Nel fascino della croce

Spiritualità di Guglielmo Massaia, nel bicentenario della nascita

L’8 giugno 1809 nasceva Guglielmo Massaia, il grande apostolo dei Galla.
Di lui conosciamo e  ammiriamo le eroiche avventure, la creatività e la genialità con cui ha saputo unire evangelizzazione, promozione umana e attività scientifica. Poco o nulla sappiamo, invece, della sua spiritualità, saldamente fondata sull’amore a Cristo Crocifisso.

Nel presentare l’epopea del Massaia si è indugiato molto sull’aspetto umano e umanitario, sull’attività scientifica ed evangelizzatrice del protagonista, senza tenere nel debito conto la forza ispiratrice, propulsiva, direi dirompente della sua attività. Nell’intrepido missionario cappuccino si è visto l’uomo intraprendente e geniale nel crearsi quasi dal nulla metodi, lingue, strumenti indispensabili di lavoro, nell’aprirsi vie fino allora sconosciute e lottare in condizioni di solitudine quasi disperata, contro le forze avverse della natura e degli uomini ottusi e ingrati.
Mentre si è sottovalutata, o addirittura ignorata, l’alta spiritualità del prelato che, trasformando la sua croce pettorale da oggetto-simbolo in realtà, l’aveva piantata nel suo cuore di apostolo, da fargli scrivere: «Ho dato la vita alle missioni fino alla morte, e per me è lo stesso lasciarla qui o là… Purché, prima di morire, mi venga fatto di piantare la croce e circondarla del fuoco evangelico».
C’è una certa affinità tra Guglielmo Massaia e Paolo di Tarso, sia per temperamento e vicissitudini subite, che per una robusta spiritualità della croce. Infatti nei molti suoi scritti il Massaia fa proprie le idee madri della teologia paolina sulla «superscienza» e «superpotenza» della croce, vivendo le perentorie affermazioni di Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14).
«campo di meditazione»
Il 24 giugno 1879, finivano i suoi 33 anni di evangelizzazione, per ordine dell’imperatore Johannes iv, che lo avvierà sulla via dell’esilio; con il cuore lacerato il Massaia scriveva nelle Memorie: «Ho celebrato la mia ultima messa nella cappella di Fekerièghemb avanti il gran crocifisso, campo delle mie meditazioni, il quale ebbe sempre tanta virtù da cambiare le mie più dure prove di spirito in un mare di consolazione. Buon Gesù, esclamai, sarà dunque vero che io non vedrò più questo Calvario che tante volte avete cambiato in Tabor!».
Quel «campo» non lo limitava alle sue personali «meditazioni», ma lo allargava pure ai suoi intimi che condividevano la sua spiritualità, concludendo le sue lettere con le seguenti espressioni, ripetutissime: «Vi abbraccio nel santo Crocifisso», «abbracciandovi strettamente nel santo Crocifisso, nostra unica consolazione e conforto», «vi lascio ai piedi del Crocifisso, nostro divino padrone e maestro» e altre frasi simili.
Negli Statuti per i monaci del vicariato Galla (1854) il Massaia prescrive: «Dalla consacrazione sino al fine del Pater noster, coloro che assistono alla messa, inginocchiati e con le braccia distese, s’immagineranno di trovarsi sopra il Calvario ai piedi della croce con Maria ss. e offriranno a Dio l’incruento sacrifizio per la conversione dei peccatori e degli infedeli redenti col sangue di Gesù Cristo».
Passando dagli atti di culto alla vita di ogni giorno, gli Statuti indicano la passione di Cristo come un superlativo stimolo alla pratica delle virtù più eroiche; perciò esortano il monaco ingiuriato di «ricordarsi che lo stesso accadde a Gesù nostro Signore avanti a Caifa e Anna, e seguire quindi gelosamente il suo esempio, osservando il più scrupoloso silenzio».
La pedagogia della croce dava i suoi frutti, come testimonia l’esempio di uno di quei monaci, abba Jacob: questi, a differenza di padre Cesare da Castelfranco, seppe resistere alle lusinghe del re del Kaffa, che gli proponeva di cambiare religione e sposare una delle sue figlie. «Mia sposa è la croce; prima dovete pensare ad affiggermi su di essa, come il mio Signore» rispose il monaco.
L’apostasia del padre Cesare fu un grave colpo per il Massaia: «Poco mancò che non mi costasse la vita: furono per me tre anni di lacrime e di venerdì santo, prima di arrivare a celebrare una pasqua consolante». Prima di mandargli le ammonizioni canoniche, in vescovo depose la lettera «sotto il corporale, sotto i piedi del buon Gesù» durante la celebrazione del sacrificio del Calvario. In un’altra lettera all’ex-missionario gli confessa di aver offerto la vita per vedere la sua conversione: «Vi assicuro che sarò consolato di morire quel giorno che avrò tale consolazione». E la conversione sincera di padre Cesare fu davvero per il Massaia una pasqua di risurrezione, preceduta dal penosissimo Calvario.
«In questo segno vincerai»
A tale aspetto essenziale della spiritualità del Massaia non era certo rimasto estraneo il culto che gli etiopi nutrono per la croce: le donne cristiane abissine recano il tatuaggio della croce in fronte e i sacerdoti sul dorso delle mani, mentre in ogni casa cristiana domina il simbolo della redenzione.
L’Etiopia è detta terra di Maria e della croce. Ad essa è dedicata la festa nazionale del «Maskal», dell’esaltazione della croce, il 27 settembre, celebrazione in cui si mescolano motivi religiosi, civili, culturali e folcloristici, per ricordare il ritrovamento della croce da parte dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, che aveva ricevuto l’assicurazione: «In questo segno vincerai».
Anche per il Massaia la croce fu un segno di vittoria in vari casi inspiegabili. Un giorno, di fronte a una ricca maga nel Kaffa, pronunciò il breve esorcismo del «Christus vincit…», toccando segretamente la sua croce pettorale nascosta sotto le vesti, e quella fuggì a rompicollo.
Un’altra volta, contro gli abitanti di Celia che si erano rifiutati di concedere la pace a quelli di Lagamara, il vescovo fece piantare tante croci sui confini che i nemici furono sconfitti dallo spavento.
Ma la sua più rilevante vittoria resta il fatto che con la croce egli sia riuscito a conquistare spiritualmente tante anime ostili e a realizzare il paradosso a lui tanto caro e ripetuto spesso nei suoi scritti: ogni vittoria divina è la conseguenza logica di una sconfitta umana.
Nell’ultima fase della sua missione, quando i fedeli cattolici si dichiarano disposti a difenderlo dalle probabili violenze dell’imperatore Johannes iv, il vescovo missionario taglia corto con questo discorso: «Figli miei, vi ringrazio di tutte le vostre simpatie e attaccamento alla missione cattolica, ma dobbiamo intenderci bene, affinché non accada poi di pentirci a vicenda: io non sono venuto qui per fare la guerra e guadagnarmi un regno, ma unicamente per insegnare il vangelo di Cristo… Io non ho bisogno di soldati, ma di figli… Se Cristo è morto, non è morto perché vinto; ma all’opposto, quando noi saremo vinti dai nostri nemici, allora noi saremo vincitori di essi, ed essi entreranno nelle nostre file».
Fuoco, sangue, martirio
Il Massaia non si stanca di ribadire concetti che hanno stretta attinenza con la croce e devono necessariamente essere posti alla base di una evangelizzazione efficace: fuoco, sangue, martirio. Sembra addirittura essee ossessionato.
Scrivendo nel novembre 1847 al procuratore generale, padre Felice Fenech da Lipari, dichiara esplicitamente di essere «non solo missionario, ma di uno spirito tutto fuoco per le missioni»; e aggiunge che tale spirito è un’urgenza per tutta la chiesa. Personalmente non può «riposare tranquillo, fin tanto che i quattro quinti del genere umano corrono la via di perdizione e in un terzo del globo non scorre il Sangue adorabile di Cristo».
Ed è proprio l’urgenza della missione «che mi ha convinto ad abbandonare l’amata provincia monastica per dedicarmi alle missioni, e sono pure i sentimenti di cui vorrei fosse inondato tutto il mondo cattolico; per cui, fino a tanto che avrò fiato e voce, non lascerò di parlare persuaso anche di compiere una parte della missione che per tremendo decreto di Dio sta sulle mie spalle. Quando solamente mi riuscisse di accrescere il capitale del fuoco apostolico di una sola scintilla, io sarei molto fortunato».
In una lettera scritta al Comboni, nel 1865, pur incoraggiandolo ad attuare il suo Piano di rigenerazione dell’Africa, non manca di prospettare difficoltà, persecuzioni e perfino la morte, concludendo: «Il martirio nell’Africa non è martirio di sangue, ma piuttosto martirio di cuore e di tribolazione; e quindi per gli apostoli di energico volere e di paziente fatica, l’evangelizzazione dell’Africa non è a dirsi per nulla difficile; anzi molto semplice toerà a coloro che vi lavoreranno con semplicità.
Carissimo, dopo 18 anni di apostolato tra gli africani, parlo con cognizione di causa: l’Africa è difficile per chi, educato nella nostra patria al fasto e alle delizie, non sa vestire la semplicità e povertà degli etiopi, per renderli doviziosi. Questa è quasi l’unica difficoltà; che però non è tale per i discepoli di Cristo».
Scrivendo il 20 gennaio 1883 al confratello Luigi Gonzaga Lasserre da Morestel, appena consacrato vescovo, il Massaia rivela con tono confidenziale: «Essere consacrato vescovo vuol dire essere sposato alla chiesa di Cristo, per la quale dovete essere disposto a dare il vostro sangue, se occorrerà. Ecco il mio consiglio netto, consiglio che io ho sempre praticato e lo pratico ancora: ogni giorno, celebrando la santa messa o nelle vostre preghiere, rinnovate sempre l’atto di sacrificio della vostra vita in unione con quello fatto da nostro Signore sul Calvario, e che rinnova in modo incruento ogni giorno misticamente nella santa messa, quando dite in nome suo: Hoc est corpus… hic est calix… Se potete, abbiate un desiderio di morire per lui; se poi siete debole, dite un fiat voluntas tua. Con questo esercizio guadagnerete tutta la gloria di martire ogni giorno, anche vivendo cento anni… Vi lascio ai piedi del crocifisso nostro Signore».
«Vescovi delle missioni
vittime e non sposi»
Il Massaia aveva sperimentato in sé la ripugnanza ad accettare il peso dell’episcopato e vi si era piegato solo quando il suo vicario generale, padre Andrea da Arezzo, lo aveva persuaso «che l’episcopato di un missionario è più peso che onore… un vincolo di più al martirio dell’apostolato». Lo stesso ragionamento faceva a quanti si opponevano a essere da lui consacrati vescovi, come nel caso di Giustino de Jacobis. Questi, prefetto della missione dell’Abissinia, rifiutava ostinatamente di essere consacrato vescovo. Dopo averle provate tutte per controbattere le sue obiezioni, il Massaia riuscì a convincerlo quando, con «una forte parlata di risentimento», sentenziò che «i vescovi delle missioni sono vittime e non sposi… Tanto bastò – racconta il Massaia – e contro ogni mia aspettazione si gettò per terra, mi domandò perdono, e finì per dirmi di fare di lui ciò che Iddio mi avrebbe ispirato».
La funzione, svolta con estrema semplicità sul lido di Massaua la notte del 7 gennaio 1849, rimase indelebile nella mente del consacrante: «De Jacobis accettò, direi quasi, con un certo trasporto di piacere, quando l’episcopato si presentò a lui nudo totalmente e spogliato persino della sua maestosa cerimonia, e si presentò nel suo vero senso di sommo sacerdozio coronato di spine con Cristo nel Pretorio e crocifisso con lui sul Calvario».
Con gli stessi argomenti Massaia riuscì a piegare padre Felicissimo Cecino da Cortemilia, suo ex-alunno e poi collaboratore, riluttante all’episcopato, diceva, per scarsità di scienza. «Caro mio – troncò netto il vicario apostolico dei Galla – non è tanto la sapienza quella che ci manca, ma l’umiltà e lo spirito di sacrifizio; né io, nel consacrarvi vescovo, penso coronarvi di rose, ma di spine e crocifiggervi con nostro Signore. Dunque lasciate ogni questione e lasciatevi guidare da me».
«Mi glorio
della croce di Cristo»
Il Massaia ricevette molte onorificenze (tutte custodite nel Museo etiopico «G. Massaia» di Frascati), ma la vanità non riuscì mai a sfiorarlo, come testimoniano i suoi scritti. Nel 1876, alla corte di Menelik, ricevette la croce di commendatore dell’Ordine mauriziano, conferitagli dal re Vittorio Emanuele II; dopo aver sottolineato che tale onorificenza non gli era dovuta e non l’aveva mai sollecitata, concludeva: «La croce a cui io avevo qualche diritto, era quella del Calvario pura e netta, della quale non sono stato degno».
Nel 1879 re Umberto I gli conferì la croce di grand’ufficiale dello stesso Ordine; ma l’anno seguente, quando gli fu recata a Frascati, la ricusò garbatamente. Pochi giorni dopo ne rivela la ragione scrivendo a un confratello: «Il mondo cammina a gran passi verso il paganesimo, perciò ha creduto di vedere in me un gran viaggiatore più che un missionario di Cristo… ha creduto con ciò di essermi riconoscente; e io come uomo civile debbo essere loro grato… ma nel tempo stesso resta in me vivissimo il dovere di far loro conoscere la massima evangelica, perché, educato alla scuola del nostro Signore Gesù Cristo e del nostro serafico padre san Francesco, non soglio riempirmi la pancia di vento, ma di buon pane macinato e cotto ai piedi della croce».
Anche la croce pettorale gli ricorda lo stretto legame con il mistero del Calvario e della sofferenza universale, come scrive nel 1867 all’amico esploratore Antonio Thompson d’Abbadie, per ringraziarlo della croce pettorale e relativa catena d’oro che gli aveva donato: «Senza aver l’aria di voler diminuire la riconoscenza dovuta a sì caro amico per il regalo suddetto, mi permetta di farle osservare, che alla mia persona non era dovuta una croce d’oro, ma di ferro e di spine, perché il missionario deve seguitare Cristo sulla via del Calvario… Comunque, con l’oro si può comprare del grano per i nostri poveri, che non sono pochi, e sotto questo riflesso mi è doppiamente cara, perché cangiato in pane, l’oro diventa pietra preziosa e vero diamante; sia dunque benedetto lei e la di Lei consorte; come pensano a me, Dio pensi a voi…».
«Obbediente
fino alla morte di croce»
Temperamento forte e per nulla arrendevole, immerso nella solitudine più totale, derivante dall’isolamento geografico e, soprattutto, da incomprensioni e accuse da parte dei superiori di Roma, il Massaia arrivò a dare le dimissioni. Eppure, da quel Dio umiliato e immolato, abbandonato pure dal Padre, egli seppe trovare le espressioni più confacenti per dialogare con i superiori (sia pure con difficoltà ma con dovuto rispetto) e la forza di arrendersi ai loro comandi.
In una lettera inviata a Pio ix, significativamente datata «In festa Exaltationis S. Crucis 1860» (14 settembre), egli confessa di essere spesso tentato di tornarsene in convento, «persino di fae qualcheduna grossa» per essere «messo a riposo». E continua: «Qualche volta ai piedi del Crocifisso, sfogando le mie malinconie, dicevo fra me stesso: che tutto il mondo mi dimentichi e anche mi calpesti è poco, perché l’uomo evangelico deve urtare la corrente del mondo… Ma che Roma, la sposa vivente del Crocifisso, la nostra madre comune per cui tanto ci affatichiamo, ella ci dimentichi, ella ci disprezzi… Questo silenzio assoluto, questo vedersi gettato come un aese inutile in un angolo della casa senza nessun segno di pensiero per noi… Ravvolgendo fra me ai piedi dell’altare queste malinconie, non una volta, ma parecchie volte mi vennero delle idee, che a prima vista mi parevano tentazioni… Per il passato non è mai stato mio costume di criticare i superiori… presentemente però la cosa mi pare accompagnata da segni tali, che il nascondere a vostra santità, avrei paura di violare i sacri doveri di figlio che mi legano a lei… Non è lo spirito di partito che mi fa parlare, ma il puro amore della Santa causa, e mentre scrivo tengo il Crocifisso nelle mani raccomandando a lui ogni parola che scrivo».
Inutilmente il Massaia aveva chiesto che tale lettera venisse distrutta. Anzi, cinque anni dopo, quando il grande missionario ripresentò le dimissioni, il prefetto di Propaganda fide, card. Alessandro Baabò, fece riferimento a quella lettera per piegare la volontà granitica del Massaia, invitandolo a riconsiderare, «ai piedi del Crocifisso», la decisione presa.
«Ho cercato di tranquillarmi e spogliarmi dell’amor proprio – rispose il Massaia -, per quanto mi è stato possibile, ed esaminare la cosa avanti al Crocifisso, come ella mi diceva… Ella mi conosce che io non sono tanto facile a convertirmi e a pervertirmi di nuovo…. Ma tenga per base una massima ogni qual volta dovrà fare qualche calcolo sopra di me: un comando dei superiori per me è più forte di un cannone, mi farà star quieto, mi ammazzerà, e mi getterà nel fango e nella polvere; la ragione è, perché, quanto bramo di dire liberamente la verità anche ai superiori, altrettanto poi mi è cara la convinzione e disposizione di morire mille volte per la fede e per l’ubbidienza alla chiesa e di ciò ella ne ha avuto prove sufficienti per il passato, senza che mi trattenga nel portare prove».
Così l’apostolo dei Galla rimase appeso alla croce della sua missione per altri 15 anni, cioè fino alle dimissioni definitive presentate a Leone xii il 23 maggio 1880, in seguito all’espulsione dall’Etiopia: e ciò «per l’amore e per il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, l’unico che mi tiene in questi paesi, non per altro che per sgravare l’obbligo di apostolicità che gravita sopra tutta la chiesa».
Calvario e Santo Sepolcro
Il Massaia avvertì il richiamo della Città Santa e vi compì quattro pellegrinaggi, polarizzando sempre più la sua attenzione sul Calvario e il Santo Sepolcro. Dal primo viaggio (aprile 1851) riportò, come souvenir, lo storico bastone con l’impugnatura di radica d’olivo del Getsemani, che lo accompagnò in tutti gli spostamenti africani, per ricordargli a ogni passo una stazione di via crucis.
Nel secondo pellegrinaggio (marzo 1864) promise sopra il Santo Sepolcro di non lamentarsi più dei suoi «gravi disgusti… perché come missionario deve fare due parti: una di maestro, che è la minima, e l’altra di vittima pacificatrice in continuazione del sacrificio del Calvario».
Per il terzo viaggio (maggio 1866), fu invitato come concelebrante alla consacrazione dell’ausiliare di Gerusalemme; la vigilia della partenza da Gerusalemme, passò «tutta la notte» nella basilica del Santo Sepolcro, dividendo il tempo tra il Calvario e il Sepolcro stesso.
Sulla via dell’esilio, si fermò nella Città Santa per oltre un mese per stare «accanto al sepolcro di nostro Signore con la Maddalena – racconta – per vedere se mi riesce di vedere una volta il volto del mio caro Padrone». E sembra che gli si sia proprio disvelato il martedì santo, 23 marzo 1880, come scrisse due giorni dopo in una lettera: «L’altro giorno ho celebrato la santa messa sul Calvario… dopo ho voluto sentire una messa di ringraziamento; ma, arrivata all’Agnus Dei, caddi svenuto e passai qualche minuto immobile e come morto. Poi, sollevato dai circostanti, mi rinvenni e conobbi per mia disgrazia d’essere condannato a vivere ancora qualche tempo. Oh, quanto sarebbe stato bello per me morire sul Calvario, dopo aver portato la croce per ben 35 anni di miserabile missione! Ma fui indegno di tanto onore e la mia gran messa, incominciata con Cristo e per Cristo nella mia consacrazione vescovile, non è ancora arrivata all’Ite missa est».
La causa di quell’incidente va ben al di là del deliquio dovuto all’estrema debolezza fisica, ma lascia intravedere una dimensione mistica, come il Massaia scrive nelle Memorie: «Quel fatto lasciò in me un non so quale incantesimo, che ancora oggi mentre scrivo, più di sei anni dopo, il solo presentarsi alla mia mente il caso di allora mi causa una crisi tale che non posso spiegare, senza ricorrere al fascino del luogo santo. Bisogna confessare, che in una persona che abbia fede, il pensiero del Calvario produce sempre un effetto che non posso spiegare e che serve molto a ravvivare il mio spirito nella meditazione». 

Di Antonino Rosso

CRONOLOGIA

1809    8 giugno: nasce a Piovà d’Asti (ora Piovà Massaia); è battezzato lo stesso giorno con i nomi: Lorenzo Antonio.
1824-1826: frequenta il seminario di Asti.
1826    6 settembre: a Torino veste il saio cappuccino, assumendo il nome: Guglielmo.
1832    16 giugno: ordinazione sacerdotale a Vercelli.
1834    cappellano all’Ospedale Mauriziano di Torino.
1836    insegna filosofia e teologia a Moncalieri-Testona.
1846    nominato vicario apostolico dei Galla (12 maggio), consacrato vescovo (24 maggio), salpa da Civitavecchia (4 giugno) e sbarca a Massaua (28 ottobre), dove incontra, il 26 novembre, Giustino De Jacobis, prefetto dell’Abissinia.
1847    25 novembre: esiliato da Ubiè, capo del Tigrè.
1849    7 gennaio: a Massaua consacra vescovo Giustino De Jacobis.
1850    aprile: parte da Massaua per Aden, Suez, Marsiglia; raggiunge Roma e torna a Marsiglia.
1851    da Marsiglia passa in Terra Santa, raggiunge l’Egitto e risale il Nilo, travestito da viaggiatore, con il nome di Giorgio Bartorelli.
1852    21 novembre: legato a un otre traghetta il Nilo Azzurro, entra nel Galla, si stabilisce in Asandabo.
1854    aprile: fonda la missione dell’Ennerea.
1855    maggio: fonda la missione del Kaffa.
1859    3 maggio: a Ennerea consacra vescovo coadiutore Felicissimo Cecino.
1861    agosto: esiliato dal Kaffa, ripara nell’Ennerea, poi si stabilisce a Lagamara, quindi nel Gudrù.
1863    maggio: inizia il viaggio per l’Europa. 
1864    torna in Europa dove rimane fino al 1867, incontrando varie personalità religiose e politiche in Italia e in Francia.
1868    marzo: su invito del re Menelik II raggiunge Liccè, capitale dello Scioa, dove fonda le missioni di Fekerièghemb e Finfinnì, la futura Addis-Abeba.
1875    14 febbraio: a Escia consacra vescovo Taurino Cahagne, suo successore.
1879    nominato Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano e accreditato dal governo italiano plenipotenziario del trattato italo-scioano.
    3 ottobre: è esiliato dall’imperatore Johannes IV.
1880    a tappe forzate giunge al Cairo disfatto; sosta alcuni mesi in Medio Oriente, giunge a Roma, è ricevuto in udienza da Leone XIII (7 settembre) e inizia la stesura delle sue memorie, lavorando anche 15 ore al giorno.
1884    febbraio: termina di scrivere le sue memorie.
    10 novembre: Leone XIII lo crea cardinale.
1889    6 agosto: muore a S. Giorgio a Cremano (NA)

LA VERA FELICITA’

I n un momento particolarmente critico della sua missione nel Kaffa, l’11 ottobre 1860, il Massaia scriveva all’ex-alunno e confidente, padre Pier Maurizio da Cossato, la seguente lettera, in cui rivela il segreto della felicità sicura e stabile: il totale abbandono nel Padre, espresso dal mistero della croce e vissuto dal Figlio di Dio.
«Ho ricevuto la vostra carissima e grata lettera: fra i 30 e più studenti che ho allevato, voi siete il solo che mi scrivete; tutti gli altri si sono dimenticati di me… Poiché vi ho sempre amato, e vi amo tuttora, io non cambio linguaggio con voi e tanto più ora che mi vedo invecchiato, distrutto dalle fatiche e vicino a lasciare questo mondo.
Voi dite che questo mondo è crudele, ma sapete voi che cosa è il mondo? Il mondo è il cuor vostro, figlio mio; e appunto diventa crudele, perché non avrà forse ancora saputo riposare bene in Dio… Persuadetevi, figlio mio, che trovando la vera bussola della carità divina, potrete trovare anche tutta la tranquillità in questo mondo. Io vedo che questi selvaggi, e io stesso divenuto mezzo selvaggio, dormiamo sulla nuda terra saporitamente, mentre i delicati d’Europa non possono riposare sopra un monte di piume, di cotone e lana; non è il letto, ma sibbene la diversa disposizione del dormiente che si fabbrica dei bisogni a capriccio.

C osì è il caso nostro; parlando di me stesso, quando ero in convento, io trovavo o tutto buono o tutto cattivo, secondo come stava il mio cuore; presentemente frammezzo a questi selvaggi… in mezzo ai pidocchi, pulci, cimici e altri insetti infiniti che non si conoscono in Europa, e che tormentano la povera umanità, pure basta un momento di fervore che tutto scompare, tutto pare dolce e soave; un tantino che Iddio ritiri la mano, subito compare un vero inferno; cosa volete di più? Persuadetevi di questo, attaccatevi al vero elemento di felicità e sarete felice… Iddio, che mette l’equilibrio ai cardini cosmologici, è quello l’unico che deve ricomporre l’equilibrio del cuore e non altro… Umiltà, figlio mio, e tutto verrà dietro con la benedizione di Dio; io credevo di farmi dotto studiando, ma ho veduto che si guadagna di più meditando, e non cose sublimi, no, il Crocifisso.
Del resto, figlio mio, io sono sempre quello, perché Iddio è sempre lo stesso e la sua parola creatrice e ricreatrice dei cuori non si cambia. Sto occupandomi qui, aspettando che il Padrone mi chiami alla gran cena; il lavoro che faccio, se piaccia o non piaccia a Dio, non lo so e non mi curo di saperlo, purché sciens et volens non faccia ciò che dispiace a lui, anzi, mi sforzi di fare la sua volontà per quanto so e posso.
Dalla mia entrata in questi boschi abbiamo qualche anima che conosce Iddio, un bel numero mi ha preceduto nel riposo eterno di quelli che prima non ci pensavano, una certa quantità di cristiani vi sono che incominciano a temere Iddio; un raggio di luce evangelica è stato gettato in questi luoghi di tenebre; Iddio farà il resto, e noi non sappiamo nulla di più. Vi abbraccio nel santo Crocifisso, e lasciandovi ai piedi di nostra Madre Maria santissima godo rinnovarmi,
aff.mo fra’ G. Massaia, vescovo

Antonino Rosso




Minoranze etniche: problema eterno

Intervista a mons. Peter Nguyen Van Nhon, vescovo di Dalat

I montagnard (montanari) come li chiamarono i francesi,
o nguoi dan toc (popoli etnici) come li chiama il governo,
o degar (figli delle montagne) come si definiscono
essi stessi, rappresentano una quarantina di gruppi aborigeni, sospinti dai vietnamiti nelle zone
montagnose del paese. In buona parte cristiani e da
sempre gelosi della loro libertà, sono stati oggetto
di persecuzione e continuano a subire abusi dei loro
diritti umani da parte del governo comunista.

Gioiello della regione degli altipiani centro-meridionali, Dalat è forse la più famosa città vacanziera del Vietnam: le acque del lago in cui si rifrangono le colline che la circondano, abitate da etnie di montagnard, ricordano più i paesaggi provenzali che non le giungle tropicali vietnamite. Non è un caso che furono proprio i colonialisti francesi a sviluppare questo centro montano, favorito da un clima unico e terreni fertili, soprannominandolo «La piccola Parigi» e dotandolo di una Torre Eiffel in miniatura.
Qui vive la più alta concentrazione di cattolici di tutto il Vietnam: un abitante su quattro è battezzato. Incontriamo Peter Nguyen Van Nhon, vescovo della diocesi, nella sua residenza in riva al lago Xuan Huong. Consacrato prete a 29 anni, dal 1991 regge la diocesi che lo ha visto nascere e crescere. Dal 2007 è anche presidente della Conferenza episcopale del Vietnam.

Monsignor Peter, vorrei iniziare la conversazione parlando della chiesa incontrata in Vietnam: mi è parsa molto più libera e indipendente da quella dipinta dai mass media in Occidente; confrontata poi con quella in Cina, l’autonomia che si respira qui è davvero sorprendente. È solo una mia impressione?
Non conosco a fondo la chiesa cinese per fare un confronto, ma è vero che oggi la chiesa cattolica vietnamita è piuttosto libera. Devo comunque anche aggiungere che forse lei ha visto solo una parte della realtà cattolica vietnamita, quella che, effettivamente, gode di una certa libertà nella vita religiosa. Nel Vietnam ogni diocesi vive una situazione differente a seconda dei rapporti tra i vescovi e i preti con le amministrazioni locali. Sulla base di queste relazioni, anche individuali, la situazione può cambiare radicalmente.

Mi è sembrato che i rapporti tra chiesa e amministrazioni locali si stratifichino su tre livelli distinti: un dialogo problematico con le amministrazioni del Nord Vietnam, un attrito in via di limatura con le amministrazioni delle province abitate da minoranze etniche, un confronto più aperto e vivace con le amministrazioni del Sud Vietnam.
In effetti è così. Nel Sud i rapporti sono più lineari e meno conflittuali, perché c’è sempre stata una costante presenza della chiesa all’interno della società. Nel Nord i rapporti sono problematici semplicemente perché si stanno evolvendo, dopo decenni di stasi. Nelle province delle minoranze etniche, invece, siamo ancora piuttosto lontani dalla risoluzione dei problemi e il dialogo è ancora problematico.

Ho visitato anche le chiese di Sa Pa e Kontum, dove di fatto la situazione è più critica che altrove, però mi sembra sostanzialmente migliore di quanto mi ero prospettato.
Ha ragione, la situazione di Sa Pa e Kontum forse è la peggiore di tutta la nazione. Lì i fedeli appartengono a minoranze etniche e i rapporti con il governo vietnamita sono sempre stati molto difficili.

Vuole dire che, più che per la convivenza ideologica, le difficoltà incontrate dalla chiesa in Vietnam derivano da una problematica sociale più profonda tra vietnamiti e etnici, che ha coinvolto anche la chiesa senza che questa ne fosse direttamente responsabile.
Sì, la chiesa ha ereditato una situazione già tesa che si è acutizzata in due fasi: una prima fase ideologica, secondo cui la religione è l’oppio dei popoli, e una seconda fase che si concretizzava in un rifiuto delle regole governative da parte delle minoranze etniche, specialmente negli altipiani centrali.

È l’annoso problema dei montagnard, oggi meno acuto di qualche anno fa, ma sempre presente nell’agenda dei diritti umani.
Penso che il cuore del problema stia nella diversità dello stile di vita e dell’ambiente in cui le culture tribali e Kinh (i viet) si sono sviluppate. Vede, nella foresta la società è molto più libera che nelle comunità più organizzate, come quelle in cui vivono i Kinh, i quali, dovendo organizzarsi in spazi più ristretti e delimitati, hanno bisogno di leggi che regolino la convivenza. I tribali, invece, non hanno bisogno di tali regole: la giungla permette loro di vivere in modo autonomo, ma il governo vietnamita, dovendo controllare le popolazioni etniche, ha imposto le proprie leggi. Questo non è accettato dalle minoranze etniche, che rifiutano l’imposizione legislativa e, quindi, il controllo delle autorità centrali.

C’è però il problema delle alleanze storiche tra montagnard e europei, continuato anche dopo la liberazione con il Fulro, movimento indipendentista appoggiato dagli Usa.
Durante la guerra sembrava che i montagnard accettassero l’influenza francese prima, e statunitense poi. In realtà i montagnard sono stati sfruttati dai colonizzatori francesi e dagli americani in funzione anticomunista. Dopo la fine della guerra, nel 1975, gli Stati Uniti rafforzarono il Fulro (Fronte unito di liberazione delle razze oppresse), ma non penso che qualcuno abbia mai veramente pensato che un movimento così piccolo e isolato potesse raggiungere gli obiettivi di indipendenza prefissati. Piuttosto, il Fulro serviva agli Stati Uniti per «disturbare» il Vietnam durante la guerra fredda. Oggi il movimento non esiste più, ma il nome è tuttora utilizzato dal governo vietnamita per identificare qualunque persona o gruppo che compiono atti illegali e criminali.

Tuttavia negli Stati Uniti esiste ancora una Fondazione montagnard guidata da Kok Ksor, che si prefigge, tramite la lotta armata, la creazione di uno stato montagnard.
Kok Ksor non è in grado di costituire una minaccia per il Vietnam. Non ha i mezzi finanziari, né armi e neppure gli uomini per organizzare una resistenza contro il Vietnam. Il suo è un movimento che non si è espanso al di là degli Stati Uniti e oggi, con la nuova collaborazione diplomatica e economica tra Hanoi e Washington, non penso abbia un futuro.

E la chiesa vietnamita, da parte sua, cosa sta facendo nel campo dell’inculturazione?
Lei è stato a Kontum e avrà certamente visto la cattedrale e il campus, costruiti secondo l’architettura montagnard. Penso che quello sia un tipo di inculturazione, ma non esiste solo quello, perché la chiesa si è impegnata in questo campo in tutto il Vietnam. Siamo nel paese da 500 anni e quindi abbiamo acquisito un’ottica vietnamita. Un esempio concreto di come la chiesa cattolica si sia fatta vietnamita, lo si può vedere a Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi, dove c’è la chiesa di Phat Diem, costruita secondo l’architettura del tempio buddista cinese a pagoda.

Oltre all’estetica e all’architettura, quali passi sono stati compiuti nel campo liturgico per innestarsi nella cultura locale?
Sin dai primi anni della loro missione, i gesuiti hanno tradotto le preghiere secondo i canoni letterari e musicali vietnamiti. Nelle zone tribali i preti cercano sempre di imparare le principali lingue etniche. Le assicuro che non è compito facile, visto che per molte popolazioni non esiste una lingua scritta. Anzi, tra i montagnard è stata proprio la chiesa a codificare la lingua scritta, pubblicando libri di letteratura, leggende, racconti, fiabe e di storia per evitare la morte delle culture più deboli. Inoltre nelle case vietnamite buddiste e taoiste esiste l’usanza di avere un altare. Questa usanza è stata mantenuta anche dalle famiglie cattoliche, nelle cui case si trova sempre un altare con la croce e la Sacra Famiglia. La stessa pietà filiale presente nella vita famigliare tradizionale vietnamita, viene tradotta nelle famiglie cattoliche in rispetto verso i propri genitori, che si traduce in un rafforzamento dei vincoli di parentela e di fedeltà coniugale.

Il Vietnam è stato diviso per due decenni. In che modo questa separazione ha influito sull’evoluzione della chiesa cattolica vietnamita?
Non c’è alcuna differenza nella fede, anche se dal 1945 al 1975 la vita dei cattolici nel Nord è stata durissima a causa della guerra. Viceversa, la chiesa del sud ha avuto un decorso storico meno critico e forse per questo è riuscita ad accettare con più facilità la spiritualità del Concilio Vaticano II. Devo però aggiungere che, sebbene il Vietnam fosse diviso in due parti tra il 1945 e il 1975, in realtà la chiesa era una. La diversità a cui lei accennava prima, non era una diversità nella fede, ma si rispecchiava unicamente nelle relazioni diplomatiche.

Dopo la liberazione e unificazione, i rapporti tra chiesa e governo hanno avuto due fasi: nella prima, tra il 1975 e il 1990, tali rapporti erano tesi, nella seconda si sono registrati segnali di apertura: come pensa evolverà il dialogo con Hanoi?
Nessuno può conoscere cosa ci riserverà il futuro, specialmente in un paese socialista. Nel 1986 è stata introdotta la doi moi (innovazione) ma da allora, e sono passati più di due decenni, molte cose sono rimaste immobili. In quanto cattolici dobbiamo continuare a dialogare con il governo socialista nello spirito del vangelo secondo il Concilio Vaticano II.

Quando non è possibile dialogare?
Talvolta abbiamo l’impressione che il dialogo stagni, è come se fosse una conversazione tra sordi; ma anche allora dobbiamo perseverare. Abbiamo imparato che nella storia ci sono tempi adatti al dialogo e tempi in cui invece il dialogo stenta a decollare.

Questo periodo come lo classificherebbe?
Oggi le opinioni della chiesa sono ascoltate dal governo.

Quindi potrebbe essere un periodo propizio per sviluppare rapporti diplomatici tra Vietnam e Santa Sede: come sono le relazioni tra il governo e la Conferenza episcopale vietnamita?
Possiamo dire che il governo è convinto che, se il Vaticano è il «capo» della chiesa cattolica, la Conferenza episcopale vietnamita non è altro che un organismo nato per realizzare i progetti del Vaticano in Vietnam. Secondo il governo la Conferenza episcopale vietnamita agisce come diretta emanazione del Vaticano.

Beh, la Conferenza episcopale vietnamita non potrebbe andare contro il Vaticano; ne nascerebbe un caso internazionale. Se non sbaglio la chiesa patriottica cinese è in rotta con la Santa Sede perché sottomettendosi alle direttive dello stato, si rende indipendente da essa.
Le faccio un esempio: quando ci sono state le manifestazioni ad Hanoi per sollecitare il rimpossesso dei terreni ecclesiastici confiscati dal governo vietnamita negli anni Cinquanta-Sessanta, i fedeli cattolici si sono riuniti per pregare pubblicamente con delle candele in mano. Immediatamente il governo ha voluto sapere se questa manifestazione fosse stata ordinata direttamente dal Vaticano o se fosse, invece, un’idea della chiesa locale. Quando si è dimostrato che il Vaticano non aveva in alcun modo organizzato il raduno, l’amministrazione vietnamita si è tranquillizzata e ha lasciato che i fedeli continuassero le loro dimostrazioni.

Parliamo della diocesi di cui è a capo: Dalat. Questa è una città completamente differente dalle altre in Vietnam: un centro montano costruito apposta dai colonizzatori francesi per le loro vacanze che è riuscito a mantenere un’atmosfera rilassante. Come si è svolto l’inserimento di Dalat nel mondo socialista dopo la liberazione? Faccio difficoltà a immaginarmi un regime duro e autoritario come lo è stato in altre parti del paese.
Dopo il 1975, per un decennio la situazione politica è stata dura e difficile. In questi anni la diocesi ha perso chiese, l’università cattolica è stata requisita, così come il Pontificio collegio Pio X e tutte le scuole primarie e secondarie gestite dalla chiesa cattolica. Ma è anche vero ciò che afferma lei, che a Dalat l’avvento del nuovo governo non ha imposto drastici cambiamenti come in altre regioni. Questo perché, nella regione il 25% della popolazione è cattolica, inducendo le autorità ad assumere un atteggiamento più aperto verso la chiesa.
Infine non dimentichiamo l’aspetto climatico, che influisce sul carattere della popolazione. Il clima di Dalat è considerato uno tra i più belli dell’intero paese. Per questo la città è sempre stata sede di università e di scuole. L’atteggiamento della popolazione si riflette in questo clima gentile e il fatto che vi sia un’alta concentrazione di istituti scolastici permette di avere un’elevata scolarizzazione. Forse anche per questo il governo di Dalat si è sempre mostrato tollerante sia verso la chiesa sia verso le minoranze. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




«La chiesa siamo noi»

Mozambico: finalmente i laici protagonisti

La chiesa mozambicana ha fatto uno straordinario percorso dagli inizi degli anni ‘70 a oggi. Con la «Chiesa ministeriale» si è attuato un modello in cui
i laici sono veramente protagonisti. Secondo i principi del Concilio Vaticano II. E come le prime comunità cristiane. Un cammino oggi confrontato a nuove sfide. La maggiore è l’invasione della cultura occidentale.  Un esempio anche per la chiesa italiana.

«Sto facendo il corso per imparare, approfondire la vita spirituale, liturgia, catecumenato, bibbia… Per portare la buona novella agli altri fratelli, affinché anche loro intraprendano il cammino della luce».  È Matheus Andres Mal che parla e siamo a Guiúa (Inhassoro) nel sud del Mozambico. Con sua moglie e altre 13 famiglie, ha iniziato un anno fa il corso di formazione per catechisti, al Centro di promozione umana di Guiúa.
Matheus viene dalla parrocchia Santa Ana Maimelane, ed è animatore da alcuni anni della comunità Santa Maria Macopane. Il consiglio pastorale l’ha «inviato» per formarsi e diventare catechista.
«I laici sono i pilastri della chiesa, se vengono a mancare loro cosa succede? – si chiede Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico fino al 2008.  – Senza di loro non siamo niente, diventiamo solo il clericalismo esportato dall’Europa».
In Mozambico assistiamo, da quasi quarant’anni, a un particolare percorso che fa la chiesa, definito come «chiesa ministeriale» ovvero, come sottolinea Onorio Matti, missionario dehoniano e studioso del fenomeno, «chiesa famiglia, chiesa comunione».
Per le origini occorre risalire al Concilio Vaticano II, che spinge i laici ad avere un ruolo attivo nella chiesa, per una chiesa di comunione ispirata alla Trinità, non strutturata in modo piramidale ma, orizzontale, di popolo.

Le origini

Sono i primi anni ’70, il Mozambico è ancora colonia portoghese, ma infuria la guerra di liberazione. In quel periodo un gruppo di giovani missionari illuminati e formati al concilio inizia a riflettere su questo «Nuovo modello di chiesa». Anche il giovane vescovo di Nampula dom Manuel Vieira Pinto dà un notevole impulso alla riflessione. Il sistema di oppressione del periodo coloniale fa pensare al modello delle «Comunità ecclesiali di base» dell’America Latina, che si sviluppano in quegli anni nell’ambito della Teologia della liberazione. Il percorso sarà un adattamento al contesto africano e, più in particolare, alla cultura dei popoli del Mozambico.
Si considera che la nascita delle cosiddette «Piccole comunità cristiane ministeriali» (Pccm) avvenne in concomitanza con l’indipendenza del paese (1975), anche se, in realtà, si tratta di un processo che durò alcuni anni e quindi non è identificabile con una data precisa.
«Le comunità ecclesiali di base latinoamericane e le Pccm mozambicane coltivano e sviluppano in comune il valore della uguale dignità e delle differenti funzioni dei battezzati e quindi della responsabilità e corresponsabilità che si traducono in servizio. Affermano il dono dello Spirito che è dato a ciascuno per cui il popolo può accedere alla parola dal basso senza doverla sempre e solo ricevere dal presbitero» ricorda padre Onorio nella sua tesi: Storia e prospettive future delle piccole comunità cristiane ministeriali in Zambezia (2007).
Un’altra fonte per la riflessione di quegli anni fu la nuova teologia africana, nello specifico quella congolese elaborata alla facoltà teologica di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo). I testi africani criticavano i missionari che all’epoca trattavano la gente come bambini e pretendevano di «svuotare la mente dell’africano per introdurvi idee cristiane», senza alcun adattamento del cristianesimo nelle culture locali. C’è in essi un superamento del vecchio modo di fare missione e le basi per quella che fu, più tardi, definita «inculturazione».
Nulla di così nuovo, in realtà nelle Pccm, perché i principi sono quelli delle prime comunità cristiane (dagli Atti degli Apostoli e lettere di S. Paolo): comunione, condivisione e corresponsabilità.
Nelle Pccm, infatti, ogni battezzato ha un ruolo attivo, di servizio gratuito alla comunità di appartenenza. Il modello si contrappone e sostituisce quello del missionario che ha al suo servizio un catechista principale, scelto da lui e retribuito per vari incarichi. Il passaggio prevede un cambio di mentalità, non solo della gente, ma anche della gerarchia ecclesiastica e per questo fu lento e non privo di problemi.
La Chiesa ministeriale mozambicana resta però originale nella sua realizzazione concreta, difficile trovarla altrove, se non nei paesi confinanti dove viene «esportato» dagli stessi esuli del Mozambico.

Appoggio ufficiale

Il lavoro preparatorio e la sperimentazione del nuovo modello di chiesa riceve approvazione ufficiale e appoggio del clero nella prima Assemblea nazionale pastorale, Anp (Beira, settembre 1977), che ha proprio il tema: «Cercare piste comuni di orientamento pastorale nelle
comunità cristiane e suoi ministeri a partire dalla  esperienza vissuta e condivisa, interpellati dalla forza dello Spirito e dai rapidi e profondi cambiamenti in corso nel nostro paese». Le Anp sono il momento più alto di riflessione della chiesa mozambicana tutta: durante una settimana tutti i delegati delle diocesi (vescovi, presbiteri e laici) si incontrano e scambiano idee su tematiche che sono state preparate, con incontri a livello diocesano, per alcuni anni.
Il tema sarà poi ripreso nella seconda Anp a Maputo (dicembre 1991): «Consolidare la Chiesa locale». Mentre la terza e ultima Anp (Matola, 2005), prevederà ampi spazi all’analisi e la valutazione del percorso fatto, ma anche alcune idee su come «rifondare» le Pccm negli anni postconflitto (la guerra civile finisce nel 1992 e questo cambia il contesto).
Le tre Anp sono quindi i pilastri stessi del cammino fatto dalla Chiesa ministeriale e sanciscono e confermano la scelta, anche ufficiale, in questo senso.
Matheus ha 34 anni ed  è commerciante di professione: vende galline e capre. Nella sua comunità è animatore: «Faccio la catechesi e ho anche altri incarichi». Dopo il corso di formazione di un anno a Guiúa «il servizio che svolgerò sarà quello di formatore degli altri membri della parrocchia, provenienti dalle diverse comunità, che vogliono impegnarsi. Questa è la mia vocazione, fare germogliare il frutto che c’è negli altri». Anche sua moglie Cecilia ha seguito il corso: «Animavo la liturgia della gioventù, non ero catechista, mentre ora lo sono diventata grazie al corso. Avrò il compito di animare le donne, sempre nella carità e condivisione». I padri sono a 22 chilometri dalla comunità Santa Ana. Ecco che i laici sono chiamati a svolgere ruoli essenziali: «Quest’anno sono anche diventato ministro dell’eucaristia, e potrò quindi distribuirla». E aggiunge: «Con l’aiuto di Dio, vorrei annunciare la parola nella mia comunità, affinché tutti quelli che sono lontani, riescano ad avvicinarsi a Gesù Cristo», ma ribadisce «desidero anche che tanti fratelli abbiano la possibilità di venire a Guiúa a seguire questo corso e imparare, perché ”la messe è tanto grande e i lavoratori sono pochi”».

I laici «davvero» protagonisti

Sul vasto territorio delle parrocchie nascono e si moltiplicano le comunità. In ognuna di queste i cristiani, corresponsabili, eleggono i propri incaricati dei diversi ministeri.
I ministri eletti da tutti mantengono questo ruolo di norma per un anno, in modo tale che il maggior numero di cristiani possano partecipare. Fanno eccezione gli incarichi per i quali occorre una formazione specifica e sono quindi più difficilmente rimpiazzabili. Si tratta del catechista, dell’animatore della comunità e del ministro della parola.
Altri ministeri per la liturgia sono: lettore, incaricato del commento delle letture, incaricato dell’eucaristia, animatore del canto, della musica della danza. In seguito si aggiungono il ministero della famiglia, dell’ecumenismo, dei giovani, degli ospiti, di giustizia e pace.
Scelto il ministro, con un procedimento democratico e partecipativo, tra le persone di particolare integrità riconosciuta dalla comunità, questi riceve il mandato dall’équipe missionaria durante la celebrazione domenicale. Alla festa di Pentecoste, i mandati sono rinnovati. Il ministero può anche essere revocato in caso di cattivo comportamento del ministro.
Un concetto, non sempre facile da applicare, è che il servizio è gratuito, in quanto «servizio alla comunità» e non permanente, affinché leadership non diventi esercizio di potere.

Formazione: necessità primaria

Elias Mehama è di Mecanhelas, nella provincia Nord del Niassa. Ha 46 anni, in un paese dove l’aspettativa di vita è di 42. Ha viaggiato tre giorni con la moglie e tre figli per raggiungere Guiúa. Mentre ne ha lasciati altri cinque a casa, che saranno accuditi dai parenti. Al Centro di promozione umana, lui e la moglie Sabina, seguono il corso da catechisti.
 «Sto studiando diverse materie che mi aiuteranno nel mio servizio e che dovrò trasmettere agli altri fratelli della mia parrocchia» ci racconta. Al rientro sarà anche lui formatore di catechisti e animatori anche di altre comunità che fanno capo alla sua parrocchia.
«I laici hanno molte responsabilità nella nostra comunità. La parrocchia è molto grande, conta 130 comunità e un solo padre. Difficile visitarle tutte. Si fa un programma per andare in due comunità al giorno. Il sacerdote ha un lavoro enorme».
E continua: «Per le celebrazioni della domenica, quando non c’è il missionario, interviene l’animatore principale che fa “la celebrazione della parola”.  L’eucaristia la va a cercare (di solito a piedi ndr) il nostro ministro preposto e poi la distribuiamo».
Fin dalle origini delle Pccm si avverte come necessità quella della formazione. Nascono tre centri specifici: il Centro catechetico Paolo VI ad Anchilo (Nampula) per il Nord del paese, il Centro di formazione di Nazaré (Beira) per il centro e il Centro di promozione umana di Guiúa per il Sud.
Il nome del centro di Guiúa fondato nel 1972 dai missionari della Consolata (che ancora oggi lo gestiscono) si ispirava alla enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, dove si legge: «È necessario promuovere un umanesimo totale», ricorda padre Francisco Lerma, responsabile del centro per diversi anni.
È costituito da una trentina di casette dove ogni famiglia può ricostituire il suo focolare, e diversi locali con aule per formazione, sale, cappella, biblioteca. Ma anche un centro sanitario, la residenza dei formatori. Intoo al centro ci sono campi utilizzati per alcune attività.
La giornata formativa è intensa. Alle sei del mattino le coppie si ritrovano nel fondo valle di fianco alla missione dove ogni famiglia ha un orto da coltivare.
Poi iniziano le ore in aula. Oltre a liturgia, Bibbia, pastorale, si impara storia del Mozambico, diritti umani, cittadinanza. E poi materie più pratiche: tecniche agricole, informatica, taglio e cucito. Alcune materie sono frequentate da donne e uomini insieme, per altre la frequenza è separata. Le donne, inoltre, accudiscono la casa e i figli, mentre gli uomini continuano la formazione.

Guerra e martirio

Ma il centro non ha sempre vissuto momenti facili. Il 13 settembre 1987, in piena guerra civile, i guerriglieri della Renamo (per la situazione politica si veda MC gennaio 2009) attaccarono la missione. Il catechista Manuel Peres fu assassinato e 36 altri laici furono fatti prigionieri. Di alcuni non si seppe mai più nulla.
Il centro fu quasi chiuso: annullati i corsi biennali per famiglie, vi si tenevano formazioni per aggioamento di una o tue settimane. Indirizzati a famiglie e non a individui.
La necessità di laici formati è evidente, così a fine 1991 si valuta, a livello diocesano, se riaprire il centro. Si decide per un’azione coraggiosa e nel marzo del 1992 quindici famiglie giungono a Guiúa per una formazione annuale. Ma ecco che il 21 marzo ancora la Renamo attacca il centro. Questa volta in ventiquattro furono brutalmente massacrati, alcuni dopo interrogatori e torture (vedi box). Altri furono deportati.
Nel 2002 padre Sandro Faedi solleva di nuovo la questione della mancanza di catechisti preparati:
«Quelli che avevano sostenuto la chiesa durante il tempo della persecuzione (dopo l’indipendenza, ndr), stavano diminuendo per età o decesso. I catechisti sono anche formatori di animatori, quindi tutta la struttura della parrocchia e delle comunità ne soffriva».
Padre Faedi ne parla con il vescovo dom Alberto Setele, dicendo che in nessuna parte del Mozambico si fanno più questi corsi.
Il vescovo acconsente a cercare una persona che possa riaprire il centro di Guiúa: un teologo con esperienza. Le persone contattate non si resero disponibili. Il vescovo allora insiste con Faedi: «Sarai tu a riaprire il centro catechetico».
«Arrivai a Guiúa dalla missione di Vilankulos. All’inizio consultai tutti coloro che avevano già fatto corsi in passato per avere consigli su come organizzarlo». Finalmente il corso inizia con quattordici famiglie nel 2003. Si decide per corsi residenziali di un anno.
 La scelta è quella di formare solo famiglie: «Vogliamo formare la famiglia cristiana: lui e lei, uno dei due catechisti, ma entrambi coinvolti nel cammino di fede e testimonianza. La condivisione di vita di queste famiglie cristiane a Guiúa, con le difficoltà, ma soprattutto la comunione di preghiere, lavoro, riflessione. Poi sono “seminati” nel loro villaggio».
I formatori sono missionari, e missionarie, ma anche laici, tra i quali catechisti che hanno già seguito il corso.
Parte della formazione è svolta in lingua, xitwha, mentre fondamentale è pure l’alfabetizzazione in portoghese.
«Ho avuto molte soddisfazioni da questa missione» ricorda Faedi «Uomini e donne che hanno lasciato tutto per un anno, per affrontare una vita diversa. Uomini rudi, abituati al lavoro nei campi che devono mettersi a studiare». E continua: «Quando li richiamavo per fare il corso agli altri, vedevo che erano cresciuti a livello intellettuale, teologico, di impegno cristiano, vita famigliare. Una crescita umana e religiosa». La comunità che li ha scelti e inviati ne accudisce la casa e il campo (talvolta i figli) durante la loro assenza.

CURA DELLA FAMIGLIA

«Nella mia comunità siamo più di 800 cristiani» ricorda Elias Mehama. «Abbiamo molti catechisti, animatori principali, animatori di carità, animatori di economia, laici delle famiglie. Ognuno ha un ruolo definito. Questi ultimi, ad esempio, aiutano le famiglie, quando ci sono problemi, affinché non divorzino e vivano in pace». Figura che sarebbe quanto mai utile anche nelle nostre comunità.
«L’animatore di economia, invece, controlla il denaro dell’offertorio, organizza la raccolta».
Nella celebrazione della parola «ci sono parti che spettano agli animatori e altre al sacerdote, che noi non tocchiamo. Occorre una formazione per sapere questo. Fino ad arrivare alla comunione ai propri colleghi. Io ho imparato anche questo al corso di Guiúa» conclude Elias.

Vero socialismo

Dopo l’indipendenza il Frelimo sceglie il marxismo-leninismo e avvia una campagna di nazionalizzazione. Missioni e opere (scuole, dispensari) sono tolti ai missionari, molti dei quali devono concentrarsi nelle città, altri lasciano il paese. Il fatto di avere un tessuto laico attivo e strutturato, le Pccm, salva la chiesa mozambicana. Molti missionari che tornano nei territori abbandonati in seguito a un ammorbidimento delle posizioni del governo, sono stupiti di trovare una chiesa vivace e le comunità che si sono moltiplicate. Non si assiste a divisioni di tipo famigliare o clanico, come è tendenza in Africa, ma il modello «democratico» di gestione della Pccm è sopravvissuto e si è sviluppato.
Con le Pccm «nasce veramente la chiesa locale con la coscienza di esserlo. La chiesa mozambicana fino all’Indipendenza era troppo caratterizzata e condizionata dalla cultura europea e coloniale. La gente era passiva, viveva sottomessa al missionario come ad una autorità civile, viveva nella paura dello stato di polizia vigente e soffriva un cronico complesso di inferiorità». Scrive Onorio Matti, e continua: «Nel loro ambito, le Pccm hanno dimostrato una esemplare capacità di autogestione, di corresponsabilità, di condivisione e di comunione, realizzando in piccolo, buona parte del modello di società socialista che non solo è fallita ma, purtroppo, ha prodotto il suo contrario, un basso livello di senso civile, di responsabilità  e partecipazione sociale con l’aggravante di un processo crescente e incontrollabile di corruzione a vari livelli».

Futuro incerto

Il Mozambico di oggi, e quindi anche la sua chiesa, si confronta con l’invasione culturale dei «non valori» occidentali. Quella che, padre Matti, definisce senza mezzi termini: «L’irruzione dell’Occidente attraverso i mass media in una società indifesa. Tutto questo chiede un rinnovamento del metodo e dei contenuti della pastorale e dei relativi testi che bisognerebbe saper riscrivere con la stessa fantasia e intelligenza, entusiasmo e forza, volontà e capacità di allora».
A fianco di un bisogno e domanda di spiritualità, si assiste a una pericolosa tendenza al ritorno al clericalismo, il che rappresenterebbe una involuzione.
Nelle parrocchie torna ad avere un’importanza predominante il parroco, che accentra e dirige: «Figura e autorità centrale da cui tutto e tutti devono dipendere». I laici rischiano di diventare meri esecutori dei suoi ordini e non attivi ministri eletti dalla comunità e che a essa devono rendere conto.
Ancora Onorio Matti propone un «antidoto» a queste derive: «Quello della formazione spirituale rimane un punto carente e da colmare nel cammino delle Pccm. Bisogna coltivare di più la formazione spirituale del catechista, dell’incaricato della parola e del responsabile della comunità. Solo la solidità spirituale nella fede permette di attraversare i tempi difficili». 

Di Marco Bello

MASSACRO IN MISSIONE

La Chiesa ministeriale del Mozambico conta i suoi martiri. Tra gli altri i 24 di Guiúa.  A livello diocesano si era fatta la scelta coraggiosa di riaprire il centro di formazione, dopo oltre quattro anni di chiusura. Era la notte del 22 marzo 1992 e mancavano poco più di sei mesi alla fine della guerra.  Suor Thérèse Balela, francescana missionaria di Maria, congolese, era arrivata a gennaio e faceva parte dell’équipe che avrebbe dovuto organizzare le formazioni.  Testimone diretta di quella tragedia racconta.

«Era la vigilia dell’inaugurazione del centro. I ribelli della Renamo sono arrivati sulla montagna e vi hanno fatto il loro accampamento. Preparavamo la cerimonia di apertura della formazione e pensavamo che fossero militari, giunti per assicurare la sicurezza.  Verso l’una di notte ho sentito un gran frastuono: battevano sulle porte e le finestre delle case dei catechisti. Dopo 20 minuti ecco i primi spari:  avevano ucciso Carlos un catechista, arrivato tra i primi.  Voleva scappare e gli hanno sparato alla schiena. La mia consorella mi ha detto di spegnere le luci. Ma i ribelli dicevano:  “abbiamo visto che siete qui, uccideremo tutte le suore e i padri”.
Ho chiuso tutte le consorelle nella mia camera e mi sono barricata in casa. Io pensavo che in quanto straniera, non mi avrebbero ammazzata.
I ribelli avevano preso tutti i catechisti ed erano scesi alla nostra casa. Erano sempre più furiosi perché non riuscivano a entrare. I padri Andrea Brevi, che era il direttore del centro, e John Njoroge, del Kenya erano a casa loro e dormivano.
Sono scesa in cappella, ho preso il santissimo dal tabeacolo e ho salito le scale: parlavo con il sacramento. I ribelli intanto dicevano: “sei là e ti uccideremo”».

«Facevano delle domande ai catechisti e questi rispondevano: “siamo appena arrivati, non sappiamo nulla”.
Nel frattempo si sono sentiti altri spari. Era l’esercito regolare che si avvicinava.  “Andiamo perché il Frelimo sta arrivando” dissero e partirono con i catechisti e i loro bambini. Sono andati a tre chilometri, nella foresta, dove li hanno massacrati.
Il mattino sono rimasta in casa, tutte le suore erano molto giù di morale e non parlavano. Io volevo andare dai padri. Le suore mi hanno detto che c’era pericolo di mine. Intanto un neonato di cui avevano ucciso la madre era stato gettato sulla nostra strada. Sono andata a recuperarlo e ho visto arrivare i missionari. Il padre ha preso la macchina ed è andato in città ad avvisare il vescovo. Intanto un bambino di 7 anni è arrivato piangendo e mi ha detto “hanno ucciso tutti i nostri genitori. Mi hanno inviato a dirvelo affinché andiate a recuperare i cadaveri”.
Abbiamo soccorso quel bimbo e più tardi, con una scorta militare mandataci dal governatore siamo andati sul posto.
Abbiamo visto tre cerchi: le mamme in un cerchio, i papà in un altro e i bambini in un terzo. Tutti uccisi alla baionetta. Ho trovato quattro piccoli che succhiavano i seni delle loro mamme. Erano gli unici superstiti. Erano feriti ma si salvarono: adesso sono grandi e sono ancora con noi. Hanno ucciso i bambini, e altri li hanno portati con loro per il trasporto di munizioni e viveri. Abbiamo recuperato almeno sette bambini di quelli deportati, quando siamo andati nelle basi per il programma di riconciliazione, alla fine della guerra.
Due famiglie di catechisti si salvarono. Un uomo con moglie e due figli si nascosero nella fossa della latrina, un’altra famiglia trovò riparo nel bagno in casa. Oggi prestano ancora il loro servizio».

a cura di Marco Bello

Sui martiri di Guiúa Mc aveva già pubblicato un servizio nel marzo 2002. Padre Francisco Lerma ha scritto «I martiri di Guiúa», 2001.

Marco Bello




Prigionieri delle montagne

Viaggio in un paese quasi… senza storia

Nato artificiosamente 80 anni fa come una delle 5 repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, dichiaratosi indipendente nel 1991, il Tagikistan
è da sempre uno stato povero, con scarse risorse e difficoltà di comunicazione. La crisi economica mondiale ne aggrava la situazione.

Occorre molta determinazione per arrivare fino a qui, in Tagikistan. Montuoso per il 93% del territorio, alla fine di tutte le strade, una specie di budello, non ci si capita per caso né lo si attraversa di passaggio verso altre destinazioni. Unici accessi non montuosi sono dall’Afghanistan e Uzbekistan, due frontiere difficili, per ragioni diverse; via aria i voli sono pochi e costosi.
Anche muoversi al suo interno è impresa non da poco. Non appena la neve comincia a scendere, la circolazione sugli alti valichi s’interrompe e il paese si spezza in tre parti: la regione sud occidentale con al suo centro Dushanbe, quella di Khujand al nord e il Goo Badakhshan a oriente. Tutte queste regioni sono facilmente accessibili da territori che stanno al di fuori dei confini nazionali, ma al loro interno si trovano divise da poderose dorsali montane.
Quando nel 1895 l’impero russo e quello britannico arrivarono finalmente a un accordo sul confine in Pamir tra le loro rispettive zone d’influenza, si stabilì che esso dovesse seguire il corso del fiume Pianj: la riva destra con il Badakhshan e la provincia orientale dell’Emirato di Bukhara rimaneva sotto protettorato russo, quella sinistra avrebbe fatto parte dell’Afghanistan sotto protettorato inglese. Ma proprio sulla bassa riva sinistra correva la strada di collegamento tra l’est e l’ovest del Badakhshan, che in tal modo rimase in territorio afghano. Una strada alternativa attraverso i monti fu costruita solo nel 1940.
Allo stesso modo, il naturale collegamento tra Dushanbe e Khujand, le due città principali del Tagikistan, passa per la pianura uzbeka. Questo è il percorso che segue la ferrovia. Volendo rimanere all’interno del territorio nazionale si è costretti a valicare i due passi di Anzob (3.372 m.) e Shahristan (3.351 m.). Bisognò aspettare fino al 1935 per avere una strada vera e propria che s’inerpicasse fino a quelle altezze, prima c’erano soltanto mulattiere.
Come nasce un paese…
improbabile
Prima dell’epoca sovietica il Tagikistan non era mai esistito come formazione politica indipendente; questi territori avevano sempre costituito la periferia di stati i cui centri erano o nelle pianure irrigue a nord delle montagne, o negli altopiani a sud. Solo a metà degli anni ‘20 esso fu costituito come entità amministrativa, quando il governo bolscevico decise di dare un nuovo assetto ai governatorati del Turkestan e della Steppa, assegnando un proprio territorio a ogni popolo presente all’interno dell’ex impero zarista. Nacquero così, inizialmente, tre repubbliche socialiste, che presero il nome di altrettante etnie: Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan; al loro interno furono, poi, disegnate delle regioni autonome per le etnie considerate minoritarie.
Così facendo si applicava un principio astratto a una realtà non corrispondente: il concetto di nazionalità era del tutto estraneo alla storia, alla religione, alla cultura dei popoli centroasiatici. In Asia Centrale non c’erano mai state nazioni, ma entità statali multietniche, dove la consapevolezza etnica era inesistente; il senso d’identità era dato dall’appartenenza a una famiglia estesa, o a un clan, e dalla comune fede islamica. Il principio base di distinzione dei gruppi era lo stile di vita nomade, o sedentario: nomadi erano i kazaki, i turkmeni, i karakalpaki, i kirghizi, tutti popoli di origine turco-mongola; sedentari erano gli uzbeki turchi, che avevano col tempo abbandonato le proprie tradizioni nomadi, si erano sedentarizzati e vivevano da secoli in strettissimo contatto con i tagiki iranici, gli abitanti originari della regione e sedentari da sempre.
Dividere questa regione in base a criteri etnici, in cui gli stessi interessati faticavano a riconoscersi, era impresa impossibile, che scontentò molti e lasciò ampie fette di popolazione al di fuori dei nuovi confini nazionali. Ci fu a chi andò bene, come agli uzbeki, o benissimo, come ai kazaki, e a chi toccò una fetta troppo piccola, come ai tagiki, che videro i loro principali centri di cultura, le città di Bukhara e Samarcanda, rimanere in territorio uzbeko.
Alla regione autonoma del Tagikistan, ritagliata nel 1924 all’interno della repubblica dell’Uzbekistan, andarono la provincia orientale dell’ex emirato di Bukhara, la più arretrata e remota, e il Pamir. In mancanza di meglio, assurse a dignità di centro amministrativo un villaggio, poco più di un centinaio di case d’argilla lungo la strada carovaniera per Samarcanda, sede di un mercato che si teneva il lunedì: Dushanbe in tagiko significa, appunto, lunedì.
Nel 1929 il Tagikistan si staccò dall’Uzbekistan per diventare la settima Repubblica socialista sovietica. Essendo quasi interamente montuosa, per renderla economicamente più agibile in quell’occasione vi fu inglobata la città di Khujand e una fetta di pianura circostante, appartenute in precedenza all’Uzbekistan.
rischio disintegrazione
Finché esistette l’Urss, questa strana repubblica poté godere il vantaggio di trovarsi all’interno di uno stato multietnico che, di fatto, ricreava le condizioni originarie. I confini erano esclusivamente amministrativi e in nessun modo poteva essere tagliato il cordone ombelicale con le altre parti dell’Unione. Per andare a Khujand si saliva sul treno a Dushanbe, si faceva un tratto in Uzbekistan, poi in Turkmenistan, ancora in Uzbekistan e si rientrava in Tagikistan. Nessun visto, né dogana.
Inserito nel sistema economico dell’Unione, poco importava che non ci fossero riserve energetiche proprie e scarseggiassero i terreni agricoli: il gas vi era portato dall’Uzbekistan, il grano dalla Russia e dal Kazakistan. Furono impiantate industrie che potevano funzionare solo in un ambito interrepubblicano, come l’enorme fabbrica d’alluminio di Tursunzadè, una delle più grandi dell’Urss, dove la materia prima arrivava da altre repubbliche. Inoltre, come zona montana e depressa, il Tagikistan riceveva consistenti sovvenzioni federali.
La fine dell’Urss significò la brusca interruzione dei canali linfatici che tenevano in vita la repubblica, la quale si ritrovò a dipendere totalmente dai vicini, senza via d’accesso, senza energia, senza cibo. Tutti i vizi che stavano all’origine del suo concepimento furono d’improvviso evidenti: isolamento, scarsità di risorse agricole ed energetiche, frammentazione del territorio e difficoltà delle comunicazioni intee.
Le conseguenze della fine del sistema sovietico sono state molto più gravi che in tutte le altre parti dell’Unione. Il Tagikistan dovette affrontare una guerra civile che rischiò di mandarlo in frantumi, col nord pronto alla secessione e quasi imprendibile dietro a due poderosi bastioni montani; il Badakhshan pericolosamente isolato. I tagiki considerano un miracolo che la loro repubblica continui a esistere.
Sono passati 12 anni dalla fine del conflitto. Il Tagikistan di oggi è un paese tranquillo, dove gli orrori della guerra sembrano ormai appartenere al passato. Nel presente, però, rimane tutto il resto.
paese ricattato
A sei anni dalla mia prima visita in questo paese i segni di un miglioramento delle condizioni di vita sono ancora esigui. Non credo si possa annoverare tra di essi la comparsa di una sporadica edilizia di lusso, per non parlare del gigantesco palazzo presidenziale, ufficialmente chiamato Palazzo del Popolo, con evidenti segni di megalomania, in un’ampia area nel centro della capitale; sono, piuttosto, segni di una ricchezza proveniente dai profitti illeciti del traffico di droga, o dall’uso irresponsabile delle risorse nazionali. È noto che il presidente e membri della sua famiglia controllano i settori più produttivi dell’economia tagika.
Per la stragrande maggioranza degli abitanti l’esistenza continua a essere molto dura e la dieta giornaliera rimane a pane e tè. Anche se dal 2000 il Pil tagiko ha segnato una crescita dell’8-10% annuo, rimane molto inferiore agli ultimi anni sovietici. Inoltre, tale crescita, più che da un equilibrato sviluppo economico, è in buona parte motivata da fattori estei: la ripresa, dopo la cacciata dei talebani, del traffico di droga dall’Afghanistan, che ha nel Tagikistan uno dei maggiori canali di esportazione, e il boom economico in Russia e Kazakistan, che ha assicurato maggiori possibilità d’impiego ai lavoratori stagionali provenienti dalle ex repubbliche sovietiche. Si calcola che circa un milione di tagiki lavori in questi due paesi e che le loro rimesse alle famiglie costituiscano circa il 40% del Pil. Ciò fa sì che nel paese circoli parecchio denaro non prodotto da attività svolte al suo interno.
Girando per negozi e bazar di Dushanbe, ho subito notato che i prezzi dei beni, anche di prima necessità, erano del tutto sproporzionati agli stipendi medi di 30-40 euro. Si paga l’equivalente di due euro per un fascicoletto scolastico, un euro per un chilo di pomodori! Quando ho chiesto il prezzo di un biglietto aereo per Mosca, mi sono sentita rispondere che era valido solo per i due-tre giorni successivi, perché la quotazione era aggiornata di continuo secondo il prezzo del carburante.
La maggiore disponibilità di denaro nelle famiglie, grazie alle rimesse dall’estero, porta a una maggior domanda di beni di consumo, causando un aumento di inflazione e importazioni: quasi tutte le merci, infatti, passano dall’Uzbekistan, che impone alte tasse doganali, a cui si aggiungono i pedaggi non ufficiali estorti dalle guardie di frontiera. 
Ancora una volta, il Tagikistan paga il prezzo di una posizione geografica infelice, che lo rende dipendente per la sopravvivenza da uno stato confinante. Fino a quando la situazione in Afghanistan non cambierà e l’Uzbekistan rimarrà l’unico plausibile collegamento col mondo esterno, il Tagikistan sarà soggetto ai ricatti del vicino, che non perde occasione di far valere il proprio monopolio. È capitato che le autorità uzbeke abbiano deciso unilateralmente la sospensione, o la decurtazione delle foiture di gas; o che abbiano chiuso senza spiegazioni e senza preavviso tutti i posti di frontiera per più giorni. Un episodio del genere è accaduto alla fine dello scorso novembre, proprio durante il mio soggiorno nel paese.
dipendenza energetica
Il governo non assicura i servizi essenziali alla popolazione, eccetto l’istruzione pubblica, la cui qualità è in peggioramento per mancanza di risorse e per la fuga degli insegnanti dalla scuola, scoraggiati dagli stipendi troppo bassi. L’assistenza medica non è garantita; l’acqua non è potabile nemmeno nella capitale; i rifiuti non vengono raccolti: nelle strade in prossimità dei cassonetti si formano grossi mucchi di spazzatura cui di tanto in tanto gli abitanti danno fuoco. Nelle città l’illuminazione scarseggia e spesso viene a mancare: i più accorti si portano sempre appresso una pila tascabile.
A Dushanbe questo è stato il primo inverno in cui la foitura di energia elettrica è avvenuta con limitate interruzioni. Nelle città di provincia e nei villaggi, invece, l’elettricità viene erogata per 7-8 ore al giorno, mattino e sera. Da quando l’Uzbekistan ha ridotto drasticamente le foiture del gas, in tanti casi l’elettricità rimane l’unica fonte di riscaldamento, soprattutto nelle città.
Quest’anno l’inverno è stato relativamente mite, ma lo scorso anno il freddo fu feroce e i tagiki si ricordano con terrore di come tremavano nelle loro case gelate. Pur di ottenere un po’ di calore, gli operai della grande fabbrica di Tursunzadè trafugavano le scorie lasciate dalla lavorazione del minerale d’alluminio, che bruciano, sì, in modo simile al carbone, ma sono nocive e possono causare gravi malattie.
Le interruzioni dell’elettricità causano anche seri danni alle attività della gente: negli uffici si fermano i computer, nei laboratori le macchine e apparecchiature, gli artigiani smettono di lavorare, le pompe di benzina di erogare carburante.
Sembra un paradosso che un paese all’ottavo posto nel mondo per risorse idriche non riesca a far fronte al proprio fabbisogno di energia elettrica. Ai tempi sovietici per il riscaldamento si usava il gas e le centrali elettriche servivano in gran parte per alimentare l’industria. Da quando è diventato indipendente il Tagikistan non è stato in grado di finanziare da solo la costruzione di altre centrali. Per le grandi opere pubbliche è costretto a contare sull’aiuto di altri paesi.
Inizialmente aveva fatto affidamento soprattutto sulla Russia, che a tutt’oggi rimane per i tagiki il principale riferimento, per diversi motivi: le è riconosciuto un ruolo primario nella fine della guerra civile; è la meta privilegiata dei lavoratori stagionali; è il primo partner commerciale.
Da parte sua, la Russia ha in Tagikistan forti interessi strategici: innanzitutto quello di assicurare il controllo della frontiera afghana, da cui viene la minaccia del terrorismo islamico e del traffico di droga, che potrebbe avere un effetto destabilizzante su tutta l’area centroasiatica, per lei d’interesse vitale. Fino a poco tempo fa la frontiera era controllata dai militari russi; adesso ci sono i tagiki, ma i russi rimangono come consiglieri militari e mantengono nel paese un’intera divisione motorizzata.
Recentemente, però, altre potenze regionali hanno cominciato un’attiva collaborazione col governo tagiko e si stanno conquistando un importante spazio economico. Accanto alla Russia, che ha in cantiere le centrali elettriche di Rogun e Sangtuda 1 sul Vakhsh, ora anche l’Iran è impegnato nella costruzione di una centrale, quella di Sangtuda 2, sullo stesso fiume. Se completate esse potranno dare al Tagikistan una certa tranquillità energetica.
Oltre all’indipendenza energetica, è di assoluta priorità assicurare collegamenti permanenti tra le varie regioni, anche nella stagione invernale. Proprio in questo campo l’assistenza tecnica e finanziaria di Cina e Iran si sta rivelando preziosa. La prima sta costruendo un tunnel sotto il passo di Shahristan e una società iraniana ha da poco ultimato il tunnel Esteqlol (Indipendenza), sotto il passo di Anzob. In tal modo, tra qualche tempo sarà finalmente possibile viaggiare tutto l’anno tra le due maggiori città del Tagikistan.
è arrivata la crisi
Nel 2004 il Tagikistan ha festeggiato l’80° compleanno della capitale Dushanbe. È una città giovane, non molto estesa, con ampi viali, moltissimo verde e un’invidiabile cerchia di montagne a farle da contorno. Nonostante ciò, l’aria è densa per il fumo che sale dai roghi dei rifiuti non smaltiti dall’amministrazione cittadina. Solo il vento e la pioggia riescono a togliere il pesante odore di bruciato.
Il centro ha conservato la sua impronta staliniana, in cui predomina il neoclassico, lo stile ufficiale negli anni ‘30 del secolo scorso. Ci sono i palazzi governativi, l’imponente teatro dell’opera, la filarmonica, teatri di prosa, tutti quasi sempre chiusi. La fine dell’Urss ha avuto una pesante ricaduta anche sulla vita artistica e culturale della città.
In mancanza di altri luoghi d’intrattenimento, nei giorni di festa gli abitanti si ritrovano nei parchi cittadini. Le donne, giovani e meno giovani, indossano vestiti lunghi, dai colori sgargianti, con i fazzoletti a fiori calcati sulla fronte e annodati dietro la nuca; gli uomini, invece, hanno in prevalenza abiti scuri. Passeggiano in gruppi numerosi: amiche, amici, intere famiglie, molti con le macchine fotografiche, e si concedono qualche ora di distensione. Facce sorridenti: Dushanbe la domenica ha un sapore di normalità.
Ben diverse erano le facce dei passeggeri, per lo più uomini, che ho visto in aeroporto mentre m’imbarcavo per Mosca. Consegnavano i bagagli al check in e poi, con fare incerto come di chi non sa dove andare, finivano per accalcarsi davanti alla strettornia del controllo passaporti.
Mentre aspettavo il mio tuo, un ragazzo mi ha superato ed è andato a occupare un passaggio che doveva rimanere libero. Quando mi sono rivolta a lui per avvertirlo, ho visto i suoi occhi smarriti, la sua espressione timida e ho capito: quel ragazzo non aveva mai messo piede in un aeroporto, arrivava probabilmente da qualche villaggio e andava a Mosca a cercar lavoro per mandare tutti i mesi un po’ di soldi ai famigliari. Era lo stesso sguardo disorientato che adesso leggevo sulle facce di tanti passeggeri. Molti di loro lasciavano le loro case per cominciare un viaggio il cui esito era incerto, ma che certamente sarebbe stato pieno di fatica e umiliazioni.
Ai lavoratori stagionali in Russia spettano i mestieri più umili e duri. Ma questo è il male minore: spesso ricevono una paga molto inferiore a quella dei russi e può capitare che non la ricevano affatto, se non possono far valere un regolare contratto; il datore di lavoro sa che, anche se insolvente, resterà impunito.
La recente crisi, che ha colpito duramente anche la Russia, ha peggiorato la loro condizione. I cantieri, dove i tagiki e altri stagionali costituiscono tutta la bassa manovalanza, hanno cominciato a chiudere, lasciandoli senza paga e senza impiego. Molti saranno costretti a tornare; tra chi rimarrà la concorrenza sarà più dura e la paga scenderà ancora. Tante famiglie rischiano di perdere la loro unica fonte di reddito.
È così che la crisi finanziaria sta arrivando anche in Tagikistan, dove non ci sono né capitali, né borse. Sta arrivando veloce, a dispetto della sua lontananza e delle inaccessibili montagne. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Rafforzata e consolata

Spagna

Suor Marisa Isabel Soy, argentina, dopo avere lavorato in Bolivia e in Liberia, ora si trova in Spagna, a Madrid, dove le missionarie della Consolata svolgono un servizio di animazione missionaria e pastorale parrocchiale. Inoltre, suor Marisa, collabora in un progetto a favore dei Migranti.

Ousmane ha circa quarant’anni ed è uno dei tanti migranti proveniente dall’Africa Occidentale che ha attraversato il mare per cercare una vita migliore a Madrid, in Spagna.  Un lavoro da pescatore che non riusciva più a mantenere e sfamare una famiglia numerosa: ecco cosa c’è alla base del sogno europeo di Ousmane. L’ho conosciuto  grazie al «Progetto RAPA» (Rete di appoggio per l’Africa, creata dai Gesuiti spagnoli con cui da due anni collaboro), organizzazione che aiuta i migranti ad inserirsi nella realtà spagnola. Un lavoro che svolgo volentieri, riconoscente per il tanto bene che ho ricevuto dalla gente africana, durante i miei anni trascorsi in quel continente.
Ousmane, arrivato circa un anno fa dal Senegal, è ospite di un centro di accoglienza temporanea. Prima dell’attuale crisi economica, era facile per chi arrivava in Spagna trovare un lavoro, avere in breve tempo i documenti in regola ed ottenere il permesso di soggiorno. Ora, anche in Spagna la situazione è difficile per cui gli ospiti del Centro non trovando lavoro, restano all’interno della struttura. Questa situazione rende i migranti tesi e a volte  anche violenti. Per questo, noi che lavoriamo nel RAPA ci siamo proposti di «personalizzare» l’accompagnamento, offrendo a ciascuno la possibilità di dialogare e allentare così le tensioni. Migliorare la comunicazione con gli ospiti del Centro ci ha anche permesso di conoscere le motivazioni che hanno indotto queste persone a lasciare i loro Paesi, nonché di cogliere le loro capacità lavorative e aspirazioni, aiutandoli così meglio  nella ricerca di un impiego.
Curiamo anche la formazione personale e professionale degli ospiti, offrendo corsi di lingua spagnola e avviamento professionale.
Attraverso i programmi del Centro RAPA ho conosciuto e seguito da vicino Ousmane. Mi ha colpito la sua salda fede in Allah, che lo aiuta ad affrontare con calma e serenità la situazione di emergenza e solitudine in cui si trova.
Mi impressiona anche la sua riconoscenza per tutto ciò che riceve: la sua sofferenza più grande è quella di non poter mandare, come vorrebbe, aiuti economici alla sua famiglia.
Spesso, mi chiede di pregare per lui e di aiutarlo a trovare un lavoro. Purtroppo, oltre alle molteplici difficoltà burocratiche, un test medico ha diagnosticato a Ousmane un diabete, per cui deve seguire una dieta speciale e sottoporsi a controlli sanitari regolari, cosa che complica ancor di più la sua situazione di migrante senza permesso di soggiorno. Tuttavia, niente di tutto questo mina la fede di quest’uomo. La sua presenza serena e senza pretese è per me il segno palpabile che Dio è con lui.  In questo mondo del consumo e delle apparenze, dove questi fratelli vivono raccogliendo le «briciole» del nostro spreco, mi sento consolata accompagnando i passi di coloro che, come Ousmane, non contano e sempre vengono lasciati ai margini della società: per questa esperienza rendo grazie a Dio e mi sento rafforzata nella mia vocazione di Missionaria della Consolata.

Di suor Marisa Isabel Soy

Marisa Isabel Soy




Il sistema è giusto: mercato sì, stato no

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 1 / Incontro con l’ex ministro Domingo Cavallo

A Buenos Aires, abbiamo incontrato Domingo Felipe Cavallo, economista di scuola neoliberista, plurilaureato, per tre volte ministro dell’Argentina. In questa intervista, Cavallo difende le scelte fatte nel suo passato di ministro, attacca i politici di oggi e conferma la validità delle tesi economiche neoliberiste, che mettono il libero mercato al centro di tutto. Nelle sue risposte non manca neppure qualche riferimento
ai bonos dello stato argentino, tristemente famosi anche tra migliaia
di risparmiatori italiani…

Vuoi ascoltare il reportage?
Un resoconto audio di questo incontro è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it. sezione “Ascolta”.
La trasmissione fa parte del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America»,
trasmesso dall’emittente Radio Flash di Torino e curato da Paolo Moiola.


Buenos Aires. Sui giornali si parla dell’ultimo libro di Domingo Felipe Cavallo. Proprio lui: l’ex ministro dell’economia divenuto famoso, nel bene e nel male, prima (1991) per la legge che istituiva la parità tra la valuta argentina e il dollaro statunitense e poi (2001) per aver bloccato nelle banche i soldi di tutta una nazione. Scriviamo al suo blog per chiedere un incontro. Qualche ora dopo siamo contattati dal solerte ufficio stampa che ci invita per il tardo pomeriggio nella sua casa alla Recoleta, uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires.
L’indirizzo al quale dobbiamo presentarci corrisponde a quello di una elegante villa.
Ci apre e ci dà il benvenuto un collaboratore del padrone di casa. Dopo pochi minuti veniamo accompagnati al primo piano. Entriamo in uno studio alle cui pareti fanno bella mostra di sé i diplomi di laurea di svariate università del mondo, tra cui ben 3 italiane: Bologna, Genova e Torino.
«Sono quasi tutte lauree honoris causa – ci spiega il nostro ospite appena entrato nello studio -. Quelle guadagnate sul campo – ce le indica con un cenno della mano – sono appese lì: Università di Harvard e Università di Cordoba».
Di ascendenze piemontesi, Domingo Felipe Cavallo è un personaggio che ha segnato – e non c’è timore di smentita al riguardo – la storia recente dell’Argentina e sul cui operato ancora oggi il dibattito è accesissimo, anche se i giudizi negativi o molto negativi sembrerebbero prevalere.
Faccia sveglia, voce decisa e squillante, modi cortesi, l’ex ministro ci fa sedere davanti alla sua scrivania, carica di libri e di qualche oggetto ricordo, come una statuetta del «toro rampante» simbolo della città di Torino.

Da Carlos Menem
a Feando De la Rúa

Dottor Cavallo, lei è un professore di economia, ma è diventato famoso come politico. Come preferisce essere chiamato?
«Sono prima di tutto un economista, attivo in ambito accademico».

La sua fama è però dovuta ai suoi periodi come ministro di questo paese. Qual è il suo consuntivo?
«Con De la Rúa non andò bene, soprattutto perché, all’epoca, ci fu molta gente che mi incolpò di tutti i mali dell’Argentina.
Però, con Menem – prima come ministro degli esteri e poi come ministro dell’economia – ho favorito un cambio che era assolutamente necessario per l’Argentina.
Con Menem fu un periodo di grandi riforme, in politica estera e in materia di organizzazione del sistema economico argentino. Con De la Rúa fu un periodo di crisi, dovuto a circostanze inteazionali sfavorevoli e con il paese che aveva accumulato una serie di problemi, che condizionarono molto il modo di affrontare la situazione. Inoltre, con la coalizione De la Rúa la mia posizione era molto debole, mentre con Menem fu il contrario, perché la sua coalizione di centrodestra appoggiava compattamente le riforme che si volevano introdurre.
Visto in prospettiva storica, il mio lavoro ha prodotto buoni risultati».

Lei parla con orgoglio del suo (lungo) periodo come ministro dell’economia durante la presidenza di Carlos Menem. Quali considera i suoi successi?
«È abbastanza semplice. Con Menem passammo da un’economia chiusa al mondo ad un’economia aperta con investimenti, commercio, buone relazioni inteazionali. Prima avevamo problemi non soltanto con la Gran Bretagna (per le Malvinas), ma anche con il Brasile, il Paraguay, la Bolivia, il Cile. Risolvemmo tutti questi conflitti. L’Argentina si integrò al mondo e questo fu il primo grande cambio.
Il secondo fu l’eliminazione dell’inflazione che era un problema cronico del paese e ultimamente si era trasformata in iperinflazione. Fino al 5.000 per cento all’anno! Dal 1991 in avanti inaugurammo un periodo di stabilità, simile alla stabilità europea e nordamericana, che durò 11 anni, precisamente fino al 2001.
Questi successi economici furono possibili anche perché avevo preparato il terreno durante l’anno e mezzo come ministro degli esteri».

Oggi un dollaro Usa vale oltre 3,5 pesos. All’epoca di Menem, la misura più famosa fu la parità cambiaria tra dollaro Usa e peso argentino. È ancora convinto della giustezza di quella decisione?
«Naturalmente sono convinto della sua giustezza! Ma è improprio spiegarla con l’equivalenza – 1 a 1 -del peso con il dollaro. La convertibilità consisteva nel fatto che gli argentini potevano convertire liberamente il peso in altre monete e utilizzare liberamente nei contratti e nelle transazioni la moneta che volevano. La parità del peso con il dollaro durò 11 anni, ma doveva terminare prima.  Infatti, quando nel 2001  entrai nel governo De la Rúa cercai di formalizzare un paniere monetario in cui entrasse anche l’euro. Ma ormai era tardi».

È abbastanza naturale chiedersi come si può avere una moneta nazionale di valore identico al dollaro (o altra valuta) quando un’economia è molto più debole dell’altra…
«Questo non ha niente a che vedere, perché la moneta è una convenzione. Non c’entra nulla con i livelli di produttività di un paese. Comunque, la convertibilità non avrebbe dovuto essere abbandonata.   Avendolo fatto, oggi l’Argentina si ritrova con un’inflazione annuale che supera il 20 per cento».

L’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec) parla di un’inflazione ben inferiore…
 «È una delle tante barbarie commesse da questo governo. Ha distrutto quel prestigioso istituto, mettendolo in mano a funzionari che invece di fare statistiche corrette mentono per nascondere l’inflazione».

La crisi delle banche di questi mesi fa ricordare la crisi argentina del 2001, quando lei introdusse una misura altamente impopolare conosciuta come corralito. Ci furono manifestazioni di piazza e gli istituti di credito erano sotto assedio…
«Il corralito fu una misura necessaria per frenare la corsa al ritiro dei depositi bancari. Precisiamo una cosa, però: la gente non poteva ritirare il contante, ma poteva disporre dei propri risparmi con altri strumenti, come carte di debito, assegni, trasferimenti bancari. Sarebbe stato peggio se si fossero chiuse le banche. Poi, Duhalde e i suoi fecero cadere il governo di De la Rúa e instaurarono il corralón con l’obiettivo di appropriarsi del risparmio della gente, per alleggerire il debito pubblico e soprattutto quello privato dei grandi gruppi economici».

Può spiegarci in parole semplici in cosa si tradusse praticamente il corralón introdotto dal governo di Duhalde?
«Con la pesificazione dei depositi e la svalutazione del peso rubarono ai risparmiatori per avvantaggiare i grandi gruppi industriali, tra cui i principali gruppi editoriali del paese, che per questo tornaconto si prestarono all’operazione del governo, confondendo l’opinione pubblica e demonizzando il sottoscritto». 

Lei si riferisce al gruppo che fa capo al Clarín (il più grande quotidiano argentino, ndr)?
«Preferisco non fare nomi».

Quelle decisioni influirono anche sui bonos (bonds, in inglese, ndr) dello stato che erano stati venduti in tutto il mondo, in primis in Italia?
«Certo. Rubarono non soltanto agli argentini, ma a tutti quegli stranieri  che avevano confidato nell’Argentina. Insomma, agli italiani o agli altri stranieri che avevano investito i loro risparmi in bonos argentini decisero di restituire soltanto il 30 per cento del valore. Queste ragioni economiche furono il vero motivo del golpe istituzionale del dicembre 2001».

È difficile capire come mai un paese tanto ricco come l’Argentina abbia conosciuto (e conosca) la povertà…
«Inizialmente perché, dal 1940 agli anni Novanta, l’Argentina si isolò dal mondo. C’erano bassi salari e il loro valore era deteriorato dall’inflazione, che è il metodo ideale per fabbricare poveri. Con le riforme che noi facemmo nella decade del Novanta il panorama cambiò molto e in positivo.
Dal 1998 la povertà aumentò di nuovo, raggiungendo il massimo nel 2002, dopo la svalutazione di Duhalde. Poi si abbassò per fattori inteazionali, come il boom dei prezzi della soia, di cui l’Argentina è una grande esportatrice. Il problema è che il governo cominciò a distribuire i maggiori introiti non per investimenti produttivi o per occupare la gente, ma per motivi patealistici. Nestor Kirchner guadagnò in popolarità e riuscì anche a far eleggere la moglie come presidenta degli argentini. Adesso però la situazione è di nuovo grave, perché abbiamo recessione con inflazione».

Lei è conosciuto come uno strenuo neoliberista. Volendo essere sintetici, possiamo dire che le parole d’ordine del neoliberismo sono: molto mercato e poco stato?
«Guardi, questi non sono termini adeguati. Le economie possono essere di due tipi: o economie aperte (come sono quasi tutte le economie del mondo, Cina inclusa) o economie dove interviene lo stato. Per le prime non si può parlare di neoliberismo o liberismo, si tratta di economie di mercato, aperte, competitive, integrate al mondo, che cercano la stabilità dei prezzi, perché considerano che inflazione e deflazione siano eventi negativi per il funzionamento dell’economia.
Poi ci sono economie in cui lo stato – in maniera arbitraria ed imprevedibile – senza stabilire regole del gioco, ma attraverso decisioni autoritarie, tende a prendere la maggior parte delle decisioni economiche. Un caso estremo, storicamente finito, è stato quello del comunismo della Russia e della Cina all’epoca di Mao.
Sfortunatamente hanno adottato questo sistema dell’economia di stato molti paesi arretrati del mondo, tra cui molti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Cuba (che è stata la prima). E purtroppo anche l’Argentina, che va nella direzione dello statalismo e dell’economia chiusa, invece di seguire l’esempio di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e della maggior parte dei paesi centroamericani.
Riassumendo senza andare troppo lontani: in America Latina ci sono due classi di paesi. Quelli che avanzano verso il futuro e  quelli che stanno tornando al passato con il protezionismo e l’isolamento».

Lei è molto critico verso il suo paese e in particolare verso la gestione dei Kirchner. Perché?
«In primis, è compito dello stato fissare le regole del gioco dell’economia; quindi, occorre creare un regime monetario e farlo funzionare. In Argentina, oggi non si sa come si determina il valore della moneta e nessuno può trattare liberamente valute straniere (se non nei limiti fissati dal Banco centrale). Nessuno poi ha fiducia nella moneta nazionale, perché abbiamo un’inflazione annua del 20 per cento. In tutto questo lo stato argentino è assente. Come è assente nella difesa del diritto di proprietà. Così è stato, nel 2002,  per i risparmiatori argentini e per i detentori stranieri, in primis italiani, dei bonos, i titoli pubblici. Lo stato è dunque assente in una questione fondamentale.
 Al contrario, lo stato si intromette nelle decisioni di investimento delle imprese private, imponendo tasse distorsive ad un soggetto per favorire un altro. Questo tipo di statismo crea occasioni di corruzione e di privilegio. Purtroppo, è la filosofia che si sta imponendo in Argentina».
   
Secondo lei, cosa deve fare uno stato?
«Lo stato deve finanziare la scuola primaria e secondaria e buona parte dell’università. Deve provvedere un’assicurazione sanitaria a tutti i cittadini. Deve organizzare un sistema pensionistico e contro la disoccupazione. E soprattutto deve offrire ai cittadini un sistema di sicurezza, perché uno stato dove c’è crimine, si ruba e si uccide, dove non hai sicurezza fisica, è uno stato che non esiste.
Queste sono le funzioni su cui uno stato dovrebbe concentrarsi. Quando invece vuole sostituirsi al soggetto privato nelle decisioni economiche, sbaglia».
Ai tempi di Carlos Menem, in questo paese si privatizzò di tutto. Le privatizzazioni sono uno strumento adeguato?
«Dipende da ciò che si privatizza. Responsabilità dello stato è di finanziare un sistema di salute. Poi le prestazioni sanitarie possono essere foite dal pubblico o dai privati. Se lo stato proibisse di avere ospedali privati, commetterebbe un gravissimo errore, perché in genere questi offrono livelli di prestazioni migliori rispetto agli ospedali pubblici. La competizione tra pubblico e privato è importante. L’importante è che la popolazione abbia una copertura sanitaria.
Identicamente per l’istruzione: ci sono scuole pubbliche e scuole private. Quella pubblica è finanziata dallo stato, mentre quella privata può avere dei contributi se tiene basse le rette d’ingresso».

In Argentina, esiste una tradizione pubblica sia per il sistema educativo che per il sistema sanitario. Peccato che per scuole ed ospedali manchino sempre i fondi…
«Perché si stanno spendendo 10 mila milioni di dollari all’anno per sussidiare il trasporto urbano, l’energia, una marea di attività, indipendentemente dal costo di produzione. Sottraendo risorse finanziarie alla salute, all’educazione, alla sicurezza. C’è un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche, cosa che non accadde nel decennio degli anni Novanta, quando lo stato si concentrò sui propri compiti fondamentali.
All’epoca, chi fece investimenti nei trasporti, nell’elettricità, nella comunicazione, nel petrolio? Il settore privato. Per questo vennero molti investitori dall’estero.
Dal 2002 non ci sono più stati investimenti e lo stato ha dovuto iniziare a costruire centrali elettriche, a sovvenzionare le perforazioni per il gas. Intervenendo sempre in maniera inefficiente ed ingiusta in settori che dovrebbero essere di competenza del mercato e dell’economia privata. Se non fosse intervenuto, oggi avrebbe molte più risorse da destinare alla salute, alla sicurezza, alla giustizia».

Dottor Cavallo, dal settembre 2008 paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno intervenendo massicciamente nell’economia. Questo è un dato di fatto innegabile…
«Sì, sta avvenendo, ma non ha niente a che vedere con un cambio di organizzazione economica, di sistema. Semplicemente, quando c’è una recessione è ovvio che lo stato debba tentare di aumentare la domanda effettiva attraverso l’applicazione di politiche fiscali e monetarie».

Se non si tratta di una revisione de facto del capitalismo, si tratta però di politiche  keynesiane, fino a poco tempo fa neglette dalla maggioranza degli economisti e dei governi…
«Quando le politiche keynesiane sono buone? Lo sono quando, in momenti di auge, di boom, sono ristrettive mentre sono espansive in momenti di recessione. Sono politiche compensatorie rispetto al ciclo economico.
Sfortunatamente quelli che si fanno chiamare keynesiani (e che io chiamo invece statalisti-populisti) applicano in periodi di boom politiche espansive, accumulando debiti invece che avanzi di bilancio con quelle fiscali, e producendo inflazione con quelle monetarie. Quando arriva la recessione, ovvero il momento in cui dovrebbero applicare politiche espansive, non le possono applicare, perché non hanno più credito e non possono creare moneta per non alimentare altra inflazione.
Oggi nel mondo – in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Messico, Cile – è ragionevole che lo stato finanzi aumenti della spesa pubblica, diminuzione delle imposte e allentamento delle politiche monetarie. Ma non da parte di quei paesi che lo hanno fatto in periodi di boom, quando le politiche avrebbero dovuto essere di segno opposto. Ebbene, oggi questi paesi non possono affrontare la recessione, perché non hanno credito e hanno troppa inflazione. Ad esempio, Argentina e Venezuela, per rimanere qui in America Latina».

Dottor Cavallo, non ci ha spiegato le cause che, secondo lei, hanno prodotto questa crisi…
«Per le stesse ragioni per cui si sono prodotte le crisi finanziarie. Per un eccesso di ottimismo, soprattutto da parte dei banchieri.
Il mondo lo supererà in uno o due anni. Per l’Argentina sarà più lungo recuperare per colpa dell’attuale governo».

Nessun potere pubblico ha controllato le banche, il sistema finanziario, gli intermediari, gli speculatori…
«Sì, è mancata una regolazione.  Si doveva chiedere alle banche e agli intermediari finanziari di essere molto più conservatori di quanto non siano stati, pretendendo dai clienti maggiori garanzie, tassi più alti, periodi di credito meno lunghi.  Insomma, essere meno generosi. Però, in epoche di ottimismo generalizzato, i politici non vanno a porre freni alle banche. Al contrario, le spingono. Com’è successo negli Stati Uniti: gli stessi politici che oggi criticano, ieri spingevano il sistema ad offrire più credito e condizioni più favorevoli per comprare case. Insomma, in questo gioco di assegnare responsabilità per la crisi finanziaria, c’è moltissa ipocrisia».

Lei cosa dice ai suoi studenti di economia?
«Che studino. Che guardino alla storia e alla geografia. L’economia non si può studiare come una cosa matematica. È una materia sociale, complessa, in cui occorre guardare all’uomo nel suo contesto storico e geografico».

Corsi, conferenze, libri. Significa che lei non toerà più alla politica attiva?
«No, non vedo alcuna possibilità di tornare alla politica. Almeno per il momento». 

Di Paolo Moiola         

Domingo Cavallo,
ascesa e caduta di un profeta del neoliberismo     

1946, 21 luglio – Nasce a San Francisco, nella provincia di Córdoba.

1967-1977 – Si laurea in economia prima all’Universidad Nacional de Córdoba e successivamente all’Università di Harvard (PhD in Economics), negli Stati Uniti.

1978-1987 – È fondatore e direttore dell’«Instituto de Estudios económicos de la Fundación Mediterránea».

1982 – Viene designato presidente del «Banco Central de la República argentina».

1987 – Alle elezioni viene eletto deputato nazionale per provincia di Córdoba nelle fila peroniste.

1989-1991 – Il presidente Carlos Menem lo nomina ministro degli esteri, incarico che ricopre per circa un anno e mezzo.

1991-1996 – Sono gli anni – quasi 6 – come ministro (superministro) dell’economia del governo Menem.

1991, 27 marzo – Come nuovo ministro dell’economia fa votare la «ley de convertibilidad», in base alla quale si stabilisce un cambio fisso tra il dollaro Usa e la valuta nazionale (prima l’austral, poi il peso, la nuova moneta argentina). Inizia il periodo conosciuto come «el uno a uno». La legge rimane in vigore per oltre 10 anni azzerando l’inflazione ma producendo effetti alla lunga devastanti sul sistema industriale del paese.

1991, ottobre/novembre – Il governo Menem-Cavallo vara un programma di privatizzazioni, deregolazione economica e di flessibilizzazione del lavoro.

1997 –  Crea una propria formazione politica, «Acción por la República», e si candida come deputato, risultando eletto.

1999, novembre –  Si candida alla presidenza, ottenendo 2 milioni di voti e arrivando al terzo posto. Viene nominato presidente Feando De la Rúa.

2001, marzo – Il nuovo presidente Feando de la Rúa lo nomina ministro dell’economia.

30 novembre 2001 – Annuncia il «corralito», misura in base alla quale vengono stabilite severissime restrizioni al prelevamento di denaro dai depositi bancari. La misura produce una ribellione generalizzata, con manifestazioni di piazza («cacerolazos»).

19 dicembre 2001 – Dopo violente proteste di piazza si dimette da ministro. Il giorno dopo si dimette anche il presidente De la Rúa, che fugge ignominiosamente in elicottero dalla Casa Rosada.

2002-ad oggi – Professore visitante in alcune università degli Usa, si dedica alla pubblicazione di libri. E tiene conferenze in giro per il mondo.

FONTI: Domingo Cavallo con Juan Carlos de Pablo, Pasion por crear, Editorial Planeta, Buenos Aires 2001; per altre informazioni legate all’attualità si vada sul blog personale del protagonista: www.cavallo.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il sistema è sbagliato: meno mercato, più solidarietà

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 2 / Incontro con i lavoratori dell’Hotel Bauen

Negli anni Novanta e successivamente allo scoppio della crisi, sotto lo sguardo del mondo finanziario internazionale (prima vestale, poi arpia), centinaia
di fabbriche argentine chiusero i battenti, buttando sulla strada migliaia
di persone con le rispettive famiglie.  Molte non si ripresero più, altre cercarono occupazioni diverse, altre ancora attesero tempi migliori. Una importante minoranza si ribellò al sistema e rimise in attività le imprese abbandonate dai proprietari. Nacque allora il fenomeno delle «fabbriche recuperate».
L’Hotel Bauen ed i suoi lavoratori sono protagonisti di una di quelle storie…

Buenos Aires. A poche centinaia di metri dal Congresso, affacciato sulla centrale Avenida Callao, sorge un palazzo di venti piani, tutto vetro e metallo verde scuro.  Quel palazzo ospita l’Hotel Bauen.
Entriamo in una hall spaziosa, elegante senza essere sfarzosa. Sulla parete che separa il bancone della reception dalla caffetteria è appesa una targa, molto sobria, che ricorda una tappa fondamentale nella storia recente di questo hotel. Leggiamo: «Empresa recuperada por sus trabajadores, 20 de marzo de 2003». Insomma, l’Hotel Bauen è un’impresa chiusa dai proprietari e riaperta dai lavoratori licenziati. Un avvenimento inconsueto nel mondo, ma abbastanza diffuso nell’Argentina post-2001.
Sotto la targa storica sta un quadro che raccoglie poesie di Juan Gelman, poeta e giornalista nato a Buenos Aires. Le liriche di Gelman sono una scelta azzeccata, non soltanto per la loro intrinseca bellezza, ma anche perché l’autore è stato una vittima della dittatura militare.
L’Hotel Bauen fu costruito sotto gli auspici di quel regime. Correva l’anno 1978 e la giunta militare argentina aveva organizzato i Campionati mondiali di calcio, come vetrina per legittimarsi agli occhi (colpevolmente distratti) del mondo. Un impresario vicino ai militari, Marcelo Iurcovich, approfittò delle proprie amicizie politiche e del momento favorevole per ottenere un prestito (mai più restituito) da una banca statale (Banco nacional de desarrollo, Banade) con il quale costruire l’hotel. Questo assunse il nome di Bauen, dall’acronimo della impresa del signor Iurcovich (Buenos Aires Una Empresa Nacional, Bauen). 
Venduto ad un gruppo cileno, a fine dicembre 2001, nel pieno della crisi economica argentina, il Bauen chiuse per fallimento. Ma qualcuno degli oltre 100 lavoratori gettati sulla strada non si arrese…

Come si lavora senza…
padroni
Marcelo Ruarte, un uomo distinto e con la barba grigia tenuta a pizzetto, è uno di loro. Ci accoglie in una stanza luminosa tappezzata di manifesti. Alcuni ricordano momenti della storia del Bauen e di altre imprese recuperate; altri ritraggono personaggi del presente (Hugo Chávez, Evo Morales, Fidel Castro) e del passato (Che Guevara).

Marcelo, all’entrata abbiamo letto una targa che celebra la nascita del nuovo Bauen. Ma l’inizio è stato un altro…
«Il Bauen fu propiziato dalla dittatura durante i mondiali di calcio. La manifestazione sportiva faceva parte di una strategia dei militari per far dimenticare la repressione e la tortura».

La storia di questo hotel ha avuto parecchi momenti drammatici…
«Quando il 28 dicembre del 2001 l’hotel chiuse: erano 21 anni che lavoravo nel Bauen. Il 21 marzo del 2003 occupammo l’hotel con l’aiuto del “Movimento delle fabbriche recuperate”, il cui slogan era “occupare, resistere, produrre”. Fu molto dura. Nessuno di noi era un militante. Eravamo lavoratori imprigionati da meccanismi che venivano da fuori: il neoliberismo, la globalizzazione. Una politica selvaggia e crudele che i nostri governanti adottarono a scatola chiusa».

Il Bauen ha quasi 200 camere e 500 posti letto… Riuscite ad essere competitivi sul mercato?
«A Buenos Aires ci sono le grandi catene alberghiere che hanno un altro progetto e un altro target. Noi dobbiamo fare leva sulla nostra storia di impresa recuperata».

In Argentina, le imprese recuperate sono oltre 200. Possiamo parlare di  una storia di successo?
«A noi va bene. Ma non è così per tutte le imprese recuperate. Il compagno che deve produrre un bene deve pagare le materie prime e non è facile se non ottieni credito sul mercato capitalista.
Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa».
Nel Bauen oggi lavorano 150 persone, riunite in cornoperativa di lavoro. È una impresa senza padroni, come dite orgogliosamente. I rapporti tra voi lavoratori come sono?
    «Non tutto funziona. Quando ci sono le assemblee, ci sono compagni che dicono: “io sono padrone di questo”. Inoltre, molti, nella quotidianità, non fanno il loro lavoro e il collega deve lavorare anche per lui.
Perché accade questo? È un problema di cultura del lavoro che si è instillata in molti: secondo costoro, niente si poteva fare senza padrone. Invece, il Bauen è la dimostrazione che si può fare e che si può fare addirittura senza capitale, se c’è la volontà. In questi tempi (e non sto parlando di Argentina) non c’è altro modo per riuscire».

Le imprese recuperate sono nate all’epoca della crisi argentina. Con le due presidenze Kirchner, prima Nestor ed ora Cristina, le cose sono migliorate?
«Le imprese recuperate nascono dalla caduta di De la Rúa, quando il presidente scappò in elicottero. Il governo di Kirchner non è il governo di Menem o il governo della dittatura, ma la legge di espropriazione non è ancora stata approvata (ha passato una sola commissione su 3).  Però noi siamo ancora qui e abbiamo dimostrato di saper generare occupazione e capitale».

Oggi il Bauen è un punto di riferimento anche per molti altri lavoratori, giusto?
«Sì, cerchiamo di aiutare. Per esempio, quando arriva un compagno a dire:  “non ci stanno pagando”, “vogliono portare via i mezzi di produzione”…, noi gli suggeriamo di… “aggrapparsi ai macchinari”. Perché spesso occorre una soluzione immediata e concreta. Non la burocrazia dei politici o la complicità dei sindacalisti».

Quando si parla di occupazione e di espropri, si corre il rischio di incappare nei rigori della legge, che salvaguarda sempre il diritto di proprietà privata. È stato così anche nel vostro caso?
«Infatti, noi non siamo titolari dell’immobile: davanti alla legge siamo illegali. Per questo chiediamo allo stato che diventi proprietario di questo edificio e ci permetta di continuare con i nostri progetti. Abbiamo investito oltre un milione di dollari, ma nelle assemblee qualcuno sempre domanda: perché continuiamo ad investire in un luogo che non è nostro? Adesso, per esempio, stiamo ristrutturando la piscina e l’esterno che, essendo di vetro e metallo, si è ossidato».

Nel luglio del 2007, il tribunale vi ha dato torto. Come spiega questa sconfitta?
«La giudice commerciale Paula Hualde che ha deciso sul Bauen ha fatto esclusivo riferimento alla proprietà privata: secondo la legge, la Mercoteles è la proprietaria dell’immobile. Alla giudice non importa che gli Iurcovich, proprietari della Mercoteles, costruirono l’hotel con i soldi dello stato, con la corruzione, l’amoralità.
Ricordo che, quando eravamo seduti attorno a questo tavolo, lei parlava del diritto alla proprietà privata previsto dalla Costituzione argentina (articolo 17) e noi  rispondavamo con il diritto al lavoro previsto dalla stessa Costituzione (articolo 14)».
A pochi passi da qui, su Avenida Corrientes, c’è il Bauen Suite Hotel appartenente alla Mercoteles della famiglia Iurcovich. Quella del Bauen sembra una telenovela con la famiglia Iurcovich  sempre protagonista…
«Il maggiore creditore del Bauen è lo stato, che prestò il denaro alla famiglia Iurcovich per costruirlo.  Quel credito iniziale, ricevuto dal Banco Banade, di proprietà statale, non fu mai restituito.
Una storia di complicità, corruzione, negligenza. Basti pensare che sono passati 30 anni dalla nascita del Bauen, 30 anni di clandestinità, perché non è mai stato abilitato come hotel!».

Oggi tutto il mondo si dibatte in una crisi economica che sembra una crisi strutturale e non ciclica come nel passato, che pensa al riguardo?
«Penso che la nostra debba essere una lotta per un sistema diverso, distinto da quella capitalista, trasparente, umano. Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa.
Il capitalismo non aveva altro destino se non quello che sta capitando».

E gli Stati Uniti?
«Spero che il presidente Obama abbia la forza e possibilità per agire diversamente dal suo predecessore».

In Argentina, la disoccupazione e la sottoccupazione rimangono alte, ma durante la crisi del 2001 si respirava aria peggiore, no?
«Ma Tucuman e Salta stanno combattendo contro la fame. La fame! E non occorre andare mille chilometri a nord. Basta muoversi qui, in periferia. Ci sono famiglie che sopravvivono nella precarietà. Con i figli che non possono avere un’assistenza medica adeguata perché gli ospedali pubblici sono al collasso, senza farmaci, senza strumenti. E lo stesso dicasi per l’educazione».
Dunque, voi siete fortunati perché almeno avete un lavoro. A casa portate un salario adeguato?
«No, ovviamente non abbiamo un salario sufficiente, ma sono soldi generati dal nostro lavoro, senza padroni. Tutti riceviamo la stessa cifra: circa 400 dollari al mese. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo lavoratori e in quanto tali non possiamo sfruttare altri lavoratori. Dobbiamo salvaguardare la nostra origine. Altrimenti non ha ragione di esistere questa lotta.
Me entiendes?». 

Di Paolo Moiola

Storia dell’Hotel Bauen:
diritto di proprietà Vs diritto al lavoro

1978 – In occasione dei Campionati mondiali di calcio, viene costruito un hotel in Avenida Callao a poche centinaia di metri dal Congresso della Repubblica. L’Hotel assume come nome l’acronimo della impresa – B.A.U.E.N. che sta per «Buenos Aires Una Empresa Nacional» -, guidata da Marcelo Iurcovich, un impresario legato alla dittatura militare.

1997-2001 – L’hotel viene acquistato e gestito dal gruppo Solari, di origine cilena.

2001, 28 dicembre – Il Bauen viene chiuso per fallimento. Oltre 100 lavoratori rimangono senza lavoro.

2003, 21 marzo – Con l’aiuto del «Movimento nazionale delle imprese recuperate» – Movimiento nacional de empresas recuperadas, Mner -, un gruppo di lavoratori del Bauen occupa l’hotel ed inizia il suo recupero.

2004, giugno – Il Bauen viene riaperto al pubblico ed inizia l’attività.

2007, 20 luglio – La giudice commerciale Paula Hualde stabilisce che l’hotel deve essere sgombrato dalla cornoperativa di lavoratori che lo gestisce e deve passare alla società Mercoteles della famiglia Iurcovich.

2008-2009 – Il Bauen continua ad operare sotto la cornoperativa dei lavoratori, mentre la deputata Victoria Donda si è fatta promotrice di una Ley de expropiación (Legge di espropriazione), che affidi definitivamente l’hotel a chi lo ha salvato e dal 2003 lo gestisce.

Fonti: Diego Ruarte, responsabile Prensa trabajadores del Bauen; Elisabet Contrera, Negocio cinco estrellas, pubblicato in 2 puntate – 21 agosto e 22 agosto 2007 – sul quotidiano argentino Página 12.
Sito: www.bauenhotel.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Consumare o essere?

Neoliberismo e pensiero unico / Riflessioni

Il pensiero unico, propagandato dai media, ha magnificato il sistema neoliberista («la follia spacciata per virtù») ed affossato ogni alternativa. Un sistema ingiusto e distruttivo, fondato sul libero mercato
e sul consumo privato, oggi chiede aiuto allo stato. E lo ottiene…

Abbiamo incontrato un economista e un operaio, due persone molto diverse per estrazione sociale, professione e percorso esistenziale.
Quello con Domingo Cavallo (vedi articolo) è stato un incontro con una persona di vasta cultura e preparazione, un fedelissimo dell’economia neoliberista, cioè di un’economia in cui domina il mercato con le sue leggi della domanda e dell’offerta e in cui lo stato deve limitarsi a svolgere poche e definite funzioni, senza interferire con la libera iniziativa dell’individuo. Marcelo Ruarte (vedi articolo), l’altra persona incontrata, è l’esatto contrario: un lavoratore, che ha lottato contro questo sistema neoliberista che, prima della sua ribellione, già lo aveva destinato alla disoccupazione o comunque ad una esistenza ai margini.

Partendo dalle loro risposte e dalle loro esperienze personali abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione sul modello di economia e società che è in crisi profonda. E lo è ben da prima dello scoppio della bolla finanziaria, anche se fino a ieri la follia «era spacciata per virtù».
«Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere». Parafrasando questa lapidaria ma azzeccatissima definizione di Mark Twain, avremmo potuto dire che il libero mercato e i suoi corollari (dogmi di fede, sarebbe più corretto dire) sono perfetti finché c’è espansione economica, mentre non vanno più bene quando c’è recessione. Ma la perifrasi non va bene. Perché la globalizzazione neoliberista in realtà ha funzionato soltanto per una piccola parte dell’umanità, checché ne dicano i commentatori dei giornali mainstream. 
«Nel capitalismo – ha scritto Frei Betto nell’Agenda Latinoamericana (1) -, l’appropriazione individuale, familiare e/o corporativa della ricchezza è un diritto protetto dalla legge. E l’aritmetica e il buon senso insegnano che quando uno si appropria, molti sono espropriati. L’opulenza di pochi dipende dalla povertà di molti. La storia della ricchezza nel capitalismo è una sequenza di guerre, oppressioni colonialiste, saccheggi, furti, invasioni, annessioni, speculazioni».
La crisi globale attuale non è una normale fase del ciclo economico (boom, stagnazione, recessione, ripresa). Non è uno squilibrio passeggero, ma strutturale (2).
«Il fondamentalismo del credo mercantile – ha scritto Paolo Cacciari – porta all’integralismo: non solo ogni oggetto, ma anche ogni creatura della Terra e ogni singolo processo vitale deve avere un padrone, deve essere asservito al processo produttivo, altrimenti il processo produttivo si inceppa» (3).
«Il nostro modello di sviluppo – scrivono Armaroli e Balzani – è fondato sulla circolarità forzata produzione-consumo: si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. Queste devono essere rapidamente consumate per essere sostituite» (4).
Ora è tornato di moda lo stato, reclamato a gran voce. «Negli ultimi trent’anni – ha sintetizzato benissimo il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos (5) -, si è consolidato il consenso attorno all’idea che lo stato è il problema e il mercato la soluzione; che l’attività economica è tanto più efficiente quanto più priva di regole; che i mercati globali sono sempre preferibili al protezionismo; che nazionalizzare è anatema, mentre privatizzare e liberalizzare è la norma. Intrigante è la facilità con cui (…) si passa da un’idea ad un’altra totalmente opposta. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una di queste trasformazioni. All’improvviso lo stato è diventato la soluzione e il mercato il problema». In verità, una delle regole auree di questo capitalismo senza etica è sempre stata quella di «socializzare le perdite» (dopo aver incamerato i profitti – magari nascondendoli in qualche paradiso fiscale -, a danno dei lavoratori, dell’ambiente e della collettività).

Il dottor Domingo Felipe Cavallo e Marcelo Ruarte (e i lavoratori del Bauen) sono la personificazione di due modi opposti di guardare all’economia. Il primo vede nel sistema neoliberista l’unico dei modelli possibili; il secondo – come tanti – ha provato sulla propria pelle l’iniquità e la crudeltà dello stesso. Si è ribellato e ha tentato di percorrere nuove strade. Strade diverse che, dopo essere state a lungo demonizzate e ridicolizzate, l’attuale crisi globale potrebbe anche rivalutare.
«Viviamo in un sistema – scrive il Centro Nuovo modello di sviluppo -, che osanna la ricchezza come scopo di vita. A livello individuale le parole d’ordine sono carriera, eleganza, lusso. A livello di sistema produttivo l’imperativo è crescere, crescere, crescere. Contro ogni logica continuiamo a voler produrre di più e consumare di più. È la follia spacciata per virtù» (6).
L’attuale momento storico offre l’opportunità unica per ripensare il sistema e per operare una scelta di campo tra consumare o essere. Pur nella consapevolezza che il pensiero unico (secondo il quale «non c’è alternativa»), veicolato dalla maggior parte dei mass-media (7), è lungi dall’essere defunto.

Paolo Moiola


Note:
(1)  L’Agenda Latinoamericana 2009 di José Maria Vigil e Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile), è uscita con un titolo che fa storcere il naso (eufemismo) alle persone più tradizionaliste (o meno progressiste): Verso un socialismo nuovo. L’utopia continua.
(2)  Tonino Pea, A recessione estrema, rimedi radicali, settimanale Carta, 3 aprile 2009.
(3)   Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Edizioni Intra Moenia 2006, pagina 62.
(4)  Nicola Armaroli-Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli 2008, pagina 6.
(5)  Riportato in Adista n. 44 del 25 aprile 2009.
(6)  Centro Nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2008.
(7)  C’è qualcuno che non si è mai unito alla vasta platea dei cantori del pensiero unico neoliberista e che oggi potrebbe farsi vanto delle proprie posizioni. Due nomi su tutti, uno italiano e l’altro straniero, con i loro ultimi lavori: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi 2009; Ronald Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino 2009.

Paolo Moiola




La cultura scaccia la droga

Medellin: città traformata e riqualificata, a partire dalla cultura

Fino a una decina di anni fa, Medellín (quasi 2,5 milioni di abitanti) era capitale mondiale della violenza e del narcotraffico; oggi, grazie a una nuova amministrazione, è diventata un laboratorio di progetti sociali urbani e di sviluppo, con la partecipazione di tutti i cittadini, diventando un modello di convivenza… da esportare nel resto del paese e nel mondo.

Parques biblioteca: bastano queste due parole per riassumere la rivoluzione in atto a Medellín, seconda città della Colombia: da ex capitale del narcotraffico e della violenza a città dell’educazione per tutti e della democrazia partecipata. Due parole che esprimono un unico concetto: la nascita di influenti biblioteche, oggi frequentatissime, nei quartieri più poveri della città, dove molta gente non era mai andata a scuola e viveva fisicamente separata (da muri invisibili o dalla mancanza di collegamenti) dai luoghi cittadini dove si produceva cultura.
Non è una favola; e nemmeno un volo pindarico creato ad arte per giustificare un buon reportage giornalistico, sia chiaro: di sicuro ha dell’incredibile quello che accade da quasi un decennio a Medellín, ma è tutto vero. Pregasi cancellare dalla memoria, quindi, le immagini di stragi, assassinii mirati in mezzo alla strada, scorrerie di paramilitari legati a doppio filo ai cartelli della droga: tutto ciò oggi non avviene più.
Ecco il primo indizio per capire che la nuova Medellín ha nulla da spartire con quella che nel 1991 viveva 381 omicidi ogni 100 mila abitanti: 16 anni dopo, a fine 2007, quel numero è sceso a meno di un decimo, con 26 morti violente all’anno.
È morto Pablo Escobar, certo. Il «re del terrore», che nel 1989 era, secondo la celebre rivista Forbes, il settimo uomo più ricco del mondo, grazie al controllo dell’80% del mercato globale della cocaina, è stato ucciso nel 1993. Da allora, la gente ha ricominciato a uscire di casa, a smettere di avere paura.
Allora, la guerra veniva combattuta casa per casa; molte persone, soprattutto dei quartieri poveri, si erano unite a Escobar in cambio della sicurezza economica per la propria famiglia, come avviene per le mafie nostrane. Ora, come reazione opposta ad anni di violenza quotidiana, è scaturita, quasi dal nulla, un’enorme forza di volontà cittadina per interessarsi del «bienestar» comunitario, il benessere della collettività.
Un interesse che è convogliato nella creazione, nel 1999, di un movimento della società civile, poi diventato un partito politico inedito, perché totalmente indipendente dai «soliti» due schieramenti al potere: i liberali e i conservatori. Compromiso ciudadano è il suo nome, che in italiano suona come «Impegno di cittadinanza». L’anno dopo la nascita, il movimento-partito ottiene un buon risultato, ma non riesce a vincere; stravince nel 2004, quando il candidato sindaco, il professore di matematica Sergio Fajardo, ottiene il 46% delle preferenze degli ammessi al voto tra i 2,4 milioni di abitanti della metropoli colombiana, contro il 22% del rivale.
A dicembre 2007, alla tornata successiva, Compromiso ciudadano vince ancora, con il nuovo sindaco Alonso Salazar, fondatore del movimento assieme al suo predecessore.

CITTADINI AL POTERE
«Eravamo una ventina di persone speranzose in un mondo migliore possibile» esordisce Geovanny Celis, 50 anni, uno degli uomini di punta nel cambio radicale che il nuovo partito ha impresso nella mentalità della gente di Medellín. Un passato di educatore di strada a favore del reinserimento di prostitute, senzatetto, ragazzi di strada, Celis è stato assessore allo sviluppo economico e sociale fino all’inizio del 2009; ora ha lasciato il posto per appoggiare l’ex sindaco Fajardo alle prossime elezioni parlamentari. Nessuno meglio di lui, dati socio-economici alla mano, può quindi spiegare come sia avvenuto il Renacimiento, la stupefacente rinascita della sua città.
«Nessuna formula magica, piuttosto una coincidenza di due cambiamenti epocali: da una parte lo smantellamento della rete del narcotraffico, grazie al governo nazionale, che ha permesso l’estradizione degli elementi più pericolosi negli Stati Uniti e la riqualificazione dei paramilitari implicati nel giro di droga – spiega Celis -, dall’altra il risveglio della popolazione, che nel 1989 ha ottenuto l’elezione diretta del sindaco e da allora si è sempre più impegnata nella politica locale, per cambiare le cose».
Da qui si è sviluppato Compromiso ciudadano, che ha conquistato la fiducia dei cittadini con una potente arma bianca: la trasparenza assoluta. «Fin dall’inizio, ogni nostra riunione è stata pubblica, abbiamo cercato di riunire e far discutere fra loro più persone possibili, nelle sale pubbliche, nei centri parrocchiali – riprende Celis – e anche oggi è così, ogni comunità ha i suoi incontri aperti, e incide per davvero sulle politiche del comune. Basti pensare che il 26% delle spese comunali è deciso direttamente dalle stesse comunità, per legge».
Una scelta che funziona anche a livello economico, visto che, come recita uno dei principi dello stesso assessore uscente, «la plata no se puede perder»: vietato sprecare denaro. «Se sa di poter incidere sul proprio tenore di vita, la popolazione si rimbocca le maniche». Nel giro di soli quattro anni, dal 2003 al 2007, i negozi in città sono quasi triplicati, passando da 5.943 a 15.220. E la disoccupazione, dal 2001 a oggi, è passata dal 18,2% al 13,6%, una delle più basse di tutto il continente latinoamericano.
In tempi di recessione mondiale, l’esempio di Medellín è una luce che buca l’oscurità. «In tutto questo, la presenza dell’istituzione rimane comunque alta: il comune gestisce, con aziende municipalizzate, la rete idrica, il gas, le fogne, società che rendono molto, fatturando sei volte tanto il budget municipale» specifica Celis. Ovvero milioni di dollari da potere spendere subito.
«Ma quello che conta è il modo in cui vengono reinvestite queste cifre: il 30% degli utili, infatti, viene destinato a spese per due settori fondamentali: scuola e salute». Il motivo di questa scelta è legato a una linea d’indirizzo ben precisa. «Ci si è detti: la priorità è lo sviluppo umano, bisogna mettere ai primi livelli dell’agenda cittadina le necessità di chi è più bisognoso, includendo nella vita sociale gli indigenti, i disabili, oppure i molti rifugiati interni della guerra civile, spesso poveri e senza appoggi familiari allargati» argomenta Celis.
Detto fatto. Oggi Medellín è all’avanguardia nella parità di diritti sia nell’educazione pubblica che in campo sanitario; e per quanto riguarda l’accessibilità sta facendo passi da gigante, nonostante l’altitudine, attorno ai 1.500 metri, e la disposizione di interi quartieri sulle pendici di sette colline.

CULTURA PER TUTTI
Medellín, città natale di Botero (il famoso scultore colombiano, oggi residente in Italia), al quale è dedicata la piazza omonima in cui si ergono ben 23 delle sue «rotonde» sculture, è oggi un ottimo esempio di accesso culturale garantito a tutta la popolazione. Gran parte del merito è proprio di Compromiso ciudadano e del suo primo sindaco Sergio Fajardo, in prima linea nel cambiamento, che ha finito il suo mandato nel dicembre 2007, con il 90% del gradimento popolare: sue le decisioni, concordate con i cittadini, di convertire decine di edifici in disuso o poco valorizzati in nuove occasioni di coesione sociale, perché posti in luoghi strategici della città.
L’esempio più impressionante (anche a livello visivo) è l’enorme biblioteca pubblica España, inaugurata all’inizio del 2007 e collocata all’ingresso del quartiere Santo Domingo Savio, a lato di una delle più grandi baraccopoli della città. Una scelta non a caso, quella di avvicinare la cultura nei luoghi più poveri della città: ecco concretizzata l’inclusione sociale di cui parlava Celis.
Una mossa azzeccata: la España è frequentatissima, con un boom di iscrizioni ai vari percorsi educativi, soprattutto da parte dei residenti, per i quali la biblioteca è diventata un vero e proprio bene collettivo. Così come lo è diventata l’ultramodea teleferica inaugurata poco dopo la biblioteca, la linea K del Metrocable, che collega Santo Domingo Savio, posto su una collina, al centro della città. In pochissimi minuti.
La España è uno dei cinque Parques bibliotecas, così chiamati anche perché le biblioteche popolari sono circondate da una consistente area verde; le altre sono: Tomás Carrasquilla nel quartiere Quintana, Leon de Grieff nel Ladera, Presbitero José Luis Arroyave a San Javier, Belén nella zona sudoccidentale di Medellín. Tutte inaugurate tra il 2006 e il 2007 e, oggi, veri e propri melting pot di Medellín. «Vivo da queste parti da 54 anni. Prima qui era tutto violenza, desolazione e paura. Con l’arrivo della biblioteca, il panorama è mutato in modo radicale: ora guardiamo alla nostra zona con occhi di speranza» afferma José Alvarez, rappresentante di uno dei comitati cittadini di San Javier.
Non solo biblioteche: negli ultimi anni si sono rinnovati musei e parchi, come quelli di Pies Descalzos o Llera, ora pieni di giovani e famiglie; si sono costruiti ponti tra zone collinari confinanti, che prima non avevano alcun collegamento fra loro. Si sono aperte scuole popolari di musica: oggi se ne contano 97.
Per non parlare della spinta all’educazione scolastica: le iscrizioni sono aumentate del 10% in tre anni e, grazie anche alle borse di studio per migliaia di giovani provenienti da situazioni di povertà, l’accesso alla scuola secondaria è dell’87%, ovvero studiano quasi 9 ragazzi su 10. E con il programma «Pace e riconciliazione», dedicato ai giovani paramilitari sottratti al narcotraffico, almeno 4 mila persone hanno potuto frequentare corsi di formazione, la metà dei quali ha oggi un impiego.
All’impegno comunale, inoltre, si affianca in piena armonia quello della Pastorale sociale della Caritas diocesana, soprattutto promuovendo azioni a favore delle famiglie di desplazados (rifugiati interni), i cui figli spesso hanno difficoltà a inserirsi a scuola, e stimolando la responsabilità sociale del settore privato, anche attraverso incontri pubblici, l’ultimo dei quali si è tenuto il 12 maggio 2009.

IMPEGNO PER IL SOCIALE
Il programma di sviluppo di Compromiso ciudadano non ha tralasciato l’economia locale, destinandole incentivi pubblici per milioni di pesos con il programma Cultura E («E» sta per Emprendimiento, impresa). Grazie alla fine degli anni di violenza, molti imprenditori, anche stranieri, hanno ricominciato a investire in città, soprattutto nel settore del tessile e della tecnologia, e si prevede, da qui al 2020, la creazione di 7 mila nuove imprese e 700 mila posti di lavoro.
L’amministrazione del movimento-partito di cittadini, inoltre, ha un occhio di riguardo speciale per tutto quello che riguarda il bienestar social (benessere sociale), soprattutto di chi è in difficoltà: ecco allora nascere, nel 2007, il programma Medellín solidaria, che mira a ottenere l’uscita dalla povertà di 45 mila famiglie tra le più indigenti della città, attraverso servizi agli anziani, giovani disagiati, appoggio psicologico, educativo, anche economico.
C’è grande attenzione alle persone diversamente abili, «che sono almeno 117 mila, il 5,1% della popolazione, molti dei quali lo sono diventati durante la guerra civile» spiega Marta Sierra, 44 anni, oggi viceassessore ai servizi sociali, ma da 18 anni impegnata come tecnico comunale nel settore sociale. «Dal 2001 ogni edificio nuovo deve essere accessibile a tutti. Ma non basta – continua Sierra -. Nel 2007 abbiamo avviato un progetto decennale per garantire loro la parità di diritti; entro il 2010 almeno 3.500 persone disabili saranno inserite nel mondo del lavoro; ma ancora più importante è il fatto che delle loro esigenze se ne parli in incontri pubblici, come succede di questi tempi, per la prima volta in assoluto».
Il Comune, in questo senso, riceve l’aiuto di un partner italiano: il Consorzio Sir («Solidarietà in rete»), che collabora con Medellín dal 2005 e ha avviato, in agosto 2008, la creazione di un sistema di servizi integrato, che opera per la promozione delle persone disabili (almeno 810 i beneficiari diretti, più le loro famiglie) attraverso progetti educativi, di riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo.
Il Consorzio, che ha base a Milano, offre inoltre sostegno tecnico alla cooperazione sociale cittadina, in particolare alla Promotora de empresarismo social, l’agenzia di sviluppo locale per l’impresa sociale, nata alla fine del 2007 e diretta da una giovane energica colombiana, la 30enne Catalina Pacheco: «A Medellín, il mondo associativo e cornoperativistico è in fermento, da progetti assistenzialistici si è passati in pochi anni a un “fare impresa” che sia sostenibile a livello umano» spiega la direttrice della Promotora.
In città sono concentrati almeno 1.500 enti del terzo settore, il 25% di tutta la Colombia. «La nostra esperienza sta facendo scuola, ci chiedono consigli da molte altre regioni del paese». A ben vedere, è tutto il «modello Medellín», che dovrebbe fare scuola ad altre metropoli mondiali.
Nella città in cui, nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano aveva gettato le basi di una nuova chiesa sociale, si rivive oggi, dal basso, uno spirito di cambiamento concreto. In poco più di un decennio, a Medellín, una violenza terrificante ha lasciato il passo a una sete di cultura senza precedenti. Alla base, una scommessa di un gruppo di cittadini, vinta in partenza: quella dell’educazione alla convivenza, alla parità di diritti. Per tutti. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Danza dei morti e dei vivi

La «grande isola rossa»: religione tradizionale e cristianesimo (seconda parte)

Dopo un secolo e mezzo di evangelizzazione, metà della popolazione malgascia è cristiana e un quarto appartiene alla chiesa cattolica, la cui vitalità
è caratterizzata dall’abbondanza di vocazioni e si esprime nell’impegno nel promuovere lo sviluppo fino agli angoli più reconditi del paese, diventando così punto di riferimento per la soluzione di numerosi problemi che ancora affliggono la gente.

M età circa della popolazione del Madagascar ha credenze e pratica riti tradizionali, mentre l’altra metà è di religione cristiana, suddivisa più o meno equamente tra cattolici (25 per cento circa) e protestanti (20 per cento); soltanto una piccola minoranza è musulmana. In questi ultimi anni sono però diventati popolari i predicatori carismatici, al punto che un libro, edito nel 2007 e scritto da Adolphe Rahamefy, che insegna all’Università di Antananarivo, è intitolato: Sette e crisi religiose in Madagascar.
religione tradizionale
Forme e credenze della religione tradizionale variano a secondo delle regioni in cui è diviso il Madagascar. Cielo, terra e acqua sono sacri. Così pure, un po’ ovunque, esistono luoghi sacri: laghi, grotte, montagne, foreste, alberi. Su di essi gravano interdetti e tabù (fady). Sono luoghi di preghiera e di sacrifici. Vi si depositano offerte e fiori.
Importanti sono i punti cardinali della terra. La costruzione di una casa deve rispettae l’orientamento. Sono essi che preservano la casa da tabù e la caricano di senso. L’est, dove sorge il sole, è una direzione particolarmente sacra, quella del culto degli antenati; il nord è invece un luogo che esprime e indica onore e stima. Lo spazio viene così ritualizzato. L’est è opposto all’ovest nel senso di puro e impuro, sacro e profano; il nord al sud, ossia il re contrapposto al popolo, il nobile al plebeo.
Non è però facile definire la religiosità dei malgasci, fondata su tutta una serie di riti e tabù, come per esempio il sacrificio dello zebù, i giorni fasti e nefasti, la divinazione, la guarigione dalle malattie, i riti propiziatori, la cerimonia del «bagno delle reliquie regali», quelle per la riproduzione ordinata del ciclo annuale, i riti della circoncisione dei bambini con cui si consacra la loro appartenenza sociale alla famiglia patea. Tutti questi riti hanno la funzione di mettere l’uomo in comunione con la divinità.
Gli antenati, dotati di poteri magici, ne sono per eccellenza gli intermediari. Studi recenti hanno anche messo in evidenza che un dio di nome Zanahary, creatore del cielo e della terra, è superiore a tutte le divinità e a tutti gli idoli. A lui, invisibile, i malgasci si rivolgono attraverso la mediazione degli antenati e di divinità secondarie.
La base della religione e della cultura malgascia consiste però principalmente nel rispetto e nella venerazione degli antenati, fondati su un complesso di riti di sepoltura. Il più noto e costoso di questi riti è il famadihana (letteralmente «rivoltare le ossa»), una cerimonia di esumazione e di nuova sepoltura del cadavere, che normalmente si ripete ogni sette anni e ha lo scopo di riunire tutta la grande famiglia, rinnovare i legami familiari e quelli con gli antenati e, non ultimo anche se spesso inconscio, di esorcizzare la paura della morte.
Le salme vengono estratte dalla tomba, ripulite e avvolte in tappeti di paglia e poi fatte «ballare» sopra la folla in festa. L’orchestrina suona un motivo allegro. I tavoli sono carichi di dolci, di carne di zebù o di porco ben ingrassato, di rhum estratto dalla canna da zucchero e di ciotole di riso fumante. Le salme vengono poi avvolte con fasce di colore bianco, il colore funebre tradizionale, e quindi cosparse di profumo e segnate con i loro nomi.
Segue un momento di silenzio, i cui membri della famiglia tengono in grembo i corpi dei defunti, comunicando con loro senza pronunciare parola e piangendo lacrime di felicità in un’atmosfera carica di emozione. Infine, dopo che i corpi sono fatti nuovamente «ballare» intorno alla tomba di famiglia, la pietra tombale viene murata e chiusa per altri sette anni.
La famadihana o rito di esumazione dei defunti diventa così la festa dei morti e dei vivi.
l’evangelizzazione
Il cristianesimo penetrò nella grande isola rossa, a parte qualche sporadico incontro con i portoghesi, soltanto nei primi decenni del secolo xix. Nel 1817 re Radama I cominciò a intrattenere relazioni diplomatiche con gli inglesi. L’influenza britannica durò fino a gran parte del secolo. Con gli inglesi arrivarono i primi missionari protestanti, gallesi e norvegesi, e la London Missionary Society. Molti di essi morirono di febbre poco dopo il loro arrivo. I sopravvissuti non si diedero per vinti e in breve tempo convertirono al protestantesimo la corte della dinastia Merina.
Già nel 1838 venne stampata la prima Bibbia in lingua malgascia e nel 1869 la regina Ranavalona II, convertita al protestantesimo, fece costruire una chiesa all’interno del rova di Antananarivo.
Il re Radama I morì a soli 36 anni nel 1828. Gli successe la vedova Ranavalona I. La nuova regina, desiderosa di proteggere le tradizioni e la cultura malgasce e contraria alla presenza degli europei, dichiarò illegale il cristianesimo e perseguitò tutti coloro che non ne rinnegavano la fede. Molti furono condannati a morte o subirono vessazioni e tormenti atroci, che solo una regina come Ranavalona I, incline alla violenza, poté escogitare. Alla sua morte il figlio Radama II abbandonò la politica adottata dalla madre e ripristinò la libertà religiosa. Da allora il cristianesimo divenne la religione predominante del Madagascar e l’attività missionaria, protestante e cattolica, si estese a tutta l’isola.
I primi missionari cattolici furono i Lazzaristi, la Congregazione della Missione fondata in Francia da san Vincenzo de’ Paoli. Il 4 dicembre 1648 essi sbarcarono a Fort-Duphin, nel sud dell’isola, inviati dal loro stesso fondatore. Ma la vera diffusione della religione cattolica in Madagascar cominciò intorno al 1841, quando il prefetto apostolico monsignor Dalmond chiamò i gesuiti dalla vicina isola di Réunion a evangelizzare l’isola.
Ad Antananarivo, la capitale, il cattolicesimo si diffuse a partire dal 1861 dopo la morte della regina Ranavalona I. I gesuiti e le suore di San Giuseppe di Cluny vi fondarono le prime scuole e battezzarono parecchi malgasci. Poco dopo, nel 1872, la città divenne sede della prefettura apostolica del Madagascar, poi vicariato durante la prima guerra franco-malgascia (1883-1886) e arcidiocesi nel 1955.
Anche la parte settentrionale del paese fu eretta in prefettura apostolica nel 1848 e in vicariato nel 1898. In questo caso i primi missionari furono i Preti dello Spirito Santo e le suore del Sacro Cuore di Maria, ai quali in seguito si aggiunsero i Redentoristi e i Montfortani.
È questo che abbiamo descritto il normale evolversi dell’organizzazione ecclesiastica cattolica nei territori di missione.
la realtà ecclesiale oggi
Attualmente il Madagascar conta ben 21 diocesi, delle quali quattro arcidiocesi nelle regioni ecclesiastiche in cui è suddiviso: il Centro, il Nord, il Sud-Est e il Sud-Ovest. I vescovi sono tutti malgasci, a eccezione di cinque: un italiano di Gallico Superiore (Reggio Calabria – Bova), un altro italiano di Orta Nova (Foggia), uno spagnolo di San Llorente (Valladolid), uno di origine portoghese e un polacco. Malgascio è pressoché anche tutto il clero.
Le congregazioni religiose maschili, alcune delle quali di origine locale e una anche trappista di stretta osservanza claustrale, sono numerose. Se ne enumerano 33, alcune giunte in Madagascar nei primi tempi dell’evangelizzazione dell’isola, altre più recentemente, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso.
La presenza dei gesuiti e dei salesiani con la loro organizzazione scolastica e pastorale è predominante. Gestiscono collegi, licei, centri di spiritualità e di formazione professionale e rurale, dispensari medici e radio locali. I loro scolasticati, dove ci si prepara per diventare religiosi, sono pieni di giovani malgasci. Molti di loro studiano in Europa, nell’America del Nord e in Africa.
Ancora più numerose sono le congregazioni religiose femminili, venute in Madagascar già nei primi anni dell’evangelizzazione dell’isola e soprattutto alla fine del secolo scorso. Il numero è per certi versi impressionante. Se ne contano ben 88, elencate nell’Annuario della chiesa cattolica malgascia e cornordinate dal Centro di formazione della Conferenza delle superiori maggiori. Poche sono di origine malgascia, la maggior parte di esse hanno le loro radici in Francia, in Italia, in Svizzera e Belgio.
Queste congregazioni sono certo venute in Madagascar per dare continuità alla grande tradizione missionaria dei secoli xix e xx, ma anche, non lo si può nascondere, con l’intento di ridare nuova vita alle loro istituzioni in crisi di vocazioni mediante l’inserimento di giovani religiose malgasce.
Buona parte di queste congregazioni, nate in Europa, hanno scoperto il carisma missionario proprio dinanzi al grave problema delle vocazioni in continuo e vertiginoso calo; lo hanno scoperto quasi «improvvisamente», anche se dietro impulso del Concilio Vaticano ii e di altri documenti che definiscono la chiesa «tutta missionaria». Si deve però riconoscere che da questo fenomeno, per alcuni versi pieno di incognite, non ne vanno immuni neppure le congregazioni maschili, anch’esse in crisi di vocazioni.
presenza provvidenziale
La presenza delle congregazioni femminili in Madagascar è stata provvidenziale non solo per il consolidamento e il progresso del cristianesimo nell’isola, ma anche per lo sviluppo economico e sociale della nazione. La maggior parte di esse partecipa attivamente allo sviluppo del paese con una nutrita e preziosa schiera di scuole di vario grado, di ospedali e dispensari, di case per anziani, e con una straordinaria e commovente dedizione ai poveri e agli ammalati. Le suore di origine malgascia si contano ormai a centinaia e dirigono con molta intelligenza e intraprendenza scuole matee, primarie e secondarie, dispensari, lebbrosari, orfanotrofi, librerie, case per studenti, centri di promozione della donna e di sviluppo rurale. Molto apprezzato è il loro impegno nella catechesi e nell’animazione pastorale non solo nelle parrocchie, ma anche nelle prigioni, negli ospedali e in ambienti rurali lontani e dimenticati.
Esistono anche quattro monasteri di carmelitane scalze e alcuni di trappiste e clarisse, che si dedicano esclusivamente alla preghiera. Altre congregazioni hanno religiose malgasce in terra di missione, in Africa e in Asia; altre ancora sostituiscono le suore anziane o malate in Francia o in Italia, impegnandosi nelle attività assistenziali e nell’apostolato parrocchiale.
la danza di Noè
Vi sono anche comunità di suore che dimostrano una vitalità e un impegno non comuni. Le suore Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Lecce nel 1929 e giunte in Madagascar nel 1988, hanno per esempio tre comunità: una nell’isola di Nosy-Be al nord, un’altra a Mandrosao-Ivato presso la capitale e un’altra ancora ad Andasibé verso sud.
In appena 20 anni le suore di origine malgascia hanno raggiunto il numero di circa 85 religiose, di cui una cinquantina si trovano in Italia, impegnate in case di riposo, asili e pensionati; solo 33 sono rimaste in Madagascar, dove dirigono sei scuole matee, quattro elementari e due medie superiori. Le novizie sono attualmente 10 e le postulanti 22, mentre le suore di origine italiana sono soltanto 17, quasi tutte anziane e residenti in Italia.
Si tratta perciò di una congregazione in rapida espansione, grazie alle religiose provenienti dal Madagascar, ma anche povera di mezzi. Hanno quindi bisogno di assistenza economica e benefattori, in questo provvidenzialmente aiutate da un missionario italiano, che si prende cura di loro, delle loro attività, delle loro scuole e delle loro abitazioni in alcuni casi fatiscenti.
Non è più giovane questo missionario. È un brianzolo Doc e si chiama padre Noè Cereda, l’unico missionario della Consolata in Madagascar. Ha già compiuto 72 anni di età e, rendendosi conto delle sue condizioni di salute, non ha paura di scrivere: «Ogni giorno mi dico: faresti meglio a rallentare, non danzare così veloce. Il tempo è breve. La musica non durerà».
Malgrado tutto, ha ancora in mente numerosi progetti da attuare. Vorrebbe (e ce la farà) aprire proprio al più presto una scuola tecnica di falegnameria e meccanica, in modo da insegnare ai falegnami a fare letti, sedie, tavoli e armadietti, e ai fabbri porte, griglie e strumenti per lavori agricoli. Alla fine dei corsi assegnerà a ogni giovane malgascio una cassetta con i principali strumenti di lavoro per mettersi in proprio.
La scuola copre una superficie di 700 metri quadrati. A causa dell’inflazione i prezzi dei materiali in un anno sono raddoppiati.
Ma non è finita! I suoi piani prevedono di terminare ad Andasibé una scuola e di costruire un serbatornio per l’acqua alto 12 metri con una capienza di 10 metri cubi di acqua, di costruire altre tre aule nella scuola di Andranoro, uno dei quartieri della capitale, e di sollevare di un piano l’attuale costruzione. A tutto questo si aggiunga quello che già funziona: tre foi a legna che ogni giorno producono 3 mila panini per i bambini delle scuole e un pasto caldo al giorno per gli scolari di Andasibé.
Si è inoltre in attesa della consegna di cento biciclette da distribuire agli scolari meritevoli. Come ha scritto, ringraziando in occasione della pasqua tutti coloro che lo aiutano in Italia e nel Principato di Monaco, l’infaticabile e coraggioso missionario è convinto che «semina, semina, ogni chicco arricchirà un angolo della terra».

I ntanto tutti i malgasci, anche i non cristiani, attendono con trepidazione e orgoglio l’arrivo in Madagascar di papa Benedetto XVI (o almeno lo desiderano), per proclamare santa Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), una malgascia di famiglia reale, nipote del primo ministro che sposò la regina Ranavalona II.
Proclamata beata da Giovanni Paolo II il 30 aprile 1989, è stata definita da papa Benedetto XVI «una vera missionaria» e «un modello per i fedeli laici di oggi». La beata Vittoria, la cui famiglia era protestante, si fece cattolica nel 1863 all’età di quindici anni. Essa è senza dubbio un segno e un’attestazione della vitalità della chiesa cattolica in Madagascar e un onore per tutti i malgasci. 

di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi