Una storia fatta da donne

Migranti italiane a Buenos Aires

“Miradas de luz”, una mostra fotografica realizzata da ICEI MERCOSUR nel giugno 2008, racconta alcuni aspetti della migrazione italiana in Argentina mettendo in evidenza il ruolo avuto dalla donna
in questo processo migratorio.

Tra il 1870 e il 1950 circa 2.500.000 persone lasciarono l’Italia per emigrare in Argentina e tentare la grande avventura de «la Merica». Circa 500 mila erano donne, la maggior parte delle quali seguivano i padri e i mariti in cerca di fortuna.
Queste donne non partecipavano attivamente alla decisione di «partire» ed erano costrette a un ruolo di accompagnamento e di cura familiare, tuttavia, nonostante il trauma della lontananza, sono state capaci di portare avanti la propria vita con coraggio e di lottare socialmente per il riconoscimento e la tutela dei propri diritti.
Il tema migratorio non perde la sua attualità, specialmente in questi anni in cui si assiste a una progressiva «femminilizzazione» del fenomeno. Sono sempre più numerose le donne che emigrano sole e si fanno carico del sostentamento della famiglia che resta nel paese d’origine. Al cambio radicale, spesso si accompagna il distacco dai figli e le non sempre facili mansioni lavorative negli ambiti «di cura» domestica.  
ARGENTINA E ITALIA NELLA METÀ DEL SECOLO XIX
La Costituzione del 1853 e la Ley de Inmigración y Colonización del 1876 sono due momenti importanti dell’organizzazione della politica migratoria argentina del secolo XIX.
L’articolo 18 della Ley de Inmigración y Colonización definiva immigranti i lavoratori giornalieri, gli artigiani, industriali, agricoltori e professori minori di sessant’anni che decidevano di stabilirsi in Argentina. La legge stabiliva i vantaggi – estendibili a moglie e figli – cui avevano diritto i nuovi arrivati che mostravano buona condotta e attitudine al lavoro. Tra le altre cose, gli immigrati potevano:
– essere alloggiati e mantenuti a spese della Nazione, durante il tempo stabilito dagli articoli 45, 46 e 47;
– essere inseriti nel mercato del lavoro nazionale, in accordo alle proprie preferenze;
– essere trasferiti con spese a carico dello Stato, nella parte della Repubblica argentina in cui decidevano di vivere.
L’emigrazione italiana fu un esodo complesso e multiforme, che interessò circa 20 milioni di italiani e durò più di un secolo, dalla prima metà dell’800 alla seconda metà del ‘900.
Il processo migratorio della seconda metà del XIX secolo fu la conseguenza di una somma di diversi fattori economici e culturali, che ebbero risvolti particolari nelle differenti regioni: dalla crisi agraria che colpì il nord Italia al collasso economico del sud.
I potenziali emigranti ricevevano notizie dei destini possibili attraverso l’informazione data dal Goveo, dalle Compagnie di colonizzazione o di navigazione. Anche il passaparola era un canale importante che influenzava le scelte di parenti, amici, vicini e delle reti informali che si costituivano. 
Il viaggio iniziava quando i migranti lasciavano il paese natio per raggiungere i diversi porti: Genova, Trieste o Napoli. Molte volte la partenza era un avvenimento collettivo, a cui partecipavano interi gruppi di parenti e conterranei che partivano per l’estero.
In Italia, le realtà regionali erano molto forti. Al momento dell’imbarco gli emigranti liguri, calabresi, napoletani o veneti si scoprivano «italiani», situazione aliena che si rinforzava con lo sbarco, quando si imponeva chiaramente la condizione di «emigrante italiano».
componente migratoria femminile
Secondo il primo censimento, realizzato in Argentina nel 1889, nella prima ondata di immigrati la componente femminile era una percentuale minore: una donna ogni due uomini a Buenos Aires, una ogni tre a Rosario. Dal 1880 in avanti, con l’arrivo massiccio dei piemontesi e dei lombardi, il numero delle donne aumentò.
Nel secondo censimento nazionale del 1895 risultava che la proporzione delle italiane era del 9,5%, la maggior parte delle quali nella città di Buenos Aires.
Raramente le donne emigravano sole. Poche volte decidevano. Spesso viaggiavano con il gruppo familiare come spose, figlie, sorelle, madri o erano «chiamate» a posteriori, molte volte attraverso un matrimonio per procura. In questo caso viaggiavano in compagnia di un parente maschio.
La componente femminile ha permesso di rendere permanente la scelta migratoria.
Hotel de los Inmigrantes
I migranti che arrivavano in Argentina venivano accolti in un’apposita struttura che, tra il 1887 e il 1911, veniva chiamata «La Rotonda». Nel 1911 si inaugurò l’«Hotel de los Inmigrantes», un complesso di quattro piani adiacente al molo di sbarco che comprendeva l’hotel propriamente detto, uffici di lavoro, ospedale, cucina, panetteria e una mensa che ospitava fino a 1.000 persone a tuo.
Una volta sbarcati, i nuovi arrivati alloggiavano gratuitamente per cinque giorni presso l’hotel, tempo che poteva estendersi in caso di necessità. Tutti gli stranieri in possesso dei documenti di viaggio e in buona salute erano ammessi. Nessuno era illegale nell’Argentina dell’immigrazione di massa.
LOS CONVENTILLOS
La migrazione italiana si concentrò in parte nelle principali città del paese, in parte diede origine a centinaia di colonie italiane sparse per tutta l’Argentina. Tra le altre, Humberto 1°, Lago di Como, Garibaldi, Toscana, Bella Italia, Piemonte, Firenze, Rey Humberto, Victor Manuel, Rufino. Nella provincia di Córdoba sorsero più di 400 colonie, alcune delle quali mantengono tuttora intatte le tradizioni di origine.
Gli italiani che si installarono nel Chaco crearono la propria industria del cotone. A Mendoza e San Juan sorsero molte aziende vinicole, a Tucumán fiorì l’industria dello zucchero, mentre nel Rio Negro un imponente lavoro di irrigazione rese possibile la creazione di oasi frutticole, come Villa Regina.
Nelle zone rurali, le donne si occupavano della casa, dell’orto e dell’allevamento di galline e conigli. Spesso lavoravano nei campi, a fianco degli uomini.
Gran parte dell’immigrazione italiana che si stabilì a Buenos Aires, si installò a La Boca e diede al quartiere un’impronta culturale molto forte. Oltre al dialetto della regione di provenienza, i migranti parlavano il cocoliche, un miscuglio di spagnolo e italiano.
Gli uomini lavoravano al porto, scaricavano le navi, lavoravano nei cantieri e costruivano abitazioni precarie di lamiera o legno, i «conventillos» in cui ogni famiglia disponeva di una stanza e condivideva la cucina e il bagno.
Regno indiscusso delle donne, il conventillo accoglieva decine di famiglie. Senza luce e senza aria, le abitazioni erano allineate attorno a un patio comune, dove conviveva una moltitudine di lingue e dialetti. Le donne passavano la maggior parte della giornata lavando, cucinando e badando ai bambini.
Il patio e la strada erano gli spazi di socializzazione e scambio, dove le donne svolgevano le attività domestiche o lavorative.
Lo sciopero delle scope
Le donne e i bambini dei quartieri di La Boca e Barracas furono i protagonisti di una delle proteste più famose di inizio del secolo scorso (1907), conosciuta come «la huelga de las escobas», (lo sciopero delle scope).
Gli inquilini del conventillo «Los cuatro diques», nel quartiere Barracas, rifiutarono l’aumento dell’affitto e in pochi giorni altri 500 conventillos si unirono alla protesta. Gli inquilini elaborarono una lunga lista di reclami che consegnarono ai portinai, incaricati di ritirare le quote mensili.
L’assenza degli uomini per lavoro obbligava le donne e i bambini ad affrontare la polizia e le autorità giudiziarie. Ne «las marchas de las escobas», (le marce delle scope), bambine e bambini di tutte le età manifestarono con le scope in mano lungo le strade del sud di Buenos Aires.
La mobilitazione coinvolse a catena molti conventillos, da cui la polizia venne più volte cacciata a colpi di scopa e secchiate d’acqua bollente.
Gli anarchici e i socialisti appoggiarono politicamente e materialmente gli scioperanti, e misero a disposizione i locali per le assemblee.
Gli scontri con le forze dell’ordine divennero sempre più crudi. Il funerale di un ragazzo di 15 anni, Miguel Pepe, colpito a morte dalla polizia, si trasformò in una marcia di 15 mila persone, capeggiata dalle donne.
Verso la metà del 1907 le ribellioni si spensero, benché nei conventillos coinvolti nella protesta le condizioni di vita fossero addirittura peggiorate. Molti degli scioperanti stranieri vennero espulsi dal paese.
VITA QUOTIDIANA
«No sin esfuerzo me adapté a todo. Aprendí a hablar el español con el trato de la gente, y sola, a leer y escribir en este idioma (…). Nos llevó un tiempo acomodaos a la realidad de este nuevo destino, de un país que no era el nuestro, pero que fue el de nuestros hijos». (Non fu senza sforzo che mi sono adattata a tutto. Ho imparato a parlare spagnolo relazionandomi con la gente e, da sola, a leggere e scrivere in questa lingua. Ci volle un po’ di tempo per abituarci alla nuova realtà di un paese che non era il nostro, ma che diventò quello dei nostri figli). (Maria Rizzoti, in Mujeres Inmigrantes. Historias de vida).
Le donne furono le mediatrici tra la cultura di origine e quella di arrivo. Ebbero un ruolo fondamentale nella trasmissione culturale e nel mantenimento dei tratti identitari, in particolar modo nella preservazione delle tradizioni gastronomiche e della medicina popolare. Le ricette dei piatti regionali passarono da madre a figlia, con l’aggiunta di ingredienti locali. Le donne portarono con sé le spezie usate abitualmente nella cucina italiana, come il rosmarino, la salvia, il timo, l’origano.
Per quanto riguarda il lavoro, alla fine del XIX secolo il mercato femminile offriva poche attività in genere poco qualificate, la maggior parte nel servizio domestico. Le donne lavoravano come cameriere, lavandaie, cuoche, stiratrici, camiciaie o ricamatrici.
Il lavoro femminile era spesso invisibile, dato che le attività domestiche non venivano remunerate e quindi non erano considerate veri lavori. In realtà le donne si occupavano di molte cose, tra le quali le faccende domestiche, i pasti, i bambini, la medicina popolare, le conserve, il pane e il sapone.
Con l’industrializzazione, le donne si incorporano nelle fabbriche tessili della capitale – come Alpargatas e Grafa – e in diverse fabbriche di Barracas che producevano fiammiferi, tabacco, candele e sigarette.
Anche l’industria dei vestiti iniziò ad assumere lavoratrici per le diverse fasi della produzione: disegno di modelli, taglio e cucito, stiratura. La maggior parte lavoravano a domicilio, poiché la macchina da cucire era un investimento accessibile alle famiglie operaie. Negli stabilimenti produttivi il salario femminile era inferiore a quello maschile. Nella fabbrica di Alpargatas, ad esempio, per lo stesso orario di lavoro le donne ricevevano da uno a due pesos e gli uomini da tre a quattro pesos.
Impegno sociale
A partire dal 1896, le donne si dedicarono anche all’attività sindacale. I conflitti iniziarono nei primi anni del XX secolo in alcune industrie di sigarette, fiammiferi e tessuti, dove la mano d’opera femminile immigrata era numerosa e superava la mano d’opera locale del 25%.
Nel 1904 le sarte e le disegnatrici di moda furono protagoniste di un famoso sciopero in cui chiedevano miglioramenti di stipendio e migliori condizioni di lavoro. Nel 1919 ci furono importanti scioperi del personale telefonico per orario abusivo e ambiente di lavoro inadeguato.
Le italiane furono attivamente presenti nei movimenti di lotta per i propri diritti. Tra queste, Carolina Muzzilli, socialista e figlia di italiani, partecipò a varie manifestazioni, assemblee e congressi. Diresse il giornale «Tribuna Femenina» e scrisse articoli sui diritti delle donne e contro lo sfruttamento. Formò parte del «Centro Socialista Femenino» fondato nel 1902, il cui fine era far conoscere alle donne i propri diritti e doveri.
La dottoressa Juliana Lanteri, di origini piemontesi, fu la prima donna a ottenere un titolo universitario in Argentina e lottò a favore del suffragio femminile. Nel 1919 si presentò come candidata deputata e realizzò una simulazione di voto alla quale parteciparono circa 4 mila cittadine. Da quel primo tentativo passarono più di 30 anni perché il voto femminile si convertisse in un diritto reale in tutta l’Argentina.
Il presente
Oggi l’Argentina è un paese di emigrazione e immigrazione.
Dalla fine degli anni ’70 del XX secolo, molti argentini nipoti e bisnipoti di italiani hanno deciso di ripetere il cammino che i loro avi avevano fatto un secolo prima, tornando a migrare. La dittatura militare e la crisi economica degli anni ’80 e del 2001 sono state alcune delle cause fondamentali di questo nuovo esodo.
Tutto ricomincia. Le condizioni di viaggio e le comunicazioni sono altre, però il sentimento di sradicamento è lo stesso. Le radici sono lontane e la lingua è solo un suono familiare.
Terminata l’ondata europea del secondo dopoguerra, in Argentina acquista visibilità il flusso migratorio proveniente dai paesi limitrofi, come Paraguay e Bolivia. Minori ma sempre considerevoli gli arrivi da Cile, Uruguay, Brasile e Perù.
I nuovi venuti si concentrano nelle aree urbane vicine ai grandi centri di consumo. Accanto alle migrazioni «tradizionali», si registra negli ultimi decenni la presenza di nuove comunità di immigrati promossa direttamente dal governo di Menem durante gli anni ’90 – come quella russa e ucraina – e, più recentemente, quella degli africani. Molti sono richiedenti asilo che, non essendo riusciti a raggiungere l’Europa, hanno optato per una destinazione meno richiesta.
Benché la migrazione dai paesi limitrofi sia storica, la società la considera un fenomeno nuovo e sembra dimenticare le caratteristiche in comune con gli esodi europei dei secoli XIX e XX: il predominio delle reti personali nei circuiti di distribuzione dei migranti, i modelli di accompagnamento familiare e l’importanza della comunità di origine come referente culturale e affettivo. Tipiche della migrazione più recente, sono invece le rimesse e la circolarità del fenomeno.
I migranti boliviani si organizzano in maniera analoga a quella degli italiani arrivati a Buenos Aires nel secolo XIX. I boliviani in Argentina hanno dato vita a circa 200 associazioni gestite da giovani tra i 30 e i 45 anni, in prevalenza commercianti. Altri immigrati lavorano nell’industria, nell’agricoltura e nella costruzione edilizia.
Oggi però c’è un’inversione nell’ordine tradizionale della migrazione. In passato, i primi a partire erano gli uomini. Attualmente si assiste a una «femminilizzazione» dei flussi migratori: confermate nel ruolo di gestione familiare, le donne scelgono di lavorare in paesi lontani mantenendo il più possibile il legame con la terra d’origine, dove vogliono ritornare per ricongiungersi con i propri affetti.
Il coraggio e la dignità sono i due elementi che caratterizzano le migranti. La nostalgia rimane sullo sfondo di un presente in costruzione. 

Di Paola Cereda

Paola Cereda




La faccia sporca dell’energia pulita

Goias: iniziative della chiesa in un drammatico contesto sociale  

Nello stato di Goias la situazione di povertà della gente è aggravata da un fenomeno recente: aumento della coltivazione della canna da zucchero per la produzione di carburanti biologici. A difendere i diritti della gente c’è sempre la chiesa, gemellata con la diocesi di Modena.

Agli occhi di molti di noi occidentali esiste solo il Brasile delle spiagge soleggiate di Rio de Janeiro con le sue ragazze dai corpi ambrati, o quello del giornioso carnevale di San Salvador di Bahia; ma ovviamente il Brasile non è solo questo. Esiste anche il Brasile di certi stati ai quali, dopo l’introduzione della canna da zucchero, sono stati «completamente cambiati i connotati»: nel nord-est sono sparite quasi per intero le foreste originali, la mata atlantica; negli stati centro-occidentali, come nel Goias per esempio, sta scomparendo il cerrado, la savana brasiliana, al cui interno si trovano oltre 100 mila specie di piante, di cui quasi la metà non sono presenti in nessun altro luogo al mondo; al loro posto distese senza fine di piantagioni di canna da zucchero.
La ragione è semplice: si sta cercando in maniera sempre crescente di implementare l’uso di questa pianta come «fonte di energia sostenibile» per la produzione di biocarburanti.
Già nel 1975, il governo brasiliano aveva lanciato il programma nazionale Proalcol, per incentivare l’uso del combustibile «più pulito al mondo», con lo scopo di muovere il parco macchine nazionale. Proseguendo con questa filosofia, nel 2007 il governo di Lula da Silva ha firmato un accordo commerciale con gli Stati Uniti, in funzione del quale ha deciso di ampliare di cinque volte le superfici dedicate alla coltivazione della canna da zucchero, che in Brasile corrisponde già a un territorio pari all’estensione di Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
L’idea di sostituire la benzina con questo biocarburante sembrerebbe la più felice delle soluzioni. In realtà, come accade nella maggior parte delle situazioni, anche questa medaglia ha il suo rovescio. In primo luogo, la coltivazione estensiva della canna da zucchero sottrae terreni ad altre coltivazioni come il mais, il riso e i fagioli, che sono la base alimentare della fascia della popolazione più povera.
In seconda battuta, nei paesi in via di sviluppo, la richiesta di biocarburanti sottrae la terra ai piccoli coltivatori, per non parlare dell’ attuale speculazione sul prezzo dei generi di prima necessità. La creazione di grandi latifondi distrugge le strutture tradizionali della proprietà e della produzione.
Non mancano nemmeno le conseguenze sull’ambiente. Le monocolture di piante energetiche impoveriscono i terreni; l’impiego di pesticidi e concimi chimici avvelena le falde freatiche; le riserve idriche vengono razionalizzate in favore delle colture destinate all’esportazione.
Ancora più importante l’aspetto «umano» della vicenda. Le dinamiche migratorie risentono delle scelte economiche. Così, da un lato, si assiste a un flusso migratorio dalla campagna alle grandi città, dove i contadini, rimasti senza terra, sperano in un futuro migliore. Al contrario, la richiesta di manodopera per il taglio e la raccolta della canna da zucchero richiama un grande numero di lavoratori stagionali, i cortadores de cana de açucar, che finiscono con l’essere sfruttati e ridotti a vivere in stato di semischiavitù all’ interno delle piantagioni. Basti pensare, per quanto incredibile, che in Brasile il primo sindacato dei cortadores de cana de açucar nacque nel 1955 per difendere i diritti dei morti a venire seppelliti in una bara di legno invece che nella nuda terra… talmente tanta era la rassegnazione a vivere una vita senza diritti e senza speranze che almeno si voleva un posto dove riposare in pace una volta passati a miglior vita.

Lo stato del Goias, sito nella parte centro occidentale del Brasile, concentra tutte le problematiche legate alla produzione intensiva di biocarburanti, in particolare della canna da zucchero. Il Goias, occupa un’area di circa 341.289,5 kmq, ovvero grande poco più dell’ Italia e conta una popolazione di 6 milioni di abitanti.
La sua storia è strettamente legata a quella di San Paolo; è da qui che nel xviii secolo arrivarono le prime spedizioni di coloni portoghesi in cerca d’oro e di manodopera indigena da utilizzare nelle piantagioni. Quando la «febbre dell’oro» si esaurì, l’economia si spostò sull’agricoltura e l’allevamento.
Tuttavia, nonostante l’apparente ricchezza in questo stato vive una moltitudine di persone povere e prive dei diritti fondamentali. Contadini che, privati dai latifondisti della loro fonte di sostentamento, si avventurano nelle grandi città, finendo per alimentare le fatiscenti baraccopoli sorte negli ultimi 30 anni.
Chi, invece, non ne ha voluto sapere di abbandonare la campagna, ha dato vita al fenomeno dei sem terra (senza terra), contadini che si sono organizzati in associazioni per combattere i grandi proprietari terrieri e ottenere dallo stato federale la tanto agognata «riforma agraria». La lotta si è concretizzata nella formazione degli asientamentos, terreni occupati e coltivati, che con gli anni sono diventati una vera e propria sfida ai latifondisti.
Un altro fenomeno di importante rilevanza sociale che interessa lo stato del Goias sono le migrazioni di manodopera stagionale, ovvero i cortadores de cana de açucar, provenienti principalmente dalle regioni ancor più povere del nord-est brasiliano. Si stima che questa migrazione intea al Brasile coinvolga circa 30 mila persone all’anno. Lavoratori sottoposti a condizioni di vita disumane, privi di ogni diritto, che alloggiano in dormitori dove le condizioni igieniche sono carenti, il cibo insufficiente per compensare la grande fatica che questo lavoro comporta e le condizioni sono talmente pesanti da provocare, nei casi limite, la morte per fatica, o se non si arriva a tanto, sono molto comuni gli incidenti dovuti all’uso del machete senza le dovute protezioni agli arti, che la legge brasiliana richiederebbe ma che spesso sono disattese.

In questo difficile e complesso panorama sociale, nel 1975 è nata la «Commissione pastorale della terra» per opera dell’ allora vescovo di Goias Velho, don Thomas Balduino. Egli ha iniziato una serie di attività in difesa e sostegno dei più poveri, dei migranti, dei contadini e delle loro famiglie, che con gli anni si sono concretizzate in numerose attività a favore della comunità, come i centri di avviamento al lavoro per adolescenti, un centro pastorale per i minori, la radio comunitaria «Radio Villaboa», la Casa dell’agricoltura, la Scuola famiglia agricola e infine la Casa do migrante e il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti».
Queste attività sono state messe in opera insieme alla diocesi di Modena, con cui la diocesi di Goias Velho è gemellata, grazie anche all’intensa attività dei numerosi missionari modenesi, che hanno vissuto o vivono tuttora in Brasile, o grazie anche a volontari che semplicemente decidono di passare in questo modo le loro vacanze.
Questo intenso contatto tra le due diocesi ha portato poi anche alla collaborazione con l’associazione Modena Terzo Mondo, che da 13 anni sviluppa progetti di sostegno rivolti ai bambini, ai contadini senza terra e alle comunità locali. Tra questi, il sostentamento della Casa do migrante nella stessa città di Goias Velho.
La casa, nata formalmente nel 1996 in una vecchia abitazione di proprietà della curia, poi ampliata e ristrutturata nel 2000 proprio grazie ai volontari italiani, è ora in grado di accogliere 30 persone, alle quali per una cifra simbolica viene dato vitto e alloggio.
La Casa do migrante ha lo scopo di dare appoggio e assistenza temporanea a coloro che giungono a Goias dalle campagne circostanti per sottoporsi, per esempio, a visite mediche o assistere un familiare nell’ospedale cittadino, ma offre anche assistenza ai migranti provenienti da altri stati brasiliani che vengono per fare la stagione della canna da zucchero e si trovano in serie ristrettezze economiche. 

Non solo assistenza primaria e sostegno alle idee, ma anche promozione della conoscenza dei propri diritti e difesa sindacale. È questo l’obiettivo con cui è nato a Goias Velho il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti», che prende il nome dal suo fondatore:  classe 1934, carpigiano, missionario fidei donum in Brasile dal 1969.
Fin dal suo arrivo nella diocesi di Goias, don Cavazzuti si è distinto per la strenua difesa dei poveri e degli oppressi. Proprio per questo suo impegno, che si scontra con gli interessi dei latifondisti, nel 1972 rischia una prima espulsione dal paese. Nel 1978 diventa parroco di Mossamendes.
Ma è il 27 agosto 1987 che l’impegno e l’opera di don Cavazzuti rischiano di essere messi a tacere: durante una veglia di preghiera, un giovane, armato probabilmente dai latifondisti, spara al sacerdote. La pallottola lo colpisce al volto. Don Cavazzuti si salva, ma la sua vista ne è compromessa.
Nonostante l’attentato perdona il suo attentatore e lo visita in carcere, continuando poi a essere presente e attivo in mezzo ai deboli e indifesi, fino al suo ritorno in Italia nel 2007.
Il centro che porta il suo nome opera per la promozione e la garanzia della persona umana attraverso corsi di formazione, assistenza giuridica e difesa dei diritti violati. Al centro si rivolgono gli abitanti della città e delle zone rurali ma, soprattutto, i cortadores de cana de açucar che vogliono far valere i propri diritti sindacali contro lo strapotere dei latifondisti, i «senza terra», i piccoli agricoltori e gli «assentati», cioè quelle famiglie che, dopo anni di lotta e speranza, hanno finalmente ottenuto dal governo la tanto agognata terra da coltivare.
Il centro funge da «braccio operativo» della Commissione diocesana dei diritti umani, che si esplica sia nell’esecuzione delle azioni, sia nel rafforzamento delle associazioni locali in difesa dei diritti umani nei municipi e nelle parrocchie della diocesi di Goias Velho.

In Goias si sta vivendo un periodo di forti cambiamenti economici e sociali. Come abbiamo già detto, con l’avvento del biodiesel i terreni da pascolo per i bovini, sono trasformati, o stanno per esserlo, in terreni per la coltivazione della canna da zucchero e della soia. Questo fa sì che decine di migliaia di lavoratori giungano in questa regione soprattutto dal Nordest, per poi finire sfruttati, sottopagati e costretti a vivere in misere condizioni. Inoltre, sono ricattati: se protestano vengono lasciati a casa, sostituiti da altri disperati pronti a prendere il loro posto.
Il Centro «don Francesco Cavazzuti», insieme alla Pastorale della terra, la Casa del migrante, alla diocesi di Goias e tutte le associazioni di volontariato che lavorano con il mondo agricolo, sta cercando di fare un’opera di sensibilizzazione presso i sindacati locali e le comunità, affinché accolgano questi lavoratori che provengono da fuori, per umanizzare un po’ di più l’accoglienza.
Purtroppo, però, molti lavoratori hanno ancora paura a incontrare gli attivisti. Temono di perdere il lavoro, anche se qualcuno comincia a dare segni di insofferenza. Si comincia a capire che i lavoratori non sono solo «braccia», ma esseri umani con dei diritti.
In questo contesto le istituzioni locali, che sono ancora legate ai grandi latifondisti, non aiutano e non incentivano queste iniziative; anzi, sono aumentati i casi di minacce ai danni di coloro che si impegnano a sostenere i diritti di questi lavoratori.
Se continua così le prospettive non sono affatto molto rosee. Essendo decine di migliaia, ed essendo lavoratori stagionali, è molto difficile seguie il flusso, dare loro una mano e sostenerli e purtroppo, con l’aumento dei terreni adibiti alla coltivazione del biodiesel, la situazione peggiora di anno in anno.
In definitiva questa è la faccia sporca e nascosta dell’«energia pulita», che è venduta nel nord del mondo come l’energia che doveva risolvere il problema del petrolio, ma che invece sembra creae di nuovi.  

Di Manuela Fiorini

Manuela Fiorini




A caccia di energie

Sciamani ieri e oggi: tra modelli culturali e sperimentazioni scientifiche

Non è semplice definire lo sciamanismo, poiché gli   elementi che lo caratterizzano, il viaggio estatico, la musica e il concetto di malattia, pur nelle specifiche varianti locali, sono difficilmente scindibili tra loro. Anche se l’operato dello sciamano comprende una vasta gamma di pratiche di guarigione, i due elementi maggiormente caratterizzanti restano la capacità di curare l’aspetto spirituale della malattia e il viaggio
nella realtà non ordinaria al fine di ottenere la conoscenza e la guarigione fisica e spirituale.

Nella lingua dei tungusi della Siberia, la parola «shamàn» si riferisce a una persona che è capace di compiere viaggi nella realtà non-ordinaria, in uno stato alterato di coscienza. Anche se il termine è originario di un’area geografica specifica, la pratica dello sciamanismo è esistita, ed esiste ancora oggi, pressoché in tutti i continenti. Nel corso dei secoli, dalle regioni artico-siberiane e dell’Asia centrale si è diffusa, per le migrazioni delle stesse popolazioni paleomongole attraverso lo stretto di Bering, in tutta l’America settentrionale e meridionale, oltre che in molte aree dell’Asia meridionale e orientale, fino in Australia.
D’altro canto, in queste tribù di tipo animista, i problemi della quotidianità e del vivere di ogni individuo ricadono costantemente sull’intera comunità, mettendone a rischio equilibri e armonie intee. Così per scongiurare il pericolo di possibili «entropie» e disequilibri sociali, ogni membro della tribù crede nell’esistenza degli spiriti. Non sorprende, quindi, che in queste culture, ogni individuo, cosciente dei propri limiti umani e di fronte a determinati eventi, chieda aiuto agli stessi spiriti, avvalendosi, esclusivamente dell’esperienza o dell’intermediazione «privilegiata» dello sciamano.
arte dello sciamano: tra cosmologie
 e cosmogonie
La caratteristica comune di ogni processo di cura e di guarigione è il viaggio spirituale. Questo iter si concretizza attraverso il cammino dell’anima nella realtà extrasensoriale, che permette al guaritore di entrare in contatto con le «entità» spirituali. Ritenute per lo più alleate in cui ci si imbatte sotto forma di animali guida o di maestri spirituali – in genere antenati, figure mitologiche o saggi – queste entità conferiscono allo sciamano il potere e la conoscenza per aiutare e guarire se stesso, gli altri e il mondo dalla «malattia». Una missione universale che chiunque sviluppi capacità extrasensoriali può compiere attraverso un viaggio estatico e senza il sussidio di intermediari che si esprimono officiando rituali complessi.
E ciò può essere spiegato analizzando le strutture logiche del pensiero animista. Secondo le cosmologie più frequenti tra queste società, l’uomo vive sulla terra in una zona intermedia, tra un cosmo superiore e uno inferiore, associati a volte con il cielo e il mondo sotterraneo.
Queste tre zone sono collegate tra loro da un axis mundi, o asse verticale dell’universo, da alcuni chiamato «albero della vita». In alto e in basso questo asse passa attraverso aree «vuote» nella volta cosmica che possono condurre nell’universo inferiore o in quello superiore. Solo superando questi «buchi» il guaritore è in grado di passare da un livello di esistenza all’altro e di compiere il cammino contrario.
Tuttavia, questa esperienza muta continuamente in ogni diversa situazione. Non è una regola fissa, ma solo un modo di affrontare le diverse posizioni del cosmo e del proprio esercizio di conoscenza. Si tratta per lo più di sperimentazioni «personali» volte a guarire, ottenere informazioni o altre prestazioni consensuali, che garantiscono credibilità e rispetto in seno alla stessa società.
Tecniche o suggestioni a parte, anche per questa ragione lo sciamanismo non può essere considerato un sistema di dogmi e di verità di fede, ma solo un metodo per ottenere rivelazioni dirette dalle entità spirituali altre. In parte, per questo, lo sciamanesimo è stato osteggiato e combattuto come pericoloso antagonista proprio dalle religioni istituzionalizzate, non solo dalla religione cristiana, ma anche dal buddismo in Asia centrale e dal lamaismo in Siberia.
I nuovi orizzonti dello sciamanismo moderno
Gli sciamani non scelgono generalmente di diventare tali: all’arte della guarigione vi arrivano per vocazione, spinti dalle suggestioni psichiche di un sogno particolarmente forte e vivido, oppure attraverso una visione meditata, o più frequentemente in seguito alla guarigione insperata da una grave malattia. Prima di intraprendere il lungo cammino rituale che lo porterà a operare nella tribù, ogni neofita dovrà sottoporsi a un complesso percorso iniziatico da cui apprendere l’arte di curare, proiettarsi nel trascendente e di predire il futuro.
È proprio da questa fase di iniziazione extrasensoriale, o di liminalità «non comune», che prende avvio l’osservazione e la sperimentazione delle più importanti metodologie applicate dalle scuole sciamaniche modee dell’Occidente. Oggi sempre più persone, specialmente giovani, chiedono di conoscere da vicino questa antica tradizione spirituale per trae insegnamenti e indirizzi di vita. Modelli alternativi alieni rispetto a quelli tradizionali, considerati però più confortanti, meno impegnativi rispetto a quelli occidentali, ormai troppo pericolosamente svuotati di significato. Un agnosticismo forte, da cui si alimenta questo diffuso interesse dilagante che è testimoniato non solo dalla pubblicazione di numerosi libri sull’argomento, ma anche dalla popolarità di seminari, film, musiche e altri eventi che offrono l’opportunità di studiare e lavorare con sciamani provenienti da varie parti del mondo.
Entro questo orizzonte di riscoperta delle esperienze e tradizioni altre, occupa un posto di rilievo il lavoro di ricerca, insegnamento e di formazione condotto, ormai da quasi  40 anni, dall’antropologo americano Michael Haer, già docente all’Università di Berkeley in Califoia e alla New School for Social Research di New York. Dal 1987 è il fondatore del Core Shamanism, la scuola che ha contribuito, più di altre, alla riscoperta di queste antiche pratiche nel mondo occidentale. Inoltre, anche la Foundation for Shamanic Studies (Fss), che Haer dirige a Mill Valley in Califoia, attualmente rappresenta il maggior centro di insegnamento, didattica, ricerca e sperimentazione nel campo dello sciamanismo contemporaneo a livello mondiale.
Da anni la Foundation, è attiva anche e soprattutto nei paesi europei attraverso la Fss-Europa e le sue varie sezioni (Austria, Svizzera, Italia, Francia, ecc.) dotate di un corpo docenti internazionale (Inteational Faculty) che ha dato impulso notevole alla rinascita credibile dello sciamanismo nel mondo contemporaneo.
Uno degli obiettivi principali della Foundation è addestrare gli occidentali nelle tecniche di base e avanzate, sviluppando soprattutto un approccio basato sui principi e i metodi dello sciamanismo tradizionale (estasi, visioni, ritmi musicali, suggestioni, incantesimi etc), ma accessibile alla modea cultura. Un sistema perciò applicabile alla vita quotidiana, che è in grado di diffondere e rendere attuabili le pratiche fondamentali e transculturali di una tradizione antica.
Per quanto attualmente l’interesse nello sciamanismo sia enorme, molti dubitano che i metodi tradizionali possano essere applicati ai problemi della vita modea o che siano in qualche modo praticabili da noi occidentali. Partendo proprio da questi deterrenti scetticismi, il lavoro di Haer si è concentrato in particolare sulla possibilità di applicarli in ambito socio-sanitario, sviluppando soprattutto metodi di approccio complesso ai problemi di vita e di salute dell’uomo contemporaneo.
Oggi infatti, l’insegnamento e l’applicazione di questi principi, come avviene spesso presso molte scuole sperimentali, è in grado di rendere attuabili le pratiche fondamentali della tradizione locale, trasmettendone un sistema di valori neutro slegato da ogni tipo di condizionamento particolare. Alcuni praticanti associati alla Foundation hanno infatti lavorato nelle carceri e con le gang di adolescenti, altri si sono concentrati sui problemi dell’ambiente e sulla crisi ecologica del nostro tempo. Ovunque si sta cercando di recuperare l’antica saggezza ancestrale per proteggere la vita del pianeta e delle comunità umane, riportare equilibrio e armonia là dove ci sono squilibri, conflitti e disarmonie.
Così l’insegnamento richiama ogni anno migliaia di persone, che partecipano a corsi di addestramento e collaudando così un circuito scientifico formativo e informativo di assoluto valore avviato ormai da decenni.
Nel giugno del 2002, infatti, si è tenuto a Santa Fe, nel New Mexico, il primo convegno di medici e altri professionisti della salute, addestrati nel core shamanism, che si sono incontrati per scambiare le proprie esperienze e discutere come meglio integrare i metodi sciamanici nella loro pratica medica. Incontri che si sono succeduti con sempre maggiore consenso negli anni successivi allo scopo di garantire continuità a questo tipo di confronto di esperienze.
Anche per questo il core shamanism ha contribuito ad aprire nuove prospettive mediche anche nel trattamento dei problemi più strettamente psicologici. Ad esempio, la tecnica tradizionale del recupero dell’anima è diventata un complemento frequente della psicoterapia modea degli studi di mezzo mondo, secondo le linee indicate dalla psicologa statunitense Sandra Ingerman nel suo testo pionieristico «Il recupero dell’anima», edito ormai dal 1991.
nuove forme:  Vegetalisti e New Age
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti, la tendenza attuale è di non restringere il lavoro di divulgazione e formazione al trattamento dei soli problemi individuali, fisici o emotivi, ma di estenderlo anche alla sfera della vita collettiva e ai problemi sociali condivisi perciò da una moltitudine di casi specifici. Una preoccupazione che ha sempre caratterizzato l’attività del curandero tradizionale in ogni società locale.
Ma oltre a insegnare e diffondere lo sciamanismo nei paesi occidentali, la Foundation for Shamanic Studies promuove attivamente la collaborazione e l’interscambio proprio con gli sciamani tradizionali, i veri testimonial di un sapere conservato da millenni. In particolare, l’impegno della Fss a favore degli operatori tradizionali si concretizza attraverso due mirati programmi di cooperazione e di sviluppo. Il primo di «Assistenza tribale urgente» è rivolto ad aiutare individui e gruppi (finora soprattutto nativi americani) a rivitalizzare le loro tradizioni medico-empiriche perdute.
Il secondo, attraverso un altro programma chiamato «Tesori viventi dello sciamanismo», viene conferito un vitalizio annuale a due sciamani tradizionali, che si sono particolarmente distinti nel servizio alle loro comunità. Attualmente lo sciamanismo sta suscitando un rinnovato interesse sia nel campo degli studi specialistici sia in quello della cultura generale. In entrambi i casi, parte dell’utenza che si rivolge a questi centri sono troppo spesso i giovani attratti dalla possibilità di vivere quelle esperienze «alternative», che i media strumentalizzano e iconizzano come semplici fenomeni di costume.
Anche per questo l’importanza che assume oggi il fenomeno esotico nel contesto di una nuova religiosità, specialmente nell’area new age, non è legata tanto alla sua particolare struttura religiosa, quanto per il fatto sconvolgente che esso evoca, cioè la possibilità di un «viaggio in un altro mondo» attraverso uno stato alterato di coscienza.
C’è da rilevare, purtroppo, la diversità sostanziale dello sciamanesimo post-moderno dallo spirito autentico di quello storico: i viaggi al di fuori di sé di cui il new age si fa promotore, sono ben diversi per finalità; siamo lontani dal bene della comunità vissuta e sofferta da un curandero locale, mentre le esperienze extrasensoriali ascrivibili alla new age, ottenute spesso con l’ipnosi e sotto l’effetto di droghe, sono fini a se stesse, edonistiche, troppo spesso forme altre da «sballo» da discoteca o ancor peggio di pura tossicodipendenza.
Questa esigenza induce gran parte dei «pazienti» ad avvicinarsi all’esperienza rituale del cosiddetto vegetalismo, quel movimento underground che richiama adepti a recarsi soprattutto nelle aree del Sud del Mondo, ricche di varietà inestimabili di piante psicotrope. Specialmente in Ecuador, Perù e Brasile per provare l’esperienza di molti fitosistemi psicoattivi, tra cui l’ayahuasca, il potentissimo allucinogeno estratto da una liana della selva colombiana amazzonica.
Di contro, alcuni gruppi organizzati francesi hanno invece studiato in Africa programmi speciali di riabilitazione dalle stesse narcodipendenze. Come nel caso del processo di iniziazione sciamanica al culto dell’iboga, pianta dalle «prestazioni miracolose», che annullerebbe la dipendenza fisica e le inclinazioni psicotiche all’uso quotidiano delle droghe, attraverso la partecipazione al pericoloso rituale Bwiti ancora in uso tra le etnie babongo e mitsogo del Gabon.
Secondo alcuni dispacci medico-scientifici redatti dal Dipartimento della sanità di Washington, la radice dell’iboga verrebbe impiegata illegalmente, pur con dosaggi limitatissimi, presso alcune strutture ospedaliere degli Stati Uniti per il trattamento coatto delle tossicodipendenze, dietro cauzione di somme di denaro davvero elevatissime. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di una metodologia empirica che resta ancora ufficialmente sommersa o celata dai sistemi di cura scientifici istituzionali. Ma il pericolo è di altro tipo.
sciamanismo urbano
D’altro canto, ovunque stanno nascendo nuovi specialisti: neoguaritori di origine indigena e meticcia che si globalizzano e neosciamani bianchi che si dedicano alle arti native. Esiste di fatto tutta una gamma di offerte, studiate sulle esigenze dei turisti e differenziate in base al contesto regionale nel quale si attuano. Consistono in vari giorni di isolamento, digiuno e consumo continuo di psicoattivi. Ci sono anche stranieri che viaggiano per curare i loro problemi di salute, artisti che desiderano sviluppare la loro creatività e ricercatori interessati allo sciamanesimo.
E anche se potrebbe risultare equivoco ridurre tutte queste attività attorno alle piante visionarie a una sola modalità; tra loro però una di queste si distingue: proprio lo sciamanesimo urbano. Si tratta di un ramo del movimento New Age che faceva una rilettura specifica delle tradizioni sciamaniche in tutto il mondo, elaborando una specie di sciamanesimo universale, che auspica un’era di pace e di fratellanza, dove non ci sarà più bisogno né di leggi, né di dogmi, né di stati, né di chiese. Il genere umano ritroverà la via della «grazia», cioè dell’accordo con l’armonia cosmica e, con esso, la natura, la salute, la felicità.
Questa rivisitazione del tutto tipica della cultura latinoamericana, si fonda sull’interpretazione libera che proprio gli individui più eminenti, i leaders, fanno parte di una modea antropologia esoterica che riconosce e riconduce la propria esistenza e creazione all’universo primordiale indigeno.
Il neosciamanesimo è perciò controverso, diviene quasi un surrogato teologico. È stato criticato proprio per aver tentato di creare una religione amerindia unica, omogenea, astratta e idealizzata, che non si riferisce alle comunità e alle etnie e che, soprattutto, non entra in contatto con gli aspetti oscuri e conflittuali presenti nello sciamanesimo stesso: la morte, la guerra, la violenza e l’assenza di una distinzione nitida tra il bene e il male.
Il fatto è che questo annunciato paradiso in terra si nutre di argomenti e simboli sincretici, al limite del bricolage dilettantesco. Si va dal buddismo all’antico Egitto, dal misticismo cristiano allo zen, dallo sciamanesimo allo chassidismo ebraico e poi macrobiotica e ufologia, salutismo e cultura pellerossa, futurismo tecnologico ed ecologia. Insomma, tanta confusione così congeniale a una post-modeità che riesce a conciliare una critica apparentemente radicale alla società dei consumi con il business.
D’altro canto si può argomentare che tale pratica è anche solo un modo per giustificare come mettere il cosiddetto vegetalismo in contatto con le tradizioni autoctone millenarie, stimolando un’altra sensibilità, altri modi di vita e visioni del mondo del tutto particolari. Ma di fatto si tratta di modelli che lasciano certamente aperto un dibattito sull’etica di una tecnica empirica, non certo di una religione, che spesso non si pone il limite di sconfinare in campi troppo dissimili tra loro, mettendo in dubbio i dogmi e le competenze di fede su cui si fonda ancora il diritto ecumenico di rispettare la religione istituzionale. 

Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




Salvare, Chi?

Eticamente: persona, economia, finanza

Buenos Aires, 28 dicembre 2008. – Anche in America Latina, i giornali e i canali televisivi non fanno altro che parlare della crisi economica che ha investito il mondo. Quasi tutti e quasi sempre, parlano di essa come fosse un evento naturale, privo di veri responsabili. Sappiamo, invece, che l’economia è una scienza (o, come più plausibile, una non-scienza, cfr. MC dicembre 2008) inventata dall’uomo, che dunque ne è artefice, nel bene e soprattutto nel male.
In Argentina, nessuno ha dimenticato la devastante crisi che colpì il paese a cavallo del 2001. Fu, quella, una crisi prodotta da scelte economiche assurde (in primis, quelle imposte dal Fondo monetario internazionale), che si ripercossero pesantemente su milioni di argentini. In questi ultimi anni, il paese si è rimesso in piedi, crescendo a ritmi cinesi. Ma le cifre economiche nascondono realtà ben diverse. A Buenos Aires, città di stampo e filosofia europea, per le vie del centro ogni sera tornano i «cartoneros», uomini, donne e bambini che vivono cercando nei sacchi delle immondizie quanto è vendibile, recuperabile o semplicemente mangiabile. Mentre nel Nord (Tucuman, Oran, Salta, ecc.) la povertà rimane a livelli intollerabili, per un paese che è un grande esportatore di prodotti agroalimentari (dalla carne alla soia).
Insomma, oggi tutti parlano di crisi economica, ma moltissimi argentini dalla crisi non sono mai usciti ed ora altrettanti potrebbero tornarci. Davanti a ciò, non è fuorviante parlare soltanto di mutui subprime, di futures, di derivati o di auto che non si vendono più?
Abbiamo chiesto a Sabina Siniscalchi – anni di militanza in «Mani Tese»,  deputata nella precedente legislatura, oggi responsabile della Fondazione culturale di «Banca Etica» – di tenere una rubrica in cui si cercherà di spiegare come l’economia e la finanza possano, volendo, essere compatibili con la persona. Cercando l’etica in un campo dove, almeno fino ad oggi, è stato piuttosto raro incontrarla.

Paolo Moiola

Mentre i governi dei paesi ricchi stanziano fondi per salvare le proprie banche, e i cittadini/investitori temono di perdere i loro privilegi, nei paesi poveri c’è chi vive la crisi da decenni. Ma altri «nuovi poveri» si aggiungono alla massa.

Settecento miliardi di euro dall’Unione europea, oltre mille miliardi di dollari dal governo degli Stati Uniti, trenta miliardi dal governo italiano. In pochi giorni sono state reperite risorse gigantesche per far fronte alla crisi finanziaria, per salvare le banche e arginare il panico degli investitori.
Ma sempre più cittadini si sentono minacciati dalla congiuntura che sta sconquassando il sistema economico mondiale.
Hanno paura di essere privati di quei beni su cui si fonda, secondo le Nazioni Unite, la vera sicurezza umana: il lavoro, la casa, la salute, la pensione.
La loro paura cresce nella misura in cui percepiscono che lo stato non interverrà a soccorrerli, le ingenti risorse per i piani di salvataggio esigono, infatti, tagli ad altri capitoli del bilancio pubblico: la sanità, la scuola, la previdenza, la cooperazione internazionale.
La paura accomuna chi è già povero e chi rischia di diventarlo, chi vive nelle periferie dell’emisfero Sud e chi abita nelle metropoli del Nord.
Per molti la «povertà da crisi» è già realtà quotidiana: la Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ndr) calcola che il numero degli affamati crescerà di 40 milioni nel corso del 2009, la Banca mondiale dichiara che sono 100 milioni i «nuovi» poveri. Cento milioni che si aggiungono al miliardo e 200 milioni già censiti.
Nell’Assemblea per valutare i progressi compiuti verso gli otto «obiettivi del millennio», che si è svolta al palazzo di vetro nel settembre 2008, il segretario generale dell’Onu ha chiesto 30 miliardi di dollari per raggiungere il primo goal che punta al dimezzamento, entro il 2015, delle persone che vivono in povertà, ma queste risorse non si sono trovate. Sono stati racimolati 16 miliardi di dollari, una somma insufficiente per aiutare i paesi che sono ancora lontani dal traguardo e che anzi regrediranno proprio a causa della crisi.
Si è capito che le risorse per combattere la povertà si ridurranno ancora di più, perché per molti mesi, forse anni, la priorità verrà data al salvataggio delle economie ricche.

Anche la recente conferenza di Doha su «Finanza per lo sviluppo» si è conclusa con un ben magro risultato:  ha ribadito, con scarsa convinzione, alcuni degli impegni presi a Monterrey nel 2002 nel campo dell’aiuto allo sviluppo, degli investimenti e del reperimento di risorse locali, ma non ha avuto il coraggio di affrontare i veri nodi di una finanza di rapina: fuga di capitali, paradisi fiscali, corruzione, mancanza di trasparenza e tracciabilità.
Eppure sono queste le vere cause dell’impoverimento dei popoli del Sud: ogni anno 500 miliardi di dollari scappano dai paesi in via di sviluppo verso i paradisi fiscali o le grandi banche del Nord: 10 volte quanto viene destinato alla cooperazione allo sviluppo.
La conferenza non ha preso decisioni di rilievo, le cose davvero importanti sono state rimandate al G8 o al G20,  luoghi dove i poveri non hanno rappresentanza e dove si vuole solo rattoppare un sistema che ha mostrato tutti i suoi errori e le sue malefatte.
La globalizzazione governata da pochi paesi e dominata da pochi gruppi economici ha prodotto una crescita che il «Rapporto sullo sviluppo umano» dell’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndr) definisce crudele: una crescita senza occupazione, senza pari opportunità, che indebolisce i diritti umani e distrugge la natura.
Una classe politica miope, in particolare nel nostro paese,  sembra incapace di vedere vie d’uscita che non siano la ripetizione degli stessi errori degli ultimi venti anni.
Eppure la crisi potrebbe rappresentare una straordinaria opportunità se aprisse le porte a un nuovo modello di sviluppo.
Un modello le cui caratteristiche sono già delineate negli studi e nelle pratiche delle organizzazioni dei cittadini che si sono attivate per rispondere ai problemi che la globalizzazione ha loro creato.
Un modello che le Nazioni Unite hanno chiamato il Green new deal.
Rilanciare lo sviluppo a partire dall’ambiente, incentivare l’uso delle energie rinnovabili, favorire la green occupation, premiare le imprese socialmente ed ambientalmente responsabili, ridurre gli sprechi in tutta la catena della produzione, distribuzione e consumo.
Potenziare il capitale umano e sociale, investendo in istruzione e salute: i veri motori di sviluppo.

Rimettere l’occupazione dignitosa (il decent work secondo la definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro) al centro delle attività produttive, penalizzare le ristrutturazioni aziendali che comportano licenziamenti di massa.
Attuare tutti gli interventi fiscali, economici e finanziari che portano alla ridistribuzione delle risorse. Non è vero che bisogna puntare sulla crescita, che poi «sgocciola» fino ai poveri, come sostengono i liberisti: studi della New economic foundation dimostrano che per 100 dollari di crescita solo 60 centesimi arrivano ai poveri.
Intervenire con decisione sugli aspetti più rischiosi dei mercati finanziari: dai paradisi fiscali alle speculazioni sulle valute, dagli edge funds al segreto bancario.
Mettere fine all’economia di guerra. Gli investimenti nel settore degli armamenti e le spese per la difesa sono aumentati paurosamente a partire dalla guerra in Afghanistan: tutti gli impegni per lo sviluppo, tutti i processi di pace vengono annientati dal commercio mondiale delle armi sempre più fiorente.
Ridare riconoscimento e vigore alle sedi multilaterali di negoziato, secondo il principio della più ampia rappresentatività.
Eleggere a modello economico, ma anche culturale, i comportamenti virtuosi dell’economia civile e della finanza etica, basati sull’idea di mutualità, condivisione e giustizia sociale.
Un’agenda di cambiamento reale, che non ci rimanda al tempo dell’utopia, ma alle scelte possibili di oggi. 

Di Sabina Siniscalchi
Fondazione culturale di Banca Etica

Sabina Siniscalchi




Il cibo tra fede e salute

Aspetti culturali e religiosi degli alimenti

Dalla Bibbia ai Veda orientali, dal Corano ai precetti buddisti, da sempre la preparazione del cibo, il suo significato, i suoi rituali sono l’espressione di un’unica e intima tensione dell’animo umano a tessere relazioni con gli altri. E con l’Altro.

«F in dall’antichità gli uomini ringraziavano le divinità con sacrifici e attraverso offerte di cibo. Fin dalle epoche più remote la condivisione del pasto era cifra della volontà di mettersi in relazione con l’Altro, con il Divino, ma anche con l’uomo suo simile: era un convivio d’amicizia ed unità variamente intesa». Si apre così l’interessante libro di Paola Bizzarri e Davide Pelanda, «La fede nel piatto», edizioni Paoline.
Il testo è diviso in due capitoli principali: il primo rappresenta un viaggio attraverso le prescrizioni religiose delle principali religioni di Occidente e Oriente (ebraismo, cristianesimo, islam, hinduismo, buddismo e jainismo), e le usanze gastronomiche nate da ciascuna tradizione. Il secondo esplora, sia dal punto di vista politico-economico, sia storico sia, ancora, prettamente alimentare, i «saperi e sapori» del «cibo povero» e «dei poveri».
Entrambi ci mettono in relazione con mondi e culture diverse, passate e presenti.
Il cibo: tra divieti
e concessioni divine
«Il Signore disse a Mosè e a Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare tra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d’ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi».
L’elenco di divieti e di concessioni alimentari, contenuto sia nel Levitico (cap. 11) sia nel Deuteronomio (cap. 14), è lunghissimo e dettagliato, così come sono numerose le sure e i versetti del Corano in cui si definisce ciò che è halal (lecito) o ciò che haram (proibito). «Vi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quelli di Allah, l’animale soffocato, quello ucciso a bastonate, quello morto per una caduta, incornato o quello che sia stato sbranato da una belva feroce, a meno che non l’abbiate sgozzato (prima della morte) e quello che sia stato immolato su altari (idolatrici)…» (sura V,3).
Prescrizioni kasher e halal affondano le radici in retaggi sociali, religiosi e culturali semitici comuni a ebraismo e islam: il libro di Pelanda e Bizzarri ha il merito di permettere al lettore di addentrarsi in entrambe le tradizioni e di ritrovarvi le profonde affinità e continuità che i sanguinosi conflitti politici mediorientali degli ultimi sessant’anni hanno sepolto.
Cibo e salute
Tuttavia, il rispetto di certe norme alimentari non ha a che fare solo con la fede, ma anche con certo salutismo e rispetto per l’ambiente. Lo spiegano bene l’ebrea Manuela Sadun e il musulmano Elvio Isa Arancio.
«Il nutrimento è “adatto” perché lo scegliamo, perché ci amiamo, perché amiamo la nostra vita. (…) La salute, intesa nel senso più ampio possibile, implica il giusto rapporto con il cibo» racconta la Sadun a pag. 18 del libro.
«Mangiare è un mezzo, non un fine – ci spiega Arancio, sufi e ambientalista -, cerco di avere un atteggiamento etico: la mia scelta va verso il cibo sano, naturale e, per quanto possibile, non industriale. Prediligo frutta, verdura e legumi e ho drasticamente ridotto il consumo di carne, poiché sono consapevole che è una delle cause dell’attuale inquinamento del nostro pianeta. La lecità degli alimenti non è solo legata al rituale, ma anche a questioni sanitarie e etiche. Se mangiare carne tutti i giorni contribuisce alla deforestazione della terra, allora è qualcosa di illecito. C’è una cosa che, come musulmano, mi mette a disagio: il proliferare delle macellerie islamiche, dove si vende carne in grandi quantità. Che bisogno c’è di mangiarne così tanta? Anche questa sarà una forma di consumismo? Un modo errato di ostentare benessere?».
Religioni e alimentazione
dell’Estremo Oriente
Anche il buddismo, come è risaputo, è molto attento al cibo: «Mangiare carne spegne il seme della grande compassione» recita il Mahaparinirvana Sutra.
Scrive Davide Pelanda a pag. 41: «L’insegnamento del Buddha punta all’estinzione della sofferenza di tutti gli esseri senzienti: desidera la liberazione degli animali anche dalla violenza umana. (…) La compassione (karuna) sfocia spontaneamente in un atteggiamento di amore universale (metta, letteralmente “amicizia”).
Questo amore è regolato da dei precetti, dei codici di comportamento cui dovrebbero rifarsi tutti i credenti buddisti. I precetti vengono recitati sotto forma di preghiera, come: “Osservo il precetto di non uccidere nessun essere vivente”, oppure “osservo il precetto di non mangiare cibi fuori stagione”. A questi si aggiunge il precetto secondo cui non si deve mai essere causa di dolore per alcun essere vivente».
Il cibo dei poveri
La seconda parte del libro presenta un’altrettanto interessante riflessione sull’alimentazione «povera» del passato e del presente, sul dumping internazionale – merci, cibi, venduti al di sotto del prezzo di mercato, e causa di miseria per milioni di persone – e sulle mense dei poveri di tutto il mondo. Mense dove semi, tuberi e radici, legumi, frutta e verdura sono i principali, e spesso gli unici, ingredienti concessi a una sempre più vasta moltitudine di esseri umani. 

Di Angela Lano

Angela Lano




MISSIONE DIRITTI

Parlando ancora di diritti umani

Sulla scia di «Diritti e Rovesci», monografia sui diritti umani pubblicata
dalla nostra rivista lo scorso ottobre, due interviste per tener vivo l’argomento e illustrare due modi in cui i missionari della Consolata mettono questo tema nell’agenda delle loro attività di animazione e formazione.

Oggi:  lezione di diritti umani

Conversazione con Luca Lorusso, cornordinatore del «settore scuola» del Centro di Animazione missionaria di Torino.

Luca, facci un esempio del tuo lavoro di animazione e formazione ai diritti umani nelle scuole.
È da alcuni anni che propongo nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado (le vecchie scuole medie inferiori e superiori) un percorso formativo dal titolo «I diritti dei minori», incentrato sulla «Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza» (1989). Insieme agli insegnanti, propongo ai ragazzi la lettura e l’elaborazione personale e di gruppo del testo del documento, offro un approfondimento su alcune violazioni di diritti e le loro cause e stimolo l’auto riflessione della classe su tale argomento. Ecco questo è un piccolo esempio di ciò che faccio.

Come è nato questo tuo interesse? Perché lo fai?
Sono un laico missionario della Consolata e mi occupo a tempo pieno di animazione missionaria. Benché già sporadicamente presenti nelle scuole attraverso testimonianze missionarie e incontri su popoli o paesi del cosiddetto Sud del Mondo, da qualche anno alcuni laici, tra cui il sottoscritto, hanno ricevuto il compito di pensare, progettare e attuare interventi di educazione alla mondialità didatticamente qualificati e metodologicamente innovativi che sfruttino le testimonianze di chi vive direttamente l’incontro con altre culture e i contributi dell’«esperto» in materia. Tutto ciò al fine di poter permettere un accesso ancora più ampio della missionarietà alle scuole.

Più concretamente, a chi ti rivolgi?
Da ormai quattro anni incontro bambini, ragazzi, adolescenti di ogni zona di Torino e della provincia, dalle zone «bene» a quelle più periferiche, dalla prima cintura cittadina, ai piccoli comuni della provincia, di ogni estrazione sociale e provenienza geografica.
I percorsi di educazione alla mondialità sviluppati in questi anni ci hanno permesso di approfondire molti degli aspetti sociali, culturali, ambientali che caratterizzano il mondo globalizzato in cui viviamo.
Avendo presente questo contesto proponiamo nuovi stili di vita ai bambini delle elementari attraverso fiabe e giochi che aiutano a entrare nelle storie dei prodotti di consumo. Per esempio, riflettiamo coi ragazzi sulla difficoltà di stabilire a priori se sia migliore la qualità di vita di un ragazzo italiano o di un ragazzo africano attraverso il confronto tra le loro due giornate tipo. Oppure, offriamo loro strumenti ed elementi critici per comprendere i meccanismi della comunicazione massmediatica e dei condizionamenti che ne derivano; approfondiamo con i ragazzi le cause storiche e attuali dell’impoverimento di gran parte della popolazione mondiale o della diffusione di epidemie.
Infine, condividiamo conoscenze e analisi sull’impatto ambientale del nostro stile di vita e sulle alternative possibili. Tutto per creare coscienza, allargare gli orizzonti, vivere in maniera libera e consapevole la nostra vita di tutti i giorni. Sono spazi importanti di comunicazione, condivisione e crescita nell’alterità, per molti ragazzi possibili soltanto in ambiente scolastico. Spero che chi sta pensando alla riforma della nostra scuola ne tenga conto.

E come parli dei diritti umani?
Direttamente o indirettamente, questo tema risulta presente in modo costante in tutti gli interventi: in qualsiasi incontro io faccia nelle scuole inevitabilmente arrivo a riflettere con i ragazzi sull’essere umano e sui diritti che, in ogni parte del mondo, vengono negati attraverso i vari tipi di violenza strutturale, economica, interpersonale, comunicativa.
I miei interventi cercano di far emergere quanto i ragazzi già sanno e l’esperienza che possono aver personalmente maturato di un determinato diritto.
Per educare ai diritti umani, quindi, non credo sia sempre necessario parlarne esplicitamente. L’umanità è lo sfondo, la passione e l’amore per essa, la voglia e la gioia di conoscerla in tutte le sue espressioni, l’impegno per sentirsene parte e per prendersene cura sono gli obiettivi a lungo e lunghissimo termine del mio lavoro nelle scuole.

E i giovani come rispondono alle tue provocazioni? Vedi il maturare di frutti nel tuo lavoro?
Come sempre accade in campo educativo, è molto difficile, se non impossibile, valutare a breve termine il raggiungimento di un obiettivo. Tanto più se la possibilità di relazione con i ragazzi si riduce a 6 o 8 ore distribuite su tre o quattro settimane.
Certamente però ci sono vari «segni» che aiutano a comprendere se un intervento abbia o meno qualche possibilità di lasciare un’impronta significativa nell’immaginario dei ragazzi oppure no. Innanzitutto, è di fondamentale importanza il coinvolgimento dell’insegnante e, possibilmente, la sua condivisione delle idee proposte nel percorso.
Occorre quindi la sua partecipazione attiva durante gli incontri, ma anche l’approfondimento che può offrire durante le ore di lezione della sua materia, in modo da aiutare la classe ad avere un approccio interdisciplinare a quanto riflettuto e a far sedimentare gli imput ricevuti durante il mio intervento in classe.
Altri segni sono, ovviamente, l’empatia e la partecipazione degli studenti stessi, oltre alla qualità dei dibattiti, delle riflessioni, la passione con cui a volte nascono confronti tra di loro e con me.
Spesso mi trovo stupefatto nel constatare quanto gli studenti siano sensibili e permeabili ai temi sociali, spesso mi trovo confermato nel pensiero che, nonostante la mancanza di informazione adeguata, o addirittura la presenza di informazione parziale, distorta, stereotipa e ideologica, i ragazzi desiderano profondamente un mondo migliore, non solo per se stessi, ma per tutti. Desiderano vivere una vita più umana, più sobria di quella proposta dai modelli dominanti, desiderano autenticità in un mondo che non fa altro che proporre amori, felicità, promesse, soddisfazioni inautentiche.
Se nei ragazzi non ci fossero questi semi di amore per la vita e per il mondo, anche quando sconosciuti a loro stessi, il mio lavoro di animazione missionaria nelle scuole sarebbe vano. Proprio perché questi semi ci sono il mio lavoro si incardina con qualche speranza nel più ampio lavoro che la chiesa e la società devono fare con i più giovani: educare, cioè tirare fuori l’umanità grande che si dibatte dentro di loro e aiutarli a darle forma.
A parte qualche caso isolato ho sempre avuto la fortuna di trovarmi di fronte bambini, ragazzi, giovani, insegnanti pieni di umanità e pieni di voglia di imparare qualche trucchetto nuovo per approfondirla, al contrario di ciò che i mass media vogliono farci credere sulla scuola e sulle giovani generazioni, e per fortuna ho sempre trovato persone che non avevano bisogno di un maestro che, in quanto «esperto», arrivasse a dispensare sapienza e buone maniere da acquisire a scatola chiusa e seduta stante, ma di una persona semplicemente capace di mettersi in ascolto e di proporre condivisione.

C’è un argomento fra quelli che presenti che va per la maggiore?
Uno dei temi che certamente suscita maggiore partecipazione e passione è il tema degli immigrati, soprattutto nei periodi in cui l’informazione nazionale spinge molto sui tasti dell’emergenza e della sicurezza. In questi casi, i condizionamenti della comunicazione di massa diventano particolarmente evidenti e le polarizzazioni rischiano spesso di assumere i connotati dei dibattiti televisivi in cui parlare non significa necessariamente essere ascoltato e ascoltare. Questo permette di stimolare dinamiche utili ad educare i ragazzi alla gestione di una discussione sempre, aperta alla modifica delle proprie opinioni, piuttosto che alla chiusa contrapposizione.
Ad ogni buon conto, il grande tema dei  diritti umani trova sempre terreno fertile, un terreno in continua mutazione, un terreno «liquido» che richiede sempre nuovi metodi di semina, ma pur sempre terreno adatto a far crescere piante (forse diverse da quelle che ci aspettavamo) che poi daranno frutti (forse diversi, forse migliori di quelli che avremmo voluto gustare).

Ci vogliono visione e metodo

Conversazione con padre Giovanni Scudiero, membro del direttivo internazionale di Pax Christi, e cornordinatore della Commissione Giustizia e Pace della Regione italiana dei missionari della Consolata.

Diritti umani violati, diritti umani promossi. Da sempre te ne sei occupato nel corso della tua esperienza missionaria, spiccatamente orientata alla promozione della giustizia e della pace. Dove nasce l’interesse alla pace nel vostro istituto, oltre che dal vangelo, ovviamente?
Secondo le sensibilità proprie di ciascuno, si possono dare mille risposte a questa domanda, dalla più spiritualista a quella più marcatamente orientata allo sviluppo. Credo, però, che anche su questo tema meriti in qualche modo rifarsi al nostro fondatore e all’eredità spirituale che ci ha lasciato.
Mi riferisco in modo particolare a una visione iniziale e quindi a un senso della missione che nel beato Allamano porta a universalizzare il senso di frateità, ad allargae i confini, non limitandolo esclusivamente alla città di Torino dove ha esercitato praticamente tutto il suo ministero sacerdotale, ma esportandolo all’Africa, al mondo.
C’è in questo sguardo ampio una premessa fondamentale per un discorso sui diritti umani: di uguaglianza, di comunione, di solidarietà, di frateità universale. E questo discorso si radica nel suo essere cristiano, un cristiano impegnato in modo specifico, ministeriale, nel servizio agli altri, a tutti gli altri, e quindi aperto alla missione. La sua espressione di solidarietà universale è, secondo me, una versione ante-tempus di quello che diventerà poi nel nostro istituto il discorso sui diritti umani. Abbiamo tutti diritto alla vita e fondamentalmente questo diritto nasce dal nostro essere uguali, di pari dignità; tutto ciò a prescindere da ogni differenza di tipo etnico, geografico o culturale.
Il diritto alla pari dignità è un concetto che diventa totalmente insignificante se rimane un concetto astratto e non è vissuto nella reciprocità… senza trasformarsi in una maniera concreta di relazionarsi. Direi che nell’Allamano è importante questa visione iniziale, ma ancor più significativo è il metodo che ne deriva.

A cosa fai riferimento quando parli di metodo?
Il fondatore risponde da cristiano a questa esigenza di solidarietà: si organizza e soprattutto si cerca un collaboratore, nella persona del canonico Camisassa, che sembra avere doti straordinarie in certi aspetti più pratici, su un piano più umano e di sviluppo. L’Allamano non si va a scegliere un filosofo, un teologo, o un padre spirituale: va a cercare quello che lui sa in qualche modo di non essere, o di non essere a sufficienza.
Si completa, scegliendosi una persona capace di interagire con la realtà concreta, dedicando tempo e cura al dettaglio dell’opera che l’Allamano aveva in testa. Questo sodalizio è stato in grado di compiere un’operazione fondamentale: leggere la realtà, i fatti, intuire e poi capire che tipo di struttura organizzativa fosse necessaria per svolgere l’azione pastorale ed evangelizzatrice, tanto in Italia quanto in missione.

Questo metodo consisterebbe dunque soltanto nella scelta, diciamo così, del «personale»?
Certamente no. Il fatto che lui si scelga questo tipo di collaboratore, riconduce secondo me a un’idea centrale nell’Allamano, che  ancor prima di inviare gente in missione aveva ben chiara in mente: l’importanza di formare la persona prima di fare e formare il cristiano.
Ci sono tanti aspetti della vita del fondatore, tante scelte da lui fatte, che sottolineano questa sensibilità che lui ebbe. Pensiamo, per esempio, alI’affetto speciale che ebbe per i fratelli coadiutori, quei religiosi che dedicano la loro vita in modo particolare al lavoro e quindi all’edificazione dell’ambiente. O ricordiamo anche soltanto l’enfasi che pose sul lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, come criterio formativo per i suoi missionari e le sue missionarie. Il «prima uomini e poi cristiani» non è assolutamente un concetto periferale nel fondatore.
Fondamentale, ripeto, è la sua capacità di leggere la realtà, tanto qui in Italia come in Africa, in modo da orientare le proprie risposte verso obbiettivi mirati.
È interessante notare come, mediante i corsi del convitto ecclesiastico, forma i giovani preti diocesani attraverso, anche, l’organizzazione di corsi di morale, sociologia, politica, per prepararli a rispondere alle esigenze più svariate in modo coerente ai bisogni espressi dal territorio. Per non parlare dell’attenzione data al mondo della comunicazione, dei media diremmo oggi.
Questo stile lo applica a maggior ragione per i suoi missionari, che dovranno guardare la realtà con delle prospettive più ampie.
Con loro instaura un rapporto formativo basato sul dialogo. Non soltanto si sente maestro nei confronti dei missionari che invia, ma egli stesso vuole imparare, vedere, conoscere. Vuole capire come una visione possa diventare realtà attraverso delle scelte concrete. Sa di non aver sempre la risposta pronta di fronte a una determinata esigenza o a una certa sfida e la consapevolezza della giustezza o meno di un criterio da applicare gli viene  proprio dalla comunicazione costante con i missionari che lavorano sul campo, attraverso i loro diari e la loro corrispondenza: lettere dove lui viene a riflettere, pregare, disceere le scelte che verranno fatte, dando a una visione di missione una storia concreta.
Voleva sapere tutto di tutti, si informava sull’andamento degli incontri, sulla situazione delle persone, voleva conoscere i nomi. Questo radicarsi profondamente nella storia locale, nella fattualità e nelle problematiche della gente dà vita a un annuncio incarnato in un contesto storico, rispondente in primis alla situazione di vita della gente.

Una missione, quindi, improntata tantissimo sull’ascolto dell’altro…
Sì. Del resto tantissimi testimoni ricordano la capacità di ascolto del nostro fondatore. Questa dell’ascoltare era una prassi che lui esercitava e che  pretendeva nel limite del possibile che fosse praticata anche dai suoi missionari. Purtroppo, noi missionari non siamo così capaci di coltivare sempre questa mentalità di ascolto. Non sempre riusciamo a inserirci in un contesto storico concreto con gli «occhi vergini», ovvero senza pregiudizi, con la pazienza di inserirsi, ascoltare chi ne sa più di noi: gli anziani del posto, il confratello più esperto, ecc.
Anzi, penso che questa nostra poca attenzione dedicata all’ascolto è quello che ci sta bloccando soprattutto nel nostro ad gentes oggi in Italia, nel nostro fare missione qui, da dove siamo partiti. Chi sono le persone in Italia che noi siamo pronti ad ascoltare? 
Oggi poi, sentiamo l’esigenza di «aguzzare l’orecchio» e dare al nostro ascolto una dimensione più ampia, che ci permetta di andare oltre la metodologia usata finora: quella della lettura concreta di una realtà al fine di rispondere a bisogni concreti e localizzati. Con il tempo siamo arrivati a capire i profondi legami che legano il locale con il globale, a cercare le radici di un problema che sembra riguardare una singola comunità in un contesto ben più ampio.
Di fronte a un problema di mancanza di risorse in un determinato posto è giusto intervenire offrendo una mano tesa e un aiuto immediato pratico. Ma è anche fondamentale farsi, e fare anche in giro, qualche domanda sul perché di un servizio e o di un bene negati a una comunità che ne avrebbe diritto.
E questo lo si fa?
Non sempre. Del resto, ciò che più o meno da tutti si tende a fare è dare risposte semplici e immediate ai problemi concui dobbiamo quotidianamente confrontarci nella vita di missione. Manca l’ospedale, facciamo l’ospedale… Sono risposte semplici anche se, non nego, richiedono risorse e fatica. Sono semplici nella loro analisi e nella loro conclusione.
Nella nostra storia missionaria non sempre abbiamo sottolineato l’importanza di una riflessione e un’analisi che penetrassero più in profondità, toccando non soltanto gli effetti di un problema, ma sfidandone le cause. Molte volte, la fretta e l’urgenza di risolvere un bisogno pratico (o quello che  noi percepivamo come tale) ci ha distolto dal dovere di andare alla radice del nostro agire, alla ricerca delle vere cause, magari per il timore di imbarcarsi in percorsi verso i quali non ci sentivamo sufficientemente attrezzati e preparati. 
Oggi, invece, ci rendiamo conto che quelle risposte superficiali, isolate da un contesto culturale o non rispondenti alla sfida sociale che mette in pericolo o ferisce una comunità,  rischiano di essere semplici cerotti su ferite che diventano sempre più grandi e profonde.
Una promozione umana, seria, radicata in un contesto, che si pone prospettive di futuro alternativo non può, oggi come oggi, prescindere da un lavoro di coscientizzazione e formazione sui diritti fondamentali della persona; lavoro che in alcuni casi può anche assumere il ruolo di grido profetico e di denuncia. Significa dare alle nostre risposte uno sguardo più ampio, che non si fermi allo specifico problema locale, ma guardi più in là, alle radici del problema.
Senza questo sguardo e alla domanda di giustizia che ne deriva le nostre opere ci renderanno necessariamente eterni. La gente continuerà a dipendere dal missionario capace di trovare soluzioni ai loro problemi più immediati, problemi che si rigenereranno in continuazione e avranno bisogno di sempre nuovi interventi, aggiustamenti, perfezionamenti e manutenzioni. 

a cura della redazione




Sogni in catene

Vivere a Joaquim Gomes (Alagoas, Brasile)

Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro vacanze aiutando le suore di San Giuseppe di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina brasiliana: un’esperienza indimenticabile, a contatto con situazioni disperate e nell’impegno di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare  diritti umani e dignità.

La BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di marcia che, nella stagione delle piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio dei lunghi camion che, lungo questa strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile pista di curve, che si insinuano tra le colline, e arriviamo al bivio che ci porterà finalmente alla cittadina di Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo è un enorme cartello su cui, anche da lontano, si può leggere a chiare lettere il nome del paese e, appena sotto, la scritta: «Construindo con Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni amministrative e che ha trasformato il suo bagaglio di denaro in una scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso del termine, il titolo di sindaco, che da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra casa per più di un mese e sarà il nostro «campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie e di diritti negati in questo Brasile in cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di speranza del vangelo. Sono le suore di San Giuseppe di Pinerolo, in parte missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte più debole della popolazione; una popolazione che attualmente risulta composta dalle donne, da qualche anziano e da moltissimi bambini.

Di uomini a Joaquim Gomes se ne vedono davvero pochi; la maggioranza di essi, infatti, è costretta a emigrare in altre regioni dove la manodopera è più richiesta, finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila abitanti, in cerca di un lavoro che permettesse loro di far sopravvivere le proprie famiglie; ma quasi sempre sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros, che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio, e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a nessuno è permesso lasciare il posto di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane ancora il problema di acquistare il biglietto del viaggio di ritorno, che permetta loro di percorrere i tre giorni di pullman che separano il Mato Grosso (terra solitamente di destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.

In assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza dei loro figli, portando avanti la casa e provvedendo alle loro necessità. Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le sentiamo passare per le vie, fuori dalla porta della casa che ci ospita; le vediamo scendere al fiume; in testa portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in braccio quelli più piccoli, pronti per il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini rimasti nel paese ci svegliano mentre, seduti in piazza, colpiscono con lunghe e forti strisciate del machete le pietre della pavimentazione, per preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo, passano vecchi pullman per caricarli e portarli nelle piantagioni, dalle quali toeranno soltanto quando farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di canna tagliata, sotto il sole cocente e con i vestiti che li coprono da capo a piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman uno ad uno e diramarsi nei vari quartieri, con passo rapido, machete in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove, consumato un misero pasto, toeranno finalmente a riposarsi per riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes, nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorgere, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati nella sperduta area del sertão.

La capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa 800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna. Verso l’oceano sorgono i quartieri più ricchi, dove si trovano palazzi e alberghi di lusso, boutique di alta moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas, quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono situate le baracche. Vediamo adulti e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie masse di fango putrido, mischiato alle conformazioni di molluschi che, portate a riva, vengono passate alle donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia, esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che, una volta ripulite, vengono vendute ai ristoratori di lusso per un prezzo irrisorio: un secchio pieno di tali molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani suore brasiliane, che operano in questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le baracche, che, oltre ad essere stretti da permettere il passaggio di una sola persona, sono spesso pieni di rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la sua storia: è nata nella favela; sin da ragazzina è stata coinvolta nei giri della droga, prostituzione e narcotraffico; ha avuto 12 figli, di cui sei morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per i propri diritti, superando la lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e consiglio, per spiegare alla gente chi siamo; nel frattempo il suo sguardo è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti che passano nell’avenida, bambini drogati con la colla,  che tornano dal centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata appena i padroni hanno scoperto che viveva nella favela… E tante altre storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime opportunità.
Con fierezza ci racconta come la Caritas tedesca l’abbia mandata a Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua gente e rivendicare i diritti basilari.

Nella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si consuma un altro dramma di sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini piccoli, dopo aver perso la moglie e le figlie in morti violente, è costretto a sprangare la porta della baracca per impedie l’entrata alla figlia di 12 anni, poiché la ragazza, che vive in strada, ogni volta che torna a casa cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno seguito nella nostra visita, ci aspetta l’incontro più inatteso. Nell’ultima baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il paradosso più grande dell’amore materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi mentali, sviluppati in un mondo che da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile pezzo di gommapiuma, Thiago, un ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito con un sorriso di felicità, ma il suo sguardo è perso nei drammi di una vita bruciata da droga e violenza. Un suo polpaccio è avvolto da una grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da quando ha deciso di tenere il figlio così legato per cercare in qualche modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e per allontanarlo dalla droga, ha chiesto aiuto ai servizi sociali, ma non ha ricevuto alcun aiuto; per cui ha messo in atto una soluzione così drastica, già usata con la sorella e sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà davvero breve. 

Un ragazzo così giovane, ma con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente tutti gli altri contrasti e sofferenze incontrate nella breve esperienza in Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito in modo indelebile nei nostri ricordi, insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda anche l’impegno di tante persone, come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a chi rischia di perderla, a chi non ne ha mai potuto godere pienamente, a chi, ancora così giovane, di tutto questo è stato derubato. 

Di Fabrizio Mola


* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa in una rissa fra ragazzi di strada alla fine di novembre 2008.

Come vincere le Elezioni

Il 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese, consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi alle ue. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle ue per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione per non essersi presentati alle ue o autodenunciarsi essendo rimasti implicati nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni. Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29 novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.

Fa.Mol.

Fabrizio Mola




Zappa, kalashnicov e coca-cola

Breve viaggio nel Mozambico di oggi. Reportage.

Una nazione ricca con l’economia in forte crescita.
Un popolo povero che ha sofferto la colonizzazione e 30 anni di guerra.
Uno degli ultimi regimi socialisti del continente, ma al tempo stesso
aperto al neoliberismo. Il Mozambico è costretto ad accettare
le imposizioni dei donatori inteazionali, perché il bilancio dello stato
dipende da loro. Intanto la democrazia fa piccoli passi
in avanti, in attesa di un necessario decentramento
amministrativo e di un migliore sfruttamento delle terre.

Lichinga, Mozambico. Il boeing 737-200 della Lam (Lineas aereas moçambicanas) atterra nella capitale della provincia di Niassa. Sulla pista, ad attenderlo da un paio d’ore, decine di bandiere rosse, donne e uomini in abiti colorati, frenetici suonatori di tamburi e di bidoni di plastica. Sono alcune centinaia, arrivati con i camion dalle diverse zone della provincia, una delle più povere ma più fertili del paese. Sull’aereo c’è una folta delegazione che accompagna Felipe Paunde, segretario generale del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al potere. Decollato la mattina dalla capitale Maputo, ha anticipato l’ora della partenza, lasciando a terra molti passeggeri «normali».
È il penultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni municipali, previste per il 19 novembre, in un paese che, a sedici anni dagli accordi di pace, fatica ancora a trovare una via verso lo sviluppo. Il segretario generale viene ad appoggiare il candidato alla presidenza del comune di Lichinga.
Elezioni importanti in un paese enorme (800 mila kmq, due volte e mezza l’Italia, ma con un terzo di abitanti), dove il decentramento amministrativo, essenziale per governare un paese così grande, sta muovendo solo i primi passi. Mentre tutto o quasi, resta centralizzato a Maputo, capitale troppo lontana, situata all’estremo sud del paese (circa 2.300 km da Lichinga), incastrata tra il mare e il vicino ricco di sempre: il Sudafrica.
Nella consultazione elettorale si affrontano soprattutto i due maggiori schieramenti: il Frelimo e la Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico). Sono i vecchi nemici di sempre, della feroce guerra civile che ha insanguinato il paese dalla sua indipendenza dal Portogallo, nel 1975, alla firma degli accordi di pace a Roma nel1992. Oggi si affrontano con le ue, in un contesto di grande differenza di mezzi a disposizione. Il Frelimo al potere da 33 anni, ha dalla sua parte una macchina propagandistica ben rodata e mezzi economici a volontà. Non così i concorrenti.
Quest’anno sono 43 i consigli municipali e i presidenti dei comuni (sindaci) che devono essere eletti. Di questi 10 sono nuovi, ovvero è la prima volta che si costituiscono. Segno che qualche piccolo passo avanti nel decentramento si sta facendo.
Il segretario generale è appena sceso dall’aereo e rilascia la prima intervista. Intanto i passeggeri rimasti scendono e attoniti cercano di farsi largo tra la folla per raggiungere l’area recupero bagagli.

La guerra non perdona

Il paese oggi resta segnato da 500 anni di dominazione portoghese, ma anche da quasi tre decadi di guerra che contraddistinguono la sua storia recente. All’inizio degli anni ’60 quando la maggior parte dei paesi africani diventavano indipendenti, le colonie portoghesi si vedevano negato questo fondamentale passaggio.
Nel 1964 l’intellettuale Eduardo Mondlane, in esilio in Tanzania, fonda il Frelimo e dichiara l’inizio della guerra d’indipendenza.
Il conflitto è cruento e i portoghesi non mollano. Il Frelimo riesce a controllare vaste zone nel Nord del paese. È il 1975 i tempi sono maturi. L’anno prima la ribellione militare in Portogallo ha chiuso con i regimi dittatoriali di Salasar e del successore Caetano. Il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo si vede consegnato il potere e Samora Machel è il primo presidente della repubblica popolare. Il regime opta per l’ideologia marxista-leninista e una sua applicazione piuttosto rigida. Nazionalizzazioni, emigrazioni forzate per popolare il nord e campi di rieducazione. I beni della chiesa sono confiscati e i missionari costretti a lasciare le missioni sono radunati nelle città.
Negli stessi anni, portoghesi fuoriusciti appoggiati dalla Rhodesia di Jan Smith (l’attuale Zimbabwe) e dal Sudafrica dell’apartheid, organizzano una guerriglia controrivoluzionaria: la Renamo. La guerra fratricida è cruenta, i campi pullulano di mine e diventa difficile per i contadini far rendere la terra. Solo gli accordi di  pace generali di Roma (4 ottobre 1992), con un importante ruolo giocato dalla chiesa, riportano la pace.
Il Mozambico indipendente è devastato, e inizia allora i primi passi verso lo sviluppo. L’intervento dei donatori inteazionali, di Fondo monetario internazionale (Fmi) e di Banca mondiale (Bm) sono massicci.

Economia: macro e micro

Negli ultimi 5 anni il paese ha presentato indicatori macroeconomici che rispecchiano un’economia dinamica: crescita del pil intorno al 7- 8%, inflazione tenuta al 13,2% da un ambizioso piano governativo, buoni scambi commerciali. Ma il mozambicano medio continua ad avere una speranza di vita intorno ai 42 anni, mentre solo il 38,7% dei maggiori di 15 anni risultano alfabetizzati. Una situazione socio-economica complessa che vede il paese al 172simo posto su 177 della classifica Onu basata sull’indice di sviluppo umano. Quanto basta per dire che è «tra i più poveri del mondo».
«L’economia mozambicana, incluso il bilancio dello stato, continua a essere finanziata in larga parte dai donatori esteri. Un gruppo di 19 partner, tra cui Unione europea, Canada, Usa, Giappone, ma anche Fmi e Bm». Chi snocciola l’elenco è Brazão Mazula, professore, già rettore della maggiore università del paese, la Eduardo Mondlane. Membro storico del Frelimo, che nel 1994 gli affidò l’organizzazione delle prime elezioni libere nel paese. Mazula si è formato come missionario della Consolata, diventando anche padre per poi uscire dall’Istituto.
«Se il governo vuole gli aiuti inteazionali, sono i donatori che decidono qual è la direzione che deve prendere il Mozambico per il suo sviluppo. Anche questi indicatori economici rispondono a un loro desiderio. A novembre una missione del Fmi ha valutato positivamente la performance dell’economia mozambicana».
Ma il professore è realista: «Un’altra cosa è dimostrare che questa crescita economica ha un impatto sul benessere della gente. Non ci si può fermare a Maputo per dire che questo è il paese». Maputo è una città modea, con centri commerciali, grosse vie con marciapiedi, palazzi, luci e vecchie case in architettura coloniale. Circolano molte automobili, anche costose. Ma come accade spesso in Africa, la capitale non è specchio della situazione e le condizioni di vita nell’«interno» sono molto diverse.

Poveri in un paese ricco

«La povertà è reale – continua il professore – secondo dati ufficiali il 70% della popolazione è in stato di indigenza e la maggior parte di essa risiede in campagna».
Ma come vive e sopravvive il mozambicano medio, nel mezzo di questa situazione così grave, nel contrasto tra uno sviluppo economico effettivo e una povertà diffusa?
«La popolazione è ancora orientata a un’economia di sussistenza. In particolare è importante la questione della terra per il contadino: se ha terra sufficiente, coltiva il suo mais, la manioca. Il problema sorge quando la legge mette a rischio la sicurezza della terra per il futuro. Togliere la terra al contadino è come togliergli la cittadinanza» insiste il professor Mazula. E continua: «Le politiche macro economiche degli ultimi anni portano alla privatizzazione delle imprese, ma anche della terra. Il contadino un giorno si trova di fronte un connazionale (o uno straniero), che gli presenta dei documenti e gli dice che la terra, suo unico sostentamento, fa parte di un’altra proprietà e non è più sua. «È questo che aggrava la povertà».
«Un esempio concreto sono i bio-combustibili, come quelli ricavati dalla canna da zucchero. Le imprese produttrici hanno bisogno di migliaia di ettari. Se questi progetti non sono ben applicati i sacrificati saranno i contadini».
Le potenzialità agricole del paese sono enormi e variano a seconda della regione e fascia climatica. La terra è fertile (in particolare al nord), bagnata da grandi fiumi e da una stagione delle piogge estesa, in media, da fine novembre a marzo.
Le produzioni principali per uso alimentare sono mais, manioca, sorgo, riso, legumi, patata dolce e banane. Per l’esportazione si produce canna da zucchero, tabacco, tè, cotone e palma da cocco.
Ma la terra in generale non è ben sfruttata: resterebbero almeno 4 milioni di ettari da valorizzare. Inoltre ci sono ancora mine antiuomo nei campi (sono sempre all’opera squadre di «sminamento»). Molto diffusa è l’agricoltura famigliare di sussistenza.
«La minaccia è che nella visione di economia di scala, si vuole trasformare il contadino in un lavoratore per grandi imprese agro-industriali. Un problema è che il nostro contadino è analfabeta. Non è un’operazione che si può fare da un giorno all’altro. C’è la questione dell’educazione».
Gli interessi economici inteazionali sono grandi e quindi ci sono molte pressioni sul governo: «Dipende da noi, dobbiamo accrescere la nostra capacità di negoziazione. Nessun investitore investe per perdere. Le istituzioni inteazionali non vengono a fare la carità, ma affari. Dobbiamo avere capacità tecnica e di negoziazione, in modo che entrambi, noi e loro, possiamo guadagnare da questa situazione».
Si ricorda che metà del bilancio dello stato è appannaggio dei donatori inteazionali, mentre si parla di aiuti per 435 milioni di dollari nel 2008. Una parte dei quali per finanziare l’ambizioso «Piano d’azione per la riduzione della povertà assoluta (Parpa)».
Da qui il ruolo della formazione superiore, per formare risorse umane in quantità e qualità, che conoscano le leggi, l’economia, il commercio internazionale. «È una nostra sfida. La stabilità economica e politica passa dall’educazione e dalla formazione del cittadino. Lo sviluppo, per me, è libertà di scegliere» continua il professore.
Non solo educazione di base quindi, che Bm e Fmi «impongono e limitano», ma una formazione che porti il cittadino a essere meno manipolabile possibile e in grado di scegliere.
«Il governo decide le politiche, ma dovrebbe negoziare con il cittadino. Al contrario, per la crescita economica, il nostro governo rende conto di più ai donatori che ai mozambicani… perché da questi non vengono soldi».
Sul piano dell’educazione il paese si è dato un piano strategico 2006-2011. «Questo mostra buona volontà. La coscienza che c’è qualcosa da cambiare: centrare lo sviluppo sul cittadino e non sui desideri delle istituzioni finanziarie inteazionali.
Non possiamo pretendere che tutte le persone vadano all’università… ma che ogni cittadino, a qualsiasi livello termini la sua formazione, sia in grado di lavorare o dare lavoro e di produrre ricchezza. Il ministero dell’educazione sta facendo uno sforzo, in questo senso».
Il programma prevede la costruzione di 4.100 aule scolastiche in ambito rurale ogni anno e che in ogni distretto ci sia la scuola secondaria.

Verso il Marxismo neoliberale

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, il Frelimo ammorbidisce il modello socialista e inizia le riforme per far spazio al mercato. Il cambiamento è favorito da un avvicendamento al vertice: Samora Machel, leader intransigente, muore in un misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1986. Disastro in cui sarebbero implicati i servizi segreti sudafricani.
Gli succede Joaquim Chissano, uomo diplomatico, comunicatore, che imposta la transizione e traghetta il paese alla pace. Il nuovo presidente, pragmatico, accetta le condizioni dei partner inteazionali, come una nuova costituzione di fine 1990 che legalizza il multi partitismo (ancora rivista nel 2004). Si procede poi a una serie di privatizzazioni, non prive di scandali. Si forma così una nuova classe borghese legata al Frelimo, che si arricchisce grazie alle vendite dei beni statali. E la corruzione, fenomeno quasi sconosciuto per i dirigenti del partito all’indomani dell’indipendenza, aumenta.
«La corruzione deve essere combattuta, ma occorre anche capire come è iniziato questo fenomeno nel nostro paese – denuncia Felipe Couto, missionario della Consolata, magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane e persona influente nel Frelimo -. Noi eravamo l’unico partito: ci hanno imposto il multi partitismo. Poi ci hanno detto: dovete entrare nel Fmi, nella Bm, dovete aprirvi al neoliberismo economico. Così sono arrivate le agenzie inteazionali e le Ong. Hanno iniziato a girare molti soldi. La corruzione dipende da noi, ma non solo».
Nel novembre 2000 è assassinato il giornalista Carlos Cardoso, che portava avanti un’inchiesta sulla privatizzazione delle due più grandi banche del paese: il Banco Comercial de Moçambique e il Banco Austral. Ci sono stati alcuni arresti, ma i veri mandanti sono ancora liberi.
Nelle elezioni del 2004 Chissano si ritira e gli succede Armando Guebuza (febbraio 2005), l’allora segretario generale. È un avvicendamento al vertice non privo di cambiamenti. Guebuza, oltre a essere numero uno di un partito comunista è anche uno dei più ricchi uomini d’affari mozambicani. La sua rete di business va dalla birra alle costruzioni, all’export, al traffico nel porto di Beira.
In politica si rivela più tradizionalista. Subito cerca di imporre un maggior rigore: lancia la seconda fase della riforma del settore pubblico (2005-2011), che include un ambizioso programma di lotta alla corruzione.

Donne e integrità al governo

«Il programma del governo prevede quattro punti: riduzione della burocrazia, lotta alla corruzione, alla criminalità e alle malattie endemiche come l’Aids» ci racconta Vitória Diogo, ministro della Funzione pubblica. Testa alta e parlata chiara, quasi da campagna promozionale. Fiera di essere, donna e capo del maggior datore di lavoro del paese, con 167.000 impiegati.
Nel governo mozambicano, ci sono otto donne ministro (incluso il premier) e si arriva a tredici con i viceministri. Anche nel parlamento, forte è la partecipazione femminile, circa il 30%.
La «strategia di lotta alla corruzione» varata dal governo nell’aprile 2006 prevede, dice il ministro di «istituzionalizzare l’integrità» ovvero promuovere l’integrità come valore umano. «Tra il 2006 e il 2007 sono stati identificati 2.414 casi di corruzione, seguiti da processi disciplinari, di cui 813 espulsioni». Sicura, il ministro Diogo, elenca i risultati per quello che riguarda la «piccola corruzione».
Di fatto la corruzione è ancora molto radicata a tutti i livelli e si può avvertire non appena si passa la dogana in aeroporto. C’è però anche una campagna pubblica, con tanto di manifesti, che invita la società civile e la gente in generale, a denunciare casi di pressioni e malversazioni dei funzionari.
Ma il salario minimo legale è ancora molto basso: 1.950 meticais (65 euro) al mese, anche se si stanno studiando sistemi di incentivo. In un paese in cui il costo della vita (almeno in città) è simile a quello europeo. La benzina, madre di tutti i prezzi, in quanto influisce sui trasporti, arriva a costare anche 1,5 euro al litro, il gasolio 1,23. Il regime di stipendi bassi non facilita la riduzione di questa piaga.
La strategia anti corruzione dipende dal Gabinetto centrale di lotta alla corruzione, di competenza del primo ministro, Luisa Diogo, sorella di Vitória.
Secondo la classifica della corruzione, stilata ogni anno dall’Ong Transparency Inteational, il Mozambico è sempre nella fascia dei paesi più corrotti al mondo: nel 2008 occupa il 128simo posto su 180.
La riforma del settore pubblico, prevede inoltre il miglioramento delle prestazioni dei servizi, vuole «mettere il cittadino al centro», incentivare la buona governance e aumentare la professionalizzazione delle risorse umane.
«Il funzionario per servire ogni volta meglio il cittadino» è lo slogan ufficiale della riforma.
Programmi questi molto amati (e sollecitati) dai donatori e che il governo cerca, tra mille difficoltà, di mettere in atto.

Le priorità

Come decano dell’università, il professor Brazão Mazula identifica quattro aree importanti per far uscire il paese dalla povertà e portarlo verso lo sviluppo. Aree che identificano settori prioritari  per la formazione di quadri del paese: educazione integrata, formativa e critica, sanità, agricoltura e pesca (il mare è una ricchezza), turismo. Quest’ultimo, grazie alla posizione geografica e alle bellezze del paese (parchi naturali, spiagge da sogno, isole) è diventata la prima industria del paese. Gli investimenti dei vicini sudafricani in questo settore sono notevoli. Basti pensare che per i mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica, i pacchetti turistici prevedono, dopo le partite, alcuni giorni sulle spiagge del Mozambico.
Sul piano della salute l’emergenza maggiore è l’Aids. «I casi sono in costante aumento, non si riesce a frenare – racconta suor Raquel Gil Mas, missionaria dominicana, medico, che si spende ormai da anni sul tema -. In alcune province si parla del 27% di sieropositivi». Mentre i dati ufficiali sono intorno al 17% a livello nazionale. Un programma del governo fornisce farmaci antiretrovirali gratuitamente a tutti coloro che risultano positivi e si affidano alle cure di un centro. «Questo è un aiuto fondamentale perché riusciamo a far vivere tanta gente che altrimenti sarebbe già morta. Il problema è che arrivano da noi quando ormai sono in stato terminale».

Elezioni monocromatiche

Alle elezioni municipali di novembre il Frelimo ha stravinto, togliendo alla Renamo anche i cinque municipi storicamente sotto il suo controllo, e ottenendo la maggioranza nelle assemblee municipali e i sindaci. Tranne a Beira, seconda città del paese, dove succede a se stesso l’indipendente Daviz Simango, già Renamo.
Il leader della Renamo, Alfonso Dhlakama ha da tempo perso in popolarità ma non vuole farsi da parte. Questa sconfitta, però, lo mette in seria difficoltà e si parla di avvicendamento alla testa del partito, il più grande, nonostante tutto, all’opposizione.
«Ci sarà vera opposizione solo quando il Frelimo avrà una scissione al suo interno» sostiene qualche osservatore. Intanto, si attendono le elezioni presidenziali di fine 2009, nel perenne equilibrio tra compiacere ai donatori e autodeterminazione del proprio futuro. 

Di Marco Bello

Marco Bello




È accaduto a Cornuda …

Esperienza esemplare di incontro interreligioso

«Non v’è costrizione in religione»: l’espressione, tratta da una sura del Corano, è stato il tema del sesto incontro-dibattito tra cristiani e musulmani nella diocesi di Treviso. L’originalità dell’esperienza sta nel fatto che tale incontro si è tenuto nella sala del municipio
di Couda (TV), a promuoverlo e dirigerlo sono stati il sindaco e il vicesindaco.

È stato sicuramente eccessivo il mio entusiasmo quando, in occasione dell’incontro interreligioso di sabato 27 settembre 2008, ho paragonato Couda alla Baghdad dei califfi. Ma, ne valeva la pena!
Couda è un comune del trevigiano, di circa 6 mila abitanti, nella cui aula consigliare, il giorno successivo alla «Notte del destino», 27ª di Ramadan, si è svolto un incontro tra cristiani e musulmani sul tema della libertà religiosa. I due relatori principali furono Brunetto Salvarani, per la parte cattolica, e Adel Jabbar, per la parte musulmana. Il parroco di Couda, don Mauro Motterlini, ha presentato il messaggio vaticano di fine Ramadan ai musulmani presenti, consegnandone il testo all’imam della città di Treviso.
Lo cheick Mahamoud Khalil, in qualità di ospite speciale delle comunità islamiche della provincia di Treviso durante tutto il mese di Ramadan 2008, ha esposto la dottrina musulmana circa i rapporti con le altre religioni. Il professor Ometto, un fervente cristiano sposato con una musulmana sciita, ha citato integralmente a memoria in arabo e interpretato filologicamente i versetti coranici che fanno riferimento alla libertà religiosa e da cui era stato tratto il tema della giornata: «Non v’è costrizione in religione».
La città di Treviso sovente finisce nei giornali, soprattutto come prototipo dell’intolleranza e del becero rifiuto della convivenza con la comunità islamica. Il centinaio di persone, cristiani e musulmani in parti quasi uguali, che hanno partecipato durante tutto il pomeriggio a questo evento, costituisce una secca smentita all’omologazione giornalistica avvenuta in questi anni tra la città di Treviso, ma soprattutto i suoi rappresentanti politici, e il resto del territorio provinciale.
Salvate le proporzioni tra ciò che è avvenuto a Couda e ciò che accadeva con frequenza alla corte dei califfi, dove si ripetevano con una certa regolarità incontri e dibattiti tra esponenti di varie religioni, non era infondato il nostro sentimento di sentirci per una sera un po’ anche cittadini di Baghdad.

SESTO INCONTRO
L’esperienza di Couda non è la prima di questo genere nel territorio della diocesi di Treviso. È ormai da sei anni che alcuni cristiani e alcuni musulmani si danno appuntamento verso la fine del Ramadan per passare insieme mezza giornata, confrontandosi sulla base di esperienze religiose vissute dalle due parti e rompendo il digiuno della giornata all’ora stabilita.
I primi quattro incontri, a partire dal Ramadan 2003, si sono svolti nella comunità monastica di Marango. Si pensava allora, e continuiamo a pensarlo anche oggi, che «il monastero» in sé è un luogo di incubazione di civiltà e di tempi nuovi. Esso si pone sui punti terminali di una civiltà in crisi, per aprirla a un nuovo futuro.
La nostra voleva essere una sfida a una società che, pur fondata su un immenso potere scientifico, tecnologico ed economico, non è ancora in grado di affrontare e risolvere i problemi della convivenza.
Noi di parte cristiana in maniera particolare abbiamo la convinzione che «il monastero» era e rimane il supplemento d’anima, il luogo di rigenerazione di energie e atteggiamenti che hanno in sé le potenzialità che occorrono per rendere più umana la nostra convivenza, basandosi su rapporti densi di profonda spiritualità.
Inoltre il fascino indubbio che suscita un luogo di preghiera, nato all’interno di una società opulenta e apparentemente priva di Dio come quella occidentale, ci sembrava il clima più adatto per vivere insieme con i musulmani qualche ora del loro lungo percorso ascetico e spirituale.
Queste furono le ragioni che ci avevano spinti per 4 anni di seguito a domandare ospitalità alla giovane comunità monastica di Marango (Venezia) per realizzare i nostri incontri. Essi si svolgevano con grande discrezione e impegnavano esclusivamente la ricerca e la coscienza delle persone che vi partecipavano.
A partire dall’anno 2007 questi incontri hanno incominciato a svolgersi invece dentro un quadro pubblico, offerto direttamente da due amministrazioni comunali: Giavera e Couda. Ma se l’anno scorso questo significativo spostamento si riduceva a essere poco più di un’intuizione, quest’anno invece esso è frutto di una scelta ormai matura e ragionata.

DAL MONASTERO   ALL’AULA CONSIGLIARE
Il ragionamento che sta alla base di questo spostamento parte dalla semplice constatazione della realtà plurale delle nostre comunità paesane, comprese quelle più piccole.
Sono molti i musulmani, buddisti, sik che ormai si sono radicati all’interno delle nostre comunità tradizionalmente cristiane. La presenza di queste persone di religione e cultura diversa ha acquisito in questi due decenni delle caratteristiche nuove. Non ci sono soltanto musulmani e sik; ci sono ormai delle comunità musulmane e sik, che progressivamente sono venute strutturandosi.
Potremo a tal proposito fare un paragone con la presenza ebraica in Italia. Essa non si limita al fatto che ci siano nel nostro territorio, da sempre, un numero più o meno grande di ebrei, ma essa ha le caratteristiche di una comunità che ha una sua immagine, una sua rappresentanza, una sua struttura e visibilità anche a partire dai luoghi di culto che le sono propri. La stessa cosa potremmo dire di queste altre giovani comunità che si sono affermate tra noi.
L’obiezione più frequente che viene rivolta, soprattutto alla comunità musulmana, è che essa tende ad accorpare nella dimensione religiosa anche quella civile e politica. Ciò è probabilmente vero in molti paesi a larga maggioranza musulmana, anche se non in tutti. Ma questo non è il caso dell’Italia.
Ora è evidente che, nell’attuale panorama inedito offertoci dalla nostra società, occorre che qualcuno prenda l’iniziativa per costruire una piattaforma d’intesa, che si proponga di favorire la pace sociale tra gruppi caratterizzati da religioni e culture diverse e di confermare i valori fondamentali della nostra cultura civile, sociale e politica, in vista di una condivisione di essi da parte di tutti: sia i vecchi che i nuovi cittadini.
Occorre perciò rimettersi all’iniziativa di un «terzo» attore, che non può essere nessuna delle comunità religiose in quanto inevitabilmente esse sarebbero di parte. Un attore che necessariamente abbia l’autorità di convocare tutti e che possa esigere da tutti il rispetto delle regole del gioco.
Ai promotori dell’incontro è sembrato che questo potrebbe e dovrebbe essere il compito di un’amministrazione comunale, ma anche di ogni altro livello dell’amministrazione pubblica. La sua natura, infatti, può favorire un ruolo di «terzietà» che la può costituire moderatrice di un eventuale «tavolo delle religioni» in vista del bene comune e della pace sociale.
A Couda è accaduto proprio questo: al centro del tavolo sedevano il sindaco e il vicesindaco e ai due lati i vari rappresentanti delle due comunità religiose, quella cattolica e quella musulmana.
L’impressione che se ne ricavava era molto forte. La laicità di cui si offriva la prova non era quella dell’indifferenza dell’ente pubblico nei confronti dell’individuale scelta religiosa, ma quella di un’amministrazione comunale laicamente attiva, consapevole del proprio ruolo, senza alcuna invasione di campo.

IL TEMA
Il tema dell’incontro è stato ricavato da una sura del Corano : «Non v’è costrizione in religione», filologicamente tradotto dal prof. Ometto: «Non si può costringere nessuno ad abbracciare una credenza verso la quale si prova un netto rifiuto».
Il tema della libertà religiosa è sicuramente un tema sensibile particolarmente in questi tempi in cui tutte le società, anche le più tradizionalmente omogenee, tendono a diventare pluraliste o a causa del mescolamento di popolazione o per l’incursione dei messaggi e degli stili di vita veicolati dai mass media.
Il prof. Jabbar, rifacendosi al patto di Medina, ha ricordato la capacità che l’islam ha avuto, soprattutto agli inizi e in certi momenti storici, di mettere insieme culture e religioni diverse, facendole convergere verso un patto di cittadinanza che non costringeva all’assimilazione.
Ad ascoltarlo si ricavava l’impressione che ci siano zone e tempi inesplorati dell’islam, che sarebbe utile riportare alla memoria sia per noi sia, a dire del prof. Jabbar, per i musulmani stessi.
Il prof. Salvarani, oltre ad affermare la necessità e la convenienza del dialogo, ha parlato della libertà religiosa come condizione mai totalmente compiuta e che occorre continuamente porre in essere, perché essa non si situa mai in un punto di non ritorno. Più che una condizione già raggiunta è una continua conquista. Per questo sarebbe preferibile parlare, non solo di libertà come valore, ma di liberazione come processo e acquisizione di gradi sempre più elevati di libertà per tutti.
Successivamente il parroco di Couda ha consegnato all’imam il messaggio vaticano, facendone una breve sintesi riguardante la famiglia come valore condiviso da cristiani e musulmani e come luogo «in cui si apprende il rispetto dell’altro, nella sua identità e nella differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della cittadinanza non possono dunque che beneficiae».
Alla conclusione dell’incontro ci fu una brevissima preghiera, durante la quale ognuno ha accolto con interiore partecipazione la preghiera dell’altro. Un momento brevissimo, ma efficace quanto un lampo nella notte.
La rottura del digiuno, con i cibi che caratterizzano le varie abitudini alimentari e che erano stati generosamente offerti dalle diverse comunità etniche presenti, ha confermato l’impressione che ci eravamo detti al momento di lasciare l’aula consigliare: «Usciamo da quest’incontro con l’impressione di sentirci un po’ migliori di prima». 

Di Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Non solo corano

Cosa succede nelle scuole coraniche

Affidati da piccoli al «Maestro» imparano a memoria il libro sacro. Ma non solo.  La daara è una scuola di vita e di formazione integrale. Si insegnano valori come l’umiltà,  la solidarietà e la convivenza pacifica. Ma quando il Maestro si trasferisce in città i rischi di sfruttamento e di mendicità sono elevati. Non bisogna generalizzare.

Lo studio del «libro santo», il Corano, permette ai fedeli musulmani di orientarsi nel mondo e di conoscere la loro missione terrena, perché: «La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo stesso».
Le tre strutture fondamentali nella trasmissione del sapere religioso contenuto nel Corano sono: le moschee, all’interno delle quali secondo la tradizione profetica è sempre prevista una zona dedicata all’educazione dei fedeli; le associazioni religiose (dahira); le scuole coraniche.
Nelle prime due il maestro riunisce attorno a sé i discepoli adulti e celebra e commenta alcuni passaggi dei testi fondamentali della religione islamica: il Corano, la Sunna e i testi delle scienze islamiche.
Le scuole coraniche, invece, hanno lo scopo di formare i giovani allievi (generalmente di età compresa fra i 5 e i 15 anni) sia da un punto di vista morale che conoscitivo, per forgiare uomini e donne al servizio di Dio e delle sue leggi. L’Islam propone un’educazione omogenea del corpo e dello spirito, in coerenza con i dettami della religione. Per questo motivo l’insegnamento islamico è un processo di formazione e di trasformazione intellettuale, morale e spirituale, sulla base dei principi del Corano.
In Senegal, la scuola coranica è la daara, termine che deriva dal nome arabo dâr, che significa dimora, casa. Le famiglie affidano i bambini in tenera età a un maestro, con cui solitamente hanno legami di parentela o di conoscenza, e gli chiedono di adempiere alla formazione dei loro figli.
I maestri religiosi sono considerati tra gli esseri più vicini a Dio, perché sono le guide degli uomini sul cammino della fede. Essi godono di un riconoscimento speciale in seno alle comunità religiose e sono considerati garanti dell’armonia sociale, nel rispetto delle norme coraniche.
L’appellativo marabout (marabutto), attribuito ai maestri coranici, è originario della Mauritania e significa «uomo votato alla vita ascetica» per descrivere l’attitudine alla preghiera, allo studio e all’insegnamento che li contraddistingue.

La lingua sacra

Il bambino soggioa presso il maestro per diversi anni, durante i quali percorre le varie tappe dell’insegnamento islamico, iniziando dalla recitazione mnemonica del Libro, atto di lode a Dio, per proseguire con lo studio di tutte le altre materie religiose, come la teologia, il diritto musulmano e la tradizione profetica. La pratica corretta della religione islamica, a cominciare dall’obbligo della preghiera cinque volte al giorno, presuppone, infatti, la memorizzazione dei versi coranici e la capacità di pronunciarli correttamente in lingua araba (celebrare la parola di Dio in modo scorretto è considerato un grave sacrilegio).
Il Corano è un’opera colossale: è composto da 114 sure, raggruppate in trenta parti, ciascuna suddivisa in due porzioni, le hizb, ripartite in quarti, i rubu, articolati a loro volta in otto parti, i sumun, composte ciascuna da 17 o 18 linee. È evidente quanto sia ardua l’impresa di memorizzare integralmente tutta l’opera (necessario in passato per la rarità delle opere scritte), non solo per la quantità di versi che la compongono, ma soprattutto per la lingua in cui essa è scritta, di difficile accesso per le popolazioni non arabe.
In quanto lingua della rivelazione divina, l’arabo classico è considerato dai popoli musulmani come l’alfabeto santo per eccellenza e come tale deve essere tramandata di generazione in generazione. Essa stessa è considerata uno strumento di accesso al soprannaturale.
La sacralità della scrittura, secondo la percezione dei credenti musulmani, è confermata dalla progressiva sostituzione degli amuleti della tradizione africana con i sacchetti di cuoio contenenti un pezzo di carta con alcuni versi coranici, ma anche dalla tradizione popolare, la quale vuole che un foglio su cui siano scritti versi coranici resista alle fiamme. Il libro non può essere toccato se non dopo aver eseguito le abluzioni minori ed esso stesso viene sovente adoperato come amuleto contro la cattiva sorte.
Per quanto riguarda lo studio dei contenuti, seconda tappa nel percorso formativo, la conoscenza del «libro» permette di scoprire la ricchezza delle indicazioni divine che regolano ogni aspetto della vita dell’individuo. Non solo da un punto di vista spirituale, nel suo rapporto con l’Onnipotente, ma anche per il ruolo che egli deve svolgere all’interno della società. Il libro racchiude tutta la legislazione musulmana rispetto alle questioni religiose, giuridiche, sociali ed economiche. L’educazione coranica, in senso ampio, comprende quindi non solo la nozione di istruzione, ma anche quella di formazione dell’allievo ed è considerata fondamentale nella vita di ogni musulmano.

A scuola di semplicità

La scuola coranica in cui i giovani discepoli vengono formati si trova quasi sempre all’interno della casa del maestro. L’austerità del luogo in cui viene dispensato l’insegnamento ha radici profonde e risponde a una scelta pedagogica ben precisa, che raramente cambia al variare delle possibilità economiche del marabout. Egli educa i propri allievi sotto un semplice riparo, una tettornia o un albero, e i bambini sono seduti a gambe incrociate su stuoie di paglia, le stesse che servono come giaciglio durante la notte.
L’unico strumento di cui dispongono gli allievi, almeno per i primi anni di formazione destinati alla memorizzazione del Corano, è una tavoletta in legno su cui quotidianamente il maestro scrive i versi coranici da memorizzare nel corso della giornata.
La giornata dei taalibe (dall’arabo tâlib, ossia studente) comincia all’alba con la recita della preghiera del mattino e si conclude con la preghiera della sera.
Lo studio dei versi impegna l’allievo per diverse ore al giorno, in alternanza con le faccende domestiche e il lavoro agricolo. La distribuzione dei compiti fra gli studenti è proporzionale all’età di ognuno. Secondo la tradizione, il maestro possiede alcuni terreni coltivabili, fonti di sostegno per la sua famiglia e per tutti i suoi discepoli. Le famiglie degli allievi contribuiscono raramente e in minima parte al mantenimento dei bambini, che spetta invece al maestro stesso. Per definizione, infatti, il marabout beneficia del sostegno divino per adempiere alla sua missione e ciò rappresenta per le famiglie la garanzia più importante della buona sorte dei propri figli.
Oltre a partecipare ai lavori agricoli, i bambini lasciano la daara negli orari dei pasti per percorrere il villaggio più vicino e chiedere del cibo di casa in casa, per necessità materiale, ma al tempo stesso affinché imparino il valore dell’umiltà. L’elemosina concessa ai piccoli costituisce una partecipazione reale della comunità alla formazione religiosa dei suoi giovani membri.

Pareri a confronto

Il modello della daara tradizionale presenta elementi di forza e di debolezza. Da un punto di vista pedagogico è riconosciuta l’efficacia della metodologia adottata riguardo allo sviluppo della memoria. Infatti, gli esercizi di memorizzazione ripetuti per diversi anni sembrano avere effetti prodigiosi sulla capacità di immagazzinare informazioni. È frequente incontrare allievi delle scuole coraniche che, avendo proseguito lo studio delle scienze islamiche, riescono a ricordare migliaia di versetti in lingua araba tra quelli che compongono le opere di teologia, di diritto e di grammatica.
Tuttavia, diversi studiosi avanzano molti dubbi rispetto all’efficacia di questa metodologia educativa, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della capacità di rielaborazione dei concetti, inibita dalla predominanza della facoltà mnemonica su quella analitica.
Va evidenziato che molti insegnanti della scuola pubblica elementare non sono dello stesso avviso, poiché la loro esperienza dimostra che, se l’allievo ha frequentato una daara per alcuni anni prima di essere introdotto nell’insegnamento laico, ha più facilità nell’apprendimento e recupera il ritardo sul programma in tempi relativamente brevi.
Nella stessa prospettiva, molti quadri senegalesi, sia del settore pubblico che privato, riconoscono negli anni trascorsi presso il loro maestro la chiave del loro successo sociale ed economico.
Tra gli elementi di forza del sistema va segnalato, infatti, che la scelta della daara da parte delle famiglie è giustificata non solo dal desiderio di rispettare le indicazioni coraniche riguardo all’educazione dei giovani musulmani, ma anche dalla promozione sociale che questi studi assicurano. L’hafitz (colui che ha completato lo studio del Corano), nel sistema tradizionale, gode infatti di un grande prestigio sociale.
Dal punto di vista dell’educazione morale, la permanenza prolungata presso la daara (per diversi anni) vuole creare le naturali condizioni per l’assimilazione dei principi morali e delle norme sociali che il maestro e la realtà comunitaria trasmettono.

Formazione integrale

Contemporaneamente all’istruzione, il sistema educativo coranico si propone di sviluppare la personalità del bambino, stimolando lo spirito comunitario tra i taalibe della stessa daara che per anni condividono momenti di studio, di lavoro e di quotidianità. La solidarietà fra i bambini è una conseguenza naturale della convivenza prolungata in condizioni difficili, che stimolano l’unione, al fine di superare le avversità di tutti i giorni.
A questo riguardo, tuttavia, sono pertinenti le considerazioni di P. Marty sull’autonomia pedagogica del maestro coranico, dalle cui qualità personali dipende interamente l’insegnamento dei principi morali, poiché non sottomesso a controlli estei di strutture superiori.
La lontananza fra bambini e genitori, che si protrae per anni, è in parte voluta dal sistema educativo della daara, che vede in questa separazione un fattore essenziale per il processo di crescita del giovane taalibe. Allo stesso tempo, i genitori si sentono autorizzati in molti casi ad abbandonare i bambini nelle mani del marabout, non facendogli visita per tutta la durata del soggiorno nella scuola e non informandosi del suo stato di salute.
Questo fenomeno può essere in parte giustificato sulla base delle difficoltà economiche, che impediscono alla famiglia di affrontare il viaggio per raggiungere la zona in cui si trova la daara, e della tradizione che prevede l’affidamento totale del bambino a un parente per consolidare i legami tra i membri della famiglia, fenomeno valido a maggior ragione se il congiunto in questione è un maestro spirituale.
Tuttavia, questi elementi di riflessione sulle cause del disimpegno genitoriale non trovano giustificazione nei testi sacri, poiché sia il Corano che la tradizione profetica insistono sulla responsabilità della famiglia, in primo luogo, rispetto all’educazione del bambino. Inoltre, non alleviano il dramma del sentimento di estraneità che si crea fra il bambino, allontanato troppo presto dal nucleo famigliare, e i genitori, che può essere accompagnato da frustrazione e senso di abbandono. Il rapporto affettivo con il maestro coranico può compensare solo in parte il vuoto lasciato dai genitori, poiché questi è responsabile di diverse decine di bambini tra i quali deve dividere le proprie attenzioni.

Studio e lavoro

Riguardo alle prove che il bambino deve superare nel suo percorso di formazione in seno alla daara tradizionale, è fondato il dubbio che possano essere eccessive per la giovane età dell’allievo, poiché il taalibe può raggiungere livelli di sofferenza che rischiano di inibie lo sviluppofisico e intellettuale.
La carenza di riposo, date le poche ore di sonno concesse fra la sessione serale di studio e la sveglia mattutina per pregare (si tratta solitamente di un tempo inferiore alle sei ore), e le rare occasioni di vacanza, possono sul lungo periodo indebolire il fisico del bambino.
Solo una minoranza dei maestri è favorevole all’interruzione delle lezioni e al ritorno presso la famiglia, in occasione delle feste religiose della Korité, la festa della rottura del digiuno del mese di Ramadan (il nono mese dell’anno lunare) e della Tabaski, la festa del sacrificio (celebrata nel dodicesimo mese dell’anno lunare, in ricordo della fede di Abramo, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per obbedire a Dio).
Molto più comune è l’usanza di consacrare il riposo settimanale, dal mercoledì pomeriggio al venerdì pomeriggio, e le ricorrenze religiose ai lavori domestici o al ripasso delle lezioni apprese. I maestri coranici ritengono in genere che una pausa possa interferire negativamente sulla concentrazione dei taalibe, che una volta rientrati alla daara dovranno spendere più energie per riprendere il ritmo di studio abituale. Per questa ragione molti allievi non rientrano presso la casa patea, che una volta completato lo studio integrale del Corano.
Riguardo ai metodi correttivi adottati, va rilevato che in alcuni casi è stata constatata una dismisura nel ricorso alle punizioni corporali. Poiché oltre al maestro, anche i taalibe più grandi sono autorizzati a punire il discepolo, gli atti di questi ultimi, a causa dell’immaturità, possono degenerare in gravi incidenti.

Le scuole migranti
 
Le considerazioni fatte riguardano il sistema della daara tradizionale, che, per quanto austero, garantisce le condizioni essenziali di sicurezza e di crescita del bambino. Esse assumono, invece, una connotazione grave se analizzate alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema delle scuole coraniche nella seconda metà del XX secolo.
Come abbiamo detto, l’insegnamento coranico tradizionale si sviluppa originariamente in ambito rurale, in una dimensione comunitaria di villaggio, dove i piccoli taalibe, anche al di fuori della daara, beneficiano del controllo e della protezione sociale, su cui si basano i rapporti fra le famiglie che abitano lo stesso territorio.
Tuttavia, dopo l’indipendenza, esso non rimane indenne al fenomeno migratorio verso i centri urbani, che colpisce tutta la società senegalese.
Alla fine degli anni ’70, infatti, la situazione economica nazionale si trasforma rapidamente, a causa di lunghi periodi di siccità che colpiscono il paese, obbligando i contadini ad abbandonare i loro villaggi e a spingersi verso i poli economici in cui dominano settori diversi da quello agricolo.
L’esodo rurale, che spinge migliaia di persone verso le città, fa sì che le infrastrutture cittadine, ancora deboli, non riescano a contenere la pressione demografica, con un riversamento in direzione delle periferie dove si sviluppano distese di case abusive, le cosiddette fakk-dekk, costruite con materiali di recupero, sprovviste di tutti i servizi e in cui la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie precarie.
In queste circostanze si sviluppa il fenomeno delle scuole coraniche migranti, le noorane kat. Poiché, come tutti gli altri contadini, i marabutti installati nelle campagne hanno grandi difficoltà ad assicurare l’alimentazione delle decine di bambini che hanno in affidamento, sono costretti a trasferirsi verso le zone urbane.
Le scuole coraniche migranti si distinguono in due categorie: le scuole stagionali e quelle stanziali. Le prime si installano nelle periferie delle città solo durante i mesi della stagione secca, per cercare nei centri urbani i mezzi di sostentamento, poiché i terreni aridi non garantiscono più un raccolto sufficiente a coprire i bisogni di tutto l’anno.
Durante la stagione delle piogge, nel periodo che va da giugno a settembre, il marabout e i suoi discepoli tornano nel villaggio originario per praticare l’agricoltura.
Le scuole stanziali, invece, sono quelle in cui il maestro, proveniente da un’altra regione o dalle campagne, si trasferisce definitivamente con i suoi taalibe ai margini della città. Naturalmente il fenomeno migratorio non riguarda solo il nucleo famigliare del maestro, ma anche tutti i suoi discepoli, che egli porta con sé. Le famiglie stesse dei taalibe incitano il marabutto a trasferirsi, identificando nella migrazione l’unica soluzione di sopravvivenza per i loro figli ed, eventualmente, un’occasione di inserimento nel mercato del lavoro, che il villaggio non offre e che potrebbe portare beneficio a tutta la famiglia.

Sfruttamento e mendicità

Le conseguenze della migrazione verso i centri urbani sulle condizioni di vita dei taalibe sono spesso drammatiche, poiché la principale fonte di reddito del marabutto diventa la mendicità degli allievi, che ogni giorno, oltre a occuparsi del proprio nutrimento, devono assicurare una certa cifra che permetta al maestro e alla sua famiglia di sopravvivere.
È evidente che in questo contesto il rischio di sfruttamento del bambino è elevato. Egli si trova in un contesto estraneo, meno protetto rispetto alla realtà comunitaria di villaggio, esposto a nuovi pericoli, legati al traffico automobilistico, al rischio di abuso, alle condizioni igieniche e alimentari penose.
Le violenze subite dei taalibe che praticano la mendicità attirano sempre di più l’attenzione dell’opinione pubblica, che chiede allo stato e agli organismi inteazionali di intervenire per tutelare la salute fisica e mentale del bambino, pur conservando la tradizionale trasmissione del sapere religioso attraverso le scuole coraniche.
Il contesto urbano è inoltre più soggetto al fenomeno di installazione di scuole coraniche create da falsi maestri, che vedono nell’insegnamento una possibile fonte di reddito. In questi casi il bambino trascorre tutta la giornata per strada a raccogliere l’elemosina e, se interrogato sul verso coranico che sta imparando, risponde a stento e con una pronuncia scorretta i primi versi della fâtiha, la prima sura insegnata nelle scuole coraniche. In generale, il traguardo della memorizzazione del libro in questi casi non viene mai raggiunto.
In questi casi estremi, che non devono essere generalizzati a tutto il sistema delle scuole coraniche, il taalibe non beneficia né di un’istruzione in materia religiosa né di un accompagnamento nel suo processo di crescita e di formazione ai valori morali e sociali. Al contrario, le situazioni che vive quotidianamente possono compromettere profondamente il suo sviluppo, creargli traumi fisici e psicologici che lo accompagneranno per tutta la vita. 

Di Giulia Lanzarini


Giulia Lanzarini