Perù, «come stai»?

Un breve racconto dal paese latinoamericano

In questi mesi, il paese andino è stato sulle prime pagine a causa della durissima repressione del presidente Alan García contro le popolazioni amazzoniche insorte a difesa dei propri territori. In questo racconto di Wilfredo Ardito, una classe di bambini peruviani parla del proprio paese e dei suoi problemi. Con una sorpresa finale…

«José Gabriel lascia il computer che adesso arriva l’autobus e non hai fatto ancora colazione!», disse la mamma, mentre apriva il microonde per servire il succo di arancia che aveva riscaldato. 
«Mamma, soltanto un momento, che sto per battere il mio amico tibetano!».
«Ma lascialo stare!  Lo sai che a quest’ora lui va a letto!».
José Gabriel ingurgitò la colazione in fretta e furia. Un momento dopo suonò il campanello, che il papà aveva programmato con la musica di Star Trek. Si avvolse nella giacca termica acquistata al Saga Falabella di Sicuani (1):  fuori c’erano sei gradi sotto zero. Si mise il cappello di alpaca e, dopo aver salutato la mamma, corse al pullman.
 «Allinllachu?» (2), disse  l’autista, Richard Quispe.  Quando nacque lui, nei primi anni del secolo XXI, ancora erano di moda fra i contadini i nomi in inglese. 
 L’autobus continuò per la strada in mezzo alla puna (3), fermandosi presso altre case per fare salire i figli dei contadini. 

Siccome era ancora presto, José Gabriel ebbe tempo per giocare una partita di basketball nel ginnasio e lavarsi la faccia con acqua calda prima della lezione iniziale.
Nell’aula  appese la sua giacca all’attaccapanni, che si trovava a un’altezza adeguata per bambini di 8 anni. 
Fra tutte le facce andine dei suoi compagni si staccavano due bambini bianchi, che erano venuti da Lima per un programma di intercambio. Così potevano migliorare il loro quechua e anche approfittare di due o tre mesi di sole, nel periodo in cui sulla costa il cielo è sempre coperto.
La prima lezione era Storia peruviana.  Parlando in quechua, l’insegnante ricordò ai bambini il loro compito:  «Avete fatto la ricerca sulla vita al tempo dei vostri genitori?».
«La mia mamma ha detto che a quel tempo non c’era il riscaldamento», disse José Gabriel.
«Neppure energia elettrica o solare», disse Kusi, che sedeva accanto a lui.
«Non c’erano bagni nelle case», aggiunse Cahuide.
«Ne autocarri che portavano via la spazzatura», precisò Ollanta.
«Ma che schifo!», esclamò la piccola Chaska, con una espressione tanto disgustata, che tutti gli altri scoppiarono in una risata.
«Tutto questo è vero, bambini – spiegò la maestra -. La vita era molto difficile a quei tempi…  Ma tutti i peruviani soffrivano tanto?».
«No, assolutamente – rispose Inti, il più bravo della classe -. A Lima e in altre città della costa c’era gente che viveva molto meglio.  Alcuni avevano in casa anche la donna di servizio proveniente dalla sierra e che veniva trattata molto male». 
«Sì, quelle donne dovevano sempre chiamare i padroni “señor” o “joven” e parlare sempre con “usted”», aggiunse José Gabriel, usando quelle parole in spagnolo. 
 «Io sono andato al “Museo della segregazione” alla spiaggia di Asia (4) ed era molto interessante», intervenne Sinchi, uno dei bambini di Lima, pronunciando con precisione i suoni più difficili della lingua quechua. 
«I  visitanti dovevano mettersi addosso dei grembiuli bianchi o blu per poter capire come lavoravano le donne di servizio». 

Tutti i bambini si misero a chiacchierare sull’ ultima volta che erano andati in vacanza al mare, a Asia, Camanà o Paracas. Finché l’insegnante chiese loro di tornare attenti:   «E i vostri genitori vi hanno raccontato come erano le scuole?».
«Non c’era acqua calda o carta igienica nei bagni», disse Ollanta.  
«A volte non c’erano i bagni», aggiunse Ayar.
«I miei dicono che dovevano camminare parecchie ore per arrivare alla scuola, ma deve essere una bugia.  Sarebbero morti con tanto freddo!», borbottò Huáscar.
«Anche i miei hanno detto questo», disse Kusi, sorpresa. E aggiunse: «Ma,  è vero che non c’era l’autobus della scuola?». 
«Se questo è vero, erano proprio scemi! – esclamò Cahuide -. Invece di camminare potevano rimanere in casa a seguire le lezioni collegati ad internet».
«Non c’era internet nelle case a quel tempo!», si burlò Inti. Seguì una risata generale.
«Una domanda, maestra – intervenne Micarnela, la bambina limeña -. Ho sentito dire che a quel tempo c’erano delle “scuole private”.  Cos’erano?».
«Erano scuole dove le famiglie con più danaro pagavano per dare ai loro figli una migliore educazione – spiegò l’insegnante -. A quei tempi si doveva pagare per molte cose, anche per le medicine in ospedale». 
Ogni volta che arrivava a questa parte della spiegazione, la maestra sapeva che nella classe sarebbe calato il silenzio e che tutti i bambini sarebbero rimasti a bocca aperta. 
Nessuno voleva dire quello che tutti pensavano. Dopo alcuni minuti, Cahuide ebbe il coraggio di parlare:  «… E per chi non aveva i soldi, cosa succedeva?».

Non c’era bisogno di risposta.  Tutti avevano capito. «Quello che io non riesco a capire – disse José Gabriel -, è perché a Lima si sprecava tanto danaro in cose che non servivano a niente, ma a quella gente non interessava che qui i contadini morivano di fame o di freddo». 
«Signorina, come mai le cose cambiarono?», chiese Kusi.
«Perché adesso tutti ci trattano come esseri umani?», continuò Huáscar. 
«Cosa successe?», insistette Cahuide.
«Ma perché piange?», domandò Chaska, vedendo che una lacrima scendeva lungo la guancia della maestra. 
«Bambini, piango perché ricordo tutto quello che soffrivamo senza che a nessuno importasse».
O forse la maestra piangeva, perché lei e i suoi bambini sono soltanto parte di un racconto di un Perù del futuro, che non si sa quando potrà tradursi in realtà.  

Di Wilfredo Ardito

Note:
(1) Saga Falabella, di proprietà cilena, è uno dei principali negozi di vestiti di Lima, con prezzi molto elevati.  Vende anche i prodotti di Benetton. Sicuani è una piccola città delle Ande, molto lontana da questo tipo di negozi.
(2) «Stai bene?», in lingua quechua.
(3) La puna è la parte più fredda delle Ande, ma dove ancora è possibile abitare, fino a 4.000 metri di altitudine.
(4) Asia è una città di villeggiatura, 100 chilometri a sud di Lima, dove oggi vanno soltanto i peruviani più ricchi, quasi tutti bianchi.  Ad Asia, è vietato (!) alle donne di servizio accedere al mare. Di solito, i bambini delle Ande non conoscono il mare.

Wilfredo Ardito




La resistenza degli «uomini di mais»

Latifondisti e speculatori contro gli indigeni

Nello stato di Morelos, che diede i natali a Emiliano Zapata, gli indigeni nahua, eredi degli aztechi, lottano per la terra e l’acqua da cui dipende la loro stessa esistenza. Gli usurpatori di oggi sono imprenditori che, con l’appoggio delle istituzioni, comprano la terra per fae centri commerciali, villaggi di casette a schiera, campi da golf. Un ecocidio e un desplazamento cui gli indigeni hanno risposto unendo le forze nel «Consiglio dei popoli per la difesa dell’acqua, dell’aria e della terra». Una lotta difficile, ma carica di significati. Anche per noi.

Lo stato di Morelos dista un centinaio di chilometri da Città del Messico. È uno degli stati più piccoli del paese, con i suoi due milioni di abitanti.
Qui, l’8 agosto del 1883 – o forse nel ’73 – nacque Emiliano Zapata, a San Miguel Villa de Ayala. Fu proprio dalla sua terra, da questi spazi larghi che alternano deserto a foreste, che meno di trent’anni dopo – o meno di quaranta, a seconda –  Zapata, divenuto generale, fece partire la rivoluzione agraria, che distribuiva terre ai contadini e attaccava al cuore il latifondismo asservito al dittatore Porfirio Diaz. Era il 1910.
Un secolo dopo a Morelos si stanno ricostituendo i latifondi contro i quali aveva lottato Emiliano Zapata. Questa volta la mano è quella delle immobiliarie e dei ricchi imprenditori, avallati dalle istituzioni locali e statali.
La politica di stampo dichiaratamente neoliberista del  presidente conservatore – del «Partito di Azione nazionale» (Pan) – Felipe Calderon, ha dato carta bianca ai governatori del Morelos, che oggi sono Marco Adame Castillo e Jesús Giles. Essi e il sistema che rappresentano, stanno smembrando e vendendo a quarti alla macelleria del mercato questa terra di rivoluzionari, abitata per larga parte da popolazioni indigene. Le nuove frontiere della ricchezza non sono più i grandi appezzamenti agricoli dove venivano a schiavizzare i peones per massimizzare guadagno e rendimento. Più sguaiatamente, la terra di Zapata oggi serve a fare campi da golf, centri commerciali, migliaia di casette a schiera dai colori pastello e dai muri di cartone, per allettare i vicini cittadini col sogno della casa full confort poco fuori dalla metropoli. Chi abita da sempre questi territori non è consultato né rispettato. Così come non lo è il fragile equilibrio naturale di uno degli ultimi ecosistemi integri della regione. Uno sfruttamento selvaggio – un ecocidio – che sta avvelenando falde acquifere ed uccidendo specie animali. E che prevede il violento desplazamento (allontanamento coatto) degli indigeni contadini, coltivatori di mais.
Non è che a noi suoni tanto strano, perché è quello che anche in Italia succede di continuo: ecomostri, casette «schierate», che nascono come funghi e che in effetti non rispondono ad una reale richiesta abitativa, «figliolo, un giorno qui era tutta campagna…» ed ora è centro commerciale… Però Zapata è Zapata. Il simbolo della rivoluzione messicana è l’espressione anche di altro, che non è morto con lui e che era nato molto tempo prima: gli indigeni.
Lo stato di Morelos vanta una forte presenza di indigeni, in particolare di etnia nahua. Lo stesso Zapata parlava nahuatl. Gli indigeni contadini, gli «uomini di mais», come essi stessi si definiscono perché esperti coltivatori di questa pianta, erano al suo fianco allora, per difendere le loro terre dai loro sfruttatori; prima, avevano fieramente combattuto i conquistadores spagnoli in difesa della loro cultura. E anche oggi continuano con altre rivoluzioni.
Loro, i nahua, discendenti dagli aztechi, dicono: «Dalla nostra Madre Terra abbiamo imparato a leggere la nebbia, il freddo e il calore, le piccole scosse della terra e le eclissi; ad interpretare il suono dei ruscelli e parlare al vento che esce dai pozzi naturali e dai fiumi sotterranei. Nel dialogo con gli elementi abbiamo imparato ad interpretare gli spazi e da lì, a pianificare le attività dell’anno. Veneriamo la relazione con le nostre terre e con le nostre acque e per questo siamo organizzati collettivamente, e sappiamo che il giorno in cui questa morirà, morirà anche la nostra terra portandosi via le sue risorse. Per questo conserviamo le nostre danze. Perché attraverso di esse  parliamo con l’acqua e possiamo chiederle di scendere dal cielo».
Queste parole di pura poesia provengono dal «Manifesto de Los Pueblos de Morelos», redatto nel 2007 in occasione di un grande congresso delle popolazioni indigene dello stato.
Un quarto di secolo fa infatti, alcune comunità indigene di Morelos si sono spontaneamente unite – indignate per il sopruso che stava di nuovo avvenendo sotto i loro occhi e a loro danno – per tentare di arginare il frazionamento della propria terra e l’inquinamento delle loro acque. In principio, furono 13, i pueblos, che si unirono in un congresso: i «13 Pueblos en defensa del agua, el aire y la tierra».

«Ci chiamano terroristi e criminali»

Saul Roque Morales, in testa ad un folto corteo, dice: «Siamo indigeni, parliamo nahuatl, veniamo dalla comunità di Morelos, e per questo diciamo al segretario di Goveo che guardi bene quanto siamo terroristi, che guardi bene quanti criminali ci sono fra di noi, perché ci mandi poi i suoi elicotteri ed il suo esercito per farci paura. A noi che solo chiediamo di difendere la nostra acqua».
Quando parla, Don Saul tiene sempre la stessa espressione imperturbabile di chi conta le nuvole all’orizzonte, e il tono della voce non s’increspa mai. Giusto quando parla del suo matrimonio, della sorpresa che la sua gente fece agli sposi, organizzando una festa con cibo e fiori; della moglie, che sembrava essere afflitta da un male incurabile e poi fu guarita dallo sciamano del villaggio vicino. Allora sì, s’addolciscono i suoi tratti.
Sennò, alle adunate e di fronte all’esercito armato, alle riunioni e ai convegni in giro per il mondo, il suo viso di contadino, di rivoluzionario, di saggio e di coraggioso, si muove sempre dentro  un’espressione eterna.
È considerato il capo spirituale della popolazione di Xoxocotla, una piccola cittadina di qualche migliaio di abitanti. Oggi è anche il referente politico di un movimento che arriva a contare 800.000 persone in tutto lo stato di Morelos: praticamente, metà della popolazione.
Quando Don Saul aveva pronunciato quelle parole era il luglio dell’85. L’esercito era intervenuto da pochi giorni con violenza spropositata per sedare le manifestazioni – pacifiche -, che i 13 popoli di Morelos avevano messo in atto per opporsi alla costruzione di un enorme complesso abitativo che voleva sorgere esattamente sopra i quattro bacini idrici che davano da bere a tutto il Creato di Morelos. Tale progetto, conosciuto come la Cienega, prevedeva la costruzione di migliaia di casette in un’area adibita alla coltivazione comunitaria del mais. I contadini indigeni erano scesi in corteo ed avevano occupato le arterie d’accesso a Morelos. L’esercito aveva picchiato e sparato. Una loro compagna – la signora Carmen Lucila González Gómez – aveva perso l’uso delle gambe in seguito alle botte.
Fu allora che i primi 13 popoli di Morelos cominciarono ad organizzarsi per difendere «l’acqua, l’aria e la terra». Non vinsero la battaglia – ancora in corso -. per salvare la cuenca di Chihuahuita e gli altri tre bacini d’acqua. Ma da allora le tante vertenze che li vedevano sconfitti in partenza per la violenza militare, per le difficoltà burocratiche, per la povertà e l’analfabetismo e la disgregazione sociale che l’indigenza e il frazionamento del loro territorio stava portando, vennero affrontate insieme.
È stato così che la comunità di Cuentepec, nel municipio di Temixco, è riuscita a sopravvivere con il suo modello di organizzazione nonostante la vicinanza dell’aeroporto Mariano Matamoros. E che la mobilitazione in Tepoztlán ha vinto contro la costruzione, nel 1997, di un club da golf. Qualche anno dopo, gli abitanti della comunità di Ocotepec si sono opposti all’installazione di uno spaccio della catena Soriana, del gruppo Monterrey, evento che ha costituito la prima sonora sconfitta dell’amministrazione panista di Sergio Estrada Cajigal Ramírez.
Ma i 13 pueblos riuscirono anche in un’altra importante vittoria: obbligarono il governo a riconoscere la gestione comunitaria delle proprie risorse idriche.  Venne creato il Sistema di Acqua potabile di Xoxocotla. Consta di 110 dirigenti e si considera in «lotta permanente per la difesa e protezione delle proprie sorgenti e di ciò che le circonda». E salvaguarda la dimensione fondamentale della vita indigena, la comunitarietà.
Da allora, ogni domenica, i 13 popoli si ritrovano nelle loro assemblee. Ogni domenica, una comunità nuova si aggiunge.
Il 28 e 29 luglio del 2007 venne organizzato il primo Congresso dei Popoli del Morelos a Xoxocotla: erano 49 popolazioni originarie. Oggi, a distanza di due anni, sono 64.
Nella Dichiarazione dei Popoli Indigeni di Morelos, essi dichiarano:  «Che vogliamo, che chiediamo? Che ci rispettino come popoli indigeni. Che non ci arrestino perché difendiamo le nostre terre. Che ci sia un’autentica giustizia. Che non costruiscano mega-progetti industriali e commerciali sulle terre comunali e ejidali (da ejidos, le porzioni di campi comunitari, ndr).  Che non distruggano i nostri boschi, le nostre acque e le nostre risorse naturali. Che non si imponga una modeizzazione neoliberale che significhi la sparizione dei popoli indigeni. Che tengano conto di noi quando si deve decidere».
A questo appello hanno risposto in tanti. L’Università statale Unam, che da anni si è affiancata alle lotte dei nuovi rivoluzionari discendenti di Zapata foendo gli studi di fattibilità ambientale, che dimostrano come i megaprogetti proposti dalle autorità non hanno nessun riscontro scientificamente rilevante sul reale impatto ambientale. E poi molti docenti, intellettuali, avvocati, artisti.
Ma è stato nell’agosto di due anni fa che si è capito come la strenua lotta di questi contadini poveri ma resistenti era diventata davvero qualcosa di esemplare: da tutti i paesi americani, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, vennero in pellegrinaggio i delegati delle popolazioni indigene del continente. Per dare il proprio appoggio alla lotta dei «Pueblos», 153 fra sciamani ed alti rappresentanti delle comunità indigene americane, si riunirono ai piedi del sito archeologico azteco di Xochicalco, per un rito comune in difesa «dell’acqua, dell’aria e della terra».

L’acqua della Coca-Cola e la perdita dei beni comuni

Don Saul  è stato recentemente in visita in Italia, assieme all’associazione Yaku. Incontrando le comunità italiane che lottano anch’esse per difendere i propri territori – dagli impianti di geotermia sul Monte Amiata, in Toscana alla privatizzazione dei servizi idrici in Trentino -, spiegava: «Le fonti d’acqua nel Morelos sono in mano alla Coca-Cola, nessuna restrizione viene imposta alle imprese edili. Con la Colonia eravamo peones. Oggi è peggio. La nostra lotta è per difendere gli spazi di convivenza collettiva, per forme razionali di sviluppo economico; e per governi onesti. Noi, popoli del Morelos in lotta, aspettiamo il giorno in cui rivedremo splendere il luogo in cui viviamo, e in cui potremo riunirci con chi è stato costretto ad emigrare e con chi ancora deve nascere. Anche se si tratta di un sogno profondo, in realtà, lo stiamo facendo ad occhi aperti». Parole che ricongiungevano gli spazi e aprivano gli occhi, sotto la luce della semplicità inattaccabile propria del pensiero delle culture indigene.
Enzo Vitalesta dell’associazione Yaku, nella prefazione della versione italiana del «Manifesto de los Pueblos del Morelos», lo spiega bene: «Leggendo il Manifesto ci rendiamo conto quanto siamo lontani dallo stare bene. E quanto ci stiamo allontanando dalle cose che ci appartenevano e ci appartengono. Dai beni comuni che sono il luogo in cui viviamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’energia che ci tiene in vita, la terra, i boschi, i mari, i ghiacciai. Ma stiamo allungando le distanze anche dal patrimonio collettivo che alimenta lo spirito comunitario di ogni territorio».
I 13 popoli tengono vivo questo spirito anche per noi. 

di Francesca Caprini

Francesca Caprini




Paure, speranze e rabbia

Storie di immigrati

Questo reportage riguarda una casa occupata da immigrati a Ostia, realtà molto difficile e chiusa, con traffici e attività non sempre legali, e la casa di «Action» a Roma, in via Carlo Felice, a San Giovanni in Laterano. Casa questa, composta da circa 150 persone. Entrambe le case
sono state sgomberate.

Calcinacci, muri affumicati dall’umidità, secchi ovunque per raccoglier l’acqua che gocciola come un lavandino semi chiuso e un odore fortissimo che mi ottura il naso. «Attenzione non aprire a nessuno! Guardate sempre dal buco… attenzione alla polizia!». È la scritta tradotta in arabo, serbo, rumeno, wolof e italiano che ricopre il grosso portone che si chiude immediatamente dietro di noi.
È difficile far finta di nulla, parlare, camminare e pensare mentre un odore opprimente si insinua nel naso, nella mente, nella bocca. La scenografia in cui mi muovo sembra quella di un film ambientato dopo la guerra in Jugoslavia. Invece siamo solo a Roma a pochi metri dalla basilica di San Giovanni in Laterano. In uno dei tanti quartieri più costosi di Roma.
Tantissime porte si aprono e si chiudono, sguardi terrorizzati mi attraversano scrutandomi dall’alto in basso. I pensieri silenziosi e la paura li avverto con la stessa intensità di una fucilata. Lo stesso rumore sordo. Pianti, lamenti, chiacchiericcio occupano l’aria insieme a quell’odore che mi rimarrà dentro. Un melting pot di cucine e culture diverse aumenta man mano che salgo i sei piani dell’edificio.
Cento-centocinquanta persone, 60 nuclei familiari occupano questa grande casa di proprietà della Banca d’Italia in via Carlo Felice. Senza luce perché la Banca d’Italia impedisce all’Acea di Roma di stipulare contratti con gli occupanti per l’erogazione dell’energia elettrica.
Non sono sola. Con me c’è la mia collega Alessandra Sinibaldi. Il nostro contatto è una peruviana, Alexandrina. Colf di una famiglia borghese romana. Alexandrina è una vera e propria istituzione nella casa. Ci racconta come, tramite una regolare elezione fatta dagli inquilini, si vota il rappresentante capo della casa. «Ci sono regole rigide per i nuovi arrivati. Non possiamo rischiare tutti per qualcuno» spiega Alexandrina.
Organizzati come in una fabbrica ci sono tui di pulizia degli spazi comuni, tui di coloro che fanno i muratori, la stragrande maggioranza della manovalanza edilizia romana, che sistemano, bucano, tirano su muri cercando di migliorare la casa.
I bambini come sempre sono i più curiosi. Come in Africa, bastano pochi passi per ritrovarseli attorno a flotte in un riuscitissimo esempio di integrazione. Ma l’integrazione non è solo dei bambini. Non può che stupirci questa straordinaria integrazione tra stranieri e italiani, perché la casa ospita anche italiani del meridione, che lavorano in nero nella capitale e non possono permettersi gli affitti altissimi.
Inutile dire che quella è considerata una bruttura estetica al centro di Roma, vissuta come un pericolo dai vicini chiusi nei loro grandi appartamenti. E come ho sempre sostenuto quando si parla di immigrazione un esempio del quale i nostri stressati ministri potrebbero prendere esempio per una migliore politica d’immigrazione e miglioramento dell’integrazione in spazi di vita comuni.
Musulmani, cattolici, cristiani copti che si capiscono in un italiano mescolato da parole della loro lingua che non hanno traduzione. I bambini corrono su e giù per le scale. Si chiamano, si cercano contenti di avere uno spazio tanto grande per giocare.

U na decina di materassi a terra incastrati come un puzzle in quattro metri per quattro. Un armadio, un tavolino e due sedie per gli ospiti. Ci giriamo come due elefanti in una giornielleria tra i sorrisi di Aisha, una giovane etiope che vive in questa stanza con marito, figli e parenti. Una decina di etiopi che si dividono l’umidità che trasuda dai muri al pavimento.
Due occhi magnetici grandi e scuri ci fissano. Sembra una bambola seduta su uno di quei materassi con la stessa eleganza di una regina d’oriente sul suo trono. È Sara. Per molto tempo sarà la nostra modella, vincendo la timidezza e la paura dei suoi due anni. Un odore di caffè riempie l’aria. È Mohamed che appena dopo le presentazioni è scomparso nell’anticamera di una pseudo-cucina. Sarà il primo dei sei caffè della giornata, dei sei piani. Forte e scuro come la loro terra africana.
Aisha ci racconta la sua storia. Amava Mohamed, ma in Etiopia era dura. Volevano sposarsi, ma nel loro villaggio era iniziata una guerriglia tribale. Appartengono a due tribù rivali da sempre. Un fratello di Mohamed era venuto in Italia e gli scriveva una lettera al mese. Gli mancava la sua terra. La luce e i colori dell’Etiopia, la famiglia, le feste tutti insieme, ma «mi ripeteva sempre, non sai che gioia svegliarsi la mattina senza saltare dal letto, non andare a dormire con il terrore che anche quella notte verranno a fare razzie – ricorda Mohamed -. È vero. Qui è dura. Non si fidano. E quando trovi lavoro ti ricattano con uno stipendio da fame, tanto sanno che non possiamo ribellarci, altrimenti non abbiamo una documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Menomale abbiamo saputo di questa casa occupata. Siamo in tanti e diversi. La sera succede di tutto, perché c’è sempre chi fa entrare qualcuno che spaccia come amico. Ma almeno abbiamo un tetto. E la maggior parte degli abitanti sono brave persone. Sono riuscito a trovare questi materassi e piano piano compro qualcosa per la mia famiglia. La nostra gioia più grande è la nostra Sara. Non riuscivamo ad avere figli. E per noi che siamo cresciuti con il pensiero fisso di fare dei bambini, non avee di nostri era dura. Ma abbiamo pregato e pregato, e il buon Dio ci ha premiato» continua Mohamed.
Parliamo mentre Sara continuamente si gratta la testa piena di ricci. «È un’allergia del cuoio capelluto, mi hanno detto» dice Aisha. La mia paura, avendo una testa altrettanto piena di ricci, è che fossero pidocchi. Ma che fare. Non posso andar via. Non posso non ascoltarli. Non posso non stargli vicina. Non è stato semplice entrare laddove non entra nessuno. Ci avevano dato fiducia. E io non potevo tradirli.
Guardo Alessandra, capisco lo stesso timore, ma la stessa voglia di documentare come si possa ancora, nel terzo millennio, vivere in queste condizioni, nella Roma multietnica. Alexandrina ci fa capire che ci stanno aspettando. Continuiamo a salire le scale tra i saluti e gli sguardi di chi è intrinsecamente intimorito. Sono clandestini. Clandestini con storie alle spalle allucinanti. Ma tutti insieme vanno a manifestare per il diritto alla casa. La casa di Carlo Felice è nota per le sue manifestazioni. Spesso sono finiti nei telegiornali nazionali.

A lexandrina ci porta a casa sua; vive con il nipote, la sorella e un’altra sudamericana che ha ospitato. L’odore di cibi e l’arredamento tipicamente sudamericani ci avvolge e ci impregnerà i vestiti. Un bellissimo ragazzo vestito come tanti suoi coetanei italiani è steso su un letto fisso a guardare i video di Mtv. Non si gira, non ci guarda, sembra quasi non accorgersene.
Alexandrina dice essere suo nipote. «Diciassette anni e da due anni su quel letto per problemi forti alle articolazioni. È stato in coma per un lungo periodo, quando si è risvegliato doveva seguire una fisioterapia costante per riprendere a camminare. Il primo periodo l’ha fatta in ospedale, ma poi è tornato a casa e io e mia sorella non siamo riuscite a farlo curare».
Le chiedo se in Perù non sarebbe stato più semplice e la sorella mi dice che vivevano in una povertà spaventosa. «Tanti fratelli con tante mogli, figli e genitori troppo anziani. Come tutti abbiamo sognato una vita dignitosa e comunque riusciamo a mantenerci e a mandare anche qualche soldo a casa per i nostri genitori, abbiamo conosciuto un medico volontario che ogni tanto viene a trovarci e ha detto che aiuterà mio figlio, ma Dio ci aiuterà come sempre, conclude Rosaria».

D io, Dio, Dio ci salverà. Ci aiuterà. Come in tante altre situazioni, mi chiedo come riescono in queste situazioni a credere con tanta forza. Ma forse è proprio in queste situazioni drammatiche che devi avere fede. Se non hai un Dio in cui credere, in cui sperare, la vita non ha più senso.
Il loro amico più stretto è il terrore di essere sgomberati da un momento all’altro. Vivono con la valigia sempre pronta a scappare perché, mi ripetono, «sappiamo che prima o poi verranno a sgombrarci» dice Alexandrina.
Nella mente vedo la foto del loro terrore. Incursione della polizia e anziani, donne e bambini buttati sulla strada, rinunciando anche a quei materassi, tavolini che hanno comprato con tanta fatica.
Ci sono interessi enormi per quella casa al centro di Roma. A distanza di due anni mi chiedo spesso dove sono andati. Sara sarà cresciuta ma dove sarà? E Alexandrina? Ho provato a chiamarla, ma non risponde più a quel numero.

N ello stesso periodo visitiamo anche la realtà di un’altra casa occupata che non nominerò per ragioni di sicurezza, perché la situazione all’interno è molto pericolosa, dovuta anche al fatto che non c’è una organizzazione ma c’è di tutto.
È una scuola abbandonata a Ostia. Una realtà molto più seria e complicata della casa a San Giovanni. Non è semplice entrare, ma il nostro contatto è un attivista di diritto alla casa, che spesso viene qui per dare una mano a chi vuol essere aiutato. È lui che ci accompagnerà e ci spiegherà.
Parliamo all’entrata mentre a flotte la gente entra e esce, non prima di averci scrutato e interrogato il nostro amico con lo sguardo, su chi siamo e perché siamo lì. Sembra una casa della periferia degradata di Bucarest. Fredda. Vetri rotti. Muri di cartongesso sfondati. Dalle tracce sono i topi i veri padroni di casa.
Un bimbo di circa sei anni scorrazza con una mini moto da competizioni, senza casco e palesemente troppo piccolo per una moto. Gli immigrati si sono divisi in piani. Al primo piano ci sono marocchini, tunisini, egiziani che lavorano qua e là come muratori; al secondo piano sudamericani e italiani disperati, quasi tutti impiegati come colf nelle case e nel mercato della droga; gli ultimi due piani del tutto incontrollabili e abitati da africani. Nigeriani, senegalesi e africani soprattutto dell’Africa occidentale, che hanno ricreato la loro gerarchia tribale.
Sguardi spauriti e spaventati di altissimi ragazzi africani ci osservano e escono per andare a vendere occhiali e asciugamani. Alcuni mi sorridono, mi danno la mano e si presentano. Altri mi chiedono di fargli una foto per mandarla alle famiglie e alle mamme, preoccupate del destino dei figli spariti da mesi in quell’Europa di bianchi.
Ragazzini rumeni sniffano colla in un sottoscala. Avranno meno di 18 anni, ma occhi da uomini che hanno assaggiato la durezza della vita da immigrato povero. «Hashish, marijuana, erba, coca…» ripetono come un disco incantato da tempo.

D ue bambini si avvicinano curiosi della macchina fotografica, vogliono vederla, toccarla. Esce una donna, la madre, vestita al quanto succintamente: non mi servono spiegazioni per capire il suo lavoro. Mi chiede se i bimbi mi stanno dando fastidio.
Prendo la palla al balzo per dirle che sono carinissimi, dolcissimi e che amo i bimbi africani. «Menomale che c’è ancora qualcuno che ci vuol bene – dice, voltando lo sguardo a quel bianco vicino la porta -. È il padre di Jafety, il più grande dei miei figli e nettamente più chiaro della mamma e del fratellino, viene qui ma non ne vuole sapere. È un operaio di Ostia, razzista, con moglie e figli a casa ma qui viene a comandare e a divertirsi sbandierandomi i suoi soldi» mi dice stizzita Rosa.
Lo guardo fulminandolo per lo sdegno da donna, italiana e bianca, mentre lui, indifferente e con ancora indosso la tuta da lavoro, fa cenno a Rosa che la sta aspettando già da troppo tempo. Mi fa capire che non vuole finire nelle mie foto, chiudendosi la porta dietro non prima di aver fatto entrare Rosa.
Guardo Alessandra impotente: che si fa? Chiamiamo la polizia? Non possiamo, ne andrebbero di mezzo tutti e poi vuoi che non si sappia già cosa succede qui dentro. Continuiamo a giocare con i bambini mentre la mamma si sta prostituendo dentro quella stanza. A pochi metri dai figli che potrebbero spingere la maniglia della porta, entrare e vedere tutto. Vedere cosa mi dico, che non avranno già visto!
Dopo un po’ si riapre la porta, l’italiano esce e se ne va senza nemmeno salutare suo figlio e noi ci avviciniamo. Rosa sta sistemando quell’umida e scrostata camera. Non so che dirle. Che discorso iniziare. Ci invita subito a entrare e ad accomodarci sull’unica cosa che ha: un grande letto matrimoniale con ancora lenzuola disfatte. Cosa dirle? «Non preoccuparti, ne uscirai! Ci sono tante associazioni, ti aiuteremo».

I l brutto e il bello del mio lavoro è proprio questo. Quando ti occupi di reportage sociale, quando racconti la disperazione, le difficoltà di queste persone… è vero che dai loro voce, ma non puoi dirgli esplicitamente ti aiuterò perché non puoi farlo. Non puoi aiutare tutti. Perché anche se conosci tante persone non puoi sempre chiedere e chiedere di darti una mano a sistemare questo e quello. Puoi consigliare delle associazioni di aiuto e sostegno.
Rosa chiarisce subito che se siamo lì per farle una predica o per giudicarla è perché non conosciamo come va il mondo. Le dico che posso provare a capirla. Non voglio giudicarla. Voglio invece ascoltarla.
«Sono venuta qui come tante, con la speranza di un futuro e di un lavoro. Mio fratello in Nigeria mi aveva venduta a un trafficante di droga e donne, molto pericoloso e io non lo sapevo. Sapevo che in Nigeria succedevano queste cose, ma se non ti fidi nemmeno di tuo fratello! Noi in Africa non siamo come voi, crediamo nella famiglia, viviamo tutti insieme senza distinzioni e se un parente ha bisogno siamo pronti a fare sacrifici tutti. Ho capito chi era quel mio tranquillo fratello quando era ormai troppo tardi. E la storia continua come voi giornaliste già sapete. Botte, botte, botte e poi la strada. Aborti continui e strada. Strada, droga e aborti clandestini. Lavoravo dalle 12 alle 15 ore sulla strada senza potermi permettere nulla. Anche i vestiti erano i loro».
Cerco di capirla e iniziare con dei se e dei ma… Rosa tronca il discorso. «Non accetto critiche da te. Che ne sai tu della disperazione, di tuo figlio che ti dice mamma ho freddo, mi fa male la pancia. Ho fame. Allora anche se quel bimbo ha la faccia di quello che ti ha usato è anche parte di me. Jafety ha i miei occhi. Nelson la mia faccia. Allora non pensi al tuo corpo o a te stessa. Pensi che è l’unica cosa che hai che può dare da mangiare a tuo figlio. Sono riuscita a staccarmi da quello che mi ha messa sulla strada. Gli ho pagato il famoso debito con milioni e ora lavoro per conto mio, qui. Ho provato e continuo a cercare un lavoro onesto. Ma sembra non esserci. Sono andata da tante associazioni che stai nominando. Ma la verità è che io sono una prostituta e rimarrò sempre una prostituta. Per giunta nera. Una prostituta nera. Vorrei solo un lavoro di cui i miei figli non dovranno mai vergognarsi, vivere in una casa povera, ma dignitosa e magari un buon compagno. Ma ho perso le speranze. L’amore non esiste. Per quelle come me l’amore non esiste. E gli uomini, mie care, fidatevi: sono tutti uguali.
Qui fa schifo, lo so. Le finestre sono rotte. I bagni sono di tutti e ci trovi anche gente che si spara in vena eroina. E il terrore continuo che possano fare qualcosa ai miei figli. Ma è meglio che stare sotto i ponti. La luce va e viene, quindi d’inverno i termosifoni vanno per un po’. Ogni tanto vengono a chiuderli, perché non paghiamo… Menomale c’è un’associazione di attivisti che ci aiuta. Abbiamo una stanza tutta per noi. Sono cose per voi assurde, ma per me è già un passo avanti» chiude il discorso Rosa.
C ontinuiamo a scattare tra i sorrisi dei bambini che vogliono entrare dentro l’obiettivo. Rosa ci guarda divertita ma non dice più nulla. Ci ha già vomitato la rabbia e il dolore. Non è stata un’intervista la mia, ma solo un suo sfogo. E lo prendo così. Il senso di impotenza torna come il senso di colpa che si fa spazio nel cuore e nella mente ogni volta dopo aver visto e ascoltato queste storie. E ti dici: è il tuo lavoro. Sei la loro voce e così li puoi aiutare.
Dopo qualche settimana leggo nella cronaca locale del Lazio che a Ostia, nella malfamata casa occupata da clandestini «è stata ammazzata una giovane nigeriana. Si faceva chiamare Rosa. Lascia due bambini di cinque e due anni affidati all’assistente sociale».
Riguardo le foto e rivedo quella sagoma nello sfondo del primo piano di Jafety. Ogni foto è un ricordo. Rivivo quel suo sfogo. Ricordo i sorrisi dei bambini così come lo sguardo di quel cliente. Il padre di Jafety che ha abbandonato suo figlio pur di non rovinare quel finto matrimonio che andava avanti da troppi anni. 

Romina Remigio

Romina Remigio




«Una storia di negri»

Osvalde Lewat: donna, africana, regista

Africana, madre di famiglia. Gioalista, ma non le basta. Osvalde vuole approfondire. Ma vuole soprattutto risvegliare il senso civico e politico della gente. È convinta che le difficoltà quotidiane diminuiranno se si riesce a intervenire sulla società. Questo lo fa con i film documentari, per scuotere,
far riflettere, e far agire.

«Ho scelto di ritornare sulla storia drammatica del Comando operativo, che fu istituito dal capo di stato in Camerun tra il 2000 e il 2001, con l’obiettivo di combattere il grande banditismo. Ma rapidamente ci sono state derive, e dopo un anno ci si è resi conto che più di 1.000 persone erano scomparse, o erano state arrestate per essere interrogate e non sono mai più tornate».
Osvalde Lewat è nata nel 1976 in Camerun. È sposata ed è madre di due figli. Ha cominciato come giornalista della carta stampata lavorando per diversi anni nel suo paese, anche al quotidiano Camerun Tribune. «Ero frustrata perché ogni volta che facevo un articolo il giorno dopo era già superato». Lavorava molto sull’attualità, ma era attirata dagli approfondimenti sui temi trattati, sentiva di dover prendere del tempo per fare delle vere ricerche. «Volevo anche realizzare dei lavori che potessero restare, in un certo senso, essere rivisti».
Dopo aver frequentato l’Istituto nazionale dell’immagine e del suono di Montréal (Canada), realizza il suo primo documentario. Si interessa ai diritti degli innuit, le popolazioni indigene del Canada. Il taglio è sociale. Frequenta un corso anche alla prestigiosa Femis di Parigi (Scuola nazionale superiore dell’immagine e del suono) e realizza un documentario sulla vita di una religiosa.
Comincia a lavorare per la televisione, facendo dei programmi d’informazione. Arriva così al suo primo cortometraggio impegnato: Au-delà de la peine (Al di là della pena). È la storia vera di un carcerato in Camerun, che condannato a 4 anni, ne aveva passati 33 in prigione. Questo film riceverà diversi premi, tra cui il gran premio film televisivi in Portogallo e il premio diritti umani al festival Vues d’Afrique di Montréal.
Osvalde non si ferma, ha trovato il suo modo di essere e fare giornalismo. Unisce alla sua intelligenza e capacità tecniche una grande determinazione.
«Questo film mi ha dato voglia di andare avanti. Ho continuato quindi con i documentari quello che avevo iniziato con il giornalismo, una sorta di attrazione per i soggetti socio-politici».

Per una nuova
coscienza cittadina

Se le si chiede da cosa scaturisce questo suo «impegno» risponde: «Non so se è un giornalismo impegnato. Forse. Voglio piuttosto che gli altri, tramite i lavori che faccio, si sentano impegnati, coinvolti. Che i film portino qualcosa alla gente, al mondo in cui vivo, all’Africa. Non so se riesco sempre a farlo, ma ci provo».
E così si trova a raccontare tragedie: «Mi dicono che i miei film fanno piangere. Io ho piuttosto voglia di scuotere la gente e farla muovere. Fare in modo che ci sia più coscienza cittadina in Africa, e quindi un risveglio politico maggiore. Che la gente comprenda che ha una responsabilità sul proprio destino, quindi non può dare le dimissioni di fronte a delle questioni che sono preoccupanti nella loro società».
In Africa è difficile vivere, occorre battersi: quotidianamente ci si domanda se si riuscirà a nutrire la propria famiglia. Così molti africani non si interessano più a quello che succede nel loro mondo: «Io invece penso che cercando di far muovere la società si può riuscire a migliorare anche il proprio quotidiano. È questa la mia visione ed è per questo che faccio i film».
Nel 2005 Osvalde Lewat torna sugli schermi con il soggetto delle donne violentate in Congo durante la guerra: Une amour pendant la guerre (Un amore durante la guerra). Un punto di vista di una africana su una tragedia di africane.
Nonostante la durezza dei temi trattati, Osvalde è molto femminile e non nasconde una certa tenerezza sotto la quale fermenta una grande grinta.
Donna e realizzatrice, si rischia di avere più difficoltà in questo mestiere. «Penso che noi donne abbiamo molti più ostacoli per fare una carriera professionale. Quando si è veramente impegnate è difficile conciliare una vita di famiglia con la carriera. E questo non solo per le donne cineasta. Per noi c’è la dimensione supplementare di dover andare ai festival, assentarsi settimane per le riprese e per la promozione del film».
Come donna, cineasta, africana è ancora più complicato, ricorda Osvalde, perché: «Il cinema è un universo molto chiuso, pieno di uomini. Talvolta quando si gira ci si ritrova come sola donna con quindici uomini. Non è mai molto semplice… Anche a livello internazionale è un ambiente machista e sessista». Nonostante questo il numero di donne africane che realizzano film in tv o per il cinema è in aumento.

Una storia di «negri»

Nel 2003 decide di dedicarsi a un progetto ambizioso: un documentario sul Commandement opérationnel (letteralmente: Comando operativo). Si tratta di un corpo militare d’élite, che il presidente camerunese Paul Biya (ancora in carica) creò, con decreto presidenziale, nel febbraio del 2001. Vi facevano parte reparti scelti di esercito, gendarmeria e vigili del fuoco. L’obiettivo era quello di combattere il «grande banditismo» che imperversava la zona di Douala, la capitale economica del paese, sulla costa.
Purtroppo il «Co» (come veniva chiamato) ha una deriva violenta e diventa incontrollabile. I giovani dei quartieri spariscono, sono torturati e, il più delle volte, uccisi. In altri casi sono chiusi in piccole celle dove sono lasciati consumare per fame e sete. Se non basta, sono avvelenati.
Tutto senza processo e spesso senza prove, ma dietro semplice delazione.
Le organizzazioni inteazionali di difesa dei diritti umani, come Amnesty Inteational, la Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo (Fidh), l’Associazione contro la tortura (Apt) e quelle locali, come la Acat (Associazione cristiana contro la tortura) denunciano persecuzioni ed esecuzioni sommarie.
Già nel novembre dello stesso anno la commissione delle Nazioni Unite contro la tortura chiede al governo del Camerun di sciogliere il corpo. Si muoverà anche l’Alto commissariato per i diritti umani.
Dopo appena un anno di attività i desaparecidos africani sono oltre un migliaio.
«Quando decisi di girare Une affaire de nègres, tutti mi dicevano: “Tu non avrai la capacità e la forza di portare a termine un progetto così difficile”. Ma poi, quando incontravo dei personaggi, mi vedevano fragile e così mi davano fiducia più facilmente. I rapporti personali sono a volte più semplici, quando si è donna. Poi ci sono finanziamenti in favore della promozione delle donne realizzatrici, e cerchiamo di approfittae».

Le vittime non
si dimenticano

«Abitavo in Camerun quando il Commandement opérationnel è stato creato ed ero più o meno nello stesso torpore dei miei concittadini, non sapendo che cosa stava succedendo. Non ero cosciente. La città in cui è successo, Douala, è conosciuta per il suo lato eccessivo e soprattutto per la sua posizione all’opposizione rispetto al governo. Leggendo i giornali si prendeva distanza rispetto ai fatti e mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che vicino a me un tale dramma si era consumato».
Le motivazioni che la portano a questa vicenda sono ancora una volta interiori: «È un film forse egoista, un po’ catartico, nel quale tento di fare qualcosa che non ho fatto prima. Dovevo agire. Fare in modo che questa storia sia conosciuta, in quanto lo è molto poco, e che la gente si fermi a riflettere. Volevo che le famiglie delle vittime, i cui figli sono stati sepolti come dei malfattori, accusati di banditismo senza alcuna prova, avessero la possibilità di dire: no, non erano dei banditi».
Girare un film su un tema che il governo vuole si dimentichi, a pochi anni dall’accaduto, non è impresa esente da rischi.
«Ho fatto quattro anni di ricerche prima di iniziare le riprese. Chiesi a tutta l’équipe la totale discrezione su quello che stavamo facendo. Abbiamo girato le immagini con molta prudenza e con un po’ di fortuna non ci sono stati problemi.
Certo abbiamo avuto anche paura: ogni volta che iniziavamo a prendere delle immagini non sapevamo se avremmo terminato. Mi ricordo quando siamo partiti dal Camerun, all’aeroporto tremavo e mi dicevo “avranno saputo che stiamo facendo questo film”».
Il documentario è diffuso dalla televisione francese. Viene visto anche in Camerun, nella versione Tv, un cortometraggio, nel febbraio del 2008. Al ministero camerunese della comunicazione vanno in fibrillazione e vogliono preparare un contrattacco: un video che presenti il punto di vista governativo. Ma poi non si sa più nulla.
«Ci sono state reazioni aggressive da parte del governo del Camerun, ma solo di tipo verbale – racconta Osvalde -. Sono stati sorpresi che io sia ritornata su questa storia imbarazzante, che si vuole non risvegliare. Mi hanno telefonato, e non erano molto amichevoli».

Testimoni coraggiosi

Il film presenta molte testimonianze. Familiari delle vittime, il giornalista Séverin Tchounkeu (direttore di La Nouvelle Expression), politici di opposizione. Fondamentale è il coraggioso avvocato Jean de Dieu Momo, che cura la difesa  dei parenti delle vittime in tribunale.
Struggente il racconto di madame Etaha, la vedova di uno dei nove scomparsi del quartiere Bepanda (febbraio 2001), il caso che ha creato più scalpore e quindi reazioni nazionali e poi inteazionali. I nove furono arrestati, torturati e uccisi perché sospettati del furto di una bombola di gas.
Agghiacciante invece la descrizione delle operazioni da parte di un militare, ex membro del Commandement, Rigobert Kouyang.
I testimoni, tutti residenti in Camerun, non hanno avuto problemi dopo la diffusione.
«Non che io sappia – racconta Osvalde -. Hanno raccontato in tutta coscienza. Sono stata con loro tre anni prima di girare e ho chiesto loro se erano sicuri di fare questa testimonianza. Sapevamo tutti che avremmo preso dei rischi, pur non sapendo quali. Ognuno ha avuto tempo di misurare le conseguenze del proprio impegno in questo film».
Una pellicola molto coinvolgente per tutti. «Sono questioni ancora attuali. Eravamo preoccupati per la reazione del governo». Un film mostrato pure all’estero, che attira l’attenzione della comunità internazionale.
«Anche l’équipe tecnica era cosciente dei rischi, ma tutti hanno voluto andare fino in fondo».
Osvalde ha realizzato due versioni di Une affaire de nègres, una per la televisione e un’altra, più lunga, per il cinema. Ora sta lavorando per proiettare in Camerun la versione integrale, eventualmente in dvd oppure riaprendo per l’occasione un cinema (le ultime sale cinematografiche del Camerun sono state chiuse a Yaoundé nel 2008).
«In realtà il film ha già avuto un grande impatto nel paese, è stato anche piratato e diffuso sul mercato informale. È una pagina della nostra storia che è un po’ nera, ma siamo pronti…».

Difficile reperire i fondi

Una lavorazione che dura cinque anni è costosa e soprattutto il film non è redditizio economicamente.
Uno sforzo notevole è stato fatto per reperire i fondi.
«Avere i soldi per la realizzazione è stato complicato. Non volevo fare un film senza mezzi, volevo avere un potenziale cinematografico. Purtroppo i giovani cineasti non capiscono sempre che bisogna prendere molto tempo per fare bene le cose. Ho avuto la fortuna di presentare un piccolo testo a un fondo canadese per la cultura. Non hanno dato molto, ma hanno conferito credibilità al progetto. Da lì ho ottenuto altri finanziamenti: fondi d’autore, fondi francesi per cinema africano, ecc. Occorreva però avere un pre-acquirente, un canale televisivo che si impegnasse a diffonderlo, per accedere a quei finanziamenti. Non è stato facile, poi ci sono riuscita con France 5».

Una società addormentata

Il film si chiude con interviste lampo sul marciapiede. Alla domanda: «Vorrebbe di nuovo il Commandement opérationnel?», la maggior parte della gente risponde di sì, che c’è bisogno di maggiore sicurezza.
Possibile che la gente abbia già dimenticato?
«No, non hanno dimenticato. Ma siamo in un paese dove la coscienza cittadina è quasi inesistente, mentre la delinquenza è un vero problema. La questione che pone il mio film non è se combattere l’insicurezza, ma come combatterla. Occorre fare un’analisi per capire l’origine di questo stato di cose: la gente non è istruita, è povera, ma perché?».
 «Ho voluto mostrare queste risposte a freddo per spiegare che malgrado tutto quello che è successo la gente vuole sicurezza, la reclama». Nessuno pensa che possa succedere a lui di essere arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso. 
«È anche il segno di una società che è addormentata. In molti paesi l’accento è stato messo sulla questione sicurezza: anche in Francia e Italia. Sono le grandi questioni di oggi, e le soluzioni sono di tipo populista. La gente è contenta se ha l’impressione che ci sono misure molto forti, dure, repressive, per portare la sicurezza. Ma non si rendono conto che quando si fa un’unità speciale per combattere il grande banditismo, alla fine, tutti noi abbiamo perso».
«La gente, nonostante abbia visto quello che è successo, non è neanche cosciente che la risposta non è il Co, non è la repressione».
Il Commandement opérationnel era una risposta puntuale per combattere il gran banditismo, un problema reale che si poneva. Quando cominciarono le derive, le prove di corruzione e di abusi, questa unità speciale è comunque rimasta operativa. C’è stata poi una pressione internazionale, affinché sia fatta giustizia. In realtà, il Co non sarà sciolto ufficialmente e diventerà il «Centro operativo della gendarmeria».

Un titolo che
non si dimentica

Une affaire de nègres, (letteralmente: una questione di negri) un titolo che colpisce: «Cercavo qualcosa di un po’ schoccante, in quanto ho la sensazione che poca gente conosca questa storia. Perché è successo in Africa, è un dramma in più, una deriva in più, la gente è stanca di queste piaghe. Il fatto di essere africana e nera mi ha permesso di usare un titolo così, se fossi stata bianca magari non avrei osato. Penso che ci sia gente che pensa: “Oh, ancora una storia di negri” ma non possono esprimerlo. Volevo attraverso questo titolo prendere in contropiede queste persone, dicendo: no, è un affare umano, un dramma universale, successo in Camerun, ma quando parliamo di delazione, corruzione, impunità, ovunque siamo sulla terra, in Europa, in Africa, sono questioni che ci riguardano tutti, che ci preoccupano tutti, non è solo una storia di negri». 

di Marco Bello

Marco Bello




L’anno del vento

Antropologia culturale / Cosa resta della celebrazione del «capodanno maya»

La società civile guatemalteca promuove un ritorno alle tradizioni. Ma la gente sembra aver dimenticato i riti pubblici. Colpa della dominazione spagnola e di 36 anni di guerra civile.  Come l’attesa del nuovo anno, che prevede 5 giorni di riflessione. È iniziato l’anno del vento,
ovvero respirazione, movimento, che fa girare la terra, alimenta la vita.

Nebaj. Esiste il calendario dell’antico Egitto, quello romano, quello cristiano così come quello musulmano, e infine esiste il calendario maya. A dire il vero sarebbe più corretto parlare di calendari maya visto le sottili differenze nei nomi e nelle date che esistono in corrispondenza ai vari stati in cui il popolo maya era diviso nell’area centroamericana prima dell’invasione spagnola.
Cosa accomuna però tutte le tradizioni maya è la visione del tempo e il suo legame con fenomeni naturali. I maya consideravano il tempo come un qualcosa senza né inizio né fine, per questo non hanno dato all’«anno uno» lo stesso significato di altri popoli, come i romani che iniziarono la loro cronologia a partire dalla fondazione di una città.
Per la cultura maya l’origine del calendario è strettamente ispirata all’universo e agli elementi naturali necessari per vivere: fuoco, terra, acqua e aria, oltre che ad alcuni simboli fondamentali, come la donna, il risveglio e la morte.
Il calendario maya è circolare, in accordo alla cultura ciclica che lo ispirava, mentre quello gregoriano è lineare. Inoltre si fonda sui cambiamenti cosmici e non sulla misurazione del tempo. L’aspetto sorprendente è la precisione di questo calendario, che creato in accordo ai movimenti del sole, aveva calcolato la durata dell’anno in 365, 2420 giorni, l’approssimazione più perfetta elaborata dall’umanità fino all’epoca dello sviluppo di sistemi tecnologici e informatici.

Un nuovo anno

Il 21 febbraio a Nebaj, cittadina di circa 20.000 abitanti situata nel dipartimento del Quichè, centro dei massacri inflitti alla popolazione indigena maya durante il conflitto armato e cuore della tradizione maya ixil (pronuncia iscil)  ha accolto l’anno 5125.
Chi si aspettava una celebrazione rumorosa, appariscente e molto partecipativa ha dovuto fronteggiare una certa delusione. Il capodanno maya, ci spiega Ana Laynez Herrera, guida spirituale appartenente al gruppo indigeno ixil, è un evento interiore, sacro. «Per accogliere il nuovo anno ci prepariamo con cinque giorni di riflessione, di purificazione: si tratta del wayeb, il periodo di transizione tra un anno e l’altro».
L’associazione Fundamaya, organizzazione guatemalteca impegnata nella promozione dei diritti umani e la salvaguardia delle tradizioni maya, ha sostenuto una celebrazione più ufficiale, simbolica, quasi per ricordare e mostrare alla gente che la cultura maya esiste ancora e non deve essere perduta.
Quello che sembra però stonare è un marcato senso di vuoto alla cerimonia. La gente partecipa, segue il rito di benvenuto al nuovo anno, ma alle semplici domande di turisti e curiosi, su quale sia il significato più profondo dell’atto o perché si usano determinati colori di candele piuttosto che elementi naturali, non sa rispondere.
La sensazione è quasi quella che si ripetano gesti che sono diventati automatici ma dei quali non si ricorda il valore. Conferma la riflessione Carolina, antropologa tedesca che da oltre tre mesi sta portando avanti una ricerca nell’area ixil: «La dominazione spagnola e la guerra civile (durata dal 1960 al 1996, ndr) hanno minato fortemente le tradizioni maya, arrivando quasi a cancellarle. Oggi varie organizzazioni stanno lottando per riprendere abitudini indigene che sono state dimenticate da molta gente, specie la nuova generazione.
La mia opinione è che questi tentativi possano correre il rischio di irrigidire e schematizzare troppo cerimonie che originariamente, per i maya, erano sentite come qualcosa di naturale, strettamente connesso al ciclo della vita e della natura.  Le guide spirituali in origine non seguivano schemi così fissi nel celebrare i riti, né bisognava convocare la gente per riunirsi ad assistere».

Lo spirito del vento

Il calendario maya si struttura in 18 mesi di 20 giorni ciascuno ai quali si aggiunge il periodo di transizione di 5 giorni. Ogni nuovo anno si definisce sulla base di un nahual reggente, ovvero un elemento sacro protettore che corrisponde alla simbologia religiosa dei maya e che imprime determinate caratteristiche al periodo che «protegge». 
L’anno corrente, il 5125, inaugurato il 21 febbraio scorso, si presenta sotto la carica del Iq. Iq simboleggia lo spirito del vento, il fulmine, la tempesta, le correnti e la purezza del cristallo. Ana Laynez interpreta il nahual entrante non tanto come un fenomeno meternorologico quanto piuttosto come l’anima vitale:  «Vento nella cosmovisione maya significa aria, movimento, respirazione. È ciò che alimenta la vita, che fa girare la Terra, muovere le onde del mare e le foglie degli alberi. Siamo entrati nel periodo 10 Iq, è un periodo pari, questo ci garantisce che le forze del nahual saranno piuttosto equilibrate, non ci aspettiamo grandi disastri o squilibri».
 L’Iq ha preso il posto al protettore anteriore che era il 9 Noj, rappresentante la saggezza, il pensiero e la riflessione. Il passaggio da un nahual all’altro è contrassegnato appunto dai giorni  «senza nome o wayeb», in cui ci si dedica alla purificazione e alla preparazione per accogliere quello nuovo. Così dal 17 al 21 febbraio, in varie forme, in Guatemala, le guide spirituali maya si sono ritrovate per riflettere e fare un bilancio dell’anno terminato.
Le celebrazioni più vistose sono avvenute nei luoghi sacri importanti, presso le rovine maya, come a Iximché, vicino Tecpan, dove la cerimonia è stata convocata e organizzata dal ministero della Cultura, la Commissione presidenziale contro il razzismo e varie associazioni indigene.

«Grande cambio» in vista

Aspettando l’anno 2012 e il grande cambio preannunciato dalla fine del quinto ciclo del sole secondo la visione maya, restano molti i dubbi sulla capacità e la forza della cultura indigena maya di resistere e conservarsi, ma soprattutto di sapersi riadattare a una società che per secoli ha voluto cancellarla sotto le bandiere della conquista spagnola, delle chiese (cattolica e evangelica), e poi della dittatura militare. Questa ha creato nel paese una profonda confusione, o forse, un vuoto di sapere. 

di Ermina Martini


SIMBOLI
E SACERDOTI

La cerimonia maya solitamente si svolge in un luogo sacro ed è una celebrazione di ringraziamento delle forze della natura: Kab’awil (dio) è l’universo e si manifesta nella dualità, per questo ci sono giorni buoni e giorni cattivi, perché Kab’awil rappresenta due energie opposte. Le cerimonie, cornordinate dalle guide spirituali, sono caratterizzate dalla presenza di un fuoco centrale e iniziano sempre con il saluto ai quattro punti cardinali per seguire con l’offerta di vari elementi quali resina, petali o fiori, mais, acqua per invocare la protezione del dio e degli antenati.
Nell’area di Nebaj, in Quiché, esistono circa 350 guide spirituali. Le guide possono essere uomini o donne, ma l’importante è che la dote per essere «tatas» e «nanas» non si può acquisire o imparare, è innata.

Spesso si manifesta in giovane età in sogno, con simboli rappresentanti il volo, come varie specie di uccelli. È necessario l’appoggio di una guida spirituale già formata per coltivare le doti e aiutarle a manifestarsi. Durante le cerimonie le guide spirituali si riconoscono perché si coprono il capo con un tessuto, spesso di colore bianco, e impugnano un bastone simbolico.
Se un tempo «tatas» e «nanas» vivevano delle offerte che ricevevano per il servizio che prestavano nelle comunità oggi invece si trovano in difficoltà e devono svolgere altre attività per sostentarsi. Vari progetti di salvaguardia delle tradizioni indigene appoggiano l’attività delle guide, forse in parte snaturando la loro funzione, ma quanto meno ne garantiscono una formale esistenza.         

Ermina Martini

Ermina Martini




Riso, fagioli e tlc

Neoliberismo e pensiero unico. I paesi dell’America Centrale davanti alla crisi mondiale

La crisi odiea nei paesi del Quarto mondo latinoamericano (Centroamerica e Caraibi) iniziò
la sua gestazione almeno 20 anni fa, quando la globalizzazione neoliberista divenne religione e il «Consenso di Washington» – con lo smantellamento dello stato nazionale e il business delle privatizzazioni – i suoi 10 comandamenti.

Lungo la sua storia recente, l’America Centrale ha attraversato un periodo di dittature e movimenti di liberazione conclusosi con gli accordi di pace degli anni Novanta:1990 in Nicaragua (dopo 50 mila morti), 1992 in El Salvador (80 mila morti), 1996 in Guatemala (250 mila morti). A ciò è seguita la globalizzazione neoliberista (con le riforme strutturali e le privatizzazioni dei settori strategici degli stati nazionali) e, infine negli ultimi sei anni, è arrivata la stagione dei negoziati e dei Trattati di libero commercio (Tlc), tra le aristocrazie native allineate con i poteri del Nord. Prima con gli Usa, poi, sulla scia di quei trattati capestro, dall’anno scorso con il suo sosia europeo: l’«Accordo di associazione» tra l’Unione Europea e il Centroamerica (Acuerdo de Asociación entre América Central y la Unión Europea, Ada). Sulla carta questo Tlc europeo include, oltre al commercio, il dialogo politico e l’integrazione regionale e per ciò, secondo i negoziatori europei è un Tlc «dal volto più umano». «Il solito Tlc ma confezionato in carta da regalo», ha chiosato Sigfrido Reyes, deputato salvadoregno del Fronte Farabundo Martì (al governo dal 1 giugno 2009).

I costi (pesanti)
delle privatizzazioni

Il Centroamerica di oggi è il frutto perverso di una serie di cambiamenti, che presero il via con il fallimento economico e politico delle dittature dell’istmo verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1989, questa sconfitta economica diede il via libera al cosiddetto «Consenso di Washington», che stabilì in tutta la regione i comandamenti della globalizzazione. Queste riforme strutturali spingevano verso l’accumulazione della ricchezza e lo smantellamento dello stato nazionale con la privatizzazione dei sistemi pubblici di educazione e salute, passando per la svendita delle imprese statali di telefonia, elettricità e acqua, sempre con la promessa di migliorare il servizio. La procedura era consolidata: prima si rendevano deficitarie le imprese pubbliche, per non avere movimenti di piazza al momento della loro privatizzazione, successivamente dividendole in bad and good company, vendendo quest’ultima a prezzo stracciato alle multinazionali «amiche» del governo di tuo.
Il caso del Nicaragua ha visto il governo e la multinazionale spagnola Unión Fenosa (distribuzione elettrica) entrare nel vicolo cieco di una diplomazia legata a doppio filo alla Banca mondiale (che funge da guardia del corpo delle 100 multinazionali che operano nella regione). Facile prevedere che, in caso di un conflitto giudiziale, la vicenda si concluderebbe con un parere favorevole alla multinazionale spagnola (www.unionfenosa.es) e con l’impossibilità del governo sandinista di pagare il prezzo della rinazionalizzazione dell’antico Instituto  nicaraguense de energia (Ine).
Per parte loro, Honduras, El Salvador e Guatemala sono state invase dalla miniera a cielo aperto, con in testa la multinazionale Glamis Gold Ltd. che lavora in tutto il Centroamerica con prestiti della Banca mondiale (www.goldcorp.com). Questa multinazionale, secondo l’organizzazione ambientalista Madreselva, utilizza in un’ora l’acqua che una famiglia utilizzerebbe in 22 anni e in Honduras lavorano con royalties che si aggirano attorno alla cifra ridicola dell’1% (www.madreselvaondg.net).

Contadini senza terra
e senza futuro

Le privatizzazioni sono giunte anche al credito per il settore di piccoli produttori agricoli e allevatori.  In Nicaragua, questo credito una volta era a disposizione di tutti. Oggi è stato dirottato dalla produzione di alimenti al commercio, passando la prima dal 34% nel 1993 al 4% dieci anni dopo, il secondo dal 37% all’84% nello stesso periodo.   
  A distanza di quasi 20 anni questi cambiamenti si sono tradotti nella regione (per la sua natura contadina e produttrice di materie prime) nello smantellamento dell’agricoltura sostenibile, dei sistemi alimentari locali e delle reti sociali su cui essi poggiano. Un modello che ha spinto progressivamente il Centroamerica verso la vulnerabilità alimentare e la dipendenza dalle importazioni di cereali Usa (sovvenzionati da Washington fino al 60% dei costi di produzione).
La conseguenza successiva è stato l’esodo rurale, con una massiccia decontadinizzazione a livello regionale, accompagnata da una controriforma agraria per via dell’insolvenza dei piccoli produttori. Il canovaccio è consolidato: ormai senza credito pubblico ai contadini non resta che ipotecare i loro piccoli appezzamenti di terra come garanzia per l’acquisto di concimi e semi, a cui segue spesso il pignoramento per l’impossibilità di ripagare i prestiti (a causa delle oscillazioni dei prezzi sui mercati inteazionali del Nord o del passaggio di un uragano caraibico che spazza via raccolti e non solo); e il cerchio si chiude con la terra che cade in mano ai nuovi latifondisti tramite le aste delle banche private.
Questi contadini senza più terra sono finiti accalcati nelle città, ingrossando le bidonvilles. In migliaia si sono riciclati come lavoratori informali: venditori ambulanti di caramelle, sigarette e cianfrusaglie varie, che ora vagano per le strade delle capitali centroamericane, portandosi dietro un capitale umano di conoscenze generazionali di agricoltura e allevamento, che si perde in città senza biglietto di ritorno.
Quanto alle donne contadine, in città erano attese dalle multinazionali straniere del subappalto, le fabbriche di assemblaggio tessile, las maquilas, che si sono diffuse con l’inteazionalizzazione della produzione industriale. Questa altro non è che la delocalizzazione dei cicli di produzione, avente l’obiettivo di ridurre fino al 90% i costi di lavorazione manuale manifatturiera, con un salario che si aggira intorno ai 30 centesimi di euro all’ora. Previo all’arrivo delle maquilas però, nel Centroamerica si è compiuto uno metodico smantellamento dei sindacati locali e la creazione di sindicatos blancos agli ordini dei proprietari.
L’emigrazione internazionale è invece riservata di più agli uomini, pochissimi dei quali giungono a destinazione: uno per ogni cento fra gli emigranti honduregni. A coloro che non sono in grado di emigrare è riservato il sottornimpiego, in cui si concentra il 41% della popolazione attiva della regione.

Le classi proletarie
e il «triangolo 80-100-10»

Due decenni di questa globalizzazione hanno provocato una metamorfosi nell’architettura dell’accumulazione nel Centroamerica. Da 3 si è passati ad avere 5 classi sociali di cui una all’estero, los expatriados: in cima un’élite di 10 famiglie (secondo un quotidiano del Guatemala, El Periodico) che controllano la regione; sotto di loro  una classe di 80 milionari (secondo la rivista del Costa Rica, Estrategia & Negocios), queste due classi fanno affari con le 100 transnazionali presenti nella regione (secondo la rivista del Nicaragua, Envio).  Sotto ancora, una classe media ogni volta più povera formata da professionisti, commercianti e impiegati statali. Al di sotto ancora, il 70% dei centroamericani che vivono con meno di tre euro al giorno e in casi come il Nicaragua l’80% che vive con meno di due. All’estero poi ci sono gli espatriati, circa 4,5 milioni di centroamericani su i 37 milioni, di cui il 75% negli Stati Uniti.
Questo modello in Centroamerica a grandi linee funziona così. Le rimesse entrano alla regione e rappresentano circa il 15% del Pil totale (nel caso di El Salvador il 20%, con un incremento del 10% annuo, anche se la tendenza è a diminuire per via della crisi globale). Esse vengono quasi interamente spese dagli impoveriti per acquistare beni e servizi (mentre solo il 10% va in investimento e studio).  Tali merci e servizi sono venduti al dettaglio dai commercianti e dalle 100 transnazionali, che si rifoiscono dai grandi importatori, gli 80 milionari tra cui ci sono anche gli esportatori a loro volta legati alle 100 transnazionali, prevalentemente nordamericane ed europee. Queste, a loro volta, si dotano di capitali dalle 10 famiglie, che controllano le banche private e concentrano questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzare i guadagni all’estero, perché il Centroamerica non dà garanzie. Insomma, 80-100-10 è un triangolo perfetto…
Altra domanda interessante è la seguente: quanto gli affari di queste 10 famiglie e gli 80 milionari sono intrecciati con il business del narcotraffico in Centroamerica, se la  progressiva de-regolarizzazione dello stato di diritto ha convertito l’Istmo in un paradiso per il lavaggio di narco-dollari e in un passaggio indisturbato della coca verso il Nord? Quale è la percentuale dei suoi capitali che si «contamina» di questo affare, aldilà dei prestanome?
Con la scusa della violenza

La criminalità organizzata che martella il «triangolo del Nord» (Guatemala, El Salvador e Honduras) è aumentata a dismisura negli ultimi anni e frattura l’unione fra stato di diritto e politica. Il Centroamerica si trova stretto fra i più grandi produttori (Colombia) e consumatori di cocaina (Stati Uniti). Per ogni grammo di cocaina che viene spostato fra Colombia e Stati Uniti, il 90% del suo prezzo si gioca sul trasporto attraverso il Centroamerica. Situazione che ha provocato lo scoppio della violenza in questi tre paesi, accelerata dal fuggire verso il triangolo del nord delle reti di crimine organizzato messicane per via dell’intensificarsi della lotta al narcotraffico in Messico.
Il mercato delle droghe illecite si sa, è un alibi di vecchia data per il controllo militare di paesi e regioni. Allo stesso modo che il Plan Colombia nel paese andino, si è creato promosso dagli Usa un suo alias per il Messico e il Centroamerica: il Plan Merida, messo a punto nell’ottobre 2007 dal senato nordamericano e venduto come un’iniziativa per combattere il crimine e il traffico di stupefacenti nella regione. Ma questa iniziativa con alla base una logica repressiva, non tiene conto che la criminalità organizzata e la violenza nel triangolo del Nord è il frutto storico di un sistema economicamente diseguale. Infatti la situazione madre che l’aveva provocata è rimasta pressoché  intatta e nel frattempo la violenza nell’Istmo continua ad allargarsi.
Per qualche anno si sono promossi, con scarsi risultati, programmi repressivi per combattere la violenza, puntando il dito soprattutto sulle maras (gruppi delinquenziali di giovani). Tra questi programmi, ricordiamo: la strategia Cero tolerancia (Honduras, 2001), il Plan Escoba (Guatemala, 2003), e il Plan Mano Súper Dura (El Salvador, 2004). Le maras, infatti, sono state criminalizzate e utilizzate come capro espiatorio della situazione politica ed economica che si vive nel triangolo del Nord, dove più della metà della sua popolazione ha meno di 24 anni. Questi programmi repressivi sono andati avanti ad oltranza, ignorando studi che affermavano cose diverse: secondo il Pnud, in Honduras, solo l’11% dei crimini del 2007 era  attribuibile alle maras; in Guatemala, un 14% secondo uno studio della polizia e in El Salvador il 12%, secondo l’Istituto di medicina legale.
Questa campagna si è fermata solo nelle ultime elezioni dell’Honduras in cui il candidato Porfirio Lobo Sosa del Partido de la Innovaciòn y la Unidad ha perso le elezioni contro Zelaya del Partido Liberal per i toni alti del suo discorso di repressione alle bande giovanili. Allo stesso modo, in Guatemala, Otto Perez Molina del Partido Patriota ha perso con la sua campagna elettorale della mano dura (alla violenza) contro Alvaro Colom.
La delinquenza è stata un riflesso sociale della globalizzazione centroamericana, che – pur con una crescita media annua del 5% – negli ultimi anni ha visto crescere la povertà delle popolazioni.

Rimesse e cooperazione,
ancore (incerte) di salvezza

Vent’anni di neoliberismo hanno attirato in questa parte del mondo la cooperazione internazionale, per sopperire agli effetti collaterali del modello. Il Guatemala, l’Honduras e il Nicaragua si trovano tra i 9 paesi a livello globale che ricevono più cooperazione internazionale. Inoltre, il 60% della cooperazione internazionale dell’Ue per l’America Latina viene data al Centroamerica, pur rappresentando solo il 7% della popolazione latinoamericana.
Nel Centroamerica, escluso il Costa Rica, la cooperazione internazionale  rappresenta in media il 15% del Pil.
Simile è la percentuale delle rimesse degli espatriati, di cui El Salvador detiene il primato nell’Istmo. Con la minore spesa sociale della regione 6,6% del Pil (la metà della media latinoamericana), eredità dei due decenni di governo di Arena, partito di ultradestra. Il costo sociale lo hanno pagato gli espulsi, un terzo della popolazione del paese: 2 milioni e mezzo di salvadoregni che vivono attualmente all’estero, prevalentemente negli Usa, mentre in patria il 70%  sopravvive grazie alle rimesse. Le rimesse e la cooperazione (nonostante la crisi abbia fatto diminuire queste voci d’entrata) costituiscono ancora oggi il motore dell’economia di questi paesi, insieme rappresentano circa il 30% del Pil, con il quale i governi dell’Istmo tengono a galla l’economia della regione in una versione (pericolante) della globalizzazione (alla) centramericana.
Ora che questo modello economico sta franando, sono le stesse fasce vulnerabili di questi popoli a pagare la fattura sociale, con la disoccupazione che sale, le rimesse che crollano e gli espatriati che ritornano a casa, grazie all’inasprimento delle leggi migratorie nel Nord del mondo. Se nei paesi industrializzati la maggioranza della popolazione utilizza il 10-15% dello stipendio in alimenti, nei paesi centroamericani, fra riso e fagioli, tortillas e ogni tanto un po’ di carne, si arriva all’80%, e molto probabilmente sono queste le proporzioni che alla fine della crisi (fra 5 anni nel Nord e 10 nel Sud secondo gli esperti) pagherà il ricco e povero mondo.

 Strumenti alternativi:
Alba e Petrocaribe

Il nuovo quadro geopolitico nell’Istmo viene modellato dal diffondersi della crisi negli Stati Uniti, che aumenta la disoccupazione per via del rallentamento della domanda globale. Nei paesi dell’Istmo ciò si traduce in crollo delle esportazioni e nella riduzione delle rimesse. Dalla sponda opposta, tentando di contenere i danni della crisi, si assiste all’aumento dell’influenza di Petrocaribe, «il braccio energetico» dell’Alteativa bolivariana delle Americhe (Alba), che ha spinto i governi di Alvaro Colom (Guatemala) e Zelaya (Honduras), entrambi socialdemocratici, verso l’Alba, alter-ego dei Tlc proposti dal Nord del mondo.
Petrocaribe è nato il 29 di giugno del 2005 e vedeva la partecipazione del Venezuela e di 13 paesi dei Caraibi. Oggi i paesi sono diventati 17. Petrocaribe è stato creato su proposta del presidente del Venezuela Hugo Chávez con l’intenzione di dare sicurezza energetica e contrastare gli effetti negativi che con la crisi si abbattono sulle popolazioni più vulnerabili del Sud del mondo.
Contraddicendo la logica neoliberista, Petrocaribe fonda le sue basi nella cooperazione energetica orizzontale e la solidarietà tra i popoli, tenendo conto delle asimmetrie degli stati e con l’obiettivo di creare progetti  sociali e d’infrastrutture. Inoltre cerca il cornordinamento di politiche energetiche, cooperazione tecnologica, e potenziamento di fonti alternative.
Dei paesi centroamericani, il primo membro ad entrare a Petrocaribe è stato il Nicaragua, nell’agosto 2007 durante il terzo Summit di Petrocaribe. Il seguente paese è stato l’Honduras del governo Zelaya nel corso del quarto Summit e nel quinto il Guatemala. Il Costa Rica per ora ha sollecitato l’ingresso formale. Manca solo El Salvador, dove però dal 1 giugno ha assunto la presidenza Mauricio Funes, uomo  del Fronte Farabundo Martì (Fmln).
A luglio dell’anno scorso,  nel quinto Summit di Petrocaribe, a Maracaibo in Venezuela, si decise la creazione di una impresa mista Grannacional de energia. In controtendenza all’operato delle multinazionali, si invitano i paesi membri a partecipare fin dalla estrazione del greggio nella Faja del Orinoco nel Venezuela e in questo modo acquisire conoscenze e benefici fin dalle basi.
Petrocaribe agisce però su un Centroamerica con paesi sostanzialmente non produttori di petrolio e con una dipendenza di idrocarburi che dal 1990 ad oggi si è incrementata del 557%, insieme a problemi alimentari storici:  «tra il 1940 e il 2004 si sono prodotte più di 2,6 milioni di morti associate alla denutrizione nella regione centroamericana, questo numero di morti è molto maggiore al totale delle vittime dei conflitti armati  in quei decenni», secondo l’informe del 2007 del Cepal («Commissione economica per l’America Latina»).

I pesanti numeri
della povertà

Oggi la povertà tocca in Honduras il 75% della popolazione, in Guatemala il 51%,  in Nicaragua il 60% , in El Salvador il 40%, in tutti i casi con una forte causale esogena data dall’inflazione importata. Con l’attuale crisi alimentare c’è il rischio che altri 800 mila centramericani entrino a ingrossare le fila dell’indigenza, perché si calcola che per ogni 5 tonnellate di cereali che ingessano a uno dei paesi dell’Istmo, un contadino diventa candidato all’emigrazione.
Per combattere questa crisi è stato creato un fondo chiamato prima Petroalimentos e poi, a partire dalla riunione dei ministri dell’agricoltura all’Avana a metà agosto 2008, Alba-alimentos. Con l’intenzione di cornordinare le politiche in ambito agro-alimentare, composto da un consiglio con i ministri di agricoltura dei paesi membri. Questo fondo si sta utilizzando per la produzione di alimenti, tramite la donazione di concimi e semi migliorati unicamente per i piccoli e medi produttori. Con esso si intende anche promuovere tecnologie agricole sostenibili, con una serie di programmi sociali in tutta la regione a beneficio della maggioranza impoverita. 

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




«Ho viaggiato con i “matti”»

Patasarriba: diario di un viaggio particolare

Avevano già viaggiato in treno fino a Pechino, in Cina.
A fine 2008, in 240 sono andati a Buenos Aires, in Argentina.
Sono i partecipanti a «Patasarriba», un viaggio culturale e sportivo effettuato da utenti, familiari e operatori dei servizi di salute mentale.
Un viaggio contro lo stigma e il pregiudizio che ancora colpisce le persone affette da disagio psichico. Un viaggio per riaffermare la validità della legge Basaglia (Legge 180), che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani.

Roma, 21 novembre 2008. Aeroporto Leonardo da Vinci. L’articolo fatica a prendere forma. Non riesco a concentrarmi. Troppo rumore. C’è un folto gruppo di persone che, in attesa di imbarcarsi sul volo per Buenos Aires, parlano, ridono, scherzano, si rincorrono. Insomma, si divertono.
Ma chi saranno?, mi domando, forse un po’ invidioso di tanta vitalità. Provo a darmi delle risposte: una squadra in trasferta con i propri tifosi; un gruppo di Avventure nel mondo, la nota agenzia turistica; una gita aziendale. No, osservando i partecipanti, non sembra che alcuna delle mie ipotesi possa trovare conferma. Qualcuno, notando che sto osservando quello che accade, mi si avvicina e mi chiede se voglio firmare anch’io la bandiera.
Posso farlo, ma di che si tratta?, chiedo. Guardo la bandiera che dovrei firmare: «Italia-Argentina, Patasarriba, Un viaggio contro ogni pregiudizio, per un mondo senza manicomi». Patasarriba mi rammenta un saggio di Eduardo Galeano. Ma è il resto dello slogan che aiuta a capire. «Apparteniamo ad alcune associazioni che si occupano di salute mentale», mi spiega Daniele Benfenati, operatore sanitario a Bologna. Le associazioni sono l’Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale) e l’Unasam (Unione nazionale associazioni per la salute mentale).
«È un viaggio contro il pregiudizio a 30 anni dal varo della Legge Basaglia, una legge di civiltà giustamente famosa in tutto il mondo. Patasarriba, sottosopra in italiano, è il termine spagnolo che abbiamo scelto per sottolineare l’urgenza di un ribaltamento nelle politiche di salute mentale in Argentina», aggiunge Ennio Sergio, operatore ad Imola, tenendo stretta tra le mani la sua videocamera. Franco Basaglia, psichiatra veneziano promotore della Legge 180, che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani, è molto conosciuto in America Latina, dove tenne una serie di seminari e conferenze.
Ma quante persone voleranno a Buenos Aires?, domando. «In tutto quasi 240 delle quali circa 150 sono affette da disagio psichico», mi risponde Rita Lambertini, operatrice a Bologna. Per organizzare una settimana fitta di incontri, attività e spettacoli, le associazioni italiane hanno trovato aiuto e appoggio in una associazione argentina similare, l’Adesam, Asociacion por los derechos en salud mental. 

Benvenuti all’Università

Buenos Aires, 24 novembre. Per una strana coincidenza anch’io, come il gruppo di Patasarriba, ho previsto una visita alla sede di Buenos Aires dell’Università di Bologna. Per capire se le dure accuse di sprechi mosse da il Gioale, siano vere o mero frutto di una ovvia scelta filogovernativa del quotidiano berlusconiano. Quella in calle Rodriguez Peña 1778, nell’elegante quartiere della Recoleta, è l’unico esempio di università italiana con una sede operativa all’estero, ma fare cultura costa e spesso non dà profitti immediati. E questo, nell’Italia delle veline, del Grande fratello, dell’Isola dei famosi, della Fattoria, non è un fatto bensì un mero delitto… 
La gente di Patasarriba ha preso posto nella piccola ma bella aula convegni dell’Università, dove il professor Giorgio Alberti, direttore dell’istituto, fa gli onori di casa. Assieme a lui, Stefania Costanza dell’ambasciata italiana, Roberto Grelloni, presidente di Anpis, e Carmen Mercedes Cáceres, presidente di Adesam. 
Io mi perdo ad osservare le persone, cercando di capire chi possa essere un utente affetto da disagio psichico, chi un operatore sanitario, chi un familiare o un amico. Difficile capirlo, a volte impossibile. E per fortuna è così. Anzi, forse sta proprio in questo la filosofia di Franco Basaglia: fare sì che i matti (termine improprio ma dai più ancora utilizzato) siano soltanto persone tra le persone, indistinguibili e dunque non catalogabili o etichettabili. 

La pazzia nel pallone

Giovedì 27 novembre. La località Torres de Lujan dista circa 90 chilometri da Buenos Aires. Qui sorge Montes de Oca, un manicomio statale con quasi 800 degenti.
La squadra italiana che sosterrà una partita di calcio contro una squadra di pazienti argentini è già in viaggio, seguita dalla piccola troupe televisiva guidata da Paula Kleiman, la regista che sull’evento girerà un documentario.
Il manicomio intitolato al dottor Manuel Montes de Oca è una struttura con più edifici immersa in un grande parco. Il sole picchia forte, ma gli alberi secolari leniscono la calura. Il dottor José Mario Romé, responsabile dell’area riabilitazione, ci fa da guida e ci accompagna al campo di calcio, dove le squadre sono già schierate. Fin dalle prime battute, si nota che gli argentini sono forti e il portiere della squadra italiana si arrabbia molto con i suoi difensori che non riescono a fermare gli attaccanti avversari. Il tutto si svolge sotto l’occhio elettronico delle due telecamere di Paula. Vince di misura la squadra di casa, ma gli italiani si sono battuti bene.
Una piccola delegazione di Patasarriba, guidata da Ennio Sergio, si ferma per visitare alcuni degli 11 padiglioni del manicomio che, pur nella penuria delle risorse finanziarie, sta tentando di rendere più umana la condizione di vita dei propri pazienti. A dimostrare questa filosofia, ci sono le strutture alternative, aperte fuori dall’istituto, come le case famiglia o il Centro diuo. Prima di riprendere la strada per Buenos Aires, Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore di Montes de Oca, ci invita nel suo studio per uno scambio di opinioni. In mostra, in una vetrina della stanza, c’è anche una vecchia macchina per l’elettroshock. Per fortuna, oggi è soltanto un cimelio.

La «Bombonera»
di Maradona

Venerdì 28 novembre. Come il Matadero, visitato mercoledì, anche La Boca è un quartiere difficile, ma a differenza del primo è famoso, soprattutto tra i calciofili.
Franca Aceti, docente di neuropsichiatria a La Sapienza, Marcella Venier, psicologa, e Marco D’Alema, psichiatra a Frascati, oggi non sono qui come terapeuti, ma soltanto come spettatori. I protagonisti sono nelle accoglienti palestre del Club Atletico Boca Juniors, che è mondialmente conosciuto per le imprese della propria squadra di calcio, ma che in primis è una società polisportiva fondata nel 1905 da alcuni immigrati genovesi.
Cinque squadre italiane (che includono anche donne) stanno disputando partite di calcetto contro le squadre locali. Ai bordi dei campi e sugli spalti il tifo è incessante, accompagnato da cori, tamburi e sventolio di bandiere. L’entusiasmo è palpabile.
Gli organizzatori hanno pensato a tutto. Infatti, mentre nelle palestre si svolgono le partite, piccoli gruppi vengono accompagnati  a visitare la Bombonera, il mitico stadio del Boca, con la sua forma particolare, i colori sgargianti (giallo e blu), il museo multimediale, le foto e le storie dei giocatori, Diego Armando Maradona in primis.
Al termine degli incontri, il folto gruppo di Patasarriba a piedi si sposta nella parte turistica de La Boca, quella che si è sviluppata attorno a Calle Caminito e al Riachuelo, fiume (ora inquinatissimo) che confluisce nel Rio de La Plata e che un tempo ospitò il porto di Buenos Aires. E dove, nell’Ottocento, approdarono gli immigrati genovesi. Ma la storia del quartiere oggi passa in secondo piano. Pazienti, operatori, familiari si perdono tra bancarelle e ristorantini. E locali di tango, dove alcuni non esitano ad esibirsi al fianco dei ballerini professionisti.

La poesia di Marta

Domenica 30 novembre: per Patasarriba è il giorno del rientro in Italia. Marta, una paziente con cui ho stretto amicizia, vuole lasciarmi un suo ricordo sul quaderno degli appunti. Scrive: «La gioia entra in te/ a poco a poco invade il tuo essere/ e diventa veramente tua/ nella misura in cui tu sai donare agli altri».
Per un puro caso, ho incontrato e conosciuto la gente di Patasarriba. È stato bello provare orgoglio nell’essere italiano. Non mi capita spesso. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




I matti non votano

In manicomio (1) / La «Colonia Montes de Oca»

Visita ad una struttura manicomiale pubblica, in cui il personale tenta
di percorrere strade alternative. Facendo leva sulla propria professionalità
e volontà per superare ostacoli e diffidenze. 

Torres de Lujan. Sul campo di calcio del manicomio «Colonia nacional dr. Manuel A. Montes de Oca» è in pieno svolgimento la partita tra la squadra locale e quella degli ospiti italiani. Mentre i giocatori, tutti pazienti psichiatrici, si danno battaglia senza risparmiarsi,  ci accomodiamo a bordo campo con il piccolo gruppo degli accompagnatori. Di lì a poco siamo avvicinati da un uomo alto, barbetta grigia, camice azzurrino. Sul taschino è riportato un nome: dr. J. M. Romé.  Medico, il dottor José Mario Romé è direttore della riabilitazione a Montes de Oca. Dopo rapide presentazioni, gentile e disponibile, Romé risponde alle domande. «In Argentina – spiega -, il sistema sanitario è diviso in pubblico, privato e quello delle opere sociali. Normalmente, dove si paga, si riceve una migliore attenzione. Tra le opere sociali, che appartengono ai sindacati, alcune sono buone, altre secondo me dovrebbero essere chiuse. Quanto alla sanità pubblica, fa quello che può. Dipende molto da come vengono amministrati i fondi, dipende molto dal luogo». Si intuisce subito che tipo di medico sia il nostro interlocutore: «Io credo – spiega -, che lo stato non può non occuparsi di ciò che riguarda la salute, l‘educazione, la pensione e la sicurezza per il futuro».
 Romé lavora nel manicomio da 25 anni: nessuno meglio di lui può aiutare a capire il luogo. «L’85 per cento degli ospiti – racconta – sono pazienti con ritardo mentale, di varia entità: lieve, moderato, grave. Il resto sono pazienti psicotici, che stanno nel padiglione 3, un edificio per sole donne con una cinquantina di letti, non sempre occupati».
Ci raggiunge anche il dottor Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore della Colonia Montes de Oca. Lui vuole parlare in italiano perché – spiega – «la mia famiglia  è di origine piemontese, di Novara». Rossetto ricorda che, negli anni Settanta, Franco Basaglia lodò l’Argentina e le sue strutture manicomiali. «La Colonia Montes de Oca ha appena superato il secolo di vita. Aveva un’immagine molto negativa, enfatizzata dai media. Poi, nel 2004, anno del mio arrivo, abbiamo iniziato uno sforzo di trasformazione della struttura manicomiale. Adesso stiamo portando avanti la riconversione del nostro modello di attenzione, passando da un sistema di chiusura ad uno di integrazione comunitaria, dove cioè la comunità partecipa attivamente. Siamo in un momento interessante. Si stanno riducendo i letti nei padiglioni, mentre stanno aumentando i letti in case comuni. Abbiamo, ad esempio, un programma che si chiama “Ritoo a casa”. Ad oggi ne beneficiano 80 persone. Insomma, il processo di cambio procede lento, ma procede».
«Al padiglione 7 – interviene il dottor Romé – abbiamo iniziato a formare gruppi più piccoli. I pazienti cambiano attitudini: si autogestiscono, maneggiano un po’ di denaro, escono con la famiglia, anche se non è facile, perché quelle sono le stesse persone che a suo tempo li cacciarono».

Accompagnati dal dottor Romé, andiamo a visitare alcuni padiglioni. Ce ne sono 11 di funzionanti per un totale di circa 800 pazienti e 850 operatori. Il padiglione n. 1 salta subito agli occhi perché è stato dipinto con accesi colori pastello: giallo, verde, rosa.  Diviso in 3 parti autonome, una per ogni piano, l’edificio ospita donne con ritardo mentale, basso, moderato, profondo. Tutto è molto spartano, ma le stanze sono pulite e le infermiere sembrano avere un buon feeling con le pazienti. Anche il padiglione n.3 appare adeguato.
Padiglioni dignitosi dunque, ma pur sempre all’interno di una struttura manicomiale tradizionale. Per trovare qualcosa di diverso, ci facciamo accompagnare al Centro diuo, che sta fuori della Colonia, anche se poco distante da essa.  Il Centro è una struttura molto semplice, ad un solo piano, con in mezzo un ampio spazio coperto da una tettornia.
Gladys Chutte, Hector Possetto, Romina Caricato e Carina Rebottaro lavorano al Centro diuo e parlano con sincero entusiasmo del loro lavoro. Ognuno con la propria professionalità dà vita alla struttura ed alle attività per gli ospiti. «Questo – racconta Hector – è stato il primo Centro diuo, nato dopo un intervento al padiglione 7, il più problematico. Abbiamo iniziato poco più di 3 anni fa con 30 pazienti. Il modello proposto era articolato su 3 tappe: Colonia, Centro diuo, paese con le case di convivenza».  «Dei nostri utenti, la metà – spiega Gladys – rientra alla Colonia, un’altra metà va nelle due case residenziali che abbiamo in paese. Inoltre, dato che abbiamo diversi laboratori, ci sono anche persone che vengono non per stare qui tutto il giorno ma semplicemente per seguire un corso».
Al Centro la scelta è ampia. Ci sono laboratori artistici (si tesse, si dipinge, si scrive) ed altri dove si cucina e si prepara il dulce de leche, il dolce argentino per antonomasia. C’è l’orto con la serra. Una parte dei prodotti dei laboratori vengono posti in vendita in paese.  

Romé, Rossetto, Gladys, Hector… la Colonia Montes de Oca è un manicomio pubblico che, attraverso il lavoro di persone capaci ed illuminate, sta facendo un percorso importante di  smarcamento dalla struttura manicomiale tradizionale.
Non è un’impresa semplice, anche per questioni di opportunità politica. «La sanità – chiosa il dottor Romé – dovrebbe sempre essere pubblica. Lo stato non dovrebbe mai delegare in questo campo, ma ci sono troppi interessi, come quelli dell’industria farmaceutica, per esempio. Quanto alla locura (pazzia) è sempre stata qualcosa da nascondere. Senza contare che i matti non portano voti, dato che non votano quando ci sono elezioni. Dunque, a chi importa di loro?».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Made in Borda

In manicomio (2) / Il «Borda»

Le borse di plastica costituiscono la produzione più banale. Con i prodotti
artigianali in carta ricilata c’è un bel salto qualitativo. Ma il massimo
lo raggiungono con i mobili restaurati. Gli artefici non sono operai comuni,
ma pazienti dell’ospedale neuropsichiatrico Borda
.

Buenos Aires. Sarebbe facile parlare male o molto male del Borda, ospedale neuropsichiatrico fondato nel 1863 nel barrio di Barracas. Basterebbe descrivere le sue stanze fatiscenti. O le condizioni dei pazienti che vagano sporchi e con i vestiti logori per corridoi bui e deprimenti.
Eppure, in questo luogo triste e degradato, ci sono due isole felici, dove si tenta il riscatto dell’istituzione e soprattutto dove i pazienti sono trattati da esseri umani, con i loro problemi ma anche con le loro ricchezze. La prima isola è Radio La Colifata, un’emittente nata nel Borda e che ogni sabato trasmette dall’ospedale, attraverso l’impegno di pazienti, ex pazienti, amici e volontari. La seconda è relativa ad alcuni programmi lavorativi denominati «emprendimientos en salud mental». I pazienti sono impegnati in differenti attività artigianali: producono buste di plastica, fanno oggetti con carta riciclata, restaurano mobili antichi. Si tratta di progetti piccoli, ma che raggiungono varie finalità: occupano in maniera adeguata i malati che guadagnano in autostima; insegnano una professione a persone che un giorno potrebbero trovare una nuova collocazione nella società; vendendo i prodotti, generano un reddito che consente alle attività di autosostentarsi; infine, producono qualcosa di nuovo partendo dal vecchio (carta usata, mobili antichi, eccetera).

Dei progetti imprenditoriali è responsabile Federico Bejarano, psicologo sociale, dal 1990 operatore presso il Borda. «Le persone che seguiamo – spiega Federico – hanno una doppia vulnerabilità: quella derivante dalle minori capacità (lavorative e socio-familiari) e quella generata dall’esclusione. Noi non crediamo che l’ospedale psichiatrico debba trasformarsi nel destino delle persone e che queste siano costrette a viverci. Proprio per abbattere questi muri stiamo lavorando, da alcuni anni, con alcune iniziative imprenditoriali».
Con la nostra guida saliamo al quarto piano, dove sono ospitate alcune di queste attività. Dapprima, per presentarci e salutare, ci affacciamo nella sala della biblioteca, piccola, ma molto luminosa. Attoo al tavolo ci sono alcuni pazienti intenti nella lettura.  «Abbiamo 3.700 libri – ci raccontano con orgoglio Enrique e Eduardo -. Ogni paziente del Borda può avere un libro in prestito per una settimana. Ecco qui l’elenco…». Eduardo vuole anche regalarci una sua esibizione. Ci canta una ballata di tango.
Nella stanza a lato, è ospitata l’impresa più vecchia, sorta dei primi anni Novanta, che si occupa della produzione di borse in polietilene. «Ne produciamo – spiega Federico – circa100 mila all’anno, che vengono offerte al mercato comune. L’impresa funziona ed è autosufficiente».
Nella prima stanza del corridoio, c’è un altro laboratorio, quello adibito alla produzione di carta. Ci accoglie Dora Manzilla, psicologa sociale: «Non fate foto ai pazienti, per favore». Certo che no. Dora ci mostra qualche prodotto. «Ecco, questo è un biglietto di invito per un matrimonio, quest’altro è il programma di un teatro, questo un biglietto da visita…». La qualità artigianale (e artistica) si nota subito.

Negli anni passati, sulla sanità pubblica dell’Argentina si è abbattuta la scure delle politiche neoliberiste. Il Borda non è rimasto immune. «Un tempo – racconta Federico – questo ospedale è stato un faro della psichiatria latinoamericana. Poi, come tutte le istituzioni dello stato, ha iniziato a soffrire per la riduzione dello spazio di intervento pubblico». Federico ci regala una spilletta con i colori della bandiera argentina, e una scritta: «Defendamos el Hospital público».  Gli domandiamo se esistono normative equiparabili alla legge 180 che in Italia nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi. «Non ancora. Tuttavia, qualche progresso è stato fatto. Per esempio, la legge di salute mentale numero 448 della città di Buenos Aires è una legge progressista. Se essa venisse applicata, basterebbe per una trasformazione profonda del sistema. Comunque… venite che andiamo nel nostro laboratorio più impegnativo, quello del restauro».
Dal quarto piano del padiglione centrale dell’ospedale ci spostiamo dunque in un edificio nuovo, dove ci sono anche un moderno ascensore e le scale antincendio. Qui ha trovato uno spazio adeguato il laboratorio di falegnameria, in cui un gruppo di utenti del Borda restaurano vecchi mobili.
Nella stanza, ampia ed ordinata, alcune persone (in camice bianco) sono impegnate nel restauro: una scrivania, un tavolo, delle sedie, un armadio. Qualcuno scambia due parole con Federico, ma poi torna subito al lavoro. C’è un programma di lavoro e di consegne da rispettare, come ricordano gli avvisi scritti sulla lavagna bianca posta su una parete.

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




L’inferno può attendere

Père Richard Frechette, al secolo Rick: ritratto

Haiti, isola perduta. Realtà inimmaginabile. Eppure c’è. Esiste. Il popolo haitiano continua a soffrire e a morire. Ma c’è anche qualcuno che ha messo la propria vita a fianco di questi fratelli. Storia di un prete e di un medico con la passione.

Tabarre, periferia di Port-au-Prince. In una stanza dell’ospedale Saint Damien due piccoli fagotti: Olivier Beisah e Luvens Bethoven non ce l’hanno fatta, non hanno superato la notte.
La camera è avvolta dal dolore e dal silenzio, spezzato solo dal Salve Regina che padre Rick intona, mentre con le sue grandi mani unge i minuscoli corpi di olio benedetto e li avvolge con cura in un sudario bianco. Sarà lui a garantir loro una sepoltura, un lusso che qui in molti, moltissimi, non si possono permettere. Poveri da vivi e poveri da morti. Per entrambi sono pronte due bare di cartone (il legno è prezioso), costruite riciclando scatoloni.
Le stesse che il sacerdote utilizza quando va all’obitorio dell’ospedale della capitale, ogni giovedì, per donare un funerale ai tanti cadaveri lì abbandonati. Morti di nessuno che vengono pietosamente sottratti alla fossa comune, e portati fuori città, su una collina che funge da cimitero, punteggiata di croci bianche senza nome.

Uragani e mancanza di cibo

«I morti hanno sempre torto», dice un proverbio haitiano. Qui, ad aver il torto di essere nati nel paese più povero e instabile delle Americhe, sono in tanti, soprattutto bambini.
Uno su nove non arriva ai cinque anni, muore di malattie in Europa facilmente curabili. E alle difficoltà di sopravvivenza quotidiana si aggiunge, spesso, anche la violenza della natura: verso la fine del 2008 Haiti è stata sconquassata da Fay, Gustav e Hanna, tre uragani che hanno provocato centinaia di morti  e ingenti danni a una terra già di per sé esausta, incapace di produrre il necessario per i suoi circa 10 milioni di abitanti (con un’aspettativa di vita intorno a 53 anni), la metà dei quali vive con meno di un dollaro al giorno.
Non a caso, nell’aprile dello scorso anno il rincaro del riso ha avuto ripercussioni tali da provocare scontri e morti, e da causare le dimissioni del primo ministro Jacques-Edouard Alexis.
Come denuncia Amnesty Inteational nell’ultimo rapporto sul paese, carenza di cibo, disoccupazione cronica e disastri naturali hanno esacerbato povertà e marginalizzazione, mettendo a rischio diritti minimi essenziali quali casa, sanità e istruzione (secondo fonti ufficiali il 40% della popolazione non ha accesso ad acqua pulita o a sistemi fognari). 
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha nominato l’ex presidente americano Bill Clinton suo inviato speciale per Haiti. Clinton – ha detto il capo dell’Onu – aiuterà Haiti a riprendersi dopo una serie di gravi uragani e di instabilità. Clinton aveva accompagnato Ban in una visita nel paese all’inizio del 2009.

Il passionista dei bambini

La situazione la conosce bene padre Richard Frechette, semplicemente padre Rick, come lo chiamano tutti. Cinquantacinque anni, sacerdote e medico, da oltre 20 vive e lavora qui in prima linea per l’organizzazione umanitaria Nph, Nuestros Pequeños Hermanos (Nostri piccoli fratelli), fondata nel 1954 da padre William Wasson (1923-2006), sempre dedito, nella sua vita, ai bambini più bisognosi e agli orfani, in particolare nelle aree di maggior emarginazione  dell’America centrale e meridionale.
«Sono stato ordinato nel 1979 presso il monastero dei Passionisti a New York – racconta padre Rick – e ho deciso di vivere la mia chiamata servendo il Signore attraverso l’opera grandiosa di William Wasson, ad Haiti, dove, nella sofferenza e nella miseria di questa popolazione, ma soprattutto in quella dei bambini, ogni giorno contemplo la passione di Cristo».
«Dopo poco tempo trascorso ad Haiti, decisi di rientrare a New York perché sentivo la necessità di studiare per diventare chirurgo, e rendermi ancor più utile nel concreto.
Nel 1987 terminai  i miei studi e la specializzazione e tornai qui. Da allora opero in questi luoghi come prete e come medico».
Una forza della natura questo atletico e instancabile statunitense del Connecticut, che precedentemente ha maturato esperienza lavorando anche come parroco a Baltimora, a New York con i rifugiati cubani, e per cinque anni in Honduras. Ma a colpirlo profondamente, a segnarlo, è l’esperienza ad Haiti.

Quasi un supereroe

Fisico possente, mascella squadrata, potrebbe sembrar uscito da un film di cowboy o apparire come un supereroe, ma non dei fumetti, bensì di una delle realtà più tragiche dei nostri tempi. «Uno dei primi modi in cui la povertà di Haiti è manifestata a noi, nel suo aspetto più drammatico – ricorda il sacerdote – è stata la moltitudine di bambini abbandonati alle porte del nostro orfanotrofio, nel 1987, quando abbiamo aperto la prima clinica.
Non avevamo i mezzi per offrire a tutti quei moribondi la salvezza, e infatti la prima clinica servì ad assistere i bimbi in una morte dignitosa e non per offrire loro una speranza di vita. Presto, comunque, risultò evidente che la maggior parte di quei bambini non sarebbe morta se solo ci fosse stato un posto dove curarli nel modo adeguato».
Il 4 dicembre 2006 segna una data importante in questo percorso: viene inaugurato l’ospedale pediatrico Saint Damien: un unicum nel paese, in grado di assistere gratis 40 mila bambini all’anno, nato nel giro di tre anni grazie ai fondi raccolti dalla Fondazione Rava, che rappresenta in Italia Nph (www.nphitalia.org).
Ogni mattina, già alle 6.30, davanti ai cancelli del St. Damien ci sono tante mamme che sperano di salvare le proprie creature. La struttura è all’avanguardia, offre stanze linde con 350 posti, pronte ad accogliere i piccoli malati, affetti soprattutto da malnutrizione, anemia, meningite, Tbc, Aids. Ci sono anche due nuove sale operatorie, già in funzione, volte anche a potenziare la chirurgia pediatrica sull’isola.
Un altro fiore all’occhiello è la Casa dei piccoli Angeli, aperta lo scorso dicembre, dedicata ai bimbi con handicap fisici e mentali.  Grandi e importanti successi che non fermano il prete «maratoneta» (ha scalato l’Aconcagua per raccogliere fondi per Nph e quando può partecipa alla maratona di New York per dar voce ai suoi bambini): corre in continuazione, padre Rick, tutto il giorno, parlando ora francese, ora inglese, ora creolo, occupandosi di mille aspetti contemporaneamente, ma al tempo stesso infondendo una grande calma.
I suoi occhi sono sempre attenti, vigili. Si capisce che, mentre spiega e racconta, sta pensando alle tante cose da fare, ma riesce ad essere chiaro e a fornire, con poche, precise parole, un quadro della difficile situazione: «Qui il primo problema è rappresentato dalla fame e dalla malnutrizione. A ciò si va ad aggiungere l’impossibilità di accesso alle cure per molti, unita all’assenza di lavoro.
Il paese è provato da una situazione pesante, un’emergenza tristemente continua e c’è necessità di trovare un equilibrio dopo tante tragedie. Bisogna creare delle infrastrutture, dalle strade a tutto ciò che serve per consentire e sostenere lo sviluppo del paese. Ma occorrono anche strutture morali, a partire da un sistema di giustizia che funziona».

Bidonville: incrocio
di tutti i traffici

Si comprendono ancor meglio le sue parole andando in uno dei gironi infeali dove il sacerdote quotidianamente opera: si parte alla volta della bidonville Cité Soleil.
Polvere, fumo, odore acre di pattume bruciato che si mescola al fetore delle fogne a cielo aperto e a quello di montagne di rifiuti; un maiale rovista in un ammasso di immondizia, un bimbo nudo si lava tra le baracche, con i piedi immersi nella melma.
Qui persino le forze dell’ordine hanno paura ad entrare, e i Caschi blu vengono solo se ben armati.  La missione delle Nazioni Unite è stata rinnovata lo scorso ottobre per il quindo anno consecutivo.
Ma con padre Rick presente, le guardie del corpo non servono:  è lui il salvacondotto. A lui non torcono un capello neppure i capi delle gang che qui dettano legge, gestendo il mercato della droga in transito dalla Colombia verso gli Usa, delle armi e dei rapimenti, purtroppo sempre più frequenti e con vittime i bambini,  spesso resi possibili dal coinvolgimento di poliziotti corrotti. «La violenza che nasce dalla disperazione». Così la definisce il sacerdote.
Lui stesso, qualche tempo fa, è stato aggredito: volevano rapirlo, ma quando l’hanno riconosciuto l’hanno pregato di non far parola dell’episodio: se i boss l’avessero saputo, gli autori del gesto l’avrebbero pagata cara.
Qui e nelle altre zone a rischio della capitale, infatti, padre Rick è rispettato da tutti: è riuscito a creare 17 scuole di strada, sottraendo oltre 3mila bambini al giro della prostituzione, della droga e del lavoro minorile, offrendo un’istruzione di base che permetta di imparare un mestiere, e dando lavoro a circa 80 insegnanti, molti dei quali provengono dalla casa orfanotrofio Nph di Kenscoff.
Ha organizzato delle cliniche mobili, per fornire soccorso ai bambini e alle loro famiglie e portare i casi più gravi in ospedale, e con l’auto cisterna distribuisce gratuitamente acqua potabile a circa 2.000 persone. Sta anche mettendo in piedi il progetto mateità sicura, nella bidonville Wharf Jeremy, per garantire assistenza alle donne in gravidanza, spesso giovanissime e impreparate, e ai neonati, per i quali vuole allestire delle sale al St. Damien, mirate alla degenza post parto cesareo e alla terapia intensiva neonatale.

un popolo con
Una grande umanità

Risultati davvero importanti in condizioni di degrado così forte, e ancor più evidente, nella sua crudezza, quando la luce inizia a calare  e il fumo dei falò di spazzatura rende i contorni delle cose e delle persone meno nitidi. La strada diventa tutto un brulichio di voci, risa, traffico, con una miriade di bancarelle che, illuminate dalle fiammelle delle candele, paiono tanti piccoli altari pagani.
Mentre si incrocia un blindato dei Caschi blu, ad attirare l’attenzione è un cartellone pubblicitario su cui campeggia la foto di una donna, con la scritta «M’ap denonce kidnappé» (denuncerò i rapimenti).
La sensazione di impotenza e di sconforto si alterna al desiderio di speranza, anche in chi vede la situazione dall’esterno, e ne viene colpito e travolto, inesorabilmente. Sono ancora le parole di Rick Frechette a offrire un ulteriore spunto di riflessione: «La gente qui ha un’enorme capacità di soffrire, ma anche di reagire e di andare avanti. Ho visto, in tante situazioni tragiche, difficili,  una creatività veramente impressionante. Sono persone con incredibili qualità.
Lo constato ogni giorno, anche in tutti coloro che lavorano con me: sono seri, onesti, fedeli, lavoratori, dotati di grande umanità. E non posso non pensare alle madri che ogni giorno, affrontando difficoltà di ogni genere, vengono qui all’ospedale per cercare di salvare i loro bambini, e stanno loro accanto con un affetto e una dedizione commoventi.
Queste sono qualità enormi. Cosa ci vorrebbe per cambiare la situazione nel paese? Non lo so, forse un miracolo! Ma credo che ci siano molte iniziative e segnali per iniziare a migliorare».
Piccoli grandi miracoli, uno per volta, in questo paese complesso, di contrasti, che rimane nel cuore. Come padre Rick insegna e dimostra, ogni giorno. 

Di Paola Babich

Paola Babich