazione perché è un problema invisibile. Di più, non abbiamo acqua potabile, c’è una luce precaria, non c’è un sistema fognario… E non c’è alcuno che ascolta i nostri reclami. Non è una cosa incredibile in un paese che parla tanto di diritti umani?».
Eppure, la basura, l’immondizia, è allo stesso tempo tesi ed antitesi. Sui rifiuti gli abitanti di questi barrios abitano e si ammalano, ma allo stesso tempo con essi sopravvivono. Una sorta di némesi.
«La basura condiziona la nostra esistenza, perché viviamo di essa. Non è un problema soltanto dell’8 di Maggio, ma di tutto il paese. Dopo la crisi del 2001, sempre più famiglie hanno trovato nella spazzatura una anzi l’unica forma di sussistenza».
Lorena si riferisce al fenomeno dei cartoneros un fatto incredibile in un paese che era considerato il granaio del mondo. Ma c’è di più… «Da un lato – spiega -, abbiamo molti compagni che vanno in capitale a cercare cibo avanzato nei sacchi della spazzatura della gente che là abita: ciò che loro buttano a noi serve per sopravvivere. Dall’altro, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo: molti vanno alla discarica pubblica, quella che noi chiamiamo la quema. La gente ci va quotidianamente per cercare non soltanto cibo, ma anche carta, naylon, cartoni, elettrodomestici e qualsiasi cosa che possano vendere. Ci vanno donne, giovani, anche bimbi: è un lavoro di tutta la famiglia».
Insomma, l’alternativa è tra essere cartonero o quemero. Con la sostanza che non cambia: si tratta sempre di affondare le mani nella spazzatura, negli avanzi, negli scarti.
«Per questo ci siamo organizzati tra noi: per far capire che ci sono persone che decidono le nostre condizioni di vita. Questa è la cosa più angosciante. E per questo lottiamo: per cambiare alcune di queste situazioni». Lorena non crede al caso, ma analizza le cause che determinano gli eventi. «La nostra vita è legata a decisioni prese da altri che ci capitano sulla testa. Come quando dobbiamo andare a lavorare a 14-15 anni, senza poter vivere l’adolescenza e la gioventù: questo non può che produrre tristezza e risentimento in qualsiasi persona».
Lorena non reclama privilegi, ma soltanto pari opportunità, almeno per i figli. «Perché i nostri partono già svantaggiati: non hanno preparazione e istruzione per poter avere un lavoro degno». Ed aggiunge con una punta di amaro sarcasmo: «Possono al  massimo aspirare ad essere cartoneros professionisti o essere premiati come il miglior ciruja dell’anno (3)».
È un circolo vizioso da cui è difficile uscire. «Oggi i nostri figli non possono andare alla scuola obbligatoria (non dico all’università) perché magari non hanno un paio di scarpe. Ma se lo stato non riesce a garantire neppure il minimo, allora milioni di bambini partono già svantaggiati e probabilmente i pochi che hanno tutto domani saranno i loro padroni e li sfrutteranno o li faranno lavorare in pessime condizioni. Così il cerchio è completo».
Eppure, nonostante la triste realtà, i sogni di Lorena e delle donne dell’8 di Maggio resistono. «Sappiamo che è molto difficile, ma non vogliamo continuare a mangiare basura. Ciò che sogno per i nostri figli è che possano essere uomini e donne felici e che possano avere un progetto per il futuro. Che abbiano un buon lavoro. Insomma, nulla di particolare, ma il minimo per una vita degna. Oggi noi non l’abbiamo, perché, per sopravvivere, dobbiamo rimestare nella spazzatura».

E alla fine, rimasero
soltanto i poveri 

«Mi ricordo una bella canzone che dice: “Son los sueños los que todavía tiran de la gente” (sono i sogni quelli che ancora spronano la gente). Mi viene in mente quando sono pessimista che abbiamo un sogno che ci accumuna e ci sospinge. Non so se sarà possibile per noi vedere il cambio, ma credo che il nostro sogno lo vedranno i nostri figli. Per questo lottiamo. Per questo portiamo avanti la nostra mensa comunitaria: affinché i nostri figli abbiano garantito un piatto caldo tutte le sere. Per questo pensiamo ad un progetto di sradicamento del lavoro infantile, per dare ai nostri bambini la possibilità di frequentare la scuola, come tutti i bambini dovrebbero fare. Dobbiamo lottare per rompere queste barriere che ci vengono imposte tutti i giorni e che ci impediscono di progredire». Lorena parla con passione e trattiene a stento le lacrime.
«Tra i poveri come noi c’è solidarietà, ma non possiamo fare affidamento sullo stato, che preferisce fare o politiche estemporanee o politiche assistenzialiste per i poveri, considerati strumenti per guadagnare voti. Non si pensa mai ad una politica pubblica per cambiare le cose».
Chiediamo a Lorena di tornare agli anni più duri, quelli immediatamente successivi al crollo del 2001, per capire come si manifestò la solidarietà con gli argentini della classe media, anch’essi colpiti dalla crisi. La risposta è dura: «La nostra lotta iniziò nel 1997 con le associazioni dei piqueteros, seguiti da asentados (4), contadini, indigeni, etc.; tutti movimenti per i quali la soluzione era una lotta non individuale ma collettiva. Arrivò il 2001, quando la gente più povera fu costretta ad uscire per le strade non soltanto a fare “piquete”, ma a saccheggiare i negozi. Allora la classe media ci disse che la nostra lotta era la loro lotta. Mi ricordo la canzone che andava di moda: “Piquete y cacerola la lucha es una sola”. Alla fine però loro si accordarono. Così, terminata la fase acuta della crisi, la classe media toò nelle proprie case e toò a vederci come negri. E noi – il povero, il piquetero, l’asentado e tutti coloro che hanno i diritti violati – rimanemmo soli». Lorena chiude il discorso con aggettivi molto duri nei confronti della classe media. Potere del disincanto e della delusione.
La leader dell’8 di Maggio è severa anche con i Kirchner e con il peronismo in generale. «I peronisti hanno la capacità di farsi camaleonti. Quando sai che viene il lupo ti prepari per combatterlo, ma quando il lupo viene travestito da agnello, che fai? Continuiamo con le stesse politiche, continuiamo a ricevere gli stessi 150 pesos al mese come sussidio sociale per il capo famiglia che non ha lavoro, ma che può avere 4-5-6 figli. Peccato che la canasta basica (il reddito minimo di sopravvivenza) per una famiglia con uno o massimo due figli sia di 950 pesos. Insomma, i successi macroeconomici di Kirchner non hanno evitato che noi si debba andare alla quema per vivere e mangiare».

Queste donne

Lorena Pastoriza ha trasmesso ai suoi due figli, Facundo ed Elias, non soltanto il proprio sorriso ma anche la propria voglia di resistere e combattere per cambiare lo status quo. Una giovane donna che, pur avendo proprie ed enormi difficoltà, non ha esitato ad adottare Maria, una bambina bellissima ma sola al mondo.
Lorena, gentile, ma determinata, anzi testarda. Non si è tirata indietro durante le violente proteste del 2001, né nei conflitti con la polizia, né quando (di recente) si è trattato di occupare il locale municipio.
Lorena, Nora, Monica, Andrea: forti, queste donne dell’«8 de Mayo».

di Paolo Moiola

Esperienza- Nella discarica del Ceamse

UN GIORNO DA «QUEMEROS»
(con Alejandro, Elias, Isaias, Graziela)

Alejandro, Elias, Isaias, Graziela sono ragazzi dell’8 de Mayo. Due di loro, neppure sedicenni, vanno regolarmente a lavorare alla discarica, conosciuta come la quema. Oggi anche noi li seguiremo. I ragazzi ci foiscono di qualche indumento logoro e di un sacco di juta per la raccolta. Dobbiamo sembrare dei perfetti quemeros.
Ci incamminiamo a piedi dalla casa di Lorena. La discarica del l’azienda pubblica Ceamse (1) sta oltre l’autostrada. Si cammina per una mezz’ora fino a raggiungere un grande prato, luogo di ritrovo e di partenza. Prima del ponte che fa da confine con l’area del basurero, è schierato un cordone di polizia. Ad attendere davanti ai poliziotti che precludono l’entrata, sono già in molti, tutti muniti di sacchi e contenitori, alcuni con carretti, in parecchi con le biciclette. Mentre attendono l’ora convenuta, molti giovani si preparano aspirando colla (droga dei poveri) da buste di plastica o carta.
Finalmente scocca l’ora: il cordone si apre e la gente in attesa scatta. Le biciclette si lanciano come per la partenza di una gara. A pensarci bene, è una gara: prima si arriva alla discarica, meglio ci si serve.
Si cammina per un bel tratto, su una strada sterrata percorsa da camion del Ceamse, in mezzo a campi incolti e colline artificiali. Ecco, un bivio: da una parte si va alla discarica dove ci sono soprattutto rifiuti alimentari, dall’altra dove i rifiuti sono indistinti. Noi scegliamo questa seconda destinazione.
Ecco la meta. Ecco la spazzatura. È una distesa impressionante sulla quale le persone si disperdono. Nuovi del mestiere, seguiamo i nostri accompagnatori. Saliamo sui rifiuti. Si sprofonda un po’, ma per fortuna neppure troppo, perché i rifiuti più vecchi sono stati compressi. L’odore è forte, ma non c’è tempo per pensare perché occorre sfruttare ogni minuto. Occhi esperti individuano la plastica, il metallo, l’oggetto o il cibo. Insomma, tutto quanto possa essere venduto, riutilizzato o mangiato. La gente lavora in silenzio, sotto gli occhi della polizia che però si mantiene a relativa distanza, vicino alle ruspe ferme dell’impresa.
L’ora a disposizione dei quemeros è terminata. Bisogna andarsene. Si fà il percorso a ritroso. I quemeros escono carichi del frutto del loro lavoro. Poco oltre il ponte che segna il confine della discarica, c’è un casolare dove si può già vendere qualcosa. Ci sono le bilance per pesare i prodotti. Alcuni hanno trovato di più. Altri di meno. Tutti toeranno domani, stessa ora, stesso luogo.
Un’esperienza inusuale? Per due giornalisti «occidentali» (2) forse, ma tanto normale da essere quotidiana per milioni di persone in giro per il mondo. Facile capire i pensieri che si affollano nella testa: da una parte, c’è un mondo che consuma (troppo) e getta via (di nuovo, troppo); dall’altra, c’è un mondo (maggioritario) che vive o sopravvive degli scarti altrui.

Paolo Moiola

(1) Sul Ceamse – Coordinación Ecológica Area Metropolitana Sociedad del Estado – si veda: www.ceamse.org.gov.ar.
(2) Il redattore e il fotografo Davide Casali.

Buenos Aires/ I cartoneros, il «tren blanco» e Maurizio Macri

«LADRI» DI SPAZZATURA

Da alcuni anni l’Argentina è in lenta convalescenza, come dimostrano gli alti indici di crescita economica. Ma l´uscita dalla malattia è lungi dall´essere compiuta e una ricaduta è sempre dietro l’angolo.
Per capirlo basta uscire la sera e vedere quanti sono i cartoneros (1) che, con destrezza ed efficienza, frugano nei sacchetti e nei bidoni della spazzatura, raccogliendo quanto può servire a guadagnare qualche pesos: i cartoni e la carta (da qui, appunto, il nome di cartoneros), vetro e lattine, plastica, ferro, senza dimenticare gli avanzi di cibo utili per riempire la pancia.
I cartoneros vanno in giro in gruppi di 3-4 persone, spesso della stessa famiglia: la donna o l’uomo o entrambi con i figli. Per il loro lavoro si aiutano con carrelli dei supermercati o con carretti a 2 ruote, a volte trainati da un cavallo. Durante la notte, prima dell’arrivo dei camion della spazzatura, percorrono tutti i quartieri bene o della classe media di Buenos Aires (e delle maggiori città argentine), anche le zone centrali, dove stanno la Casa Rosada, il Congresso, l’obelisco, le vie dello shopping. Fanno il loro lavoro con dignità, senza curarsi degli sguardi di chi non è abituato a queste scene o di chi non vuole ammettere che c’è un’Argentina che, ogni giorno, per sopravvivere deve affondare le mani nei rifiuti.
I cartoneros non soltanto non fanno danni, ma svolgono addirittura una meritoria opera sociale dato che con la loro raccolta recuperano e riciclano una parte consistente dei rifiuti urbani, riducendo il conferimento alle discariche o agli inceneritori (2). Non tutti però sono d’accordo. Nei quartieri più ricchi o più turistici (Recoleta, Palermo, ecc.), una parte dei residenti non sopportano la presenza di queste persone nelle strade, anche perché, nello svolgere il loro lavoro, i cartoneros rompono i sacchetti delle immondizie e insudiciano il selciato…
Ma il nemico numero uno è il nuovo sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, leader emergente della destra menemista, soprannominato il «Berlusconi argentino». Da tempo Macri parla di togliere i cartoneros dalla strada («Los vamos a sacar de la calle»), di incarcerarli («meter presos») perché rubano la spazzatura («se roban la basura»).
Così, a fine 2007, è stato soppresso il cosiddetto Tren blanco, treno che i cartoneros utilizzavano in gran numero per arrivare in città dalle periferie e per tornare a casa nella notte con il loro carico di rifiuti recuperati. Ci sono state proteste, occupazioni di strade e piazze. Ma il sindaco continua per la sua strada, sicuro dell’appoggio della popolazione più benestante e degli operatori turistici.
Nel frattempo, come in ogni paese, qualche impresario argentino ha fiutato il business del riciclo dei rifiuti. Insomma, anche sulle briciole strappate dalle mani dei cartoneros si può fare profitto.

Paolo Moiola

Note:
(1)  Le cifre parlano di 20.000- 40.000 cartoneros nella sola Buenos Aires. Il massimo si ebbe nel 2001, il periodo più acuto della crisi argentina.
(2)  Nel marzo 2008 a Bogotà, in Colombia, si è tenuto un convegno dei «recicladores» del mondo. Si legga il settimanale Carta del 14 marzo 2008.

Paolo Moiola




Piccola luce, grande speranza

Pasqua a Rumuruti, tra le vittime delle tensioni etniche e politiche

Da villaggio di frontiera, Rumuruti è cresciuto a dismisura per l’immigrazione di molte etnie del Kenya; una scintilla ha fatto esplodere le tensioni tra le due opposte culture di pastori e agricoltori, provocando una reazione a catena di distruzione e morte. I missionari hanno accolto gli sfollati e provveduto all’emergenza; ora si stanno attivando per ricostruire soprattutto il tessuto sociale, più difficile
delle ricostruzioni materiali.

Q uest’anno, Pasqua del Signore 2008, ho cambiato: ho lasciato l’ambiente familiare del santuario della Consolata in Nairobi per la missione di Rumuruti. Sono solo 232 km di strada, tutto asfalto, ma è passare da un mondo all’altro, dall’altopiano alla bassa pianura, dalla città alla frontiera. E là dove l’asfalto finisce è Rumuruti.
Scendendo da Nyahururu, a 2.366 metri slm, dopo 35 km ci si affaccia sulla piana di Rumuruti (1.845 m. slm). Il luccichio delle lastre zincate rivela la presenza del grosso villaggio, che ha le sue radici nei tempi dei coloni inglesi, che ne avevano fatto un punto di riferimento per le loro grandi aziende.
FRONTIERA ESPLOSIVA
Fino al 1990 Rumuruti era una manciata di case allineate lungo la strada, con la prigione come attività produttiva principale, e qualche negozio al servizio dei contadini e pastori di quella vasta area semi-arida; oggi è un villaggio cresciuto a dismisura per la continua immigrazione di gente di tutte le etnie: kikuyu, attirati dalle vaste fattorie dei coloni, lottizzate e messe in vendita a prezzi accessibili; turkana scappati da Baragoi (nel distretto Samburu) a causa degli scontri con i samburu; kalenjin (tugen e altri) in cerca di nuovi pascoli dal Baringo; samburu in fuga dalla siccità e dagli scontri con pokot e turkana.
Questa immigrazione di migliaia di persone ha certamente rotto gli equilibri di un tempo, in una zona che era principalmente di passaggio e per gran parte aperta alla pastorizia stagionale. Rumuruti era un villaggio di frontiera, cuscinetto tra varie etnie, terreno aperto e/o ripulito da presenze stabili e prolungate, a causa dei tanti ranch di migliaia di ettari dei grossi proprietari dediti soprattutto all’allevamento.
Dopo l’indipendenza, i coloni, a maggioranza di origine sudafricana, pensarono bene di andarsene, perché il loro modo di trattare i lavoratori locali non li aveva resi amabili. Andandosene, vendettero le loro farms ai migliori acquirenti. Alcune andarono nelle mani di altri grossi proprietari neri e bianchi (come la farm della famosa italiana Kuki Gallmann, o la farm-eden del Colchecchio di un altro italiano), altre furono vendute a gente comune, suddivise in piccoli appezzamenti, non sufficienti a produrre abbastanza per sfamare la famiglia. Altre furono vendute da truffatori a ignari contadini, che si son ritrovati con titoli di proprietà falsi in mano.
Una situazione esplosiva, aggravata dal fatto che spesso due vicini provengono da due culture diverse: l’agricoltore e il pastore. L’agricoltore tiene le sue due vaccherelle di razza nella stalla e cerca di coltivare al massimo i suoi pochi ettari di terra. Il pastore se non ha almeno cento vacche, senza contare le capre, non si sente realizzato. Ma cento vacche non possono vivere in un terreno sufficiente per due. Allora le vacche del pastore trasbordano e invadono il campicello del vicino agricoltore, divorando fino alle radici mais, cavoli, patate e tutto quello che vi è piantato…
Poi ci sono i vicini impoveriti: non sono più pastori, perché hanno perso il bestiame quando son dovuti scappare dalle loro aree originarie; non sono ancora agricoltori, perché non hanno mai avuto la possibilità di imparare. Allora vivono di lavori precari, giornalieri. Ma quando è secco, e può essere secco per lunghi mesi ogni anno, lavoro non se ne trova. Ecco allora che la via più semplice per sopravvivere è quella di rubacchiare.
RIFUGIATI NELLA MISSIONE
Lo scorso marzo, il 6 per l’esattezza, uno di questi poveracci è stato pescato a rubare capre in un villaggio a poco più di 10 km da Rumuruti. La gente del villaggio, esasperata dai continui rubalizi, ha fatto quello che purtroppo succede molte volte in Kenya, quando essa si sente abbandonata dall’apparato di sicurezza dello stato: ha linciato il malcapitato a sassate. La reazione degli amici del morto non si è fatta attendere: aizzati (e finanziati) da un altro gruppo di pastori, con connessioni politiche più potenti, si son scagliati sul villaggio uccidendo e bruciando.
Questo ha innescato una reazione a catena senza precedenti in un’area pur avvezza a tensioni e scontri. Risultato: in pochi giorni più di 20 morti, tra cui donne e bambini, case bruciate, scuole chiuse, gente in fuga, soprattutto tra i contadini, negozi chiusi, mercato del bestiame rimandato a tempi migliori.
Rifugiata in un primo tempo nei posti di polizia o nelle scuole, la gente, soprattutto donne e bambini, ha optato per la sicurezza della missione cattolica di Rumuruti, mentre la maggioranza degli uomini ha trovato sistemazione precaria tra la gente della stessa tribù alla periferia del villaggio. La missione ha aperto le porte a quelli che sono eufemisticamente chiamati Inteally Displaced People (Idp), gente «spiazzata» all’interno della propria nazione: l’inglese è incredibile a inventare sigle per tutte le situazioni.
I rifugiati interni hanno «occupato» la missione: donne e bambini nel grande salone polivalente; vecchi e ragazzi nelle classi dell’asilo; cucina in un angolo del centro pastorale; magazzino del cibo in una classe delle elementari; bagni: tutti occupati e (in breve) straripanti; acqua, fino a bruciare la pompa del pozzo…
In questa situazione padre Mino Vaccari non ha perso la calma. Chiamati a raccolta il suo viceparroco, padre Juan Puentes, le suore Dimesse, Peter Wambugu, il catechista del centro, gli altri catechisti e la gente del consiglio pastorale, ha in breve messo la missione in condizione di poter accogliere tutti con dignità e senza panico, mantenendo anzi il ritmo delle attività ordinarie soprattutto a pasqua.
NOTTE DI Venerdì santo
In questa situazione sono arrivato bel bello la mattina del venerdì santo, a pochi minuti dalla conclusione della via crucis. Dopo i primi contatti con i padri Mino e Puentes, è subito ora di pranzo. Non me la sento di andare subito in giro e sparare foto alla pazza. Prima vorrei capire dove sono.
A me tocca presiedee la celebrazione della Passione, alle 4 del pomeriggio; loro vanno a celebrare in due delle tante cappelle della vastissima missione (circa 90×60 km). Dopo la celebrazione, con il passio cantato, è subito notte, come al solito qui, prima delle sette è già buio. Dopo la cena faccio un giro con padre Juan nelle zone dormitorio. Nel grande salone alcune donne sono indaffarate a stendere in terra i grandi teloni di politene offerti dalla Croce Rossa, altre tirano fuori coperte dai sacchi ammassati sulle scalinate, solitamente riservate agli spettatori, altre preparano i bambini per la notte…
Entriamo salutando, quasi in punta di piedi. Cerco di cogliere l’atmosfera, scattando un po’ di foto senza flash per non attirare l’attenzione dei bambini, ma la luce è così povera che i risultati sono penosi. Allora sparo un paio di flash e… i bambini tornano in vita: di colpo mi trovo davanti alla lente un sacco di mani ondeggianti, riesco a convincere i piccoli che voglio le loro facce non le loro mani, ma ormai non si può più fotografare sul serio. Metto via la macchiana fotografica, scambio un po’ di saluti, cerco di memorizzare ogni particolare dell’ambiente, e poi buona notte.
Ci muoviamo verso le aule dell’asilo, dove i ragazzi più grandi e gli anziani si stanno preparando per la notte. Qui c’è un sacco di luce. In una classe i ragazzi stanno stendendo i soliti teli di politene; in un’altra stanza, i vecchi hanno già arrangiato il tutto e qualcuno sta già per sdraiarsi. Sulla porta due vegliardi pensosi, appoggiati ai loro bastoni, tristezza sul volto, sguardo distante, forse pensando alla loro casetta perduta, alle vacche rubate, al calore del fuoco scoppiettante nella notte fredda, all’odore familiare del tè che borbotta sul fuoco. Ora, qui, solo la prospettiva di un’altra giornata di tedio, lontano da casa, una notte su un giaciglio duro e freddo, in compagnia di vicini e magari amici, ma non certo la famiglia.
Per i ragazzi nell’aula vicina è invece un altro affare, non consapevoli della tragedia vivono questo momento come un grande gioco. Chiacchieriamo un po’, frateizziamo, ma niente foto. Mi sembra di aggiungere violenza a violenza.
MATTINO DI SABATO SANTO
Sole rosso stamattina, promessa di pioggia. La vita in missione comincia presto. Entro nella chiesa ancora buia, cerco l’interruttore della luce, nell’angolo dietro la porta laterale. C’è qualcosa in quell’angolo, cerco di non calpestarlo. Accendo un neon per me. Tra un salmo e l’altro, mi scappa l’occhio. Il fagotto nell’angolo si muove, due gambe emergono dall’ombra, un bastone… si alza, esce… Allora mi ricordo del vecchio turkana cieco, che ogni mattina è il primo a entrare in chiesa e si rintana là, in quell’angolo, all’ombra del tabeacolo, in silenziosa preghiera.
A colazione ci vediamo con i due missionari. I piani del giorno son presto fatti. Pulizia, distribuzione del cibo, appuntamento settimanale con i ciechi e i poveri, controllo dell’acqua, manutenzione ai bagni che sono a rischio di travasare, preparazione della veglia pasquale, incontro con i 70 che riceveranno il battesimo durante la veglia, connessione del generatore alla chiesa nel caso (normale) che la luce manchi, e tante altre piccole cose ordinarie e straordinarie…
Armato di macchina fotografica comincio a osservare la vita che ricomincia negli spazi sicuri della missione. Mamme e bambini cominciano a emergere dal salone. I vecchi sono seduti su una scalinata per riscaldarsi al primo sole dopo una notte umida e fredda. E non è solo il freddo che li rende mesti, ma è l’incertezza del futuro.
Le mamme sono già indaffarate a lavare i panni e con i panni i loro bambini più piccoli, attente a usare l’acqua con parsimonia. Anche se animata dai colori dei panni che si stanno progressivamente impossessando di ogni siepe, rete e filo della missione, la scena dà tristezza, perché quello che normalmente è gestito in privato, ora è davanti agli occhi di tutti, non essendoci spazi privati per l’igiene personale, senza arrivare al lusso di una doccia.
Bimbi e bimbe più grandi sono sparsi qua e là nel campo da pallone e quello di pallavolo. Un gruppetto gioca in un angolo: una buchetta nella terra e una manciata di sassi, e il tempo passa in allegria. Alcuni maschietti ha messo le mani su un pezzo di fil di ferro. Tutti son concentrati sulle mani del più grandicello che piega e ripiega per dar forma a quelli che dovrebbero essere un paio di occhiali.
Più in là alcune bambine vanno su e giù negli scivoli dell’asilo, mentre altre si ammucchiano su un girello fatto girare a tutta forza. Una bimbetta dalla risata facile è tutta bagnata nel tentativo di aiutare la mamma a lavare i panni. Più in là, un capanello di bambine ha trovato un nuovo gioco: sono indaffarate a rifare le trecce alla loro mamma. In un angolo riparato dal vento, dietro il centro pastorale, è la «cucina» dei rifugiati. La luce radente del mattino esalta il fumo e plasma il vapore delle pentole fumanti, piene di uji (misto di latte e farina) per la colazione mattutina.
Una ragazza in età scolare mescola e rimescola la bollente mistura prima di versarla agli anziani che, lasciato il conforto del sole, attendono, non proprio pazienti, la loro razione. La colazione diventa momento di socializzazione, tanto più che durante il giorno c’è ben poco da fare.
L’uji bollente ridona un po’ di caldo, ma la tristezza rimane. Il pensiero va alle case bruciate o saccheggiate, ai bambini senza scuola e futuro incerto, all’insicurezza generale, al timore dei vicini di etnie diverse.
Come tornare a casa, ricostruire, se sono stati proprio i tuoi vicini a bruciarti la casa e rubarti tutto? I grandi, le autorità fan presto a dire «tornate a casa»; ma quale casa? E chi offrirà la sicurezza necessaria? La polizia? Sì, di giorno si fanno vedere, ma «gli altri» si muovono di notte.
Intanto la gente arriva alla spicciolata, per tutti c’è l’uji bollente, mentre un gruppo di donne e di ragazze (a tuo) stanno già lavorando per il pranzo. Oggi è githeri (mais a fagioli), più cavoli e zucche. Primo passo è la pulizia e selezione del granturco e dei fagioli. I larghi coperchi delle pentole diventano setacci, mani veloci, occhi svelti, concentrazione, tanti sorrisi e poche parole, la selezione va veloce. In poco tempo due grosse pentole borbottano sul fuoco per le tre-quattro ore necessarie alla cottura. La scena ha un suo fascino indicibile: il fumo, il sole, la pula, i colori dei vestiti… provo e riprovo a catturare l’atmosfera grazie alla flessibilità della macchina digitale.
I POVERI DI SEMPRE…
Il sole è ormai alto nel cielo; nella missione si vanno radunando due gruppi diversi, uno di fronte alla chiesa, l’altro nel campo di pallavolo. Davanti alla chiesa ci sono donne e vecchi, ciechi e no, quasi tutti turkana (ben riconoscibili dai loro oamenti), più alcuni samburu o di altri gruppi. L’aspetto tradisce l’estrema povertà. Sembra che in particolare gli immigrati turkana (immigrati perché Rumuruti non era certo la loro area tradizionale, come non lo era delle altre etnie) trascurino i loro vecchi e i loro bambini. Questo gruppo comunque costituisce i poveri di sempre… oggi in competizione con i rifugiati dei cui privilegi (razioni di cibo, distribuzione di coperte e vestiti) vorrebbero poter godere.
Nel campo di pallavolo un grosso gruppo, donne in particolare, si stanno radunando intorno al catechista Peter Wambugu, incaricato di cornordinare l’assistenza ai rifugiati in cooperazione con la Croce Rossa. Sono i rifugiati che hanno cercato protezione nella stazione di polizia o in case di amici e conoscenti a Rumuruti, quasi duemila persone. Oggi è il giorno della razione settimanale, distribuita in collaborazione tra governo e Croce Rossa. Tutti si allineano in ordine per il rituale della registrazione e del controllo dei nomi.
C’è nell’aria mestizia, timidezza e pudore. Gente abituata a essere in totale controllo della propria vita, famiglie relativamente benestanti e contadini che riuscivano comunque a produrre il loro cibo, si trovano ora a mendicare e dover dipendere completamente da altri. C’è uno stridente contrasto tra il catechista che deve urlare i nomi per farsi sentire e il timido sussurro di chi deve registrare la propria indigenza.
Chi è registrato si sposta verso l’aula-deposito, ammassandosi in ogni zona d’ombra, visto che il sole è ormai cocente. Finalmente, con la lentezza di un rito, i sacchi di mais vengono allineati e aperti sui grandi teli di politene. Su un altro telo trova spazio un mucchio di vestiti assortiti. I nomi vengono chiamati; sporte, secchi, sacchi si vanno riempiendo. Le donne che hanno ricevuto la razione per la famiglia preparano l’involto con cura, mentre attendono di accedere al mucchio dei vestiti… Quando non si ha più niente non si può essere schizzinosi.
Mezzogiorno è passato da un pezzo; mi chiamano per il pranzo. La distribuzione continua. A tavola cerco di sapere di più, di capire che ne sarà di questa gente. Padre Mino mi assicura che il nuovo commissario distrettuale è in gamba e ha preso sul serio la questione della sicurezza. È vero, le autorità vogliono che i bambini ritornino a scuola, che le scuole riaprano il martedì dopo pasqua e la gente torni a casa. Probabilmente le scuole che hanno anche il dormitorio per gli alunni potranno riaprire, anche perché in tutte ci sono distaccamenti di soldati e poliziotti.
Ma la gente è esitante a tornare a casa. A quale casa? Per ritornare hanno bisogno di due cose essenziali: sentirsi sicuri ed essere aiutati a ricominciare. In questo momento realizzare il secondo obiettivo sembra più facile che assicurare il primo. Infatti, mentre ci sono amici e organizzazioni che possono aiutare a ricostruire (di questo padre Vaccari non ha dubbio), non basta la presenza delle forze di sicurezza per far sentire la gente tranquilla e soprattutto per ricostruire rapporti umani profondamente lacerati. Per tutta la comunità sarà una grande sfida.
Rumuruti continua a restare terra di «missione» e non solo perché i cattolici sono una minoranza (circa il 10% della popolazione), non solo per la povertà estrema e la natura semi-arida della regione, ma anche perché le ferite causate da anni di violenza richiederanno un lunghissimo paziente servizio di annuncio, guarigione, trasformazione e riconciliazione.
LUCE DI SPERANZA
La sera arriva presto. Alle sette cominciamo la veglia pasquale. Un grande fuoco è acceso nel cortile, attorno moltissima gente. Alcuni dei rifugiati guardano incuriositi da lontano; la maggioranza di loro non è cattolica. I chierichetti mi aprono il passo a fatica. Cominciamo attorno a quel fuoco la celebrazione della vita che vince la morte, della luce che scaccia le tenebre, dell’amore che guarisce l’odio.
Entrando nella chiesa alzo il cero dalla luce tremolante e canto quelle parole grandissime: «Cristo è la luce del mondo!». Mi fa pensare quell’annuncio accompagnato da quel segno così debole. Nella notte buia punteggiata dalle stelle, che in questo angolo di mondo sfavillano ancora, perché l’inquinamento non è ancora arrivato e la luna non è ancora sorta, la fiammella di quel piccolo cero osa proclamare la più grande speranza. Che splendida pazzia! E in quel posto, tra quella gente così provata da povertà, divisione, violenza, ingiustizia, sradicamento.
E il miracolo della pasqua diventa vero ancora una volta anche a Rumuruti. Quella notte battezzo oltre 70 persone, uomini e donne, vecchi e bambini, kikuyu e turkana, samburu e kipsigis… L’acqua della vita che verso abbondante, l’olio che guarisce e consacra, lo Spirito che santifica. In quella piccola chiesa nella piana desolata di Rumuruti continuava a nascere un popolo nuovo capace di dire no al tribalismo, all’odio, all’indifferenza, all’ingiustizia. 

Di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Taita obispo

Vent’anni fa moriva mons. Leonidas Proaño, profeta dei popoli indigeni

La vita di Monsignor Proaño è la cronaca di un sogno, che diventa promessa e dovere: «Agli indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione». Un missionario che l’ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita pennella alcuni tratti della sua figura nel contesto sociale e culturale dell’Ecuador che l’ha avuto vescovo e in particolare di quello indigeno
che l’ha eletto padre.

Per ricordare in modo appropriato e degno mons. Proaño, si dovrebbero raccogliere le voci del suo paese e della sua gente. Ancora oggi il segno da lui lasciato è oltremodo evidente, nonostante siano passati due decenni dal giorno della sua scomparsa e altri personaggi ne abbiano invaso e occupato il posto che gli apparteneva. La sua memoria rimane intatta; non c’è traccia di mito nei ricordi, ma nostalgia per questa persona importante e autorevole, che sapeva voler bene ai poveri ed era da essi amata.
Posso dire di averlo conosciuto da vicino per essere stato assieme a lui nei mesi introduttivi della mia presenza missionaria a Riobamba, quando mons. Proaño si era ritirato a vita privata e viveva a Santa Cruz, il centro dei raduni e degli incontri della diocesi. Sono stati due mesi preziosi, in cui ho potuto approfittare della sua esperienza.
Oggi, ho al mio attivo vent’anni di Ecuador, pienamente a contatto con il mondo degli indigeni; quegli stessi indigeni che continuano a riferirsi a mons. Proaño come loro vescovo, anche se in realtà a Riobamba si è ormai insediato da tempo un successore titolare, con altre direttive e differenti opzioni pastorali.
Per ricordare mons. Proaño bisognerebbe infine lasciare che l’Ecuador sveli la sua storia, dagli infiniti scenari e contraddizioni, rincorrendone gli eventi fino al punto in cui la terra tocca il cielo: sulle alte montagne della cordigliera dove vivono gli amici di «Taita Obispo» (papà vescovo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni.
La cultura coloniale
L’Ecuador è un paese multiculturale: in modo più o meno conflittuale vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala, bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» (Tawantinsuyo) simbolizzava l’insieme di popoli integrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola.
Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’apparato coloniale causò la fine delle varie forme di arte urbana, espresse fino a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizionale dei seminati. Immense estensioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire. Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine. Gli indigeni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consumavano.
Tuttavia, nonostante la sottomissione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservarono la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali.
Nell’epoca coloniale, che si prolungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologicamente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da elementi che provenivano dai settori dominanti.
Nella vita quotidiana di tutta la società si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradizioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica.
Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana; molti, però, conservano tracce e lineamenti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la morale sfugge i rigidi precetti cristiani, ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, non mentire, non oziare.
Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador cominciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della borghesia mercantile promossero condizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, più modea e tollerante.
I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportarono benefici alle zone rurali. Gli indigeni continuarono a vivere e lavorare relegati nelle fattorie dei proprietari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rimaneva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantaggi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordigliera andina, si ribellavano all’oppressione solo mediante il reclamo delle terre.
In un paese dalle marcate contrapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea, ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contatto con le culture indigene, soprattutto nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di origine distinta. Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali. 
Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti, ma attento solamente a rispondere agli interessi di una incipiente nazione ispano-ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristiche e necessità dei popoli indigeni. In questo modo si sanzionò legalmente l’opposizione che già esisteva tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse.
La cultura Proaño
A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di contrasto e di rottura con la cultura dominante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolgevano con venerazione o di avversione. Ciò che mons. Proaño diceva, insegnava e promuoveva per gli indigeni diventava parola sacra, da ricordare e attuare.
Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mondo indigeno senza tenee conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e culturale identificato con la figura di mons. Proaño.
Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla variegata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indigeno, nulla fu più come prima. Il «metodo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diventare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno.
«Ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò anche un metodo pastorale molto vincolante, che obbligava coloro che lavoravano con lui ad andare a qualsiasi riunione «disarmati», cioè, disposti a vedere la realtà, possibilmente con gli occhi della gente che la vive e soffre, collaborando ad ampliare questa visione con una informazione teorica che aiuti a capire le cause e le conseguenze di tale realtà.
Poi, in un momento di riflessione più profonda, la realtà veniva passata al vaglio delle aspettative di Dio; il risultato pratico doveva dare vita a un’azione capace di scatenare un nuovo vedere, un nuovo giudicare e un nuovo attuare.
Vent’anni dopo
Oggi, insieme alla coscienza della dominazione subita, gli indigeni hanno maggior consapevolezza del valore della propria cultura. Ciò include anche il rapporto con la propria lingua, il quichua, in confronto con lo spagnolo, lingua ufficiale (e dominante) dello stato ecuadoriano.
Come idioma ufficiale lo spagnolo fu imposto fin dall’epoca coloniale. È la lingua che si usa nelle leggi, nelle istituzioni statali, nell’insegnamento, nei mezzi di comunicazione collettiva, in tutti gli ambiti e istanze della vita pubblica. Si usa anche nella letteratura e nelle pubblicazioni scientifiche e tecniche.
Le lingue dei popoli indigeni sono state invece relegate agli ambienti familiari e sono rimaste circoscritte a forme di comunicazione limitata. Uno sforzo significativo per avviare un sistema educativo bilingue è stato fatto. Purtroppo l’insegnamento della lingua propria è sempre rimasto facoltativo, l’organizzazione dei corsi è sempre stata fatta in modo approssimativo; altrettanto deficitaria è stata la disponibilità di insegnanti validi e materiale didattico adeguato.
Nelle culture e lingue si radicano l’essenza e il senso di identità storica degli indios. Ogni persona che prende coscienza politica della propria oppressione, sa che deve appoggiarsi sulla lingua e sulla cultura per poter affermare la propria personalità e dignità. Sotto questo punto di vista, la spinta data dall’azione di mons. Proaño è stata fondamentale.
Oggi, per la prima volta, si vedono indios in posti pubblici; fatto, questo, che distrugge la figura stereotipata dell’indigeno. Si nota un rinnovamento culturale che porta alla maturazione di nuovi paradigmi di rapporti sociali; la rinnovata presa di coscienza dà i suoi frutti anche a livello politico. La capacità degli indigeni di far fronte comune contro le ingiustizie del sistema si ripercuote sulla situazione culturale del paese intero. Le rivolte e i sollevamenti indigeni sono attività di forte intensità sociale, che hanno generato molti studi e tesi accademiche.
La convivenza tra le culture non è cosa facile da acquisire. Multiculturalità e interculturalità suppongono una posizione ideologica infestata da interessi politici ed economici; imposta questioni di identità, alterità, differenziazione, originalità, razzismo ecc. Tuttavia bisogna sempre tener presente che la pluralità di culture interagenti non comporta la rinuncia alle differenze, ma piuttosto la loro accettazione in una unità equilibrata e totalizzante. Non si tratta di rinunciare alla cultura propria, ma di rivendicare e accettare la permeabilità delle culture secondo un processo di coesistenza che faccia del bene a tutti.
Questo criterio, alla base della pedagogia elaborata da mons. Proaño, è oggi obbligatorio per chiunque voglia avvicinarsi alla pastorale indigena. Molte idee del vescovo sono state accettate e il metodo «vedere-giudicare-agire» è premessa obbligatoria per ogni programma pastorale. Anche la pastorale d’insieme è oramai ovvia e presente ovunque.
Certe persone hanno sviluppato in maniera impressionante il dono di comunicare con la gente: vengono subito capite e altrettanto rapidamente suscitano entusiasmo. Una di esse è stato mons. Proaño. Ancora oggi, basta nominarlo che all’indigeno si accende il cuore e diventa subito pronto a riattivare i ricordi.
Per quanto mi riguarda, invece, continuo a pensare che il vangelo non sia un’opera «chiusa», ma continui ad affermarsi nella storia come composizione permanente, grazie a testimonianze encomiabili e straordinarie; ma esistono anche versioni nuove basate su come il vangelo è stato creduto, amato e praticato. Sarebbe bello e opportuno si pubblicasse finalmente «Il vangelo di nostro Signor Gesù Cristo secondo Proaño, vescovo degli indios». 

Di Giuseppe Ramponi


UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITà

Leonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrionale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavoratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continuamente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere accettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri.
Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario maggiore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pastorale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, decisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conservatrice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi.
Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo.

Sono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della celebrazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, popolo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privilegi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese.
Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative – come la concessione di terre di proprietà della diocesi a una cornoperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali – lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete scomodo che, insieme all’etichetta di comunista, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. (Escuelas radiofónicas populares de Ecuador) gli attira le ire delle classi «nobili» e potenti del paese, che scorgono intenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetizzazione bilingue (quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della parola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani.
Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cristiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprie la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988.

HA DETTO DI SE STESSO

«C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei poveri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di capirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’.
Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che faccio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli».

«T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certamente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella difesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, perché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane».

«P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sinceramente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la povertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale».
(Dall’autobiografia: Creo en el hombre y en la comunidad)

Giuseppe Ramponi