Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello




102 giorni d’inferno e paradiso

Suor Caterina e suor Maria Teresa raccontano…

Rapite il 20 novembre 2008 a El Wak (Kenya), tenute prigioniere in Somalia per 102 giorni, le due suore del Movimento contemplativo missionario Charles de Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, una volta rilasciate, sono rimaste per alcuni giorni nella quiete della casa regionale dei missionari della Consolata a Nairobi. Una sera le ho «sequestrate» per fare una lunga chiacchierata sulla loro esperienza. E si sono arrese volentieri.

A  raccontare la loro brutta avventura è soprattutto suor Caterina, Rinuccia per le sue sorelle, donna minuta di 67 anni, che parla in modo dolce e quieto, ma con una grande forza interiore, ed è persino capace di sorridere e scherzare nel ricordare momenti anche buffi della loro prigionia. È infermiera e si arrangia con la lingua somala, in cui è chiamata con il nome di Khatra.
Suor Maria Teresa, 60 anni, è la più forte delle due. Alta, con mani grandi e forti da figlia di contadini, Mariam, come è chiamata in lingua somala, non parla molto. Così si limita a spalleggiare Khatra, con una voce che invita alla cautela, conferma, corregge, aggiunge, chiarisce e mette in guardia quando la potenza evocatrice dei ricordi supera la prudenza, per non rivelare cose che sarebbe meglio non dire. Ma quanta profonda e delicata sensibilità si notano in quelle poche parole e in quella voce profonda!
Dal loro racconto non sapremo molto sul perché furono catturate, sui negoziati ed eventuale richiesta di riscatto, su come furono liberate. Notizie di stampa locale e internazionale hanno riferito che i sequestratori erano miliziani di Al Shabaab e che la loro detenzione fosse a Mogadiscio. Sui giornali sono apparse anche congetture su un pagamento di riscatto e su uno scambio di prigionieri. La verità è gelosamente custodita da chi ha fatto il suo dovere in silenzio. Da parte mia ho evitato deliberatamente l’argomento durante la nostra conversazione.
So solo che il 19 febbraio, alle 3 del pomeriggio, una festosa telefonata mi informava che le due suore erano state liberate e, arrivate a Nairobi, erano state portate subito all’ambasciata italiana, da dove avevano potuto mettersi in contatto con le loro consorelle e confratelli. Ma lasciamo la parola a suor Caterina.
La cattura
Era circa mezzanotte. Dormivamo tranquille, sentendoci al sicuro nelle nostre stanze, protette dalle mura del recinto e due portoni di ferro, quando d’improvviso fui svegliata dall’inconfondibile scricchiolio del portone del cortile interno. Mi alzai allarmata, chiamai suor Maria e corsi alla finestra del soggiorno in tempo per vedere le luci di molte torce che avanzavano verso le nostre stanze. Poi si udirono degli spari, mitragliavano la porta della stanza di suor Maria.
Corsi indietro e mi aggrappai alla vecchia sirena a mano (foitaci negli anni ‘70 da padre Giovanni Bonzanino!). Suonai l’allarme girando la manovella con tutte le mie forze per diversi minuti, finché sentii sparare anche contro la mia porta.
Mi resi conto che ero ancora in pigiama; mi vestii in fretta e mi nascosi dietro un armadio (mi viene da ridere pensando alla mia ingenuità!), mentre la porta stava crollando sotto la gragnola di proiettili. Entrò un giovane, si diresse verso il mio letto. Non c’ero. Guardò in giro, mi scorse, mi afferrò una mano, uno strattone e mi ritrovai in terra come un sacco di patate. Mi trascinò fuori senza complimenti e … senza scarpe.
Suor Maria era già fuori, con una torcia in mano. Prima che la sua porta fosse sfondata, aveva tentato di chiamare aiuto con il telefono mobile, ma nessuno aveva risposto.
Spintonate dai nostri sequestratori, arrivammo al portone esterno: un colpo di fucile mandò in frantumi il grosso lucchetto nel quale avevamo riposto tanta fiducia. Trascinate e strattonate, attraversammo a passo svelto l’intero villaggio di El Wak. Io gridavo aiuto con tutta la mia voce, mentre il mio sequestratore mi picchiava dietro la testa: «Silenzio! Silenzio!».
Poi caddi a terra lunga e distesa. Ero scalza. Era buio. Mi spingevano. Sentii sul collo la canna di una pistola, ma continuavo a gridare. In quel momento cominciai a sentire interiormente che non ci avrebbero ucciso. Volevano farci prigioniere. Cadde a terra anche suor Maria. La colpirono in testa con il calcio del fucile. Cominciò a sanguinare; per fortuna la ferita era superficiale.
Alcune automobili ci aspettavano. Mi gettarono di peso dentro una di esse senza complimenti: ero troppo esausta per reagire. Maria si sedette al mio fianco. Aspettammo un poco. Da quel momento cominciammo a pregare. Una preghiera continua. Si udì un’improvvisa scarica di armi da fuoco proveniente dalla città: il cuore ci batteva forte; qualcuno veniva a liberarci. Speranza vana. I nostri sequestratori si raggrupparono, balzarono nelle auto e si gettarono dritti nella boscaglia. Passammo vicino a El Uach, il villaggio somalo opposto a El Wak, e continuammo per oltre un’ora, finché ci fermammo e fummo trasferite in una comoda Range Rover dai vetri scuri.
Alcuni sequestratori si avvicinarono al finestrino; avevano telefonini cellulari. Uno ci mostrò una foto: «Lo conosci?». Era l’inconfondibile faccia di Bin Laden! «Sì» rispose suor Maria. Il cuore sembrava scoppiare: eravamo proprio in «buone» mani! «Siamo di Al Shabaab» dissero, poi domandarono: «Siete musulmane o pagane?». «Siamo persone che amano tutti nel nome di Dio» rispose suor Maria: una risposta ispirata da Dio! Da allora non ci fecero più simili domande.
Cinque giorni fuori pista
Viaggiammo tutta la notte, fino alle quattro del pomeriggio seguente, senza cibo né acqua. Avevo grande bisogno di zucchero o di sale per la mia pressione. Lo chiesi, ma fecero orecchie da mercante. Quando finalmente ci fermammo, il capo del gruppo disse: «Ora mangiamo pastò». Intendeva pastasciutta. Ci sedemmo al sole accanto all’auto; dopo un po’ ci portarono un grosso piatto di spaghetti, luccicanti di olio e qualcos’altro. Assaggiai. Era zucchero! Dopo 16 ore di viaggio e la pressione che continuava a scendere, anche gli spaghetti allo zucchero potevano andar bene.
Ma il vero problema era l’acqua. Quella disponibile l’avevano usata tutta per cuocere gli spaghetti. Rimanemmo senza bere fino la sera del giorno seguente, quando arrivammo a un villaggio e le auto si fermarono accanto alla moschea, da cui la gente era appena uscita. Qualcuno ci portò una tazza di tè: era meraviglioso; dopo 40 ore di viaggio quel tè aveva gusto di paradiso! Vedendo la gioia e gratitudine con cui lo avevamo bevuto, ce ne portarono un altro; poi un uomo arrivò con un piattino di riso e due cucchiai; un altro con un piattino di nyieri-nyieri, gustosa carne fritta nell’olio cucinata solo in speciali occasioni di festa. Fu poi la volta di una tanichetta d’acqua da 3 litri e una bustina di shampoo: così suor Maria poté lavarsi la ferita.
Fummo portate in un luogo nascosto, nell’alveo secco di un torrente, dove ci avevano preparato una stuoia su cui dormire, al chiaro di luna. Dato che ero scalza, il vice capo mi prestò le sue scarpe per raggiungere lo spiazzo. Faceva freddo e avevo niente per coprirmi, allora lo stesso corse al villaggio e toò con un grande lenzuolo. Cominciammo a dormire, un sonno agitato, mentre anche i sequestratori si coricarono in circolo attorno a noi, sempre stretti ai loro fucili e lancia razzi. Erano tutti ragazzi giovani, eccetto il capo.
Al mattino riprese il viaggio verso sud, su percorsi fuori pista. Dormimmo per qualche ora e di nuovo in viaggio, finché dovettero fermarsi per problemi meccanici. Per quasi tutto il giorno rimanemmo in quel posto isolato, senza cibo e senza acqua. Suor Maria ebbe un momento di panico. Dei tre litri restavano solo un paio di bicchieri d’acqua bianchiccia e fangosa: fu la molla che fece scattare le nostre paure: prigioniere, in mano a sconosciuti, per ragioni ignote, in terra deserta…
Riuscimmo, tuttavia, a riprendere il controllo di noi stesse. Arrivò il tramonto e la sete divenne più sopportabile. Per la prima volta riuscimmo a recitare un rosario per intero. Fino a quel momento avevamo pregato sempre, in continuazione, ma solo con brevi invocazioni, come «Signore, salvaci». Ci aiutava a restar calme.
Appena finito il rosario, fummo portate alle auto. La «nostra» Range Rover era pronta alla partenza. E proprio in quel momento arrivò il meccanico con una tanica da 20 litri d’acqua. Ognuno se ne prese una bottiglia, anche noi; ma il vice capo ci diede un extra, prese la nostra tanichetta, la riempì e ce la consegnò. Una gentilezza che apprezzammo molto.
Era già buio, ma il capo decise di lasciare il gruppo con le macchine rotte e proseguire da solo con la Range Rover, con dentro noi e altri due uomini. Guidò per 20 ore di seguito, giorno e notte. Eravamo arrivati così a sud, da perdere la direzione; dopo aver chiesto spiegazioni via cellulari, il capo fece salire un uomo che ci guidò verso una grande città, che immaginammo dovesse essere Mogadiscio.
la prigionia
Dopo 5 giorni di terribile viaggio, eravamo finalmente in una casa. La padrona sapeva del nostro arrivo. Ci diede un vestito nuovo ciascuna, acqua per bere e per lavarci e un materasso per dormire. Quella notte riuscimmo a riposare.
Il giorno seguente il capo stesso, con voce severa, ci ricordò che saremmo morte se le trattative fossero fallite. La minaccia ci lasciò di ghiaccio. Eppure ci sentivamo molto forti. Fin dall’inizio di quella dura prova avevamo fatto lo stesso proposito: affrontare con pace interiore qualsiasi cosa fosse capitata; così instaurammo un rapporto il più positivo possibile con i nostri rapitori. Per grazia di Dio, non abbiamo mai avuto sentimenti di rabbia, odio o avversione verso di loro.
Nella città, sebbene più volte trasferite da un posto all’altro, fummo tenute in stanze abbastanza larghe; avevamo due materassi e due cuscini e qualche vestito di ricambio; là ci fecero indossare il burka e coprire i capelli. Rimanevamo chiuse nella stanza tutto il giorno; ci era permesso di uscire solo per i bisogni fisiologici. Solo nelle ultime 4 settimane ci fu consentita un’ora all’aria aperta nel sole di mezzogiorno.
A parte ciò, ci trattavano sempre con rispetto e cortesia, provvedendoci cibo buono e abbondante. Un giorno uno di loro ci presentò un libro. «Lo conoscete? The Holy Bible!». Ci spiegò che avevano ucciso un soldato straniero e gli avevano trovato quella Bibbia in tasca; ora era lì per noi. Un regalo stupendo, che accettammo con immensa gioia.
La usammo molto, ma con prudenza, per non provocare discussioni su argomenti religiosi. Infatti avevamo qualche problema con uno dei giovani carcerieri alquanto zelante. Per cui, un giorno ne parlammo al vice-capo, che era sempre stato gentile con noi. Raccontammo come eravamo ammirate per il loro comportamento: tutti disciplinati, mai un litigio o parole irriguardose, non facevano uso di tabacco e alcolici né masticavano miraa (la droga così comune tra i somali!), sempre rispettosi nei nostri riguardi e verso le donne in generale. C’era solo quel giovane miliziano che ogni tanto ci metteva in imbarazzo. Da quel giorno il giovane ci lasciò in pace e ci trattò con gentilezza.
Per 40 giorni (nella nostra comunità siamo allenati ai 40 giorni! [Ndr. i 40 giorni di deserto e preghiera che caratterizzano la vita spirituale dei contemplativi missionari]) riuscimmo a conservare il morale discretamente alto. Certo, avevamo paura. Chi non ne avrebbe avuta in tale situazione, con uomini sempre armati di fucili e bombe, sempre pronti a vantarsi delle loro uccisioni? Ma resistevamo, e non abbiamo mai perso la nozione del tempo. Suor Maria aveva ancora il suo orologio; il mio si era rotto mentre mi trascinavano a El Wak. Eravamo anche riuscite a compilare un calendario di fortuna, con un pezzo di carta e un mozzicone di matita trovato sul davanzale di una finestra.
Avemmo un momento di grande apprensione il 23 dicembre, quando uno dei carcerieri ci disse che le trattative per il nostro rilascio erano ferme. Seduto nella nostra stanza, ci riferì la notizia in modo calmo e cortese, provando perfino a consolarci e condividendo il nostro dolore. Ma fu terribile. Ci sentivamo tradite, abbandonate, sole, impotenti, e ferite nel profondo dell’anima.
In tale stato d’ansietà celebrammo il natale; abbiamo pregato, letto i passi biblici della natività di Cristo; sentivamo Gesù profondamente presente, lì, prigioniero con noi. Ma fu un momento di grande oscurità, durato fino alla fine dell’anno. Poi cominciarono a trapelare notizie migliori.
la forza della preghiera
A darci coraggio era la preghiera. All’inizio eravamo persino incapaci di pregare insieme; pregavamo molto, ma ognuna per conto suo. Poi cominciammo a pregare insieme la sera; alla terza settimana ci eravamo già organizzate bene: lodi mattutine, vespri serali, 4-5 rosari durante la giornata e la partecipazione mentale alla messa, momento per momento, con comunione spirituale.
Per la recita dei salmi ci aiutavamo a vicenda ricordandoli a memoria. Naturalmente il primo che ci venne in mente fu: «Il Signore è il mio pastore». Lo sapevamo bene ed era proprio giusto per la nostra situazione. Poi il salmo 103, «Benedici il Signore, anima mia!». Il salmo 63 era sempre sulle nostre labbra: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco». Riuscivamo a ricordae abbastanza bene circa 15; ne recitavamo sei-sette nella mattinata; gli altri alla sera, ripetendoli anche due volte. Pregavamo con molta calma: non avevamo altro da fare tutto il giorno.
Pregavamo sempre a bassa voce, per non attirare l’attenzione. Non osavamo cantare. Solo nelle ultime settimane trovammo il coraggio di intonare qualche canto, perché la nostra stanza era la più isolata, lontano dalle orecchie dei nostri custodi.
Per mantenerci occupate camminavamo su e giù per la piccola stanza, fino a stancarci. Andando avanti e indietro, recitavamo il rosario, tanti rosari. A ogni Ave Maria inserivamo qualche giaculatoria: «Gesù, io confido in te»; «Spirito Santo illuminaci, guidaci ogni istante della giornata»; «Madre nostra, Maria, aiutaci a ringraziare»… Un rosario poteva durare più di mezz’ora. Pregare in quel modo era un balsamo per noi. Ci ha aiutato tantissimo.
Nei vespri serali avevamo un’occasione per ringraziare con il Magnificat. Ringraziare! Era molto importante per noi. Forse dovuto all’insistenza e formazione instillateci dal fondatore della nostra comunità, il ringraziamento è sempre stato parte della nostra preghiera, anche in quei giorni difficili. Ogni giorno avevamo motivi per rendere grazie.
La Parola di Dio ci accompagnava tutto il giorno. Ripetevamo spesso passi o versetti più familiari della Parola di Dio. A volte usavamo la Bibbia che ci avevano dato. Alcuni versetti ci venivano facilmente in testa, come «venite a me voi che siete stanchi e oppressi…» e «ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti perseguitano». Citazioni molto significative, che ci aiutavano a illuminare, rinnovare, correggere ogni giorno la nostra relazione con quelli che ci stavano vicino in quei momenti. Quando li sentivamo pregare, anche noi pregavamo per loro. Invocavamo lo Spirito Santo perché operasse in loro.
Eravamo convinte che lo Spirito fosse al lavoro, anche in quella difficile situazione. Non che fosse facile. Anzi! C’erano momenti di sconforto, come quando ci sentivamo abbandonate con la sensazione che Dio fosse lontano: «Perché non rispondi? Fai presto, aiutaci. Liberaci!». Eravamo tentate di perdere la speranza, di cadere nella più nera disperazione. Ma poi… «Se tu non fossi qui, Signore, cosa sarebbe di noi? Cosa potremmo mai fare?». Non era possibile dubitare. Sentivamo davvero che il Signore era lì con noi, prigioniero anche lui con noi!
Esperienza di Paradiso
È stata molto, molto dura… tante lacrime, non solo interiori. Molte ore insonni; l’angoscia che ti prendeva dentro; essere sveglia e sentire accanto la sorella piangere nel sonno… ti trafigge il cuore; e pensi: «Sto già soffrendo troppo! E se anche lei patisce tanto dolore, come faremo a sopravvivere?».
Tale esperienza ci faceva sentire più vicine al Cristo crocifisso. Un giorno ci siamo persino dette che dovevamo essere grate a Dio perché avevamo il privilegio di condividere la passione di Cristo. Tale pensiero non veniva da ragionamento, era piuttosto un’intuizione, ma ci fu di grande aiuto. La sofferenza di Gesù, il suo essere tradito, la sua debolezza, come agnello portato al macello… ci siamo sentite anche noi così: impotenti, spoglie, indifese, inermi di fronte a una realtà fuori del nostro controllo.
Eravamo certe che la nostra comunità, i parenti e tantissime persone erano con noi e ci stavano sostenendo con la preghiera. Ma in realtà eravamo sole, senza contatti, senza notizie, senza risposte alle nostre mute domande. Era un’esperienza di purificazione. Crescevamo nella fede giorno dopo giorno, ma era una fede nuda, oscura… proprio «come succhiare un chiodo», come usava dire il nostro fondatore. Ma era fede. Sapevamo che il Signore era lì con noi. Recitando il rosario, sperimentavamo la presenza della nostra Madre, lì, con noi. Era un continuo scorrere di grazia. Al tempo stesso era una croce, nella sua totalità, senza sconti.
Sentivamo entrambe che lo stare insieme era una benedizione. A un certo punto, percepimmo che stavamo vivendo un’esperienza di paradiso: mai nella vita ci eravamo sentite così legate da affetto, profonda comunicazione e solidarietà. Stavamo vivendo l’una per l’altra.
Non che fossimo senza problemi. In certi momenti eravamo così tese e stanche da non riuscire a sopportarci a vicenda. Brevi momenti dolorosi, ma lo capivamo; era normale. Si cercava di evitare parole inutili, pesanti… per non aggravare il già pesante fardello che dovevamo portare.
Abbiamo imparato a condividere tutto, persino le sofferenze più segrete. Come quando suor Maria mi vide piangere nel sonno: non aveva il coraggio di dirmelo, le sembrava troppo; ma poi decidemmo che anche quei momenti dovevano essere condivisi, perché una sofferenza così forte che per notti e notti non ti permette di dormire può essere lenita solo condividendola.
Il futuro
Due ore prima di salire sull’aereo ci fu detto che eravamo libere. Fu una gioia incredibile. E ora siamo qui e ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e solidarietà, da tutti gli angoli del mondo.
Anche i nostri amici musulmani di El Wak e Mandera hanno pregato per noi dal primo giorno della nostra prigionia. Ora ci chiamano ogni giorno, chiedendoci di ritornare. Molti di loro non riescono neanche a parlare al telefono, si mettono a piangere. Hanno fatto tanto per noi, pregando ed insistendo con gli anziani per la nostra liberazione. I poveri, i malati, le madri, i vecchi… erano tutti dalla nostra parte. Ma i poveri non han potere né voce!
Toeremo? Preghiamo e speriamo, ma non sappiamo. Il nostro futuro è nelle mani di Dio! 

Di Luigi Anataloni

Luigi Anataloni




Dialogo e libertà… controllata

Intervista al cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville

Dal 1976, quando in Vietnam è stato instaurato il regime comunista, i cristiani sono oggetto di repressione; le tensioni sono ancora forti nel nord del paese. La chiesa reclama la restituzione delle migliaia di proprietà confiscate, ma il governo, l’8 gennaio scorso, ha chiuso definitivamente il discorso. Nel sud le relazioni tra stato e chiesa stanno migliorando, grazie anche al dialogo a oltranza perseguito dal cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville.

L a stupenda casa coloniale che ospita l’arcivescovado di Ho Chi Minh Ville, inizia a tingersi di rosa quando i caldi raggi di sole dell’alba vietnamita pennellano l’aria circostante. Di fronte alla cancellata, un ritratto di Ho Chi Minh ricorda che il paese, pur irriconoscibile rispetto a 30 anni fa, è pur sempre una delle ultime nazioni a seguire un indirizzo ideologico socialista. È lo stesso cardinale Pham Minh Man ad accogliermi nel suo studio privato.
Classe 1934, Pham Minh Man ha trascorso gran parte della sua vita in Vietnam, sperimentando in prima persona gli orrori della guerra e le difficoltà che il paese ha dovuto superare dopo la liberazione. Nominato vescovo da Giovanni Paolo II nel 1993, alla guida della diocesi di Ho Chi Minh Ville dal 1998, è stato elevato al rango cardinalizio nel 2003.

Eminenza, nonostante il paese sia stato unificato nel 1976, lo sviluppo economico e sociale del Vietnam sembra procedere su due differenti binari. Immagino che anche con la chiesa cattolica, il governo mantenga due tipi di approccio, come dimostra la recente diatriba con l’amministrazione di Hanoi sulla restituzione dei terreni confiscati negli anni ‘50. È davvero così diverso il rapporto che la chiesa deve instaurare con le amministrazioni del Nord e del Sud Vietnam?
La difficile situazione al Nord è data da una mancanza di dialogo e dall’oggettiva difficoltà di cornoperare con le autorità delle regioni settentrionali, ancora sospettose della religione. Quando andammo nella visita ad limina a Roma, il papa Giovanni Paolo II, che aveva una grande esperienza di vita e di confronto con i regimi comunisti, ci disse di perseverare con il dialogo, raccomandandoci di essere sempre sinceri e franchi, in modo da cornoperare per lo sviluppo del paese e del popolo vietnamita. E questo è quanto cerchiamo di fare.

Di recente i media hanno ipotizzato una visita papale in Vietnam. Non le chiedo quanto siano fondate queste voci, ma vorrei sapere: il governo vietnamita sarebbe pronto a ricevere una visita del papa?
Posso rispondere sì e no allo stesso tempo, perché non tutti i membri del governo vietnamita hanno la medesima visione nel valutare una eventuale visita papale. Dipende dalle condizioni contingenti della situazione politica, sociale ed economica che vivrà il paese nel periodo in cui questa visita verrà proposta.

Questa continua ricerca di equilibrio di poteri all’interno del governo vietnamita mi permette di addentrarmi in un’altra domanda, più strettamente politica: la storica divisione della nazione vietnamita, non solo ideologica, ma anche culturale e religiosa, porta allo scontro di due fazioni che si dividono cautamente le cariche del potere per raggiungere un equilibrio più o meno precario: semplificando al massimo possiamo dire che i membri del governo originari del Sud fanno parte della fazione progressista, aperta ai cambiamenti, mentre i membri originari del Nord sono più conservatori. Quale fazione prevale attualmente?
Effettivamente all’interno del governo vietnamita c’è una parte di membri che vuole cambiare lo stato delle cose anche in modo non repentino, mentre un’altra ostacola questa visione. La supremazia dell’una o dell’altra fazione non è sempre così chiara perché il bilanciamento delle forze si basa sulla contrattazione sulla base del do ut des.

La politica dei paesi si ripercuote anche sullo sviluppo interno della chiesa locale; così, seppur vicine, la chiesa vietnamita si è sviluppata in modo completamente differente da quella cinese: in Vietnam, ad esempio, non esiste la chiesa patriottica.
Ho avuto l’opportunità di conoscere la chiesa in Cina e di avere scambi di opinione con fedeli e preti cinesi. Noi abbiamo già conosciuto la situazione che la Cina sta attraversando attualmente: prima degli anni ‘80 avevamo anche noi due chiese, anche se il contesto era differente. La chiesa cattolica in Cina è chiamata chiesa «sotterranea» perché non riconosciuta dal governo. Allo stesso modo anche noi, nel Nord del Vietnam, prima degli anni ‘80, avevamo una chiesa non riconosciuta, con vescovi e preti nominati dal Vaticano, ma che erano impossibilitati a esporsi in pubblico. Nonostante questo riuscivamo ad avere contatti con il Nord e quindi in qualche modo la chiesa vietnamita era una chiesa unita e completamente in comunione con il Vaticano.
La situazione era chiaramente più aperta e libera al Sud, ma dopo che nel 1980 la Conferenza dei vescovi vietnamiti riunificò la chiesa, anche al Nord i preti cominciarono a esporsi pubblicamente. Al Sud, grazie al Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha sempre cercato di avere buoni rapporti con il governo, per cornoperare a ricostruire la società e per il benessere, sociale e morale, del popolo vietnamita. Forse è anche grazie a questo corso storico, che ci ha permesso di assorbire un’esperienza di apertura e di dialogo, che oggi al sud abbiamo un confronto meno turbolento che al Nord.

Eppure questo confronto non è sempre stato esemplare per i cattolici: negli anni ‘60, il presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, non è certo stato un esempio di virtù: non pensa che abbia nuociuto alla chiesa cattolica una figura di questo genere?
Non condannerei completamente Diem. In certi aspetti è stato un buon presidente. Gli uomini che lo circondavano forse non erano all’altezza.

Un buon politico dovrebbe però saper scegliere gli uomini giusti.
Su questo ha ragione e in tal senso non è stato un buon politico.

L’area di Ho Chi Minh Ville è un melting pot di religioni: cattolicesimo, evangelisti, protestanti, buddisti, caodaisti, Hoa Hao… Come cornoperate con tutte queste religioni?
L’unico modo attraverso cui possiamo cornoperare insieme è tramite le attività sociali. Ma fino ad oggi a tutte le religioni è stato proibito lavorare nel campo sociale. Due anni fa i vescovi vietnamiti sono andati a parlare con il presidente del Vietnam, chiedendogli di potere iniziare a svolgere anche opere sociali. Il presidente promise che avrebbe cercato di risolvere il problema. Lo scorso anno ci siamo incontrati con il primo ministro, ribadendo la nostra richiesta e pochi mesi fa ci siamo incontrati anche con il direttore dell’ufficio degli Affari religiosi, i cui funzionari sono venuti appositamente da Hanoi per incontrarmi. Ci siamo lasciati con l’intento di organizzare una riunione con tutti i rappresentanti delle organizzazioni religiose operanti in Vietnam. Verranno raccolte le intenzioni avanzate dalle diverse chiese, per portarle poi all’attenzione del primo ministro e ai ministri interessati alle singole proposte. La nostra speranza è che il governo permetta a tutte le organizzazioni religiose di operare anche in campo sociale: scuola, educazione, sanità… Purtroppo non sappiamo quando questo sarà possibile. La buona volontà sicuramente c’è, ma i tempi burocratici sono molto lunghi.

Eppure già oggi la chiesa cattolica a Ho Chi Minh Ville è coinvolta in opera a sfondo sociale con partner governativi o con organizzazioni straniere ufficialmente rappresentate presso il governo vietnamita.
Non la chiesa cattolica direttamente, ma individui appartenenti alla chiesa cattolica, che lavorano in questi campi a titolo personale. Abbiamo preti, catechisti e singoli fedeli che cornoperano con organizzazioni non governative o con enti sociali, ospedali, dispensari. Quando l’attuale presidente del Vietnam era sindaco di Ho Chi Minh Ville, mi scrisse una lettera, invitandomi a mandare religiosi presso i ricoveri per anziani gestiti dal governo. Sedici organizzazioni religiose hanno mandato più di 100 volontari che ancora oggi collaborano con le strutture governative.
Ora vorremmo aprire un centro in Ho Chi Minh Ville per curare le persone colpite da Hiv. Abbiamo comperato la terra, registrato il progetto e svolto tutte le pratiche burocratiche per iniziare la costruzione.
Ad Hanoi, la chiesa sta protestando per poter ottenere i terreni su cui costruire opere sociali; quanto è difficile per la chiesa del Sud ottenere i permessi per costruire, non solo opere sociali, ma anche chiese?
Qui al Sud è relativamente facile, ma ci vuole tempo. Abbiamo almeno otto nuovi luoghi in cui stiamo costruendo, o intendiamo costruire, campus, chiese, ospedali, dispensari. Almeno quattro diverranno parrocchie. Il numero dei cattolici sta aumentando rapidamente e abbiamo bisogno di nuovi centri di aggregazione. Abbiamo comperato degli appezzamenti di terra in aree che erano considerate depresse, isolate e abitate da povera gente. Oggi, con il forte sviluppo economico e imprenditoriale di questa città, tutte queste aree sono diventate o stanno per diventare nuovi centri residenziali.
Le voglio raccontare un fatto divertente: nel 1998 ero in un’area depressa e in 4 anni il numero dei cattolici era salito da poche unità a 400. Necessitavamo di una chiesa. Comprammo la terra e chiesi il permesso alle autorità, ma per un anno non ricevetti risposta. Nel 2004, una rappresentanza di fedeli della parrocchia mandò una lettera alle autorità locali, dicendo che volevano farmi un regalo molto speciale per i miei 70 anni: costruire una chiesa. Due mesi dopo un funzionario governativo contattò questo gruppo di fedeli, chiedendo loro dove avrei voluto celebrare la posa della prima pietra. Era il marzo 2004. Dissi loro che avrei voluto celebrare la messa prima della fine del mese: un periodo strettissimo per i tempi vietnamiti e non avrei mai creduto che potessimo ottenere i permessi necessari. E invece, con grande meraviglia di tutti, i permessi arrivarono e entro la fine del mese di marzo 2004 potei celebrare la posa della prima pietra. Partecipò una folla composta da più di 1.000 persone cattolici, buddisti, caodaisti, hoa hao. Le ho raccontato questa storia per dimostrare il grande potere di convincimento che la gente comune può avere verso il governo.

Da allora quali passi avanti sono stati compiuti?
Ora abbiamo comperato 20 ettari di terra in un’altra area per costruire con le suore di Madre Teresa un centro per malati di Hiv. Era un’area paludosa bonificata e una compagnia di Taiwan vi costruirà un nuovo quartiere. Hanno comprato questa terra per 3 dollari al metro quadro, rivendendola poi a 50 dollari. Oggi un metro quadro di quello stesso terreno vale 3 mila dollari. Noi l’abbiamo acquistato all’inizio, quando nessuno voleva comprarlo perché troppo isolato e lontano dalla città. La compagnia ci propose di comprare questo terreno per costruire un asilo, in modo da attrarre gente. «Se la gente vede che la chiesa cattolica costruisce un asilo, allora sarà più invogliata a venire ad abitare in questo nuovo quartiere» ci dissero. Oggi, dopo 10 anni, il nuovo quartiere è considerato un quartiere modello nel District 7. L’asilo ha 300 bambini, mentre ogni domenica alla messa assistono circa 200 persone, di cui almeno 150 sono colf immigrate dalle regioni settentrionali.

E il governo come giudica questo espandersi della chiesa cattolica?
È stato favorevolmente impressionato da questa nostra presenza, tanto da concederci il permesso di costruire non solo un asilo e chiesa, ma una vera e propria missione che scaturisca dai bisogni della gente.

Pensa che questa visione favorevole dell’impegno sociale della chiesa da parte delle autorità del Sud, possa favorire il dialogo anche in settentrione?
Nel Nord c’è molta più difficoltà per diverse ragioni: il governo è tradizionalmente meno aperto alle innovazioni e la chiesa del Nord non ha sufficienti preti.

Come vede la chiesa vietnamita in un prossimo futuro? Sarà possibile avere in Vietnam missionari stranieri?
Le confido un segreto che sanno tutti: oggi in Vietnam ci sono già molti preti stranieri. Ovviamente non sono presenti sul territorio in forma ufficiale, ma tutti sanno che ci sono, anche gli stessi funzionari del governo. Lavorano nell’educazione e sanità, alcuni sono studenti di lingua vietnamita, altri cooperanti.
Le racconto un aneddoto. Durante l’ultimo conclave, il primo giorno ci sedemmo per cenare e di fronte a me, per puro caso, c’era il futuro papa; alla mia sinistra due cardinali statunitensi, tra cui quello di Chicago, Francis George che, quando seppe che ero vietnamita, mi svelò che due suoi religiosi erano in Vietnam, naturalmente in veste non ufficiale. Risposi che in Vietnam c’erano molti religiosi dall’Europa, Canada, Usa, Australia, Giappone. Solo a Ho Chi Minh Ville ce ne sono almeno 40 in veste non ufficiale. Allora Francis George mi disse: «Penso che la polizia sappia chi siano veramente, ma chiude un occhio». Risposi: «La polizia nel mio paese non chiude mai gli occhi, neppure quando dorme».

Son convinto anche io che il governo sappia che e quanti siano i religiosi «camuffati» in Vietnam. Secondo lei come mai non li espelle?
Perché i tempi sono cambiati e sono cambiati anche i politici. Prima il governo vedeva la chiesa cattolica come un avversario politico e sociale. Oggi, invece, la vede come un partner con cui può cornoperare per costruire il bene del paese.  

Piergiorgio Pescali

scheda biografica

N ato nel 1934 a Hoa Thanh, nella diocesi di Can Tho, nell’estremo sud del Vietnam, Jean-Baptiste Pham Minh Man compie gli studi secondari e la preparazione umana e spirituale nel seminario minore di Pnompenh (Cambogia) dal 1946 al 1954. Quindi viene inviato al seminario maggiore di San Giuseppe di Saigon (oggi Ho Chi Minh Ville) dove studia filosofia (1954-1956). Dopo un periodo di insegnamento nella scuola secondaria, nel 1961 riprende gli studi di teologia nel seminario maggiore di Saigon ed è ordinato sacerdote nel 1965 nella cattedrale di Cân Tho.
Giovane sacerdote insegna presso il seminario minore Beato Quy a Cai Rang (Can Tho), finché il vescovo lo manda, nel 1968, negli Stati Uniti per studiare presso l’Università di Loyola a Los Angeles. Rientrato nel 1971 in Vietnam, riprende l’insegnamento presso il seminario minore Beato Quy, fino al 1974.
Con la fine della guerra Usa-Vietnam (1975), la riunificazione del paese e l’estensione del regime comunista anche al Sud-Vietnam, il governo chiude o confisca alla chiesa strutture e centri per le attività pastorali, educative e caritative, come seminari, scuole, ospedali. In tale situazione, don Jean-Baptiste è incaricato della formazione sacerdotale. Dal 1976 al 1981 i seminaristi vengono formati insieme, secondo le limitate disponibilità di strutture; dal 1981 al 1988 sono distribuiti nelle parrocchie per completare la formazione, almeno dal punto di vista pastorale, con l’aiuto dei parroci e laici. Nel 1988, il governo concede di riaprire sei seminari maggiori in tutto il Vietnam e don Jean-Baptiste Pham viene nominato rettore del seminario di Cai Rang. Un incarico difficile a causa di concrete difficoltà: locali ridotti, mancanza di professori, anche perché dal 1975 nessun sacerdote può essere inviato all’estero per lo studio superiore delle materie ecclesiastiche.
Nel 1993 don Jean-Baptiste Pham è nominato coadiutore, con diritto di successione di mons. André Nguyên Van Nam, vescovo di My Tho. All’ordinazione episcopale sceglie come motto: «Come io vi ho amati». Nel 1996 si reca a Roma per la visita ad limina.
Nel mese di marzo del 1998, mons. Pham viene nominato vescovo di Ho Chi Minh Ville, sede vacante da tre anni. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo eleva alla dignità cardinalizia. Oggi la diocesi da lui guidata conta 316 sacerdoti e 209 parrocchie, 646 mila laici iscritti a 16 grandi associazioni cattoliche.

Benedetto Bellesi


Piergiorgio Pescali




OSPITALITÀ BASE PER LA MISSIONE

Anno paolino

All’epoca di Paolo il viaggiare era diventato meno rischioso e più confortevole che in ogni altra epoca, grazie al sistema stradale e di trasporto marino organizzato dall’impero romano. Ma per viaggiare era importante poter contare sull’ospitalità di parenti o amici nelle varie regioni dell’impero. L’ospitalità non era solo una virtù sociale, ma anche un’istituzione, soprattutto tra gli ebrei e i cristiani.
L’ospitalità cristiana trova i suoi antecedenti nella tradizione dell’antichità. In un’epoca in cui non c’era un’organizzazione alberghiera vera e propria, il nomade poteva spostarsi solo facendo conto di essere accolto benevolmente dalla gente che incontrava nei suoi spostamenti. Anche per i greci e i romani il rispetto per l’ospite era importante.  
Nei vangeli Gesù è spesso presentato come ospite in casa di varie persone, quali il fariseo Simone (Lc 7,36-50), il pubblicano Levi (Mc 2,15-17), gli amici Marta, Maria e Lazzaro (Lc 10,38-42; Gv 12,1-3). Gran parte dell’insegnamento di Gesù e vari suoi miracoli avvengono in case ove Gesù è ospite. L’attività di Gesù si situa nel contesto della casa, ove si svolge la vita concreta di ogni giorno. Gesù è venuto a dare senso alla vita quotidiana, al rapporto feriale tra le persone. La buona notizia è «vangelo» per la casa, la famiglia.
Negli Atti degli Apostoli, il libro della missione, la prima persona a ospitare Paolo fu un certo Giuda di Damasco che abitava nella Via Diritta (At 9,11), un nome rimasto fino a oggi, in arabo, Darb al-Mustaqim. Preparando il viaggio a Damasco, Paolo aveva forse prenotato una stanza in questa casa (At 9,1-3) e Giuda fu probabilmente sorpreso, vedendo arrivare un Paolo diverso da quello che si aspettava, un uomo accecato e umiliato invece del fiero e violento persecutore.
Probabilmente dopo l’arrivo di Anania, che impose le mani su di lui e lo guarì della sua cecità (At 9,17), Paolo venne ospitato in casa di qualche famiglia cristiana di Damasco. In seguito, a Gerusalemme, Paolo fu ospite di Pietro: «Tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro» (Gal 1,18). Ma è soprattutto nella seconda parte di Atti, nei viaggi missionari di Paolo, che incontriamo tutta una serie di persone che ospitano Paolo, rendendo così possibile i suoi spostamenti missionari.

A Filippi in Macedonia, Lidia, la prima donna europea a diventare cristiana, invita Paolo e Sila a casa sua, dicendo loro: «Se siete convinti che ho accolto sinceramente il Signore, siate miei ospiti». E li «costrinse» ad accettare. La casa di Lidia divenne così il centro della comunità cristiana di Filippi. Sarà a questa casa che Paolo e Sila ritoeranno a salutare la comunità dopo essere stati imprigionati e liberati (At 16,40). A Filippi Paolo e Sila furono anche ospiti, per breve tempo, del carceriere romano e della sua famiglia dopo che furono liberati (At 16,34).
A Tessalonica Paolo venne ospitato da un certo Giasone (At 17,5), la cui casa fu assaltata da un gruppo di fanatici giudei che volevano catturare Paolo, accusato di sovvertire il popolo. Non trovando Paolo, prendono Giasone e lo accusano davanti alle autorità cittadine di ospitare dei sobillatori dell’ordine pubblico.  
A Corinto Paolo trovò degli ospiti eccezionali nella coppia Priscilla e Aquila che lo accolsero non solo a casa, ma anche come partner nel loro laboratorio di fabbricatori di tende, poiché anche Paolo faceva lo stesso mestiere (At 18,3). Mentre era ospite a casa di questa coppia, Paolo sentì il Signore rivolgergli queste parole: «Non aver paura, continua a parlare e non tacere: io sono con te; nessuno potrà farti del male. In questa città molti abitanti appartengono già al mio popolo» (At 18,9-10).  
Viaggiando verso Gerusalemme, Paolo e i suoi compagni arrivano a Tiro (80 km dall’attuale Beirut in Libano); «visitammo i discepoli di quella città e rimanemmo con loro una settimana» (At 21,4), rafforzando l’affetto tra Paolo e questa comunità, come testimonia la scena di addio: «Tutta la comunità, comprese donne e bambini, ci accompagnò, finché arrivammo fuori città. Qui ci mettemmo in ginocchio sulla spiaggia a pregare. Poi ci salutammo a vicenda: noi salimmo sulla nave, ed essi ritornarono alle loro case» (At 21,5-6).
Giunti a Tolemaide, «andammo a salutare i cristiani della città, restando con loro un giorno» (At 21,7). Arrivato a Gerusalemme, Paolo fu condotto «da un certo Mnasone, presso il quale trovammo alloggio» (At 21,16).
Molto toccanti le soste di Paolo prigioniero nel viaggio verso Roma, per essere giudicato dal tribunale imperiale. Dopo il naufragio e il soggiorno di tre mesi sull’isola di Malta, il viaggio riprende in nave da Malta a Siracusa, Reggio, Pozzuoli. Qui Paolo e i suoi compagni trovarono alcuni cristiani «i quali ci invitarono a restare una settimana con loro» (At 28,14).

L’apostolo poteva contare sull’ospitalità dei suoi amici.  Scrivendo a Filemone dalla prigione e prevedendo di essere presto messo in libertà, Paolo «prenota» una stanza a casa sua: «Prepara un posto per me, perché spero che le vostre preghiere riescano a farmi tornare in mezzo a voi» (Filem 22).  
Scrivendo ai cristiani di Roma che non conosce, Paolo ha tanta fiducia sulla loro accoglienza e solidarietà che chiede loro non solo di ospitarlo, ma di aiutarlo a preparare il suo viaggio missionario per la Spagna ove spera di andare (Rom 15,23-24).
Stessa fiducia nutre verso i cristiani di Corinto: «Ora passerò dalla Macedonia e poi arriverò da voi. Probabilmente resterò da voi per un po’ di tempo, forse anche tutto l’inverno. Così potrete foirmi i mezzi per proseguire il mio viaggio, qualunque sia la meta» (1Cor 16,5-6; 2Cor 1,16). L’apostolo dà analoghe istruzioni a Tito: «Provvedi con cura al viaggio di Zena, l’avvocato, e di Apollo, fa in modo che non manchino di nulla» (Tit 3,13).
Il verbo greco usato in questi testi è «propempo», che significa «assistere per il viaggio», cioè, provvedere tutto ciò che è necessario per il viaggio: persone che accompagnino, denaro, lettere di raccomandazione, in modo che l’apostolo, ovunque vada, sia sostenuto dalla solidarietà dai fratelli e sorelle di fede.
Ancora una volta la missione appare come impresa comune della comunità cristiana, non impresa solitaria del missionario.

Di Mario Barbero

Mario Barbero




Coraggio e dignità

Tre storie esemplari di umana dignità

Una bambina con handicap, ma intelligentissima, una donna poliomielitica che mantiene i nipotini lasciati da sorelle e fratelli morti di Aids, un ex operaio della Fiat che accudisce la moglie paralitica: tre storie di vita, in cui si dimostra come gli africani sappiano gestire la propria esistenza con ammirevole coraggio e dignità.

L’abbraccio di Sofia

C onosco Sofia Mohamed tramite la mia vulcanica amica, suor Ida Luisa Costamagna. Dodici anni, ultima di cinque figli e orfana di padre, Sofia, come tanti altri, è stata vittima della polio da piccolissima e cammina trascinando il sedere e aiutandosi con le mani. Suor Ida è riuscita, tramite l’aiuto di un benefattore, a pagarle la retta alla Salvation Army di Dar es Salaam, una scuola e centro assistenza per ragazzi con malformazioni alle ossa, ma intelligenti e desiderosi di studiare.
Immersi nei colori di alberi e fiori africani in un momento, siamo avvolte da vivacissimi ragazzi in divisa intenti nelle loro attività. Osservandoli bene, noto che ognuno ha una malformazione. Sofia ci osserva da lontano, ha riconosciuto suor Ida, ma non conosce la persona che è con lei. Pole pole  (piano piano) si avvicina. Suor Ida la coccola, le chiede qualcosa, ma lei risponde a monosillabi. «È una ragazza difficile, parla poco; non ha avuto una vita semplice, ma è molto intelligente» mi dice.
Uno sguardo tagliente mi attraversa… ma è solo paura. Grandi sorrisi mi si avvicinano chiedendomi da dove vengo, come mi chiamo e iniziamo a scherzare. Mi raccontano la loro giornata, le lezioni, i giochi. Vengono da tutto il Tanzania. Suona la campana, è ora di entrare. Salutiamo Sofia, mi chino per baciarla e lei mi avvolge le braccia al collo come volesse aiutarsi a salire in braccio; la tiro su, l’abbraccio, l’accarezzo e l’accompagno in classe. Non parla. Non mi dice niente, ma mi saluta con un accenno di sorriso.

Chiedo a uno dei tanti assistenti se è possibile fare un giro della struttura. Tanti reparti, organizzati e ben tenuti si stringono l’uno accanto all’altro nell’ampia area dove i protagonisti sono i ragazzi e la natura.
Charles Rays, direttore didattico di questa scuola, mi accoglie nel suo ufficio davanti a un mappamondo che sembra aver girato per anni e anni tanto è consumato. «La nostra scuola è nata nel 1967, con il sostegno della Salvation Army inglese, che ha voluto creare in Tanzania una istituzione sul modello di quelle presenti in Gran Bretagna. Inizialmente era un centro di accoglienza per bambini con gravi problemi e malformazioni alle ossa. Nel 1970 si è deciso di costruire nello stesso spazio anche una scuola affinché i ragazzi, che intellettualmente non avevano problemi, potessero ricevere un’istruzione. Nel 1974 la scuola è passata sotto la direzione del governo, che ne ha omologato i programmi scolastici a quelli nazionali, preoccupandosi, inoltre, di foie i maestri che tuttora sono stipendiati dallo stato.
La scuola accoglie più di 200 ragazzi dai 7 ai 16 anni, provenienti da tutto il paese, senza distinzioni sociali, religiose, economiche o etniche. L’unico vincolo è che il loro handicap sia solo fisico e non mentale. Il governo contribuisce a pagare per le vacanze di gennaio e giugno, il viaggio a casa dei ragazzi e degli insegnanti. La Salvation Army, invece, provvede al cibo e vestiario, al personale che lavora nel centro e ad attività come la fisioterapia per i ragazzi».
Nel nutrito programma delle attività leggo che, tre volte alla settimana, l’Inteational School of Tanzania viene a prendere i ragazzi con appositi pulmini per offrire loro altre attività, come pittura, ricamo, nuoto, calcio, basket, pallavolo.
Il direttore mi spiega come sia organizzatissima la giornata. Io quasi mi sorprendo, pensando che sono ragazzi con handicap, mi sembra quasi una violenza. Vederli lì, in carrozzina, senza braccia o gambe, idrocefali… tutti impegnati, che con notevoli sforzi cercano di aiutarsi, di pulire: mi fa pensare. Ma immediatamente giustifico la loro cultura, l’autonomia, la responsabilità e certamente la maturità che loro sviluppano da piccolissimi, rispetto ai loro coetanei europei.
È comunissimo in Africa, veder una bimba di cinque anni che cammina con eleganza portando il fratellino di un anno avvolto in una kanga sulle spalle, con un equilibrio e una naturalezza che nemmeno io a ventisei anni dopo una serie di lezioni potrei mai avere.
«Sveglia alle 6.00, pulizia personale, nella quale ognuno aiuta chi ha più problemi, poi quella del cortile e degli spazi comuni e alle otto meno un quarto tutti in classe. Alle 8.00 arrivano i maestri e iniziano le lezioni. I più piccoli hanno lezione fino alle 12.00, i più grandi fino alle 14.00. Entrambi hanno un intervallo di mezz’ora per bere il tè e giocare. Poi alle 14.00, a tuo, si distribuiscono per il pranzo e per le attività estee» conclude Charles Rays.
Lo saluto facendogli i complimenti per l’organizzazione, la pulizia e la cura della scuola e dei ragazzi. E mi confida che hanno più di 150 richieste d’iscrizione l’anno, ma non possono prendere più di 25 ragazzi. La quota d’iscrizione è di 55 mila scellini il primo anno e 45 mila per gli anni successivi. E una volta finita la settima, che sarebbe la nostra quinta elementare, li indirizzano a due scuole secondarie.

S ono tornata in Tanzania prima di natale e uno dei tanti pensieri era Sofia. Sono andata a trovarla nella sua casa, in un villaggio alla periferia di Dar es Salaam, era nel periodo della vacanza.
Tra galline, pulcini e sabbia ho visto arrivare, trascinandosi con un’agilità pazzesca, Sofia, che mi è letteralmente saltata in braccio e non si è più staccata, accarezzandomi e cercando le mie coccole.
Seduta davanti ai suoi parenti, ci ha raccontato della scuola e attività; e che non vedeva l’ora di tornarci, perché lì a casa sua si annoiava. Avevo già rivisto Sofia prima di questa volta. Ero tornata più volte a salutarla, ma mai aveva parlato o avuto una reazione di felicità così, tanto da farmi balzare il cuore in gola. 


I sorrisi di Doto

Quando mi chiedono come sono i tanzaniani, cosa mi ha colpito tanto da scegliere di fare un «permesso di residenza» per tornare e ritornare in questo posto, il mio pensiero va subito a Doto. Doto è l’esempio della dignità, pacatezza e forza del popolo tanzano.
Un esserino di 50-60 cm; 46 anni, vittima della polio anche lei, ma bellissima. Passa le sue giornate su una stuoia sull’uscio della porta a fare le sue collanine, bracciali e rosari di perline, avvolta dai suoi tanti nipoti. La sorella gemella è morta già da tempo, lasciandole in eredità una squadra di bambini. E Doto, senza preoccuparsi della sua menomazione, ha pensato a un lavoro per mantenere la famiglia e mandare a scuola i nipoti. Ha imparato da sola, provando, sbagliando e riprovando a fare queste collanine e rosari, nonostante fosse musulmana e a ricamare all’uncinetto.
Quando suor Ida me ne ha parlato e mi ha fatto vedere quello che faceva, non riuscivo a immaginare la gravità della situazione, e la prima volta che l’ho vista, non riuscendo nemmeno a darle la mano bene, per via delle ossa menomate, non credevo che quelle dita affusolate avessero una tale forza.
Doto ha solo l’uso delle dita, ma non della mano; quindi, facendo forza con la mano contro il viso, muove le dita e infila con agilità le perline nei fili. È indescrivibile come riesce.
Ha voluto aprire un conto in banca, dove depositare il ricavato delle sue vendite, e ha investito i soldi comprando piccoli plot che affitta come duka (negozi).
Vive con la mamma anziana, i nipoti e il marito. Quando ci ha parlato del marito quasi avevamo gli occhi di fuori dalle orbite; ma lei immediatamente: «Perché non sono una donna io?». Il marito la prende, la sposta, la alza, la cura con un’attenzione estrema. E questo non può che essere amore. Quando parlano l’uno dell’altro hanno gli occhi che splendono come due adolescenti alla prima cotta.
All’inizio, venendo dalla realtà egoistica e falsa del nostro mondo che abbiamo inevitabilmente interiorizzato, non mi fidavo di lui: pensavo che volesse approfittarsi di quei pochi scellini, invece mi è bastato vederli insieme per capire che ero proprio fuori strada.
È il solito discorso: noi abbiamo tutto, ma non siamo mai contenti fino in fondo, raggiungiamo un traguardo e siamo già al prossimo perdendo di vista la vita vera. E finché non si sbatte davanti a quella che è la realtà quotidiana della vita concreta, semplice, africana, non lo si può capire.
Questo invidio anche dei missionari! Oltre alla loro fede profonda, che riesce ad aiutarli e sostenerli in tutto, vivono la giornata piena di emozioni e piccole cose che magari possono sembrare superficiali, poi diventano il senso della giornata. Un sorriso, una risata, uno sguardo, una condivisione di vita, una soda offerta da chi poi farà economia per settimane, ma te l’ha data con il cuore.
Questa è vita! Noi corriamo corriamo tra gente sempre più triste, tra sguardi truci, lamentele per i politici, per le bollette e quando si incontra un sorriso magari non si ha nemmeno il tempo di notarlo. 
In tanto tempo che conosco Doto mai l’ho vista triste o scoraggiata. L’ho vista malata, parlarmi dei tanti problemi; non hanno la luce in casa; lei è preoccupata, perché inizia a non vedere bene, ha due cataratte, il marito non ha un lavoro fisso, ma il suo sorriso non si spegne mai. È la cosa che arriva prima di tutto. Crede fermamente nel suo Allah, lo prega e lo ringrazia continuamente anche del niente che ha.
Non mi ha mai chiesto nulla. Anzi, quando le ho detto che volevo aiutarla, non ha mai pensato a se stessa, tipo una carrozzina nuova, gli occhiali da vista, ma piuttosto qualcosa che potesse essere d’aiuto per far lavorare il marito, per farlo realizzare, oppure delle stampelle per i genitori del marito, massacrati di botte da dei ladri, entrati in casa per rubare il ricavato della vendita di un campo. 

I tesori di Said
«K ulia, kulia» (a destra, destra) ci ripete Yoseph. Dopo una mezz’ora di strade sterrate: alberi, sabbia, salite, discese, buche e pantani, terminiamo il nostro rally nel bel mezzo di un panorama mozzafiato. Camminiamo per un po’ a piedi e arriviamo alla meta. Una casa ancora tutta da finire, ma lo scheletro in cemento e i mabati (lastre zincate) sul tetto sono sufficienti per viverci.
Due occhi vivaci, in un corpo esile ci accolgono con un «buon pomeriggio». È Daudi Said Ndera, sessantenne. Iniziamo a parlare e ci racconta che la moglie, più giovane di lui, è paralizzata dalla vita in giù da più di tre anni. Sono così lontani dalla strada asfaltata che anche portarla in ospedale è sempre stata un’impresa. Non possono permettersi un taxi che la porti all’ospedale.
Daudi ha una piccola shamba (campo) che li aiuta a vivere e mangiare. La moglie seduta sul pavimento sgrana una manciata di fagioli che accompagneranno l’ugali (polenta) e Daudi con il nipotino, che mi scruta attraverso le sue gambe, ci dice di conoscere l’Italia.
È meccanico specializzato e ha sempre lavorato nel settore fino a una decina di anni fa. Era un operaio della Fiat, che aveva una sua sede in Tanzania; e quando questa è stata chiusa, lui si è ritrovato disoccupato, ma con una buona liquidazione da parte dell’azienda.
Sorpresa, gli chiedo di raccontarmi meglio e torna dopo qualche minuto con un passaporto, un attestato e un biglietto aereo Alitalia, Dar es Salaam-Torino andata e ritorno. Ha conservato tutto.
Nel 1975 la Incar Tanzania Ltd, pare di proprietà della Fiat, lo ha mandato nella sua sede di Torino per un corso di istruzione e specializzazione per la produzione di autovetture. Ha dovuto quindi fare il passaporto e dal 9 giugno al 21 luglio 1975 è stato a fare il suo corso a Torino, ovviamente viaggio, vitto e alloggio pagati dall’azienda.
Sfoglio le pagine di un passaporto tenuto con la cura e l’attenzione di un tesoro, dove gli unici timbri sono quelli di andata e ritorno del suo viaggio Tanzania-Italia. Ricorda tutto. Lo stupore di una Torino illuminatissima, i tram e gli italiani così gentili. I colleghi lo hanno accolto talmente bene che lo hanno portato a visitare anche Milano e Bologna. È venuto con una decina di altri operai tanzani.
Credo dovesse essere davvero capace come meccanico. Ha lavorato per una ventina di anni con la Fiat e non ci risparmia i dettagli. Gli brillano gli occhi quando parla del direttore e del capo-reparto, cosa che mi sembra alquanto strana, abituata agli attuali stati d’animo degli operai italiani. Purtroppo una decina di anni fa, la Fiat ha dovuto chiudere i battenti, ma ha liquidato bene tutti i suoi operai. E Daudi con la liquidazione ha comperato un bel pezzo di terra e ha costruito la sua casa che, rispetto alla media, è molto grande e in cemento.
Ne deduco, quindi, che la liquidazione sia stata davvero proporzionata ai suoi anni di lavoro. Non posso che essee orgogliosa da italiana, finalmente un’azienda che, seppure lavorava in una realtà estremamente povera e difficile, non se n’è approfittata, ma ha trattato i suoi operai alla stregua di quelli italiani… e questa è davvero una cosa rara in Tanzania e nell’Africa in generale. In Italia tutti conosciamo la Fiat e, seppure attualmente ha molti problemi così come i suoi operai, si è sempre distinta per l’eleganza e la serietà nel trattare gli operai.
Ora Daudi non ha un lavoro fisso perché costretto a seguire costantemente la moglie paralizzata. Vivono lontani dal villaggio, ai nostri occhi quasi in un posto turistico, a 20 km dal mare e in una zona dove ci sono solo lotti di terreno con villette di ricchi.
Il figlio l’anno scorso gli ha riportato un bimbo, nato da una storia con una ragazza che poi se n’è andata, lasciandogli il piccolo appena nato: un altro fagottino che non vuole mai lasciare le gambe del nonno.
Daudi sta cercando di vendere la casa, per mettere da parte un po’ di soldi che gli permettano di vivere tranquilli per qualche anno e far curare la moglie. «Quando ero giovane il mio sogno era costruire una grande casa, dove vivere con mia moglie e i miei figli. Ora, preferirei vivere in una casa di fango, ma vedere mia moglie felice e attiva come una volta, ci dice».
Mi riprende con delicatezza dalle mie mani i suoi tesori che continuerà a conservare e a far vedere orgoglioso e io non posso che salutarlo con un «Arrivederci!», promettendogli di tornare a trovarlo. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




Nella terra dei lemuri

La «grande isola rossa», panorama storico (prima parte)

Un paese del tutto originale il Madagascar, sia per l’origine geologica, eccezionale biodiversità, unicità di specie animali, come i lemuri, primati progenitori delle scimmie, sia per le caratteristiche etniche dei suoi abitanti. L’isolamento millenario ha fatto sì che un cocktail di razze formasse un popolo unico e originale, con tratti fisici, lingua, cultura e storia che hanno seguito una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Il Madagascar è stato per molto tempo un’isola quasi sconosciuta. Separatasi dall’Africa a causa della deriva dei continenti, raggiunse l’attuale posizione al largo delle coste del  Mozambico pressappoco 100 milioni di anni or sono. Intoo a questo stesso periodo la metà orientale dell’isola si divise nuovamente, spostandosi verso nord-est per formare quella che oggi è l’India.
Vasto due volte l’Italia, il Madagascar è la quarta isola più grande della terra, dopo Groenlandia, Nuova Guinea e Boeo in Indonesia. Le terre dei suoi altipiani centrali sono formate da terreni argillosi di colore rosso. Per questo motivo il Madagascar è stato soprannominato «la grande isola rossa».

VENUTI DALL’ORIENTE
Le prime e più antiche tribù che popolarono il Madagascar provenivano dall’Oriente. Naturalmente le loro origini sono avvolte nel mistero. Se ne parla solo nelle leggende. La maggior parte degli attuali malgasci, invece, è giunta nell’isola in tempi relativamente recenti, non più di duemila anni or sono, proveniente da Indonesia e Malaysia.
Non si conoscono le modalità di tale migrazione, ma la teoria più accreditata, fondata su elementi antropologici ed etnografici, suppone che le popolazioni indonesiane abbiano colonizzato l’isola con un’unica massiccia migrazione e che nel corso di tale migrazione abbiano effettuato tappe intermedie lungo le coste dell’Oceano Indiano.
Prova di tale teoria, oltre alla lingua malgascia, che conserva alcune caratteristiche del sanscrito, è la diffusione delle imbarcazioni a vela di tipo indonesiano lungo le rive settentrionali dell’Oceano Indiano; imbarcazioni adatte alla navigazione sotto costa. Si suppone che i malgasci abbiano costeggiato l’India, Arabia e Africa orientale, favorendo così rapporti commerciali e incontri culturali e linguistici, come nel caso del sanscrito, la lingua dell’India arcaica.
Arrivati sull’isola, le tribù malgasce, suddivise in una serie di regni minori, vi introdussero la coltivazione di prodotti tipici del sud-est asiatico, come il riso. Ancora oggi i terrazzamenti agricoli, occupati dalle risaie, assomigliano di più al tipico paesaggio dei paesi orientali che non a quello del vicino continente africano. Mangiare il riso tre volte al giorno è cosa normale per un malgascio e la crescita di una piantina di riso è descritta con gli stessi termini usati per la gravidanza e parto della donna.
Il riso viene normalmente accompagnato da uno stufato di carne di zebù, di pollo o di anatra e da verdure con l’aggiunta di spezie o radici ricche di amido, come la manioca. L’alternativa al riso è una ciotola di tagliolini fritti con verdure o carne, oppure la sostanziosa «zuppa cinese» con tagliolini, pesce, pollo e verdure: due piatti che, insieme al riso, indicano le origini asiatiche dei malgasci.
Nel corso degli anni lo stile di vita asiatica si è alquanto attenuato in seguito ai contatti con i mercanti arabi e africani che solcavano i mari con il loro carico di seta, spezie e schiavi. La regione che ha assimilato maggiormente la cultura e i costumi africani è quella del Madagascar occidentale, separata dall’Africa dal canale di Mozambico. La regione più cosmopolita dell’isola è invece quella settentrionale. Comprende discendenti di marinai arabi, mercanti indiani e schiavi africani, oltre a una consistente comunità di francesi (ora anche di italiani) e all’etnia locale degli antakàrana.
situazione femminile
Il fatto che, nella lingua malgascia, all’origine delle parole non ci sia né maschile né femminile (vedi riquadro) potrebbe aver condizionato anche i rapporti tra uomo e donna. Quella malgascia è una società piuttosto emancipata, specialmente in ambito femminile: la donna è la forza dinamica della società e occupa nella sfera domestica la posizione predominante.
Il matrimonio è in Madagascar un’istituzione non troppo rigida: divorzi e separazioni sono frequenti. I figli vengono considerati lo scopo principale del matrimonio e nessuna donna vorrebbe restae priva, anche se non sposata e giovanissima. Sono ritenuti garanzia di felicità e sicurezza e le giovani madri non hanno paura di allevarli anche da sole. Lo fanno con coraggio e amore.
I rapporti tra uomo e donna sono comunque sempre accompagnati da cortesia reciproca e da riservatezza. Sollevare problemi personali è considerato una mancanza di tatto, anche con le persone più care. Allo stesso modo si evitano domande e argomenti indiscreti.
Naturalmente la situazione della donna varia a seconda della classe sociale cui appartiene. Nelle famiglie ricche, o con un buon reddito, la sua posizione è abbastanza simile a quella della donna occidentale. I compiti sono più o meno divisi in egual misura tra marito e moglie.  Nelle famiglie povere, che vivono di agricoltura o di pesca, la donna è invece costretta a sacrificarsi per il bene della numerosa famiglia. Pulizia della casa, bucato, vendita o compera dei prodotti del campo o dell’artigianato domestico le appartengono. In questo non mancano di abilità e di creatività.
Ma anche tale situazione è destinata a cambiare. L’alta scolarizzazione femminile sta trasformando la società malgascia. Le decisioni più importanti sono ancora prese dagli uomini, ma ormai esistono donne-ministro, deputate e senatrici. Esse sono numerose specialmente nelle piccole aziende, nel commercio, nell’amministrazione pubblica e nella magistratura. Del resto già da molto tempo le donne avevano diritto a partecipare alle Fokonolona, le assemblee comunitarie e i luoghi delle pubbliche decisioni.
Re e regine
Al contrario di quanto avvenne per molto tempo in Europa o in altre parti del mondo, dove la storia enumera molti re e poche regine, in Madagascar il rapporto fu rovesciato, almeno per un certo periodo. Della dinastia dei Merina, l’etnia degli altipiani centrali che unificò i regni tribali malgasci, regnarono tre re e quattro regine.
A partire infatti dal Settecento fino al 1895, quando i francesi occuparono l’isola e mandarono in esilio l’ultima regina, al re Andrianampoinimerina (1787-1810) successe il figlio Radama I (1810-1828), che continuò la politica unificatrice del padre e aprì l’isola all’Occidente.
Alla sua morte salì sul trono la vedova Ranavalona I (1828-1861). Nei suoi 33 anni di regno lottò con decisione contro ogni tentativo d’invasione europea dell’isola, al fine di preservare e proteggere l’ordine tradizionale della società malgascia e i costumi degli antenati.
Alla sua morte, nel 1861, divenne re il figlio, Radama II (1861-1863), il quale inaugurò una politica totalmente differente da quella della madre: aprì l’isola ai commercianti europei e ai missionari protestanti e cattolici. Ma provvedimenti contro determinati privilegi e un grave contrasto con il primo ministro Raharo ne segnarono la fine: dopo appena due anni di regno, il re fu assassinato da una congiura di palazzo, strangolato con una corda di seta, perché lo spargimento di sangue reale era considerato fady (tabù).
La vedova Rabodo, diventata regina con il nome di Rasoherina I (1863-1868), lasciò l’amministrazione del regno nelle mani del primo ministro Rainilaiarivony, il quale goveò l’isola anche sotto Ranavalona II (1868-1883), che egli sposò, e sotto Ranavalona III (1883-1895), l’ultima regina, esiliata dai francesi ad Algeri e morta nel 1917.
Ancora oggi re e regine, che avviarono la modeizzazione dello stato e della società malgascia e furono riconosciuti anche dalle potenze occidentali, sono considerati sacri dal popolo malgascio, insieme ai loro palazzi e alle loro tombe, e come tali ritenuti simbolo di unità nazionale.

COLONIA FRANCESE
Nel 1883 navi da guerra francesi attaccarono il Madagascar, occupandone i principali porti e costringendo il governo a firmare un trattato che dichiarava l’isola protettorato francese. La regina Ranavalona III si rifiutò di abdicare. I francesi allora le dichiararono guerra e circondarono la capitale Antananarivo. L’esercito malgascio, guidato da un ufficiale dell’artiglieria inglese, il maggiore John Graves, resistette nove mesi, ma alla fine dovette capitolare. Il 6 agosto 1896 il Madagascar fu ufficialmente dichiarato colonia francese.
Primo governatore dell’isola fu il generale Joseph Gallieni. Egli cercò di escludere dal potere l’aristocrazia merina, soppresse la lingua malgascia e dichiarò il francese lingua ufficiale. La schiavitù fu nominalmente abolita, ma venne sostituita da un sistema di tassazione altrettanto oppressivo e oneroso, che costringeva ai lavori forzati chiunque non fosse in grado di pagare.
Agli uomini fu imposta una corvée di 30 giorni di lavoro gratuito per la costruzione di strade, fabbriche e industrie alimentari e tessili. La terra venne espropriata a vantaggio di società e coloni stranieri, che svilupparono un’economia di esportazione di caffè, coltivato lungo i versanti collinari prospicienti l’Oceano Indiano, di vaniglia, diffusa in tutta la pianura costiera orientale, canna da zucchero, cotone, spezie, legname delle foreste tropicali, minerali e pietre preziose.
Con l’affermarsi del colonialismo l’isola fu anche dotata di infrastrutture modee: scuole, strade, ospedali, mezzi di comunicazione, come ferrovia, poste, auto e camion, indispensabili su un territorio vasto quasi due volte l’Italia, per di più tormentato da catene montuose scoscese anche se non altissime, da rocce calcaree erose e appuntite e da numerose foreste pluviali, dove vive una caratteristica fauna, come i lemuri, di cui esistono circa 50 specie, alcune delle quali dotate di una straordinaria abilità acrobatica.
Con l’affermarsi dell’istruzione crebbe e si consolidò una nuova élite malgascia e si affermarono alcuni movimenti nazionalisti. Nel 1913 i giovani malgasci fondarono una società segreta, denominata Vy Vato Sakelika (ferro, pietra, ramificazione). Nel 1920 il movimento anticolonialista trovò nella figura carismatica di un avvocato, Jean Ralaimongo, il suo capo. Dopo numerosi scioperi di protesta, nel 1930 venne fondato anche il sindacato. Subito dopo la seconda guerra mondiale in tutto il Madagascar si risvegliarono forti sentimenti nazionalisti, che culminarono nella ribellione del marzo 1947, guidata da Joseph Raseta e Joseph Ravoahangy, nel corso della quale persero la vita 80 mila malgasci.
L’indipendenza
Il Madagascar divenne indipendente nel 1960 e il capo del partito nazionalista, Philibert Tsiranana, fu eletto presidente. Durante il suo mandato i francesi continuarono a controllare il commercio e le istituzioni finanziarie, nonché le basi militari. I legami del governo con la Francia, uniti a un periodo di recessione economica, contribuirono a far crescere l’impopolarità di Tsiranana. La repressione brutale di una insurrezione nella parte meridionale dell’isola, la più povera, seguita da una rivolta antigovernativa nella capitale, costrinse Tsiranana a dimettersi (1972), cedendo il potere al comandante in capo del suo esercito, il generale Gabriel Ramantsoa, che fu a sua volta sostituito nel 1975 dal colonnello Richard Ratsimandrava, assassinato dopo appena una settimana di governo.
Finalmente arrivò al potere un altro militare, l’ammiraglio Didier Ratsiraka, ex ministro degli esteri, che cercò di attuare riforme radicali, politiche e sociali, improntate allo stile delle nazioni del blocco sovietico, in particolare della Cina comunista e della Corea del Nord. Arrivò perfino a proibire nelle scuole l’insegnamento delle lingue francese e inglese, per impedire qualsiasi contatto con l’Occidente, e sull’esempio di Mao Tsetung si dedicò alla stesura di un «libro rosso» delle teorie e della prassi di governo.
Alla fine dell’ottobre 1991 governo e opposizione firmarono un accordo per preparare il terreno alle elezioni e alla nascita di quella che fu definita la «terza repubblica». Nonostante ciò, Ratsiraka si rifiutò di lasciare le redini del potere. Il periodo che precedette la prima tornata di elezioni fu caratterizzato da disordini, che culminarono nel blocco della capitale e nel bombardamento di un ponte ferroviario che univa Antananarivo a Toamasina, il più importante porto del Madagascar.
Per settimane e settimane la capitale rimase senza benzina e la rete dei trasporti subì danni devastanti. Ancora oggi, come conseguenza di quel blocco, la ferrovia a scartamento ridotto non funziona. Il trasporto di derrate, benzina e container avviene su camion, lungo una strada di 350 e più chilometri, che collega la capitale al porto di Toamasina, tutta curve, salite e discese, vero cimitero di incidenti stradali e di camion in panne.
Alle elezioni del 1993 risultò eletto il professore Albert Zafy, candidato dell’opposizione, mettendo fine ai 17 anni di governo in puro stile comunista di Ratsiraka. Zafy cercò di far decollare l’economia del paese, ma, accusato di riciclaggio di denaro, rapporti con i narcotrafficanti e abuso di potere, fu costretto a dimettersi. Alle nuove elezioni presidenziali Ratsiraka, dopo aver trascorso 19 mesi in esilio in Francia, si ripresentò e tra lo sconcerto generale, compreso quello degli osservatori inteazionali, vinse le elezioni di stretta misura e nel febbraio del 1997 accettò l’incarico.

BRACCIO DI FERRO
Nel 2002, dopo essere stato al potere per quasi 27 anni, Ratsiraka fu spodestato dal magnate dello yogurt Marc Ravalomanana. Questi aveva iniziato la sua carriera imprenditoriale girando in bicicletta per le vie della città a commercializzare il suo prodotto fatto in casa.
Quando nel 1999 entrò in politica per diventare sindaco di Antananarivo, la sua azienda, la Tiko, era la più importante produttrice di latticini del paese. Candidatosi alle elezioni presidenziali del dicembre 2001, basò la sua campagna elettorale sulla promessa di un rapido sviluppo economico, grazie alle sue capacità imprenditoriali, che avrebbero dovuto richiamare gli investimenti stranieri, combattere la povertà e ripristinare le infrastrutture del paese, ridotte in pessime condizioni. Il neopresidente promise inoltre di estirpare la corruzione politica, dilagante sotto il governo di Ratsiraka.
La vittoria elettorale, se pur risicata, andò a Ravalomanana; ma Ratsiraka pretendeva di essere il vincitore e accusava l’avversario di brogli elettorali. Seguirono sei mesi di lotta per il potere. Ratsiraka alla fine dichiarò lo stato di emergenza, impose la legge marziale e proclamò Toamasina capitale. In questo modo, asserragliato con i suoi sostenitori a Toamasina, estremamente importante a motivo del suo porto, bloccò le vie di accesso alla capitale per impedire i rifoimenti di carburante e di  medicine.
Nell’aprile del 2002 l’Alta Corte Costituzionale del Madagascar dichiarò Ravalomanana legittimo vincitore. Ratsiraka continuò a non accettare la sconfitta e diede ordine ai suoi sostenitori di far saltare in aria i piloni della corrente elettrica, facendo così piombare nel buio la capitale.
Alla fine le Nazioni Unite riconobbero il governo di Ravalomanana. Ratsiraka fuggì in Francia, protetto dal presidente francese, nonostante che un tribunale malgascio lo avesse condannato a 10 anni di lavori forzati per appropriazione indebita di fondi pubblici.
Alle elezioni del 2006, Ravalomanana è stato rieletto per un secondo mandato presidenziale, grazie all’influenza della sua televisione più che ai benefici portati alla popolazione durante la sua presidenza. È vero che negli ultimi anni l’economia malgascia è decollata, grazie alla remissione del debito estero, alle privatizzazioni e investimenti stranieri attirati dalle inesplorate risorse del sottosuolo (nichel, cobalto, bauxite, petrolio); ma di tale crescita non hanno affatto beneficiato vasti strati della popolazione e il Madagascar continua a essere tra i paesi più poveri del mondo.
Le risorse statali sono state mobilitate a vantaggio delle imprese private, soprattutto della Tiko che, nata come industria casearia, è diventata la più grande impresa alimentare e ha esteso le sue ramificazioni nell’edilizia, nella finanza, nell’agricoltura, nella stampa e televisione. Un complesso di «affari» a scapito dei servizi pubblici e sociali. L’immobilità statale ha provocato lo scontento della popolazione e costretto alcune organizzazioni umanitarie non governative, tra cui i Medici senza frontiere,  ad abbandonare il paese.
Sul malcontento popolare, alimentato anche dalla crisi internazionale e conseguente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, ha soffiato il capo dell’opposizione politica, il sindaco di Antananarivo, Andry Rajoelina, 34 anni, soprannominato Tgv (treno superveloce) per il suo decisionismo.
Dalle tensioni si è passati allo scontro aperto nel mese di dicembre, quando il governo ha chiuso l’emittente televisiva del sindaco, Viva Tv, perché aveva diffuso un’intervista dell’ex presidente in esilio Didier Ratsiraka. Rajoelina ha chiamato il popolo a raccolta contro Ravalomanana, accusandolo di cattiva gestione del patrimonio pubblico.
Il 26 gennaio, rispondendo all’appello del sindaco, una grande folla si è riversata per le vie della capitale; ma la manifestazione è degenerata in saccheggi e devastazioni di negozi, supermercati, uffici pubblici; in tali disordini sono morte almeno 68 persone (oltre 100 secondo l’ambasciata americana), tra cui un bambino ucciso dalla polizia.
Si è innescata una reazione a catena: il sindaco ha continuato a chiamare in piazza i suoi sostenitori, fino a chiedere la destituzione del presidente e la formazione di un governo di transizione; Ravalomanana ha risposto inviando la sua guardia presidenziale contro i manifestanti e il 3 febbraio ha destituito il sindaco dalla sua carica.
Nonostante gli appelli delle istituzioni inteazionali, è continuato il braccio di ferro tra i due contendenti con proteste di piazza e repressioni, come quella del 7 febbraio, dove gli spari ad altezza d’uomo hanno causato altri 40 morti e 350 feriti.
A ristabilire «l’ordine» è intervenuto l’esercito: il 15 marzo, un centinaio di militari hanno assediato con i carri armati il palazzo presidenziale, chiedendo le dimissioni di Ravalomanana. Dopo un velleitario tentativo di resistenza, senza spargimento di sangue, il 17 marzo il presidente ha rassegnato il potere a un gruppo di alti ufficiali che, a loro volta lo hanno rimesso nelle mani di Rajoelina e la Corte Costituzionale lo ha subito riconosciuto nella nuova carica.
Il neo presidente si è affrettato ad assumere l’incarico e nel suo primo discorso, il 18 marzo, ha promesso di promuovere la riconciliazione, combattere la povertà e indire nuove elezioni entro 24 mesi. Se sono rose fioriranno… tra due anni. 

Di Giampietro Casiraghi


Giampiero Casiraghi




Pace sì, ma a modo nostro

Alla scoperta di … paesi, storie, persone: Mozambico (4.a puntata)

Si può essere missionario e guerrigliero? Qualcuno lo ha fatto. E oggi continua a mettersi al servizio dello sviluppo del suo paese. Nella formazione e nella politica. Incontro ravvicinato con un missionario sui generis.

Padre Filipe José Couto, missionario della Consolata, classe 1939. Dopo studi in Italia è stato un allievo modello all’università di Münster, in Germania, dove ha ottenuto il dottorato in teologia. Rientrato in Mozambico, nonostante ottime possibilità di carriera accademica in Europa, è costretto ad andare in esilio in Tanzania, dove entra in contatto con il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), in lotta per liberare il paese dal Portogallo.
Dopo l’indipendenza Couto riprende gli studi e ottiene un secondo dottorato, in scienze sociali, e poi insegna in Tanzania e a Londra, filosofia, teologia e logica matematica.
Nel 1996 è nominato rettore della neonata Università Cattolica del Mozambico, fondata da un altro padre della Consolata, Francesco Ponsi, ma di proprietà dei vescovi.
Dal 2007 è magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane, l’istituzione universitaria più importante del paese. Filipe Couto conosce tutti i dirigenti del partito al governo, il Frelimo, e molti ministri erano dei giovani «tirati su» da lui durante la guerra di liberazione.
Vestito trasandato, capelli scompigliati, ha negli occhi un guizzo geniale. Eteo provocatore, sembra sempre duellare con il suo interlocutore: «Fate pure le domande, tanto Missioni Consolata è da anni che non pubblica le cose che dico io».

Padre Couto, come ha deciso di fare la lotta armata?
Penso che la gente esageri sulla mia storia. Non capita che si decida da un momento all’altro di andare a fare la lotta per la liberazione. Esistono delle circostanze in cui uno deve trovare la via per salvare la pelle. Nel mio caso, agli inizi degli anni ’70, se eri nel Nord del Mozambico, dovevi uscire e andare in esilio. Il fatto di scappare e arrivare dove c’era il nucleo del Frelimo, di aver vissuto con loro, ha portato a un certo percorso.
Quando sono uscito dal paese ero missionario della Consolata. In Tanzania ero con i rifugiati, mi sono trovato con altri confratelli, con i quali ho avuto contatti e solidarietà. Non c’è un taglio netto tra il fatto di essere missionario ed essere uno che è andato con i rifugiati e poi ha raggiunto il Frelimo, ha lavorato con esso e vi continua a lavorare in certe cose necessarie per lo sviluppo del paese. Sono state decisioni molto pragmatiche.

Perché lasciò il Mozambico?
Io non credo di aver avuto idee politiche molto chiare, ma c’era qualcosa di fondamentale. Io sono mozambicano, se c’è una proposta per un governo di persone del nostro paese, allora opto per quel governo. Ma eravamo colonia portoghese. In quel tempo, dire queste cose o insegnarle agli altri, anche solo parlarne, diventava scomodo. Arriva un momento in cui tanti con le tue stesse idee stanno scappando. Erano passati due anni dalla mia laurea in Germania. Cominciavo a fare il lavoro nelle parrocchie.

Ci racconti i primi anni nel Frelimo, lei prete in un movimento di rivoluzionari marxisti.
Quando sono entrato, era già stato ucciso Eduardo Mondlane (fondatore del movimento nel 1962, e ucciso nel ’69, ndr). C’era dentro il partito un’aria di purificazione e di determinazione della linea. Eduardo aveva fatto il Fronte radunando tutti. Era arrivato il momento di decidere come lottare per l’indipendenza e con quali obiettivi.
Primo. Era chiaro che si sarebbe dichiarata l’indipendenza solo se fossimo stati in grado di occupare, con il sistema della guerriglia, tutto il Mozambico. Secondo: che tutti potessero dire o giustificare che la guerra con le armi era una delle maniere fondamentali per arrivare alla liberazione.
Terzo. Chiunque si unisse, pur avendo studiato fuori (Germania, Italia, Usa o paesi comunisti) doveva avere un principio: il Mozambico è unico e dobbiamo risolvere i problemi del paese secondo le necessità e il contesto dello stesso.
Quando sono arrivato ho notato che c’era un certo sospetto. Il padre cattolico e il pastore protestante erano entrati in conflitto con gli altri ed erano usciti. Allora decisi ancora per la via pragmatica: mi occupai di questioni sociali, umanitarie, educazione, agricoltura. Ma mai di religione. I miei compagni della Consolata conoscevano questa scelta.

Come è cambiato l’attivismo politico dei giovani, oggi rispetto agli anni della lotta per l’indipendenza?
Durante la guerriglia non era un tempo di analisi, né di discussione, era un momento di emergenza. I capi, il comitato politico-militare, il comitato centrale, i nuclei, decidevano e si eseguiva.
I bambini che erano nelle nostre scuole, nelle zone liberate, dovevano imparare. I giovani di 18 anni dovevano lavorare nel campo, o fare il servizio militare, oppure li mandavamo a studiare (come l’attuale ministro della Difesa). Facevano le cose che dicevamo loro di fare. Era un’epoca di sintesi e decisione e non di analisi.
I giovani di adesso cominciano a entrare in un clima di discussione. Occorre lasciarli parlare, avere le proprie idee. Non è facile. Bisogna avere molta attenzione. Credo che sia una nuova epoca in cui dobbiamo educare i giovani alla libertà, alla critica e autocritica, alla solidarietà, ecc. Di queste cose parlavamo poco. Per noi era importante come organizzarci nel caso di bombardamento aereo, dove nascondere i bambini, dove scappare. È un’epoca diversa.

Gli studenti universitari di oggi sono interessati alla politica?
All’epoca la politica era semplice. Dicevamo ai giovani: state combattendo contro il colonialismo portoghese, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Adesso invece il messaggio è piuttosto: il paese è grande, ci sono diverse opportunità, c’è molto da imparare, abbiamo bisogno di medici, ingegneri, veterinari, piloti, ecc. Poi spieghiamo loro che se imparano, le opportunità sono grandi, ma allo stesso tempo le responsabilità anche maggiori. Inoltre il mondo è aperto: se vogliono possono andare all’estero a studiare. Poi se pensano di tornare vedremo cosa si può fare.
Quello che è politica nel senso di difesa, sicurezza, è meno sentito. Il giovane non fa più attenzione, c’è un altro clima.

Qual è la qualità degli allievi delle università mozambicane?
Seguendo la mentalità europea, per avere qualità devi avere un formatore con pochi allievi. Noi invece diciamo se hai solo 10 allievi non ne trovi 2 buoni, ma se ne hai 100, forse ne trovi 3. Quindi l’università deve fare il possibile per far entrare tutti e poi selezionare chi hai dentro.
Con la quantità potrai avere una buona élite. Ma come fai a formare tanti con poche risorse? Facciamo il primo ciclo di tre anni, il secondo di due e il terzo di tre. Durante il primo vediamo i migliori e decidiamo su chi vale la pena investire. Ma valutiamo anche quelli che non sono eccellenti. Alcuni sono meno buoni ma hanno altre capacità.
La qualità è quello che la società pretende: abbiamo quella internazionale e quella nazionale, ovvero di gente che lavora qui. Dobbiamo avere le due, la qualità intellettuale che va all’estero e quella che rimane qui da noi.

Il paese ha raggiunto una pace stabile dopo quasi 30 anni di guerra civile. È un esempio a livello africano. Come è stato possibile?

Io ho un’opinione diversa dalla comunità di Sant’Egidio (uno degli attori della mediazione, ndr.). La gente pensa che il Mozambico sia un caso speciale, e che l’incontro di Roma (cfr. MC gennaio 2009), con i mediatori sia stato decisivo per la pace. Afonso Dhlacama (capo della Renamo, formazione guerrigliera contro il governo dopo l’indipendenza fino al 1992, ora partito politico, ndr.) ha firmato, così la guerra è finita. I soldati sul campo hanno obbedito.
Si dice che la comunità di Sant’Egidio, qualche vescovo, qualche missionario hanno fatto la pace.
È successo che a un dato momento, dopo la guerra coloniale e la partenza dei portoghesi, la popolazione ha visto che le cose non andavano tanto meglio. Hanno iniziato a pensare: quelli che sono a Maputo, Samora Machel (primo presidente del paese, ndr.), Filipe Couto, stanno diventando grassi mentre noi abbiamo fame. Quindi in molti hanno raggiunto l’opposizione.
Noi, d’altronde quando siamo arrivati al potere, avevamo un’idea un po’ romantica della realtà. Abbiamo visto a Maputo gente senza lavoro, ubriachi, prostitute. Noi volevamo fare una società pulita. Abbiamo preso tutta questa gente e l’abbiamo mandata nella provincia meno popolata, che per caso è dove sono nato, il Niassa. Pensavamo: stanno con la natura, facciamo dei campi e faremo l’uomo nuovo. Voleva essere un’operazione di produzione, ma è stata un fiasco. Sono andati laggiù, non avevano coperte, né da mangiare, né un posto in cui vivere. Pensavamo che avrebbero improvvisato, come avevamo fatto noi durante la guerra. La gente diceva: qui non abbiamo niente, voi siete peggiori dei portoghesi, allora andiamo con l’opposizione.
La Renamo nasce all’estero, ma nel paese dicono alla gente: vi daremo vita migliore di Samora, Chissano, Couto che sono comunisti.
Ma in quel tentativo anche loro non hanno dato molto. Hanno mangiato tutti gli animali del Gorongosa (famoso parco naturale, ndr.), facendo scomparire elefanti e bufali. A un dato momento hanno capito che non è con il fucile che si va avanti, bisogna ricomporre la situazione.
All’origine della Renamo ci sono quei portoghesi che sono rimasti nel paese e sono andati in Rhodesia, al tempo di Jan Smith o nel Sudafrica dell’apartheid. Ma da soli non avrebbero avuto grande successo se noi non avessimo sbagliato la nostra maniera di agire con le persone. Abbiamo imparato più tardi.
Il guaio nostro, della Frelimo, è che impariamo sbagliando, però poi correggere non è facile.
Credo che la pace sia arrivata perché abbiamo tutti imparato che sparando è peggio, non sparando si può fare qualcosa di più. L’esercito governativo e i guerriglieri, a un dato momento convivevano. Anche in Sudafrica, Mandela era uscito di prigione. Lo Zimbabwe era diventato indipendente. C’era una congiuntura favorevole, la cosa si doveva risolvere in modo pacifico.

Il Mozambico ha una crescita economica del Pil intorno al 7% annuo, ma le condizioni sociali restano pessime, soprattutto in ambito rurale. Come si spiega questa incoerenza?
Chi ha detto che l’economia sta crescendo? La Banca mondiale e gli altri dicono che lo Zimbabwe non cresce, il Mozambico invece sì. Perché? Se vai in Zimbabwe oggi, troverai strade migliori, nei villaggi bambini che vanno a scuola, meglio vestiti che da noi. Di notte puoi passeggiare dove vuoi. Si dice che i sindacalisti sono tutti in prigione. Perché non si dice che il re dello Swaziland mette la gente in prigione?
La questione di dire che l’economia qui cresce, dipende molto da chi lo dice.
È vero che nelle città si vive bene: belle macchine, benzina, si può comprare quello che si vuole…, ma questo è artificiale, perché il paese è diventato il bambino più bello del Fmi, della Bm. Mentre lo Zimbabwe è diventato la pecora nera.
In Zimbabwe, le università, le statali di Harare, di Bulawayo, la privata, sono le migliori dell’Africa sub equatoriale. Hanno i migliori professori e sfoano i migliori studenti. In Botswana buona parte dei docenti sono zimbabweani. Hanno 90 mila studenti e ne laureano ogni anno 11 mila.
Lo Zimbabwe ha meno Aids che qui, anche se ha avuto meno aiuto. Ha esportato carne alla Ue, da qui niente. Tutto questo con 10 anni di boicottaggio. È vero l’agricoltura è andata sotto, è andata agli zimbabweani. Solo il 40% dei campi sono sfruttati.

Secondo lei si tratta di una pace stabile?
Quando una persona impara a camminare? Quando prova, cade e poi ci riprova. Qui da noi basta che io gridi un po’ vengono con il latte: divento un bambinone che non cresce. Non credo che il mio paese sia in buone condizioni. Pace sì, se vuol dire che non spariamo.
Ma la situazione può esplodere, da una cosa da niente. Non c’è stabilità, secondo me.
Dov’è l’esercito? Non lo abbiamo. È stato smobilitato. Siamo andati da un estremo all’altro. Prima c’era un esercito guerrigliero. Se un giorno allo Swaziland venisse voglia di entrare in Maputo, può farlo, perché siamo pacifici!
Noi, a chiunque venga, diciamo sempre di sì. Non siamo i padroni di casa. Nello Zimbabwe, se vuoi fare qualcosa, non ci riesci, perché c’è un esercito. Dobbiamo andare piano a giudicare. Sono contento che non si spari, che ci sia libertà religiosa, ma sono molto preoccupato. Noi stiamo ricevendo solo, non esportiamo…

E la lotta alla corruzione?
Si dice che c’è corruzione, che la giustizia ha fatto arrestare il ministro dell’Inteo, ma ci si domanda fino a che punto faremo questa lotta veramente. Riusciremo a farcela? Stiamo dicendo che la corruzione deve essere combattuta, ma non stiamo riflettendo su come è iniziata.
Eravamo un unico partito. Ci hanno detto: dovete avere il multipartitismo, entrare nel Fmi, nella Bm, attuare il liberalismo economico. Verranno le Ong e loro vi detteranno quello che dovete fare. Noi avevamo i nostri salari, relativamente bassi. Le Ong hanno iniziato a pagare salari spropositati.
Finito il progetto, noi non siamo stati capaci di dare queste cifre.
Inoltre: quando entra 100 con le Ong, quanto rimane in Mozambico e quanto ritorna con le Ong?
La corruzione dipende da noi, in parte, ma anche dalle Ong, Bm e Fmi.
Se si confronta un ospedale dove c’è una Ong con uno statale, come efficienza è meglio il primo. Ma i soldi da dove vengono?
Il paese è pieno di esempi come questo e fino a che non riusciamo a regolamentare, non saremo i padroni di casa. Ci vorrà molto tempo.
Joaquim Chissano (presidente dal 1986 al 2005, ndr) era un buon diplomatico. Ha fatto in modo che la gente parlasse bene con il mondo esterno. Dobbiamo andare dietro le quinte e vedere la realtà. Non è quello che molto spesso si pensa.
Adesso abbiamo Armando Guebuza: non è diplomatico, non stava sempre all’estero. Fu ministro dell’Inteo, poi ha iniziato a fare affari. È pragmatico. Vedremo cosa succede.

Cosa possono fare i mozambicani per avere uno sviluppo endogeno?
C’è un movimento politico positivo che dice: recuperiamo l’autostima, iniziamo a fare un servizio militare obbligatorio organizzato. Facciamo in modo che la gioventù faccia sport nelle scuole, nei distretti. Che siano poli di sviluppo. Rimettiamo un po’ di lavoro a scuole. Si è tolto tutto, dicendo che non si possono far lavorare i bambini, ovvero non posso insegnare loro a scopare la casa, questo è il concetto nuovo di libertà che è entrato dopo il trattato di pace.
Ci stiamo ricostituendo, ma può darsi che a molta gente non piaccia.
Molti preferiscono che siamo quei bambini che chiedono alla mamma il cioccolato o le mammelle per succhiare. Sono pochi che vogliono vedere un Mozambico emancipato.
Nel giorno in cui il Mozambico comincerà a dire a voce alta le cose che vogliamo fare, come riorganizzare il ministero della Difesa e quello dello sport, allora inizieremo a essere bambini cattivi.

Il governo del Mozambico conta otto ministri donne, tra cui la premier, che diventano 13 con i viceministri. Come siete arrivati a questo?
Forse ho dei pregiudizi: io ho sette sorelle e solo due fratelli. Quindi sono più solidale con i miei cognati che con le mie sorelle, perché credo che da noi ci sia una dittatura delle donne (risata)!
Scherzi a parte è un buon risultato. Durante la guerriglia contro il Portogallo i soldati che catturavamo erano tutti uomini. Da noi, invece, le donne facevano il servizio militare e c’era un distaccamento femminile per il combattimento. Abbiamo iniziato a parlare di emancipazione della donna alla nostra maniera. Questo è il frutto.
Era perché quelle hanno preso anche il fucile. Non sto dicendo se è un bene o un male, dico che questo ha fatto in modo che si parlasse di emancipazione.
Oltre al primo ministro, già ministro delle finanze, abbiamo la ministra della funzione pubblica, che controlla tutti i ministeri. Alla difesa, non avrei paura a mettere una donna, ne abbiamo alcune che andrebbero bene. 

di Marco Bello

Marco Bello




Congo-Rwanda: guerra infinita

Chi è Laurent Nkunda, generale ribelle

I Grandi Laghi africani sono teatro di guerra da oltre 12 anni. Le ricchezze dell’Est della Repubblica Democratica del Congo attirano la cupidigia dei paesi vicini. Le connotazioni etniche diventano strumentali alla rapina delle risorse. Dopo l’ultima scintilla nel Nord Kivu forse qualcosa sta cambiando. Storia di un generale (tutsi) congolese, al servizio del Rwanda.

L’ultimo atto clamoroso della guerra infinita nella Repubblica Democratica del Congo è l’ingresso autorizzato dell’armata ruandese in Nord Kivu, regione orientale, teatro dei duri scontri degli ultimi mesi. Dopo anni di guerra e feroce inimicizia, all’improvviso i governi di Congo e Rwanda si sono accordati per condurre un’operazione militare congiunta contro le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), le milizie hutu ruandesi. Ma a sorpresa la prima «vittima» illustre del nuovo corso politico-militare è stato il generale ribelle Laurent Nkunda, che per anni ha seminato il panico nel Nord e nel Sud Kivu e che nei mesi scorsi ha tenuto in scacco Goma provocando migliaia di sfollati. Nkunda è stato arrestato in Rwanda il 22 gennaio scorso.
Da tempo si vociferava che Nkunda fosse la longa manus del presidente ruandese Paul Kagame, ma le prove inoppugnabili sono arrivate solo lo scorso dicembre, quando un gruppo di esperti nominato dalle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto che documenta per filo e per segno tutti i supporti ricevuti dai vari gruppi ribelli della zona, con tanto di email, fax, documenti bancari.
In più, allegata al rapporto, un’appendice i cui contenuti sono secretati «per proteggere l’integrità delle fonti» e di cui si può solo ipotizzare l’effetto esplosivo. Un terremoto. Ciò che non erano riusciti a fare i colloqui di pace e i vari tentativi delle diplomazie di mezzo mondo, lo ha ottenuto un rapporto dell’Onu. O, meglio, le sue conseguenze: Paesi Bassi e Svezia avevano subito sospeso le sovvenzioni al Rwanda e lo stesso minacciava di fare la Gran Bretagna.
Per un piccolo paese che per metà si regge sugli aiuti inteazionali, era troppo. Questa, forse, una delle spiegazioni dell’improvviso voltafaccia di Kagame nei confronti dell’(ex) pupillo Nkunda.

Arresto o mossa politica?

Subito dopo la sua cattura, circolano diverse ricostruzioni dei fatti. Già abbandonato da parte del suo esercito che si era messo con lo «scissionista» Bosco Ntaganda, Nkunda sarebbe stato preso di sorpresa e catturato in un tentativo di fuga sul territorio ruandese.
A distanza di tempo, i dubbi si addensano proprio su questo particolare: il generale ribelle è stato catturato non in Congo, ma dopo essere entrato in Rwanda. E da quel momento, non si sa bene dove sia e in che condizioni. Pare sia «agli arresti domiciliari» a Gisenyi (cittadina ruandese proprio al confine con Goma e il Congo) con l’impossibilità di comunicare con il resto del mondo. Da Kinshasa, continuano le richieste di estradizione per poterlo processare, ma la risposta è interlocutoria e sembra sempre più chiaro che non verrà dato seguito alla domanda. Il generale ribelle, inoltre, dichiara di avere nazionalità ruandese, ottenuta grazie al suo servizio nell’esercito di Kagame.
Nkunda, è bene ricordarlo, è sotto mandato d’arresto dell’alta corte militare congolese, mentre un dossier su di lui è in fase di istituzione al Tribunale penale internazionale (Tpi). 
Tuttavia, se anche ci fosse un’improvvisa accelerazione e arrivasse un mandato dall’Aja, Nkunda sarebbe al sicuro, dato che il Rwanda è tra i paesi che non riconoscono l’autorità del Tpi. È ancora difficile dire se la cattura del generale ribelle sia stata effettiva o solo un’abile mossa politica. Si vedrà. Ma i dubbi restano e sono legittimi: come immaginare che Kagame lasci processare chi conosce così tanti segreti?

Vita da ribelle

Protagonista da oltre un quindicennio di tutto ciò che accade nell’Est del Congo, Laurent Nkunda Batware nasce il 2 febbraio 1967 nel territorio di Rutshuru (a nord-est di Goma) da una facoltosa famiglia di allevatori tutsi (a volte erroneamente definiti banyamulenge: questi sono sì tutsi congolesi, ma solo quelli che vivono da generazioni nel Sud Kivu, sulle colline di Mulenge, da cui traggono il nome).
Giovane studioso, ottiene buoni risultati a scuola, ma si distingue anche per il carattere ribelle: non ha ancora 17 anni quando, al comando di un folto gruppo di collegiali, prende d’assalto un posto di polizia in cui è detenuto un loro professore.
Cresce sentendosi un cittadino di serie B, discriminato perché tutsi: questa sensazione si acutizza quando prosegue gli studi universitari a Kisangani, nella Provincia Orientale, dove la sua fisionomia (alto e magro) lo rende facile bersaglio di uno scherno che lui mal sopporta. Lascia l’università e riprende gli studi a Kigali, in Rwanda, dove di certo si sente più a suo agio.
Qui si iscrive all’università avventista di Mutende, ed essendo un fervente credente, si prepara a diventare pastore; ma i suoi insegnanti si oppongono a causa del suo carattere incontrollabile. Un altro smacco per lui. Quando il 1 ottobre 1990 Laurent Nkunda apprende del massacro di studenti e professori tutsi all’università di Mutende, lo shock lo convince a darsi alla causa della difesa dei tutsi.
Entra nel Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame, poi nell’Armée Patriotique Rwandese (Apr), il braccio armato dell’Fpr. Viene mandato in Uganda per la formazione militare. Coinvolto in «operazioni speciali» si sposta spesso tra Uganda, Kivu e Rwanda. Nel 1994, durante la «liberazione» di Kigali, è sergente dell’Apr e membro del servizio informativo.
Ed è proprio dal genocidio ruandese che ha origine anche il dramma del Congo: una marea umana in fuga si riversa oltre confine, accampandosi a Goma. Tra loro, anche ex militari e i miliziani interahamwe, responsabili del genocidio e tutt’ora ricercati dal governo di Kigali. Nel giugno 1995, vengono uccisi 51 membri della famiglia di Nkunda.

La (prima) guerra del Congo

L’anno successivo Nkunda, nominato comandante, partecipa alla marcia su Kinshasa che provocherà la caduta del governo di Mobutu e la salita al potere di Laurent-Désiré Kabila. Nkunda non arriva fino a Kinshasa: la sua marcia si ferma a Kisangani, dove viene paradossalmente destinato ad occuparsi della sicurezza di un giovane ancora sconosciuto: Joseph Kabila.
Dopo la «liberazione» del Congo, tutti i combattenti confluiscono nel nuovo esercito nazionale, senza distinzione d’origine. Al loro comando, il generale James Kabarebe (ruandese), l’uomo a fianco del quale dodici anni più tardi, il 16 gennaio 2009, il «nuovo capo» dissidente del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) Bosco Ntaganda annuncerà la fine della guerra con il governo di Kinshasa.
Ma torniamo al 1998: la luna di miele tra Kabila padre e Kagame è già finita. Scoppia la seconda guerra del Congo e comincia la caccia ai tutsi, che non risparmia neanche i militari. Nkunda si mette di sua iniziativa a capo di una brigata per liberare i compagni rimasti intrappolati a Kisangani.
Il 16 gennaio 2001, Laurent-Désiré Kabila viene ucciso e al suo posto diviene presidente Joseph Kabila. Nel frattempo, Nkunda diventa colonnello e viene messo a capo della 7a brigata delle Forze armate congolesi (Fac), parte dell’esercito congolese, ma in realtà alle dipendenze di Kigali. Nel 2002 reprime nel sangue un ammutinamento a Kisangani: è questo il primo episodio che gli attira accuse di crimini di guerra da parte delle Ong.
A fine 2002, gli accordi di Pretoria pongono ufficialmente fine alla guerra. Ma lui li snobba e rifiuta di prestare giuramento al nuovo governo. A metà 2003 crea l’associazione Synergie nationale, che ha anche un ramo armato, chiamato Anti-genocide team (squadra anti genocidio). L’anno successivo marcia su Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, per aiutare il generale tutsi Mutebusi in rivolta contro Kabila. Bukavu è occupata e razziata per quattro giorni.

Tutti a caccia di Nkunda

Kinshasa destituisce Nkunda e lancia contro di lui un mandato d’arresto internazionale, mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu lo inserisce nella lista nera di chi è interdetto ai viaggi. Nel dicembre 2004 il governo congolese manda contro di lui la prima offensiva, denominata «operazione Bima», che si risolve in un cocente fallimento. Il 25 agosto 2005 Nkunda crea il Cndp, movimento strutturato, disciplinato, ardentemente seguace del leader, secondo la dottrina avventista che Nkunda stesso chiama justicisme chrétien, neologismo per indicare una sorta di giustizialismo cristiano. Nei territori a nord di Goma che il Cndp controlla, il movimento si autofinanzia con tasse imposte alla popolazione e tramite il controllo del posto di frontiera di Bunagana, esigendo imposte sulle merci in transito e di conseguenza controllando tutto il traffico (per lo più illecito) di minerali e risorse naturali.
Altre fonti di reddito sono l’appoggio finanziario inviato da chi sostiene la sua causa anche dall’estero, dai simpatizzanti in Europa, negli Usa e in Sudafrica. Tutto è documentato nel rapporto del gruppo di esperti Onu. Il resto è cronaca recente.

Futuro incerto

Tolto di mezzo Nkunda, le truppe ruandesi restano in Congo per proseguire il lavoro congiunto con le Fardc (l’esercito regolare della Rdc) per la cattura delle Fdlr, i combattenti hutu ruandesi rifugiati in Congo dopo il genocidio.
Il presidente Kabila continua a ripetere che l’operazione avrà termine presto e che i soldati di Kigali rientreranno a casa loro. Ma la popolazione non si fida. Il timore espresso da più parti è che la cattura delle Fdlr sia una scusa e che – essendo quasi impossibile catturarli tutti, specie quelli nascosti nella foresta – la missione finisca col venire prolungata ad libitum e risultare copertura della reale occupazione del Nord Kivu da parte del governo ruandese, affamato di terre e risorse. Scusa utilizzata dal governo di Kigali ormai da oltre 10 anni.
Ci si domanda, ad esempio, perché l’operazione militare sia concentrata nel Nord Kivu, quando il nucleo forte delle Fdlr si trova nel Sud Kivu. Alcuni con ottimismo (o con rassegnazione) dicono che forse questa è l’unica via per una reale pacificazione, o una normalizzazione della zona, che consenta alla popolazione almeno di vivere senza il terrore di guerre, stupri e saccheggi. Altri, meno ottimisti, temono che non sia altro che l’avvio di un’ennesima, cruenta fase della guerra infinita dei Grandi Laghi. 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




Luci e ombre sul delta del Gange

Viaggio nel paese più popoloso del mondo

Superficie meno della metà di quella dell’Italia e oltre 153 milioni di abitanti, il Bangladesh è afflitto da tanti problemi: spaventose inondazioni e inquinamento, corruzione e instabilità di governo, povertà e sfruttamento dei lavoratori: il 40% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. All’economia del paese contribuiscono le rimesse di 5 milioni di emigrati. L’esodo continua anche verso l’India, che cerca con ogni mezzo di respingere chi vuole attraversare i confini.

Partiamo da Calcutta all’alba del 27 dicembre 2008. Sui marciapiedi uomini seminudi si stanno lavando, azionando le prese d’acqua pubbliche, altri sistemano banchi con le mercanzie. Usciti dalla città, villaggi e lembi di campagna si susseguono fino al confine col Bangladesh.
Lasciato l’edificio fatiscente della dogana indiana, ci troviamo in un paese che pare più ordinato e accogliente, anche se densamente popolato. Una fila di autobus ammaccati, ma dipinti a colori vivi, è ferma in attesa, sotto i giganteschi alberi di tamarindo che bordano la strada; gli autisti ci fissano stupiti.
Lungo il percorso che ci condurrà a Khulna incontriamo gruppi di manifestanti: tra due giorni ci saranno le elezioni, le prime dopo l’arresto di Begum Khaleda Zia nel gennaio del 2007 e il successivo governo di transizione militare. La gente inneggia al partito di Sheikh Hasina. 
«Nouka-nouka», «barca-barca» gridano i due principali opposti schieramenti, che hanno come simbolo la barca e il ramo di riso e fanno capo alle due donne che si sono alternate alla guida del paese negli ultimi anni. Khaleda Zia, vedova del generale Zia, ucciso nel 1981, guida il Bangladesh National Party, alleato dei partiti islamici; mentre Hasina è figlia del padre della patria, Muijbur Rahmanan, primo presidente del Bangladesh e fondatore della Awami league, massacrato durante il colpo di stato del 1975 (vedi riquadro).

Tutti al lavoro

Pare sia facile innamorarsi di questo paese. La gente è veramente speciale, gentile e accogliente. È il paese tra i più piccoli al mondo e il più densamente popolato; ma non si vedono sfaccendati in giro, tutti sono al lavoro, un lavoro molto duro perché privo di aiuti meccanici.
Le donne vestono sari colorati; rare quelle con il volto velato. Nelle campagne svolgono i lavori meno pesanti, contrariamente a quello che succede in India. Nelle città si impiegano nelle industrie di abbigliamento, lavorano anche di notte e sono sfruttate.
Molto numerose sono le foaci per mattoni, con le ciminiere e le lunghe file di mattoni fatti a mano, disposti a seccare. Non ci sono pietre in Bangladesh; il terreno è tutto fango, limo lasciato dai grandi fiumi himalaiani, il Gange e il Bramaputra che si uniscono in un enorme delta. Dopo la cottura, si rompono i mattoni per poi utilizzarli come pietre.
Il traffico nel paese è dato da carretti, rikshò e camion con grossi carichi, su cui sovente si arrampicano gruppi di passeggeri. Le prime auto le vedremo solo nella capitale o presso i posti di polizia e dell’esercito. Non riesco a essere indifferente alla fatica che traspare negli occhi allucinati di uomini costretti a trasportare enormi pesi su carretti tirati dalle biciclette. Uomini-cavallo, scalzi, magri, alcuni con la barba bianca, altri giovani, ma logori.
Il contrasto è forte nella capitale, dove questa situazione convive con lo sfarzo di certi edifici pubblici e il lusso dei centri commerciali. La vita intellettuale è vivace: leggo sui quotidiani che alcune donne straniere che si sono trovate a vivere qui per qualche anno, si sono poi attivate per portare aiuto e solidarietà, creando fondazioni per lo sviluppo sociale e culturale del paese che le ha ospitate.

Un missionario leggendario

I missionari cattolici sono presenti e molto attivi, nonostante questo sia un paese all’87% musulmano. Siamo andati a cercarne uno veramente speciale, nella sua missione presso Mongla, nella regione dei Sunderbans, nel delta del Gange.
Attraversiamo il fiume con un barcone, poi un rikshò ci conduce alla missione dove veniamo accolti da padre Marino Rigon, saveriano, originario di Vicenza. Il suo bel viso di ottantenne, incoiciato dalla barba bianca, è comparso ieri sulla prima pagina del  Daily Star di Dakha, in occasione del conferimento, da parte del governo, della cittadinanza onoraria. Si è voluto riconoscere così il prezioso lavoro svolto nel paese sin dal 1954.
La missione comprende la scuola per gli orfani, il laboratorio di cucito dove vengono accolte le ragazze più graziose, che sono più a rischio, il dispensario e la chiesa di San Paolo, trionfo di colore e testimonianza di tolleranza: padre Marino ci indica i simboli delle religioni presenti nel paese, che decorano le pareti e l’altare: la mezzaluna islamica, il fior di loto buddista e la croce cristiana. 
«Mi interessa quello che devo fare, non quello che ho fatto in questi 54 anni – risponde il missionario ai nostri complimenti -. Oggi la situazione è migliorata, ma i poveri restano sempre poveri, con i problemi di sempre».
Poi ricorda: «Nel ’71 ho cornoperato con i patrioti, per la liberazione del paese dal Pakistan. Una guerra cruenta, che fece più di un milione di morti. I pakistani bruciavano i villaggi, uccidevano e violentavano. Sono sceso sulla riva del fiume, sono andato incontro al comandante responsabile dei massacri e gli ho detto: voi non venite più qui a bruciare e uccidere la gente».
Domando come sono i rapporti con i musulmani. «Qui la gente prima è bengalese, poi islamica. Nel delta un tempo vi erano solo indù, poi sono arrivati i commercianti islamici. I fuori casta, che abitano al di là del fiume, si sono convertiti al cristianesimo. Sono poveri pescatori e io mi curo di loro. Li aiuto anche quando devono ricostruire le capanne spazzate via da un tifone».
Alla missione arrivano tutti i giorni le emergenze, come quella donna che ieri è arrivata, col seno che le scoppiava, perdeva sangue e il missionario l’ha fatta ricoverare.
«Stamattina, alla messa delle 6,45, la chiesa era vuota, fuori c’era nebbia fitta. Ho letto il capitolo 1° della Genesi, fondamentale: Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza» spiega il padre, fermandosi un istante a meditare, e conclude: «Forse l’uomo vero è la coppia, uomo e donna insieme».
Poi aggiunge:  «Nelle mie omelie non manco di citare i bauls, i menestrelli bengalesi di una setta iniziatica che ha le radici nel tao. Fu un fratello della Holy Cross a farmi conoscere questi cantori dolcissimi, che parlano dei problemi dell’uomo, spirituali e terreni. Sono cantori senza grammatica, che credono nell’amore e cantano una vita semplice».
Vicini al sentire buddista, i bauls formano un gruppo eterogeneo che comprende indù e sufi islamici. Sono mistici, ma legati alle cose terrene e all’amore carnale. Si esprimono attraverso la musica e hanno influenzato tutta la cultura bengalese, in particolare del grande poeta nazionale Rabindranath Tagore. Padre Marino è stato il primo a tradurre le sue opere direttamente dal bengali in italiano. Anche stamattina egli ha terminato la messa con un verso del poeta.
I canti baul sono più di 2.000 e padre Marino ne ha già tradotti 350. Ha pure scritto «La voce del silenzio», un libro di cui riporto il seguente testo: «Marco compone il racconto della crocifissione mettendo in risalto che Cristo morente resta “solo”, sta in “silenzio”. “Solitudine e silenzio” sono l’unico grido di chi ”non ha voce”. Penso che “solitudine e silenzio” del mondo povero siano un grande castigo per coloro che danzano nella massa umana ricca che strilla dentro una musica stonata…
Molti mi domandano se sono stato in Terra Santa. Rispondo semplicemente che non sento il bisogno di andarvi. La verità è che la Terra Santa la ho qui, in questi villaggi di intoccabili; nel loro volto vedo gli sputi e gli schiaffi dati a Cristo; nelle loro vesti stracce vedo il manto regale, da burla di Gesù, sul loro capo vedo la corona di spine e nelle loro mani e nel loro petto vedo le ferite del Crocifisso».

Banca di Villaggio

I due funzionari sono arrivati ieri sera da Dakha, l’appuntamento è nella sede della banca Grameen, in un villaggio presso Bogra, dove sono convenute alcune donne per testimoniare l’efficacia del microcredito creato dal premio nobel per la pace 2006, Muhammed Yunus. Tutte indossano sari colorati e hanno il viso segnato dalla fatica. Due di loro sono anziane vedove senza figli, costrette a mendicare per vivere. Con il piccolo prestito ottenuto una di esse ha potuto comprare una capra e ora vende il latte.
Shahama ha iniziato con un debito di 2.000 taka e ora ne ha fatto uno di 80 mila. Ha costruito una casa dove abita con la famiglia e ne affitta una parte. Con il reddito paga il suo debito. Un’altra donna con il prestito si è comprata una mucca. Poi ne ha comprata un’altra e ora vende il latte a 30 taka il litro. Così riesce a mantenere la figlia all’università. 
Allamein è uno studente, sua madre ha fatto un debito per farlo studiare. Lui dovrà restituirlo un anno dopo aver trovato lavoro.
L’idea vincente è che tutti possono diventare imprenditori di se stessi, anche i poveri contadini di villaggi remoti, perché è la banca che li raggiunge, con i suoi funzionari.
La storia di Yunus è affascinante. Durante la terribile carestia che seguì la guerra di liberazione del ’71, egli era un giovane professore che si trovava a insegnare eleganti teorie economiche all’università di Chittagong, mentre i suoi concittadini morivano di fame. Rendendosi conto dell’inutilità del suo lavoro, volle impegnarsi subito e personalmente per aiutare i poveri a uscire dalla loro miseria.
Scoprì così che nel villaggio accanto al campus erano le donne a doversi indebitare con gli strozzini per poter affrontare le emergenze familiari. Costoro con un prestito di soli 25 centesimi di dollaro potevano avere l’esclusiva dei prodotti della vittima, al prezzo stabilito da loro.
Il primo studio lo fece in tale villaggio, dove 42 donne si erano indebitate per 27 dollari Usa. Se così poco denaro poteva cambiare la vita di tante persone, Yunus pensò di offrire la somma di tasca propria, poi cercò di mettere le donne in contatto con la banca del campus, che si rifiutò di prestare denaro a gente così povera.
Allora Yunus decise di dare personalmente la garanzia e si rese conto che i debiti venivano ripagati puntualmente. Nacque così la Grameen Bank (banca di villaggio), idea geniale che si è propagata in tutto il mondo. 
Durante il mio viaggio mi renderò conto che, comunque, la Grameen è diventata una banca come tutte le altre, elargisce borse di studio, possiede una rete telefonica e altre attività redditizie. La sede è in uno splendido edificio moderno, nella capitale, ma il tasso praticato alla povera gente del Bangladesh è comunque molto alto, raggiunge il 12%. Ho sentito di gente insolvente che ha perso la mucca,  sua unica proprietà e fonte di sostentamento. Oppure è stata costretta a fare altri debiti per pagare i precedenti. In alcuni villaggi, gli agenti della Grameen Bank sono considerati al pari di usurai.

HILL TRIBES

Ranglai Mo è stato eletto per tre volte capo della comunità indigena shnalok di Bandaraban, nella regione collinare di Chittagong, nel sud est del paese. Sofferente di cuore, fu arrestato due anni fa per detenzione di armi e sta scontando una pena di 17 anni incatenato, nel carcere di Chittagong. Cardiopatico, in questi giorni è stato necessario trasportarlo nell’ospedale di Dakha per sottoporlo a cure intensive presso l’unità coronarica, ma i medici hanno riscontrato anche i segni di ferite al dorso e al petto. Le catene complicano le cure e ora pare che un’organizzazione umanitaria si stia interessando al caso.
Le regioni sud orientali sono le terre alte del Bangladesh, che per il resto è pianura alluvionale percorsa da fiumi e non più alta di 10 metri sul livello del mare. Abitate da etnie buddiste, sono visitabili con permessi speciali e scorta armata. Al tempo degli inglesi esse godevano di statuto speciale e una certa autonomia, che fu abolita dai pakistani. Dal 1973 iniziarono le lotte dei tribali contro la politica del governo che consentiva ai bengalesi di espropriare le loro terre.
Sheikh Hasina firmò una pace nel ’97, restituendo ai gruppi etnici parte del territorio. Tuttavia più di 400 mila bengalesi si sono trasferiti nella zona di Rangamati, sul lago Kaptai, abitata dall’etnia chakma. Hanno costruito alberghi e strutture per ricevere i turisti che cercano il fresco delle colline e ora i tribali sono emarginati e continuano a subire soprusi, dopo che più di 100 mila hanno dovuto riparare in India.
Saremo sempre seguiti da una scorta, anche durante la navigazione sul lago, che dopo tanti anni non ha ancora un aspetto naturale. Ci arrampichiamo sulle rive polverose per visitare due poveri villaggi abitati da pescatori. Qualcuno veste ancora consunti abiti tribali, come questo signore scalzo e magro, che si siede accanto a me sotto un pergolato e mi fissa negli occhi, composto e sorridente.
Noto che il militare della nostra scorta si avvicina e lo tiene sotto osservazione col mitra spianato. «Siete italiani? – mi chiede, stupito, poi si presenta -. Mi chiamo Subal e sono buddista. Da ragazzo ho studiato in una missione cattolica, dove c’era un padre italiano, ma non ricordo il suo nome». Subal Chandra Chakma è stato maestro di villaggio per 36 anni; ora che ne ha più di sessanta è rimasto a vivere qui con uno dei tre figli, gli altri si sono trasferiti in città, a Rangamati. «Prima del ’58, quando hanno costruito la diga, la mia gente aveva bestiame e ricchi raccolti di riso. I nostri bei villaggi finirono coperti dalle acque e fummo costretti a spostarci sulle cime dei monti, dalle pendici ripide, dove è impossibile coltivare. Ho tentato di mettere alberi da frutta, inutilmente».
Subal continua a parlare, non teme il militare; vuole che noi sappiamo della sua situazione. «Gli inglesi ci avevano lasciato una certa autonomia, che ora reclamiamo invano, siamo discriminati e impoveriti. Persino con i pakistani stavamo meglio».
Gli alberi secolari, dal legname prezioso furono tutti abbattuti e portati via. Ora hanno piantato alberi del teak, ma l’impressione che si ha, percorrendo in lancia il lago Kaptai tra isolette spelacchiate, è di squallore.
«Le elezioni si sono svolte in modo esemplare – ci dicono durante la cena due danesi ospiti del nostro albergo -. Siamo stati inviati dall’Europa come osservatori in occasione delle elezioni. Quattro settimane che ci hanno fatto conoscere un paese sorprendente, la gente è veramente stupenda. Siamo felici del risultato, che vede sconfitti i partiti islamisti». 

Di Claudia Caramanti

La politica: Le due dame

La signora Begum Khaleda Zia, di 62 anni, è a capo del Bangladesh national party (Bnp) da quando suo marito fu ucciso nel 1981. Nel ’92 vinse le elezioni, ma nel ’96 le perse a favore dell’Awami league della Sheikh Hasina. Ritoò al potere nel 2001. Fu poi  arrestata con i due figli per corruzione e rilasciata dopo un anno di prigione. Il suo partito si basa su valori islamici ed è alleato con partiti islamici.

La Sheikh Hasina, due figli, marito fisico nucleare, ha 61 anni e guida il partito da quando suo padre Mujibur Rahman, fondatore e primo presidente del Bangladesh, fu ucciso con la sua famiglia durante il colpo di stato militare del 1975. La Awami league nacque per promuovere pari diritti alle due popolazioni nel 1948, un anno dopo la divisione del subcontinente.
Hasina ha abbandonato le idee socialiste del padre e si è aperta al mercato. Vinte le elezioni del ’96, superando la Zia, perse le successive nel 2001. Sopravvissuta all’attentato del 2004, in cui morirono 24 persone (attribuito a gruppi islamici), fu arrestata per corruzione nel luglio del 2007. Anche Hasina ha passato un anno in prigione. Nelle ultime elezioni, dicembre 2008, ha vinto in modo netto, sconfiggendo la rivale e i partiti islamisti suoi alleati.

Lo Jatiya party fu fondato nel 1985 dal generale Hossain Moham Ershad, che nel 1982 con un colpo di stato prese il potere dichiarando il paese islamico, permettendo il culto di altre religioni. Nel 1994 fu scalzato da una rivolta popolare guidata dalle due dame, Hasina e Khaleda Zia.
Ershad oggi ha 78 anni e ha perso le ultime elezioni.

Il Jamaat e Islami, è il partito islamico più forte, guidato da Matiur Rahman Nizami, 65 anni. Anche Nizami è stato in prigione, ma contava sul consenso delle masse impoverite.  Fu accusato di aver appoggiato il Pakistan durante la guerra di liberazione del 1971 e messo al bando. Nel 1991 il Bnp lo legalizzò e divenne suo alleato.
Dopo due anni di governo provvisorio militare, con queste elezioni si apre una speranza di democrazia.

Claudia Caramanti




Rifondazione, 500 anni dopo

Gennaio 2009: approvata la nuova Costituzione boliviana

Una giornata storica per la Bolivia. Il presidente indigeno Morales festeggia con il popolo la Costituzione approvata con referendum. Sancito uno stato di 36 nazioni indigene di tipo socialista. L’acqua è dichiarata diritto umano. I benefici per i meno abbienti riconosciuti. Ma sono anche validati i referendum delle destre, che conferiscono più autonomia ai dipartimenti orientali. Luci e ombre della nuova Carta.

Da buon aymara, Evo Morales crede molto nelle simbologie: ecco perché sabato 7 febbraio il presidente della Bolivia ha voluto che le celebrazioni per l’approvazione della nuova Costituzione del paese, votata dal 61, 43% della popolazione attraverso un referendum il 25 gennaio scorso, si tenessero a El Alto.
El Alto è una distesa di baracche cresciuta senza ordine a 4.100 metri d’altitudine attorno alla città di La Paz, anzi, sopra a La Paz, che si trova in effetti in una conca. Abitata da quelli che hanno abbandonato l’altopiano per sfuggire alla povertà di campagne e miniere,  è  divenuta negli anni una vera e propria città satellite e la capitale della popolazione indigena aymara, che da sola rappresenta un terzo degli otto milioni di boliviani.
Furono proprio gli alteños – gli abitanti di El Alto – a insorgere e a essere di conseguenza massacrati, nel 2003, contro il governo dell’allora presidente dittatore Gonzalo Sanchez de Lozada, reo di avere svenduto a compagnie straniere il gas boliviano mentre la popolazione moriva di freddo. Sempre da qui arrivò l’appoggio civile – ma anche armato – in aiuto alla gente di Cochabamba, che nel 2000 combatteva nella «guerra dell’acqua» (cfr. MC giugno 2006) al grido di «El agua es nuestra, carajo!» (l’acqua è nostra) contro la multinazionale statunitense Bechtel che l’aveva privatizzata. Questo esteso ammasso di baracche è sempre stato simbolo dello sfruttamento della gente indigena boliviana. Ma anche della sua capacità di resistenza.

Costituzione «popolare»

Ecco perché proprio qui a El Alto, e davanti alla sua gente, il primo presidente indigeno della Bolivia ha voluto promulgare ufficialmente «di fronte al popolo, non come prima, fra quattro mura e solo davanti al Congresso (parlamento boliviano, ndr)» la nuova Costituzione politica dello stato (Cpe), la Costituzione boliviana numero 16, la prima approvata attraverso votazione popolare e frutto di un’Assemblea costituente, in 183 anni di storia repubblicana. 
Fin dall’alba del sabato – ma in molti si erano dati appuntamento il giorno prima, passando la notte all’addiaccio nonostante le temperature vicine allo zero – una fiumana di gente aveva cominciato a gremire la avenida 6 de Marzo, lo stradone centrale che taglia a metà la baraccopoli. Decine, poi centinaia di migliaia di donne, uomini, vecchi, contadini, provenienti da ogni pueblito (villaggio) dell’altipiano, erano arrivati con le wiphalas, le multicolori bandiere indigene, portando le insegne del partito al governo, il Movimiento al Socialismo (Mas), gli striscioni del proprio sindacato e delle organizzazioni di base d’appartenenza.
Più tardi si erano unite anche le delegazioni dall’Oriente boliviano, la parte del paese roccaforte dei partiti d’opposizione: quelli del Plan 3.000 de Santa Cruz – dove negli ultimi mesi del 2008 si sono duramente fronteggiate fazioni del campesinato (settore contadino) locale e paramilitari agli ordini delle destre.
Poi i contadini della regione di Chuquisaca, gli originari dell’etnia weenhayek del Chaco, i coltivatori di Tarija.  Tutti luoghi dove lo scontro etnico e culturale fra indigeni e criollos, i discendenti dai conquistadores spagnoli, sono stati feroci durante tutto il mandato di Evo Morales, cominciato nel gennaio del 2006.
E ancora i raccoglitori di foglie di coca del Tropico di Cochabamba – i cocaleros, di cui Evo Morales è tutt’ora presidente del sindacato – i minatori di Potosì e quelli delle miniere di stagno e argento di Oruro,
di dove il presidente è pure originario e dove da piccolo si manteneva facendo il pastore di lama.

«Missione compiuta»

Non appena i primi raggi di sole hanno cominciato a illuminare la distesa di tetti di latta e strade fangose di El Alto, le donne con le ceste e le carriole di panini, empanadas, salteñas e bibite varie, si erano contese i posti migliori. Altre schiere di venditori di bandierine e fotocopie del nuovo testo costituzionale si erano mescolati alla folla.
I vecchi già iniziavano a ch’alliare – benedire con dell’alcol – la giornata, mentre i rappresentanti istituzionali prendevano posto negli spalti d’ordinanza. Così in successione le autorità, gli invitati speciali – fra cui il premio Nobel per la pace, la guatemalteca leader indigena Rigoberta Menchù e il cancelliere venezuelano Nicolás Maduro – e gli ufficiali dell’esercito. Alle 11.57 il maestro di cerimonia annunciava l’arrivo del presidente Evo Morales e del suo vice, il sociologo ed ex guerrigliero Álvaro García Linera.
«Sorelle e fratelli di Bolivia, in questa giornata storica proclamo la nascita dello stato plurinazionale, unitario, sociale e del socialismo comunitario, a partire dalla nuova Costituzione. Missione compiuta per la rifondazione della nuova Bolivia unita! Ora possono uccidermi, possono cacciarmi dal palazzo!». Inizia a parlare così il presidente, con l’enfasi che gli è propria.
La folla nel frattempo ha raggiunto il milione di persone: un eterogeneo spaccato di tutte le categorie storicamente oppresse della Bolivia.
Morales lo sa bene, e prima di ogni altro discorso legge la sentenza con la quale, il 14 novembre 1781, le autorià coloniali avevano ordinato lo squartamento del leader indigeno Tupac Katari.
Come a significare che con la promulgazione della nuova Costituzione un cerchio si sta chiudendo, che la giornata in corso ha lo stesso spessore storico e la stessa portata di rivalsa identitaria per la popolazione boliviana. E più in là ancora, per tutte le popolazioni andine che una volta facevano il Qollasuyo, l’antico regno incaico. Come a dire che quel «Toerò e saremo milioni», detto da Tupac Katari prima di morire, oggi ha il sapore della profezia politica: «Eccoci qui, siamo milioni, siamo tornati», pare dire l’aymara Evo Morales, ex pastore di lama.

Trentasei nazioni indigene

La nuova Cpe consta di 411 articoli. Fa della Bolivia uno stato plurinazionale di stampo socialista, composto da 36 nazioni indigene, tante quante sono le etnie censite. Il ruolo dello stato è più forte e vengono riconosciuti benefici sociali ai settori indigeni e ai meno abbienti. I servizi basici, in primis l’acqua, sono dichiarati diritti umani. Le risorse naturali di «carattere strategico» – idrocarburi, minerali eccetera – potranno essere sfruttate solo sotto controllo statale, ma vengono fatte aperture alle partecipazioni di imprese statali straniere con contratti a prestazione di servizio.
La pianta della coca – sacra per gli indigeni, madre della cocaina per tutti gli altri – è definita patrimonio culturale. Le basi militari straniere sono bandite. La religione cattolica rimane quella ufficiale, ma viene equiparata all’animismo indigeno, che riceve pieno riconoscimento. Sanità e scuola saranno un diritto e non un privilegio.
A una prima lettura, la nuova Cpe parrebbe essere la conferma delle promesse fatte da Morales e dai suoi dalla campagna elettorale presidenziale in avanti, e il coronamento di un cammino verso l’autodeterminazione di un popolo, partito cinque secoli orsono con l’arrivo di Pizzarro e dei conquistadores, proseguito in tempi più recenti con le lotte in difesa dei beni comuni e delle proprie identità culturali.
Invece, severe critiche vengono proprio da quei movimenti sociali che hanno favorito l’ascesa di Morales: quelli che hanno combattuto per rifondare la Bolivia con battaglie civili e politiche che dalla «guerra dell’acqua» in avanti tentavano di tratteggiare un nuovo tipo di democrazia e di stato. E che si sono ritrovati isolati e depauperati da un governo monocolore. La nuova Costituzione si porta in seno il difficile cammino dell’Assemblea costituente, che per due anni non è riuscita ad avere la meglio sulle opposizioni, dando il fianco a lacerazioni politiche sempre più gravi.
L’Assemblea, che era stata uno dei punti cardine dell’elezione di Morales a presidente, doveva essere lo specchio delle forze rinnovatrici della società boliviana: di quei sindacati, movimenti sociali, contadini, indigeni, che dal ’99 in avanti avevano cacciato tre presidenti della repubblica a furor di popolo e avevano mostrato al mondo che un rinascimento indigeno latinoamericano stava prendendo forma e forza.
Ma quella novità importante nel panorama internazionale che era l’eterogeneità politica boliviana, non compariva nella sua struttura.
Il tema della plurinazionalità, ad esempio, è esplicativo. Assieme alla decentralizzazione, è la caratteristica distintiva di questa nuova  Costituzione. Vengono regolamentate quattro tipologie di autonomia – dipartimentale, regionale, municipale e indigena – tutte con il medesimo «rango e gerarchia».
Nel suo articolo 1, essa infatti dichiara che:  «La Bolivia si costituisce in uno stato unitario sociale di diritto plurinazionale comunitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, interculturale, decentralizzato e con autonomie», e sottolinea come «la Bolivia si fondi sulla pluralità e il pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico, dentro il processo integratore del paese».

Autonomie e risorse

Oltre alle 36 nazioni indigene dunque, la Cpe riconosce l’autonomia dipartimentale alle 9 regioni del paese. In quattro di queste – Beni, Pando, Tarija e Santa Cruz , che compongono la cosiddetta «Mezza Luna» per le ricchezze in termini di gas, petrolio, idrocarburi e agricoltura che possiedono – l’autonomia è già effettiva, grazie a una delle tante concessioni che il governo Morales ha dovuto fare alle forze politiche oppositrici.
Il referendum costituzionale del 25 gennaio era stato infatti fissato inizialmente il 4 maggio 2008. Ma i tumulti che infiammarono la Bolivia imposero uno slittamento della data.
Quel maggio, i partiti di destra assieme ai prefetti e ai comitati civici della Bolivia dell’est, capeggiati dall’imprenditore di origine croata Branko Marinkovich di Santa Cruz, avevano decretato la secessione dal governo centrale con una serie di referendum autonomici, giudicati allora illegali dalle autorità governative.
Con una scioccante campagna denigratoria, che opponeva l’orgoglio «camba» (sostanzialmente, orgoglio bianco) a quello indigeno, la crema politica della Mezza Luna, riunita in un sedicente Consiglio nazionale democratico (Conalde), aveva alimentato una spirale di violenza che aveva provocato decine di morti e umilianti episodi di razzismo contro contadini e indigeni, arrivando a sdoganare la creazione ufficiale di un esercito paramilitare nominato Union Juvenil Crucenista.
Lo stesso gruppo armato che l’11 settembre successivo avrebbe provocato la strage chiamata «El masacre de El Porvenir», trucidando 30 contadini inermi nella regione del Pando.
Ebbene, con un certo sconcerto, questa Cpe ha riconosciuto come validi proprio quei referendum che fanno delle regioni d’Oriente di fatto delle regioni autonome, mentre demanda al 2010 l’autonomia delle rimanenti 5 regioni, fra cui La Paz.
Un altro tema che evidenzia alcune contraddizioni, è quello degli Ogm. La legislazione precedente, quella ereditata dal neoliberalismo, aveva permesso che molti prodotti agricoli geneticamente modificati entrassero in Bolivia, fra cui la soia.
Nel testo costituzionale approvato a Oruro nel novembre del 2007 dall’Assemblea costituente, l’articolo 408 recitava:  «Si proibisce la produzione, importazione e commercializzazione dei transgenici». Dopo alcuni mesi di contrattazioni, l’articolo 409 della Cpe risulta essere:  «La produzione, importazione, commercializzazione dei transgenici sarà regolamentata per legge».
In effetti, i mesi che hanno preceduto il referendum di gennaio sono stati una specie di «mercato di articoli costituzionali» che sottendeva alla creazione di un equilibrio interno al paese. Oltre cento articoli sono stati modificati in corsa. Ma non è stato abbastanza.

Città e campagna

Il risultato del referendum infatti, non ha sfiorato i numeri stellari del referendum revocatorio del 10 agosto scorso, che aveva decretato un granitico consenso al governo Morales. E seppure certifichi che la maggioranza della popolazione sia a favore della Cpe, disegna per l’ennesima volta una Bolivia profondamente divisa.
Non solo fra altopiani e Oriente,  fra indigeni e blancoidi (meticci). Ma anche e soprattutto, fra città e campagna. Nelle zone rurali, il consenso alla Cpe ha raggiunto l’80%. Nelle città dell’est del paese, la retorica del «razzismo al contrario» che pregiudica i bianchi a favore degli indigeni, ha invece fatto presa sugli indecisi e sui mestizos.
Le destre, dal canto loro, non sono messe così bene: non hanno in questo momento un leader carismatico e sono in minoranza. Ma hanno vinto su un altro importante punto: il latifondo. Il referendum costituzionale era affiancato da quello che chiedeva alla popolazione di votare il limite massimo di ettari posseduti da ogni persona fra 10 o 5 mila ettari.
L’80,65% della Bolivia ha posto il tetto a 5 mila, dando così un segnale forte contro le oligarchie che ancora oggi nel paese posseggono distese impressionanti di territorio. Ma il referendum non è stato formulato in maniera retroattiva. Nessun esproprio dunque ai discendenti delle élitè europee che dal 17° secolo in avanti si erano spartiti la Bolivia a brandelli.
E neppure a quelle militari, che i vari dittatori si imbonivano regalando loro terre e campi con tanto di indigeni lavoranti annessi. Il referendum sul latifondo non darà origine a una riforma agraria redistributiva, eccezion fatta per la terra cosiddetta oziosa di proprietà pubblica.
Non andrà a toccare nemmeno i possedimenti del leader di ultradestra Branko Marinkovich. Per molti, in particolare per quelli che hanno partecipato alle grandi marce indigene per la terra, gridando «La terra per chi la lavora», questo è stato un tradimento.
In queste condizioni, è difficile pensare che la Cpe possa migliorare la governabilità del paese. Soprattutto quando in campo entra anche la crisi economica mondiale, che metterà a dura prova la tanto sbandierata nazionalizzazione delle risorse, fino a oggi più propagandistica che di fatto.
Evo Morales assicura che la promulgazione della nuova Costituzione è  «un passo verso la rifondazione della Bolivia. Verso la liberazione e la vera indipendenza del paese dopo 500 anni di ribellione contro il saccheggio e la sottomissione coloniale, dopo 180 anni di resistenza contro lo stato coloniale, dopo 20 anni di lotta permanente contro il modello neoliberale».
Molti lo aspettano al varco. Ma molti altri vogliono credere in lui e nel sogno che rappresenta.
Così il 7 febbraio 2008, mentre il Primer Mandatario riceveva felicitazioni e abbracci, e una fitta pioggia aveva cominciato a battere incessantemente, gli amautas, gli shamani andini, si erano portati sotto il palco e avevano acceso una mezza dozzina di bracieri sacri. Il fumo delle k’oa aveva riempito velocemente il cielo. La Pachamama veniva ringraziata. 

Di Francesca Caprini

Francesca Caprini