Social, What?

Eticamente: persona, economia, finanza

Negli anni Novanta si celebrarono i grandi summit dell’Onu. Poi la lotta
al terrorismo spazza via i pochi progressi per un sistema di regole.
Ma la società civile si organizza sempre più a livello planetario. E ogni anno fa sentire la propria voce.

Pochi lo ricordano, ma gli anni Novanta sono stati segnati dai grandi vertici dell’Onu sullo sviluppo: la prima, nel 1990, fu la conferenza sull’infanzia, seguita da quella sull’ambiente a Rio nel 1992, poi a Vienna, nel 1993, il summit sui diritti umani.
A metà del decennio si sono tenuti due eventi grandiosi per portata e partecipazione: il Social Summit di Copenaghen, che si è occupato di povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, e la Conferenza su «Donne e sviluppo» di Pechino.
Poi, in successione, si sono celebrati il vertice sulla popolazione del Cairo, la conferenza Habitat di Istanbul e il summit sulla Sicurezza alimentare di Roma.
Finito il confronto tra le due superpotenze, che aveva paralizzato il mondo per oltre quarant’anni, l’Onu ha convocato i governi di tutti i paesi per riscrivere le regole della comunità planetaria.
Gli incontri erano animati da grandi speranze, dall’idea che si potesse finalmente eliminare la miseria, assicurare i diritti fondamentali e garantire la pace, grazie alla raggiunta democrazia e alle ingenti risorse liberate dalla fine della guerra fredda e dalla graduale ricomposizione dei conflitti locali, foraggiati dalle due superpotenze.
Lo sviluppo dei popoli era l’obiettivo condiviso dalla diplomazia mondiale.
Ne sono stati affrontati e discussi tutti gli aspetti, sono state sottoscritte importanti dichiarazioni e altrettanto importanti piani di azione. I capi di stato  e di governo hanno firmato impegni solenni.
Purtroppo, all’inizio del nuovo millennio, gli attentati alle Torri gemelle e il corso unilaterale americano hanno tragicamente interrotto il processo verso un sistema di regole globali e un assetto istituzionale mondiale: la guerra e la lotta al terrorismo hanno occupato completamente l’agenda politica internazionale.
I summit sono stati sospesi, i trattati bloccati, i vertici svuotati di presenza e di significato, le Nazioni Unite indebolite.
Ma la società civile non si è arresa.

Proprio durante i vertici degli anni Novanta si erano costituite le prime reti non governative globali che raccordavano le realtà sociali dei vari paesi del Nord e del Sud del mondo. Organizzazioni per lo sviluppo, i diritti umani, la tutela del patrimonio naturale, le minoranze si sono ritrovate ad affrontare gli stessi problemi e a condividere le stesse battaglie: la cancellazione del debito, la messa al bando delle mine, la difesa dell’acqua, la regolazione della finanza, il rifiuto della guerra…
Hanno dato vita ai «vertici sociali» di Seattle, Porto Alegre, Genova, Nairobi e, quest’anno, Belém; hanno promosso manifestazioni contemporaneamente in centinaia di capitali, hanno lanciato le stesse petizioni.
La società civile globale, a dispetto dei pochi mezzi, pur disconosciuta se non apertamente osteggiata dai governi, ha fatto sentire la propria voce.
Ha lanciato l’allarme sui costi sociali di una globalizzazione senza diritti, ha denunciato i rischi economici di una finanza sfrenata, ha interpellato le istituzioni inteazionali e nazionali, ha cercato di riportare nell’agenda politica il tema della povertà, dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della protezione del patrimonio naturale.
Ha prodotto analisi e pubblicato documenti.

Il rapporto del Social Watch (www.socialwatch.org) è uno di questi. Ogni anno, dal 1996, misura i progressi o i regressi compiuti nel campo della lotta alla povertà e della parità di genere, a partire dagli impegni sottoscritti nei vertici mondiali. Il Social Watch segnala quali paesi retrocedono e quali avanzano verso gli Obiettivi del millennio, quali governi spendono bene le risorse e quali le dilapidano in armi o in progetti inutili.
Si compone di capitoli tematici sulle tendenze dell’anno, di capitoli sui singoli paesi, di grafici e tabelle. Utilizza indici innovativi come l’«Indice sulla parità di genere» o quello sulle «capacità di base».
L’originalità del Social Watch sta nel prodotto, ma anche nel fatto che ha saputo mettere in rete oltre 200 organizzazioni tra le più varie (associazioni, Ong, centri studi, sindacati) di ben 70 paesi: dall’Afghanistan alla Polonia, dall’Uruguay all’Italia.
Guardando alle analisi dai diversi paesi si rimane colpiti dalle similitudini: ovunque la società civile nutre gli stessi timori riguardo ai tagli alle spese sociali, alle speculazioni finanziarie, alla crescita del divario tra ricchi e poveri, alla privatizzazione di risorse vitali come l’acqua.
L’ultimo rapporto Social Watch pubblicato anche in italiano si intitola «Crisi globale, la risposta è ripartire dai diritti». Sembra uno slogan, ma può diventare un programma politico. Ecco perché il rapporto è stato presentato a Montecitorio lo scorso 19 febbraio alla presenza dei parlamentari di tutti i gruppi politici.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Turismo: diritto e rovescio

Reportage dalla costa di Mombasa

Da anni il Kenya ha investito sul turismo come settore economico trainante.
Il sottoprodotto è la diffusione della prostituzione. Diffuso anche lo sfruttamento dei minori. La legislazione del paese la condanna. Ma la corruzione la fa funzionare a meraviglia. Situazioni di estrema povertà, mancanza di lavoro e ricerca di guadagno facile, sono le principali cause.  Ma occorre eliminare il problema alla radice.

È  sabato notte a Mombasa, in uno dei club più trendy della città. Le bevande scorrono a fiumi, la musica è al massimo, e le coppie sono tutte appiccicate sulla pista da ballo o conversano e prendono qualcosa al bar. Alcune si sono abbracciate restando fuori dal club.
Ma non si tratta del classico tipo di giovani frequentatori di luoghi di divertimento: la stragrande maggioranza delle coppie di questo sabato notte, in realtà, è costituita da uomini bianchi maturi, per lo più turisti e uomini d’affari, e «calde» giovani donne di colore .
Alcuni uomini sono calvi, altri hanno i capelli bianchi. Il ballo è uno spettacolo molto divertente da vedere: sembra una danza tra nonni che provano a seguire il ritmo.
Le ragazze sono alte, snelle, scure con abbigliamento attillato e sorrisi a non finire.
Un uomo – sembra essere sulla sessantina – con la testa pelata, la pancia così grossa che trabocca dalla maglietta, e i pantaloni che gli arrivano all’ombelico si avvicina a una ragazza keniana, che pare abbia 20 anni. Lei è alta, magra, in abito nero e tacchi.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» chiede l’uomo, con un marcato accento tedesco.
Dopo un po’ sembrano amici da una vita, chiacchierano, si baciano e … pochi minuti più tardi escono dal club, insieme.
Sono ragazze che lasciano la scuola o non ci sono mai state, a causa di storie di povertà o altre situazioni. Come l’arrivo di un bambino indesiderato, che ha per conseguenza che la ragazza venga cacciata dalla famiglia o scappi per evitare la vergogna. Questo accade soprattutto nei villaggi dove i valori morali sono ancora vigenti. Ma si tratta anche di ragazze e ragazzi alla ricerca di una ricchezza immediata e senza sudore.
Studi rivelano che negli ultimi anni, il numero di uomini e donne che viaggiano verso località estere per sesso è aumentato. Nel passato, le destinazioni più note per questo tipo di turismo sono stati i paesi asiatici, come Thailandia, Filippine, Indonesia, Corea del sud e Sri Lanka, ma anche: Cuba, Repubblica Dominicana, Brasile, Costarica, Europa dell’Est, e alcuni paesi africani, soprattutto Kenya, Sud Africa, Tunisia e Gambia.

Turismo in aumento?

Il turismo è una precisa scelta economica in Kenya perché non solo porta con sé molte possibilità di arricchimento culturale ma anche un guadagno economico enorme. Si è constatato che globalmente, gli arrivi del turismo internazionale in tutto il mondo sono in crescita: da 69 milioni di persone nel 1960 a 160 milioni di persone nel 1970, 625 milioni nel 1998 (dati Organizzazione mondiale del commercio, 1999). E questa tendenza include il turismo sessuale, sottoprodotto del turismo di massa. Anche in Kenya il settore è cresciuto enormemente e, allo stato attuale, si presenta come una delle principali e stabili attività economiche del paese.
La maggioranza dei turisti che visitano il Kenya sono provenienti da Gran Bretagna, Svizzera, Italia e Francia. Altri vengono da Nord America, Giappone, Australia, Nuova Zelanda o da altre nazioni europee come Spagna, Svezia e Norvegia.
Come per molti paesi in via di sviluppo, anche il Kenya è una nazione dove l’agricoltura ha un peso notevole sull’economia, contribuendo al 24% del Pil. Al tempo della sua indipendenza, nel 1963, il paese viveva dell’esportazione di prodotti agricoli (come tè e caffè) e allora il governo cercò subito di diversificare, introducendo un sistema di liberalizzazioni economiche per attirare investimenti dall’estero. Il riconoscimento dei limiti dell’industria agricola e manifatturiera fece sì che il governo si rivolgesse al turismo come attività principale. Il numero dei turisti e dei proventi del turismo sono aumentati fin dall’indipendenza, anche se sono state registrate delle fluttuazioni.
Tra il 1972 e il 1979, il numero dei visitatori del Kenya è salito del 132%, cosa che portò a un ulteriore investimento nel turismo, a tal punto che si sono creati posti di lavoro più rapidamente che in ogni altro settore. Sin dal 1987, il turismo è stato per il Kenya la fonte principale di entrate in valuta pregiata (Ufficio statistico statale, 2001) oltrepassando la tradizionale esportazione di caffè e tè. Il paese ha guadagnato 648 milioni di dollari dal turismo nel 2005, un aumento del 15% rispetto all’anno precedente, secondo il Kenya Tourism Board. Con un totale degli arrivi inteazionali di 1,7 milioni, 21,4% in più rispetto al 2004. Tale industria dà lavoro a circa 1,3 milioni di keniani, quasi 1,8% degli impiegati con salario fisso.
Inoltre, il turismo è anche connesso con altre industrie di tipo domestico ed è potenzialmente utile per generare sviluppo in certe aree neglette. Tale settore, inoltre, contribuisce in maniera sostanziosa al potenziamento di redditi governativi con tasse, tariffe di importo e licenze. Il turismo è perciò ufficialmente promosso in Kenya come la maggiore fonte di guadagno di moneta estera, di impiego e di sviluppo in genere. Il suo peso sull’economia nazionale ha una grande attinenza con le politiche per il settore. In questo contesto si inserisce il turismo sessuale.

Forme di sfruttamento

La prima e più comune forma della prostituzione è quella che coinvolge prostitute casuali, ragazze che si prostituiscono per bisogno di denaro. In questo caso il turismo sessuale ha anche forti ricadute sociali.
Vi è pure un’altra forma, dove le operatrici del sesso lavorano attraverso intermediari. Il turismo sessuale è illegale, le prostitute sono spesso costrette a usare luoghi di intrattenimento come club, bar o altri posti dove poter lavorare. Questo genere di prostituzione è una forma di schiavitù ed è rafforzata da altre persone come gli stessi parenti, ma anche attraverso rapimenti e adescamenti.
Esiste anche un mercato sessuale per turiste donne. Queste stanno venendo anche in Kenya per incontrare ragazzi da spiaggia locali. In questo caso le donne europee immaginano gli uomini di colore essere più forti e attivi a letto, se comparati agli uomini occidentali. Non è cosa strana vedere degli africani con donne europee sulla spiaggia o nei locali di Mombasa.
Questo mercato è anche possibile perché i poliziotti si lasciano corrompere facilmente per chiudere un occhio. Vi sono 412 hotel registrati sulla costa, la maggioranza dei quali si sono sviluppati in prossimità della spiaggia negli ultimi 25 anni. Molte delle attività turistiche sono concentrate nelle principali città costiere di Mombasa, Malindi, Lamu, Kilifi e Watamu. È in queste località che i visitatori indulgono nelle loro principali attività di bagni di sole, nuoto, escursioni organizzate nelle riserve e visite ai musei e ai villaggi circostanti.
L’espansione del turismo lungo la costa è stata anche incoraggiata dal miglioramento dell’aeroporto di Mombasa a livelli degli standard inteazionali. L’aeroporto riceve correntemente voli charter diretti dall’Europa.

A proposito di minori

Un’altra piaga è la prostituzione infantile. Questa sta crescendo rapidamente e coinvolge giovani minorenni, ragazzi e ragazze. A causa dell’Aids, inoltre, molti bambini orfani si stanno dando alla prostituzione.
Da uno studio condotto dall’Unicef e dal governo keniano nel 2006, si è rilevato che almeno 15.000 ragazze in quattro distretti sulla costa – Mombasa, Kilifi, Malindi e Kwale – sono state impegnate nel sesso occasionale e pagate in contanti. «Queste ragazze sono di età compresa tra 12 e 18 anni, e costituiscono il 30 per cento della popolazione totale delle giovani provenienti da questi distretti in questa fascia di età». Inoltre: «Da due a tre migliaia di ragazze e ragazzi sono coinvolti a tempo pieno nel commercio del sesso. Secondo l’Unicef, almeno il 45 per cento delle ragazze ha iniziato a vendersi per denaro, beni o favori a soli 12 o 13 anni. Più del 10 per cento di esse ha iniziato quando era di età inferiore a 12.
Lo studio dimostra che i keniani maschi sono i peggiori colpevoli di sfruttamento sessuale dei bambini, e costituiscono il 38 per cento dei clienti. I turisti italiani, tedeschi e svizzeri sono classificati come i clienti più comuni rispettivamente il 18, 14 e il 12 per cento. Sempre secondo l’Unicef: «Gli ugandesi e i tanzaniani sono al quinto e al sesto posto in questa classifica, mentre i britannici e i sauditi sono al settimo e ottavo posto». Sono menzionati nella relazione i rappresentanti di quasi tutte le nazionalità in visita in Kenya.
Moody Awori, vicepresidente dell’epoca dichiarò: «Per combattere lo sfruttamento dei bambini da parte dei turisti, si impone a tutti gli stranieri a denunciare il loro domicilio nel paese prima di essere ammessi. È necessario inoltre lavorare con gli altri governi per sollecitare la loro cooperazione nella promozione di un turismo responsabile».
Il rappresentante dell’Unicef in Kenya, Heimo Laakkonen, al momento della pubblicazione dello studio dichiarò : «Turisti e keniani che abusano dei bambini devono essere arrestati, giudicati e puniti».
Lo sfruttamento sessuale dei bambini è un reato ai sensi del Codice penale del Kenya, ma lo studio ha dimostrato un altissimo livello del sesso commerciale che coinvolge i bambini. Circa uno su 10 bambini coinvolti nei lavori di sesso è iniziato prima che questi raggiungano la pubertà, afferma la relazione. «Essa riflette un fallimento delle autorità di fornire protezione ai bambini e di perseguire i responsabili di questo commercio» aggiunge la relazione, che inoltre raccomanda a governo, società civile, industria turistica e settore privato di intervenire con urgenza per mettere fine a queste pratiche.

Cosa favorisce il fenomeno

Quando i turisti vanno all’estero, c’è la sicurezza dell’anonimato, la quale li libera dalle solite costrizioni che regolano il loro modo di comportarsi nei loro paesi. Il turismo permette alle persone di perdere la loro identità e dà loro la libertà di fuggire dalla realtà e vivere le fantasie. La maggior parte dei turisti si comportano diversamente quando sono in vacanza: spendono, si rilassano, bevono, mangiano di più e si permettono dei piaceri che non si permetterebbero a casa loro.
Un altro motivo è che i servizi sessuali sono meno costosi che nei loro paesi. I turisti possono permettersi uno stile di vita che non potrebbero mai avere.
Marco, un turista italiano, ci racconta di essere stato in Kenya per un mese, ma già dopo quattro giorni si vanta di aver avuto relazioni sessuali con cinque ragazze. La prima fu sulla spiaggia, dove aveva poi finto di non avere portato soldi con sé e perciò finì gratis. La seconda, sempre sulla spiaggia se la cavò con 100 scellini (poco più di un euro) perché le disse di avere poco denaro. Con le altre, dovette poi pagare 200 scellini.
Molti turisti, pensano che in Africa la vita sia rozza e sfrenata, liberale, senza tanti controlli. Questo può anche spiegare in parte il perché certe donne europee visitano il Kenya in cerca di sesso. Si stima che il 5 per cento lo faccia per questo motivo. Ai primi posti si trovano tedesche e svizzere.

Ho bisogno di soldi per me e per i miei figli

«Molte volte io non sento niente durante le relazioni sessuali. Ci sono casi in cui soffro. Se continuo, è perché ho bisogno di soldi per me e i miei figli. Ho imparato a fare i movimenti meccanicamente per soddisfare i miei clienti. Se lo fai bene tornano. Questo significa ancora soldi» ci racconta una giovane donna di Mombasa.
Per molte ragazze la ragione numero uno è la povertà. La prostituzione è vista come la sola soluzione possibile per assicurare la loro sopravvivenza e quelle delle famiglie.
Dai luoghi di origine vanno sulla costa, con la speranza di trovare un turista bianco che possa pagare di più, magari anche sposarle. Diverse ragazze coinvolte nella prostituzione vengono da famiglie divise, oppure sono cresciute in strada. La povertà crescente o il profitto che la prostituzione può dare, rendono l’etica sociale tradizionale e i codici di condotta sessuale praticamente insignificanti per molta gente, compresi i genitori delle prostitute.
Inoltre, le donne raggiungono un livello relativamente più basso di educazione e hanno meno possibilità degli uomini in fatto di educazione.
Questo capita perché i genitori danno priorità (anche se questo sta cambiando) all’educazione dei maschi, specialmente se non hanno mezzi per l’educazione di tutti i loro figli. Altri motivi che influiscono sulla minore educazione delle ragazze sono le gravidanze non volute, e il fatto che possono essere costrette dai genitori a dei matrimoni precoci per motivi economici.
Esiste anche una discriminazione nei riguardi delle donne per quanto riguarda il lavoro: per loro ci sono solo impieghi con paghe minime.
L’attrazione di un guadagno facile, le nuove norme sociali e la relativa mancanza di controllo da parte della famiglia o del villaggio, fa della prostituzione una forte alternativa di lavoro per molte giovani.

Quasi legale

La legge non solo dichiara la prostituzione illegale come tale, ma lo è anche il vivere dai guadagni ottenuti tramite essa. Il che vuol dire che solo mettersi in mostra, fare l’intermediario, possedere, dirigere o occupare un bordello è illegale. È importante notare però che solo le prostitute stesse hanno dovuto, in qualche caso soffrire, a causa di questa legge, ma non gli uomini che le controllano o i padroni di bordelli, che in molti casi sono persone di alto rango, che possono pagare per non essere denunciati.
Il turismo sessuale in Kenya ha anche ricevuto un riconoscimento semi ufficiale: la municipalità di Mombasa rilascia delle cards (tessere) a ragazze che lavorano nei bar anche a scopo di prostituzione, ma i media e il governo non hanno mai portato alla luce o impedito questo fatto, pur sapendo che esiste.
La soluzione del problema del turismo sessuale non sta nel criminalizzarlo oppure legalizzarlo, ma piuttosto nell’investigae le cause profonde e chiarie le radici. Le vittime di questo commercio hanno bisogno che si intervenga in un modo pratico, chiaro e sostenibile. Bisogna formulare una legge che elimini il turismo e il commercio sessuale in Kenya, e questa deve essere sostenuta da una serie di politiche e programmi socio economici.
Visto che la povertà è il principale motivo per cui le donne si danno a questa pratica, si deve dare a loro un maggior potere economico. Si può incoraggiarle a cominciare delle attività redditizie e aiutare le più giovani a tornare a scuola. Alle vittime si devono offrire programmi di riabilitazione a lungo tempo che includano cura, amore, servizi medici e legali, oltre consulenze e accompagnamento spirituale.
Agenzie governative, Ong, organizzazioni private, media e comunità cristiane devono essere coinvolti. I programmi turistici, inoltre, dovrebbero essere controllati regolarmente, seguendo e considerandone gli effetti.
Il bisogno fondamentale è quello di educare la società keniana a offrire uguali opportunità a uomini e donne. Il governo deve confrontare questo problema invece di negare l’esistenza del turismo sessuale nel paese. Associazioni di donne nel mondo, Kenya compreso, dovrebbero collegarsi per poter proteggere le donne da questo flagello. 

Di Nicholas Muthoka

Nicholas Muthoka




«Apostolo per vocazione»

Anno paolino

P aolo è stato il grande missionario viaggiatore: perché egli viaggiava senza posa? cosa lo spingeva? Per rispondere a queste domande, riporto la bellissima catechesi di papa Benedetto su «Paolo apostolo della gioia, nell’abbraccio del crocifisso», dell’udienza generale del 10-9-2008.
Sulla via di Damasco, Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. «Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo vangelo in qualità di apostolo. Normalmente, seguendo i vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, cioè coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo… Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17). Ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della chiesa. Eppure, anche san Paolo interpreta se stesso come apostolo in senso stretto.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello riservato al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). Nello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,9-10).
La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà, in relazione al suo impegno apostolico: in Paolo si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo, da persecutore a fondatore di chiese, in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!

C os’è, secondo la concezione di Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue lettere tre caratteristiche principali costituiscono l’apostolo.
La prima è di avere “visto il Signore” (1Cor 9,1), cioè, avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce l’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo d’uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1).
La seconda caratteristica: “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio. Per questo Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1Cor 1,1; 2Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta è messa in primo piano l’iniziativa di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati, e soprattutto il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, senza interessi personali.
Il terzo requisito: “annuncio del vangelo”, con la conseguente fondazione di chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico, ma impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza dell’interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1).

Paolo definisce gli apostoli “collaboratori di Dio” (1Cor 3,9; 2Cor 6,1); in essi c’è una sorta di identificazione tra vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1Cor 1,23), a cui molti reagiscono con incomprensione e rifiuto. Avveniva a quel tempo; non deve stupire che avvenga anche oggi…
Ai Corinzi egli scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini… Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1Cor 4,9-13). È un autoritratto della vita apostolica di Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del vangelo.
Pur condividendo con la filosofia stornica del tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà, Paolo supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39).
Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana. Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia».  

di Mario Barbero

Mario Barbero




Una vita per i giovani

Missione e «martirio» di padre Giuseppe Bertaina

 Il 16 gennaio padre Giuseppe Bertaina, missionario della
 Consolata, veterano del Kenya dove lavorava come
 amministratore dell’Istituto di Filosofia di Langata (Nairobi),  
 è stato ucciso da tre malviventi in un tentativo di rapina.

I FATTI
Il Philosophicum, l’Istituto di Filosofia di Langata, alle porte di Nairobi, era la sua casa. Ci aveva messo tutta la sua intelligenza e le sue energie per tirarlo su, ma soprattutto ci aveva messo il cuore, facendolo diventare un centro d’eccellenza per la formazione dei giovani alla vita sacerdotale.
Padre Giuseppe Bertaina ha dato la sua vita per questo centro e non solo in senso ideale: il suo dono è diventato sacrificio e martirio la mattina del 16 gennaio quando tre banditi, due uomini e una donna, sono penetrati nel suo ufficio di amministratore con l’intento d’impossessarsi dei soldi delle rette degli studenti.
Ma quei soldi non c’erano. Nell’Istituto si paga, infatti, con assegni. Il padre non era tipo da farsi intimorire facilmente e così, di fronte alla sua naturale reazione, l’hanno picchiato e legato con una corda. Poi gli hanno messo un bavaglio tappandogli la bocca con un sacchetto di plastica fissato con scotch da pacchi. I suoi 82 anni e il cuore ammalato non l’hanno aiutato ed è morto soffocato.
Uomo schivo e semplice, padre Bertaina non amava apparire. Era «figlio» della «Provincia granda» (Cuneo), di quella terra che forgia uomini che alle parole preferiscono la concretezza dei fatti. Così, nei suoi 58 anni d’Africa, fatti di «laboriosità silenziosa», ha saputo condensare al meglio l’insegnamento principe di Giuseppe Allamano per il quale era fondamentale non solo l’educazione religiosa, ma anche il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni raggiunte dalla sua testimonianza di fede.
Fede sì, ma anche pragmatismo: si sa, infatti, quanto è difficile parlare di Dio a pancia vuota. L’evangelizzazione ad gentes, cioè fra i popoli non ancora raggiunti dal messaggio di Cristo, come primo passo per recuperare una dignità umana a tutti gli effetti, tradotto in pratica, significa scuole, sanità, formazione professionale. Quanto basta e avanza per consacrare a questa missione una vita intera, diventando cittadino del mondo.
Per dirla con il Fondatore: «Uno che lascia la famiglia naturale per dedicarsi alla missione, deve trovare come un’altra famiglia». Padre Bertaina quella famiglia l’ha trovata tra i confratelli e soprattutto nelle migliaia di persone incontrate durante la sua lunga testimonianza.
Ha dedicato tutta la sua vita alla scuola e, grazie al suo lavoro, moltissimi giovani africani hanno potuto formarsi professionalmente e alla vita sacerdotale.
L’anno scorso è stato per l’ultima volta in Italia per un breve periodo di riposo. E, nonostante l’età avanzata e la salute malferma, desiderava ardentemente di poter tornare in Kenya per continuare a lavorare per i suoi giovani. Il Signore l’ha preso in parola e proprio in mezzo a quei giovani che ha educato, istruito e preparato alla vita, ha donato il suo ultimo respiro.

LA RIFLESSIONE
«La sua tragica morte – come scrive padre Stefano Camerlengo, vice superiore generale – ci pone ancora una volta davanti al dono per la nostra missione. La missione autentica è offerta e a volte richiede anche la vita.  Vivere la pienezza della nostra vocazione diventa confronto quotidiano con la miseria e la povertà di tanti. Spesso ci sentiamo impotenti e poca cosa, ma è proprio il nostro esserci, il nostro condividere, il nostro rimanere nel mezzo anche delle contraddizioni, che la rende grande e certamente portatrice di frutti e di speranza per il Regno.
Il sacrificio di padre Giuseppe Bertaina si inserisce in questo cammino di oblatività, si unisce ai tanti che nella storia, sono rimasti fedeli e vigilanti in mezzo al popolo di Dio e sono segno che l’amore e la carità vincono sempre perché sono più forti della violenza e della morte.
La pace che il Signore, certamente dona al suo fedele servo sia il dono che imploriamo per il mondo intero e per la nostra amata Africa. Che questa offerta possa continuare a dare vita, pace, gioia e giustizia alla nostra gente che continuamente si trova a vivere nella violenza e nell’ingiustizia. E a noi missionari doni consolazione e forza per continuare con più zelo ed amore, ad annunciare il Cristo che ha vinto la morte e dà sempre la ricompensa ai suoi operai del vangelo.
Signore, ti ringraziamo perché ce lo hai dato e perché prendendocelo ci hai fatto capire che il sangue dei martiri è semente di vita, è grido di amore che supera ogni male e sofferenza perché diviene segno di risurrezione». 

Di Sergio Frassetto

La vita

Nato a Madonna dell’Olmo (CN) nel 1927, padre Giuseppe Bertaina entrò fra i missionari della Consolata nel 1946 e venne ordinato sacerdote nel 1951. Lo stesso anno partì per il Sudafrica, dove all’università di Cape Town conseguì la laurea in scienze, che lo abilitò all’insegnamento nelle scuole delle allora colonie inglesi.
Così arrivò in Kenya dove si dedicò al lavoro nella scuola secondaria, prima nella missione di Kevote e poi in quella di Shiakago, nella diocesi di Meru. Il suo impegno proseguì nella missione di Sagana dove fondò e resse per 20 anni la «Scuola Tecnica», gloria del lavoro missionario, che ha sfornato centinaia di tecnici, vero motore di sviluppo della giovane nazione del Kenya.
Ma la sua missione non era ancora conclusa. Negli anni ’90, visto l’accresciuto numero di vocazioni, si presentò la necessità di costruire un nuovo centro dove i giovani in cammino verso il sacerdozio potessero svolgere i loro studi di filosofia.
A chi affidare questo compito? Ancora una volta i superiori hanno chiamato padre Giuseppe confidando nella sua esperienza e nella sua indubbia capacità.
E dal suo lavoro è nato il Philosophicum: un’opera maestosa e modea che, con sua grande soddisfazione il 2 febbraio 1998 veniva inaugurata da padre Piero Trabucco, superiore generale.
Da quel giorno padre Bertaina è diventato l’anima dell’Istituto di filosofia, lavorandovi come rettore e insegnante prima e poi come amministratore, affiliandolo alla Pontificia università urbaniana di Roma e arricchendolo di una grande biblioteca e di un salone multiuso.
Qui oltre 300 giovani seminaristi, provenienti da varie famiglie religiose venivano ad abbeverarsi ogni giorno alla fonte del sapere filosofico, ma soprattutto, in padre Bertaina trovavano un maestro e un educatore, esigente nella disciplina, ma capace di formare il loro carattere alla futura missione di sacerdoti.
La sua era una presenza semplice e umile. Le sue parole erano poche, ma da non perdere: sapeva presentare la realtà nuda e cruda e poi lasciava a ciascuno la libertà delle sue decisioni, con grande rispetto; dove c’era lui, c’era ordine, armonia, gioia, amicizia e famiglia.
Amava i giovani e come un buon padre, seguiva anche coloro che cambiavano strada, aiutandoli a inserirsi nella vita. Cosa che faceva anche con i detenuti del carcere di Langata, dove per 20 anni ha servito come cappellano ogni domenica. Ha speso tempo e denaro per coloro che uscivano di prigione, dopo aver scontato la pena, aiutandoli a conseguire un titolo di studio o a inserirsi nel mondo del lavoro e così ricostruire il proprio futuro.
Padre Bertaina non ha mai conservato rancore per nessuno ed anche il giorno dell’assalto nel suo ufficio certamente ha accolto i suoi uccisori con rispetto e, se erano da lui conosciuti, come sembra, ancora li avrà esortati al giusto, morendo senza rancore per le mani di coloro che aveva aiutato in modi diversi.
La sua morte violenta lascia disgustati e amareggiati, ma rimane la grandezza di un uomo e di un missionario completo, sempre allegro e pieno di Dio in mezzo agli uomini che amò fino alla fine e per i quali ha versato il suo sangue.
Una fine umile, la sua, non un atto eclatante di eroismo, ma la conclusione di una vita eroica donata senza risparmio, con intelligenza e bontà, nel totale nascondimento, perché solo il seme che muore produce molto frutto.

Sergio Frassetto




Giocando si impara

Come prepararsi ad affrontare i disastri naturali

L’Ecuador è un paese colpito spesso dalle calamità naturali, come terremoti e inondazioni. Una Ong italiana ha lanciato una iniziativa originale: insegnare agli alunni delle scuole come affrontare tali disastri. La risposta dei giovani è stata entusiasta: un buon auspicio per il futuro del paese.

C’era una volta una terra sfortunata. Poche risorse e servizi, zero industrie, un unico lavoro (mal) retribuito che va per la maggiore, quello di bananero, coltivatore di banane. E, come se non bastasse, un clima impazzito, che alterna eruzioni vulcaniche, terremoti e terribili inondazioni, le più frequenti di tutte, che si portano via case e, a volte, persone.
Benvenuti nelle province di Los Ríos e Bolívar, Ecuador. Una zona geograficamente, più che altre, depressa, non troppo lontana dalla Cordillera Central delle Ande ecuadoriane, quella dove regna il vulcano attivo più alto del mondo, il Cotopaxi (con i suoi 5.897 metri e le almeno 50 eruzioni negli ultimi 300 anni), ma abbastanza da trovarsi in una zona tanto calda quanto umida, non solo d’estate. Qui la gente, bananeros a parte (che costituiscono un mondo a sé, spesso divisi dal resto della popolazione avendo le loro case e i servizi, come le scuole per i figli, all’interno della hacienda, la piantagione di banane) vive di agricoltura di sussistenza e si arrangia come può, coltivando e rivendendo caffè, cacao, mais e soia.
Ma come in tutti i luoghi in cui la miseria sembra aver messo radici piuttosto salde, la speranza di una vita migliore impregna la popolazione di un ottimismo duro a morire. L’aveva capito anche l’ex vescovo Feando Lugo, noto nel mondo per essere ritornato alla vita laicale per diventare, nell’aprile 2008, presidente del Paraguay: negli anni ’80, Lugo era stato prete missionario a Echeandía, uno dei centri abitati più conosciuti della regione per la durezza delle condizioni di vita e il costante rischio di alluvioni.
Un ottimismo, quello della gente di questa parte dell’entroterra ecuadoriano, fatto di sorrisi, abnegazioni al destino che portano a scelte di vita impensabili per i giovani nostrani (il matrimonio a 15-16 anni, l’arrivo di un figlio subito dopo, poi un altro), e tanta volontà di cambiare le cose.
Ma la cosa più importante è che sono proprio i giovani i principali portatori di questo cambiamento. A Ventanas, Las Naves, la stessa Echeandía, sono loro che stanno prendendo in mano le redini della società, cercando vie per un futuro diverso per il loro paese nonostante l’assenza di modelli precostituiti.

Difficile da credere? Chiedetelo allo staff di Coopi, la storica organizzazione non governativa italiana che proprio in quei luoghi, da qualche anno, sta portando avanti dei progetti di cooperazione allo sviluppo. Attraverso uno di questi progetti, l’Ong ha mobilitato ben 3.500 alunni delle scuole superiori di cinque cittadine delle due province. O meglio, si sono mobilitati da sé, aderendo spontaneamente a un’iniziativa inedita che si è rivelata un grande successo per i risultati ottenuti nel campo dell’informazione e dell’educazione ambientale.
Stiamo parlando di Preparación ante desastres (Preparazione ai disastri); questo il nome del progetto di Coopi, finanziato da fondi dell’Echo (l’Ufficio di aiuti umanitari della Commissione europea) e implementato nei territori comunali di Ventanas, Las Naves, Echeandía, Quinsaloma e nella comunità parrocchiale di Zapotal, a partire dal settembre 2007 fino alla sua conclusione a fine dicembre 2008. In tutto 15 mesi, in cui i 100 mila beneficiari indiretti (la somma degli abitanti dei cinque centri abitati) hanno potuto rendersi conto di quali siano i passi da fare per reagire nel più breve tempo possibile di fronte a una catastrofe naturale, e quindi prepararsi ad affrontarla.
«Ma più ancora, l’obiettivo principale raggiunto riguarda, appunto, l’impegno dei giovani, primi destinatari, come beneficiari diretti, della formazione sulle strategie chiave per affrontare un’emergenza ed essere in grado di dirigere i soccorsi alla popolazione danneggiata» spiega Tiziana Vicario, 30 anni, capoprogetto di Coopi nell’Ecuador centrale e responsabile di Preparación ante desastres. «Ragazze e ragazzi che, per circa un anno, hanno partecipato a seminari, incontri, simulazioni sul tema del pronto soccorso e della capacità di autorganizzazione – prosegue la responsabile – e che, una volta terminata la fase di apprendimento, hanno potuto a loro volta tramandare le loro conoscenze ai loro concittadini».
Un lavoro di insegnamento e pratica che Coopi non ha svolto da sola, ma in congiunto con i principali enti istituzionali e di primo soccorso del paese: i pompieri, la Defensa civil (l’omologa della nostra protezione civile), i Dipartimenti provinciali del ministero di Educazione e salute, le municipalità coinvolte. «Ma in occasione dei disastri naturali, l’intervento degli esperti non basta, per questo serve una forte partecipazione della cittadinanza» continua Vicario.
L’ultima inondazione, datata febbraio 2008, ha travolto decine delle modeste case della zona, la maggior parte costruite in legno alla stregua di palafitte, che noi chiameremmo «baracche», ma che sono comuni in queste zone in cui i terreni, soprattutto nella stagione delle piogge, si trasformano in enormi acquitrini.
«Solo a Echeandía sono 300 le case costruite a lato del fiume e nelle colline circostanti, le prime a franare dopo i primi violenti nubifragi. In tutto, vivono 2 mila persone in costante e altissimo rischio ambientale – racconta la responsabile del progetto di Coopi -. Anche a Las Naves le abitazioni a rischio sono molte, almeno 180, e in tutta l’area un altro problema grave sono le vie di comunicazione: ponti pericolanti, fatti di legno, e strade troppo vicine agli argini dei fiumi». Per questo, oltre alla sensibilizzazione e alla formazione, un’altra parte dell’impegno dell’Ong italiana è dedicata, tramite manodopera locale, alla costruzione di strutture per rafforzare il manto stradale e i ponti cedevoli, alcuni dei quali sono stati invece ricostruiti.
M a torniamo all’impegno giovanile. La loro adesione in massa al progetto di prevenzione ai disastri è stata una grossa sorpresa anche per la stessa Coopi: «Ci aspettavamo una buona risposta, ma non questi numeri – rivela l’ecuadoriano Cristopher Velasco, 24 anni, responsabile tecnico del progetto -. Il loro interesse si è rivelato autentico in ogni fase e fa ben sperare nel futuro, poiché gli adolescenti di oggi sono gli adulti di domani: se dimostrano coscienza ambientale e voglia di lottare per costruire un mondo migliore, possono cambiare la mentalità corrente e realizzare un nuovo Ecuador, più sostenibile e meno disagiato».
Velasco, con uno staff di altri quattro cooperanti locali dell’Ong italiana, ha girato per tutta la durata del progetto le cinque località, organizzando incontri dei giovani delle scuole con gli enti di primo soccorso e gli esperti di educazione ambientale. «Incontri in cui i ragazzi si sono messi molto in gioco: a volte le simulazioni dei disastri risultavano essere momenti molto forti, per la loro capacità di immedesimarsi» spiega il cornoperante ecuadoriano.
Il gioco come strumento didattico ha rappresentato un punto fondamentale della conclusione del progetto: per mettere alla prova le abilità acquisite dai giovani nella formazione, Coopi e gli altri enti coinvolti hanno organizzato un evento inedito per il paese latinoamericano: i primi Juegos de preparaciòn ante desastres, una sorta di olimpiadi di prevenzione alle catastrofi naturali; tali giochi si sono tenuti nella cittadina di Ventanas dal 19 al 21 settembre 2008. «Ai giochi hanno partecipato una trentina di studenti per ognuno dei cinque centri abitati coinvolti nel progetto. Per sceglierli è stata davvero un’impresa, basti pensare che alle selezioni iniziali si sono presentati in 1.500 -riporta Velasco -; è stato difficile lasciar fuori tanti ragazzi motivati, ma quelli che c’erano li hanno davvero ben rappresentati».
Nei tre giorni di Juegos, i partecipanti hanno dovuto superare una serie di prove a tempo in cui dovevano dimostrare la propria capacità organizzativa in caso di inaspettato disastro naturale: hanno dovuto montare tende per gli sfollati, prestare primo soccorso ai feriti, pianificare una strategia per le vie di fuga degli edifici pubblici coinvolti dall’emergenza, gestire un campo base attrezzandolo delle necessità primarie, come servizi igienici, cucina, materassi.
Ogni prova veniva valutata da un’équipe di giudici formati da esperti delle varie istituzioni aderenti al progetto, funzionari ministeriali compresi. Alla fine, i giovani di Quinsaloma sono stati quelli più preparati, vincendo il maggior numero di competizioni. Ma quel che più conta, ogni gruppo ha prevalso in almeno una «specialità»: nessuno, quindi, è rimasto a mani vuote. «Siamo tutti vincitori – dice Maria, 16 anni, di Quinsaloma -; tutto quello che abbiamo fatto in questi tre giorni è merito non di singoli, ma di gruppi compatti e capaci di collaborare alla grande».
Una collaborazione riuscita che era un altro degli obiettivi iniziali del progetto di Coopi: per questo, l’Ong ha aggiunto allo staff organizzativo di queste olimpiadi sui generis due volontari di Paciamoci onlus, associazione italiana che si occupa di rafforzare le dinamiche di gruppo lavorando sulla risoluzione dei conflitti attraverso la nonviolenza.
«Tra una competizione e l’altra, abbiamo cercato il più possibile di rafforzare l’unità dei cinque team, lavorando molto sulla fiducia e sull’ascolto reciproco, sulla valorizzazione di leader positivi e puntando a far prendere le decisioni ai ragazzi attraverso il metodo del consenso» spiega Chiara Perego, 29 anni, volontaria di Paciamoci onlus, organizzazione che in Italia promuove percorsi nelle scuole e all’estero sostiene progetti di nonviolenza attiva. «Attraverso il consenso, una decisione viene presa quando tutti sono convinti che sia quella giusta per il gruppo. È una pratica che unisce molto, difficile da attuare – continua la volontaria italiana -, ma che a sorpresa i giovani ecuadoriani, pur praticandola per la prima volta, hanno fatto propria in breve tempo: i risultati si sono visti nelle attività della competizione, i ragazzi sono rimasti molto uniti e anche le decisioni importanti sono state prese in modo decisamente democratico».

In un paese ancora oggi molto violento come l’Ecuador, dove la violenza familiare è ad altissimi livelli e il numero di delitti è tra i più alti del continente, in particolare i tristemente famosi assalti ai bus pieni di gente, non è facile trovare terreno fertile per la crescita di pratiche nonviolente. «Ma noi ragazzi possiamo essere di esempio – interviene Miguel, 18 anni -; se siamo riusciti a risolvere fra di noi i “piccoli” conflitti di questi giorni senza arrivare agli insulti o alle mani, perché non provarci anche in famiglia, a scuola, e nella società in generale?».
Una domanda il cui impatto sulla società è da non sottovalutare. Ne è convinto anche un personaggio «speciale»: Damiano, cantante assai noto in tutto l’Ecuador per aver composto l’inno ufficiale della nazionale di calcio del paese, e presente nella serata conclusiva dei Juegos, diffusa su varie televisioni ecuadoriane: «Questi ragazzi hanno un messaggio forte da lanciare, vogliono essere protagonisti del cambiamento del nostro paese. Noi dobbiamo ascoltarli – ammette Damiano -, e, perché no, prendere anche lezioni da loro».
Ragazzi e ragazze che ora possono dirsi pronti alle emergenze e, soprattutto, sanno che il proprio paese conta su di loro. Proprio quell’Ecuador che, da qualche anno a questa parte, sembra essere uscito dalla spirale negativa del passato e, con altri paesi dell’America Latina, sta compiendo passi da gigante, da una parte per garantire i diritti fondamentali dei cittadini, dall’altra per interrompere la scia di violenze, abusi di potere, corruzione e clientelarismo del recente passato.
L’approvazione, a larga maggioranza (il 64% ha detto sì al referendum), della nuova costituzione (voluta dal presidente Rafael Correa, eletto nel 2006 con il sostegno dei movimenti sociali), che ha una forte impronta solidaristica e un grosso tentativo di «trasparenza» tra i suoi obiettivi principali, è un primo, ottimo segno. Il fatto che l’età media dei votanti al referendum si sia abbassata a livelli record, vale ancora di più: testimonia che i giovani ecuadoriani desiderano vivere meglio dei loro genitori. E i protagonisti del progetto di prevenzione ai disastri di Coopi lo hanno dimostrato. Eccome. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Donna delle Ande

Ruolo femminile tradizionale di fronte alla modeità

L’impatto con la modeità ha messo in crisi le comunità indie delle Ande, travolgendo anche il ruolo che la tradizione culturale assegna alla donna indigena nell’organizzazione della vita domestica e sociale. Eppure è possibile aprirsi alle novità conservando i valori umani e spirituali tradizionali.

La celebrazione della Giornata mondiale della donna mi riporta la mente e il cuore a una realtà ai più sconosciuta e al tempo stesso affascinante: la realtà della donna india delle Ande sudamericane. È un ricordo che provoca un sentimento di ammirazione e rispetto per le tante figure femminili che ho incontrato nella mia esperienza pastorale in Ecuador e Colombia.
La saggezza semplice e profonda, il senso del dovere e della responsabilità, l’incredibile forza impiegata nel lavoro duro della terra andina e nel non facile tran tran familiare quotidiano, la fede radicata in molte di loro mi hanno impressionato e, non posso negarlo, sovente aiutato nell’attività pastorale che ho avuto la fortuna di condurre in quei paesi.
Per comprendere la realtà della donna indigena delle Ande, è necessario fare due premesse che mi sembrano importanti. Prima di tutto, quando si parla di cultura indigena andina si fa riferimento, in realtà, a un insieme di culture che si sono sviluppate nelle vallate che intagliano questa lunghissima catena mon-tuosa. Un groviglio di montagne che emerge dai due oceani all’estremo Sud del continente americano, prosegue sinuoso per migliaia di chilometri segnando il confine fra Argentina e Cile, forma la spina dorsale di un immenso paese come il Perù e dell’Ecuador, si triforca in Colombia, andando a morire dolcemente verso le piane del Venezuela. Sembra evidente, quindi, che sarebbe meglio parlare di «culture» andine, piuttosto che di una sola cultura.
Nello stesso tempo, molti autori hanno sottolineato l’esistenza di un’unica radice che accomuna sotto molti aspetti le popolazioni indigene delle Ande; radice che si fonda sul comune ambiente montano, sull’origine comune di molte popolazioni che hanno poi trovato per ragioni storiche una diversa collocazione sullo scacchiere andino e su un pensiero originale che esprime una visione dell’universo, della morale e della società molto simile. A questi elementi comuni cercherò di rifarmi per raccontare la donna andina nel suo contesto.
Una seconda premessa va invece fatta in merito al metodo. Si può parlare dell’indio delle Ande delineandone i tratti che emergono da un libro di antropologia o lo si può fare raccontandone la vita quotidiana sulla base dell’esperienza diretta che si è avuta. Entrambi i metodi hanno pregi e limiti, per cui cercherò, forse sbagliando, di tenerli presente entrambi.
Da una parte c’è la donna india che appartiene alla tradizione, con i suoi caratteri tipici che si fondano sulla storia e nella cultura della gente dei paesi andini; dall’altra c’è la donna reale, oggi, che vive le contraddizioni proprie della persona che vede il suo mondo arcaico messo in discussione dall’avvento prepotente della modeità globalizzata in cui viviamo. È importante, a mio vedere, che entrambi questi elementi vadano tenuti in considerazione.

Innanzitutto cominciamo con il dire che nella maggior parte dei miti dell’origine del mondo delle culture andine la donna è presente. È presente come elemento femminile all’atto della creazione, nel simbolo della Pachamama (terra-madre) e come dimensione femminile dell’essere vivente e, in modo speciale, dell’essere umano.
Nel mito delle origini degli indios Nasa (Ande colombiane), l’universo creato dal Grande Spirito viene ordinato da una coppia di Abuelos (nonni). Maschile e femminile sono alle radici della creazione dando vita a un elemento fondamentale della filosofia india: quello della complementarietà. Gioo e notte, sole e luna, terra e acque… ciascuno di questi elementi ha un carattere maschile o femminile e non può esistere se non in rapporto all’altro.
La terra (per estensione il mondo in cui si vive) è un elemento femminile. Viene vista come madre protettiva e feconda. Per questa ragione, l’azione dell’aratura e della semina hanno un valore molto profondo nella spiritualità andina, quasi sacrale e paragonabile all’atto riproduttivo. Il seme gettato nei solchi della Madre Terra genera nuova vita, capace di garantire la sopravvivenza della gente.
Complementarietà significa dare a ciascun elemento il posto che gli spetta nell’universo, un posto che appartiene a lui solo e sempre in relazione con l’altro. Dove questa relazione di complementarietà viene rispettata si ha l’«armonia», lo stato perfetto delle origini, al quale bisogna ritornare attraverso riti di purificazione ogni qual volta questa viene rovinata da un’azione contraria dell’uomo o della natura.
Il concetto di famiglia, e per estensione quello di società, trova il suo compimento dove questa relazione tra maschio e femmina viene rispettata. A ciascuno il suo ruolo, nel rispetto dello spazio e dei compiti assegnati all’altro. La donna, quindi, gode tradizionalmente di una sua autonomia nella conduzione della casa (che comprende la crescita dei figli, la loro educazione e l’organizzazione della vita domestica e della sua economia), mentre all’uomo sono lasciati i compiti di lavorare la terra e di curare i rapporti con le altre famiglie e con l’organizzazione della comunità. La donna andina è una donna forte, lavoratrice, avvezza a sopportare il dolore, la fatica, la sofferenza.

Tradizionalmente, quando una donna era prossima a prendere marito si trasferiva dalla sua casa a quella del futuro compagno. Passava quindi dall’autorità della madre a quella della suocera, incaricata di insegnarle come essere una buona moglie dell’uomo con il quale si sarebbe accasata. Questo periodo (che in Colombia prende il nome di amaño) era molto importante, in quanto puntava a garantire l’esistenza della complementarietà all’interno del nucleo familiare in via di formazione. Anche l’aspetto spirituale della donna era tenuto molto in considerazione e, anche oggi, non sono poche le donne che rivestono il ruolo di medico tradizionale (sciamano) nella società indigena. Parallelamente, all’interno delle comunità cristiane le donne partecipano fedelmente e offrono la loro sapienza e la loro esperienza alla vita spirituale della propria gente.
Chiaramente, l’impatto con la modeità sta velocemente stravolgendo la concezione classica della donna nella società andina. Oggi, le comunità indigene stanno vivendo un momento di crisi, le cui conseguenze saranno perfettamente identificabili soltanto fra un po’ di tempo. I maggiori contatti con il mondo esterno, le migrazioni da parte della popolazione montana verso le città, una maggior istruzione offerta ai giovani, ecc. stanno provocando cambi immensi e rapidissimi in culture che, fino a pochi anni fa, vivevano ancorate alle loro tradizioni più antiche.
La città, meta di molte donne della cordigliera, stravolge completamente ritmi e tradizioni secolari. Le donne vi accedono nella speranza di trovare lavoro. Ne respirano l’aria e con essa nuove abitudini. La possibilità di acquisire una migliore istruzione apre il campo a nuove possibilità lavorative, dando modo di raggiungere un’indipendenza economica prima impensabile.
Cambiano le relazioni e viene completamente stravolto il criterio di complementarietà. La donna ha meno tempo per la famiglia e, se lavora in altri contesti, la terra ne risente; quella terra che per gli indios di ieri rappresentava la madre oggi diventa matrigna: un peso.
Uno potrebbe pensare: «Tutto già visto, già vissuto; è successo anche da noi in questi ultimi decenni». Vero. Ma in questo caso è la rapidità con cui il cambio avviene a spaventare. Come coniugare l’importanza di mantenere la lingua propria e rimanere così ancorati alle radici culturali del proprio gruppo con l’esigenza di studiare inglese per mettersi al passo con i tempi? Come convivere con le proprie credenze, la propria fede tradizionale, nell’era di internet? Per le nuove generazioni queste sono domande fondamentali che, molte volte, rimangono senza risposta.
E allora subentra la crisi, il vedersi sradicato da un contesto familiare tradizionale senza, nel contempo, sentirsi perfettamente a casa nella modeità in cui volenti o nolenti si è immersi.

In Colombia iniziai a dare ripetizioni di inglese a Jenny Hérica, una ragazza india diciassettenne, all’ultimo anno delle scuole superiori. Una giovane donna che, anche solo dieci anni fa sarebbe stata sposata, allattando il primo se non il secondo figlio. Accettai di seguirla perché mi sembrava molto portata nello studio della lingua. Infatti non aveva bisogno di aiuto per passare l’anno, ma avvertiva fortemente il desiderio di migliorare la preparazione che aveva ricevuto a scuola.
Suo padre era un leader della comunità indigena, mentre la madre, oltre a prendersi cura della famiglia, si prodigava nel raccogliere le memorie storiche della comunità attraverso il racconto degli anziani. Un giorno Jenny venne in parrocchia molto triste, quasi piangendo. Mi disse: «Padrecito, credo che non verrò più a studiare inglese». Di primo acchito pensai che si fosse stufata. Mi disse che lo studio della lingua inglese l’attirava moltissimo, ma che pensava fosse più importante imparare il nasa yuwe, la lingua dei suoi avi, dei suoi nonni, che vivevano in una casetta di fango e bambù in una frazione del paese, in piena montagna. Persone semplici, che conoscevano poco lo spagnolo e con le quali era difficile intavolare una conversazione se non attraverso la lingua propria.
La giovane vedeva chiaramente come quella cultura, che generazione dopo generazione era giunta sino a lei, si stava sgretolando, perdendosi irrimediabilmente. Era sinceramente in crisi. La lasciai andare. Soltanto le ricordai il grande dono che aveva fra le mani. «Grandi talenti, uguale grandi responsabilità. Perché non provare a studiarle entrambe?».
Quando mi toccò lasciare il paese per far ritorno in Italia le lasciai i miei libri di inglese: la grammatica, il dizionario, un paio di testi con esercizi e qualche lettura facilitata che avevo fatto arrivare apposta dall’Italia. Per mesi non ne seppi più nulla. Un bel giorno mi arrivò una e-mail. Era lei. Jenny aveva vinto una borsa di studio di quelle offerte agli appartenenti di minoranze etniche e studiava lingue straniere all’università di Medellin. «Studio, padre, perché amo l’inglese e sento che imparandolo bene posso aiutare la mia comunità, alla quale toerò, alla quale devo tanto e alla quale offrirò questa mia capacità».
Mi ringraziava per la sensibilità che avevo avuto nel valutare importante la sua ansia di rimanere attaccata alle proprie radici, ma nello stesso tempo di averla aiutata a essere consapevole di un dono grande che il Signore le aveva fatto. Il fine di tutto era il benessere della «sua gente» e in ciò si vedeva chiaramente l’attaccamento alla propria cultura, alla propria storia.
Jenny non sarà mai come sua nonna. Probabilmente non vestirà un anaco, la gonna tradizionale delle donne Nasa, e non porterà i suoi bambini avvolti in un chumbe, la striscia di stoffa tessuta a mano che racconta attraverso i suoi disegni la storia millenaria degli indios.
Jenny è una donna diversa, profondamente india, rispettosa della Madre Terra che l’ha generata e che tutti i giorni ringrazierà per il dono della vita. Magari, con un sorriso, dicendole: «Thank you». 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Condanna: impara l’italiano

Esperienza: insegnamento della lingua italiana nelle carceri

Le lingue sono strategiche per la pace e lo sviluppo. Lo dice l’Unesco. E per una migliore inclusione sociale. Anche nei luoghi più «speciali». Dal 2000 c’è un’importante esperienza nelle carceri del Perù. Oggi riconosciuta anche dall’Istituto italiano di cultura. Che ha indetto il primo concorso di composizione linguistica in italiano. Viaggio tra i frequentatori del laboratorio linguistico «Papà Cervi».

Nell’epoca della globalizzazione, in cui le distanze si sono ridotte e la terra è diventata più rapidamente percorribile, la comunicazione tende a omologarsi e vari linguaggi rischiano di scomparire, a causa dell’utilizzo massiccio delle lingue dei paesi di maggior sviluppo economico e di predominanza politica.
In relazione a questo, da varie parti si sta sentendo in modo sempre più consapevole l’interesse per le lingue nazionali, regionali e anche locali, come espressione di cultura, manifestazione di saperi, usanze, tradizioni, esperienze e storia. Si ha più viva coscienza che, quando muore una lingua, muore una civiltà.
Perciò, in questi anni, importanti organismi inteazionali hanno affermato l’importanza di ogni lingua, anche delle meno usate, e la necessità di valorizzarle e conservarle.
Le Nazioni Unite infatti hanno proclamato il 2008 «Anno Internazionale delle lingue» e l’Unesco (l’agenzia per l’educazione, le scienze e la cultura), a cui l’Onu ha affidato il cornordinamento delle iniziative, ha celebrato il 21 febbraio 2008 la nona «Giornata mondiale della lingua madre», con lo slogan: «Le lingue contano!».
Il direttore generale dell’Unesco, Koichiro Matsuura, ha dichiarato che le lingue sono «essenziali per l’identità dei gruppi e degli individui e per la coesistenza pacifica, esse costituiscono un fattore strategico per procedere verso uno sviluppo sostenibile e un’articolazione armoniosa tra globale e locale. Le lingue contano per raggiungere i sei “Obiettivi dell’educazione per tutti” e anche gli “Obiettivi del millennio per lo sviluppo”, sui quali le Nazioni Unite si sono trovate concordi nel 2000. Le lingue contano quando si tratta di promuovere la diversità culturale così come nella lotta contro l’analfabetismo e per un’educazione di qualità, che includa l’insegnamento della lingua matea durante i primi anni di scolarizzazione (cfr.  MC febbraio 2009, pp. 10-17).
Contano nella lotta per una migliore inclusione sociale, per la creatività, lo sviluppo economico, la salvaguardia dei saperi autoctoni».

Obiettivi ambiziosi

I sei «Obiettivi dell’educazione per tutti», a cui accenna Matsuura e che sono stati stabiliti nell’anno 2000, riguardano: lo sviluppo maggiore della cura e dell’educazione del bambino nella prima infanzia, l’offerta di un’educazione gratuita e obbligatoria per tutti, la promozione dell’apprendimento e della formazione professionale per giovani e adulti, l’aumento del 50% dell’alfabetizzazione degli adulti, il raggiungimento nel 2005 dell’uguaglianza numerica tra i due sessi a scuola e nel 2015 dell’uguaglianza effettiva nell’educazione, il miglioramento della qualità dell’educazione.
All’interno delle celebrazioni sulle lingue, dal 20 al 26 ottobre 2008 si è tenuta l’ottava edizione della «Settimana della lingua italiana nel mondo», realizzata dalla Direzione Generale per la promozione e cooperazione culturale del ministero degli Affari esteri in collaborazione con l’Accademia della Crusca per la valorizzazione della lingua italiana all’estero, attraverso iniziative delle rappresentanze diplomatico-consolari, degli Istituti di cultura, della Società Dante Alighieri, dei Dipartimenti d’Italianistica delle università straniere e delle Associazioni di italiani.

lima: dentro il
«castro castro»

Anche in un angolo dimenticato di un paese povero, in un carcere di massima sicurezza di Lima, in Perù, alcuni prigionieri, sensibili al miglioramento educativo e sociale dei loro compagni e della loro società, consapevoli del ruolo importante della scolarizzazione per tutti, coscienti della ricchezza culturale costituita dalla originalità e dalla peculiarità delle varie lingue, hanno celebrato l’Anno Internazionale delle lingue e la Settimana della lingua italiana nel mondo in momenti significativi e con diverse ed interessanti attività.
Il 13 dicembre un gruppo di prigionieri politici, su iniziativa del corso di italiano «Papà Cervi» ha preparato una giornata in cui, per stimolae l’interesse, sono state mostrate agli altri interni e ai visitatori le caratteristiche, le particolarità, le usanze dei paesi stranieri la cui lingua è per loro oggetto di studio.
Nel carcere di massima sicurezza Castro Castro di Lima, infatti, da anni si stanno studiando l’inglese, il francese, il cinese, l’italiano e le lingue native jak’aru (aymara) e runa simi (quechua). Fungono da insegnanti i prigionieri medesimi che autonomamente si dedicano a questa attività da soli o con l’apporto di professori che, gratuitamente, con periodicità o saltuariamente vengono dall’esterno.  Ad esempio per l’inglese il professor Michael Shano, che svolge lezioni due volte la settimana, e la signorina Ilse Van Nier, che una volta all’anno viaggia dall’Olanda e si dedica a tale insegnamento per un bimestre.

Italiano per tutti

Per quanto riguarda l’italiano, in questi anni ho prestato la mia opera per un mese o poco più nei periodi estivi nel taller (laboratorio) di lingua italiana «Papà Cervi», fondato e organizzato nel 2000 nel carcere El Milagro di Trujillo, dal prigioniero autodidatta Emilio Villalobos Alva, che, dopo alcuni trasferimenti, continua ora questa attività nel Castro Castro di Lima.
Tale impegno, costante e serio, da due anni circa è stato riconosciuto e valorizzato anche dall’Istituto italiano di cultura, che, attraverso alcuni insegnanti, come Isabella Lorusso, fino allo scorso gennaio, e Carmen Rosa Mendieta, tuttora in servizio, sottopone a esami gli alunni del taller «Papà Cervi» per verificarne e ufficializzae i vari livelli di preparazione.
A dare un significativo supporto all’attività linguistica all’interno del carcere, a novembre si è tenuta anche una lezione di didattica da parte del professor Maurizio Leva, insegnante nell’Università Cattolica «Sedes Sapientiae» di Lima, fondata ed organizzata dal vescovo italiano Lino Panizza, della diocesi di Carabayllo (fa parte dell’arcidiocesi di Lima, ndr), una delle più povere della città.
Il vescovo Panizza, persona affabile e intelligente, impegnato nella cultura, è soprattutto attento ai problemi umani e sociali delle persone che vivono nel territorio a lui assegnato. Si occupa infatti, oltre che dell’università, anche dell’educazione e dell’istruzione dei bambini e dei giovani di famiglie povere, difficili e a rischio.
Lo scorso ottobre, nell’ambito della «Settimana della lingua italiana nel mondo», nella stanza del padiglione 6B utilizzata per le lezioni del taller «Papà Cervi», nel carcere Castro Castro, si sono recati il direttore dell’Istituto italiano di cultura a Lima, Renato Poma, accompagnato dalla professoressa Carmen Rosa Mendieta, dal presidente dell’Istituto Nazionale penitenziario (Inpe), José Caparros Gamarra, e dal direttore del carcere stesso, Jaime Huamaccto Jimenez.
Essi hanno reso omaggio con questa presenza al lavoro svolto in tale attività da parte dei carcerati e hanno consegnato loro materiale didattico e alcuni premi agli studenti del taller vincitori del «Primo Concorso di composizione linguistica in italiano», indetto dall’Istituto italiano di cultura.

Riconosciuto,
 finalmente

Ciò è ancora più importante perché il programma è stato elaborato autonomamente, utilizzando libri usati in Italia dagli italiani. Negli anni passati si è bussato varie volte all’Istituto italiano di cultura di Lima, per chiedere consigli e suggerimenti, ma senza risultato. Ora finalmente si assapora la doverosa gratificazione per il riconoscimento dell’impegno costante di questi anni.
I libri donati servono inoltre ad arricchire la biblioteca creata nel 2004 dal taller di italiano e intitolata al poeta Javier Heraud, per il quale nel luglio scorso è stata organizzata una giornata di commemorazione in occasione dell’anniversario della morte e del recente trasferimento dei resti a Lima, accanto a quelli dei familiari.

la storia di emilio

La nascita e l’attività del taller «Papà Cervi» comunque, non ha sempre avuto vita facile, ma ha in precedenza incontrato numerosi ostacoli posti dalle autorità carcerarie, che hanno aumentato le difficoltà insite nella condizione di detenuto in un paese come il Perù.
Nel 2000, anno in cui l’Onu e l’Unesco organizzarono in modo più esplicito l’attività per la salvaguardia del multilinguismo nel mondo, nel penal El Milagro di Trujillo, Emilio Villalobos Alva, da autodidatta e quasi in sordina, iniziò a dedicarsi allo studio dell’italiano, come risposta alla solidarietà dimostrata da sconosciuti amici, che, in molti, in occasione del Giubileo, avevano inviato lettere e cartoline di solidarietà dall’Italia a lui e a vari altri prigionieri politici peruviani.
L’amicizia solidale e disinteressata dimostrata dai nostri connazionali ha stimolato in tal modo il desiderio di imparare la nostra lingua e ciò ha reso possibile anche l’approccio ad una conoscenza più profonda delle caratteristiche culturali su cui si fonda la nostra storia e la nostra società.
Una grammatica, un piccolo vocabolario, articoli di giornale, qualche libro sono stati i primi doni utilizzati per lo studio dell’italiano, a cui sono seguiti successivamente alcuni film in videocassetta e delle canzoni in nastri corredate da testi scritti.
Purtroppo nel penal Picsi di Chiclayo, dove Emilio Villalobos era stato nel frattempo trasferito, il direttore impediva l’ingresso di libri e materiale di uso didattico, provocando proteste da parte degli interni e degli amici italiani che corrispondevano epistolarmente con loro, fino a sfociare nell’attuazione di uno sciopero della fame.
Quando le autorità accettarono che si ricevesse ciò che era dovuto, Emilio Villalobos con i suoi alunni, per punizione, in quanto rei di sommossa e di insubordinazione, furono trasferiti nel carcere di Yanamayo, situato a 5.000 metri di altezza. Qui ricominciarono a studiare la lingua italiana (cfr. MC, febbraio 2003).
 
l’impegno continua

Questo impegno continua ininterrotto, nonostante non siano mancati anche in seguito ostacoli, intimidazioni, minacce, misure repressive da parte del personale della polizia nazionale che si è occupato di tale carcere dagli anni di Fujimori (ex presidente, ora sotto processo per massacri e violazioni dei diritti umani), fino al 2007. Ora il Castro Castro è sotto la tutela dell’Inpe, ma al primo ingresso la polizia fa ancora un iniziale controllo dei permessi e a volte crea difficoltà, disagi e ritardi anche ai collaboratori di associazioni umanitarie, soprattutto se stranieri.
Nel 2004 ho insegnato in modo ufficiale lingua e letteratura italiana a prigionieri politici e comuni del taller «Papà Cervi», anche nell’orario predisposto per la visita di parenti e conoscenti, attraverso l’associazione Frateidad Carcelaria del Perù, facente parte della Confrateidad Carcelaria Inteacional.
Nelle estati del 2006 e del 2008, invece, con l’appoggio dell’associazione Dignidad humana y solidaridad, diretta da Carlos Alvarez Osorio, ho ottenuto il permesso di tenere un corso di latino e di insegnare italiano affiancando nelle lezioni Emilio Villalobos Alva e Sandro Melendez Leon (quest’ultimo ex alunno del primo e ora insegnante nei corsi di base).
Ogni tipo di intervento e di analisi è stato fatto utilizzando esclusivamente la nostra lingua, non possedendo io la padronanza dello spagnolo, che ho cominciato a conoscere attraverso il rapporto epistolare con i prigionieri. Questi si sono mostrati interessati ad assorbire vocaboli nuovi, migliorare la fonetica e, soprattutto, a conoscere ed approfondire la nostra cultura.
Nelle ore di latino, spontaneamente sorgevano confronti fra questa «lingua morta», l’italiano e lo spagnolo. È stata per me un’esperienza molto più interessante di quelle vissute all’interno della mia attività scolastica con gli alunni italiani, in quanto gran parte dei partecipanti a tali corsi nel penal sono in possesso di un buon livello di studi universitari e, da liberi, ricoprivano ruoli adeguati. Ciò è particolarmente significativo se si considera che nella società peruviana la scuola culturalmente valida è la privata, riservata perciò alle classi benestanti, utile a mantenere vantaggi e privilegi.
All’interno degli argomenti esaminati con gli alunni del taller, particolarmente sentito è stato quello degli istituti di pena in Italia e in particolare del rapporto tra l’università e il carcere di Torino contenuto nel dossier dell’aprile 2008 di Missioni Consolata, che avevo da poco ricevuto e portato con me.
Questi articoli hanno stimolato analisi e riflessioni un po’ amare, ma anche cariche di speranza. Là, tra quelle mura, in quell’ambiente umano e sociale, ho sentito più pregnante il problema della pena acuita dalla solitudine, della sofferenza resa più profonda dagli atteggiamenti repressivi, ho osservato esempi di solidarietà tra compagni e ho anche verificato quanto, per noi, sia utile a superare pregiudizi un’esperienza simile.

Formarsi formando

Ho toccato con mano che, come dice la professoressa Maria Teresa Picchetto: «Questa iniziativa è utile anche per molti docenti che, con il loro bagaglio di inevitabili pregiudizi, si sono recati in carcere e si sono forse sorpresi del mondo che vi hanno trovato. Si impara molto di più a riguardo della pena e della giustizia dall’impatto emotivo che si subisce entrando in un carcere che dalla lettura di tanti libri.
Quanti luoghi comuni sul carcere vengono sfatati appena si faccia esperienza, anche sommaria della realtà materiale di un istituto penitenziario, dei vincoli, condizionamenti, impedimenti, regolamentazione dei tempi. Quelli che l’ex direttore della Casa circondariale Lorusso-Cutugno, Pietro Buffa, ha definito i “supplementi di pena”, cioè i riti, le mortificazioni, le situazioni frustranti a cui sono sottoposti i detenuti».
Nell’esaminare quelle pagine è emersa una sostanziale differenza a proposito dello studio in carcere: mentre l’esperienza di Torino è nata dall’accordo delle due strutture (università e carcere) e si avvale di aiuti economici, oltre che di docenti qualificati, in Perù l’impegno viene messo in pratica dai prigionieri, fra mille difficoltà, e le autorità in seguito prendono atto del loro lavoro.  

Di Franca Pesce

Franca Pesce




Cuore di sale

Alla scoperta di … paesi, persone: Mozambico

Un uomo determinato. Un’intelligenza dalle mille risorse. Un sacerdote con un cuore enorme. E la passione per la gente. Una convinzione: il popolo deve essere autosufficiente. Il suo segreto: vivere la propria vita fino in fondo. Vita e miracoli di un missionario innamorato.

«C’è qualcosa di molto importante nella vita di ognuno di noi. Ma bisogna saperlo vivere». Padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata, classe 1927, questo qualcosa l’ha trovato in un minuscolo villaggio del Mozambico, nella sua popolazione e in un progetto, ambizioso quanto un sogno. Ma uno di quei sogni che la tenacia e la lotta quotidiana portano alla realizzazione.

Primi passi

Friulano di Val del Torre, Sud della Slovenia, tiene a precisare: «A casa nostra si parlava un dialetto sloveno». Alla fine del gennaio 1953 una nave lo porta in Africa, nel Mozambico colonia portoghese.
Padre Marchiol fa esperienza in alcune missioni del paese: Mapinhane, Maimelane, Matola. Luoghi dove rimarrà poco tempo, che però accresceranno il suo bagaglio di esperienze. «A quell’epoca in missione non avevamo mezzi di trasporto, percorrevamo grandi distanze a piedi o talvolta approfittavamo di passaggi, come quelli delle corriere clandestine che trasportavano i migranti». Impara una lingua locale, il xitsua, e perfeziona il portoghese quando lavora a Matola, enorme parrocchia della capitale, popolata dai discendenti dei coloni.
Ma è l’8 dicembre del 1956 che viene destinato a Mambone, piccola località alla foce del fiume Save, sulla costa 600 km a Nord di Maputo. Qui c’era fratel Silvio Petris. Nella zona c’era stato un ciclone (1948) che aveva distrutto la missione, «ancora costruita in capanne», ricorda. Era necessario costruire qualcosa di più solido, pensò il giovane missionario. Dopo aver edificato la casa della missione, fece una scuola.

Il materiale oltre
allo spirituale

Ma padre Amadio non va avanti navigando a vista. In lui subito si presenta la domanda: quali risorse posso trovare per fare una missione? Necessario era trovare un’attività redditizia, che potesse costituire un’entrata di denaro necessaria per realizzare le opere e far funzionare il tutto. Ma anche per creare un volano di sviluppo per migliorare le condizioni di vita della popolazione nella zona.
«Evangelizzare e promuovere anche materialmente, questa è sempre stata la nostra missione» dichiara padre Marchiol.
«Il commercio era già molto sfruttato, l’agricoltura non rendeva». La zona è caratterizzata da siccità endemiche che si alternano a periodi di forte pioggia e inondazioni. Padre Marchiol notò subito le pianure di terreno argilloso a perdita d’occhio. «A Matola avevo visto delle saline e avevo conversato con dei parrocchiani salinari per curiosità». Da qui l’idea: «Una salina può essere utile per me e anche per il popolo». Chiesto il permesso al governo coloniale portoghese, questo risponde nel 1957 con un no: alla missione basta il (magro) sussidio governativo.
Solo nove anni più tardi, lo stesso governo manda un documento: «Il suo progetto è valido e lo consideriamo un beneficio per la popolazione». La pesca era sviluppata e il sale scarseggiava, anche nell’interno del paese.
«Allora andai dai capi tradizionali e spiegai il mio programma. Questi dissero che non si era mai ricavato il sale da quella zona, ma non avevano niente in contrario sul fatto che io tentassi». Così il missionario italiano iniziò su una piccola area a produrre sale dalle acque della Baia Bartolomeo Diaz.

Lotta contro la fame

L’ottuagenario Marchiol racconta, seduto sulla sedia di paglia nella casa dove vive ormai da 50 anni. La sua voce è vibrante e carica di energia e la sua simpatia dirompente. I racconti sono talmente dettagliati, che sembra di vederlo all’opera nel momento stesso.
Negli anni ‘70 si preoccupa anche dell’alimentazione dei suoi parrocchiani. «Avevo in mente un sistema di irrigazione.  Volevo realizzare una risaia, ma è inutile pensare all’agricoltura senza acqua».
La salina avrebbe potuto finanziare parte di questo progetto per la popolazione. Allo stesso tempo dava già lavoro a 40 – 50 persone, a seconda del periodo dell’anno.
«Il progetto risaia fu appoggiato da Mani Tese (Ong di Milano, ndr) che raccolse i soldi necessari per una macchina livellatrice». L’enorme mezzo arrivò a Beira e il padre andò a recuperarla per portarla a Mambone tra mille peripezie.
Ma i superiori del tempo decisero di trasferire Marchiol. «Tutto era pronto, avevo coinvolto tanta gente e promesso che avrebbero prodotto riso». Il missionario punta i piedi e ottiene «un anno di tempo per far partire il progetto».
«Imparai ad usare la macchina e poi insegnai a un giovane che ne divenne responsabile – racconta il padre –. Con essa abbiamo sistemato 60 ettari di terreno, spianando e costruendo i canali di irrigazione. Anche le famiglie si erano impegnate per ripulire le future parcelle da alberi e rovi». Il primo raccolto è un successo.
Poi il padre parte per Muvamba. Ma la gente non è pronta e, lasciata sola, un anno dopo la produzione di riso crolla. I superiori chiedono a Marchiol di tornare a Mambone. «Per voi non toerei, ma per il popolo che ha sofferto sì» è la sua risposta. È il 1973.

La guerra prende
tutto, o quasi

Due anni dopo il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) al potere, adotta l’ideologia e il pragmatismo marxista-leninista (cfr. MC gennaio 2009, pp. 46-52). Il partito vuole cancellare tutto ciò che è trascendente, spirituale. Tutto quello che è legato alla chiesa. Così le missioni sono nazionalizzate e i missionari radunati nelle città e resi inoperativi oppure espulsi dal paese.
«Volevano la salina, ma la mia salvezza fu che l’avevo registrata come proprietà dell’Imc (Istituto missioni Consolata) e non come chiesa. Chiesi loro se le saline del Mozambico erano nazionalizzate e risposero di no. Così ci lasciarono in pace». Anzi: «La responsabile mi invitò a diventare membro del partito, ma io ringraziai e risposi che ero già di un “partito” e non avevo intenzione di cambiare».
Sono gli anni della sanguinosa guerra civile. La Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico), finanziata dall’estero (dai governi segregazionisti dell’Africa australe: Sudafrica e Rhodesia) attua una strategia di devastazione e massacra la popolazione civile. Il sale e i suoi redditi, facevano gola a tutti.
«Eravamo tollerati, ma costretti all’impotenza rendendoci la vita difficile. “Siete un oggetto di contraddizione per il  nostro programma politico” dicevano».
Il governo fece chiudere le chiese comunitarie, non quelle ufficiali. La chiesa principale di Mambone rimase aperta, ma i miliziani segnavano chi la frequentava e questi venivamo estromessi dalle attività produttive.
«La guerra ci bloccava, non riuscivamo a portare via il sale, si poteva solo via mare. Avevamo un contratto con lo Zimbabwe di 300 tonnellate mensili, ma dovemmo desistere».

Gli anni dell’«esilio»

Anche padre Marchiol è costretto a lasciare la missione, quando nel 1981 i guerriglieri della Renamo invadono la missione. Si stabilisce a Beira, seconda città del paese, a 300 km di strada, per sei anni che chiama dell’«esilio». Con lui lavorava fratel Pietro Bertone, che ripiega su Maputo.
La carta vincente diventano i laici. «Lasciai la gestione della salina in mano a Sebastião, insegnante, e a un altro cristiano».
Il padre tornava periodicamente con un piccolo aereo e Sebastião gli consegnava il ricavato di quel periodo.
«Quando andammo in esilio, i cristiani suddivisero il territorio in comunità. E si organizzarono per amministrare le diverse liturgie come potevano. Quando sono tornato, nell’86 ho trovato la chiesa piena zeppa: era tutta gente che subiva la fame, la violenza.  Trovava nella “parola” un momento di forza. Le cerimonie, le messe erano cantate: una meraviglia».
Le comunità si erano «sparse come un incendio». La gente diceva: «Siamo stufi di parole di odio, vogliamo sentire questo messaggio di amore e pace».
Dice Marchiol del popolo vandau, gli abitanti della zona: «Hanno orgoglio della loro etnia, sono uniti. In Sudafrica difficilmente andavano nelle miniere, erano piuttosto domestici molto apprezzati. Sono duri a cambiare, ma quando cambiano sono tenaci».
Il signor Sebastião Nhamunha Nahanda, ex insegnante, è ancora oggi l’amministratore della salina di Mambone.

La salina di Batanhe

A pochi chilometri dalla missione, sul bordo della Baia Bartolomeo Diaz, ci appare un’estensione di 1.300 metri di acque macchiate di rosa, calme, delimitate da bassi muretti di terra e da stretti passaggi ingombrati da mucchi di sale bianchissimo. Su un lato, lungo la strada di accesso 15 grossi magazzini di legno, ognuno dei quali arriva a contenere 200 tonnellate di sale sfuso. Siamo alla salina Batanhe.
Sei mattine su sette, ogni settimana il trattore parte dalla missione alle 6,30 con il suo carico di lavoratori. Altri salgono via via lungo il cammino. Giunti alla salina, il caposquadra Comódo, uomo di fiducia di padre Marchiol, prepara le squadre di tre persone e dà gli incarichi. Tre giorni di estrazione del sale dall’acqua e tre giorni di trasporto nei magazzini, alternati.
«Oggi la salina impiega 37 operai permanenti e 60 lavoratori occasionali pagati settimanalmente» spiega Sebastião. Il salario minimo è di 1.925 meticais (circa 64 euro mensili). L’ex insegnante ha la gestione diretta del personale e delle altre spese, ma anche delle relazioni con i clienti e delle vendite. Poi passa tutto all’economo della missione, padre Adelino Francisco. C’è anche la revisione contabile mensile di un ufficio di Inhambane.
L’acqua della baia è pompata nel canale principale, spiega padre Amadio, poi la si obbliga a percorrere per gravità un lungo percorso a serpentina, e passare in vasche di concentrazione e decantazione.
Questo è necessario affinché si liberi di diversi composti. Nel mare l’acqua è a 4 gradi Baumé, che sono gradi di salinità. Le vasche fanno in modo che la gradazione aumenti fino a 25 gradi, limite raggiunto il quale cristallizza il cloruro di sodio: il sale da cucina. Prima però si è liberata di solfato di ferro e cloruro di calcio (gesso). Per ultimo, a 30 gradi, si forma il solfato di magnesio, che occorre eliminare a mano.
Gli operai, con grandi rastrelli piatti, tirano in secco il sale ormai formato nell’ultima fila di vasche, raggruppandolo in mucchi bianchi come neve che splendono al sole. Il giorno successivo la stessa squadra, con l’ausilio di carretti, trasporta il sale dei mucchi nel magazzino più vicino.

Venne in una notte

«Nella mia vita non avevo visto cicloni, l’ultimo era stato nel 1948» padre Amadio racconta quel giorno nel febbraio del 2000.
«Erano le nove di sera, il bollettino meternorologico indicava la direzione di Inhambane, pensavamo di essere fuori pericolo. Poi è cominciato a soffiare un vento sempre più forte. L’acqua entrava da tutte le parti, tutta la notte, poi il mattino alle dieci si è calmato. Sembrava di uscire in un cimitero. Era tutto rotto. Alla salina quell’onda del mare aveva portato via i muri, livellando tutto. Il ciclone sull’oceano ha prosciugato le spiagge».
I due guardiani erano saliti sulla casa delle pompe, dopo l’onda si sono trovati a centinaia di metri di distanza. Ancora vivi. Uno però aveva perso per sempre la ragione.
«I 14 magazzini erano pieni di sale (circa 2.800 tonnellate): non è rimasto un grano a scavare nel fango. E le strutture in legno distrutte. I pali li abbiamo ritrovati a 5 km di distanza».
Il progetto è devastato, il sale di un anno se l’era ripreso l’oceano. Il momento è critico: potrebbe essere la fine della salina di Batanhe.
«Dissi agli operai: abbiamo perso tutto il lavoro dell’anno scorso. Adesso sarebbe stato il momento di vendere il sale e poi continuare la raccolta. Quindi non so se potremmo darvi il salario mensile.
“Non importa”, risposero,  “andiamo a lavorare anche senza paga: la salina è nostra e se muore moriamo anche noi”».
Così i lavoratori della salina andarono a ripulire e a ricostruire tutto quello che il ciclone aveva distrutto in una notte.
Nell’emergenza padre Marchiol, assieme all’inossidabile e generoso fratel Pietro Bertone, si trovarono di fronte 4.800 persone alluvionate che si erano rifugiate alla missione. Avevano solo 10 sacchi di mais, e iniziarono a chiedere aiuti con il telefono satellitare della missione.
Nonostante il duro colpo, grazie alla popolazione, che crede nel progetto, la salina riesce a sopravvivere e a rinascere.

Un’impresa «sociale»

La salina di Batanhe è oggi un’impresa «sociale» altamente redditizia. Produce un sale di qualità, riconosciuto a livello nazionale e talvolta esportato all’estero.
«Lo comprano commercianti di Inhambane, Beira, Tete, e altre città del paese, ma anche, in minor misura quelli di zona» racconta Sebastião che oggi continua a gestire la salina in prima persona. «Sale di migliore qualità rispetto alle altre saline della zona; con iodio, e sacchi chiusi a macchina. Pulito. È ottimo per consumo umano».
Il mercato è ancora aperto: «È impossibile soddisfare tutti i clienti. Il bisogno di sale è maggiore della richiesta. Non ci sono più le saline di Matola».
Così la salina diventa un progetto che produce profitti che, oltre ad alimentare le necessità della missione di Mambone, sono raccolti in un fondo al quale possono attingere le altre missioni del Mozambico. Senza dimenticare la ricaduta sulle famiglie dei lavoratori.

Venti anni,
per avere la fiducia

Schietto come un bambino, ma profondo come qualcuno che ha fatto grandi cose, padre Marchiol tenta di svelarci il suo segreto: «Nessuno pensava che si potesse produrre sale a Mambone. La gente mi ha dato fiducia, perché ho promesso una cosa e l’ho fatta. Ci ho messo vent’anni. Prima non è stato possibile. Per vent’anni hanno dubitato, poi mi hanno dato fiducia».
Un progetto costruito insieme con loro e per loro: «Lavorano e sono soddisfatti di portare a casa il frutto del loro lavoro».
È riuscito a creare le condizioni per una crescita materiale, oltre che spirituale, a migliorare le condizioni di vita della gente. Questo aumenta anche la dignità e il benessere generale di un popolo. Ma come ha fatto?
«Vedo la mia vita come quella di qualunque individuo: ognuno nella vita ha un programma, ha una vocazione e deve viverla fino in fondo.
Uno che forma una famiglia lo fa per sempre. Così è per la missione. Non bisogna pensare: chi verrà dopo cosa farà? Io devo fare quello che posso con tutte le mie forze. Con questi fratelli devo condividere il bene e il male con l’obiettivo di far crescere le persone».
Tranne alcuni trasferimenti e gli anni di esilio, padre Amadio, ha sempre vissuto a Mambone la sua missione: «La mia fortuna è essere rimasto qui a Mambone per molto tempo. Non solo per mia volontà, questa c’è sempre stata, ma anche grazie all’intervento di colui che mi ha mandato». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Il missionario viaggiatore

Anno paolino

Paolo di Tarso è il grande missionario viaggiatore. Si calcola che abbia percorso più di 15.000 km per le strade dell’impero romano, che aveva reso più sicuri i viaggi per mare e sviluppato una fitta rete stradale che collegava Roma alle regioni più lontane dell’impero: i missionari cristiani poterono così portare il nome di Gesù nelle varie regioni dell’impero.
La seconda parte degli Atti degli Apostoli si concentra soprattutto sull’attività missionaria di Paolo, rappresentata sotto forma di tre viaggi missionari, più un quarto come prigioniero da Cesarea a Roma. Ognuno di tali viaggi è caratterizzato da un discorso chiave di Paolo riguardante vari aspetti della missione: predicazione ai giudei nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (Atti 13,16-41); predicazione ai pagani nell’Areopago di Atene (17,22-31) e addio ai presbiteri di Efeso a Mileto, vero testamento pastorale dell’apostolo (20,17-38).

Il primo viaggio (Atti 13,1-14,28) inizia ad Antiochia di Siria, ove era nata una vivace comunità cristiana tra i pagani greci: questa comunità invia in missione il cipriota Baaba e Paolo (13,1-3). Salpati da Seleucia sulla costa siriana, attraversano l’isola di Cipro e giungono alle coste meridionali dell’Anatolia, oggi Turchia; toccarono le città di Attalìa, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe e ritornarono al punto di partenza.
All’inizio del viaggio il nome di Baaba viene sempre prima di Saulo; poi sembra sia questi a prendere il comando della spedizione: da 13,9 il nome Saulo viene sostituito con quello di Paolo, quasi che, all’incontro col mondo pagano, egli preferisca usare il nome romano, Paulus, invece di quello ebraico, Saulo.
La strategia è sempre quella di rivolgersi prima agli ebrei, mostrando come Gesù adempie le profezie messianiche: il discorso nella sinagoga di Pisidia è il modello di tale evangelizzazione. Poi, anche a causa della scarsa risposta degli ebrei, Paolo e Baaba si rivolgono sempre più ai pagani e sono stupiti dalla loro risposta positiva al loro annuncio. Rientrati ad Antiochia essi condividono con la comunità la loro esperienza (Atti 14,27).

Il secondo viaggio missionario (Atti 15,36-18,22) inizia con la separazione tra Paolo e Baaba. Baaba e Marco ripartono per Cipro; Paolo, con il nuovo compagno Sila, attraversa Siria e Cilicia e raggiunge Listra, dove accoglie con sé Timoteo, che avrà un ruolo molto importante nelle missioni di Paolo. Percorsa l’Anatolia centrale, essi raggiungono la città di Troade, sulla costa settentrionale del Mar Egeo. «E qui si ebbe di nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall’altra parte del mare, cioè in Europa, che diceva, “Vieni e aiutaci!”. Era l’Europa futura che chiedeva l’aiuto e la luce del vangelo» (Benedetto xvi). Sulla spinta di questa visione entra in Europa: sbarcato a Neapoli, arriva a Filippi, ove fonda una bella comunità, la prima in Europa, seguita poi da quella fondata a Tessalonica.
Il centro del viaggio è il discorso all’Areopago di Atene (Atti 17,22-34). «In questa capitale dell’antica cultura greca predicò, prima nell’Agorà e poi nell’Areopago, ai pagani e ai greci. E il discorso dell’Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come tradurre il vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura, ma il Dio sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della loro cultura» (Benedetto xvi).
Poi da Atene arriva a Corinto; i coniugi Priscilla e Aquila lo accolgono in casa loro e condividono con lui il loro lavoro di fabbricatori di tende: con questa coppia Paolo dà vita alla comunità cristiana di Corinto. Dopo 18 mesi, Paolo lascia Corinto, insieme a Aquila e Priscilla, e arriva a Efeso, dove lascia la coppia, mentre egli raggiunge Cesarea Marittima e sale a Gerusalemme, per tornare poi ad Antiochia sull’Oronte (Atti 18,18-22).

Il terzo viaggio missionario (Attti 18,23-21,16) inizia come sempre da Antiochia. Paolo punta dritto su Efeso, capitale della provincia d’Asia; vi soggioa per due anni, fondando comunità cristiane nella regione circostante, finché deve fuggire, per una sommossa popolare provocata dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l’Artemysion, era una delle sette meraviglie del mondo antico). Attraversata Grecia e Macedonia, Paolo giunge a Mileto, convoca gli anziani della chiesa di Efeso e rivolge loro un discorso, chiamato «testamento pastorale di Paolo» (Atti 20,17-38), perché presenta una ricca sintesi della sua vita missionaria, modello per ogni pastore.  
Ripartito da Mileto, Paolo fa vela verso Tiro, raggiunse Cesarea Marittima e sale ancora una volta a Gerusalemme. Qui è arrestato per un malinteso: alcuni giudei di origine greca, introdotti da Paolo nell’area del tempio riservata agli Israeliti, erano stati presi per pagani: la prevista condanna a morte gli è risparmiata per l’intervento del tribuno romano di guardia all’area del tempio (cfr At 21,27-36). Paolo viene incarcerato e, come cittadino romano, si appella a Cesare per non essere giudicato dai giudei.
Nel viaggio verso Roma (Atti 27-28), sotto custodia militare, Paolo approda a Malta, dopo un drammatico naufragio (27,1-44); quindi raggiunge Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I cristiani romani gli vanno incontro fino al Foro di Appio (ca. 70 km a sud di Roma) e altri fino alle Tre Tavee (ca. 40 km). A Roma incontra i delegati della comunità ebraica, a cui confida che è per «la speranza d’Israele» che portava le sue catene (cfr At 28,20).
Con l’arrivo di Paolo nella capitale dell’impero, l’autore di Atti vede compiersi la profezia di Gesù «mi sarete testimoni fino all’estremità della terra» (1,8) e non soddisfa la nostra legittima curiosità di conoscere il seguito della vita e martirio di Paolo.
Negli Atti ci è presentato il ritratto di un viaggiatore instancabile, che percorre terra e mare sempre con la stessa finalità: portare a tutti l’annuncio di Colui che ha sconvolto la sua vita. Per amore di Gesù affronta difficoltà inimmaginabili, come dirà in un testo memorabile: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i 39 colpi, tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, di briganti, dai miei connazionali, dai pagani, nelle città, nel deserto, sul mare, da parte di falsi fratelli, fatiche e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, freddo e nudità» (2 Cor 11,24-27).

di Mario Barbero

Mario Barbero




Teologia Macua: Dio è donna

L’utopia di un grande missionario

In un villaggio del profondo Niassa un’équipe di religiosi e laici porta avanti una missione di frontiera. Italiani e africani, uomini e donne. Ma soprattutto incontro tra tradizione biblico-cristiana e teologia tradizionale macua. Come coniugare le diverse categorie? Come arricchirsi gli uni con gli altri nella propria fede? Lavorare per l’inclusione, contro l’esclusione. Farsi evangelizzare evangelizzando. Un laboratorio umano e spirituale che dura da 30 anni. Ma è sempre all’avanguardia.

Maúa (Niassa). Occorrono circa sei ore per arrivare a Maúa partendo da Lichinga, capitale del Niassa e unico aeroporto della vasta provincia nel Nord del Mozambico. Dopo 200 km di strada asfaltata se ne percorrono ancora oltre un centinaio di sterrata, di cui buona parte in una foresta vergine, incontaminata, interrotta ogni tanto da una montagna di roccia, come un sasso gigantesco e lucido che sorge dal nulla. Panorama spettacolare.
A Maúa non c’è la luce elettrica e non arrivano neppure le onde elettromagnetiche del telefono cellulare …
Qui un’équipe di missionari della Consolata ha fondato il «Centro de investigaçao macua-xirima» (centro culturale o di studio) allo scopo di entrare nel mondo xirima (o sirima) e stabilire con esso, uno «scambio di doni». L’etnia macua (pronuncia macùa) è la più numerosa in Mozambico (circa 47% della popolazione) ed è presente in quattro province: oltre il Niassa, Cabo Delgado, Nampula e Zambésia. Fa parte della famiglia bantu, ed è a sua volta divisa in vari sottogruppi linguistici, tra cui il xirima.
La casa dei religiosi e i locali del centro sono una struttura semplice, integrata con il resto delle costruzioni della cittadina.
Padre Giuseppe Frizzi* è in Mozambico dal 1975. È un biblista (laureato all’università di Münster, in Germania) che si è messo a fare l’antropologo. Ma è soprattutto un missionario, come lui stesso sostiene, che persegue la strada per fare il missionario nel modo che gli sembra più giusto nel contesto in cui si trova.
Quando si sta con lui si percepisce quel qualcosa che ti dice di essere al cospetto di un grande. Gigante anche in semplicità. Timido, quasi dimesso, difende con fermezza, ma senza alcuna arroganza, le sue idee. Convinzioni elaborate e maturate su una solida base: un lavoro di oltre 30 anni. Idee spesso osteggiate, dentro e fuori della chiesa. Con tutta probabilità perché sono molto avanzate rispetto al pensare comune.
Con lui lavorano suor Silveria Casiraghi, missionaria della Consolata inossidabile, il sempre allegro fratel Gerardo Secondino e il giovane patre venezuelano Leonel Toledo, insieme a un’équipe di laici macua.

Un metodo lungo  e partecipativo

«La lingua macua-xirima era una tradizione totalmente orale, la tramandavano gli anziani, la sera intorno al fuoco. Poi i missionari della Consolata hanno cominciato a scrivere qualcosa – racconta suor Silveria. – Quando padre Frizzi è arrivato ha ripreso in mano quanto era già stato fatto, poi ha iniziato a incaricare delle persone e, fuori, nelle grandi comunità, si sono formati dei gruppi».
«Ho iniziato a fare questo lavoro verso il 1980. A causa della guerriglia (sulla situazione politica cfr. MC gennaio 2009) non potevamo uscire, così gli animatori venivano a portarmi informazioni. Non solo relative alla pastorale ma anche alla cultura. Ero a Cuamba, fu un periodo di sei anni. Raccoglievo materiale tradizionale, canti religiosi. Abbiamo pubblicato un libro di 741 canti. Erano già presenti ma bisognava sistematizzarli in un contesto liturgico sacramentale». Così padre Frizzi ci racconta i primi anni del suo lavoro con i macua.
«Poi ho potuto frequentare i riti, soprattutto quelli terapeutici. Riti molto lunghi.
Un aspetto è la conoscenza dell’erbario, ma è il rito stesso che indica le medicine da trovare. Non c’è una cura prefabbricata. Nel rito, ammalato, famiglia, medico sono ispirati da fattori o sogni».
Nel 1987 Frizzi si trasferisce a Maúa e costituisce un gruppo di collaboratori: sono animatori e catechisti, che vivono nelle comunità. Partecipano a riti, si fanno raccontare proverbi. Scrivono tutto su dei quadeetti. Poi portano il materiale al centro, lo trascrivono nel computer. Incontriamo Ruffino che legge su un quaderno appunti in xirima, e Fausto che ascolta e scrive tutto su un computer portatile (alimentato con il solare), rigorosamente in xirima.
Poi improvvisano una traduzione grezza in portoghese. Il padre rivede tutti i testi nelle due lingue: «In seguito discutiamo, chiamiamo chi ha fatto il rito descritto per chiedere dettagli. Si fa una riflessione e si amplia il testo. C’è un dialogo intenso di équipe».
Dopo anni la metodologia si è raffinata. «In un mese ogni collaboratore porta un mezzo quaderno zeppo. È nata così la lingua scritta – continua suor Silveria -. Padre Frizzi ha già trovato la grammatica, l’ha perfezionata, l’ha completata. Siccome è una lingua bantu l’ha arricchita. I proverbi, le favole, la vera sapienza la raccoglie così, dalle persone stesse».
In questo modo ha tradotto l’intera bibbia, pubblicato il catechismo, libri di canti e di proverbi, scritto il dizionario completo. Nel 2008 nasce la sintesi del lavoro di questi anni: «Biosofia e biosfera Xirima». È un librone di 1.785 pagine, bilingue portoghese e macua.
Vuole essere la «visione sistematica della cultura xirima».  «Abbiamo voluto inserire il vocabolo nel suo contesto sia linguistico sia culturale. È il tentativo di presentare il mondo macua nella sua completezza: quello che amo chiamare il palazzo» continua padre Frizzi.

Un «edificio» complesso

I missionari e i laici macua hanno raccolto elementi della cultura in tutti questi anni, preparando i mattoni. Hanno poi cercato di sistematizzarli e completarli, costruendo dei muri. Ora si è arrivati all’edificio: la descrizione di una cultura complessa.
Come è stato possibile questo enorme lavoro?
«Uno degli ingredienti è la stabilità. Questa non è sinonimo di staticità, anche se può diventare comodità. Ma dà la possibilità di attingere, penetrare nel cuore di un popolo e quindi conoscere le radici. Essere ammessi in questo mondo non è facile, occorrono anni di amicizie. Vogliono sapere se tu entri per curiosare e poi sparlare o se c’è una empatia: tu vuoi entrare per partecipare, fare tua questa esperienza».
Tutto questo portando avanti anche la pastorale?
«La pastorale è sempre stata la base. Dà le fonti migliori e il materiale più autentico. Solo in seguito si può passare a una rielaborazione teoretica di un’esperienza. Non il contrario.
La pastorale concreta è sempre stata l’ispirazione. Dopo c’è la riflessione di équipe e si passa di nuovo alla pastorale come apertura, inculturazione, applicazione, suggerimenti … questo è il processo».
Come si arriva alla vera inculturazione?
«L’inculturazione è possibile se si ha il numero del cellulare di un popolo. Il punto di partenza è che Dio ha parlato a questa gente. La parola Muluko (Dio) non è importata, né dall’islam né dal cristianesimo. È la “casa dell’essere”,  indica un cammino storico che non è conosciuto. Dio ha camminato con questo popolo.
La messe è grande ma gli operai sono pochi. Se c’è la messe esiste un cammino già fatto. Il missionario più che seminare dovrebbe essere un mietitore: raccoglie o riassume coscientemente quello che Dio ha già operato con loro.
La visione teologica di Dio già nella storia prima dell’evangelizzazione, aiuta a entrare in un contesto culturale differente. Prima di tutto con rispetto: non seminare se è già stato seminato o non estirpare quello che già c’è e ha già un processo di maturità teologica storico-salvifica.
Il processo non è traumatico: se scopro la mateità di Dio in questo popolo (vedi oltre, ndr) non posso considerarla una deviazione o una perversione religiosa o teologica. Ma è un interrogativo potente alla mia fede impostata sul modello biblico-occidentale di tipo patriarcale. C’è un’alternativa di modelli che si possono coniugare insieme. Invece di escludersi come spesso avviene nella nostra società.
Inculturazione oltre a essere un interrogativo, è uno scambio di doni, ovvero la possibilità di allargare i propri orizzonti.
“Essere evangelizzati prima di evangelizzare”. Evangelizzati da quell’evangelio pre-evangelico. C’è già una presenza di Dio. Questa presenza è un imperativo categorico, che il missionario deve scoprire e rispettare, entrando così lui stesso in un processo di evangelizzazione che porta alla pienezza».
Padre Frizzi evangelizzato dal popolo macua.

Tutto parte dalla lingua

La lingua matea è la prima chiave di accesso a una cultura. Proprio per questo padre Frizzi e la sua équipe hanno basato tutto sul macua-xirima. E dopo tanti anni anche il governo del Mozambico ha capito che occorre valorizzare le lingue matee e nel 2004 ha fatto un passo importante introducendole nei primi tre anni di scuola primaria. Il 2008 è stato dichiarato «L’anno delle lingue matee».
A lato pratico vuol dire che c’è bisogno di insegnanti e operatori formati nelle diverse lingue presenti nel paese. L’Università cattolica del Mozambico, Facoltà di Educazione, a partire da quest’anno, introdurrà un corso di etnologia e antropologia in stretta collaborazione con il centro di investigazione di Maúa. E anche l’Università Eduardo Mondlane (la statale più grande del Mozambico) ha chiesto di collaborare.
Perché la lingua matea è così importante?
«Fino ad oggi a scuola c’è un trauma iniziale, dovuto alla lingua, alla cultura matea che si deve lasciare. Si esige un salto epocale a un bambino. La capacità creativa dei bambini è calata. Adesso governo, scuola e università chiedono materiale e appoggio da parte nostra. Non si tratta di rinchiudersi in un contesto etnico, ma valorizzare queste radici per poi lanciare il futuro adulto nel mondo.
Se il ragazzo entra nella scuola portando tutto il suo capitale culturale, domani i rami saranno autentici, i frutti non saranno rachitici se le radici sono salde.
Non capisco il boicottaggio di alcuni missionari o della chiesa che gridano a un ritorno al passato: si tratta di percepire la tradizione, valorizzarla e inserirla in un contesto nazionale.
Parlando solo portoghese si dimentica tutto il cammino che Dio ha fatto con questo popolo. Si suppone, con tutti i preconcetti e le conseguenze negative».
Questo vale per tutta l’Africa dove c’è una lingua franca, dei colonizzatori e una lingua matea.
«L’una non esclude l’altra, ma si implicano completandosi. La lingua franca necessita della lingua matea, delle sue radici, della sua località e individualità per vivere e sopravvivere, così pure la lingua matea necessita della franca per dilatare i suoi orizzonti culturali».

Il dio materno

La società macua, pur essendo bantu, è matriarcale e matrilineare. Il primo passo per entrare in contatto con essa è la conoscenza del mito delle origini, fondato sul monte Namuli, una montagna reale che si trova nel distretto Gurúé, in provincia di Zambésia.
«Il macua-xirima crede che tutto viene dal seno materno di Dio: Dio è la matriarca – genearca che dalle cavee del monte Namuli, ha generato tutto e tutti.  Tutto e tutti è là che devono ritornare. Non c’è in pratica un taglio ombelicale, ma un ciclo: tutto esce da Dio per poi ritornare al suo seno matriarcale» scrive padre Frizzi.
Adriano Saide, catechista e formatore al Centro culturale ci racconta: «Noi tutti macua siamo originati dal monte Namuli, è la nostra madre. Nella grotta al suo interno appaiono figure simboliche. Una figura di donna: vuol dire che è una madre e noi abbiamo fiducia in essa, perché è un’immagine che dà la vita: è quella che può avere un figlio e lo sa far crescere: per noi è uno spirito.
Il monte è sacro. Quando le persone muoiono, ritornano attraverso il monte Namuli».
Oltre a Muluko, il Dio matriarca, quale posto ha Gesù Cristo nella cultura macua-xirima?
«In una famiglia nascono figli, se si ammalano viene avvisato lo zio materno. È lui che decide tutto quello che concee i nipoti, figli della sorella. È una caratteristica di questa società matriarcale. Ecco che Gesù è “lo zio materno”,  atata, una figura fondamentale. Inoltre Gesù è mediatore: da lui passano tutte le tribolazioni dell’umanità. E Gesù le assume e le risolve.  “Yesu atatani namuku”, ovvero: Gesù mediatore e medico.
La Madonna è diventata puiyamuene, la matriarca. Entra immediatamente nel contesto culturale dei macua.
È proprio questa l’inculturazione: registrare un processo teologico emergente. Si favorisce la spontaneità di questa cultura, senza pensare che sia tutto negativo o creando barriere, ma dando al cristiano la possibilità di esprimersi spontaneamente nelle sue categorie. Da qui escono queste nuove sintesi teologiche. Possono anche essere soluzioni limitate, però accompagnare il processo e favorirlo, stimolarlo dovrebbe essere l’attività principale del missionario».

Riti di Iniziazione

Un rito fondamentale è quello dell’iniziazione, che esiste sia per le donne sia per gli uomini. Come è entrato il cristianesimo in questo?
«Un tempo era totalmente tradizionale. Poi essi stessi iniziarono a togliere qualche elemento che sembrava non più efficace nel contesto politico, sociale o cristiano.
Poi hanno creato una “commissione d’iniziazione” formata da catechisti e animatori, che hanno dato la responsabilità del viaggio (perché di viaggio si tratta) alla parrocchia. Il capo (regolo) è sempre presente e svolge il suo ruolo.
La parrocchia garantisce una forza morale per evitare gli abusi. La libertà liminare tipica dell’iniziazione c’è. Ma ci possono essere esagerazioni.
Lo scopo del viaggio iniziatico è allargare gli orizzonti, non solo promuovere il ragazzo o ragazza alla maturità matrimoniale, ma anche civile e inserirlo in un contesto allargato. Il Mozambico non è solo Maúa. C’è una settimana di formazione in cui si parla anche del nuovo contesto politico, della nazione, che va al di là dell’etnia macua. Lingua, salute, igiene, aids, lavoro e anche catechismo, liturgia, sono tutti temi affrontati».
Lei ha scritto che la società xirima non è sessista, e che non ha bisogno di scoprire il pianeta donna.
«Il centro è la donna, che ha in mano la vita. L’iniziazione è un’orchestrazione di questo tema: garantire vita e abbondanza di vita il più possibile.
L’uomo è il complemento di una società matriarcale: deve fecondare, lavorare, nutrire, vestire e soprattutto occuparsi della morte. Deve essere capace di seppellire: se c’è l’elemento negativo nella società deve garantire che la vitalità sia preservata.
Il rito iniziatico dei ragazzi finisce con un rito di morte: come seppellire i parenti, come togliere tutte le negatività perché la vitalità che detiene la donna sia feconda.
L’uomo è un’appendice al servizio della donna, ovvero della vita. Il ragazzo è preparato alla polarità morte, mentre le ragazze alla polarità vita».

«Mangiare insieme»

Il rito della makeya è il rito cardinale della religiosità e teologia xirima. Recita il dizionario realizzato dal Centro studi di Maúa.
«Nella famiglia ci può essere una tristezza, un sogno negativo. La mamma fa la makeya alla porta della casa oppure ai piedi dell’albero sacro.
Gettando a terra la farina si invoca Dio (materno) Muluku tramite gli antenati famigliari, che sono i mediatori. Nella teologia xirima Dio non è il sole che elimina tutte le stelle: è la luna (matriarcato, lunare, notturno). Questo significa che accetta la mediazione, convive con le stelle, non è solitario ma è solidale. Quindi entra in relazione con la comunità attraverso i morti. Se l’uomo vuole chiedere a Dio un favore o ringraziarlo, passa attraverso questa mediazione.
Non è un sacrificio, non si santifica, si tratta di creare un convito: una stuoia dove ci si siede e si mangia. Adorare, sacrificare: queste sono categorie bibliche o cristiane. Presso i macua no. La categoria principale è “mangiare insieme”,  è una comunione che si mangia insieme. Potrebbe essere una rivalutazione profonda dell’eucarestia. Loro la desiderano e la distribuiscono, anche se non hanno sacerdoti. Il castigo peggiore che si può fare a una comunità è sospendere la distribuzione la domenica.
C’è l’offerta in Gesù Cristo: la tradizione biblica si esprime così. La tradizione macua è invece:  “mangiare insieme”».
Allora qual è il dialogo tra le due? «Questo è il processo che si deve promuovere. È qui la nuova azione missionaria, non più un annuncio che prescinde, ma assumersi le categorie e coniugarle insieme».
Completato questo enorme lavoro sulla Biosofia e Biosfera, cosa assorbe adesso le sue energie?
«Dobbiamo essere attenti per vedere che sintesi, che teologia sta sorgendo.
Sto registrando i canti nuovi scritti in questi 20 anni. Ci danno una radiografia della teologia emergente, latente. Adesso ci sono molti canti alla Trinità, che prima non esistevano. Come spiegarla ai macua? Vediamo che proposte ci sono da parte loro. La mariologia l’ho già rielaborata. Superare un po’  la visione del semina verbi: non raccogliere solo i mattoni, ma anche la parete, o magari il suo contesto di costruzione finale. Che sintesi teologica cristiana si può dedurre da questa cultura, accompagnando quello che loro stanno vivendo? E io che fede posso realizzare insieme a loro arricchendomi della loro fede? Evangelizzati ed evangelizzandi da entrambe le parti. Come scambiarci i doni a livello di fedi? Quali i punti forti della teologia emergente e come inserirli dove c’è più debolezza da parte nostra? È un po’ un’utopia, ma sempre in questo atteggiamento di ascolto». 

Di Marco Bello

Cuore Macua

Un proverbio macua dice: «Nonostante il cammino sia tortuoso, se il cuore lo desidera, arriverà alla meta». È la sintesi efficace di una ricerca che abbiamo appena concluso a Maúa, uno studio antropologico e psicologico del processo di evangelizzazione inculturata tra i macua-xirima. Il cuore è il protagonista principale dello studio nel senso che ne è l’oggetto e il soggetto. Ne è l’oggetto perché lo studio si rivolge soprattutto alla componente affettiva, del pathos della persona e del popolo, cercando di comprendere come questa componente viene coinvolta nel processo di evangelizzazione. E ne è pure soggetto, perché il viaggio in cui ci siamo inoltrati col popolo xirima non consiste in una mera speculazione accademica, bensì in un’esperienza di vita che coinvolge non solo il pensare e il fare, ma anche e fondamentalmente l’intuire e il sentire.

Le cure tradizionali
I processi terapeutici macua-xirima costituiscono occasioni particolari di reimmersione nelle tematiche iniziatiche, pertanto di approfondimento e consolidamento delle istanze educative basilari. La costruzione dell’edificio rituale terapeutico si svolge ancora attorno al principio namulico (il mito delle origini, vedi articolo, ndr), cantato, danzato, detto, visualizzato, drammatizzato. Il mito viene così non solo raccontato ma soprattutto rivissuto nel rito. Calato e incarnato nella situazione attuale del malato e dell’ambiente che lo circonda, ne diviene chiave interpretativa, iniettandovi speranza. Il malato si sente partecipe di una storia più grande, di una rete di relazioni di influenza reciproca, che sostengono e illuminano il cammino individuale e comunitario salvandolo dall’anonimato e insieme inserendolo in una epopea comune che trascende il tempo, il luogo e le condizioni particolari senza svalutare gli elementi contingenti, anzi, conferendo loro un significato sacro.
Una caratteristica delle cure tradizionali xirima è di tener conto in ogni momento della molteplicità e dell’unità che caratterizzano l’esistenza umana: la terapia non riguarda un organo malato ma la persona tutta nelle sue componenti antropologiche, nel suo pensare, sentire e agire, nei suoi aspetti più consci e meno consci, nelle sue relazioni col mondo visibile e invisibile. Riguarda il gruppo di appartenenza, perché la malattia di un individuo non si risolve in un fatto privato, ma ha legami causali con la comunità. In questo senso, la terapia xirima è personale e allo stesso tempo sociale e cosmica; è medica e allo stesso tempo psicologica e religiosa; è cura e allo stesso tempo è educazione e preghiera. 

Il cuore
Per il xirima, il cuore (murima) non indica semplicemente un organo. Il murima è considerato il centro della personalità, sede dei desideri, degli affetti, delle decisioni. La tradizione xirima abbonda di testi sul murima considerato in questa accezione più ampia di coscienza individuale. I molti proverbi ci illuminano sull’importanza del murima nell’antropologia macua-xirima (vedi box).
Il xirima è consapevole che il cuore merita molta attenzione nei processi educativi: educare a pensare e ad agire non basta, perché «il pensiero non supera il cuore» ed è il cuore a «comandare», a «compiere il bene», a «contenere molte cose», a conferire alla persona la tenacia per arrivare là dove desidera, ad amare, oppure a cambiare direzione secondo i venti, a ritirarsi pieno di vergogna, a pietrificarsi in una avarizia che somiglia alla morte. Educare se stessi, allora, significa saper «ingannare» il proprio cuore, orientarlo, senza mai spegnee i desideri. Significa renderlo flessibile, duttile e capace di adattarsi, come quello di Dio che sa «cambiare colore» a guisa del camaleonte. Il cuore non si compra, non ha prezzo; il cuore buono viene paragonato poeticamente a una luna interiore, con tutta la carica simbolica, femminile e matea, che la luna riveste nel mondo xirima. A ragione, allora, la sapienza xirima incoraggia a guardare non tanto al volto (bello o meno) dell’altro, ma al suo cuore, a quella dimensione interiore che lo rende pienamente persona: in verità, la persona è il suo cuore.

L’ombra
La persona è costituita da tre componenti: corpo (erutthu), ombra (eruku) e spirito (munepa). Il corpo è assieme all’ombra, mentre la persona è viva. Quando la persona muore, la sua ombra è con il suo spirito. La componente dell’ombra si rivela come quell’elemento di unione tra corpo e spirito, quella dimensione intermedia, fluida, mobilissima della persona, capace di armonizzare le altre due componenti, integrandole e orientando le energie dell’essere alla missione che gli è stata affidata. In questo senso, l’eruku rappresenta la parte più forte ma anche più vulnerabile della persona. Un eruku positivo e vitale si traduce in una persona che fa e promuove il bene in sé e attorno a sé. Un eruku indebolito è alla radice di molti problemi personali, tra cui gli stati depressivi, e di molte difficoltà interpersonali. Di fatto, l’attività del terapeuta tradizionale macua è prevalentemente rivolta alla fortificazione e rivitalizzazione dell’eruku, così come l’attività dello stregone è rivolta alla mortificazione, all’indebolimento quando non addirittura alla sottrazione di questo elemento vitale.
L’eruku xirima entra facilmente in dialogo con ciò che da altre parti del mondo si chiamerebbe pathos, sfera emotiva, subconscio. Le porte della sapienza macua sembrano davvero aperte al dialogo con altre sapienze. L’esperienza macua è particolarmente recettiva alla questione dell’educazione olistica della persona e a un’educazione che abbia il dovuto riguardo alla componente del sentire. Si aprono delle piste di dialogo interdisciplinare sull’evangelizzazione.
L’attenzione alle «cose del cuore» è almeno tanto importante quanto l’attenzione alle «cose dello spirito» o a quelle della mente e del corpo. E questo vale per l’individuo come per la cultura.

Simona Brambilla
(missionaria della Consolata, dopo alcuni anni
di permanenza a Maúa ha scritto una tesi di dottorato in psicologia sull’argomento, di prossima pubblicazione)

Marco Bello