Il sistema è sbagliato: meno mercato, più solidarietà

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 2 / Incontro con i lavoratori dell’Hotel Bauen

Negli anni Novanta e successivamente allo scoppio della crisi, sotto lo sguardo del mondo finanziario internazionale (prima vestale, poi arpia), centinaia
di fabbriche argentine chiusero i battenti, buttando sulla strada migliaia
di persone con le rispettive famiglie.  Molte non si ripresero più, altre cercarono occupazioni diverse, altre ancora attesero tempi migliori. Una importante minoranza si ribellò al sistema e rimise in attività le imprese abbandonate dai proprietari. Nacque allora il fenomeno delle «fabbriche recuperate».
L’Hotel Bauen ed i suoi lavoratori sono protagonisti di una di quelle storie…

Buenos Aires. A poche centinaia di metri dal Congresso, affacciato sulla centrale Avenida Callao, sorge un palazzo di venti piani, tutto vetro e metallo verde scuro.  Quel palazzo ospita l’Hotel Bauen.
Entriamo in una hall spaziosa, elegante senza essere sfarzosa. Sulla parete che separa il bancone della reception dalla caffetteria è appesa una targa, molto sobria, che ricorda una tappa fondamentale nella storia recente di questo hotel. Leggiamo: «Empresa recuperada por sus trabajadores, 20 de marzo de 2003». Insomma, l’Hotel Bauen è un’impresa chiusa dai proprietari e riaperta dai lavoratori licenziati. Un avvenimento inconsueto nel mondo, ma abbastanza diffuso nell’Argentina post-2001.
Sotto la targa storica sta un quadro che raccoglie poesie di Juan Gelman, poeta e giornalista nato a Buenos Aires. Le liriche di Gelman sono una scelta azzeccata, non soltanto per la loro intrinseca bellezza, ma anche perché l’autore è stato una vittima della dittatura militare.
L’Hotel Bauen fu costruito sotto gli auspici di quel regime. Correva l’anno 1978 e la giunta militare argentina aveva organizzato i Campionati mondiali di calcio, come vetrina per legittimarsi agli occhi (colpevolmente distratti) del mondo. Un impresario vicino ai militari, Marcelo Iurcovich, approfittò delle proprie amicizie politiche e del momento favorevole per ottenere un prestito (mai più restituito) da una banca statale (Banco nacional de desarrollo, Banade) con il quale costruire l’hotel. Questo assunse il nome di Bauen, dall’acronimo della impresa del signor Iurcovich (Buenos Aires Una Empresa Nacional, Bauen). 
Venduto ad un gruppo cileno, a fine dicembre 2001, nel pieno della crisi economica argentina, il Bauen chiuse per fallimento. Ma qualcuno degli oltre 100 lavoratori gettati sulla strada non si arrese…

Come si lavora senza…
padroni
Marcelo Ruarte, un uomo distinto e con la barba grigia tenuta a pizzetto, è uno di loro. Ci accoglie in una stanza luminosa tappezzata di manifesti. Alcuni ricordano momenti della storia del Bauen e di altre imprese recuperate; altri ritraggono personaggi del presente (Hugo Chávez, Evo Morales, Fidel Castro) e del passato (Che Guevara).

Marcelo, all’entrata abbiamo letto una targa che celebra la nascita del nuovo Bauen. Ma l’inizio è stato un altro…
«Il Bauen fu propiziato dalla dittatura durante i mondiali di calcio. La manifestazione sportiva faceva parte di una strategia dei militari per far dimenticare la repressione e la tortura».

La storia di questo hotel ha avuto parecchi momenti drammatici…
«Quando il 28 dicembre del 2001 l’hotel chiuse: erano 21 anni che lavoravo nel Bauen. Il 21 marzo del 2003 occupammo l’hotel con l’aiuto del “Movimento delle fabbriche recuperate”, il cui slogan era “occupare, resistere, produrre”. Fu molto dura. Nessuno di noi era un militante. Eravamo lavoratori imprigionati da meccanismi che venivano da fuori: il neoliberismo, la globalizzazione. Una politica selvaggia e crudele che i nostri governanti adottarono a scatola chiusa».

Il Bauen ha quasi 200 camere e 500 posti letto… Riuscite ad essere competitivi sul mercato?
«A Buenos Aires ci sono le grandi catene alberghiere che hanno un altro progetto e un altro target. Noi dobbiamo fare leva sulla nostra storia di impresa recuperata».

In Argentina, le imprese recuperate sono oltre 200. Possiamo parlare di  una storia di successo?
«A noi va bene. Ma non è così per tutte le imprese recuperate. Il compagno che deve produrre un bene deve pagare le materie prime e non è facile se non ottieni credito sul mercato capitalista.
Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa».
Nel Bauen oggi lavorano 150 persone, riunite in cornoperativa di lavoro. È una impresa senza padroni, come dite orgogliosamente. I rapporti tra voi lavoratori come sono?
    «Non tutto funziona. Quando ci sono le assemblee, ci sono compagni che dicono: “io sono padrone di questo”. Inoltre, molti, nella quotidianità, non fanno il loro lavoro e il collega deve lavorare anche per lui.
Perché accade questo? È un problema di cultura del lavoro che si è instillata in molti: secondo costoro, niente si poteva fare senza padrone. Invece, il Bauen è la dimostrazione che si può fare e che si può fare addirittura senza capitale, se c’è la volontà. In questi tempi (e non sto parlando di Argentina) non c’è altro modo per riuscire».

Le imprese recuperate sono nate all’epoca della crisi argentina. Con le due presidenze Kirchner, prima Nestor ed ora Cristina, le cose sono migliorate?
«Le imprese recuperate nascono dalla caduta di De la Rúa, quando il presidente scappò in elicottero. Il governo di Kirchner non è il governo di Menem o il governo della dittatura, ma la legge di espropriazione non è ancora stata approvata (ha passato una sola commissione su 3).  Però noi siamo ancora qui e abbiamo dimostrato di saper generare occupazione e capitale».

Oggi il Bauen è un punto di riferimento anche per molti altri lavoratori, giusto?
«Sì, cerchiamo di aiutare. Per esempio, quando arriva un compagno a dire:  “non ci stanno pagando”, “vogliono portare via i mezzi di produzione”…, noi gli suggeriamo di… “aggrapparsi ai macchinari”. Perché spesso occorre una soluzione immediata e concreta. Non la burocrazia dei politici o la complicità dei sindacalisti».

Quando si parla di occupazione e di espropri, si corre il rischio di incappare nei rigori della legge, che salvaguarda sempre il diritto di proprietà privata. È stato così anche nel vostro caso?
«Infatti, noi non siamo titolari dell’immobile: davanti alla legge siamo illegali. Per questo chiediamo allo stato che diventi proprietario di questo edificio e ci permetta di continuare con i nostri progetti. Abbiamo investito oltre un milione di dollari, ma nelle assemblee qualcuno sempre domanda: perché continuiamo ad investire in un luogo che non è nostro? Adesso, per esempio, stiamo ristrutturando la piscina e l’esterno che, essendo di vetro e metallo, si è ossidato».

Nel luglio del 2007, il tribunale vi ha dato torto. Come spiega questa sconfitta?
«La giudice commerciale Paula Hualde che ha deciso sul Bauen ha fatto esclusivo riferimento alla proprietà privata: secondo la legge, la Mercoteles è la proprietaria dell’immobile. Alla giudice non importa che gli Iurcovich, proprietari della Mercoteles, costruirono l’hotel con i soldi dello stato, con la corruzione, l’amoralità.
Ricordo che, quando eravamo seduti attorno a questo tavolo, lei parlava del diritto alla proprietà privata previsto dalla Costituzione argentina (articolo 17) e noi  rispondavamo con il diritto al lavoro previsto dalla stessa Costituzione (articolo 14)».
A pochi passi da qui, su Avenida Corrientes, c’è il Bauen Suite Hotel appartenente alla Mercoteles della famiglia Iurcovich. Quella del Bauen sembra una telenovela con la famiglia Iurcovich  sempre protagonista…
«Il maggiore creditore del Bauen è lo stato, che prestò il denaro alla famiglia Iurcovich per costruirlo.  Quel credito iniziale, ricevuto dal Banco Banade, di proprietà statale, non fu mai restituito.
Una storia di complicità, corruzione, negligenza. Basti pensare che sono passati 30 anni dalla nascita del Bauen, 30 anni di clandestinità, perché non è mai stato abilitato come hotel!».

Oggi tutto il mondo si dibatte in una crisi economica che sembra una crisi strutturale e non ciclica come nel passato, che pensa al riguardo?
«Penso che la nostra debba essere una lotta per un sistema diverso, distinto da quella capitalista, trasparente, umano. Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa.
Il capitalismo non aveva altro destino se non quello che sta capitando».

E gli Stati Uniti?
«Spero che il presidente Obama abbia la forza e possibilità per agire diversamente dal suo predecessore».

In Argentina, la disoccupazione e la sottoccupazione rimangono alte, ma durante la crisi del 2001 si respirava aria peggiore, no?
«Ma Tucuman e Salta stanno combattendo contro la fame. La fame! E non occorre andare mille chilometri a nord. Basta muoversi qui, in periferia. Ci sono famiglie che sopravvivono nella precarietà. Con i figli che non possono avere un’assistenza medica adeguata perché gli ospedali pubblici sono al collasso, senza farmaci, senza strumenti. E lo stesso dicasi per l’educazione».
Dunque, voi siete fortunati perché almeno avete un lavoro. A casa portate un salario adeguato?
«No, ovviamente non abbiamo un salario sufficiente, ma sono soldi generati dal nostro lavoro, senza padroni. Tutti riceviamo la stessa cifra: circa 400 dollari al mese. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo lavoratori e in quanto tali non possiamo sfruttare altri lavoratori. Dobbiamo salvaguardare la nostra origine. Altrimenti non ha ragione di esistere questa lotta.
Me entiendes?». 

Di Paolo Moiola

Storia dell’Hotel Bauen:
diritto di proprietà Vs diritto al lavoro

1978 – In occasione dei Campionati mondiali di calcio, viene costruito un hotel in Avenida Callao a poche centinaia di metri dal Congresso della Repubblica. L’Hotel assume come nome l’acronimo della impresa – B.A.U.E.N. che sta per «Buenos Aires Una Empresa Nacional» -, guidata da Marcelo Iurcovich, un impresario legato alla dittatura militare.

1997-2001 – L’hotel viene acquistato e gestito dal gruppo Solari, di origine cilena.

2001, 28 dicembre – Il Bauen viene chiuso per fallimento. Oltre 100 lavoratori rimangono senza lavoro.

2003, 21 marzo – Con l’aiuto del «Movimento nazionale delle imprese recuperate» – Movimiento nacional de empresas recuperadas, Mner -, un gruppo di lavoratori del Bauen occupa l’hotel ed inizia il suo recupero.

2004, giugno – Il Bauen viene riaperto al pubblico ed inizia l’attività.

2007, 20 luglio – La giudice commerciale Paula Hualde stabilisce che l’hotel deve essere sgombrato dalla cornoperativa di lavoratori che lo gestisce e deve passare alla società Mercoteles della famiglia Iurcovich.

2008-2009 – Il Bauen continua ad operare sotto la cornoperativa dei lavoratori, mentre la deputata Victoria Donda si è fatta promotrice di una Ley de expropiación (Legge di espropriazione), che affidi definitivamente l’hotel a chi lo ha salvato e dal 2003 lo gestisce.

Fonti: Diego Ruarte, responsabile Prensa trabajadores del Bauen; Elisabet Contrera, Negocio cinco estrellas, pubblicato in 2 puntate – 21 agosto e 22 agosto 2007 – sul quotidiano argentino Página 12.
Sito: www.bauenhotel.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Consumare o essere?

Neoliberismo e pensiero unico / Riflessioni

Il pensiero unico, propagandato dai media, ha magnificato il sistema neoliberista («la follia spacciata per virtù») ed affossato ogni alternativa. Un sistema ingiusto e distruttivo, fondato sul libero mercato
e sul consumo privato, oggi chiede aiuto allo stato. E lo ottiene…

Abbiamo incontrato un economista e un operaio, due persone molto diverse per estrazione sociale, professione e percorso esistenziale.
Quello con Domingo Cavallo (vedi articolo) è stato un incontro con una persona di vasta cultura e preparazione, un fedelissimo dell’economia neoliberista, cioè di un’economia in cui domina il mercato con le sue leggi della domanda e dell’offerta e in cui lo stato deve limitarsi a svolgere poche e definite funzioni, senza interferire con la libera iniziativa dell’individuo. Marcelo Ruarte (vedi articolo), l’altra persona incontrata, è l’esatto contrario: un lavoratore, che ha lottato contro questo sistema neoliberista che, prima della sua ribellione, già lo aveva destinato alla disoccupazione o comunque ad una esistenza ai margini.

Partendo dalle loro risposte e dalle loro esperienze personali abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione sul modello di economia e società che è in crisi profonda. E lo è ben da prima dello scoppio della bolla finanziaria, anche se fino a ieri la follia «era spacciata per virtù».
«Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere». Parafrasando questa lapidaria ma azzeccatissima definizione di Mark Twain, avremmo potuto dire che il libero mercato e i suoi corollari (dogmi di fede, sarebbe più corretto dire) sono perfetti finché c’è espansione economica, mentre non vanno più bene quando c’è recessione. Ma la perifrasi non va bene. Perché la globalizzazione neoliberista in realtà ha funzionato soltanto per una piccola parte dell’umanità, checché ne dicano i commentatori dei giornali mainstream. 
«Nel capitalismo – ha scritto Frei Betto nell’Agenda Latinoamericana (1) -, l’appropriazione individuale, familiare e/o corporativa della ricchezza è un diritto protetto dalla legge. E l’aritmetica e il buon senso insegnano che quando uno si appropria, molti sono espropriati. L’opulenza di pochi dipende dalla povertà di molti. La storia della ricchezza nel capitalismo è una sequenza di guerre, oppressioni colonialiste, saccheggi, furti, invasioni, annessioni, speculazioni».
La crisi globale attuale non è una normale fase del ciclo economico (boom, stagnazione, recessione, ripresa). Non è uno squilibrio passeggero, ma strutturale (2).
«Il fondamentalismo del credo mercantile – ha scritto Paolo Cacciari – porta all’integralismo: non solo ogni oggetto, ma anche ogni creatura della Terra e ogni singolo processo vitale deve avere un padrone, deve essere asservito al processo produttivo, altrimenti il processo produttivo si inceppa» (3).
«Il nostro modello di sviluppo – scrivono Armaroli e Balzani – è fondato sulla circolarità forzata produzione-consumo: si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. Queste devono essere rapidamente consumate per essere sostituite» (4).
Ora è tornato di moda lo stato, reclamato a gran voce. «Negli ultimi trent’anni – ha sintetizzato benissimo il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos (5) -, si è consolidato il consenso attorno all’idea che lo stato è il problema e il mercato la soluzione; che l’attività economica è tanto più efficiente quanto più priva di regole; che i mercati globali sono sempre preferibili al protezionismo; che nazionalizzare è anatema, mentre privatizzare e liberalizzare è la norma. Intrigante è la facilità con cui (…) si passa da un’idea ad un’altra totalmente opposta. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una di queste trasformazioni. All’improvviso lo stato è diventato la soluzione e il mercato il problema». In verità, una delle regole auree di questo capitalismo senza etica è sempre stata quella di «socializzare le perdite» (dopo aver incamerato i profitti – magari nascondendoli in qualche paradiso fiscale -, a danno dei lavoratori, dell’ambiente e della collettività).

Il dottor Domingo Felipe Cavallo e Marcelo Ruarte (e i lavoratori del Bauen) sono la personificazione di due modi opposti di guardare all’economia. Il primo vede nel sistema neoliberista l’unico dei modelli possibili; il secondo – come tanti – ha provato sulla propria pelle l’iniquità e la crudeltà dello stesso. Si è ribellato e ha tentato di percorrere nuove strade. Strade diverse che, dopo essere state a lungo demonizzate e ridicolizzate, l’attuale crisi globale potrebbe anche rivalutare.
«Viviamo in un sistema – scrive il Centro Nuovo modello di sviluppo -, che osanna la ricchezza come scopo di vita. A livello individuale le parole d’ordine sono carriera, eleganza, lusso. A livello di sistema produttivo l’imperativo è crescere, crescere, crescere. Contro ogni logica continuiamo a voler produrre di più e consumare di più. È la follia spacciata per virtù» (6).
L’attuale momento storico offre l’opportunità unica per ripensare il sistema e per operare una scelta di campo tra consumare o essere. Pur nella consapevolezza che il pensiero unico (secondo il quale «non c’è alternativa»), veicolato dalla maggior parte dei mass-media (7), è lungi dall’essere defunto.

Paolo Moiola


Note:
(1)  L’Agenda Latinoamericana 2009 di José Maria Vigil e Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile), è uscita con un titolo che fa storcere il naso (eufemismo) alle persone più tradizionaliste (o meno progressiste): Verso un socialismo nuovo. L’utopia continua.
(2)  Tonino Pea, A recessione estrema, rimedi radicali, settimanale Carta, 3 aprile 2009.
(3)   Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Edizioni Intra Moenia 2006, pagina 62.
(4)  Nicola Armaroli-Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli 2008, pagina 6.
(5)  Riportato in Adista n. 44 del 25 aprile 2009.
(6)  Centro Nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2008.
(7)  C’è qualcuno che non si è mai unito alla vasta platea dei cantori del pensiero unico neoliberista e che oggi potrebbe farsi vanto delle proprie posizioni. Due nomi su tutti, uno italiano e l’altro straniero, con i loro ultimi lavori: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi 2009; Ronald Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino 2009.

Paolo Moiola




La cultura scaccia la droga

Medellin: città traformata e riqualificata, a partire dalla cultura

Fino a una decina di anni fa, Medellín (quasi 2,5 milioni di abitanti) era capitale mondiale della violenza e del narcotraffico; oggi, grazie a una nuova amministrazione, è diventata un laboratorio di progetti sociali urbani e di sviluppo, con la partecipazione di tutti i cittadini, diventando un modello di convivenza… da esportare nel resto del paese e nel mondo.

Parques biblioteca: bastano queste due parole per riassumere la rivoluzione in atto a Medellín, seconda città della Colombia: da ex capitale del narcotraffico e della violenza a città dell’educazione per tutti e della democrazia partecipata. Due parole che esprimono un unico concetto: la nascita di influenti biblioteche, oggi frequentatissime, nei quartieri più poveri della città, dove molta gente non era mai andata a scuola e viveva fisicamente separata (da muri invisibili o dalla mancanza di collegamenti) dai luoghi cittadini dove si produceva cultura.
Non è una favola; e nemmeno un volo pindarico creato ad arte per giustificare un buon reportage giornalistico, sia chiaro: di sicuro ha dell’incredibile quello che accade da quasi un decennio a Medellín, ma è tutto vero. Pregasi cancellare dalla memoria, quindi, le immagini di stragi, assassinii mirati in mezzo alla strada, scorrerie di paramilitari legati a doppio filo ai cartelli della droga: tutto ciò oggi non avviene più.
Ecco il primo indizio per capire che la nuova Medellín ha nulla da spartire con quella che nel 1991 viveva 381 omicidi ogni 100 mila abitanti: 16 anni dopo, a fine 2007, quel numero è sceso a meno di un decimo, con 26 morti violente all’anno.
È morto Pablo Escobar, certo. Il «re del terrore», che nel 1989 era, secondo la celebre rivista Forbes, il settimo uomo più ricco del mondo, grazie al controllo dell’80% del mercato globale della cocaina, è stato ucciso nel 1993. Da allora, la gente ha ricominciato a uscire di casa, a smettere di avere paura.
Allora, la guerra veniva combattuta casa per casa; molte persone, soprattutto dei quartieri poveri, si erano unite a Escobar in cambio della sicurezza economica per la propria famiglia, come avviene per le mafie nostrane. Ora, come reazione opposta ad anni di violenza quotidiana, è scaturita, quasi dal nulla, un’enorme forza di volontà cittadina per interessarsi del «bienestar» comunitario, il benessere della collettività.
Un interesse che è convogliato nella creazione, nel 1999, di un movimento della società civile, poi diventato un partito politico inedito, perché totalmente indipendente dai «soliti» due schieramenti al potere: i liberali e i conservatori. Compromiso ciudadano è il suo nome, che in italiano suona come «Impegno di cittadinanza». L’anno dopo la nascita, il movimento-partito ottiene un buon risultato, ma non riesce a vincere; stravince nel 2004, quando il candidato sindaco, il professore di matematica Sergio Fajardo, ottiene il 46% delle preferenze degli ammessi al voto tra i 2,4 milioni di abitanti della metropoli colombiana, contro il 22% del rivale.
A dicembre 2007, alla tornata successiva, Compromiso ciudadano vince ancora, con il nuovo sindaco Alonso Salazar, fondatore del movimento assieme al suo predecessore.

CITTADINI AL POTERE
«Eravamo una ventina di persone speranzose in un mondo migliore possibile» esordisce Geovanny Celis, 50 anni, uno degli uomini di punta nel cambio radicale che il nuovo partito ha impresso nella mentalità della gente di Medellín. Un passato di educatore di strada a favore del reinserimento di prostitute, senzatetto, ragazzi di strada, Celis è stato assessore allo sviluppo economico e sociale fino all’inizio del 2009; ora ha lasciato il posto per appoggiare l’ex sindaco Fajardo alle prossime elezioni parlamentari. Nessuno meglio di lui, dati socio-economici alla mano, può quindi spiegare come sia avvenuto il Renacimiento, la stupefacente rinascita della sua città.
«Nessuna formula magica, piuttosto una coincidenza di due cambiamenti epocali: da una parte lo smantellamento della rete del narcotraffico, grazie al governo nazionale, che ha permesso l’estradizione degli elementi più pericolosi negli Stati Uniti e la riqualificazione dei paramilitari implicati nel giro di droga – spiega Celis -, dall’altra il risveglio della popolazione, che nel 1989 ha ottenuto l’elezione diretta del sindaco e da allora si è sempre più impegnata nella politica locale, per cambiare le cose».
Da qui si è sviluppato Compromiso ciudadano, che ha conquistato la fiducia dei cittadini con una potente arma bianca: la trasparenza assoluta. «Fin dall’inizio, ogni nostra riunione è stata pubblica, abbiamo cercato di riunire e far discutere fra loro più persone possibili, nelle sale pubbliche, nei centri parrocchiali – riprende Celis – e anche oggi è così, ogni comunità ha i suoi incontri aperti, e incide per davvero sulle politiche del comune. Basti pensare che il 26% delle spese comunali è deciso direttamente dalle stesse comunità, per legge».
Una scelta che funziona anche a livello economico, visto che, come recita uno dei principi dello stesso assessore uscente, «la plata no se puede perder»: vietato sprecare denaro. «Se sa di poter incidere sul proprio tenore di vita, la popolazione si rimbocca le maniche». Nel giro di soli quattro anni, dal 2003 al 2007, i negozi in città sono quasi triplicati, passando da 5.943 a 15.220. E la disoccupazione, dal 2001 a oggi, è passata dal 18,2% al 13,6%, una delle più basse di tutto il continente latinoamericano.
In tempi di recessione mondiale, l’esempio di Medellín è una luce che buca l’oscurità. «In tutto questo, la presenza dell’istituzione rimane comunque alta: il comune gestisce, con aziende municipalizzate, la rete idrica, il gas, le fogne, società che rendono molto, fatturando sei volte tanto il budget municipale» specifica Celis. Ovvero milioni di dollari da potere spendere subito.
«Ma quello che conta è il modo in cui vengono reinvestite queste cifre: il 30% degli utili, infatti, viene destinato a spese per due settori fondamentali: scuola e salute». Il motivo di questa scelta è legato a una linea d’indirizzo ben precisa. «Ci si è detti: la priorità è lo sviluppo umano, bisogna mettere ai primi livelli dell’agenda cittadina le necessità di chi è più bisognoso, includendo nella vita sociale gli indigenti, i disabili, oppure i molti rifugiati interni della guerra civile, spesso poveri e senza appoggi familiari allargati» argomenta Celis.
Detto fatto. Oggi Medellín è all’avanguardia nella parità di diritti sia nell’educazione pubblica che in campo sanitario; e per quanto riguarda l’accessibilità sta facendo passi da gigante, nonostante l’altitudine, attorno ai 1.500 metri, e la disposizione di interi quartieri sulle pendici di sette colline.

CULTURA PER TUTTI
Medellín, città natale di Botero (il famoso scultore colombiano, oggi residente in Italia), al quale è dedicata la piazza omonima in cui si ergono ben 23 delle sue «rotonde» sculture, è oggi un ottimo esempio di accesso culturale garantito a tutta la popolazione. Gran parte del merito è proprio di Compromiso ciudadano e del suo primo sindaco Sergio Fajardo, in prima linea nel cambiamento, che ha finito il suo mandato nel dicembre 2007, con il 90% del gradimento popolare: sue le decisioni, concordate con i cittadini, di convertire decine di edifici in disuso o poco valorizzati in nuove occasioni di coesione sociale, perché posti in luoghi strategici della città.
L’esempio più impressionante (anche a livello visivo) è l’enorme biblioteca pubblica España, inaugurata all’inizio del 2007 e collocata all’ingresso del quartiere Santo Domingo Savio, a lato di una delle più grandi baraccopoli della città. Una scelta non a caso, quella di avvicinare la cultura nei luoghi più poveri della città: ecco concretizzata l’inclusione sociale di cui parlava Celis.
Una mossa azzeccata: la España è frequentatissima, con un boom di iscrizioni ai vari percorsi educativi, soprattutto da parte dei residenti, per i quali la biblioteca è diventata un vero e proprio bene collettivo. Così come lo è diventata l’ultramodea teleferica inaugurata poco dopo la biblioteca, la linea K del Metrocable, che collega Santo Domingo Savio, posto su una collina, al centro della città. In pochissimi minuti.
La España è uno dei cinque Parques bibliotecas, così chiamati anche perché le biblioteche popolari sono circondate da una consistente area verde; le altre sono: Tomás Carrasquilla nel quartiere Quintana, Leon de Grieff nel Ladera, Presbitero José Luis Arroyave a San Javier, Belén nella zona sudoccidentale di Medellín. Tutte inaugurate tra il 2006 e il 2007 e, oggi, veri e propri melting pot di Medellín. «Vivo da queste parti da 54 anni. Prima qui era tutto violenza, desolazione e paura. Con l’arrivo della biblioteca, il panorama è mutato in modo radicale: ora guardiamo alla nostra zona con occhi di speranza» afferma José Alvarez, rappresentante di uno dei comitati cittadini di San Javier.
Non solo biblioteche: negli ultimi anni si sono rinnovati musei e parchi, come quelli di Pies Descalzos o Llera, ora pieni di giovani e famiglie; si sono costruiti ponti tra zone collinari confinanti, che prima non avevano alcun collegamento fra loro. Si sono aperte scuole popolari di musica: oggi se ne contano 97.
Per non parlare della spinta all’educazione scolastica: le iscrizioni sono aumentate del 10% in tre anni e, grazie anche alle borse di studio per migliaia di giovani provenienti da situazioni di povertà, l’accesso alla scuola secondaria è dell’87%, ovvero studiano quasi 9 ragazzi su 10. E con il programma «Pace e riconciliazione», dedicato ai giovani paramilitari sottratti al narcotraffico, almeno 4 mila persone hanno potuto frequentare corsi di formazione, la metà dei quali ha oggi un impiego.
All’impegno comunale, inoltre, si affianca in piena armonia quello della Pastorale sociale della Caritas diocesana, soprattutto promuovendo azioni a favore delle famiglie di desplazados (rifugiati interni), i cui figli spesso hanno difficoltà a inserirsi a scuola, e stimolando la responsabilità sociale del settore privato, anche attraverso incontri pubblici, l’ultimo dei quali si è tenuto il 12 maggio 2009.

IMPEGNO PER IL SOCIALE
Il programma di sviluppo di Compromiso ciudadano non ha tralasciato l’economia locale, destinandole incentivi pubblici per milioni di pesos con il programma Cultura E («E» sta per Emprendimiento, impresa). Grazie alla fine degli anni di violenza, molti imprenditori, anche stranieri, hanno ricominciato a investire in città, soprattutto nel settore del tessile e della tecnologia, e si prevede, da qui al 2020, la creazione di 7 mila nuove imprese e 700 mila posti di lavoro.
L’amministrazione del movimento-partito di cittadini, inoltre, ha un occhio di riguardo speciale per tutto quello che riguarda il bienestar social (benessere sociale), soprattutto di chi è in difficoltà: ecco allora nascere, nel 2007, il programma Medellín solidaria, che mira a ottenere l’uscita dalla povertà di 45 mila famiglie tra le più indigenti della città, attraverso servizi agli anziani, giovani disagiati, appoggio psicologico, educativo, anche economico.
C’è grande attenzione alle persone diversamente abili, «che sono almeno 117 mila, il 5,1% della popolazione, molti dei quali lo sono diventati durante la guerra civile» spiega Marta Sierra, 44 anni, oggi viceassessore ai servizi sociali, ma da 18 anni impegnata come tecnico comunale nel settore sociale. «Dal 2001 ogni edificio nuovo deve essere accessibile a tutti. Ma non basta – continua Sierra -. Nel 2007 abbiamo avviato un progetto decennale per garantire loro la parità di diritti; entro il 2010 almeno 3.500 persone disabili saranno inserite nel mondo del lavoro; ma ancora più importante è il fatto che delle loro esigenze se ne parli in incontri pubblici, come succede di questi tempi, per la prima volta in assoluto».
Il Comune, in questo senso, riceve l’aiuto di un partner italiano: il Consorzio Sir («Solidarietà in rete»), che collabora con Medellín dal 2005 e ha avviato, in agosto 2008, la creazione di un sistema di servizi integrato, che opera per la promozione delle persone disabili (almeno 810 i beneficiari diretti, più le loro famiglie) attraverso progetti educativi, di riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo.
Il Consorzio, che ha base a Milano, offre inoltre sostegno tecnico alla cooperazione sociale cittadina, in particolare alla Promotora de empresarismo social, l’agenzia di sviluppo locale per l’impresa sociale, nata alla fine del 2007 e diretta da una giovane energica colombiana, la 30enne Catalina Pacheco: «A Medellín, il mondo associativo e cornoperativistico è in fermento, da progetti assistenzialistici si è passati in pochi anni a un “fare impresa” che sia sostenibile a livello umano» spiega la direttrice della Promotora.
In città sono concentrati almeno 1.500 enti del terzo settore, il 25% di tutta la Colombia. «La nostra esperienza sta facendo scuola, ci chiedono consigli da molte altre regioni del paese». A ben vedere, è tutto il «modello Medellín», che dovrebbe fare scuola ad altre metropoli mondiali.
Nella città in cui, nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano aveva gettato le basi di una nuova chiesa sociale, si rivive oggi, dal basso, uno spirito di cambiamento concreto. In poco più di un decennio, a Medellín, una violenza terrificante ha lasciato il passo a una sete di cultura senza precedenti. Alla base, una scommessa di un gruppo di cittadini, vinta in partenza: quella dell’educazione alla convivenza, alla parità di diritti. Per tutti. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Danza dei morti e dei vivi

La «grande isola rossa»: religione tradizionale e cristianesimo (seconda parte)

Dopo un secolo e mezzo di evangelizzazione, metà della popolazione malgascia è cristiana e un quarto appartiene alla chiesa cattolica, la cui vitalità
è caratterizzata dall’abbondanza di vocazioni e si esprime nell’impegno nel promuovere lo sviluppo fino agli angoli più reconditi del paese, diventando così punto di riferimento per la soluzione di numerosi problemi che ancora affliggono la gente.

M età circa della popolazione del Madagascar ha credenze e pratica riti tradizionali, mentre l’altra metà è di religione cristiana, suddivisa più o meno equamente tra cattolici (25 per cento circa) e protestanti (20 per cento); soltanto una piccola minoranza è musulmana. In questi ultimi anni sono però diventati popolari i predicatori carismatici, al punto che un libro, edito nel 2007 e scritto da Adolphe Rahamefy, che insegna all’Università di Antananarivo, è intitolato: Sette e crisi religiose in Madagascar.
religione tradizionale
Forme e credenze della religione tradizionale variano a secondo delle regioni in cui è diviso il Madagascar. Cielo, terra e acqua sono sacri. Così pure, un po’ ovunque, esistono luoghi sacri: laghi, grotte, montagne, foreste, alberi. Su di essi gravano interdetti e tabù (fady). Sono luoghi di preghiera e di sacrifici. Vi si depositano offerte e fiori.
Importanti sono i punti cardinali della terra. La costruzione di una casa deve rispettae l’orientamento. Sono essi che preservano la casa da tabù e la caricano di senso. L’est, dove sorge il sole, è una direzione particolarmente sacra, quella del culto degli antenati; il nord è invece un luogo che esprime e indica onore e stima. Lo spazio viene così ritualizzato. L’est è opposto all’ovest nel senso di puro e impuro, sacro e profano; il nord al sud, ossia il re contrapposto al popolo, il nobile al plebeo.
Non è però facile definire la religiosità dei malgasci, fondata su tutta una serie di riti e tabù, come per esempio il sacrificio dello zebù, i giorni fasti e nefasti, la divinazione, la guarigione dalle malattie, i riti propiziatori, la cerimonia del «bagno delle reliquie regali», quelle per la riproduzione ordinata del ciclo annuale, i riti della circoncisione dei bambini con cui si consacra la loro appartenenza sociale alla famiglia patea. Tutti questi riti hanno la funzione di mettere l’uomo in comunione con la divinità.
Gli antenati, dotati di poteri magici, ne sono per eccellenza gli intermediari. Studi recenti hanno anche messo in evidenza che un dio di nome Zanahary, creatore del cielo e della terra, è superiore a tutte le divinità e a tutti gli idoli. A lui, invisibile, i malgasci si rivolgono attraverso la mediazione degli antenati e di divinità secondarie.
La base della religione e della cultura malgascia consiste però principalmente nel rispetto e nella venerazione degli antenati, fondati su un complesso di riti di sepoltura. Il più noto e costoso di questi riti è il famadihana (letteralmente «rivoltare le ossa»), una cerimonia di esumazione e di nuova sepoltura del cadavere, che normalmente si ripete ogni sette anni e ha lo scopo di riunire tutta la grande famiglia, rinnovare i legami familiari e quelli con gli antenati e, non ultimo anche se spesso inconscio, di esorcizzare la paura della morte.
Le salme vengono estratte dalla tomba, ripulite e avvolte in tappeti di paglia e poi fatte «ballare» sopra la folla in festa. L’orchestrina suona un motivo allegro. I tavoli sono carichi di dolci, di carne di zebù o di porco ben ingrassato, di rhum estratto dalla canna da zucchero e di ciotole di riso fumante. Le salme vengono poi avvolte con fasce di colore bianco, il colore funebre tradizionale, e quindi cosparse di profumo e segnate con i loro nomi.
Segue un momento di silenzio, i cui membri della famiglia tengono in grembo i corpi dei defunti, comunicando con loro senza pronunciare parola e piangendo lacrime di felicità in un’atmosfera carica di emozione. Infine, dopo che i corpi sono fatti nuovamente «ballare» intorno alla tomba di famiglia, la pietra tombale viene murata e chiusa per altri sette anni.
La famadihana o rito di esumazione dei defunti diventa così la festa dei morti e dei vivi.
l’evangelizzazione
Il cristianesimo penetrò nella grande isola rossa, a parte qualche sporadico incontro con i portoghesi, soltanto nei primi decenni del secolo xix. Nel 1817 re Radama I cominciò a intrattenere relazioni diplomatiche con gli inglesi. L’influenza britannica durò fino a gran parte del secolo. Con gli inglesi arrivarono i primi missionari protestanti, gallesi e norvegesi, e la London Missionary Society. Molti di essi morirono di febbre poco dopo il loro arrivo. I sopravvissuti non si diedero per vinti e in breve tempo convertirono al protestantesimo la corte della dinastia Merina.
Già nel 1838 venne stampata la prima Bibbia in lingua malgascia e nel 1869 la regina Ranavalona II, convertita al protestantesimo, fece costruire una chiesa all’interno del rova di Antananarivo.
Il re Radama I morì a soli 36 anni nel 1828. Gli successe la vedova Ranavalona I. La nuova regina, desiderosa di proteggere le tradizioni e la cultura malgasce e contraria alla presenza degli europei, dichiarò illegale il cristianesimo e perseguitò tutti coloro che non ne rinnegavano la fede. Molti furono condannati a morte o subirono vessazioni e tormenti atroci, che solo una regina come Ranavalona I, incline alla violenza, poté escogitare. Alla sua morte il figlio Radama II abbandonò la politica adottata dalla madre e ripristinò la libertà religiosa. Da allora il cristianesimo divenne la religione predominante del Madagascar e l’attività missionaria, protestante e cattolica, si estese a tutta l’isola.
I primi missionari cattolici furono i Lazzaristi, la Congregazione della Missione fondata in Francia da san Vincenzo de’ Paoli. Il 4 dicembre 1648 essi sbarcarono a Fort-Duphin, nel sud dell’isola, inviati dal loro stesso fondatore. Ma la vera diffusione della religione cattolica in Madagascar cominciò intorno al 1841, quando il prefetto apostolico monsignor Dalmond chiamò i gesuiti dalla vicina isola di Réunion a evangelizzare l’isola.
Ad Antananarivo, la capitale, il cattolicesimo si diffuse a partire dal 1861 dopo la morte della regina Ranavalona I. I gesuiti e le suore di San Giuseppe di Cluny vi fondarono le prime scuole e battezzarono parecchi malgasci. Poco dopo, nel 1872, la città divenne sede della prefettura apostolica del Madagascar, poi vicariato durante la prima guerra franco-malgascia (1883-1886) e arcidiocesi nel 1955.
Anche la parte settentrionale del paese fu eretta in prefettura apostolica nel 1848 e in vicariato nel 1898. In questo caso i primi missionari furono i Preti dello Spirito Santo e le suore del Sacro Cuore di Maria, ai quali in seguito si aggiunsero i Redentoristi e i Montfortani.
È questo che abbiamo descritto il normale evolversi dell’organizzazione ecclesiastica cattolica nei territori di missione.
la realtà ecclesiale oggi
Attualmente il Madagascar conta ben 21 diocesi, delle quali quattro arcidiocesi nelle regioni ecclesiastiche in cui è suddiviso: il Centro, il Nord, il Sud-Est e il Sud-Ovest. I vescovi sono tutti malgasci, a eccezione di cinque: un italiano di Gallico Superiore (Reggio Calabria – Bova), un altro italiano di Orta Nova (Foggia), uno spagnolo di San Llorente (Valladolid), uno di origine portoghese e un polacco. Malgascio è pressoché anche tutto il clero.
Le congregazioni religiose maschili, alcune delle quali di origine locale e una anche trappista di stretta osservanza claustrale, sono numerose. Se ne enumerano 33, alcune giunte in Madagascar nei primi tempi dell’evangelizzazione dell’isola, altre più recentemente, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso.
La presenza dei gesuiti e dei salesiani con la loro organizzazione scolastica e pastorale è predominante. Gestiscono collegi, licei, centri di spiritualità e di formazione professionale e rurale, dispensari medici e radio locali. I loro scolasticati, dove ci si prepara per diventare religiosi, sono pieni di giovani malgasci. Molti di loro studiano in Europa, nell’America del Nord e in Africa.
Ancora più numerose sono le congregazioni religiose femminili, venute in Madagascar già nei primi anni dell’evangelizzazione dell’isola e soprattutto alla fine del secolo scorso. Il numero è per certi versi impressionante. Se ne contano ben 88, elencate nell’Annuario della chiesa cattolica malgascia e cornordinate dal Centro di formazione della Conferenza delle superiori maggiori. Poche sono di origine malgascia, la maggior parte di esse hanno le loro radici in Francia, in Italia, in Svizzera e Belgio.
Queste congregazioni sono certo venute in Madagascar per dare continuità alla grande tradizione missionaria dei secoli xix e xx, ma anche, non lo si può nascondere, con l’intento di ridare nuova vita alle loro istituzioni in crisi di vocazioni mediante l’inserimento di giovani religiose malgasce.
Buona parte di queste congregazioni, nate in Europa, hanno scoperto il carisma missionario proprio dinanzi al grave problema delle vocazioni in continuo e vertiginoso calo; lo hanno scoperto quasi «improvvisamente», anche se dietro impulso del Concilio Vaticano ii e di altri documenti che definiscono la chiesa «tutta missionaria». Si deve però riconoscere che da questo fenomeno, per alcuni versi pieno di incognite, non ne vanno immuni neppure le congregazioni maschili, anch’esse in crisi di vocazioni.
presenza provvidenziale
La presenza delle congregazioni femminili in Madagascar è stata provvidenziale non solo per il consolidamento e il progresso del cristianesimo nell’isola, ma anche per lo sviluppo economico e sociale della nazione. La maggior parte di esse partecipa attivamente allo sviluppo del paese con una nutrita e preziosa schiera di scuole di vario grado, di ospedali e dispensari, di case per anziani, e con una straordinaria e commovente dedizione ai poveri e agli ammalati. Le suore di origine malgascia si contano ormai a centinaia e dirigono con molta intelligenza e intraprendenza scuole matee, primarie e secondarie, dispensari, lebbrosari, orfanotrofi, librerie, case per studenti, centri di promozione della donna e di sviluppo rurale. Molto apprezzato è il loro impegno nella catechesi e nell’animazione pastorale non solo nelle parrocchie, ma anche nelle prigioni, negli ospedali e in ambienti rurali lontani e dimenticati.
Esistono anche quattro monasteri di carmelitane scalze e alcuni di trappiste e clarisse, che si dedicano esclusivamente alla preghiera. Altre congregazioni hanno religiose malgasce in terra di missione, in Africa e in Asia; altre ancora sostituiscono le suore anziane o malate in Francia o in Italia, impegnandosi nelle attività assistenziali e nell’apostolato parrocchiale.
la danza di Noè
Vi sono anche comunità di suore che dimostrano una vitalità e un impegno non comuni. Le suore Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Lecce nel 1929 e giunte in Madagascar nel 1988, hanno per esempio tre comunità: una nell’isola di Nosy-Be al nord, un’altra a Mandrosao-Ivato presso la capitale e un’altra ancora ad Andasibé verso sud.
In appena 20 anni le suore di origine malgascia hanno raggiunto il numero di circa 85 religiose, di cui una cinquantina si trovano in Italia, impegnate in case di riposo, asili e pensionati; solo 33 sono rimaste in Madagascar, dove dirigono sei scuole matee, quattro elementari e due medie superiori. Le novizie sono attualmente 10 e le postulanti 22, mentre le suore di origine italiana sono soltanto 17, quasi tutte anziane e residenti in Italia.
Si tratta perciò di una congregazione in rapida espansione, grazie alle religiose provenienti dal Madagascar, ma anche povera di mezzi. Hanno quindi bisogno di assistenza economica e benefattori, in questo provvidenzialmente aiutate da un missionario italiano, che si prende cura di loro, delle loro attività, delle loro scuole e delle loro abitazioni in alcuni casi fatiscenti.
Non è più giovane questo missionario. È un brianzolo Doc e si chiama padre Noè Cereda, l’unico missionario della Consolata in Madagascar. Ha già compiuto 72 anni di età e, rendendosi conto delle sue condizioni di salute, non ha paura di scrivere: «Ogni giorno mi dico: faresti meglio a rallentare, non danzare così veloce. Il tempo è breve. La musica non durerà».
Malgrado tutto, ha ancora in mente numerosi progetti da attuare. Vorrebbe (e ce la farà) aprire proprio al più presto una scuola tecnica di falegnameria e meccanica, in modo da insegnare ai falegnami a fare letti, sedie, tavoli e armadietti, e ai fabbri porte, griglie e strumenti per lavori agricoli. Alla fine dei corsi assegnerà a ogni giovane malgascio una cassetta con i principali strumenti di lavoro per mettersi in proprio.
La scuola copre una superficie di 700 metri quadrati. A causa dell’inflazione i prezzi dei materiali in un anno sono raddoppiati.
Ma non è finita! I suoi piani prevedono di terminare ad Andasibé una scuola e di costruire un serbatornio per l’acqua alto 12 metri con una capienza di 10 metri cubi di acqua, di costruire altre tre aule nella scuola di Andranoro, uno dei quartieri della capitale, e di sollevare di un piano l’attuale costruzione. A tutto questo si aggiunga quello che già funziona: tre foi a legna che ogni giorno producono 3 mila panini per i bambini delle scuole e un pasto caldo al giorno per gli scolari di Andasibé.
Si è inoltre in attesa della consegna di cento biciclette da distribuire agli scolari meritevoli. Come ha scritto, ringraziando in occasione della pasqua tutti coloro che lo aiutano in Italia e nel Principato di Monaco, l’infaticabile e coraggioso missionario è convinto che «semina, semina, ogni chicco arricchirà un angolo della terra».

I ntanto tutti i malgasci, anche i non cristiani, attendono con trepidazione e orgoglio l’arrivo in Madagascar di papa Benedetto XVI (o almeno lo desiderano), per proclamare santa Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), una malgascia di famiglia reale, nipote del primo ministro che sposò la regina Ranavalona II.
Proclamata beata da Giovanni Paolo II il 30 aprile 1989, è stata definita da papa Benedetto XVI «una vera missionaria» e «un modello per i fedeli laici di oggi». La beata Vittoria, la cui famiglia era protestante, si fece cattolica nel 1863 all’età di quindici anni. Essa è senza dubbio un segno e un’attestazione della vitalità della chiesa cattolica in Madagascar e un onore per tutti i malgasci. 

di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello




102 giorni d’inferno e paradiso

Suor Caterina e suor Maria Teresa raccontano…

Rapite il 20 novembre 2008 a El Wak (Kenya), tenute prigioniere in Somalia per 102 giorni, le due suore del Movimento contemplativo missionario Charles de Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, una volta rilasciate, sono rimaste per alcuni giorni nella quiete della casa regionale dei missionari della Consolata a Nairobi. Una sera le ho «sequestrate» per fare una lunga chiacchierata sulla loro esperienza. E si sono arrese volentieri.

A  raccontare la loro brutta avventura è soprattutto suor Caterina, Rinuccia per le sue sorelle, donna minuta di 67 anni, che parla in modo dolce e quieto, ma con una grande forza interiore, ed è persino capace di sorridere e scherzare nel ricordare momenti anche buffi della loro prigionia. È infermiera e si arrangia con la lingua somala, in cui è chiamata con il nome di Khatra.
Suor Maria Teresa, 60 anni, è la più forte delle due. Alta, con mani grandi e forti da figlia di contadini, Mariam, come è chiamata in lingua somala, non parla molto. Così si limita a spalleggiare Khatra, con una voce che invita alla cautela, conferma, corregge, aggiunge, chiarisce e mette in guardia quando la potenza evocatrice dei ricordi supera la prudenza, per non rivelare cose che sarebbe meglio non dire. Ma quanta profonda e delicata sensibilità si notano in quelle poche parole e in quella voce profonda!
Dal loro racconto non sapremo molto sul perché furono catturate, sui negoziati ed eventuale richiesta di riscatto, su come furono liberate. Notizie di stampa locale e internazionale hanno riferito che i sequestratori erano miliziani di Al Shabaab e che la loro detenzione fosse a Mogadiscio. Sui giornali sono apparse anche congetture su un pagamento di riscatto e su uno scambio di prigionieri. La verità è gelosamente custodita da chi ha fatto il suo dovere in silenzio. Da parte mia ho evitato deliberatamente l’argomento durante la nostra conversazione.
So solo che il 19 febbraio, alle 3 del pomeriggio, una festosa telefonata mi informava che le due suore erano state liberate e, arrivate a Nairobi, erano state portate subito all’ambasciata italiana, da dove avevano potuto mettersi in contatto con le loro consorelle e confratelli. Ma lasciamo la parola a suor Caterina.
La cattura
Era circa mezzanotte. Dormivamo tranquille, sentendoci al sicuro nelle nostre stanze, protette dalle mura del recinto e due portoni di ferro, quando d’improvviso fui svegliata dall’inconfondibile scricchiolio del portone del cortile interno. Mi alzai allarmata, chiamai suor Maria e corsi alla finestra del soggiorno in tempo per vedere le luci di molte torce che avanzavano verso le nostre stanze. Poi si udirono degli spari, mitragliavano la porta della stanza di suor Maria.
Corsi indietro e mi aggrappai alla vecchia sirena a mano (foitaci negli anni ‘70 da padre Giovanni Bonzanino!). Suonai l’allarme girando la manovella con tutte le mie forze per diversi minuti, finché sentii sparare anche contro la mia porta.
Mi resi conto che ero ancora in pigiama; mi vestii in fretta e mi nascosi dietro un armadio (mi viene da ridere pensando alla mia ingenuità!), mentre la porta stava crollando sotto la gragnola di proiettili. Entrò un giovane, si diresse verso il mio letto. Non c’ero. Guardò in giro, mi scorse, mi afferrò una mano, uno strattone e mi ritrovai in terra come un sacco di patate. Mi trascinò fuori senza complimenti e … senza scarpe.
Suor Maria era già fuori, con una torcia in mano. Prima che la sua porta fosse sfondata, aveva tentato di chiamare aiuto con il telefono mobile, ma nessuno aveva risposto.
Spintonate dai nostri sequestratori, arrivammo al portone esterno: un colpo di fucile mandò in frantumi il grosso lucchetto nel quale avevamo riposto tanta fiducia. Trascinate e strattonate, attraversammo a passo svelto l’intero villaggio di El Wak. Io gridavo aiuto con tutta la mia voce, mentre il mio sequestratore mi picchiava dietro la testa: «Silenzio! Silenzio!».
Poi caddi a terra lunga e distesa. Ero scalza. Era buio. Mi spingevano. Sentii sul collo la canna di una pistola, ma continuavo a gridare. In quel momento cominciai a sentire interiormente che non ci avrebbero ucciso. Volevano farci prigioniere. Cadde a terra anche suor Maria. La colpirono in testa con il calcio del fucile. Cominciò a sanguinare; per fortuna la ferita era superficiale.
Alcune automobili ci aspettavano. Mi gettarono di peso dentro una di esse senza complimenti: ero troppo esausta per reagire. Maria si sedette al mio fianco. Aspettammo un poco. Da quel momento cominciammo a pregare. Una preghiera continua. Si udì un’improvvisa scarica di armi da fuoco proveniente dalla città: il cuore ci batteva forte; qualcuno veniva a liberarci. Speranza vana. I nostri sequestratori si raggrupparono, balzarono nelle auto e si gettarono dritti nella boscaglia. Passammo vicino a El Uach, il villaggio somalo opposto a El Wak, e continuammo per oltre un’ora, finché ci fermammo e fummo trasferite in una comoda Range Rover dai vetri scuri.
Alcuni sequestratori si avvicinarono al finestrino; avevano telefonini cellulari. Uno ci mostrò una foto: «Lo conosci?». Era l’inconfondibile faccia di Bin Laden! «Sì» rispose suor Maria. Il cuore sembrava scoppiare: eravamo proprio in «buone» mani! «Siamo di Al Shabaab» dissero, poi domandarono: «Siete musulmane o pagane?». «Siamo persone che amano tutti nel nome di Dio» rispose suor Maria: una risposta ispirata da Dio! Da allora non ci fecero più simili domande.
Cinque giorni fuori pista
Viaggiammo tutta la notte, fino alle quattro del pomeriggio seguente, senza cibo né acqua. Avevo grande bisogno di zucchero o di sale per la mia pressione. Lo chiesi, ma fecero orecchie da mercante. Quando finalmente ci fermammo, il capo del gruppo disse: «Ora mangiamo pastò». Intendeva pastasciutta. Ci sedemmo al sole accanto all’auto; dopo un po’ ci portarono un grosso piatto di spaghetti, luccicanti di olio e qualcos’altro. Assaggiai. Era zucchero! Dopo 16 ore di viaggio e la pressione che continuava a scendere, anche gli spaghetti allo zucchero potevano andar bene.
Ma il vero problema era l’acqua. Quella disponibile l’avevano usata tutta per cuocere gli spaghetti. Rimanemmo senza bere fino la sera del giorno seguente, quando arrivammo a un villaggio e le auto si fermarono accanto alla moschea, da cui la gente era appena uscita. Qualcuno ci portò una tazza di tè: era meraviglioso; dopo 40 ore di viaggio quel tè aveva gusto di paradiso! Vedendo la gioia e gratitudine con cui lo avevamo bevuto, ce ne portarono un altro; poi un uomo arrivò con un piattino di riso e due cucchiai; un altro con un piattino di nyieri-nyieri, gustosa carne fritta nell’olio cucinata solo in speciali occasioni di festa. Fu poi la volta di una tanichetta d’acqua da 3 litri e una bustina di shampoo: così suor Maria poté lavarsi la ferita.
Fummo portate in un luogo nascosto, nell’alveo secco di un torrente, dove ci avevano preparato una stuoia su cui dormire, al chiaro di luna. Dato che ero scalza, il vice capo mi prestò le sue scarpe per raggiungere lo spiazzo. Faceva freddo e avevo niente per coprirmi, allora lo stesso corse al villaggio e toò con un grande lenzuolo. Cominciammo a dormire, un sonno agitato, mentre anche i sequestratori si coricarono in circolo attorno a noi, sempre stretti ai loro fucili e lancia razzi. Erano tutti ragazzi giovani, eccetto il capo.
Al mattino riprese il viaggio verso sud, su percorsi fuori pista. Dormimmo per qualche ora e di nuovo in viaggio, finché dovettero fermarsi per problemi meccanici. Per quasi tutto il giorno rimanemmo in quel posto isolato, senza cibo e senza acqua. Suor Maria ebbe un momento di panico. Dei tre litri restavano solo un paio di bicchieri d’acqua bianchiccia e fangosa: fu la molla che fece scattare le nostre paure: prigioniere, in mano a sconosciuti, per ragioni ignote, in terra deserta…
Riuscimmo, tuttavia, a riprendere il controllo di noi stesse. Arrivò il tramonto e la sete divenne più sopportabile. Per la prima volta riuscimmo a recitare un rosario per intero. Fino a quel momento avevamo pregato sempre, in continuazione, ma solo con brevi invocazioni, come «Signore, salvaci». Ci aiutava a restar calme.
Appena finito il rosario, fummo portate alle auto. La «nostra» Range Rover era pronta alla partenza. E proprio in quel momento arrivò il meccanico con una tanica da 20 litri d’acqua. Ognuno se ne prese una bottiglia, anche noi; ma il vice capo ci diede un extra, prese la nostra tanichetta, la riempì e ce la consegnò. Una gentilezza che apprezzammo molto.
Era già buio, ma il capo decise di lasciare il gruppo con le macchine rotte e proseguire da solo con la Range Rover, con dentro noi e altri due uomini. Guidò per 20 ore di seguito, giorno e notte. Eravamo arrivati così a sud, da perdere la direzione; dopo aver chiesto spiegazioni via cellulari, il capo fece salire un uomo che ci guidò verso una grande città, che immaginammo dovesse essere Mogadiscio.
la prigionia
Dopo 5 giorni di terribile viaggio, eravamo finalmente in una casa. La padrona sapeva del nostro arrivo. Ci diede un vestito nuovo ciascuna, acqua per bere e per lavarci e un materasso per dormire. Quella notte riuscimmo a riposare.
Il giorno seguente il capo stesso, con voce severa, ci ricordò che saremmo morte se le trattative fossero fallite. La minaccia ci lasciò di ghiaccio. Eppure ci sentivamo molto forti. Fin dall’inizio di quella dura prova avevamo fatto lo stesso proposito: affrontare con pace interiore qualsiasi cosa fosse capitata; così instaurammo un rapporto il più positivo possibile con i nostri rapitori. Per grazia di Dio, non abbiamo mai avuto sentimenti di rabbia, odio o avversione verso di loro.
Nella città, sebbene più volte trasferite da un posto all’altro, fummo tenute in stanze abbastanza larghe; avevamo due materassi e due cuscini e qualche vestito di ricambio; là ci fecero indossare il burka e coprire i capelli. Rimanevamo chiuse nella stanza tutto il giorno; ci era permesso di uscire solo per i bisogni fisiologici. Solo nelle ultime 4 settimane ci fu consentita un’ora all’aria aperta nel sole di mezzogiorno.
A parte ciò, ci trattavano sempre con rispetto e cortesia, provvedendoci cibo buono e abbondante. Un giorno uno di loro ci presentò un libro. «Lo conoscete? The Holy Bible!». Ci spiegò che avevano ucciso un soldato straniero e gli avevano trovato quella Bibbia in tasca; ora era lì per noi. Un regalo stupendo, che accettammo con immensa gioia.
La usammo molto, ma con prudenza, per non provocare discussioni su argomenti religiosi. Infatti avevamo qualche problema con uno dei giovani carcerieri alquanto zelante. Per cui, un giorno ne parlammo al vice-capo, che era sempre stato gentile con noi. Raccontammo come eravamo ammirate per il loro comportamento: tutti disciplinati, mai un litigio o parole irriguardose, non facevano uso di tabacco e alcolici né masticavano miraa (la droga così comune tra i somali!), sempre rispettosi nei nostri riguardi e verso le donne in generale. C’era solo quel giovane miliziano che ogni tanto ci metteva in imbarazzo. Da quel giorno il giovane ci lasciò in pace e ci trattò con gentilezza.
Per 40 giorni (nella nostra comunità siamo allenati ai 40 giorni! [Ndr. i 40 giorni di deserto e preghiera che caratterizzano la vita spirituale dei contemplativi missionari]) riuscimmo a conservare il morale discretamente alto. Certo, avevamo paura. Chi non ne avrebbe avuta in tale situazione, con uomini sempre armati di fucili e bombe, sempre pronti a vantarsi delle loro uccisioni? Ma resistevamo, e non abbiamo mai perso la nozione del tempo. Suor Maria aveva ancora il suo orologio; il mio si era rotto mentre mi trascinavano a El Wak. Eravamo anche riuscite a compilare un calendario di fortuna, con un pezzo di carta e un mozzicone di matita trovato sul davanzale di una finestra.
Avemmo un momento di grande apprensione il 23 dicembre, quando uno dei carcerieri ci disse che le trattative per il nostro rilascio erano ferme. Seduto nella nostra stanza, ci riferì la notizia in modo calmo e cortese, provando perfino a consolarci e condividendo il nostro dolore. Ma fu terribile. Ci sentivamo tradite, abbandonate, sole, impotenti, e ferite nel profondo dell’anima.
In tale stato d’ansietà celebrammo il natale; abbiamo pregato, letto i passi biblici della natività di Cristo; sentivamo Gesù profondamente presente, lì, prigioniero con noi. Ma fu un momento di grande oscurità, durato fino alla fine dell’anno. Poi cominciarono a trapelare notizie migliori.
la forza della preghiera
A darci coraggio era la preghiera. All’inizio eravamo persino incapaci di pregare insieme; pregavamo molto, ma ognuna per conto suo. Poi cominciammo a pregare insieme la sera; alla terza settimana ci eravamo già organizzate bene: lodi mattutine, vespri serali, 4-5 rosari durante la giornata e la partecipazione mentale alla messa, momento per momento, con comunione spirituale.
Per la recita dei salmi ci aiutavamo a vicenda ricordandoli a memoria. Naturalmente il primo che ci venne in mente fu: «Il Signore è il mio pastore». Lo sapevamo bene ed era proprio giusto per la nostra situazione. Poi il salmo 103, «Benedici il Signore, anima mia!». Il salmo 63 era sempre sulle nostre labbra: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco». Riuscivamo a ricordae abbastanza bene circa 15; ne recitavamo sei-sette nella mattinata; gli altri alla sera, ripetendoli anche due volte. Pregavamo con molta calma: non avevamo altro da fare tutto il giorno.
Pregavamo sempre a bassa voce, per non attirare l’attenzione. Non osavamo cantare. Solo nelle ultime settimane trovammo il coraggio di intonare qualche canto, perché la nostra stanza era la più isolata, lontano dalle orecchie dei nostri custodi.
Per mantenerci occupate camminavamo su e giù per la piccola stanza, fino a stancarci. Andando avanti e indietro, recitavamo il rosario, tanti rosari. A ogni Ave Maria inserivamo qualche giaculatoria: «Gesù, io confido in te»; «Spirito Santo illuminaci, guidaci ogni istante della giornata»; «Madre nostra, Maria, aiutaci a ringraziare»… Un rosario poteva durare più di mezz’ora. Pregare in quel modo era un balsamo per noi. Ci ha aiutato tantissimo.
Nei vespri serali avevamo un’occasione per ringraziare con il Magnificat. Ringraziare! Era molto importante per noi. Forse dovuto all’insistenza e formazione instillateci dal fondatore della nostra comunità, il ringraziamento è sempre stato parte della nostra preghiera, anche in quei giorni difficili. Ogni giorno avevamo motivi per rendere grazie.
La Parola di Dio ci accompagnava tutto il giorno. Ripetevamo spesso passi o versetti più familiari della Parola di Dio. A volte usavamo la Bibbia che ci avevano dato. Alcuni versetti ci venivano facilmente in testa, come «venite a me voi che siete stanchi e oppressi…» e «ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti perseguitano». Citazioni molto significative, che ci aiutavano a illuminare, rinnovare, correggere ogni giorno la nostra relazione con quelli che ci stavano vicino in quei momenti. Quando li sentivamo pregare, anche noi pregavamo per loro. Invocavamo lo Spirito Santo perché operasse in loro.
Eravamo convinte che lo Spirito fosse al lavoro, anche in quella difficile situazione. Non che fosse facile. Anzi! C’erano momenti di sconforto, come quando ci sentivamo abbandonate con la sensazione che Dio fosse lontano: «Perché non rispondi? Fai presto, aiutaci. Liberaci!». Eravamo tentate di perdere la speranza, di cadere nella più nera disperazione. Ma poi… «Se tu non fossi qui, Signore, cosa sarebbe di noi? Cosa potremmo mai fare?». Non era possibile dubitare. Sentivamo davvero che il Signore era lì con noi, prigioniero anche lui con noi!
Esperienza di Paradiso
È stata molto, molto dura… tante lacrime, non solo interiori. Molte ore insonni; l’angoscia che ti prendeva dentro; essere sveglia e sentire accanto la sorella piangere nel sonno… ti trafigge il cuore; e pensi: «Sto già soffrendo troppo! E se anche lei patisce tanto dolore, come faremo a sopravvivere?».
Tale esperienza ci faceva sentire più vicine al Cristo crocifisso. Un giorno ci siamo persino dette che dovevamo essere grate a Dio perché avevamo il privilegio di condividere la passione di Cristo. Tale pensiero non veniva da ragionamento, era piuttosto un’intuizione, ma ci fu di grande aiuto. La sofferenza di Gesù, il suo essere tradito, la sua debolezza, come agnello portato al macello… ci siamo sentite anche noi così: impotenti, spoglie, indifese, inermi di fronte a una realtà fuori del nostro controllo.
Eravamo certe che la nostra comunità, i parenti e tantissime persone erano con noi e ci stavano sostenendo con la preghiera. Ma in realtà eravamo sole, senza contatti, senza notizie, senza risposte alle nostre mute domande. Era un’esperienza di purificazione. Crescevamo nella fede giorno dopo giorno, ma era una fede nuda, oscura… proprio «come succhiare un chiodo», come usava dire il nostro fondatore. Ma era fede. Sapevamo che il Signore era lì con noi. Recitando il rosario, sperimentavamo la presenza della nostra Madre, lì, con noi. Era un continuo scorrere di grazia. Al tempo stesso era una croce, nella sua totalità, senza sconti.
Sentivamo entrambe che lo stare insieme era una benedizione. A un certo punto, percepimmo che stavamo vivendo un’esperienza di paradiso: mai nella vita ci eravamo sentite così legate da affetto, profonda comunicazione e solidarietà. Stavamo vivendo l’una per l’altra.
Non che fossimo senza problemi. In certi momenti eravamo così tese e stanche da non riuscire a sopportarci a vicenda. Brevi momenti dolorosi, ma lo capivamo; era normale. Si cercava di evitare parole inutili, pesanti… per non aggravare il già pesante fardello che dovevamo portare.
Abbiamo imparato a condividere tutto, persino le sofferenze più segrete. Come quando suor Maria mi vide piangere nel sonno: non aveva il coraggio di dirmelo, le sembrava troppo; ma poi decidemmo che anche quei momenti dovevano essere condivisi, perché una sofferenza così forte che per notti e notti non ti permette di dormire può essere lenita solo condividendola.
Il futuro
Due ore prima di salire sull’aereo ci fu detto che eravamo libere. Fu una gioia incredibile. E ora siamo qui e ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e solidarietà, da tutti gli angoli del mondo.
Anche i nostri amici musulmani di El Wak e Mandera hanno pregato per noi dal primo giorno della nostra prigionia. Ora ci chiamano ogni giorno, chiedendoci di ritornare. Molti di loro non riescono neanche a parlare al telefono, si mettono a piangere. Hanno fatto tanto per noi, pregando ed insistendo con gli anziani per la nostra liberazione. I poveri, i malati, le madri, i vecchi… erano tutti dalla nostra parte. Ma i poveri non han potere né voce!
Toeremo? Preghiamo e speriamo, ma non sappiamo. Il nostro futuro è nelle mani di Dio! 

Di Luigi Anataloni

Luigi Anataloni




Dialogo e libertà… controllata

Intervista al cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville

Dal 1976, quando in Vietnam è stato instaurato il regime comunista, i cristiani sono oggetto di repressione; le tensioni sono ancora forti nel nord del paese. La chiesa reclama la restituzione delle migliaia di proprietà confiscate, ma il governo, l’8 gennaio scorso, ha chiuso definitivamente il discorso. Nel sud le relazioni tra stato e chiesa stanno migliorando, grazie anche al dialogo a oltranza perseguito dal cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville.

L a stupenda casa coloniale che ospita l’arcivescovado di Ho Chi Minh Ville, inizia a tingersi di rosa quando i caldi raggi di sole dell’alba vietnamita pennellano l’aria circostante. Di fronte alla cancellata, un ritratto di Ho Chi Minh ricorda che il paese, pur irriconoscibile rispetto a 30 anni fa, è pur sempre una delle ultime nazioni a seguire un indirizzo ideologico socialista. È lo stesso cardinale Pham Minh Man ad accogliermi nel suo studio privato.
Classe 1934, Pham Minh Man ha trascorso gran parte della sua vita in Vietnam, sperimentando in prima persona gli orrori della guerra e le difficoltà che il paese ha dovuto superare dopo la liberazione. Nominato vescovo da Giovanni Paolo II nel 1993, alla guida della diocesi di Ho Chi Minh Ville dal 1998, è stato elevato al rango cardinalizio nel 2003.

Eminenza, nonostante il paese sia stato unificato nel 1976, lo sviluppo economico e sociale del Vietnam sembra procedere su due differenti binari. Immagino che anche con la chiesa cattolica, il governo mantenga due tipi di approccio, come dimostra la recente diatriba con l’amministrazione di Hanoi sulla restituzione dei terreni confiscati negli anni ‘50. È davvero così diverso il rapporto che la chiesa deve instaurare con le amministrazioni del Nord e del Sud Vietnam?
La difficile situazione al Nord è data da una mancanza di dialogo e dall’oggettiva difficoltà di cornoperare con le autorità delle regioni settentrionali, ancora sospettose della religione. Quando andammo nella visita ad limina a Roma, il papa Giovanni Paolo II, che aveva una grande esperienza di vita e di confronto con i regimi comunisti, ci disse di perseverare con il dialogo, raccomandandoci di essere sempre sinceri e franchi, in modo da cornoperare per lo sviluppo del paese e del popolo vietnamita. E questo è quanto cerchiamo di fare.

Di recente i media hanno ipotizzato una visita papale in Vietnam. Non le chiedo quanto siano fondate queste voci, ma vorrei sapere: il governo vietnamita sarebbe pronto a ricevere una visita del papa?
Posso rispondere sì e no allo stesso tempo, perché non tutti i membri del governo vietnamita hanno la medesima visione nel valutare una eventuale visita papale. Dipende dalle condizioni contingenti della situazione politica, sociale ed economica che vivrà il paese nel periodo in cui questa visita verrà proposta.

Questa continua ricerca di equilibrio di poteri all’interno del governo vietnamita mi permette di addentrarmi in un’altra domanda, più strettamente politica: la storica divisione della nazione vietnamita, non solo ideologica, ma anche culturale e religiosa, porta allo scontro di due fazioni che si dividono cautamente le cariche del potere per raggiungere un equilibrio più o meno precario: semplificando al massimo possiamo dire che i membri del governo originari del Sud fanno parte della fazione progressista, aperta ai cambiamenti, mentre i membri originari del Nord sono più conservatori. Quale fazione prevale attualmente?
Effettivamente all’interno del governo vietnamita c’è una parte di membri che vuole cambiare lo stato delle cose anche in modo non repentino, mentre un’altra ostacola questa visione. La supremazia dell’una o dell’altra fazione non è sempre così chiara perché il bilanciamento delle forze si basa sulla contrattazione sulla base del do ut des.

La politica dei paesi si ripercuote anche sullo sviluppo interno della chiesa locale; così, seppur vicine, la chiesa vietnamita si è sviluppata in modo completamente differente da quella cinese: in Vietnam, ad esempio, non esiste la chiesa patriottica.
Ho avuto l’opportunità di conoscere la chiesa in Cina e di avere scambi di opinione con fedeli e preti cinesi. Noi abbiamo già conosciuto la situazione che la Cina sta attraversando attualmente: prima degli anni ‘80 avevamo anche noi due chiese, anche se il contesto era differente. La chiesa cattolica in Cina è chiamata chiesa «sotterranea» perché non riconosciuta dal governo. Allo stesso modo anche noi, nel Nord del Vietnam, prima degli anni ‘80, avevamo una chiesa non riconosciuta, con vescovi e preti nominati dal Vaticano, ma che erano impossibilitati a esporsi in pubblico. Nonostante questo riuscivamo ad avere contatti con il Nord e quindi in qualche modo la chiesa vietnamita era una chiesa unita e completamente in comunione con il Vaticano.
La situazione era chiaramente più aperta e libera al Sud, ma dopo che nel 1980 la Conferenza dei vescovi vietnamiti riunificò la chiesa, anche al Nord i preti cominciarono a esporsi pubblicamente. Al Sud, grazie al Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha sempre cercato di avere buoni rapporti con il governo, per cornoperare a ricostruire la società e per il benessere, sociale e morale, del popolo vietnamita. Forse è anche grazie a questo corso storico, che ci ha permesso di assorbire un’esperienza di apertura e di dialogo, che oggi al sud abbiamo un confronto meno turbolento che al Nord.

Eppure questo confronto non è sempre stato esemplare per i cattolici: negli anni ‘60, il presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, non è certo stato un esempio di virtù: non pensa che abbia nuociuto alla chiesa cattolica una figura di questo genere?
Non condannerei completamente Diem. In certi aspetti è stato un buon presidente. Gli uomini che lo circondavano forse non erano all’altezza.

Un buon politico dovrebbe però saper scegliere gli uomini giusti.
Su questo ha ragione e in tal senso non è stato un buon politico.

L’area di Ho Chi Minh Ville è un melting pot di religioni: cattolicesimo, evangelisti, protestanti, buddisti, caodaisti, Hoa Hao… Come cornoperate con tutte queste religioni?
L’unico modo attraverso cui possiamo cornoperare insieme è tramite le attività sociali. Ma fino ad oggi a tutte le religioni è stato proibito lavorare nel campo sociale. Due anni fa i vescovi vietnamiti sono andati a parlare con il presidente del Vietnam, chiedendogli di potere iniziare a svolgere anche opere sociali. Il presidente promise che avrebbe cercato di risolvere il problema. Lo scorso anno ci siamo incontrati con il primo ministro, ribadendo la nostra richiesta e pochi mesi fa ci siamo incontrati anche con il direttore dell’ufficio degli Affari religiosi, i cui funzionari sono venuti appositamente da Hanoi per incontrarmi. Ci siamo lasciati con l’intento di organizzare una riunione con tutti i rappresentanti delle organizzazioni religiose operanti in Vietnam. Verranno raccolte le intenzioni avanzate dalle diverse chiese, per portarle poi all’attenzione del primo ministro e ai ministri interessati alle singole proposte. La nostra speranza è che il governo permetta a tutte le organizzazioni religiose di operare anche in campo sociale: scuola, educazione, sanità… Purtroppo non sappiamo quando questo sarà possibile. La buona volontà sicuramente c’è, ma i tempi burocratici sono molto lunghi.

Eppure già oggi la chiesa cattolica a Ho Chi Minh Ville è coinvolta in opera a sfondo sociale con partner governativi o con organizzazioni straniere ufficialmente rappresentate presso il governo vietnamita.
Non la chiesa cattolica direttamente, ma individui appartenenti alla chiesa cattolica, che lavorano in questi campi a titolo personale. Abbiamo preti, catechisti e singoli fedeli che cornoperano con organizzazioni non governative o con enti sociali, ospedali, dispensari. Quando l’attuale presidente del Vietnam era sindaco di Ho Chi Minh Ville, mi scrisse una lettera, invitandomi a mandare religiosi presso i ricoveri per anziani gestiti dal governo. Sedici organizzazioni religiose hanno mandato più di 100 volontari che ancora oggi collaborano con le strutture governative.
Ora vorremmo aprire un centro in Ho Chi Minh Ville per curare le persone colpite da Hiv. Abbiamo comperato la terra, registrato il progetto e svolto tutte le pratiche burocratiche per iniziare la costruzione.
Ad Hanoi, la chiesa sta protestando per poter ottenere i terreni su cui costruire opere sociali; quanto è difficile per la chiesa del Sud ottenere i permessi per costruire, non solo opere sociali, ma anche chiese?
Qui al Sud è relativamente facile, ma ci vuole tempo. Abbiamo almeno otto nuovi luoghi in cui stiamo costruendo, o intendiamo costruire, campus, chiese, ospedali, dispensari. Almeno quattro diverranno parrocchie. Il numero dei cattolici sta aumentando rapidamente e abbiamo bisogno di nuovi centri di aggregazione. Abbiamo comperato degli appezzamenti di terra in aree che erano considerate depresse, isolate e abitate da povera gente. Oggi, con il forte sviluppo economico e imprenditoriale di questa città, tutte queste aree sono diventate o stanno per diventare nuovi centri residenziali.
Le voglio raccontare un fatto divertente: nel 1998 ero in un’area depressa e in 4 anni il numero dei cattolici era salito da poche unità a 400. Necessitavamo di una chiesa. Comprammo la terra e chiesi il permesso alle autorità, ma per un anno non ricevetti risposta. Nel 2004, una rappresentanza di fedeli della parrocchia mandò una lettera alle autorità locali, dicendo che volevano farmi un regalo molto speciale per i miei 70 anni: costruire una chiesa. Due mesi dopo un funzionario governativo contattò questo gruppo di fedeli, chiedendo loro dove avrei voluto celebrare la posa della prima pietra. Era il marzo 2004. Dissi loro che avrei voluto celebrare la messa prima della fine del mese: un periodo strettissimo per i tempi vietnamiti e non avrei mai creduto che potessimo ottenere i permessi necessari. E invece, con grande meraviglia di tutti, i permessi arrivarono e entro la fine del mese di marzo 2004 potei celebrare la posa della prima pietra. Partecipò una folla composta da più di 1.000 persone cattolici, buddisti, caodaisti, hoa hao. Le ho raccontato questa storia per dimostrare il grande potere di convincimento che la gente comune può avere verso il governo.

Da allora quali passi avanti sono stati compiuti?
Ora abbiamo comperato 20 ettari di terra in un’altra area per costruire con le suore di Madre Teresa un centro per malati di Hiv. Era un’area paludosa bonificata e una compagnia di Taiwan vi costruirà un nuovo quartiere. Hanno comprato questa terra per 3 dollari al metro quadro, rivendendola poi a 50 dollari. Oggi un metro quadro di quello stesso terreno vale 3 mila dollari. Noi l’abbiamo acquistato all’inizio, quando nessuno voleva comprarlo perché troppo isolato e lontano dalla città. La compagnia ci propose di comprare questo terreno per costruire un asilo, in modo da attrarre gente. «Se la gente vede che la chiesa cattolica costruisce un asilo, allora sarà più invogliata a venire ad abitare in questo nuovo quartiere» ci dissero. Oggi, dopo 10 anni, il nuovo quartiere è considerato un quartiere modello nel District 7. L’asilo ha 300 bambini, mentre ogni domenica alla messa assistono circa 200 persone, di cui almeno 150 sono colf immigrate dalle regioni settentrionali.

E il governo come giudica questo espandersi della chiesa cattolica?
È stato favorevolmente impressionato da questa nostra presenza, tanto da concederci il permesso di costruire non solo un asilo e chiesa, ma una vera e propria missione che scaturisca dai bisogni della gente.

Pensa che questa visione favorevole dell’impegno sociale della chiesa da parte delle autorità del Sud, possa favorire il dialogo anche in settentrione?
Nel Nord c’è molta più difficoltà per diverse ragioni: il governo è tradizionalmente meno aperto alle innovazioni e la chiesa del Nord non ha sufficienti preti.

Come vede la chiesa vietnamita in un prossimo futuro? Sarà possibile avere in Vietnam missionari stranieri?
Le confido un segreto che sanno tutti: oggi in Vietnam ci sono già molti preti stranieri. Ovviamente non sono presenti sul territorio in forma ufficiale, ma tutti sanno che ci sono, anche gli stessi funzionari del governo. Lavorano nell’educazione e sanità, alcuni sono studenti di lingua vietnamita, altri cooperanti.
Le racconto un aneddoto. Durante l’ultimo conclave, il primo giorno ci sedemmo per cenare e di fronte a me, per puro caso, c’era il futuro papa; alla mia sinistra due cardinali statunitensi, tra cui quello di Chicago, Francis George che, quando seppe che ero vietnamita, mi svelò che due suoi religiosi erano in Vietnam, naturalmente in veste non ufficiale. Risposi che in Vietnam c’erano molti religiosi dall’Europa, Canada, Usa, Australia, Giappone. Solo a Ho Chi Minh Ville ce ne sono almeno 40 in veste non ufficiale. Allora Francis George mi disse: «Penso che la polizia sappia chi siano veramente, ma chiude un occhio». Risposi: «La polizia nel mio paese non chiude mai gli occhi, neppure quando dorme».

Son convinto anche io che il governo sappia che e quanti siano i religiosi «camuffati» in Vietnam. Secondo lei come mai non li espelle?
Perché i tempi sono cambiati e sono cambiati anche i politici. Prima il governo vedeva la chiesa cattolica come un avversario politico e sociale. Oggi, invece, la vede come un partner con cui può cornoperare per costruire il bene del paese.  

Piergiorgio Pescali

scheda biografica

N ato nel 1934 a Hoa Thanh, nella diocesi di Can Tho, nell’estremo sud del Vietnam, Jean-Baptiste Pham Minh Man compie gli studi secondari e la preparazione umana e spirituale nel seminario minore di Pnompenh (Cambogia) dal 1946 al 1954. Quindi viene inviato al seminario maggiore di San Giuseppe di Saigon (oggi Ho Chi Minh Ville) dove studia filosofia (1954-1956). Dopo un periodo di insegnamento nella scuola secondaria, nel 1961 riprende gli studi di teologia nel seminario maggiore di Saigon ed è ordinato sacerdote nel 1965 nella cattedrale di Cân Tho.
Giovane sacerdote insegna presso il seminario minore Beato Quy a Cai Rang (Can Tho), finché il vescovo lo manda, nel 1968, negli Stati Uniti per studiare presso l’Università di Loyola a Los Angeles. Rientrato nel 1971 in Vietnam, riprende l’insegnamento presso il seminario minore Beato Quy, fino al 1974.
Con la fine della guerra Usa-Vietnam (1975), la riunificazione del paese e l’estensione del regime comunista anche al Sud-Vietnam, il governo chiude o confisca alla chiesa strutture e centri per le attività pastorali, educative e caritative, come seminari, scuole, ospedali. In tale situazione, don Jean-Baptiste è incaricato della formazione sacerdotale. Dal 1976 al 1981 i seminaristi vengono formati insieme, secondo le limitate disponibilità di strutture; dal 1981 al 1988 sono distribuiti nelle parrocchie per completare la formazione, almeno dal punto di vista pastorale, con l’aiuto dei parroci e laici. Nel 1988, il governo concede di riaprire sei seminari maggiori in tutto il Vietnam e don Jean-Baptiste Pham viene nominato rettore del seminario di Cai Rang. Un incarico difficile a causa di concrete difficoltà: locali ridotti, mancanza di professori, anche perché dal 1975 nessun sacerdote può essere inviato all’estero per lo studio superiore delle materie ecclesiastiche.
Nel 1993 don Jean-Baptiste Pham è nominato coadiutore, con diritto di successione di mons. André Nguyên Van Nam, vescovo di My Tho. All’ordinazione episcopale sceglie come motto: «Come io vi ho amati». Nel 1996 si reca a Roma per la visita ad limina.
Nel mese di marzo del 1998, mons. Pham viene nominato vescovo di Ho Chi Minh Ville, sede vacante da tre anni. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo eleva alla dignità cardinalizia. Oggi la diocesi da lui guidata conta 316 sacerdoti e 209 parrocchie, 646 mila laici iscritti a 16 grandi associazioni cattoliche.

Benedetto Bellesi


Piergiorgio Pescali




OSPITALITÀ BASE PER LA MISSIONE

Anno paolino

All’epoca di Paolo il viaggiare era diventato meno rischioso e più confortevole che in ogni altra epoca, grazie al sistema stradale e di trasporto marino organizzato dall’impero romano. Ma per viaggiare era importante poter contare sull’ospitalità di parenti o amici nelle varie regioni dell’impero. L’ospitalità non era solo una virtù sociale, ma anche un’istituzione, soprattutto tra gli ebrei e i cristiani.
L’ospitalità cristiana trova i suoi antecedenti nella tradizione dell’antichità. In un’epoca in cui non c’era un’organizzazione alberghiera vera e propria, il nomade poteva spostarsi solo facendo conto di essere accolto benevolmente dalla gente che incontrava nei suoi spostamenti. Anche per i greci e i romani il rispetto per l’ospite era importante.  
Nei vangeli Gesù è spesso presentato come ospite in casa di varie persone, quali il fariseo Simone (Lc 7,36-50), il pubblicano Levi (Mc 2,15-17), gli amici Marta, Maria e Lazzaro (Lc 10,38-42; Gv 12,1-3). Gran parte dell’insegnamento di Gesù e vari suoi miracoli avvengono in case ove Gesù è ospite. L’attività di Gesù si situa nel contesto della casa, ove si svolge la vita concreta di ogni giorno. Gesù è venuto a dare senso alla vita quotidiana, al rapporto feriale tra le persone. La buona notizia è «vangelo» per la casa, la famiglia.
Negli Atti degli Apostoli, il libro della missione, la prima persona a ospitare Paolo fu un certo Giuda di Damasco che abitava nella Via Diritta (At 9,11), un nome rimasto fino a oggi, in arabo, Darb al-Mustaqim. Preparando il viaggio a Damasco, Paolo aveva forse prenotato una stanza in questa casa (At 9,1-3) e Giuda fu probabilmente sorpreso, vedendo arrivare un Paolo diverso da quello che si aspettava, un uomo accecato e umiliato invece del fiero e violento persecutore.
Probabilmente dopo l’arrivo di Anania, che impose le mani su di lui e lo guarì della sua cecità (At 9,17), Paolo venne ospitato in casa di qualche famiglia cristiana di Damasco. In seguito, a Gerusalemme, Paolo fu ospite di Pietro: «Tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro» (Gal 1,18). Ma è soprattutto nella seconda parte di Atti, nei viaggi missionari di Paolo, che incontriamo tutta una serie di persone che ospitano Paolo, rendendo così possibile i suoi spostamenti missionari.

A Filippi in Macedonia, Lidia, la prima donna europea a diventare cristiana, invita Paolo e Sila a casa sua, dicendo loro: «Se siete convinti che ho accolto sinceramente il Signore, siate miei ospiti». E li «costrinse» ad accettare. La casa di Lidia divenne così il centro della comunità cristiana di Filippi. Sarà a questa casa che Paolo e Sila ritoeranno a salutare la comunità dopo essere stati imprigionati e liberati (At 16,40). A Filippi Paolo e Sila furono anche ospiti, per breve tempo, del carceriere romano e della sua famiglia dopo che furono liberati (At 16,34).
A Tessalonica Paolo venne ospitato da un certo Giasone (At 17,5), la cui casa fu assaltata da un gruppo di fanatici giudei che volevano catturare Paolo, accusato di sovvertire il popolo. Non trovando Paolo, prendono Giasone e lo accusano davanti alle autorità cittadine di ospitare dei sobillatori dell’ordine pubblico.  
A Corinto Paolo trovò degli ospiti eccezionali nella coppia Priscilla e Aquila che lo accolsero non solo a casa, ma anche come partner nel loro laboratorio di fabbricatori di tende, poiché anche Paolo faceva lo stesso mestiere (At 18,3). Mentre era ospite a casa di questa coppia, Paolo sentì il Signore rivolgergli queste parole: «Non aver paura, continua a parlare e non tacere: io sono con te; nessuno potrà farti del male. In questa città molti abitanti appartengono già al mio popolo» (At 18,9-10).  
Viaggiando verso Gerusalemme, Paolo e i suoi compagni arrivano a Tiro (80 km dall’attuale Beirut in Libano); «visitammo i discepoli di quella città e rimanemmo con loro una settimana» (At 21,4), rafforzando l’affetto tra Paolo e questa comunità, come testimonia la scena di addio: «Tutta la comunità, comprese donne e bambini, ci accompagnò, finché arrivammo fuori città. Qui ci mettemmo in ginocchio sulla spiaggia a pregare. Poi ci salutammo a vicenda: noi salimmo sulla nave, ed essi ritornarono alle loro case» (At 21,5-6).
Giunti a Tolemaide, «andammo a salutare i cristiani della città, restando con loro un giorno» (At 21,7). Arrivato a Gerusalemme, Paolo fu condotto «da un certo Mnasone, presso il quale trovammo alloggio» (At 21,16).
Molto toccanti le soste di Paolo prigioniero nel viaggio verso Roma, per essere giudicato dal tribunale imperiale. Dopo il naufragio e il soggiorno di tre mesi sull’isola di Malta, il viaggio riprende in nave da Malta a Siracusa, Reggio, Pozzuoli. Qui Paolo e i suoi compagni trovarono alcuni cristiani «i quali ci invitarono a restare una settimana con loro» (At 28,14).

L’apostolo poteva contare sull’ospitalità dei suoi amici.  Scrivendo a Filemone dalla prigione e prevedendo di essere presto messo in libertà, Paolo «prenota» una stanza a casa sua: «Prepara un posto per me, perché spero che le vostre preghiere riescano a farmi tornare in mezzo a voi» (Filem 22).  
Scrivendo ai cristiani di Roma che non conosce, Paolo ha tanta fiducia sulla loro accoglienza e solidarietà che chiede loro non solo di ospitarlo, ma di aiutarlo a preparare il suo viaggio missionario per la Spagna ove spera di andare (Rom 15,23-24).
Stessa fiducia nutre verso i cristiani di Corinto: «Ora passerò dalla Macedonia e poi arriverò da voi. Probabilmente resterò da voi per un po’ di tempo, forse anche tutto l’inverno. Così potrete foirmi i mezzi per proseguire il mio viaggio, qualunque sia la meta» (1Cor 16,5-6; 2Cor 1,16). L’apostolo dà analoghe istruzioni a Tito: «Provvedi con cura al viaggio di Zena, l’avvocato, e di Apollo, fa in modo che non manchino di nulla» (Tit 3,13).
Il verbo greco usato in questi testi è «propempo», che significa «assistere per il viaggio», cioè, provvedere tutto ciò che è necessario per il viaggio: persone che accompagnino, denaro, lettere di raccomandazione, in modo che l’apostolo, ovunque vada, sia sostenuto dalla solidarietà dai fratelli e sorelle di fede.
Ancora una volta la missione appare come impresa comune della comunità cristiana, non impresa solitaria del missionario.

Di Mario Barbero

Mario Barbero




Coraggio e dignità

Tre storie esemplari di umana dignità

Una bambina con handicap, ma intelligentissima, una donna poliomielitica che mantiene i nipotini lasciati da sorelle e fratelli morti di Aids, un ex operaio della Fiat che accudisce la moglie paralitica: tre storie di vita, in cui si dimostra come gli africani sappiano gestire la propria esistenza con ammirevole coraggio e dignità.

L’abbraccio di Sofia

C onosco Sofia Mohamed tramite la mia vulcanica amica, suor Ida Luisa Costamagna. Dodici anni, ultima di cinque figli e orfana di padre, Sofia, come tanti altri, è stata vittima della polio da piccolissima e cammina trascinando il sedere e aiutandosi con le mani. Suor Ida è riuscita, tramite l’aiuto di un benefattore, a pagarle la retta alla Salvation Army di Dar es Salaam, una scuola e centro assistenza per ragazzi con malformazioni alle ossa, ma intelligenti e desiderosi di studiare.
Immersi nei colori di alberi e fiori africani in un momento, siamo avvolte da vivacissimi ragazzi in divisa intenti nelle loro attività. Osservandoli bene, noto che ognuno ha una malformazione. Sofia ci osserva da lontano, ha riconosciuto suor Ida, ma non conosce la persona che è con lei. Pole pole  (piano piano) si avvicina. Suor Ida la coccola, le chiede qualcosa, ma lei risponde a monosillabi. «È una ragazza difficile, parla poco; non ha avuto una vita semplice, ma è molto intelligente» mi dice.
Uno sguardo tagliente mi attraversa… ma è solo paura. Grandi sorrisi mi si avvicinano chiedendomi da dove vengo, come mi chiamo e iniziamo a scherzare. Mi raccontano la loro giornata, le lezioni, i giochi. Vengono da tutto il Tanzania. Suona la campana, è ora di entrare. Salutiamo Sofia, mi chino per baciarla e lei mi avvolge le braccia al collo come volesse aiutarsi a salire in braccio; la tiro su, l’abbraccio, l’accarezzo e l’accompagno in classe. Non parla. Non mi dice niente, ma mi saluta con un accenno di sorriso.

Chiedo a uno dei tanti assistenti se è possibile fare un giro della struttura. Tanti reparti, organizzati e ben tenuti si stringono l’uno accanto all’altro nell’ampia area dove i protagonisti sono i ragazzi e la natura.
Charles Rays, direttore didattico di questa scuola, mi accoglie nel suo ufficio davanti a un mappamondo che sembra aver girato per anni e anni tanto è consumato. «La nostra scuola è nata nel 1967, con il sostegno della Salvation Army inglese, che ha voluto creare in Tanzania una istituzione sul modello di quelle presenti in Gran Bretagna. Inizialmente era un centro di accoglienza per bambini con gravi problemi e malformazioni alle ossa. Nel 1970 si è deciso di costruire nello stesso spazio anche una scuola affinché i ragazzi, che intellettualmente non avevano problemi, potessero ricevere un’istruzione. Nel 1974 la scuola è passata sotto la direzione del governo, che ne ha omologato i programmi scolastici a quelli nazionali, preoccupandosi, inoltre, di foie i maestri che tuttora sono stipendiati dallo stato.
La scuola accoglie più di 200 ragazzi dai 7 ai 16 anni, provenienti da tutto il paese, senza distinzioni sociali, religiose, economiche o etniche. L’unico vincolo è che il loro handicap sia solo fisico e non mentale. Il governo contribuisce a pagare per le vacanze di gennaio e giugno, il viaggio a casa dei ragazzi e degli insegnanti. La Salvation Army, invece, provvede al cibo e vestiario, al personale che lavora nel centro e ad attività come la fisioterapia per i ragazzi».
Nel nutrito programma delle attività leggo che, tre volte alla settimana, l’Inteational School of Tanzania viene a prendere i ragazzi con appositi pulmini per offrire loro altre attività, come pittura, ricamo, nuoto, calcio, basket, pallavolo.
Il direttore mi spiega come sia organizzatissima la giornata. Io quasi mi sorprendo, pensando che sono ragazzi con handicap, mi sembra quasi una violenza. Vederli lì, in carrozzina, senza braccia o gambe, idrocefali… tutti impegnati, che con notevoli sforzi cercano di aiutarsi, di pulire: mi fa pensare. Ma immediatamente giustifico la loro cultura, l’autonomia, la responsabilità e certamente la maturità che loro sviluppano da piccolissimi, rispetto ai loro coetanei europei.
È comunissimo in Africa, veder una bimba di cinque anni che cammina con eleganza portando il fratellino di un anno avvolto in una kanga sulle spalle, con un equilibrio e una naturalezza che nemmeno io a ventisei anni dopo una serie di lezioni potrei mai avere.
«Sveglia alle 6.00, pulizia personale, nella quale ognuno aiuta chi ha più problemi, poi quella del cortile e degli spazi comuni e alle otto meno un quarto tutti in classe. Alle 8.00 arrivano i maestri e iniziano le lezioni. I più piccoli hanno lezione fino alle 12.00, i più grandi fino alle 14.00. Entrambi hanno un intervallo di mezz’ora per bere il tè e giocare. Poi alle 14.00, a tuo, si distribuiscono per il pranzo e per le attività estee» conclude Charles Rays.
Lo saluto facendogli i complimenti per l’organizzazione, la pulizia e la cura della scuola e dei ragazzi. E mi confida che hanno più di 150 richieste d’iscrizione l’anno, ma non possono prendere più di 25 ragazzi. La quota d’iscrizione è di 55 mila scellini il primo anno e 45 mila per gli anni successivi. E una volta finita la settima, che sarebbe la nostra quinta elementare, li indirizzano a due scuole secondarie.

S ono tornata in Tanzania prima di natale e uno dei tanti pensieri era Sofia. Sono andata a trovarla nella sua casa, in un villaggio alla periferia di Dar es Salaam, era nel periodo della vacanza.
Tra galline, pulcini e sabbia ho visto arrivare, trascinandosi con un’agilità pazzesca, Sofia, che mi è letteralmente saltata in braccio e non si è più staccata, accarezzandomi e cercando le mie coccole.
Seduta davanti ai suoi parenti, ci ha raccontato della scuola e attività; e che non vedeva l’ora di tornarci, perché lì a casa sua si annoiava. Avevo già rivisto Sofia prima di questa volta. Ero tornata più volte a salutarla, ma mai aveva parlato o avuto una reazione di felicità così, tanto da farmi balzare il cuore in gola. 


I sorrisi di Doto

Quando mi chiedono come sono i tanzaniani, cosa mi ha colpito tanto da scegliere di fare un «permesso di residenza» per tornare e ritornare in questo posto, il mio pensiero va subito a Doto. Doto è l’esempio della dignità, pacatezza e forza del popolo tanzano.
Un esserino di 50-60 cm; 46 anni, vittima della polio anche lei, ma bellissima. Passa le sue giornate su una stuoia sull’uscio della porta a fare le sue collanine, bracciali e rosari di perline, avvolta dai suoi tanti nipoti. La sorella gemella è morta già da tempo, lasciandole in eredità una squadra di bambini. E Doto, senza preoccuparsi della sua menomazione, ha pensato a un lavoro per mantenere la famiglia e mandare a scuola i nipoti. Ha imparato da sola, provando, sbagliando e riprovando a fare queste collanine e rosari, nonostante fosse musulmana e a ricamare all’uncinetto.
Quando suor Ida me ne ha parlato e mi ha fatto vedere quello che faceva, non riuscivo a immaginare la gravità della situazione, e la prima volta che l’ho vista, non riuscendo nemmeno a darle la mano bene, per via delle ossa menomate, non credevo che quelle dita affusolate avessero una tale forza.
Doto ha solo l’uso delle dita, ma non della mano; quindi, facendo forza con la mano contro il viso, muove le dita e infila con agilità le perline nei fili. È indescrivibile come riesce.
Ha voluto aprire un conto in banca, dove depositare il ricavato delle sue vendite, e ha investito i soldi comprando piccoli plot che affitta come duka (negozi).
Vive con la mamma anziana, i nipoti e il marito. Quando ci ha parlato del marito quasi avevamo gli occhi di fuori dalle orbite; ma lei immediatamente: «Perché non sono una donna io?». Il marito la prende, la sposta, la alza, la cura con un’attenzione estrema. E questo non può che essere amore. Quando parlano l’uno dell’altro hanno gli occhi che splendono come due adolescenti alla prima cotta.
All’inizio, venendo dalla realtà egoistica e falsa del nostro mondo che abbiamo inevitabilmente interiorizzato, non mi fidavo di lui: pensavo che volesse approfittarsi di quei pochi scellini, invece mi è bastato vederli insieme per capire che ero proprio fuori strada.
È il solito discorso: noi abbiamo tutto, ma non siamo mai contenti fino in fondo, raggiungiamo un traguardo e siamo già al prossimo perdendo di vista la vita vera. E finché non si sbatte davanti a quella che è la realtà quotidiana della vita concreta, semplice, africana, non lo si può capire.
Questo invidio anche dei missionari! Oltre alla loro fede profonda, che riesce ad aiutarli e sostenerli in tutto, vivono la giornata piena di emozioni e piccole cose che magari possono sembrare superficiali, poi diventano il senso della giornata. Un sorriso, una risata, uno sguardo, una condivisione di vita, una soda offerta da chi poi farà economia per settimane, ma te l’ha data con il cuore.
Questa è vita! Noi corriamo corriamo tra gente sempre più triste, tra sguardi truci, lamentele per i politici, per le bollette e quando si incontra un sorriso magari non si ha nemmeno il tempo di notarlo. 
In tanto tempo che conosco Doto mai l’ho vista triste o scoraggiata. L’ho vista malata, parlarmi dei tanti problemi; non hanno la luce in casa; lei è preoccupata, perché inizia a non vedere bene, ha due cataratte, il marito non ha un lavoro fisso, ma il suo sorriso non si spegne mai. È la cosa che arriva prima di tutto. Crede fermamente nel suo Allah, lo prega e lo ringrazia continuamente anche del niente che ha.
Non mi ha mai chiesto nulla. Anzi, quando le ho detto che volevo aiutarla, non ha mai pensato a se stessa, tipo una carrozzina nuova, gli occhiali da vista, ma piuttosto qualcosa che potesse essere d’aiuto per far lavorare il marito, per farlo realizzare, oppure delle stampelle per i genitori del marito, massacrati di botte da dei ladri, entrati in casa per rubare il ricavato della vendita di un campo. 

I tesori di Said
«K ulia, kulia» (a destra, destra) ci ripete Yoseph. Dopo una mezz’ora di strade sterrate: alberi, sabbia, salite, discese, buche e pantani, terminiamo il nostro rally nel bel mezzo di un panorama mozzafiato. Camminiamo per un po’ a piedi e arriviamo alla meta. Una casa ancora tutta da finire, ma lo scheletro in cemento e i mabati (lastre zincate) sul tetto sono sufficienti per viverci.
Due occhi vivaci, in un corpo esile ci accolgono con un «buon pomeriggio». È Daudi Said Ndera, sessantenne. Iniziamo a parlare e ci racconta che la moglie, più giovane di lui, è paralizzata dalla vita in giù da più di tre anni. Sono così lontani dalla strada asfaltata che anche portarla in ospedale è sempre stata un’impresa. Non possono permettersi un taxi che la porti all’ospedale.
Daudi ha una piccola shamba (campo) che li aiuta a vivere e mangiare. La moglie seduta sul pavimento sgrana una manciata di fagioli che accompagneranno l’ugali (polenta) e Daudi con il nipotino, che mi scruta attraverso le sue gambe, ci dice di conoscere l’Italia.
È meccanico specializzato e ha sempre lavorato nel settore fino a una decina di anni fa. Era un operaio della Fiat, che aveva una sua sede in Tanzania; e quando questa è stata chiusa, lui si è ritrovato disoccupato, ma con una buona liquidazione da parte dell’azienda.
Sorpresa, gli chiedo di raccontarmi meglio e torna dopo qualche minuto con un passaporto, un attestato e un biglietto aereo Alitalia, Dar es Salaam-Torino andata e ritorno. Ha conservato tutto.
Nel 1975 la Incar Tanzania Ltd, pare di proprietà della Fiat, lo ha mandato nella sua sede di Torino per un corso di istruzione e specializzazione per la produzione di autovetture. Ha dovuto quindi fare il passaporto e dal 9 giugno al 21 luglio 1975 è stato a fare il suo corso a Torino, ovviamente viaggio, vitto e alloggio pagati dall’azienda.
Sfoglio le pagine di un passaporto tenuto con la cura e l’attenzione di un tesoro, dove gli unici timbri sono quelli di andata e ritorno del suo viaggio Tanzania-Italia. Ricorda tutto. Lo stupore di una Torino illuminatissima, i tram e gli italiani così gentili. I colleghi lo hanno accolto talmente bene che lo hanno portato a visitare anche Milano e Bologna. È venuto con una decina di altri operai tanzani.
Credo dovesse essere davvero capace come meccanico. Ha lavorato per una ventina di anni con la Fiat e non ci risparmia i dettagli. Gli brillano gli occhi quando parla del direttore e del capo-reparto, cosa che mi sembra alquanto strana, abituata agli attuali stati d’animo degli operai italiani. Purtroppo una decina di anni fa, la Fiat ha dovuto chiudere i battenti, ma ha liquidato bene tutti i suoi operai. E Daudi con la liquidazione ha comperato un bel pezzo di terra e ha costruito la sua casa che, rispetto alla media, è molto grande e in cemento.
Ne deduco, quindi, che la liquidazione sia stata davvero proporzionata ai suoi anni di lavoro. Non posso che essee orgogliosa da italiana, finalmente un’azienda che, seppure lavorava in una realtà estremamente povera e difficile, non se n’è approfittata, ma ha trattato i suoi operai alla stregua di quelli italiani… e questa è davvero una cosa rara in Tanzania e nell’Africa in generale. In Italia tutti conosciamo la Fiat e, seppure attualmente ha molti problemi così come i suoi operai, si è sempre distinta per l’eleganza e la serietà nel trattare gli operai.
Ora Daudi non ha un lavoro fisso perché costretto a seguire costantemente la moglie paralizzata. Vivono lontani dal villaggio, ai nostri occhi quasi in un posto turistico, a 20 km dal mare e in una zona dove ci sono solo lotti di terreno con villette di ricchi.
Il figlio l’anno scorso gli ha riportato un bimbo, nato da una storia con una ragazza che poi se n’è andata, lasciandogli il piccolo appena nato: un altro fagottino che non vuole mai lasciare le gambe del nonno.
Daudi sta cercando di vendere la casa, per mettere da parte un po’ di soldi che gli permettano di vivere tranquilli per qualche anno e far curare la moglie. «Quando ero giovane il mio sogno era costruire una grande casa, dove vivere con mia moglie e i miei figli. Ora, preferirei vivere in una casa di fango, ma vedere mia moglie felice e attiva come una volta, ci dice».
Mi riprende con delicatezza dalle mie mani i suoi tesori che continuerà a conservare e a far vedere orgoglioso e io non posso che salutarlo con un «Arrivederci!», promettendogli di tornare a trovarlo. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




Nella terra dei lemuri

La «grande isola rossa», panorama storico (prima parte)

Un paese del tutto originale il Madagascar, sia per l’origine geologica, eccezionale biodiversità, unicità di specie animali, come i lemuri, primati progenitori delle scimmie, sia per le caratteristiche etniche dei suoi abitanti. L’isolamento millenario ha fatto sì che un cocktail di razze formasse un popolo unico e originale, con tratti fisici, lingua, cultura e storia che hanno seguito una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Il Madagascar è stato per molto tempo un’isola quasi sconosciuta. Separatasi dall’Africa a causa della deriva dei continenti, raggiunse l’attuale posizione al largo delle coste del  Mozambico pressappoco 100 milioni di anni or sono. Intoo a questo stesso periodo la metà orientale dell’isola si divise nuovamente, spostandosi verso nord-est per formare quella che oggi è l’India.
Vasto due volte l’Italia, il Madagascar è la quarta isola più grande della terra, dopo Groenlandia, Nuova Guinea e Boeo in Indonesia. Le terre dei suoi altipiani centrali sono formate da terreni argillosi di colore rosso. Per questo motivo il Madagascar è stato soprannominato «la grande isola rossa».

VENUTI DALL’ORIENTE
Le prime e più antiche tribù che popolarono il Madagascar provenivano dall’Oriente. Naturalmente le loro origini sono avvolte nel mistero. Se ne parla solo nelle leggende. La maggior parte degli attuali malgasci, invece, è giunta nell’isola in tempi relativamente recenti, non più di duemila anni or sono, proveniente da Indonesia e Malaysia.
Non si conoscono le modalità di tale migrazione, ma la teoria più accreditata, fondata su elementi antropologici ed etnografici, suppone che le popolazioni indonesiane abbiano colonizzato l’isola con un’unica massiccia migrazione e che nel corso di tale migrazione abbiano effettuato tappe intermedie lungo le coste dell’Oceano Indiano.
Prova di tale teoria, oltre alla lingua malgascia, che conserva alcune caratteristiche del sanscrito, è la diffusione delle imbarcazioni a vela di tipo indonesiano lungo le rive settentrionali dell’Oceano Indiano; imbarcazioni adatte alla navigazione sotto costa. Si suppone che i malgasci abbiano costeggiato l’India, Arabia e Africa orientale, favorendo così rapporti commerciali e incontri culturali e linguistici, come nel caso del sanscrito, la lingua dell’India arcaica.
Arrivati sull’isola, le tribù malgasce, suddivise in una serie di regni minori, vi introdussero la coltivazione di prodotti tipici del sud-est asiatico, come il riso. Ancora oggi i terrazzamenti agricoli, occupati dalle risaie, assomigliano di più al tipico paesaggio dei paesi orientali che non a quello del vicino continente africano. Mangiare il riso tre volte al giorno è cosa normale per un malgascio e la crescita di una piantina di riso è descritta con gli stessi termini usati per la gravidanza e parto della donna.
Il riso viene normalmente accompagnato da uno stufato di carne di zebù, di pollo o di anatra e da verdure con l’aggiunta di spezie o radici ricche di amido, come la manioca. L’alternativa al riso è una ciotola di tagliolini fritti con verdure o carne, oppure la sostanziosa «zuppa cinese» con tagliolini, pesce, pollo e verdure: due piatti che, insieme al riso, indicano le origini asiatiche dei malgasci.
Nel corso degli anni lo stile di vita asiatica si è alquanto attenuato in seguito ai contatti con i mercanti arabi e africani che solcavano i mari con il loro carico di seta, spezie e schiavi. La regione che ha assimilato maggiormente la cultura e i costumi africani è quella del Madagascar occidentale, separata dall’Africa dal canale di Mozambico. La regione più cosmopolita dell’isola è invece quella settentrionale. Comprende discendenti di marinai arabi, mercanti indiani e schiavi africani, oltre a una consistente comunità di francesi (ora anche di italiani) e all’etnia locale degli antakàrana.
situazione femminile
Il fatto che, nella lingua malgascia, all’origine delle parole non ci sia né maschile né femminile (vedi riquadro) potrebbe aver condizionato anche i rapporti tra uomo e donna. Quella malgascia è una società piuttosto emancipata, specialmente in ambito femminile: la donna è la forza dinamica della società e occupa nella sfera domestica la posizione predominante.
Il matrimonio è in Madagascar un’istituzione non troppo rigida: divorzi e separazioni sono frequenti. I figli vengono considerati lo scopo principale del matrimonio e nessuna donna vorrebbe restae priva, anche se non sposata e giovanissima. Sono ritenuti garanzia di felicità e sicurezza e le giovani madri non hanno paura di allevarli anche da sole. Lo fanno con coraggio e amore.
I rapporti tra uomo e donna sono comunque sempre accompagnati da cortesia reciproca e da riservatezza. Sollevare problemi personali è considerato una mancanza di tatto, anche con le persone più care. Allo stesso modo si evitano domande e argomenti indiscreti.
Naturalmente la situazione della donna varia a seconda della classe sociale cui appartiene. Nelle famiglie ricche, o con un buon reddito, la sua posizione è abbastanza simile a quella della donna occidentale. I compiti sono più o meno divisi in egual misura tra marito e moglie.  Nelle famiglie povere, che vivono di agricoltura o di pesca, la donna è invece costretta a sacrificarsi per il bene della numerosa famiglia. Pulizia della casa, bucato, vendita o compera dei prodotti del campo o dell’artigianato domestico le appartengono. In questo non mancano di abilità e di creatività.
Ma anche tale situazione è destinata a cambiare. L’alta scolarizzazione femminile sta trasformando la società malgascia. Le decisioni più importanti sono ancora prese dagli uomini, ma ormai esistono donne-ministro, deputate e senatrici. Esse sono numerose specialmente nelle piccole aziende, nel commercio, nell’amministrazione pubblica e nella magistratura. Del resto già da molto tempo le donne avevano diritto a partecipare alle Fokonolona, le assemblee comunitarie e i luoghi delle pubbliche decisioni.
Re e regine
Al contrario di quanto avvenne per molto tempo in Europa o in altre parti del mondo, dove la storia enumera molti re e poche regine, in Madagascar il rapporto fu rovesciato, almeno per un certo periodo. Della dinastia dei Merina, l’etnia degli altipiani centrali che unificò i regni tribali malgasci, regnarono tre re e quattro regine.
A partire infatti dal Settecento fino al 1895, quando i francesi occuparono l’isola e mandarono in esilio l’ultima regina, al re Andrianampoinimerina (1787-1810) successe il figlio Radama I (1810-1828), che continuò la politica unificatrice del padre e aprì l’isola all’Occidente.
Alla sua morte salì sul trono la vedova Ranavalona I (1828-1861). Nei suoi 33 anni di regno lottò con decisione contro ogni tentativo d’invasione europea dell’isola, al fine di preservare e proteggere l’ordine tradizionale della società malgascia e i costumi degli antenati.
Alla sua morte, nel 1861, divenne re il figlio, Radama II (1861-1863), il quale inaugurò una politica totalmente differente da quella della madre: aprì l’isola ai commercianti europei e ai missionari protestanti e cattolici. Ma provvedimenti contro determinati privilegi e un grave contrasto con il primo ministro Raharo ne segnarono la fine: dopo appena due anni di regno, il re fu assassinato da una congiura di palazzo, strangolato con una corda di seta, perché lo spargimento di sangue reale era considerato fady (tabù).
La vedova Rabodo, diventata regina con il nome di Rasoherina I (1863-1868), lasciò l’amministrazione del regno nelle mani del primo ministro Rainilaiarivony, il quale goveò l’isola anche sotto Ranavalona II (1868-1883), che egli sposò, e sotto Ranavalona III (1883-1895), l’ultima regina, esiliata dai francesi ad Algeri e morta nel 1917.
Ancora oggi re e regine, che avviarono la modeizzazione dello stato e della società malgascia e furono riconosciuti anche dalle potenze occidentali, sono considerati sacri dal popolo malgascio, insieme ai loro palazzi e alle loro tombe, e come tali ritenuti simbolo di unità nazionale.

COLONIA FRANCESE
Nel 1883 navi da guerra francesi attaccarono il Madagascar, occupandone i principali porti e costringendo il governo a firmare un trattato che dichiarava l’isola protettorato francese. La regina Ranavalona III si rifiutò di abdicare. I francesi allora le dichiararono guerra e circondarono la capitale Antananarivo. L’esercito malgascio, guidato da un ufficiale dell’artiglieria inglese, il maggiore John Graves, resistette nove mesi, ma alla fine dovette capitolare. Il 6 agosto 1896 il Madagascar fu ufficialmente dichiarato colonia francese.
Primo governatore dell’isola fu il generale Joseph Gallieni. Egli cercò di escludere dal potere l’aristocrazia merina, soppresse la lingua malgascia e dichiarò il francese lingua ufficiale. La schiavitù fu nominalmente abolita, ma venne sostituita da un sistema di tassazione altrettanto oppressivo e oneroso, che costringeva ai lavori forzati chiunque non fosse in grado di pagare.
Agli uomini fu imposta una corvée di 30 giorni di lavoro gratuito per la costruzione di strade, fabbriche e industrie alimentari e tessili. La terra venne espropriata a vantaggio di società e coloni stranieri, che svilupparono un’economia di esportazione di caffè, coltivato lungo i versanti collinari prospicienti l’Oceano Indiano, di vaniglia, diffusa in tutta la pianura costiera orientale, canna da zucchero, cotone, spezie, legname delle foreste tropicali, minerali e pietre preziose.
Con l’affermarsi del colonialismo l’isola fu anche dotata di infrastrutture modee: scuole, strade, ospedali, mezzi di comunicazione, come ferrovia, poste, auto e camion, indispensabili su un territorio vasto quasi due volte l’Italia, per di più tormentato da catene montuose scoscese anche se non altissime, da rocce calcaree erose e appuntite e da numerose foreste pluviali, dove vive una caratteristica fauna, come i lemuri, di cui esistono circa 50 specie, alcune delle quali dotate di una straordinaria abilità acrobatica.
Con l’affermarsi dell’istruzione crebbe e si consolidò una nuova élite malgascia e si affermarono alcuni movimenti nazionalisti. Nel 1913 i giovani malgasci fondarono una società segreta, denominata Vy Vato Sakelika (ferro, pietra, ramificazione). Nel 1920 il movimento anticolonialista trovò nella figura carismatica di un avvocato, Jean Ralaimongo, il suo capo. Dopo numerosi scioperi di protesta, nel 1930 venne fondato anche il sindacato. Subito dopo la seconda guerra mondiale in tutto il Madagascar si risvegliarono forti sentimenti nazionalisti, che culminarono nella ribellione del marzo 1947, guidata da Joseph Raseta e Joseph Ravoahangy, nel corso della quale persero la vita 80 mila malgasci.
L’indipendenza
Il Madagascar divenne indipendente nel 1960 e il capo del partito nazionalista, Philibert Tsiranana, fu eletto presidente. Durante il suo mandato i francesi continuarono a controllare il commercio e le istituzioni finanziarie, nonché le basi militari. I legami del governo con la Francia, uniti a un periodo di recessione economica, contribuirono a far crescere l’impopolarità di Tsiranana. La repressione brutale di una insurrezione nella parte meridionale dell’isola, la più povera, seguita da una rivolta antigovernativa nella capitale, costrinse Tsiranana a dimettersi (1972), cedendo il potere al comandante in capo del suo esercito, il generale Gabriel Ramantsoa, che fu a sua volta sostituito nel 1975 dal colonnello Richard Ratsimandrava, assassinato dopo appena una settimana di governo.
Finalmente arrivò al potere un altro militare, l’ammiraglio Didier Ratsiraka, ex ministro degli esteri, che cercò di attuare riforme radicali, politiche e sociali, improntate allo stile delle nazioni del blocco sovietico, in particolare della Cina comunista e della Corea del Nord. Arrivò perfino a proibire nelle scuole l’insegnamento delle lingue francese e inglese, per impedire qualsiasi contatto con l’Occidente, e sull’esempio di Mao Tsetung si dedicò alla stesura di un «libro rosso» delle teorie e della prassi di governo.
Alla fine dell’ottobre 1991 governo e opposizione firmarono un accordo per preparare il terreno alle elezioni e alla nascita di quella che fu definita la «terza repubblica». Nonostante ciò, Ratsiraka si rifiutò di lasciare le redini del potere. Il periodo che precedette la prima tornata di elezioni fu caratterizzato da disordini, che culminarono nel blocco della capitale e nel bombardamento di un ponte ferroviario che univa Antananarivo a Toamasina, il più importante porto del Madagascar.
Per settimane e settimane la capitale rimase senza benzina e la rete dei trasporti subì danni devastanti. Ancora oggi, come conseguenza di quel blocco, la ferrovia a scartamento ridotto non funziona. Il trasporto di derrate, benzina e container avviene su camion, lungo una strada di 350 e più chilometri, che collega la capitale al porto di Toamasina, tutta curve, salite e discese, vero cimitero di incidenti stradali e di camion in panne.
Alle elezioni del 1993 risultò eletto il professore Albert Zafy, candidato dell’opposizione, mettendo fine ai 17 anni di governo in puro stile comunista di Ratsiraka. Zafy cercò di far decollare l’economia del paese, ma, accusato di riciclaggio di denaro, rapporti con i narcotrafficanti e abuso di potere, fu costretto a dimettersi. Alle nuove elezioni presidenziali Ratsiraka, dopo aver trascorso 19 mesi in esilio in Francia, si ripresentò e tra lo sconcerto generale, compreso quello degli osservatori inteazionali, vinse le elezioni di stretta misura e nel febbraio del 1997 accettò l’incarico.

BRACCIO DI FERRO
Nel 2002, dopo essere stato al potere per quasi 27 anni, Ratsiraka fu spodestato dal magnate dello yogurt Marc Ravalomanana. Questi aveva iniziato la sua carriera imprenditoriale girando in bicicletta per le vie della città a commercializzare il suo prodotto fatto in casa.
Quando nel 1999 entrò in politica per diventare sindaco di Antananarivo, la sua azienda, la Tiko, era la più importante produttrice di latticini del paese. Candidatosi alle elezioni presidenziali del dicembre 2001, basò la sua campagna elettorale sulla promessa di un rapido sviluppo economico, grazie alle sue capacità imprenditoriali, che avrebbero dovuto richiamare gli investimenti stranieri, combattere la povertà e ripristinare le infrastrutture del paese, ridotte in pessime condizioni. Il neopresidente promise inoltre di estirpare la corruzione politica, dilagante sotto il governo di Ratsiraka.
La vittoria elettorale, se pur risicata, andò a Ravalomanana; ma Ratsiraka pretendeva di essere il vincitore e accusava l’avversario di brogli elettorali. Seguirono sei mesi di lotta per il potere. Ratsiraka alla fine dichiarò lo stato di emergenza, impose la legge marziale e proclamò Toamasina capitale. In questo modo, asserragliato con i suoi sostenitori a Toamasina, estremamente importante a motivo del suo porto, bloccò le vie di accesso alla capitale per impedire i rifoimenti di carburante e di  medicine.
Nell’aprile del 2002 l’Alta Corte Costituzionale del Madagascar dichiarò Ravalomanana legittimo vincitore. Ratsiraka continuò a non accettare la sconfitta e diede ordine ai suoi sostenitori di far saltare in aria i piloni della corrente elettrica, facendo così piombare nel buio la capitale.
Alla fine le Nazioni Unite riconobbero il governo di Ravalomanana. Ratsiraka fuggì in Francia, protetto dal presidente francese, nonostante che un tribunale malgascio lo avesse condannato a 10 anni di lavori forzati per appropriazione indebita di fondi pubblici.
Alle elezioni del 2006, Ravalomanana è stato rieletto per un secondo mandato presidenziale, grazie all’influenza della sua televisione più che ai benefici portati alla popolazione durante la sua presidenza. È vero che negli ultimi anni l’economia malgascia è decollata, grazie alla remissione del debito estero, alle privatizzazioni e investimenti stranieri attirati dalle inesplorate risorse del sottosuolo (nichel, cobalto, bauxite, petrolio); ma di tale crescita non hanno affatto beneficiato vasti strati della popolazione e il Madagascar continua a essere tra i paesi più poveri del mondo.
Le risorse statali sono state mobilitate a vantaggio delle imprese private, soprattutto della Tiko che, nata come industria casearia, è diventata la più grande impresa alimentare e ha esteso le sue ramificazioni nell’edilizia, nella finanza, nell’agricoltura, nella stampa e televisione. Un complesso di «affari» a scapito dei servizi pubblici e sociali. L’immobilità statale ha provocato lo scontento della popolazione e costretto alcune organizzazioni umanitarie non governative, tra cui i Medici senza frontiere,  ad abbandonare il paese.
Sul malcontento popolare, alimentato anche dalla crisi internazionale e conseguente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, ha soffiato il capo dell’opposizione politica, il sindaco di Antananarivo, Andry Rajoelina, 34 anni, soprannominato Tgv (treno superveloce) per il suo decisionismo.
Dalle tensioni si è passati allo scontro aperto nel mese di dicembre, quando il governo ha chiuso l’emittente televisiva del sindaco, Viva Tv, perché aveva diffuso un’intervista dell’ex presidente in esilio Didier Ratsiraka. Rajoelina ha chiamato il popolo a raccolta contro Ravalomanana, accusandolo di cattiva gestione del patrimonio pubblico.
Il 26 gennaio, rispondendo all’appello del sindaco, una grande folla si è riversata per le vie della capitale; ma la manifestazione è degenerata in saccheggi e devastazioni di negozi, supermercati, uffici pubblici; in tali disordini sono morte almeno 68 persone (oltre 100 secondo l’ambasciata americana), tra cui un bambino ucciso dalla polizia.
Si è innescata una reazione a catena: il sindaco ha continuato a chiamare in piazza i suoi sostenitori, fino a chiedere la destituzione del presidente e la formazione di un governo di transizione; Ravalomanana ha risposto inviando la sua guardia presidenziale contro i manifestanti e il 3 febbraio ha destituito il sindaco dalla sua carica.
Nonostante gli appelli delle istituzioni inteazionali, è continuato il braccio di ferro tra i due contendenti con proteste di piazza e repressioni, come quella del 7 febbraio, dove gli spari ad altezza d’uomo hanno causato altri 40 morti e 350 feriti.
A ristabilire «l’ordine» è intervenuto l’esercito: il 15 marzo, un centinaio di militari hanno assediato con i carri armati il palazzo presidenziale, chiedendo le dimissioni di Ravalomanana. Dopo un velleitario tentativo di resistenza, senza spargimento di sangue, il 17 marzo il presidente ha rassegnato il potere a un gruppo di alti ufficiali che, a loro volta lo hanno rimesso nelle mani di Rajoelina e la Corte Costituzionale lo ha subito riconosciuto nella nuova carica.
Il neo presidente si è affrettato ad assumere l’incarico e nel suo primo discorso, il 18 marzo, ha promesso di promuovere la riconciliazione, combattere la povertà e indire nuove elezioni entro 24 mesi. Se sono rose fioriranno… tra due anni. 

Di Giampietro Casiraghi


Giampiero Casiraghi