DENTRO LE MURA

16 febbraio – festa del beato Giuseppe Allamano

L’impegno sociale di Giuseppe Allamano nella Torino del suo tempo rivela un impegno missionario a 360 gradi, fatto di curiosità, conoscenza della realtà, passione per l’umanità, tanta fede e un aspetto meno conosciuto del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata.

Il beato Giuseppe Allamano trascorse quasi tutta la sua vita a Torino, spostandosi dai suoi abituali paraggi soltanto in poche circostanze. Eppure, ciò che lo caratterizza, tra i santi piemontesi dell’800 e ‘900, è soprattutto l’apertura alla missione della chiesa presso altri popoli, concretizzatasi attraverso la fondazione degli Istituti dei Missionari (1901) e delle Missionarie (1910) della Consolata. Una missione iniziata in Africa, dove l’Allamano intendeva continuare l’attività del grande vescovo missionario piemontese e frate cappuccino Guglielmo Massaia, e successivamente estesa anche all’America e più recentemente all’Asia.
Tale dimensione universale nasce dalla considerazione che l’Allamano ebbe della propria chiesa di Torino, ricca, come egli stesso ebbe modo di scrivere, di tante istituzioni caritative e di promozione sociale, ma priva di un’iniziativa esclusivamente rivolta al di fuori dei suoi confini territoriali. La realtà ecclesiale piemontese, infatti, a differenza di altre regioni dell’Italia era sprovvista di istituzioni missionarie specificatamente ad gentes. L’idea di fondo dell’Allamano era quella di dare un apporto concreto alla missione universale della chiesa, allargando nel contempo gli orizzonti delle diocesi del Piemonte, offrendo loro la possibilità di superare il provincialismo interessandosi alle sorti di popoli geograficamente lontani.
Lo spirito con cui l’Allamano persegue questo obiettivo riflette uno stile da lui già vissuto  in ambito torinese, stile che nasce dall’attenzione con cui osservava la realtà che lo circondava.
I suoi contemporanei, infatti, lo ricordano come persona attenta alle situazioni ed emergenze, al nuovo da accogliere: «Teneva l’occhio e l’orecchio attenti e vigili a quanto accadeva al di fuori, immergendosi totalmente nella realtà che lo circondava e manifestando un’intuizione precisa dei bisogni del suo tempo». Tantomeno si accontentò del semplice rendersi conto dei problemi. Al «vedere» fece seguire l’intervento, perché, diceva, non basta lamentarsi solamente per le cose che non vanno, senza al contempo muovere un dito per cambiarle. A tal riguardo, si diede da fare per promuovere, incoraggiare, sostenere nuove forme, anche ardite, di presenza cristiana nel contesto cittadino.

Quello in cui l’Allamano visse fu un periodo marcato da un forte incremento dell’industrializzazione e dalla conseguente migrazione di molte persone dalle campagne alla città. Sono anche tempi in cui cominciano a emergere i problemi inerenti il mondo del lavoro, a quel tempo ancora carente di una legislazione appropriata che difendesse i diritti dei lavoratori. Al santuario della Consolata, di cui era rettore, fece confluire varie categorie di persone a cui impartire una formazione umana e cristiana, ma anche per dar loro sostegno e promuovere la difesa dei loro diritti sindacali, favorendo l’organizzazione di associazioni o cornoperative di lavoratori e lavoratrici, come quella delle tessitrici della fabbrica «Brass e Abrate»; delle operaie della Manifattura Tabacchi del quartiere di Regio Parco, dei tranvieri, delle erbivendole e delle sarte. Queste ultime, nella sola Torino erano circa 20 mila, spesso sottopagate, sottoposte a orari inumani, prive di qualunque assistenza sociale; per esse fu fondato il «Laboratorio della Consolata», di cui l’Allamano, per il sostegno dato, venne considerato confondatore. Tra I’altro incoraggiò pure le cornoperative contadine a meglio organizzarsi.
Determinante fu anche il suo intervento in favore della stampa. In questo campo sostenne e fondò egli stesso varie testate cattoliche compresa «La voce dell’operaio», giornale fondato dal Murialdo e divenuto poi con il tempo «La voce del popolo», attuale settimanale di informazione della diocesi di Torino. Insieme al suo collaboratore di una vita, il canonico Giacomo Camisassa, fondò la rivista «La Consolata», per informare sulle iniziative del santuario e, in seguito, sull’attività dei Missionari della Consolata che, dall’anno 1902, si trovavano in Kenya e iniziavano a far conoscere persone e culture da essi incontrate nella loro attività evangelizzatrice.
L’Allamano sostenne e incoraggiò l’impegno di quanti, laici ed ecclesiastici, si impegnavano con entusiasmo nell’azione sociale e, a causa di ciò, erano molte volte guardati con diffidenza. Nel Convitto Ecclesiastico, in cui i giovani sacerdoti terminavano la preparazione teologico-pastorale dopo l’ordinazione, promosse anche la formazione sociale dei preti, grazie all’istituzione di corsi di sociologia teorica e pratica. Queste lezioni, per disposizione dell’Allamano, divennero parte integrante della formazione impartita al Convitto.

Lo stesso atteggiamento di apertura verso il sociale sperimentato nella diocesi di Torino fu da lui suggerito ai missionari inviati in Kenya.  Tale approccio divenne norma della loro azione pastorale, che aveva come componenti essenziali tanto l’annuncio del vangelo quanto l’impegno di «elevare» l’ambiente con la promozione umana, per migliorare le condizioni di vita attraverso la formazione delle persone, la promozione di servizi, la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
In sintesi: i suoi missionari, scriveva, dovevano impegnarsi per «fare felici» le persone («Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra…»). Il vangelo è per la promozione integrale delle persone. Giuseppe Allamano l’aveva capito molto bene, tanto da fae un principio ispiratore della sua opera missionaria; ma era altresì convinto che per fare questo occorreva conoscere il contesto. Esortava, quindi, i suoi missionari a iniziare con l’osservazione della realtà, perlustrando la zona dove erano presenti per rendersi conto della situazione, delle idee, delle consuetudini, delle necessità della gente: «Osservate e annotate», era il suo imperativo.

Questo principio di fondo vale anche oggi se si vuole che l’azione missionaria abbia un impatto sulla realtà. Anche qui, in Italia, occorre  stimolare un confronto con la città e i suoi ritmi, le sue opportunità e i suoi problemi. Interessarsi delle realtà odiee, dell’analisi congiunturale che crea fenomeni sociali ben precisi è in sintonia con lo stile dell’Allamano, che riflette il comportamento anche di altre ben note personalità di rilievo di Torino e del Piemonte, come Don Bosco per i giovani, il Cottolengo per i malati e handicappati, il Cafasso per gli spazzacamini, i carcerati e i condannati a morte, il Murialdo per gli operai, Faa di Bruno per la cultura, e così via.
I santi non sono persone lontane dalla realtà, fuori del mondo. Uno degli insegnamenti del Cafasso, fatto proprio anche dall’Allamano, era che «la politica dei preti è la salvezza delle anime», per ribadire che non si dovevano immischiare in lotte partitiche. Ma se la politica, nel suo significato più autentico, è interessamento concreto per la polis, cioè per la gente, i santi torinesi questa politica l’hanno fatta, a volte anche più efficacemente di coloro che se ne occupavano professionalmente stando al governo o nelle amministrazioni locali.
Da tale atteggiamento emerge anche un altro punto che vale la pena di sottolineare. Oggi come oggi, in questa realtà che si rivela in tutta la sua complessità, occorre approfondire la conoscenza di un mondo che sta radicalmente cambiando per meglio comprenderne la complessità e scrutare il futuro, senza paure, allarmismi, segregazioni.
Da questo confronto vengono pure impulsi e stimoli per migliorare o anche cambiare metodi tradizionali di azione, magari considerati irrinunciabili. Le indicazioni che verranno da studiosi, ricercatori e conoscitori delle attuali componenti antropologiche, sociologiche e di pensiero, aiutano a impostare comportamenti e attività corrispondenti alla situazione e alle necessità di oggi per infondere speranza e contribuire a una convivenza non solo pacifica tra le diverse componenti etniche, culturali, sociali e religiose ma anche arricchente.
Ciò stimolerà pure a ripensare e reinterpretare l’ispirazione dell’Allamano, per essere fedeli alle sue intuizioni e proposte, alla sua apertura all’universalità, senza disattendere le situazioni mondiali di impoverimento, fame, malattie, istruzione carente, senza dimenticare la dimensione locale ma, anzi, partendo da essa. 

Di Gottardo Pasqualetti

LE FRONTIERE ROVESCIATE DELLA
MISSIONE AD GENTES

La Torino in cui l’Allamano ha esercitato il suo ministero sacerdotale per più di mezzo secolo, era una città in forte evoluzione demografica, soggetta a mutamenti di carattere economico e sociale che ne avrebbero segnato in maniera profonda il volto che l’ha caratterizzata fino ai nostri giorni.
Era una città che lavorava e produceva, in preda alla grande espansione del settore industriale che avrà il suo picco all’inizio del XX secolo grazie a un microcosmo di piccole attività artigianali e industriali il cui sviluppo iniziava ad attrarre sempre più persone in città. Il processo di industrializzazione, infatti, andava di pari passo a un rapido e a volte incontrollato fenomeno di urbanizzazione, processo che era già iniziato dopo la metà del 19° secolo con la crisi della mezzadria e la prima grande migrazione verso Torino dell’epoca modea o contemporanea. La rapidità con cui si verificò l’espansione portò gravi conseguenze da un punto di vista urbanistico e sociale. La marea di gente che si riversò nella città cercando lavoro e migliori prospettive di vita iniziò ad ingrossare le fila dei tanti emarginati che ne riempirono i quartieri.
Il lavoro si trovava, ma sovente era lavoro sottopagato, illegale, con orari e tui massacranti tanto per gli uomini quanto, soprattutto nel settore tessile, per le donne. Inutile dire che lo sfruttamento minorile era prassi abituale. Questa fu la Torino di cui si presero cura i grandi santi sociali del XIX secolo: dal Cottolengo al Cafasso, da Don Bosco al Murialdo, ecc.
L’Allamano, pur sognando l’Africa e il mondo lontano ancora da evangelizzare, aveva però nel santuario della Consolata un osservatorio privilegiato che gli permetteva di penetrare nelle pieghe più recondite del disagio torinese grazie alle tante persone che incontrava nel suo ministero di consolazione, uomini e donne che esprimevano di fronte alla Vergine Maria tutta la loro fragilità, il bisogno di aiuto, la loro grande vulnerabilità.
Di lui e della sua attenzione alla realtà in funzione dell’attività pastorale, il sacerdote e sociologo biellese Don Alessandro Cantono ebbe a dire: «Teneva l’occhio e l’orecchio vigili e attenti a quanto accadeva al di fuori, aspirava a vedere il clero preparato alla vita, armato di tutte le armi che possono rendere proficuo e redditizio il suo santo ministero».
Oggi, poco più di un secolo dopo, il volto della migrazione ad intra presenta nuove sfide missionarie che non si esauriscono sul piano della promozione della giustizia e della pace, ma sfiorano terreni come quelli dell’interculturalità e del dialogo interreligioso. Curiosamente, quelle che ci ritroviamo in casa sono in molti casi persone provenienti dalle terre in cui l’Allamano e i suoi successori hanno inviato missionari. Non solo, ci sono situazioni oggi, qui a Torino, che sono molto più ad gentes di quelle che potremmo trovare in alcune nostre comunità in luoghi considerati tradizionalmente di missione.
Chiedersi che cosa l’Allamano farebbe di fronte a un contesto come il nostro sarebbe uno sterile esercizio di fantastoria. Rileggere però con attenzione il suo stile di approccio alla realtà sociale in cui si è prodigato sono sicuro che indicherebbe un cammino e spunti di iniziativa per arrivare a farci riconoscere anche qui in Italia per quello che si è: missionari. 

di Ugo Pozzoli

Gottardo Pasqualetti




Il cielo sulla terra

Inculturazione della liturgia in Asia

Padre Giorgio e suor Lucia hanno partecipato al «Convegno per la promozione della liturgia in Asia», tenuto in Sri Lanka, nel settembre 2008: è stata per loro un’esperienza arricchente; ma hanno pure portato il contributo di chiesa giovane e dinamica.

Parlare di cielo in Mongolia è qualcosa di più che un semplice discorrere del tempo. L’immensità del cielo che sovrasta gli spazi vuoti delle pianure dell’Asia centrale è un’allusione istintiva a ciò che ci trascende, agli spiriti, direbbe uno sciamano, a Dio, diciamo noi. Per noi della Mongolia ha assunto perciò un significato particolare partecipare al convegno organizzato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, intitolato: «Liturgia come un affacciarsi del Cielo sulla terra».
L’espressione è di Benedetto xvi, quando nell’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis al n. 35 parla di «bellezza e liturgia», specificando che non si tratta di «mero estetismo», ma di una «modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore» (35).
La liturgia come partecipazione al mistero della rivelazione dell’amore di Dio e motore del dinamismo dell’evangelizzazione fa parte del nostro Dna di missionari della Consolata e siamo contenti di poter servire una chiesa nascente, come quella mongola, anche in questo campo.
In qualità di cornordinatore (padre Giorgio) e membro attivo (suor Lucia) della Commissione liturgica della Prefettura apostolica di Ulaanbaatar, siamo stati infatti inviati dal vescovo e iniziatore della missione a rappresentare la Mongolia al convegno che si è recentemente svolto in Sri Lanka. L’iniziativa portava il sottotitolo di «Convegno per la promozione della sacra liturgia in Asia» ed è stato un bellissimo momento di formazione e conoscenza reciproca, per delegati di 20 paesi asiatici, che si sono dati appuntamento alla periferia di Colombo nei giorni dal 16 al 21 settembre scorso per riflettere, insieme ai vertici della Congregazione per il culto divino, sulla situazione attuale della liturgia nel panorama asiatico.
L’idea di un convegno asiatico sulla liturgia s’inserisce in un generale orientamento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti di animare a livello continentale le chiese locali su temi liturgici. Il primo di questi incontri si era tenuto in Ghana nel 2006, cui era seguita una consultazione dei vescovi asiatici sull’opportunità di un simile incontro nel contesto orientale; la positiva reazione alla proposta per l’Asia aveva convinto gli organizzatori a passare alla fase conclusiva con la settimana di Colombo.
La scelta dello Sri Lanka come paese ospitante si è rivelata vincente, non solo per la perfetta organizzazione e il grande spirito di accoglienza della popolazione, ma anche per un significato simbolico: qui infatti si compone in miniatura quel mosaico di culture e religioni che caratterizza tutta l’Asia e qui la chiesa è chiamata a testimoniare l’amore e la riconciliazione, in un contesto di grande sofferenza, per il protrarsi delle tensioni etniche tra tamil e cingalesi.
I lavori prevedevano sempre un momento formativo al mattino, con due relazioni accademiche da parte di esperti; quindi i lavori di gruppo, sulla base di domande e approfondimenti legati al tema affrontato. Ad accompagnare questo ritmo di riflessione e confronto le relazioni delle commissioni liturgiche nazionali, il tutto in un clima di preghiera, alimentato dalla liturgia delle ore, celebrata insieme e incentrato sull’eucaristia, presieduta a tuo dai numerosi vescovi e arcivescovi che hanno testimoniato il cammino delle rispettive chiese locali.
I temi analizzati vanno dall’inculturazione alla formazione liturgica, con ampio spazio a questioni come le traduzioni, il ruolo delle commissioni diocesane e nazionali e la collaborazione con la Congregazione.

Per noi della Mongolia è stato molto arricchente ascoltare gli esperti e partecipare alle discussioni nei gruppi, avendo accanto personaggi del calibro del cardinale Zen di Hong Kong, o provenienti da situazioni limite come padre Son Un della Cambogia, che ha raccontato la sua odissea di rifugiato ai tempi dei khmer rossi.
A noi che stiamo lavorando alla compilazione dei libri liturgici per la Mongolia, è stato soprattutto utile conoscere da vicino la dinamica che intercorre tra chiesa locale e Congregazione per il culto divino, nei suoi aspetti ecclesiologici e anche in quelli più pratici.
Preparare un testo per la liturgia è un lavoro di équipe molto esigente: innanzitutto la traduzione dalla editio typica (che è in latino) nella lingua corrente, con conseguente problema di competenza linguistica; poi la discussione della traduzione in sede locale e successivamente l’invio della bozza con le dovute spiegazioni e possibili adattamenti alla Congregazione, che prende in esame il testo (la cosiddetta recognitio) e lo restituisce con le eventuali precisazioni o correzioni per la pubblicazione finale.
Ad alcuni questo processo sembra un po’ forzato; ci si chiede: esistono davvero le condizioni reali per una valutazione competente di testi in tante lingue diverse? Durante il convegno è stato ampiamente mostrato che, oltre all’effettiva disposizione presso la Congregazione di esperti di alto livello, il significato di questa recognitio è piuttosto ecclesiologico: la liturgia celebrata anche nel più remoto villaggio esprime la fede della chiesa universale, e dunque è giusto che il relativo libro liturgico venga emanato dall’autorità suprema; in tal modo, pregando con quel testo la comunità locale saprà di essere in comunione piena con tutta la chiesa, che si identifica con quelle parole e quei gesti per vivere il mistero di Cristo.
La nostra presentazione della realtà mongola ha molto colpito i presenti, per l’originalità del contesto e la vivacità della fede vissuta. In una realtà così nuova è fondamentale partire col piede giusto, creando le condizioni necessarie per il lavoro sulle traduzioni dei testi liturgici. Un esempio molto apprezzato sono i lezionari che siamo riusciti a preparare in questi anni e il dizionario inglese-mongolo sulla terminologia cristiana, preparato dal missionario francese padre Pierre Palussiere.
Rappresentanti di chiese ormai fondate e stabili come quella dell’India hanno confessato di non avere ancora preparato un simile strumento di base, mentre noi che viviamo agli inizi della chiesa in Mongolia siamo già riusciti ad averlo!
Il card. Arinze, prefetto della Congregazione, al termine del rapporto, ci ha avvicinati per complimentarsi e augurare che la comunità credente da 5cento passi a 5mila e fino a 5milioni, persino più di quanti siano tutti gli abitanti della Mongolia!

Il convegno ha offerto la possibilità di riflettere sulla distintiva individualità della liturgia della chiesa, sedimentata in due millenni di storia, nel suo incontrarsi con le culture via via interessate nel processo di evangelizzazione; culture che godono di una natura organica che va conosciuta e rispettata e che non sopporterebbero facili appropriazioni indebite. Arte e musica sacra, così come gesti e posture sono l’espressione più evidente della fede incarnata e si sviluppano armoniosamente solo in un contesto di collaborazione reciproca tra pastori e fedeli, con l’aiuto di esperti e leaders, ma sempre in attento ascolto del sensus fidei del popolo di Dio.
L’Asia a questo riguardo conosce già molti successi che innalzano il cuore dei fedeli e li fanno sentire più partecipi dei misteri celebrati in sintonia con la propria sensibilità culturale; ma esistono anche esperienze meno felici che, pur nascendo spesso da genuino desiderio di inculturazione, finiscono talvolta col confondere, se non ferire la fede dei credenti.
I risultati di questo profondo scambio, ascolto reciproco e preghiera vissuti al Convegno sono condensati nel cosiddetto «Colombo statement», ossia la «Dichiarazione di Colombo», dove si legge tra l’altro un auspicio «che i valori asiatici di contemplazione, misticismo e silenzio possano trovare più forte espressione nella liturgia cristiana» (n. 6).  Il documento ricorda inoltre che «il senso del sacro sta al cuore dei valori culturali, ai quali tutti i popoli asiatici sono molto attaccati. Ci si aspetta che un’aura di santità circondi ogni elemento legato al culto» (n. 2).
Noi della Mongolia vorremmo che questo si verifichi a ogni eucaristia, così da sperimentare quella attrazione esercitata dalla liturgia, come confessano le persone che incontriamo e che spesso poi seguono l’ispirazione di continuare il cammino intraprendendo il catecumenato.
Proprio come avviene nella nostra cappella di Arvaiheer, dove ogni domenica celebriamo con persone per le quali tutto ciò che è cristiano è assolutamente nuovo; nella speranza che attraverso i divini misteri si aprano i cuori, perché si realizzi anche nel «Paese dell’eterno cielo blu» il miracolo del «Cielo che si affaccia sulla terra». 

Di Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi

Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi




Viaggio nel più grande paese dei Balcani

Paese dai mille volti

Chiuso per decenni dietro il muro    del   comunismo,  il popolo rumeno  ha conservato il suo spirito e cultura, che neppure  l’ex dittatore Ceausescu è mai riuscito a distruggere. Varietà di etnie con relativa ricchezza di tradizioni ed arte, storia millenaria intrecciata di leggende e di misteri, gente ospitale  e operosa… la Romania è questo e altro ancora, un paese tutto da esplorare,  per vincere tanti pregiudizi nostrani.

La strada che dall’aeroporto conduce in centro è bloccata dal traffico: sta per iniziare un rally automobilistico intorno al Palazzo del Popolo, l’immensa costruzione voluta dal dittatore Ceausescu e costruita radendo al suolo interi quartieri storici, già danneggiati da un terremoto. Passiamo davanti alla nuova show room della Ferrari, che pare non riesca a soddisfare le richieste dei nuovi ricchi rumeni. Le auto di lusso, anche i suv, sono numerose in città e sovente alla guida vedo giovani donne.
Ho trovato una sistemazione nel cuore antico di Bucarest, chiuso al traffico per via dei radicali restauri in corso. Tra gli edifici di fascino del quartiere vi è un caravanserraglio del ‘600, che tuttora ospita viandanti e barboni. Ha un alto tetto spiovente, ricoperto da tegole di legno, e si affaccia sul santuario di sant’Antonio abate e su una zona archeologica. Una fila ininterrotta di pellegrini, tra cui molti giovani, attendono il loro tuo per presentare grazie e voti al santo. Con il cero in mano sostano in preghiera, toccando le icone, poi accendono altri ceri nelle celle dedicate ai vivi e ai morti, come si usa nelle chiese ortodosse.
Questo è un paese dalle molte anime e dalle tradizioni forti. L’unità tra le  regioni di diversa cultura, lingua e tradizioni, fu raggiunta solo dopo la prima guerra mondiale. Durante il nostro viaggio noteremo che in ogni villaggio o città, la piazza principale è dedicata all’Unità nazionale.

Transilvania
Brasov è una bella città, ma solo nel centro storico. La periferia industriale, con i tristi palazzi in stile sovietico, deve aver umiliato questa popolazione: ovunque in Romania si nota l’amore per la casa individuale, il colore e l’artigianato artistico.
Sighisoara è altrettanto suggestiva, ma molto più piccola e raccolta. Oggi è festa patronale e in piazza si esibiscono gruppi folkloristici. Qui incontro alcuni italiani, che mi danno informazioni per proseguire il viaggio. «Ci sono 27 mila imprese italiane che operano nel paese – mi dice Stefano, arrivato in Romania 15 anni fa con la sua azienda -. Ora però i soldi si fanno con l’immobiliare, ma non più a Bucarest, dove i prezzi sono troppo alti. Conviene comprare terreni nelle vicinanze delle città, sempre con un socio rumeno, la legge lo impone. Con l’aiuto dei politici i terreni diventano edificabili, si lottizza e si rivende con forti guadagni». Tutto il paese è in fermento, si costruisce, si restaura, e i lavori stradali rallentano il traffico nelle regioni più popolate e industriali.
Da Sighisoara ci inoltriamo nelle vallate sassoni, con le curiose chiese- fortezze, costruite nei secoli in cui il paese subiva invasioni e dotate di alloggi per la popolazione. I villaggi sono belli, ma alcuni sono in pieno degrado perché, dopo la caduta del comunismo, sono stati abbandonati dagli abitanti, emigrati in Germania, e occupati dagli zingari.
Questi sono numerosi in tutto il paese: oltre due milioni. Durante il regime comunista, che negava l’esistenza delle etnie, subirono un’assimilazione forzata, costretti a vivere nelle città, in quartieri loro riservati. Mentre i Rom sono tenacemente nomadi e li si vede viaggiare su carri foiti di tutto per vivere, in condizioni molto misere, i Lantar e i Gabor oramai sono stanziali, continuano la tradizione del canto in occasione di feste e della lavorazione del ferro. Molti si sono integrati ed esercitano varie professioni e alcuni si possono permettere abitazioni esagerate, lussuose.

BAIA MARE
Finalmente a Baia Mare, dopo aver attraversato in auto il paese fino all’estremo nord ovest. Questa è una città in lento rinnovamento, dopo anni di degrado ambientale dovuto alle industrie pesanti e miniere. Gli edifici antichi sono in via di restauro e rivelano un passato storico e artistico, umiliato nei lunghi anni del comunismo.
«Sono felice di incontrarvi»: Mariana, impiegata nella birreria in piazza dell’Unità, si avvicina sentendoci parlare italiano e, visibilmente commossa, ci offre una buona chorba e un bel piatto di patate. «Ho lavorato per cinque anni a Milano e mi trovavo bene, ma la bambina era rimasta a casa con mio marito. Quando sono tornata, lui aveva un’altra donna».
Mariana ha le lacrime agli occhi, ammette di essere in difficoltà perché è sola, ma vuole dare alla figlia una buona educazione. «Vivo in periferia, perché il centro è caro; mando la bambina a scuola privata – ci confida – ma la paga è molto bassa, la vita durissima».
In queste regioni del nord, che hanno conosciuto un forte esodo verso l’Europa, non avremo problemi a farci capire. I giovani conoscono l’italiano perché molti di essi sono stati in Italia per lavoro; passano le vacanze estive a lavorare, aiutando la famiglia nei campi e nella costruzione o restauro delle case, molto belle, decorate a vivaci colori.

Maramures
Anche qui, nel cuore d’ Europa, si può fare un viaggio nel tempo. La regione di Maramures mi ha dato l’emozione di vivere per qualche giorno in un paesaggio fiabesco, dove gli abitanti sono immersi in una dimensione agreste di sapore medievale: trasporto su carri trainati da cavalli, lavoro nei campi fatto a mano con attrezzi di legno, villaggi raccolti intorno a splendide chiese di legno dai campanili alti e sottili, tra pruni, viti e alberi carichi di frutta. L’interno è decorato da pitture o ricami appesi alle pareti; all’esterno sono le tombe con croci di latta dipinta.
La devozione di questa gente è profonda. La domenica mattina donne e uomini sono in raccoglimento in piedi o in ginocchio, durante lunghissime cerimonie. Alla fine, gli uomini passano al bar, con il loro curioso cappellino di paglia; le donne invece, il fazzoletto in testa, ampie camicie bianche inamidate con le maniche a sbuffo, spesse calze di lana, si siedono a chiacchierare sotto il portico di legno scuro, finemente intagliato. Pare che Ceausescu abbia subito il fascino del luogo e incoraggiato gli abitanti del Maramures a difendere le proprie tradizioni, contrariamente alla sua politica di assimilazione forzata delle diverse culture nel paese.
Le terre di questa regione del nord, isolate e protette da una serie di monti, un tempo facevano parte dell’ impero austro-ungarico. Ne parliamo con Giulio, il proprietario dell’edificio in cui alloggiamo nell’antica cittadina di Sighetu Marmatiei, detta Sighet, ai confini con l’Ucraina.
Con problemi di vista e deambulazione a causa di un grave incidente, Giulio ha una gran voglia di raccontarci la sua storia e lo fa in un buon italiano. I suoi genitori furono deportati in Polonia dai nazisti; ma anche durante il regime comunista la vita non era facile per gli ebrei.
«Avevamo case comode, oro e giornielli, ma venivamo vessati continuamente da funzionari del regime comunista, che volevano le nostre cose e ci requisivano le stanze per sistemare chi non aveva un’abitazione. Così un giorno decisi di raggiungere i miei parenti italiani. Prima mi recai in Svizzera, presso amici, poi presi una funivia e scesi dal versante italiano con gli sci. Da Venezia, dove tuttora vivono i parenti di mio padre, andai a Roma, ma avevo bisogno di un passaporto».
Giulio pare orgoglioso della sua vita avventurosa, che lo ha portato in giro per l’Europa, attraverso l’esperienza della legione straniera, aiutato da un medico ebreo. «Sono poi riuscito ad avere due passaporti» spiega; e quando gli chiedo di quale paese, mi dà una risposta vaga: «Oggi ne ho diversi, sono cittadino d’Europa».
Con la caduta del comunismo è ritornato a Sighetu Marmatiei per prendere possesso delle proprietà di famiglia, case e terreni confiscati dal regime. «Avete mai visto un ebreo lavorare?» mi chiede con ironia. Poi mi consiglia di visitare l’unica sinagoga rimasta aperta a Sighet, la cui popolazione, prima della seconda guerra mondiale, era composta per il 40% da ebrei.
Marcus è il capo della comunità israelitica. Busso alla porta del suo ufficio accanto alla vecchia sinagoga e lo trovo al lavoro. Non è ora di visita, ma l’accoglienza che ricevo è calorosa. Delle otto antiche sinagoghe di questa cittadina sul confine con l’Ucraina, ne sono rimaste solo 2 e questa è l’unica aperta. La visita, come sempre in questi luoghi, è commovente. Qui viveva una grossa comunità e qui nacque Eli Wiesel, premio Nobel, che fu deportato ma riuscì a salvarsi e raccontò dello sterminio nei campi di concentramento. Fu il primo a parlare di olocausto: 400 mila furono gli ebrei rumeni che persero la vita nei campi di concentramento; una cifra spaventosa.

MONTAGNE
Da Sighet a Borsa, una stazione turistica montana, con impianti per lo sci, ma che d’estate offre un aspetto desolato. Rallentati dai lavori in corso lungo la strada che permette di superare la catena di monti, raggiungiamo la Bucovina, regione affascinante per le tradizioni e l’arte delle chiese e monasteri ortodossi.  
In un villaggio vicino a Suceava, a pochi minuti di strada da alcuni dei più bei monasteri dipinti della regione, siamo accolti con calore da Ana e Joan nella loro casa, ingrandita negli anni mentre cresceva la famiglia: hanno infatti 11 figli, sei dei quali vivono e lavorano a Torino: Maria e Lidia sono le tate dei miei nipotini, poi c’è Dina, Ana, Nicolai e Petru. A casa sono rimasti i più piccoli, che frequentano ancora le scuole: Aspasia, Adriana, Viorica, Lenutsa e Stefan.
Mamma Ana ha preparato per noi le polpette di agnello, formaggio fresco, fatto con il latte della mucca, peperoni e succo di lampone. Siamo invitati a fermarci per la notte, ci sono tanti posti letto, le stanze sono luminose, oate da vasi di fiori: quando ci lasciamo Ana mi abbraccia e mi stringe forte. Non ha parole, ma sento da parte sua affetto e apprensione, per quelle sue figlie lontane.

DELTA
Dal nord alla regione del Delta, nel sud della Romania, attraverso la regione della Moldavia, facciamo sosta a Iasi, città famosa per le sue università. In pieno centro noto la chiesa cattolica, modea e di forma circolare; vi incontro il parroco, che mi mostra lo splendido mosaico che oa le pareti intee della chiesa e mi parla della sua attività, legata alla stampa cattolica in lingua rumena.
Il proseguo del viaggio offre un paesaggio monotono, con rari villaggi e campagna inaridita dalla siccità, finché raggiungiamo il Danubio e lo attraversiamo in traghetto per raggiungere il porto fluviale di Tulcea, la capitale del Delta. 
Quando al mattino ci presentiamo all’imbarco, il traghetto per Sulina, cittadina al confine estremo del delta, sul Mar Nero, è già partito. Non mi resta che chiedere un passaggio. Mi informo presso la capitaneria di porto e trovo un gruppo di preti ortodossi diretti proprio a Sulina, per celebrare la solennità di sant’Alessandro. Sono fortunata: Astarion, vescovo ortodosso di Tulcea, accetta di averci a bordo con lui.
Il comandante vede in questo gesto l’occasione per guadagnare soldi in nero, mi chiede una cospicua mancia, di nascosto dal prelato.
Il gruppo è formato da sei giovani parroci, che non parlano altra lingua che il rumeno, mentre il vescovo dopo le preghiere si intrattiene con noi, parlando del suo paese e dei rapporti con l’Italia e la chiesa cattolica. «Sono stato diverse volte in Italia, il vescovo di Cremona è mio caro amico». Poi chiarisce: «Sono un vescovo sinceramente ecumenico!».

LIPOVENI
Joan è un uomo aitante, bello nella sua divisa blu di marinaio della capitaneria di porto. Ci offre la sua barca, per fare un giro nei canali, ovviamente a pagamento. La guiderà il figlio, che si chiama come lui. Studente in odontorniatria nella lontana città di Arad, dove vivono i parenti della mamma, Joan jr vuole guadagnare qualcosa durante la stagione estiva. Ci porta in giro nei canali più remoti, ricoperti di ninfee fiorite e bordati da canneti. Ci spingiamo verso la costa del mare, dove vivono numerose colonie di pellicani. Lo spettacolo del volo di grandi stormi è ancora più bello verso il tramonto, quando ritorniamo a Sulina. 
La mattina seguente lasciamo il canale principale per raggiungere in lancia il cuore del delta, dove pare sia rimasta un’antica foresta di querce e arbusti. Sbarchiamo nei pressi di un villaggio e restiamo in vana attesa di un mezzo per spostarci lungo le polverose piste del delta, finché decido di incamminarmi a piedi tra le case di pescatori, che scopro essere Lipoveni, cioè, gli ortodossi fedeli agli antichi riti, perseguitati sin dal tempo dello zar Pietro il grande. Li avevo incontrati l’anno scorso in Alaska, dove sono noti come old believers (vecchi credenti) e ora li ritrovo qui, regione altrettanto remota.
È domenica. Le donne vestono come le contadine rumene, il fazzoletto sul capo; gli uomini hanno calzoni a sbuffo e tunica allacciata da un cordone, come i personaggi dell’opera Kovancina; i carri sono fermi per il riposo dei cavalli, la strada è lunga. Ma ecco un vecchio fuori strada, guidato da Claudio che, tutto allegro, ci fa salire sull’automezzo.
Dell’antica foresta rimane qualche vecchia quercia, corrosa e circondata da una boscaglia fatta di arbusti, interessanti perché endemici del delta. Infatti, un gruppetto di visitatori ci ha appena preceduto, guidato da un professore che ci dà conto delle varie specie botaniche e delle piante medicinali che ricoprono le alte dune di sabbia lungo le coste del Mar Nero. Oggi si tenta di proteggere parte della regione del Delta, pesantemente sfruttata in epoca comunista e ancora con problemi di inquinamento.

È stato un viaggio che mi ha emozionata e incantata. Un paese che mi incuriosiva, la Romania, per quello che si sente dai media, molto negativo, e per le esperienze, sempre positive, che ho avuto con i rumeni conosciuti a Torino. Qui trovo conferma della mia idea: sono in maggioranza persone educate, fiere e laboriose.
Purtroppo il viaggio termina con una brutta esperienza. Al momento di consegnare la vettura a nolo, in condizioni perfette, non mi viene restituita la cauzione. Chiedo di parlare col titolare dell’agenzia e scopro che è un italiano, calabrese. Allora mi  indigno, gli dico che mi vergogno per lui, che racconterò, scriverò di questo connazionale trasferito in Romania per insegnare i trucchi malavitosi a questa gente. E allora l’uomo cede e mi restituisce il denaro. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Una storia fatta da donne

Migranti italiane a Buenos Aires

“Miradas de luz”, una mostra fotografica realizzata da ICEI MERCOSUR nel giugno 2008, racconta alcuni aspetti della migrazione italiana in Argentina mettendo in evidenza il ruolo avuto dalla donna
in questo processo migratorio.

Tra il 1870 e il 1950 circa 2.500.000 persone lasciarono l’Italia per emigrare in Argentina e tentare la grande avventura de «la Merica». Circa 500 mila erano donne, la maggior parte delle quali seguivano i padri e i mariti in cerca di fortuna.
Queste donne non partecipavano attivamente alla decisione di «partire» ed erano costrette a un ruolo di accompagnamento e di cura familiare, tuttavia, nonostante il trauma della lontananza, sono state capaci di portare avanti la propria vita con coraggio e di lottare socialmente per il riconoscimento e la tutela dei propri diritti.
Il tema migratorio non perde la sua attualità, specialmente in questi anni in cui si assiste a una progressiva «femminilizzazione» del fenomeno. Sono sempre più numerose le donne che emigrano sole e si fanno carico del sostentamento della famiglia che resta nel paese d’origine. Al cambio radicale, spesso si accompagna il distacco dai figli e le non sempre facili mansioni lavorative negli ambiti «di cura» domestica.  
ARGENTINA E ITALIA NELLA METÀ DEL SECOLO XIX
La Costituzione del 1853 e la Ley de Inmigración y Colonización del 1876 sono due momenti importanti dell’organizzazione della politica migratoria argentina del secolo XIX.
L’articolo 18 della Ley de Inmigración y Colonización definiva immigranti i lavoratori giornalieri, gli artigiani, industriali, agricoltori e professori minori di sessant’anni che decidevano di stabilirsi in Argentina. La legge stabiliva i vantaggi – estendibili a moglie e figli – cui avevano diritto i nuovi arrivati che mostravano buona condotta e attitudine al lavoro. Tra le altre cose, gli immigrati potevano:
– essere alloggiati e mantenuti a spese della Nazione, durante il tempo stabilito dagli articoli 45, 46 e 47;
– essere inseriti nel mercato del lavoro nazionale, in accordo alle proprie preferenze;
– essere trasferiti con spese a carico dello Stato, nella parte della Repubblica argentina in cui decidevano di vivere.
L’emigrazione italiana fu un esodo complesso e multiforme, che interessò circa 20 milioni di italiani e durò più di un secolo, dalla prima metà dell’800 alla seconda metà del ‘900.
Il processo migratorio della seconda metà del XIX secolo fu la conseguenza di una somma di diversi fattori economici e culturali, che ebbero risvolti particolari nelle differenti regioni: dalla crisi agraria che colpì il nord Italia al collasso economico del sud.
I potenziali emigranti ricevevano notizie dei destini possibili attraverso l’informazione data dal Goveo, dalle Compagnie di colonizzazione o di navigazione. Anche il passaparola era un canale importante che influenzava le scelte di parenti, amici, vicini e delle reti informali che si costituivano. 
Il viaggio iniziava quando i migranti lasciavano il paese natio per raggiungere i diversi porti: Genova, Trieste o Napoli. Molte volte la partenza era un avvenimento collettivo, a cui partecipavano interi gruppi di parenti e conterranei che partivano per l’estero.
In Italia, le realtà regionali erano molto forti. Al momento dell’imbarco gli emigranti liguri, calabresi, napoletani o veneti si scoprivano «italiani», situazione aliena che si rinforzava con lo sbarco, quando si imponeva chiaramente la condizione di «emigrante italiano».
componente migratoria femminile
Secondo il primo censimento, realizzato in Argentina nel 1889, nella prima ondata di immigrati la componente femminile era una percentuale minore: una donna ogni due uomini a Buenos Aires, una ogni tre a Rosario. Dal 1880 in avanti, con l’arrivo massiccio dei piemontesi e dei lombardi, il numero delle donne aumentò.
Nel secondo censimento nazionale del 1895 risultava che la proporzione delle italiane era del 9,5%, la maggior parte delle quali nella città di Buenos Aires.
Raramente le donne emigravano sole. Poche volte decidevano. Spesso viaggiavano con il gruppo familiare come spose, figlie, sorelle, madri o erano «chiamate» a posteriori, molte volte attraverso un matrimonio per procura. In questo caso viaggiavano in compagnia di un parente maschio.
La componente femminile ha permesso di rendere permanente la scelta migratoria.
Hotel de los Inmigrantes
I migranti che arrivavano in Argentina venivano accolti in un’apposita struttura che, tra il 1887 e il 1911, veniva chiamata «La Rotonda». Nel 1911 si inaugurò l’«Hotel de los Inmigrantes», un complesso di quattro piani adiacente al molo di sbarco che comprendeva l’hotel propriamente detto, uffici di lavoro, ospedale, cucina, panetteria e una mensa che ospitava fino a 1.000 persone a tuo.
Una volta sbarcati, i nuovi arrivati alloggiavano gratuitamente per cinque giorni presso l’hotel, tempo che poteva estendersi in caso di necessità. Tutti gli stranieri in possesso dei documenti di viaggio e in buona salute erano ammessi. Nessuno era illegale nell’Argentina dell’immigrazione di massa.
LOS CONVENTILLOS
La migrazione italiana si concentrò in parte nelle principali città del paese, in parte diede origine a centinaia di colonie italiane sparse per tutta l’Argentina. Tra le altre, Humberto 1°, Lago di Como, Garibaldi, Toscana, Bella Italia, Piemonte, Firenze, Rey Humberto, Victor Manuel, Rufino. Nella provincia di Córdoba sorsero più di 400 colonie, alcune delle quali mantengono tuttora intatte le tradizioni di origine.
Gli italiani che si installarono nel Chaco crearono la propria industria del cotone. A Mendoza e San Juan sorsero molte aziende vinicole, a Tucumán fiorì l’industria dello zucchero, mentre nel Rio Negro un imponente lavoro di irrigazione rese possibile la creazione di oasi frutticole, come Villa Regina.
Nelle zone rurali, le donne si occupavano della casa, dell’orto e dell’allevamento di galline e conigli. Spesso lavoravano nei campi, a fianco degli uomini.
Gran parte dell’immigrazione italiana che si stabilì a Buenos Aires, si installò a La Boca e diede al quartiere un’impronta culturale molto forte. Oltre al dialetto della regione di provenienza, i migranti parlavano il cocoliche, un miscuglio di spagnolo e italiano.
Gli uomini lavoravano al porto, scaricavano le navi, lavoravano nei cantieri e costruivano abitazioni precarie di lamiera o legno, i «conventillos» in cui ogni famiglia disponeva di una stanza e condivideva la cucina e il bagno.
Regno indiscusso delle donne, il conventillo accoglieva decine di famiglie. Senza luce e senza aria, le abitazioni erano allineate attorno a un patio comune, dove conviveva una moltitudine di lingue e dialetti. Le donne passavano la maggior parte della giornata lavando, cucinando e badando ai bambini.
Il patio e la strada erano gli spazi di socializzazione e scambio, dove le donne svolgevano le attività domestiche o lavorative.
Lo sciopero delle scope
Le donne e i bambini dei quartieri di La Boca e Barracas furono i protagonisti di una delle proteste più famose di inizio del secolo scorso (1907), conosciuta come «la huelga de las escobas», (lo sciopero delle scope).
Gli inquilini del conventillo «Los cuatro diques», nel quartiere Barracas, rifiutarono l’aumento dell’affitto e in pochi giorni altri 500 conventillos si unirono alla protesta. Gli inquilini elaborarono una lunga lista di reclami che consegnarono ai portinai, incaricati di ritirare le quote mensili.
L’assenza degli uomini per lavoro obbligava le donne e i bambini ad affrontare la polizia e le autorità giudiziarie. Ne «las marchas de las escobas», (le marce delle scope), bambine e bambini di tutte le età manifestarono con le scope in mano lungo le strade del sud di Buenos Aires.
La mobilitazione coinvolse a catena molti conventillos, da cui la polizia venne più volte cacciata a colpi di scopa e secchiate d’acqua bollente.
Gli anarchici e i socialisti appoggiarono politicamente e materialmente gli scioperanti, e misero a disposizione i locali per le assemblee.
Gli scontri con le forze dell’ordine divennero sempre più crudi. Il funerale di un ragazzo di 15 anni, Miguel Pepe, colpito a morte dalla polizia, si trasformò in una marcia di 15 mila persone, capeggiata dalle donne.
Verso la metà del 1907 le ribellioni si spensero, benché nei conventillos coinvolti nella protesta le condizioni di vita fossero addirittura peggiorate. Molti degli scioperanti stranieri vennero espulsi dal paese.
VITA QUOTIDIANA
«No sin esfuerzo me adapté a todo. Aprendí a hablar el español con el trato de la gente, y sola, a leer y escribir en este idioma (…). Nos llevó un tiempo acomodaos a la realidad de este nuevo destino, de un país que no era el nuestro, pero que fue el de nuestros hijos». (Non fu senza sforzo che mi sono adattata a tutto. Ho imparato a parlare spagnolo relazionandomi con la gente e, da sola, a leggere e scrivere in questa lingua. Ci volle un po’ di tempo per abituarci alla nuova realtà di un paese che non era il nostro, ma che diventò quello dei nostri figli). (Maria Rizzoti, in Mujeres Inmigrantes. Historias de vida).
Le donne furono le mediatrici tra la cultura di origine e quella di arrivo. Ebbero un ruolo fondamentale nella trasmissione culturale e nel mantenimento dei tratti identitari, in particolar modo nella preservazione delle tradizioni gastronomiche e della medicina popolare. Le ricette dei piatti regionali passarono da madre a figlia, con l’aggiunta di ingredienti locali. Le donne portarono con sé le spezie usate abitualmente nella cucina italiana, come il rosmarino, la salvia, il timo, l’origano.
Per quanto riguarda il lavoro, alla fine del XIX secolo il mercato femminile offriva poche attività in genere poco qualificate, la maggior parte nel servizio domestico. Le donne lavoravano come cameriere, lavandaie, cuoche, stiratrici, camiciaie o ricamatrici.
Il lavoro femminile era spesso invisibile, dato che le attività domestiche non venivano remunerate e quindi non erano considerate veri lavori. In realtà le donne si occupavano di molte cose, tra le quali le faccende domestiche, i pasti, i bambini, la medicina popolare, le conserve, il pane e il sapone.
Con l’industrializzazione, le donne si incorporano nelle fabbriche tessili della capitale – come Alpargatas e Grafa – e in diverse fabbriche di Barracas che producevano fiammiferi, tabacco, candele e sigarette.
Anche l’industria dei vestiti iniziò ad assumere lavoratrici per le diverse fasi della produzione: disegno di modelli, taglio e cucito, stiratura. La maggior parte lavoravano a domicilio, poiché la macchina da cucire era un investimento accessibile alle famiglie operaie. Negli stabilimenti produttivi il salario femminile era inferiore a quello maschile. Nella fabbrica di Alpargatas, ad esempio, per lo stesso orario di lavoro le donne ricevevano da uno a due pesos e gli uomini da tre a quattro pesos.
Impegno sociale
A partire dal 1896, le donne si dedicarono anche all’attività sindacale. I conflitti iniziarono nei primi anni del XX secolo in alcune industrie di sigarette, fiammiferi e tessuti, dove la mano d’opera femminile immigrata era numerosa e superava la mano d’opera locale del 25%.
Nel 1904 le sarte e le disegnatrici di moda furono protagoniste di un famoso sciopero in cui chiedevano miglioramenti di stipendio e migliori condizioni di lavoro. Nel 1919 ci furono importanti scioperi del personale telefonico per orario abusivo e ambiente di lavoro inadeguato.
Le italiane furono attivamente presenti nei movimenti di lotta per i propri diritti. Tra queste, Carolina Muzzilli, socialista e figlia di italiani, partecipò a varie manifestazioni, assemblee e congressi. Diresse il giornale «Tribuna Femenina» e scrisse articoli sui diritti delle donne e contro lo sfruttamento. Formò parte del «Centro Socialista Femenino» fondato nel 1902, il cui fine era far conoscere alle donne i propri diritti e doveri.
La dottoressa Juliana Lanteri, di origini piemontesi, fu la prima donna a ottenere un titolo universitario in Argentina e lottò a favore del suffragio femminile. Nel 1919 si presentò come candidata deputata e realizzò una simulazione di voto alla quale parteciparono circa 4 mila cittadine. Da quel primo tentativo passarono più di 30 anni perché il voto femminile si convertisse in un diritto reale in tutta l’Argentina.
Il presente
Oggi l’Argentina è un paese di emigrazione e immigrazione.
Dalla fine degli anni ’70 del XX secolo, molti argentini nipoti e bisnipoti di italiani hanno deciso di ripetere il cammino che i loro avi avevano fatto un secolo prima, tornando a migrare. La dittatura militare e la crisi economica degli anni ’80 e del 2001 sono state alcune delle cause fondamentali di questo nuovo esodo.
Tutto ricomincia. Le condizioni di viaggio e le comunicazioni sono altre, però il sentimento di sradicamento è lo stesso. Le radici sono lontane e la lingua è solo un suono familiare.
Terminata l’ondata europea del secondo dopoguerra, in Argentina acquista visibilità il flusso migratorio proveniente dai paesi limitrofi, come Paraguay e Bolivia. Minori ma sempre considerevoli gli arrivi da Cile, Uruguay, Brasile e Perù.
I nuovi venuti si concentrano nelle aree urbane vicine ai grandi centri di consumo. Accanto alle migrazioni «tradizionali», si registra negli ultimi decenni la presenza di nuove comunità di immigrati promossa direttamente dal governo di Menem durante gli anni ’90 – come quella russa e ucraina – e, più recentemente, quella degli africani. Molti sono richiedenti asilo che, non essendo riusciti a raggiungere l’Europa, hanno optato per una destinazione meno richiesta.
Benché la migrazione dai paesi limitrofi sia storica, la società la considera un fenomeno nuovo e sembra dimenticare le caratteristiche in comune con gli esodi europei dei secoli XIX e XX: il predominio delle reti personali nei circuiti di distribuzione dei migranti, i modelli di accompagnamento familiare e l’importanza della comunità di origine come referente culturale e affettivo. Tipiche della migrazione più recente, sono invece le rimesse e la circolarità del fenomeno.
I migranti boliviani si organizzano in maniera analoga a quella degli italiani arrivati a Buenos Aires nel secolo XIX. I boliviani in Argentina hanno dato vita a circa 200 associazioni gestite da giovani tra i 30 e i 45 anni, in prevalenza commercianti. Altri immigrati lavorano nell’industria, nell’agricoltura e nella costruzione edilizia.
Oggi però c’è un’inversione nell’ordine tradizionale della migrazione. In passato, i primi a partire erano gli uomini. Attualmente si assiste a una «femminilizzazione» dei flussi migratori: confermate nel ruolo di gestione familiare, le donne scelgono di lavorare in paesi lontani mantenendo il più possibile il legame con la terra d’origine, dove vogliono ritornare per ricongiungersi con i propri affetti.
Il coraggio e la dignità sono i due elementi che caratterizzano le migranti. La nostalgia rimane sullo sfondo di un presente in costruzione. 

Di Paola Cereda

Paola Cereda




La faccia sporca dell’energia pulita

Goias: iniziative della chiesa in un drammatico contesto sociale  

Nello stato di Goias la situazione di povertà della gente è aggravata da un fenomeno recente: aumento della coltivazione della canna da zucchero per la produzione di carburanti biologici. A difendere i diritti della gente c’è sempre la chiesa, gemellata con la diocesi di Modena.

Agli occhi di molti di noi occidentali esiste solo il Brasile delle spiagge soleggiate di Rio de Janeiro con le sue ragazze dai corpi ambrati, o quello del giornioso carnevale di San Salvador di Bahia; ma ovviamente il Brasile non è solo questo. Esiste anche il Brasile di certi stati ai quali, dopo l’introduzione della canna da zucchero, sono stati «completamente cambiati i connotati»: nel nord-est sono sparite quasi per intero le foreste originali, la mata atlantica; negli stati centro-occidentali, come nel Goias per esempio, sta scomparendo il cerrado, la savana brasiliana, al cui interno si trovano oltre 100 mila specie di piante, di cui quasi la metà non sono presenti in nessun altro luogo al mondo; al loro posto distese senza fine di piantagioni di canna da zucchero.
La ragione è semplice: si sta cercando in maniera sempre crescente di implementare l’uso di questa pianta come «fonte di energia sostenibile» per la produzione di biocarburanti.
Già nel 1975, il governo brasiliano aveva lanciato il programma nazionale Proalcol, per incentivare l’uso del combustibile «più pulito al mondo», con lo scopo di muovere il parco macchine nazionale. Proseguendo con questa filosofia, nel 2007 il governo di Lula da Silva ha firmato un accordo commerciale con gli Stati Uniti, in funzione del quale ha deciso di ampliare di cinque volte le superfici dedicate alla coltivazione della canna da zucchero, che in Brasile corrisponde già a un territorio pari all’estensione di Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
L’idea di sostituire la benzina con questo biocarburante sembrerebbe la più felice delle soluzioni. In realtà, come accade nella maggior parte delle situazioni, anche questa medaglia ha il suo rovescio. In primo luogo, la coltivazione estensiva della canna da zucchero sottrae terreni ad altre coltivazioni come il mais, il riso e i fagioli, che sono la base alimentare della fascia della popolazione più povera.
In seconda battuta, nei paesi in via di sviluppo, la richiesta di biocarburanti sottrae la terra ai piccoli coltivatori, per non parlare dell’ attuale speculazione sul prezzo dei generi di prima necessità. La creazione di grandi latifondi distrugge le strutture tradizionali della proprietà e della produzione.
Non mancano nemmeno le conseguenze sull’ambiente. Le monocolture di piante energetiche impoveriscono i terreni; l’impiego di pesticidi e concimi chimici avvelena le falde freatiche; le riserve idriche vengono razionalizzate in favore delle colture destinate all’esportazione.
Ancora più importante l’aspetto «umano» della vicenda. Le dinamiche migratorie risentono delle scelte economiche. Così, da un lato, si assiste a un flusso migratorio dalla campagna alle grandi città, dove i contadini, rimasti senza terra, sperano in un futuro migliore. Al contrario, la richiesta di manodopera per il taglio e la raccolta della canna da zucchero richiama un grande numero di lavoratori stagionali, i cortadores de cana de açucar, che finiscono con l’essere sfruttati e ridotti a vivere in stato di semischiavitù all’ interno delle piantagioni. Basti pensare, per quanto incredibile, che in Brasile il primo sindacato dei cortadores de cana de açucar nacque nel 1955 per difendere i diritti dei morti a venire seppelliti in una bara di legno invece che nella nuda terra… talmente tanta era la rassegnazione a vivere una vita senza diritti e senza speranze che almeno si voleva un posto dove riposare in pace una volta passati a miglior vita.

Lo stato del Goias, sito nella parte centro occidentale del Brasile, concentra tutte le problematiche legate alla produzione intensiva di biocarburanti, in particolare della canna da zucchero. Il Goias, occupa un’area di circa 341.289,5 kmq, ovvero grande poco più dell’ Italia e conta una popolazione di 6 milioni di abitanti.
La sua storia è strettamente legata a quella di San Paolo; è da qui che nel xviii secolo arrivarono le prime spedizioni di coloni portoghesi in cerca d’oro e di manodopera indigena da utilizzare nelle piantagioni. Quando la «febbre dell’oro» si esaurì, l’economia si spostò sull’agricoltura e l’allevamento.
Tuttavia, nonostante l’apparente ricchezza in questo stato vive una moltitudine di persone povere e prive dei diritti fondamentali. Contadini che, privati dai latifondisti della loro fonte di sostentamento, si avventurano nelle grandi città, finendo per alimentare le fatiscenti baraccopoli sorte negli ultimi 30 anni.
Chi, invece, non ne ha voluto sapere di abbandonare la campagna, ha dato vita al fenomeno dei sem terra (senza terra), contadini che si sono organizzati in associazioni per combattere i grandi proprietari terrieri e ottenere dallo stato federale la tanto agognata «riforma agraria». La lotta si è concretizzata nella formazione degli asientamentos, terreni occupati e coltivati, che con gli anni sono diventati una vera e propria sfida ai latifondisti.
Un altro fenomeno di importante rilevanza sociale che interessa lo stato del Goias sono le migrazioni di manodopera stagionale, ovvero i cortadores de cana de açucar, provenienti principalmente dalle regioni ancor più povere del nord-est brasiliano. Si stima che questa migrazione intea al Brasile coinvolga circa 30 mila persone all’anno. Lavoratori sottoposti a condizioni di vita disumane, privi di ogni diritto, che alloggiano in dormitori dove le condizioni igieniche sono carenti, il cibo insufficiente per compensare la grande fatica che questo lavoro comporta e le condizioni sono talmente pesanti da provocare, nei casi limite, la morte per fatica, o se non si arriva a tanto, sono molto comuni gli incidenti dovuti all’uso del machete senza le dovute protezioni agli arti, che la legge brasiliana richiederebbe ma che spesso sono disattese.

In questo difficile e complesso panorama sociale, nel 1975 è nata la «Commissione pastorale della terra» per opera dell’ allora vescovo di Goias Velho, don Thomas Balduino. Egli ha iniziato una serie di attività in difesa e sostegno dei più poveri, dei migranti, dei contadini e delle loro famiglie, che con gli anni si sono concretizzate in numerose attività a favore della comunità, come i centri di avviamento al lavoro per adolescenti, un centro pastorale per i minori, la radio comunitaria «Radio Villaboa», la Casa dell’agricoltura, la Scuola famiglia agricola e infine la Casa do migrante e il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti».
Queste attività sono state messe in opera insieme alla diocesi di Modena, con cui la diocesi di Goias Velho è gemellata, grazie anche all’intensa attività dei numerosi missionari modenesi, che hanno vissuto o vivono tuttora in Brasile, o grazie anche a volontari che semplicemente decidono di passare in questo modo le loro vacanze.
Questo intenso contatto tra le due diocesi ha portato poi anche alla collaborazione con l’associazione Modena Terzo Mondo, che da 13 anni sviluppa progetti di sostegno rivolti ai bambini, ai contadini senza terra e alle comunità locali. Tra questi, il sostentamento della Casa do migrante nella stessa città di Goias Velho.
La casa, nata formalmente nel 1996 in una vecchia abitazione di proprietà della curia, poi ampliata e ristrutturata nel 2000 proprio grazie ai volontari italiani, è ora in grado di accogliere 30 persone, alle quali per una cifra simbolica viene dato vitto e alloggio.
La Casa do migrante ha lo scopo di dare appoggio e assistenza temporanea a coloro che giungono a Goias dalle campagne circostanti per sottoporsi, per esempio, a visite mediche o assistere un familiare nell’ospedale cittadino, ma offre anche assistenza ai migranti provenienti da altri stati brasiliani che vengono per fare la stagione della canna da zucchero e si trovano in serie ristrettezze economiche. 

Non solo assistenza primaria e sostegno alle idee, ma anche promozione della conoscenza dei propri diritti e difesa sindacale. È questo l’obiettivo con cui è nato a Goias Velho il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti», che prende il nome dal suo fondatore:  classe 1934, carpigiano, missionario fidei donum in Brasile dal 1969.
Fin dal suo arrivo nella diocesi di Goias, don Cavazzuti si è distinto per la strenua difesa dei poveri e degli oppressi. Proprio per questo suo impegno, che si scontra con gli interessi dei latifondisti, nel 1972 rischia una prima espulsione dal paese. Nel 1978 diventa parroco di Mossamendes.
Ma è il 27 agosto 1987 che l’impegno e l’opera di don Cavazzuti rischiano di essere messi a tacere: durante una veglia di preghiera, un giovane, armato probabilmente dai latifondisti, spara al sacerdote. La pallottola lo colpisce al volto. Don Cavazzuti si salva, ma la sua vista ne è compromessa.
Nonostante l’attentato perdona il suo attentatore e lo visita in carcere, continuando poi a essere presente e attivo in mezzo ai deboli e indifesi, fino al suo ritorno in Italia nel 2007.
Il centro che porta il suo nome opera per la promozione e la garanzia della persona umana attraverso corsi di formazione, assistenza giuridica e difesa dei diritti violati. Al centro si rivolgono gli abitanti della città e delle zone rurali ma, soprattutto, i cortadores de cana de açucar che vogliono far valere i propri diritti sindacali contro lo strapotere dei latifondisti, i «senza terra», i piccoli agricoltori e gli «assentati», cioè quelle famiglie che, dopo anni di lotta e speranza, hanno finalmente ottenuto dal governo la tanto agognata terra da coltivare.
Il centro funge da «braccio operativo» della Commissione diocesana dei diritti umani, che si esplica sia nell’esecuzione delle azioni, sia nel rafforzamento delle associazioni locali in difesa dei diritti umani nei municipi e nelle parrocchie della diocesi di Goias Velho.

In Goias si sta vivendo un periodo di forti cambiamenti economici e sociali. Come abbiamo già detto, con l’avvento del biodiesel i terreni da pascolo per i bovini, sono trasformati, o stanno per esserlo, in terreni per la coltivazione della canna da zucchero e della soia. Questo fa sì che decine di migliaia di lavoratori giungano in questa regione soprattutto dal Nordest, per poi finire sfruttati, sottopagati e costretti a vivere in misere condizioni. Inoltre, sono ricattati: se protestano vengono lasciati a casa, sostituiti da altri disperati pronti a prendere il loro posto.
Il Centro «don Francesco Cavazzuti», insieme alla Pastorale della terra, la Casa del migrante, alla diocesi di Goias e tutte le associazioni di volontariato che lavorano con il mondo agricolo, sta cercando di fare un’opera di sensibilizzazione presso i sindacati locali e le comunità, affinché accolgano questi lavoratori che provengono da fuori, per umanizzare un po’ di più l’accoglienza.
Purtroppo, però, molti lavoratori hanno ancora paura a incontrare gli attivisti. Temono di perdere il lavoro, anche se qualcuno comincia a dare segni di insofferenza. Si comincia a capire che i lavoratori non sono solo «braccia», ma esseri umani con dei diritti.
In questo contesto le istituzioni locali, che sono ancora legate ai grandi latifondisti, non aiutano e non incentivano queste iniziative; anzi, sono aumentati i casi di minacce ai danni di coloro che si impegnano a sostenere i diritti di questi lavoratori.
Se continua così le prospettive non sono affatto molto rosee. Essendo decine di migliaia, ed essendo lavoratori stagionali, è molto difficile seguie il flusso, dare loro una mano e sostenerli e purtroppo, con l’aumento dei terreni adibiti alla coltivazione del biodiesel, la situazione peggiora di anno in anno.
In definitiva questa è la faccia sporca e nascosta dell’«energia pulita», che è venduta nel nord del mondo come l’energia che doveva risolvere il problema del petrolio, ma che invece sembra creae di nuovi.  

Di Manuela Fiorini

Manuela Fiorini




A caccia di energie

Sciamani ieri e oggi: tra modelli culturali e sperimentazioni scientifiche

Non è semplice definire lo sciamanismo, poiché gli   elementi che lo caratterizzano, il viaggio estatico, la musica e il concetto di malattia, pur nelle specifiche varianti locali, sono difficilmente scindibili tra loro. Anche se l’operato dello sciamano comprende una vasta gamma di pratiche di guarigione, i due elementi maggiormente caratterizzanti restano la capacità di curare l’aspetto spirituale della malattia e il viaggio
nella realtà non ordinaria al fine di ottenere la conoscenza e la guarigione fisica e spirituale.

Nella lingua dei tungusi della Siberia, la parola «shamàn» si riferisce a una persona che è capace di compiere viaggi nella realtà non-ordinaria, in uno stato alterato di coscienza. Anche se il termine è originario di un’area geografica specifica, la pratica dello sciamanismo è esistita, ed esiste ancora oggi, pressoché in tutti i continenti. Nel corso dei secoli, dalle regioni artico-siberiane e dell’Asia centrale si è diffusa, per le migrazioni delle stesse popolazioni paleomongole attraverso lo stretto di Bering, in tutta l’America settentrionale e meridionale, oltre che in molte aree dell’Asia meridionale e orientale, fino in Australia.
D’altro canto, in queste tribù di tipo animista, i problemi della quotidianità e del vivere di ogni individuo ricadono costantemente sull’intera comunità, mettendone a rischio equilibri e armonie intee. Così per scongiurare il pericolo di possibili «entropie» e disequilibri sociali, ogni membro della tribù crede nell’esistenza degli spiriti. Non sorprende, quindi, che in queste culture, ogni individuo, cosciente dei propri limiti umani e di fronte a determinati eventi, chieda aiuto agli stessi spiriti, avvalendosi, esclusivamente dell’esperienza o dell’intermediazione «privilegiata» dello sciamano.
arte dello sciamano: tra cosmologie
 e cosmogonie
La caratteristica comune di ogni processo di cura e di guarigione è il viaggio spirituale. Questo iter si concretizza attraverso il cammino dell’anima nella realtà extrasensoriale, che permette al guaritore di entrare in contatto con le «entità» spirituali. Ritenute per lo più alleate in cui ci si imbatte sotto forma di animali guida o di maestri spirituali – in genere antenati, figure mitologiche o saggi – queste entità conferiscono allo sciamano il potere e la conoscenza per aiutare e guarire se stesso, gli altri e il mondo dalla «malattia». Una missione universale che chiunque sviluppi capacità extrasensoriali può compiere attraverso un viaggio estatico e senza il sussidio di intermediari che si esprimono officiando rituali complessi.
E ciò può essere spiegato analizzando le strutture logiche del pensiero animista. Secondo le cosmologie più frequenti tra queste società, l’uomo vive sulla terra in una zona intermedia, tra un cosmo superiore e uno inferiore, associati a volte con il cielo e il mondo sotterraneo.
Queste tre zone sono collegate tra loro da un axis mundi, o asse verticale dell’universo, da alcuni chiamato «albero della vita». In alto e in basso questo asse passa attraverso aree «vuote» nella volta cosmica che possono condurre nell’universo inferiore o in quello superiore. Solo superando questi «buchi» il guaritore è in grado di passare da un livello di esistenza all’altro e di compiere il cammino contrario.
Tuttavia, questa esperienza muta continuamente in ogni diversa situazione. Non è una regola fissa, ma solo un modo di affrontare le diverse posizioni del cosmo e del proprio esercizio di conoscenza. Si tratta per lo più di sperimentazioni «personali» volte a guarire, ottenere informazioni o altre prestazioni consensuali, che garantiscono credibilità e rispetto in seno alla stessa società.
Tecniche o suggestioni a parte, anche per questa ragione lo sciamanismo non può essere considerato un sistema di dogmi e di verità di fede, ma solo un metodo per ottenere rivelazioni dirette dalle entità spirituali altre. In parte, per questo, lo sciamanesimo è stato osteggiato e combattuto come pericoloso antagonista proprio dalle religioni istituzionalizzate, non solo dalla religione cristiana, ma anche dal buddismo in Asia centrale e dal lamaismo in Siberia.
I nuovi orizzonti dello sciamanismo moderno
Gli sciamani non scelgono generalmente di diventare tali: all’arte della guarigione vi arrivano per vocazione, spinti dalle suggestioni psichiche di un sogno particolarmente forte e vivido, oppure attraverso una visione meditata, o più frequentemente in seguito alla guarigione insperata da una grave malattia. Prima di intraprendere il lungo cammino rituale che lo porterà a operare nella tribù, ogni neofita dovrà sottoporsi a un complesso percorso iniziatico da cui apprendere l’arte di curare, proiettarsi nel trascendente e di predire il futuro.
È proprio da questa fase di iniziazione extrasensoriale, o di liminalità «non comune», che prende avvio l’osservazione e la sperimentazione delle più importanti metodologie applicate dalle scuole sciamaniche modee dell’Occidente. Oggi sempre più persone, specialmente giovani, chiedono di conoscere da vicino questa antica tradizione spirituale per trae insegnamenti e indirizzi di vita. Modelli alternativi alieni rispetto a quelli tradizionali, considerati però più confortanti, meno impegnativi rispetto a quelli occidentali, ormai troppo pericolosamente svuotati di significato. Un agnosticismo forte, da cui si alimenta questo diffuso interesse dilagante che è testimoniato non solo dalla pubblicazione di numerosi libri sull’argomento, ma anche dalla popolarità di seminari, film, musiche e altri eventi che offrono l’opportunità di studiare e lavorare con sciamani provenienti da varie parti del mondo.
Entro questo orizzonte di riscoperta delle esperienze e tradizioni altre, occupa un posto di rilievo il lavoro di ricerca, insegnamento e di formazione condotto, ormai da quasi  40 anni, dall’antropologo americano Michael Haer, già docente all’Università di Berkeley in Califoia e alla New School for Social Research di New York. Dal 1987 è il fondatore del Core Shamanism, la scuola che ha contribuito, più di altre, alla riscoperta di queste antiche pratiche nel mondo occidentale. Inoltre, anche la Foundation for Shamanic Studies (Fss), che Haer dirige a Mill Valley in Califoia, attualmente rappresenta il maggior centro di insegnamento, didattica, ricerca e sperimentazione nel campo dello sciamanismo contemporaneo a livello mondiale.
Da anni la Foundation, è attiva anche e soprattutto nei paesi europei attraverso la Fss-Europa e le sue varie sezioni (Austria, Svizzera, Italia, Francia, ecc.) dotate di un corpo docenti internazionale (Inteational Faculty) che ha dato impulso notevole alla rinascita credibile dello sciamanismo nel mondo contemporaneo.
Uno degli obiettivi principali della Foundation è addestrare gli occidentali nelle tecniche di base e avanzate, sviluppando soprattutto un approccio basato sui principi e i metodi dello sciamanismo tradizionale (estasi, visioni, ritmi musicali, suggestioni, incantesimi etc), ma accessibile alla modea cultura. Un sistema perciò applicabile alla vita quotidiana, che è in grado di diffondere e rendere attuabili le pratiche fondamentali e transculturali di una tradizione antica.
Per quanto attualmente l’interesse nello sciamanismo sia enorme, molti dubitano che i metodi tradizionali possano essere applicati ai problemi della vita modea o che siano in qualche modo praticabili da noi occidentali. Partendo proprio da questi deterrenti scetticismi, il lavoro di Haer si è concentrato in particolare sulla possibilità di applicarli in ambito socio-sanitario, sviluppando soprattutto metodi di approccio complesso ai problemi di vita e di salute dell’uomo contemporaneo.
Oggi infatti, l’insegnamento e l’applicazione di questi principi, come avviene spesso presso molte scuole sperimentali, è in grado di rendere attuabili le pratiche fondamentali della tradizione locale, trasmettendone un sistema di valori neutro slegato da ogni tipo di condizionamento particolare. Alcuni praticanti associati alla Foundation hanno infatti lavorato nelle carceri e con le gang di adolescenti, altri si sono concentrati sui problemi dell’ambiente e sulla crisi ecologica del nostro tempo. Ovunque si sta cercando di recuperare l’antica saggezza ancestrale per proteggere la vita del pianeta e delle comunità umane, riportare equilibrio e armonia là dove ci sono squilibri, conflitti e disarmonie.
Così l’insegnamento richiama ogni anno migliaia di persone, che partecipano a corsi di addestramento e collaudando così un circuito scientifico formativo e informativo di assoluto valore avviato ormai da decenni.
Nel giugno del 2002, infatti, si è tenuto a Santa Fe, nel New Mexico, il primo convegno di medici e altri professionisti della salute, addestrati nel core shamanism, che si sono incontrati per scambiare le proprie esperienze e discutere come meglio integrare i metodi sciamanici nella loro pratica medica. Incontri che si sono succeduti con sempre maggiore consenso negli anni successivi allo scopo di garantire continuità a questo tipo di confronto di esperienze.
Anche per questo il core shamanism ha contribuito ad aprire nuove prospettive mediche anche nel trattamento dei problemi più strettamente psicologici. Ad esempio, la tecnica tradizionale del recupero dell’anima è diventata un complemento frequente della psicoterapia modea degli studi di mezzo mondo, secondo le linee indicate dalla psicologa statunitense Sandra Ingerman nel suo testo pionieristico «Il recupero dell’anima», edito ormai dal 1991.
nuove forme:  Vegetalisti e New Age
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti, la tendenza attuale è di non restringere il lavoro di divulgazione e formazione al trattamento dei soli problemi individuali, fisici o emotivi, ma di estenderlo anche alla sfera della vita collettiva e ai problemi sociali condivisi perciò da una moltitudine di casi specifici. Una preoccupazione che ha sempre caratterizzato l’attività del curandero tradizionale in ogni società locale.
Ma oltre a insegnare e diffondere lo sciamanismo nei paesi occidentali, la Foundation for Shamanic Studies promuove attivamente la collaborazione e l’interscambio proprio con gli sciamani tradizionali, i veri testimonial di un sapere conservato da millenni. In particolare, l’impegno della Fss a favore degli operatori tradizionali si concretizza attraverso due mirati programmi di cooperazione e di sviluppo. Il primo di «Assistenza tribale urgente» è rivolto ad aiutare individui e gruppi (finora soprattutto nativi americani) a rivitalizzare le loro tradizioni medico-empiriche perdute.
Il secondo, attraverso un altro programma chiamato «Tesori viventi dello sciamanismo», viene conferito un vitalizio annuale a due sciamani tradizionali, che si sono particolarmente distinti nel servizio alle loro comunità. Attualmente lo sciamanismo sta suscitando un rinnovato interesse sia nel campo degli studi specialistici sia in quello della cultura generale. In entrambi i casi, parte dell’utenza che si rivolge a questi centri sono troppo spesso i giovani attratti dalla possibilità di vivere quelle esperienze «alternative», che i media strumentalizzano e iconizzano come semplici fenomeni di costume.
Anche per questo l’importanza che assume oggi il fenomeno esotico nel contesto di una nuova religiosità, specialmente nell’area new age, non è legata tanto alla sua particolare struttura religiosa, quanto per il fatto sconvolgente che esso evoca, cioè la possibilità di un «viaggio in un altro mondo» attraverso uno stato alterato di coscienza.
C’è da rilevare, purtroppo, la diversità sostanziale dello sciamanesimo post-moderno dallo spirito autentico di quello storico: i viaggi al di fuori di sé di cui il new age si fa promotore, sono ben diversi per finalità; siamo lontani dal bene della comunità vissuta e sofferta da un curandero locale, mentre le esperienze extrasensoriali ascrivibili alla new age, ottenute spesso con l’ipnosi e sotto l’effetto di droghe, sono fini a se stesse, edonistiche, troppo spesso forme altre da «sballo» da discoteca o ancor peggio di pura tossicodipendenza.
Questa esigenza induce gran parte dei «pazienti» ad avvicinarsi all’esperienza rituale del cosiddetto vegetalismo, quel movimento underground che richiama adepti a recarsi soprattutto nelle aree del Sud del Mondo, ricche di varietà inestimabili di piante psicotrope. Specialmente in Ecuador, Perù e Brasile per provare l’esperienza di molti fitosistemi psicoattivi, tra cui l’ayahuasca, il potentissimo allucinogeno estratto da una liana della selva colombiana amazzonica.
Di contro, alcuni gruppi organizzati francesi hanno invece studiato in Africa programmi speciali di riabilitazione dalle stesse narcodipendenze. Come nel caso del processo di iniziazione sciamanica al culto dell’iboga, pianta dalle «prestazioni miracolose», che annullerebbe la dipendenza fisica e le inclinazioni psicotiche all’uso quotidiano delle droghe, attraverso la partecipazione al pericoloso rituale Bwiti ancora in uso tra le etnie babongo e mitsogo del Gabon.
Secondo alcuni dispacci medico-scientifici redatti dal Dipartimento della sanità di Washington, la radice dell’iboga verrebbe impiegata illegalmente, pur con dosaggi limitatissimi, presso alcune strutture ospedaliere degli Stati Uniti per il trattamento coatto delle tossicodipendenze, dietro cauzione di somme di denaro davvero elevatissime. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di una metodologia empirica che resta ancora ufficialmente sommersa o celata dai sistemi di cura scientifici istituzionali. Ma il pericolo è di altro tipo.
sciamanismo urbano
D’altro canto, ovunque stanno nascendo nuovi specialisti: neoguaritori di origine indigena e meticcia che si globalizzano e neosciamani bianchi che si dedicano alle arti native. Esiste di fatto tutta una gamma di offerte, studiate sulle esigenze dei turisti e differenziate in base al contesto regionale nel quale si attuano. Consistono in vari giorni di isolamento, digiuno e consumo continuo di psicoattivi. Ci sono anche stranieri che viaggiano per curare i loro problemi di salute, artisti che desiderano sviluppare la loro creatività e ricercatori interessati allo sciamanesimo.
E anche se potrebbe risultare equivoco ridurre tutte queste attività attorno alle piante visionarie a una sola modalità; tra loro però una di queste si distingue: proprio lo sciamanesimo urbano. Si tratta di un ramo del movimento New Age che faceva una rilettura specifica delle tradizioni sciamaniche in tutto il mondo, elaborando una specie di sciamanesimo universale, che auspica un’era di pace e di fratellanza, dove non ci sarà più bisogno né di leggi, né di dogmi, né di stati, né di chiese. Il genere umano ritroverà la via della «grazia», cioè dell’accordo con l’armonia cosmica e, con esso, la natura, la salute, la felicità.
Questa rivisitazione del tutto tipica della cultura latinoamericana, si fonda sull’interpretazione libera che proprio gli individui più eminenti, i leaders, fanno parte di una modea antropologia esoterica che riconosce e riconduce la propria esistenza e creazione all’universo primordiale indigeno.
Il neosciamanesimo è perciò controverso, diviene quasi un surrogato teologico. È stato criticato proprio per aver tentato di creare una religione amerindia unica, omogenea, astratta e idealizzata, che non si riferisce alle comunità e alle etnie e che, soprattutto, non entra in contatto con gli aspetti oscuri e conflittuali presenti nello sciamanesimo stesso: la morte, la guerra, la violenza e l’assenza di una distinzione nitida tra il bene e il male.
Il fatto è che questo annunciato paradiso in terra si nutre di argomenti e simboli sincretici, al limite del bricolage dilettantesco. Si va dal buddismo all’antico Egitto, dal misticismo cristiano allo zen, dallo sciamanesimo allo chassidismo ebraico e poi macrobiotica e ufologia, salutismo e cultura pellerossa, futurismo tecnologico ed ecologia. Insomma, tanta confusione così congeniale a una post-modeità che riesce a conciliare una critica apparentemente radicale alla società dei consumi con il business.
D’altro canto si può argomentare che tale pratica è anche solo un modo per giustificare come mettere il cosiddetto vegetalismo in contatto con le tradizioni autoctone millenarie, stimolando un’altra sensibilità, altri modi di vita e visioni del mondo del tutto particolari. Ma di fatto si tratta di modelli che lasciano certamente aperto un dibattito sull’etica di una tecnica empirica, non certo di una religione, che spesso non si pone il limite di sconfinare in campi troppo dissimili tra loro, mettendo in dubbio i dogmi e le competenze di fede su cui si fonda ancora il diritto ecumenico di rispettare la religione istituzionale. 

Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




Salvare, Chi?

Eticamente: persona, economia, finanza

Buenos Aires, 28 dicembre 2008. – Anche in America Latina, i giornali e i canali televisivi non fanno altro che parlare della crisi economica che ha investito il mondo. Quasi tutti e quasi sempre, parlano di essa come fosse un evento naturale, privo di veri responsabili. Sappiamo, invece, che l’economia è una scienza (o, come più plausibile, una non-scienza, cfr. MC dicembre 2008) inventata dall’uomo, che dunque ne è artefice, nel bene e soprattutto nel male.
In Argentina, nessuno ha dimenticato la devastante crisi che colpì il paese a cavallo del 2001. Fu, quella, una crisi prodotta da scelte economiche assurde (in primis, quelle imposte dal Fondo monetario internazionale), che si ripercossero pesantemente su milioni di argentini. In questi ultimi anni, il paese si è rimesso in piedi, crescendo a ritmi cinesi. Ma le cifre economiche nascondono realtà ben diverse. A Buenos Aires, città di stampo e filosofia europea, per le vie del centro ogni sera tornano i «cartoneros», uomini, donne e bambini che vivono cercando nei sacchi delle immondizie quanto è vendibile, recuperabile o semplicemente mangiabile. Mentre nel Nord (Tucuman, Oran, Salta, ecc.) la povertà rimane a livelli intollerabili, per un paese che è un grande esportatore di prodotti agroalimentari (dalla carne alla soia).
Insomma, oggi tutti parlano di crisi economica, ma moltissimi argentini dalla crisi non sono mai usciti ed ora altrettanti potrebbero tornarci. Davanti a ciò, non è fuorviante parlare soltanto di mutui subprime, di futures, di derivati o di auto che non si vendono più?
Abbiamo chiesto a Sabina Siniscalchi – anni di militanza in «Mani Tese»,  deputata nella precedente legislatura, oggi responsabile della Fondazione culturale di «Banca Etica» – di tenere una rubrica in cui si cercherà di spiegare come l’economia e la finanza possano, volendo, essere compatibili con la persona. Cercando l’etica in un campo dove, almeno fino ad oggi, è stato piuttosto raro incontrarla.

Paolo Moiola

Mentre i governi dei paesi ricchi stanziano fondi per salvare le proprie banche, e i cittadini/investitori temono di perdere i loro privilegi, nei paesi poveri c’è chi vive la crisi da decenni. Ma altri «nuovi poveri» si aggiungono alla massa.

Settecento miliardi di euro dall’Unione europea, oltre mille miliardi di dollari dal governo degli Stati Uniti, trenta miliardi dal governo italiano. In pochi giorni sono state reperite risorse gigantesche per far fronte alla crisi finanziaria, per salvare le banche e arginare il panico degli investitori.
Ma sempre più cittadini si sentono minacciati dalla congiuntura che sta sconquassando il sistema economico mondiale.
Hanno paura di essere privati di quei beni su cui si fonda, secondo le Nazioni Unite, la vera sicurezza umana: il lavoro, la casa, la salute, la pensione.
La loro paura cresce nella misura in cui percepiscono che lo stato non interverrà a soccorrerli, le ingenti risorse per i piani di salvataggio esigono, infatti, tagli ad altri capitoli del bilancio pubblico: la sanità, la scuola, la previdenza, la cooperazione internazionale.
La paura accomuna chi è già povero e chi rischia di diventarlo, chi vive nelle periferie dell’emisfero Sud e chi abita nelle metropoli del Nord.
Per molti la «povertà da crisi» è già realtà quotidiana: la Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ndr) calcola che il numero degli affamati crescerà di 40 milioni nel corso del 2009, la Banca mondiale dichiara che sono 100 milioni i «nuovi» poveri. Cento milioni che si aggiungono al miliardo e 200 milioni già censiti.
Nell’Assemblea per valutare i progressi compiuti verso gli otto «obiettivi del millennio», che si è svolta al palazzo di vetro nel settembre 2008, il segretario generale dell’Onu ha chiesto 30 miliardi di dollari per raggiungere il primo goal che punta al dimezzamento, entro il 2015, delle persone che vivono in povertà, ma queste risorse non si sono trovate. Sono stati racimolati 16 miliardi di dollari, una somma insufficiente per aiutare i paesi che sono ancora lontani dal traguardo e che anzi regrediranno proprio a causa della crisi.
Si è capito che le risorse per combattere la povertà si ridurranno ancora di più, perché per molti mesi, forse anni, la priorità verrà data al salvataggio delle economie ricche.

Anche la recente conferenza di Doha su «Finanza per lo sviluppo» si è conclusa con un ben magro risultato:  ha ribadito, con scarsa convinzione, alcuni degli impegni presi a Monterrey nel 2002 nel campo dell’aiuto allo sviluppo, degli investimenti e del reperimento di risorse locali, ma non ha avuto il coraggio di affrontare i veri nodi di una finanza di rapina: fuga di capitali, paradisi fiscali, corruzione, mancanza di trasparenza e tracciabilità.
Eppure sono queste le vere cause dell’impoverimento dei popoli del Sud: ogni anno 500 miliardi di dollari scappano dai paesi in via di sviluppo verso i paradisi fiscali o le grandi banche del Nord: 10 volte quanto viene destinato alla cooperazione allo sviluppo.
La conferenza non ha preso decisioni di rilievo, le cose davvero importanti sono state rimandate al G8 o al G20,  luoghi dove i poveri non hanno rappresentanza e dove si vuole solo rattoppare un sistema che ha mostrato tutti i suoi errori e le sue malefatte.
La globalizzazione governata da pochi paesi e dominata da pochi gruppi economici ha prodotto una crescita che il «Rapporto sullo sviluppo umano» dell’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndr) definisce crudele: una crescita senza occupazione, senza pari opportunità, che indebolisce i diritti umani e distrugge la natura.
Una classe politica miope, in particolare nel nostro paese,  sembra incapace di vedere vie d’uscita che non siano la ripetizione degli stessi errori degli ultimi venti anni.
Eppure la crisi potrebbe rappresentare una straordinaria opportunità se aprisse le porte a un nuovo modello di sviluppo.
Un modello le cui caratteristiche sono già delineate negli studi e nelle pratiche delle organizzazioni dei cittadini che si sono attivate per rispondere ai problemi che la globalizzazione ha loro creato.
Un modello che le Nazioni Unite hanno chiamato il Green new deal.
Rilanciare lo sviluppo a partire dall’ambiente, incentivare l’uso delle energie rinnovabili, favorire la green occupation, premiare le imprese socialmente ed ambientalmente responsabili, ridurre gli sprechi in tutta la catena della produzione, distribuzione e consumo.
Potenziare il capitale umano e sociale, investendo in istruzione e salute: i veri motori di sviluppo.

Rimettere l’occupazione dignitosa (il decent work secondo la definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro) al centro delle attività produttive, penalizzare le ristrutturazioni aziendali che comportano licenziamenti di massa.
Attuare tutti gli interventi fiscali, economici e finanziari che portano alla ridistribuzione delle risorse. Non è vero che bisogna puntare sulla crescita, che poi «sgocciola» fino ai poveri, come sostengono i liberisti: studi della New economic foundation dimostrano che per 100 dollari di crescita solo 60 centesimi arrivano ai poveri.
Intervenire con decisione sugli aspetti più rischiosi dei mercati finanziari: dai paradisi fiscali alle speculazioni sulle valute, dagli edge funds al segreto bancario.
Mettere fine all’economia di guerra. Gli investimenti nel settore degli armamenti e le spese per la difesa sono aumentati paurosamente a partire dalla guerra in Afghanistan: tutti gli impegni per lo sviluppo, tutti i processi di pace vengono annientati dal commercio mondiale delle armi sempre più fiorente.
Ridare riconoscimento e vigore alle sedi multilaterali di negoziato, secondo il principio della più ampia rappresentatività.
Eleggere a modello economico, ma anche culturale, i comportamenti virtuosi dell’economia civile e della finanza etica, basati sull’idea di mutualità, condivisione e giustizia sociale.
Un’agenda di cambiamento reale, che non ci rimanda al tempo dell’utopia, ma alle scelte possibili di oggi. 

Di Sabina Siniscalchi
Fondazione culturale di Banca Etica

Sabina Siniscalchi




Il cibo tra fede e salute

Aspetti culturali e religiosi degli alimenti

Dalla Bibbia ai Veda orientali, dal Corano ai precetti buddisti, da sempre la preparazione del cibo, il suo significato, i suoi rituali sono l’espressione di un’unica e intima tensione dell’animo umano a tessere relazioni con gli altri. E con l’Altro.

«F in dall’antichità gli uomini ringraziavano le divinità con sacrifici e attraverso offerte di cibo. Fin dalle epoche più remote la condivisione del pasto era cifra della volontà di mettersi in relazione con l’Altro, con il Divino, ma anche con l’uomo suo simile: era un convivio d’amicizia ed unità variamente intesa». Si apre così l’interessante libro di Paola Bizzarri e Davide Pelanda, «La fede nel piatto», edizioni Paoline.
Il testo è diviso in due capitoli principali: il primo rappresenta un viaggio attraverso le prescrizioni religiose delle principali religioni di Occidente e Oriente (ebraismo, cristianesimo, islam, hinduismo, buddismo e jainismo), e le usanze gastronomiche nate da ciascuna tradizione. Il secondo esplora, sia dal punto di vista politico-economico, sia storico sia, ancora, prettamente alimentare, i «saperi e sapori» del «cibo povero» e «dei poveri».
Entrambi ci mettono in relazione con mondi e culture diverse, passate e presenti.
Il cibo: tra divieti
e concessioni divine
«Il Signore disse a Mosè e a Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare tra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d’ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi».
L’elenco di divieti e di concessioni alimentari, contenuto sia nel Levitico (cap. 11) sia nel Deuteronomio (cap. 14), è lunghissimo e dettagliato, così come sono numerose le sure e i versetti del Corano in cui si definisce ciò che è halal (lecito) o ciò che haram (proibito). «Vi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quelli di Allah, l’animale soffocato, quello ucciso a bastonate, quello morto per una caduta, incornato o quello che sia stato sbranato da una belva feroce, a meno che non l’abbiate sgozzato (prima della morte) e quello che sia stato immolato su altari (idolatrici)…» (sura V,3).
Prescrizioni kasher e halal affondano le radici in retaggi sociali, religiosi e culturali semitici comuni a ebraismo e islam: il libro di Pelanda e Bizzarri ha il merito di permettere al lettore di addentrarsi in entrambe le tradizioni e di ritrovarvi le profonde affinità e continuità che i sanguinosi conflitti politici mediorientali degli ultimi sessant’anni hanno sepolto.
Cibo e salute
Tuttavia, il rispetto di certe norme alimentari non ha a che fare solo con la fede, ma anche con certo salutismo e rispetto per l’ambiente. Lo spiegano bene l’ebrea Manuela Sadun e il musulmano Elvio Isa Arancio.
«Il nutrimento è “adatto” perché lo scegliamo, perché ci amiamo, perché amiamo la nostra vita. (…) La salute, intesa nel senso più ampio possibile, implica il giusto rapporto con il cibo» racconta la Sadun a pag. 18 del libro.
«Mangiare è un mezzo, non un fine – ci spiega Arancio, sufi e ambientalista -, cerco di avere un atteggiamento etico: la mia scelta va verso il cibo sano, naturale e, per quanto possibile, non industriale. Prediligo frutta, verdura e legumi e ho drasticamente ridotto il consumo di carne, poiché sono consapevole che è una delle cause dell’attuale inquinamento del nostro pianeta. La lecità degli alimenti non è solo legata al rituale, ma anche a questioni sanitarie e etiche. Se mangiare carne tutti i giorni contribuisce alla deforestazione della terra, allora è qualcosa di illecito. C’è una cosa che, come musulmano, mi mette a disagio: il proliferare delle macellerie islamiche, dove si vende carne in grandi quantità. Che bisogno c’è di mangiarne così tanta? Anche questa sarà una forma di consumismo? Un modo errato di ostentare benessere?».
Religioni e alimentazione
dell’Estremo Oriente
Anche il buddismo, come è risaputo, è molto attento al cibo: «Mangiare carne spegne il seme della grande compassione» recita il Mahaparinirvana Sutra.
Scrive Davide Pelanda a pag. 41: «L’insegnamento del Buddha punta all’estinzione della sofferenza di tutti gli esseri senzienti: desidera la liberazione degli animali anche dalla violenza umana. (…) La compassione (karuna) sfocia spontaneamente in un atteggiamento di amore universale (metta, letteralmente “amicizia”).
Questo amore è regolato da dei precetti, dei codici di comportamento cui dovrebbero rifarsi tutti i credenti buddisti. I precetti vengono recitati sotto forma di preghiera, come: “Osservo il precetto di non uccidere nessun essere vivente”, oppure “osservo il precetto di non mangiare cibi fuori stagione”. A questi si aggiunge il precetto secondo cui non si deve mai essere causa di dolore per alcun essere vivente».
Il cibo dei poveri
La seconda parte del libro presenta un’altrettanto interessante riflessione sull’alimentazione «povera» del passato e del presente, sul dumping internazionale – merci, cibi, venduti al di sotto del prezzo di mercato, e causa di miseria per milioni di persone – e sulle mense dei poveri di tutto il mondo. Mense dove semi, tuberi e radici, legumi, frutta e verdura sono i principali, e spesso gli unici, ingredienti concessi a una sempre più vasta moltitudine di esseri umani. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Antiochia: dove Paolo impara a fare il missionario

2000 anni dalla nascita di san Paolo

«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» scrisse un grande oratore africano dei primi secoli cristiani, Tertulliano, osservando quanto succedeva ai suoi tempi. Questo è ben visibile anche negli Atti degli Apostoli. Dopo la lapidazione di Stefano e conseguente persecuzione contro i discepoli di Cristo, alcuni di essi, per evitare il peggio, fuggirono fino ad Antiochia di Siria (At 11,19), terza città dell’impero romano, dopo Roma e Alessandria, sede del governatore romano, con circa mezzo milione di abitanti greci, siriani, ebrei; incrocio di razze, culture, religioni.
La persecuzione di Gerusalemme è come un vento che investe un giardino di fiori e dissemina il polline lontano. Questi cristiani profughi da Gerusalemme erano così entusiasti della loro fede che anche ad Antiochia continuarono non solo a praticarla, ma anche a diffonderla attorno a sé. Dapprima solo tra ebrei là residenti. Alcuni che erano di Cipro e di Cirene in nord Africa, però, cominciarono a parlare di Gesù anche ai non-ebrei, ai pagani. «Si misero a predicare anche ai pagani, annunziando loro il Signore Gesù. La potenza del Signore era con loro, così che un gran numero di persone credette e si convertì al Signore» (At 11,20-21).
La predicazione del vangelo ai pagani è un passo molto importante nella crescita del cristianesimo: apre una nuova strada. Infatti agli inizi i cristiani di Gerusalemme erano tutti di origine ebraica e sembra pensassero che Gesù era venuto solo per gli ebrei. Fu l’entusiasmo di questi cristiani originari di Cipro e Cirene (abituati cioè a vivere la loro fede ebraica in un contesto più internazionale, a contatto coi pagani) ad aprire l’evangelizzazione verso i non-ebrei (greci o pagani).
In seguito sarà soprattutto Paolo a continuare tale missione; ma è bene notare che l’inizio della missione tra i pagani fu opera di cristiani semplici, senza alcun mandato speciale degli apostoli, ma solo in forza della loro fede; così pure non si sa chi per primo abbia portato la fede cristiana a Roma: con tutta probabilità furono marinai, commercianti, schiavi, che venendo dall’Oriente per primi condivisero la loro fede nella capitale dell’impero; Pietro e Paolo arriveranno più tardi e consacrarono la chiesa con il loro martirio.
Non occorre alcun titolo speciale per essere missionario. La chiesa è sana soltanto se i suoi laici sono evangelizzatori, nella famiglia, nel posto di lavoro, nella vita sociale. I primi e più efficaci missionari sono i genitori cristiani, i quali trasmettono la loro fede ai propri figli con parole e con l’esempio. La chiesa cattolica in Corea fu iniziata da un gruppo di laici che avevano conosciuto la fede cattolica da contatti con studiosi cinesi. In Giappone decine di migliaia di cattolici conservarono e trasmisero la fede ai loro figli, pur essendo rimasti senza sacerdoti per 200 anni.

Frattanto la comunità di Gerusalemme viene a conoscenza che ad Antiochia vi sono alcuni credenti in Gesù. Per raccogliere informazioni di prima mano su quanto sta avvenendo, viene mandato Baaba, un cristiano di ampie vedute e grande empatia. Contento di quanto vede, egli incoraggia la giovane comunità a restar fedele al Signore e si ferma per aiutare nell’evangelizzazione. Vedendo il grande lavoro, ha un colpo di genio e pensa di chiamare un aiutante, Saulo di Tarso col quale per un anno e mezzo lavorerà ad istruire la comunità. La risposta dei pagani è così entusiasta che il gruppo di credenti in Gesù si impone all’attenzione dell’ambiente circostante: «Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).  
In seguito giungono ad Antiochia informazioni sulla carestia che ha colpito la Giudea e quindi i cristiani di Gerusalemme. Con generosa solidarietà la comunità di Antiochia manda aiuti ai fratelli di Gerusalemme: «I discepoli allora decisero di mandare soccorsi ai fratelli che abitavano in Giudea, ciascuno secondo le sue possibilità. Così fecero: per mezzo di Baaba e Saulo mandarono i soccorsi ai responsabili di quella comunità» (Atti 11,30-31).
Questo quadretto della nascita della chiesa di Antiochia è un giorniello nel rappresentare cos’è la chiesa. La comunità nasce su iniziativa di credenti perseguitati che hanno il coraggio di andare oltre gli usuali confini geografici e culturali: parlano di Gesù ai pagani. La chiesa di Gerusalemme viene in soccorso a questa giovane comunità, mandando Baaba segno di comunione con Gerusalemme e missionario capace di comprendere e istruire. Baaba a sua volta cerca l’aiuto di un altro potenziale grande missionario, Saulo. Conseguenza di tale azione comune è la crescita della comunità che viene ora notata e chiamata per nome anche dall’ambiente esterno, «essi sono i cristiani». Conoscendo la difficoltà di Gerusalemme, la comunità di Antiochia manda aiuti: solidarietà, scambio di doni. Da Gerusalemme è arrivata la fede, a Gerusalemme arriva l’aiuto finanziario in tempo di difficoltà. Comunione di fede vuol dire anche comunione di beni.

È anche notevole che Saulo, qui ad Antiochia, per la prima volta fa il missionario in team con Baaba. Come non vedere in questo la sua preparazione, il suo tirocinio per la missione universale cui sarà inviato proprio dalla chiesa di Antiochia?
«Mettetemi da parte Baaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (Atti 13,1-4). Sarà la comunità di Antiochia che manda Baaba e Paolo in missione e tutti i viaggi missionari di Paolo inizieranno e si concluderanno in questa città, in questa chiesa che, essendo nata tra i pagani, sente più forte l’urgenza di evangelizzare i pagani nel mondo.

di Mario Barbero

Mario Barbero




MISSIONE DIRITTI

Parlando ancora di diritti umani

Sulla scia di «Diritti e Rovesci», monografia sui diritti umani pubblicata
dalla nostra rivista lo scorso ottobre, due interviste per tener vivo l’argomento e illustrare due modi in cui i missionari della Consolata mettono questo tema nell’agenda delle loro attività di animazione e formazione.

Oggi:  lezione di diritti umani

Conversazione con Luca Lorusso, cornordinatore del «settore scuola» del Centro di Animazione missionaria di Torino.

Luca, facci un esempio del tuo lavoro di animazione e formazione ai diritti umani nelle scuole.
È da alcuni anni che propongo nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado (le vecchie scuole medie inferiori e superiori) un percorso formativo dal titolo «I diritti dei minori», incentrato sulla «Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza» (1989). Insieme agli insegnanti, propongo ai ragazzi la lettura e l’elaborazione personale e di gruppo del testo del documento, offro un approfondimento su alcune violazioni di diritti e le loro cause e stimolo l’auto riflessione della classe su tale argomento. Ecco questo è un piccolo esempio di ciò che faccio.

Come è nato questo tuo interesse? Perché lo fai?
Sono un laico missionario della Consolata e mi occupo a tempo pieno di animazione missionaria. Benché già sporadicamente presenti nelle scuole attraverso testimonianze missionarie e incontri su popoli o paesi del cosiddetto Sud del Mondo, da qualche anno alcuni laici, tra cui il sottoscritto, hanno ricevuto il compito di pensare, progettare e attuare interventi di educazione alla mondialità didatticamente qualificati e metodologicamente innovativi che sfruttino le testimonianze di chi vive direttamente l’incontro con altre culture e i contributi dell’«esperto» in materia. Tutto ciò al fine di poter permettere un accesso ancora più ampio della missionarietà alle scuole.

Più concretamente, a chi ti rivolgi?
Da ormai quattro anni incontro bambini, ragazzi, adolescenti di ogni zona di Torino e della provincia, dalle zone «bene» a quelle più periferiche, dalla prima cintura cittadina, ai piccoli comuni della provincia, di ogni estrazione sociale e provenienza geografica.
I percorsi di educazione alla mondialità sviluppati in questi anni ci hanno permesso di approfondire molti degli aspetti sociali, culturali, ambientali che caratterizzano il mondo globalizzato in cui viviamo.
Avendo presente questo contesto proponiamo nuovi stili di vita ai bambini delle elementari attraverso fiabe e giochi che aiutano a entrare nelle storie dei prodotti di consumo. Per esempio, riflettiamo coi ragazzi sulla difficoltà di stabilire a priori se sia migliore la qualità di vita di un ragazzo italiano o di un ragazzo africano attraverso il confronto tra le loro due giornate tipo. Oppure, offriamo loro strumenti ed elementi critici per comprendere i meccanismi della comunicazione massmediatica e dei condizionamenti che ne derivano; approfondiamo con i ragazzi le cause storiche e attuali dell’impoverimento di gran parte della popolazione mondiale o della diffusione di epidemie.
Infine, condividiamo conoscenze e analisi sull’impatto ambientale del nostro stile di vita e sulle alternative possibili. Tutto per creare coscienza, allargare gli orizzonti, vivere in maniera libera e consapevole la nostra vita di tutti i giorni. Sono spazi importanti di comunicazione, condivisione e crescita nell’alterità, per molti ragazzi possibili soltanto in ambiente scolastico. Spero che chi sta pensando alla riforma della nostra scuola ne tenga conto.

E come parli dei diritti umani?
Direttamente o indirettamente, questo tema risulta presente in modo costante in tutti gli interventi: in qualsiasi incontro io faccia nelle scuole inevitabilmente arrivo a riflettere con i ragazzi sull’essere umano e sui diritti che, in ogni parte del mondo, vengono negati attraverso i vari tipi di violenza strutturale, economica, interpersonale, comunicativa.
I miei interventi cercano di far emergere quanto i ragazzi già sanno e l’esperienza che possono aver personalmente maturato di un determinato diritto.
Per educare ai diritti umani, quindi, non credo sia sempre necessario parlarne esplicitamente. L’umanità è lo sfondo, la passione e l’amore per essa, la voglia e la gioia di conoscerla in tutte le sue espressioni, l’impegno per sentirsene parte e per prendersene cura sono gli obiettivi a lungo e lunghissimo termine del mio lavoro nelle scuole.

E i giovani come rispondono alle tue provocazioni? Vedi il maturare di frutti nel tuo lavoro?
Come sempre accade in campo educativo, è molto difficile, se non impossibile, valutare a breve termine il raggiungimento di un obiettivo. Tanto più se la possibilità di relazione con i ragazzi si riduce a 6 o 8 ore distribuite su tre o quattro settimane.
Certamente però ci sono vari «segni» che aiutano a comprendere se un intervento abbia o meno qualche possibilità di lasciare un’impronta significativa nell’immaginario dei ragazzi oppure no. Innanzitutto, è di fondamentale importanza il coinvolgimento dell’insegnante e, possibilmente, la sua condivisione delle idee proposte nel percorso.
Occorre quindi la sua partecipazione attiva durante gli incontri, ma anche l’approfondimento che può offrire durante le ore di lezione della sua materia, in modo da aiutare la classe ad avere un approccio interdisciplinare a quanto riflettuto e a far sedimentare gli imput ricevuti durante il mio intervento in classe.
Altri segni sono, ovviamente, l’empatia e la partecipazione degli studenti stessi, oltre alla qualità dei dibattiti, delle riflessioni, la passione con cui a volte nascono confronti tra di loro e con me.
Spesso mi trovo stupefatto nel constatare quanto gli studenti siano sensibili e permeabili ai temi sociali, spesso mi trovo confermato nel pensiero che, nonostante la mancanza di informazione adeguata, o addirittura la presenza di informazione parziale, distorta, stereotipa e ideologica, i ragazzi desiderano profondamente un mondo migliore, non solo per se stessi, ma per tutti. Desiderano vivere una vita più umana, più sobria di quella proposta dai modelli dominanti, desiderano autenticità in un mondo che non fa altro che proporre amori, felicità, promesse, soddisfazioni inautentiche.
Se nei ragazzi non ci fossero questi semi di amore per la vita e per il mondo, anche quando sconosciuti a loro stessi, il mio lavoro di animazione missionaria nelle scuole sarebbe vano. Proprio perché questi semi ci sono il mio lavoro si incardina con qualche speranza nel più ampio lavoro che la chiesa e la società devono fare con i più giovani: educare, cioè tirare fuori l’umanità grande che si dibatte dentro di loro e aiutarli a darle forma.
A parte qualche caso isolato ho sempre avuto la fortuna di trovarmi di fronte bambini, ragazzi, giovani, insegnanti pieni di umanità e pieni di voglia di imparare qualche trucchetto nuovo per approfondirla, al contrario di ciò che i mass media vogliono farci credere sulla scuola e sulle giovani generazioni, e per fortuna ho sempre trovato persone che non avevano bisogno di un maestro che, in quanto «esperto», arrivasse a dispensare sapienza e buone maniere da acquisire a scatola chiusa e seduta stante, ma di una persona semplicemente capace di mettersi in ascolto e di proporre condivisione.

C’è un argomento fra quelli che presenti che va per la maggiore?
Uno dei temi che certamente suscita maggiore partecipazione e passione è il tema degli immigrati, soprattutto nei periodi in cui l’informazione nazionale spinge molto sui tasti dell’emergenza e della sicurezza. In questi casi, i condizionamenti della comunicazione di massa diventano particolarmente evidenti e le polarizzazioni rischiano spesso di assumere i connotati dei dibattiti televisivi in cui parlare non significa necessariamente essere ascoltato e ascoltare. Questo permette di stimolare dinamiche utili ad educare i ragazzi alla gestione di una discussione sempre, aperta alla modifica delle proprie opinioni, piuttosto che alla chiusa contrapposizione.
Ad ogni buon conto, il grande tema dei  diritti umani trova sempre terreno fertile, un terreno in continua mutazione, un terreno «liquido» che richiede sempre nuovi metodi di semina, ma pur sempre terreno adatto a far crescere piante (forse diverse da quelle che ci aspettavamo) che poi daranno frutti (forse diversi, forse migliori di quelli che avremmo voluto gustare).

Ci vogliono visione e metodo

Conversazione con padre Giovanni Scudiero, membro del direttivo internazionale di Pax Christi, e cornordinatore della Commissione Giustizia e Pace della Regione italiana dei missionari della Consolata.

Diritti umani violati, diritti umani promossi. Da sempre te ne sei occupato nel corso della tua esperienza missionaria, spiccatamente orientata alla promozione della giustizia e della pace. Dove nasce l’interesse alla pace nel vostro istituto, oltre che dal vangelo, ovviamente?
Secondo le sensibilità proprie di ciascuno, si possono dare mille risposte a questa domanda, dalla più spiritualista a quella più marcatamente orientata allo sviluppo. Credo, però, che anche su questo tema meriti in qualche modo rifarsi al nostro fondatore e all’eredità spirituale che ci ha lasciato.
Mi riferisco in modo particolare a una visione iniziale e quindi a un senso della missione che nel beato Allamano porta a universalizzare il senso di frateità, ad allargae i confini, non limitandolo esclusivamente alla città di Torino dove ha esercitato praticamente tutto il suo ministero sacerdotale, ma esportandolo all’Africa, al mondo.
C’è in questo sguardo ampio una premessa fondamentale per un discorso sui diritti umani: di uguaglianza, di comunione, di solidarietà, di frateità universale. E questo discorso si radica nel suo essere cristiano, un cristiano impegnato in modo specifico, ministeriale, nel servizio agli altri, a tutti gli altri, e quindi aperto alla missione. La sua espressione di solidarietà universale è, secondo me, una versione ante-tempus di quello che diventerà poi nel nostro istituto il discorso sui diritti umani. Abbiamo tutti diritto alla vita e fondamentalmente questo diritto nasce dal nostro essere uguali, di pari dignità; tutto ciò a prescindere da ogni differenza di tipo etnico, geografico o culturale.
Il diritto alla pari dignità è un concetto che diventa totalmente insignificante se rimane un concetto astratto e non è vissuto nella reciprocità… senza trasformarsi in una maniera concreta di relazionarsi. Direi che nell’Allamano è importante questa visione iniziale, ma ancor più significativo è il metodo che ne deriva.

A cosa fai riferimento quando parli di metodo?
Il fondatore risponde da cristiano a questa esigenza di solidarietà: si organizza e soprattutto si cerca un collaboratore, nella persona del canonico Camisassa, che sembra avere doti straordinarie in certi aspetti più pratici, su un piano più umano e di sviluppo. L’Allamano non si va a scegliere un filosofo, un teologo, o un padre spirituale: va a cercare quello che lui sa in qualche modo di non essere, o di non essere a sufficienza.
Si completa, scegliendosi una persona capace di interagire con la realtà concreta, dedicando tempo e cura al dettaglio dell’opera che l’Allamano aveva in testa. Questo sodalizio è stato in grado di compiere un’operazione fondamentale: leggere la realtà, i fatti, intuire e poi capire che tipo di struttura organizzativa fosse necessaria per svolgere l’azione pastorale ed evangelizzatrice, tanto in Italia quanto in missione.

Questo metodo consisterebbe dunque soltanto nella scelta, diciamo così, del «personale»?
Certamente no. Il fatto che lui si scelga questo tipo di collaboratore, riconduce secondo me a un’idea centrale nell’Allamano, che  ancor prima di inviare gente in missione aveva ben chiara in mente: l’importanza di formare la persona prima di fare e formare il cristiano.
Ci sono tanti aspetti della vita del fondatore, tante scelte da lui fatte, che sottolineano questa sensibilità che lui ebbe. Pensiamo, per esempio, alI’affetto speciale che ebbe per i fratelli coadiutori, quei religiosi che dedicano la loro vita in modo particolare al lavoro e quindi all’edificazione dell’ambiente. O ricordiamo anche soltanto l’enfasi che pose sul lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, come criterio formativo per i suoi missionari e le sue missionarie. Il «prima uomini e poi cristiani» non è assolutamente un concetto periferale nel fondatore.
Fondamentale, ripeto, è la sua capacità di leggere la realtà, tanto qui in Italia come in Africa, in modo da orientare le proprie risposte verso obbiettivi mirati.
È interessante notare come, mediante i corsi del convitto ecclesiastico, forma i giovani preti diocesani attraverso, anche, l’organizzazione di corsi di morale, sociologia, politica, per prepararli a rispondere alle esigenze più svariate in modo coerente ai bisogni espressi dal territorio. Per non parlare dell’attenzione data al mondo della comunicazione, dei media diremmo oggi.
Questo stile lo applica a maggior ragione per i suoi missionari, che dovranno guardare la realtà con delle prospettive più ampie.
Con loro instaura un rapporto formativo basato sul dialogo. Non soltanto si sente maestro nei confronti dei missionari che invia, ma egli stesso vuole imparare, vedere, conoscere. Vuole capire come una visione possa diventare realtà attraverso delle scelte concrete. Sa di non aver sempre la risposta pronta di fronte a una determinata esigenza o a una certa sfida e la consapevolezza della giustezza o meno di un criterio da applicare gli viene  proprio dalla comunicazione costante con i missionari che lavorano sul campo, attraverso i loro diari e la loro corrispondenza: lettere dove lui viene a riflettere, pregare, disceere le scelte che verranno fatte, dando a una visione di missione una storia concreta.
Voleva sapere tutto di tutti, si informava sull’andamento degli incontri, sulla situazione delle persone, voleva conoscere i nomi. Questo radicarsi profondamente nella storia locale, nella fattualità e nelle problematiche della gente dà vita a un annuncio incarnato in un contesto storico, rispondente in primis alla situazione di vita della gente.

Una missione, quindi, improntata tantissimo sull’ascolto dell’altro…
Sì. Del resto tantissimi testimoni ricordano la capacità di ascolto del nostro fondatore. Questa dell’ascoltare era una prassi che lui esercitava e che  pretendeva nel limite del possibile che fosse praticata anche dai suoi missionari. Purtroppo, noi missionari non siamo così capaci di coltivare sempre questa mentalità di ascolto. Non sempre riusciamo a inserirci in un contesto storico concreto con gli «occhi vergini», ovvero senza pregiudizi, con la pazienza di inserirsi, ascoltare chi ne sa più di noi: gli anziani del posto, il confratello più esperto, ecc.
Anzi, penso che questa nostra poca attenzione dedicata all’ascolto è quello che ci sta bloccando soprattutto nel nostro ad gentes oggi in Italia, nel nostro fare missione qui, da dove siamo partiti. Chi sono le persone in Italia che noi siamo pronti ad ascoltare? 
Oggi poi, sentiamo l’esigenza di «aguzzare l’orecchio» e dare al nostro ascolto una dimensione più ampia, che ci permetta di andare oltre la metodologia usata finora: quella della lettura concreta di una realtà al fine di rispondere a bisogni concreti e localizzati. Con il tempo siamo arrivati a capire i profondi legami che legano il locale con il globale, a cercare le radici di un problema che sembra riguardare una singola comunità in un contesto ben più ampio.
Di fronte a un problema di mancanza di risorse in un determinato posto è giusto intervenire offrendo una mano tesa e un aiuto immediato pratico. Ma è anche fondamentale farsi, e fare anche in giro, qualche domanda sul perché di un servizio e o di un bene negati a una comunità che ne avrebbe diritto.
E questo lo si fa?
Non sempre. Del resto, ciò che più o meno da tutti si tende a fare è dare risposte semplici e immediate ai problemi concui dobbiamo quotidianamente confrontarci nella vita di missione. Manca l’ospedale, facciamo l’ospedale… Sono risposte semplici anche se, non nego, richiedono risorse e fatica. Sono semplici nella loro analisi e nella loro conclusione.
Nella nostra storia missionaria non sempre abbiamo sottolineato l’importanza di una riflessione e un’analisi che penetrassero più in profondità, toccando non soltanto gli effetti di un problema, ma sfidandone le cause. Molte volte, la fretta e l’urgenza di risolvere un bisogno pratico (o quello che  noi percepivamo come tale) ci ha distolto dal dovere di andare alla radice del nostro agire, alla ricerca delle vere cause, magari per il timore di imbarcarsi in percorsi verso i quali non ci sentivamo sufficientemente attrezzati e preparati. 
Oggi, invece, ci rendiamo conto che quelle risposte superficiali, isolate da un contesto culturale o non rispondenti alla sfida sociale che mette in pericolo o ferisce una comunità,  rischiano di essere semplici cerotti su ferite che diventano sempre più grandi e profonde.
Una promozione umana, seria, radicata in un contesto, che si pone prospettive di futuro alternativo non può, oggi come oggi, prescindere da un lavoro di coscientizzazione e formazione sui diritti fondamentali della persona; lavoro che in alcuni casi può anche assumere il ruolo di grido profetico e di denuncia. Significa dare alle nostre risposte uno sguardo più ampio, che non si fermi allo specifico problema locale, ma guardi più in là, alle radici del problema.
Senza questo sguardo e alla domanda di giustizia che ne deriva le nostre opere ci renderanno necessariamente eterni. La gente continuerà a dipendere dal missionario capace di trovare soluzioni ai loro problemi più immediati, problemi che si rigenereranno in continuazione e avranno bisogno di sempre nuovi interventi, aggiustamenti, perfezionamenti e manutenzioni. 

a cura della redazione