Risorgiamo dalla polvere

Fondazione Missioni Consolata Onlus

Inizia con questo numero una nuova rubrica: Cooperando…, spazio di riflessione, proposte  e progetti per pensare il mondo della cooperazione internazionale insieme a Missioni Consolata Onlus.

Il microcosmo delle baraccopoli

Peter posa distrattamente una mano su un mucchio di T-shirt impilate con cura sul suo banco del mercato. Ha sentito il fischio del treno in lontananza e sa che fra pochi secondi un convoglio ferroviario lambirà la sua merce passando sulle rotaie che attraversano Kibera, il più grande degli oltre duecento slum di Nairobi. Viene da sorridere pensando agli annunci nelle stazioni europee, dove voci meccaniche raccomandano ai viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla di sicurezza ogni volta che un treno in transito scorre tra i binari. Peter compie quel gesto con estrema naturalezza, in modo quasi automatico: abita e lavora in una bidonville di trecentomila persone e ha imparato a convivere con la mobilità causata dai pochi lentissimi treni di passaggio, il fango della stagione delle piogge, i rivoli di liquami che scorrono negli scoli a cielo aperto, l’odore acre di pneumatici bruciati e il puzzo dei rifiuti urbani mai raccolti.
Secondo le stime di Un Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, un abitante del globo su sei vive in una baraccopoli, cioè in un agglomerato urbano spontaneo dove non sono garantite cinque condizioni essenziali: l’accesso all’acqua, i servizi igienici, lo spazio vitale sufficiente, la durata e qualità delle abitazioni e le garanzie giuridiche del possesso delle case. Sempre Un Habitat informa che attualmente metà della popolazione mondiale vive in città e questo, nel giro di un ventennio, aumenterà fino al sessanta per cento. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, questa crescita è decisamente sostenuta: ogni mese, cinque milioni di persone abbandonano le zone rurali e vanno a ingrossare le fila della popolazione urbana, inseguendo gli stessi sogni e speranze che portano migliaia di immigrati sulle coste italiane.
Al di là delle ovvie considerazioni sui drammi legati alla vita in uno slum, ciò che impressiona di questi quartieri è la presenza di dinamiche quotidiane del tutto simili a quelle vissute dalle persone appartenenti a contesti sociali più agiati. Ben oltre la soglia di degrado tollerabile per un cittadino occidentale si sviluppa infatti un «microcosmo», come lo ha definito padre Paolo, missionario comboniano attivo nello slum di Korogocho, «con le sue regole e la sua economia». In Kenya, un terzo degli abitanti degli slum è un finto povero che ha scelto di vivere in questi quartieri per evitare gli alti costi e doveri dei luoghi residenziali oppure per lucrare sulla disperazione altrui, affittando baracche di fango e lamiera a chi, invece, non ha scelta.
Non solo. La baraccopoli è ben lontana dall’essere un errore, un imprevisto storico e sociale; al contrario. «Gli slum sono vere e proprie riserve di manodopera giornaliera a buon mercato», commenta padre Franco, missionario della Consolata in Kenya. «E sono un ottimo centro smistamento di merci “sensibili”», gli fa eco dall’altra parte del mondo padre Jaime, missionario della Consolata a San Paolo del Brasile. «Dai quartieri ricchi, decine di automobili di lusso arrivano ogni sera a Héliopolis e nelle altre favelas pauliste per comprare marijuana, cocaina, sesso e qualunque cosa».
L’esistenza di realtà urbane degradate è certamente foriera di tensioni e violenza, dentro e fuori i confini tracciati dal marrone fulvo della ruggine delle lamiere. «Che ti aspetti?», chiede ironico Marco, consulente in psicologia sociale di Johannesburg. «Nelle metropoli del Sudafrica vedi ville immense con piscine da mille e una notte e, letteralmente girato l’angolo, trovi la township dove il piatto forte è la testa di capra arrosto. Ovvio che ogni tanto qualcuno compra un fucile e cerca di rubarti la macchina».
Viene spontaneo chiedersi perché questa marea umana non faccia valere la sua superiorità numerica e non si ribelli mettendo a ferro e fuoco le città e prendendo d’assalto le sedi del potere. «Non otterrebbero niente», spiega padre Franco, «se non una dura repressione da parte delle autorità. Si sentirebbero rispondere: “Ma chi vi ha chiesto di abbandonare le campagne e ammassarvi come bestie in città?”. No, non è questo che vogliono». Ciò che vogliono gli abitanti degli slum è piuttosto il riconoscimento graduale dei propri diritti, la riqualificazione delle aree dove vivono, il risanamento delle infrastrutture. Della quotidianità di una baraccopoli fanno parte anche i numerosi comitati di quartiere e associazioni che, anche con la collaborazione di istituzioni inteazionali, Ong e missionari, lottano ogni giorno per avere case di mattoni, scuole adeguate, allacciamenti idrici ed elettrici, strutture sanitarie.

Missioni Consolata Onlus
nelle periferie urbane
L’impegno nelle periferie urbane è uno degli ambiti prioritari del lavoro di evangelizzazione che i missionari della Consolata portano avanti attraverso la loro presenza decennale, in alcuni paesi anche centenaria, in Africa e America Latina. Sono stati perciò testimoni diretti dell’esodo dalle aree rurali o dalle zone di guerra da cui hanno avuto origine gli insediamenti urbani spontanei e la loro degenerazione in baraccopoli e, nel corso del tempo, hanno cercato di rispondere alle nuove emergenze.
Missioni Consolata Onlus (Mco) nasce proprio per valorizzare questa esperienza e accompagnare il lavoro di promozione umana attraverso lo strumento del progetto. Nella maggioranza dei casi, i progetti di Mco nelle periferie urbane, ideati e gestiti in stretta collaborazione con le comunità locali, intervengono sugli ambiti sanitario e scolastico e mirano a fornire a tutti l’accesso alle cure mediche, ai servizi igienici, a un’istruzione di qualità, senza dimenticare la formazione dei leader e il microcredito.
Tra le esperienze più significative promosse attraverso la campagna quaresimale «Risorgiamo dalla polvere» occorre ricordare il Kenya. Nella periferia di Nairobi, i missionari della Consolata operano negli slums di Kahawa West, Deep Sea, Suswa e Masaai con progetti relativi a istruzione, sanità e sanificazione. A Kahawa West è in corso la costruzione di un asilo mentre continua la collaborazione con Un Habitat e altre agenzie per la costruzione e manutenzione dei servizi igienici. A Deep Sea, Suswa e Masaai sono operativi un centro di artigianato e sartoria con annessa produzione, un dispensario e una scuola matea ed elementare, quest’ultima gestita in collaborazione con l’associazione italiana Afrikasì.
Altra realtà importante è quella della periferia di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima, dove i missionari della Consolata hanno avviato progetti sanitari e di microcredito per la popolazione indigena emigrata in città e i lavoratori urbani.
Nella periferia di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, si sta procedendo all’ampliamento di due strutture scolastiche ed è in programma l’apertura di un centro nutrizionale per far fronte agli alti tassi di malnutrizione rilevati tra i bambini del quartiere di Saint Hilaire.
In Mozambico, nei sobborghi della capitale Maputo, si fornisce appoggio didattico agli studenti universitari attraverso il programma di borse di studio, affiancato dai servizi offerti dal centro culturale e dalla biblioteca.
Infine, i missionari della Consolata sono presenti anche nelle periferie urbane di Caracolí (Colombia), Guayaquil (Ecuador) e Caracas (Venezuela), dove svolgono attività formative e gestiscono centri d’aggregazione.
Il dettaglio dei progetti di Missioni Consolata Onlus è disponibile su sito web all’indirizzo www.missioniconsolataonlus.it, dove è possibile consultare il dossier «Periferie urbane» e visitare la pagina della campagna «Risorgiamo dalla polvere».

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli




Madre Teresita non va in pensione

Legion d’Onore a una missionaria Figlia della carità

La Francia ha onorato con una delle più prestigiose onorificenze nazionali una missionaria francese ultra ottantenne, Madre Teresita, ancora attivissima sulle Ande ecuadoriane nella promozione integrale dei giovani indios quechua.

Ho letto una notizia che ha fatto davvero bene al mio cuore missionario. Soeur Marie Louise Duvignau, più nota in Ecuador come Madre Teresita, il primo gennaio 2010 è stata nominata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, per la prestigiosa onorificenza della «Legion d’Onore». Madre Teresita appartiene alla Congregazione delle Figlie della Carità e lavora attivamente nella parrocchia di Flores, diocesi di Riobamba, Ecuador. Le ho scritto per farle sapere che in molti condividiamo la soddisfazione di vedere che il suo lavoro a favore degli ultimi e una vita spesa per gli altri sono pubblicamente riconosciuti. Mi ha risposto facendo notare che si è sentita a disagio per l’onorificenza: «Abbiamo sempre preferito la parte nascosta e umile perché la nostra luce deve far vedere e rintracciare chi è invisibile e abbandonato».
Alla fine di dicembre Madre Teresita ha compiuto 85 anni, sono un percorso ben definito riguardo all’età, ma incalcolabile in rapporto al suo impegno missionario. È stata anche in Egitto prima di arrivare in Ecuador sempre fedele all’ispirazione e carisma di San Vincenzo de Paoli, che i poveri li trattava da «signori», non perché fossero bravi, belli e buoni, ma perché in questo modo si faceva un investimento sicuro nell’amore di Dio. Oggi, in un angolo sperduto delle Ande, grazie a questa meravigliosa missionaria francese, esiste davvero un luogo dove gli indigeni sono tenuti in considerazione e amati come persone care, ma soprattutto sono aiutati ad essere capaci di dare e ricevere con disponibilità e sensibilità fuori del comune. Quando Madre Teresita faceva notare (e lo faceva spesso) che il progetto «Missione Flores» era frutto della Grazia Divina, si riferiva ai volontari, tutti giovani indigeni, che ancora adesso l’accompagnano e dirigono assieme il centro di formazione, e sono partecipi e seriamente responsabili della gestione pastorale nel territorio della Missione.
Questi collaboratori volontari mi hanno scritto delle testimonianze stupende: «è impressionante l’amore di Teresita per noi indigeni poiché nonostante l’età già avanzata, continua la sua presenza sollecita e generosa. È un regalo grandissimo. I giovani che frequentano il centro sono particolarmente ansiosi di imparare. Il centro è un luogo che li accoglie con molto amore, dove tutti sono benvenuti. Quest’anno (2009-2010) vogliamo impegnarci di più nella informatica, accettando la richiesta degli alunni. Allo stesso tempo avremo spagnolo, matematica, contabilità, inglese, tessitura di fasce, taglio e cucito, arti e mestieri, cucina, produzione agricola e piccoli allevamenti, musica, Bibbia e altre materie. Tutto serve per la vita».
Quando i missionari della Consolata arrivarono nel 1987, madre Teresita era già presente da alcuni anni e con una consorella aveva in affitto due stanze perché non c’erano ancora strutture. La diocesi di Riobamba era ben organizzata, le idee e gli obiettivi chiari. La base teorica, «el marco teorico», prevedeva di partire dalla comprensione della realtà per arrivare alla meta, il Regno di Dio; da qui erano stabiliti gli obiettivi generali e quelli specifici. La fede era accettare Gesù Cristo come premessa e fondazione per impegnarsi a lavorare a costruire la chiesa dai poveri e con i poveri, formando comunità con la coscienza di essere popolo di Dio e segno espressivo del regno. Assieme bisognava fare tutto il possibile per costruire una società nuova che fosse anticipazione del regno nella terra, mettendo al primo posto l’impegno di edificare la chiesa indigena. Gli obiettivi specifici diventavano la formazione, la moltiplicazione e consolidazione delle comunità cristiane di base e altri tipi di comunità cristiana. Tutto cominciava formando i responsabili della marcia di queste comunità: catechisti, missionari, futuri sacerdoti. La diocesi sembrava un laboratorio effervescente. Ma già nel 1987 mons. Leonidas Proaño (1910-1988), anima della diocesi, aveva già dato le dimissioni (1985), subito accettate.
Non ci volle molto a capire che chi aveva voce in capitolo non erano gli indios, ma gli agenti pastorali, francesi, colombiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, preti, laici e suore. Gli indios erano i protetti, i beniamini, e anche loro dovevano esserci sempre, ma lasciar fare agli altri. Ogni tanto potevano anche dire la loro che, guarda caso, appoggiava gli agenti pastorali con attacchi e lamenti contro la chiesa gerarchica, il Fmi e il debito estero. Gli indios erano tutti battezzati e nelle comunità della campagna oltre la cappella c’era anche la casa comunale, la comunità cristiana e l’immancabile comitato locale. Avevano messo in piedi una certa convivenza o almeno una coabitazione con i vari interlocutori. Ma loro seguivano quello che avevano sempre fatto, il loro stile di vita collaudato nei secoli. Secondo la storia, tutti gli indios dell’Ecuador erano puruhà, minuscole tribù confederate e cornordinate in linee generali dai re di Quito. Poi arrivarono gli incas dal Perù a dominarli e all’arrivo degli spagnoli erano già stati assimilati nella cultura incaica. Gli spagnoli fecero il resto: unificarono la lingua e l’amministrazione e promossero a tutta forza la cristianizzazione.
Quando con Madre Teresita ci siamo messi a studiare il progetto missionario degli indigeni di Flores, ci siamo chiesti «cos’era rimasto dei puruhà? E degli incas? E degli spagnoli?». Lungo i secoli erano arrivati poi i libanesi, i cinesi, gli italiani, gli inglesi, i tedeschi. Ma nella diocesi di Riobamba gli indigeni reclamavano si ascoltasse il loro grido che rivendicava luoghi e spazi nella chiesa. Come dire che «se non ci danno spazio nella chiesa cattolica», saremo costretti a fae una noi totalmente indigena, nel pensiero e nella teologia, con riti propri e segni propri. Un bel sogno, ma impossibile da realizzare. Così con Madre Teresita ci siamo messi a lavorare partendo davvero dalla realtà che si trovava senza nostalgie indebite. La chiesa di Riobamba anche se composta per l’ 80% di indios e quasi indios, non aveva che una manata di essi nei suoi quadri direttivi. Allora si può inculturare la chiesa senza presenza indigena?
A Flores abbiamo iniziato modestamente, ma con decisione, a indigenizzare la parrocchia. Il primo impegno è stato pratico: cosa possiamo fare con una chiesa piena di cultura indigena e vuota di ministri, dirigenti e responsabili indigeni? Cooptammo allora indios nei quadri parrocchiali, certi che, una volta inseriti, avrebbero poi manifestato le loro idee e le esigenze più vere. Una delle prime esigenze fu quella di offrire una educazione complementare ai ragazzi e alle ragazze quechua che finivano la scuola primaria e rimanevano senza prospettive per il futuro.
Flores è un piccolo centro di 200 abitanti, ma la parrocchia ne conta 6.000 di cui il 60% sono protestanti evangelici. Subito ci siamo organizzati per migliorare la chiesetta e fare un centro di promozione educativa e formativa. Nel 1989 funzionava già e Madre Teresita diventò l’anima di tutte le attività volte a far sì che gli indigeni fossero avviati a diventare responsabili della propria vita e della organizzazione delle attività comunitarie.
Per il centro sono passati già diverse centinaia di giovani indigeni e tutti hanno ricevuto quello che noi chiamavamo «capacitasion» (rendere una persona capace di), ognuno secondo le proprie qualità. Ciascuno acquisiva delle capacità professionali e umane diverse, secondo i bisogni della famiglia e comunità. Madre Teresita animava una splendida collaborazione tra tutti senza divagare sulla gerarchia dei ruoli. Aveva capito il tessuto della impostazione culturale: ognuno al suo posto con responsabilità e funzione rispettata. Madre Teresita, come religiosa della Carità, si è sempre caratterizzata per la capacità di praticare una solidarietà con i poveri e gli ultimi non fine a se stessa, ma sempre orientata alla costruzione di una società nuova che completasse quella di partenza con più vita, più verità, più amore e più giustizia. Il tutto condito dalla virtù che lei ha praticato di più, la «tendresse» (tenerezza).
Grazie a Madre Teresita la «Missione» non è un altro episodio nella lunga lista di opere che hanno un principio, molti sacrifici e poi una rapida scomparsa. Non ho mai smesso di ringraziare perché Madre Teresita era riuscita a rendere il centro una casa sempre abitata. Ha lavorato molto per elevare, emancipare, far valere l’indio, come qualità imprescindibile dell’essere e dell’agire. E la cultura è stata animata perché davvero coltivasse la persona indigena e la magnificasse nel sapere e nel volere, nel conoscere e nel fare.
Teresita grazie, sempre. L’onorificenza la meriti tutta, anche perché già da tanti anni sei diventata un riferimento stabile, bello e felice per l’indio piccolo, per la comunità umile, per il giovane indio fermo in un presente senza memoria che valga la pena ricordare e privo di un futuro che meriti impegno, fatica e sacrificio. Hai dato loro incentivo per raggiungere una dignità che valga la spesa di essere salvata e degna di essere continuata, anche se sappiamo tutti che il processo è lento e lungo, se si vuole includere tutti quanti e non solamente alcuni più furbi e capaci. Que Dios te pague, cuyashca Hermanita. 

Di Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




MEDIAMENTE

Fuori dal coro

Il meccanico delle rose
Hamid Ziarati, Einaudi editore,  2009 – Euro 18,50

Non so se avete mai provato il piacere di innamorarvi a tal punto di un libro da aspettare la sera o il momento opportuno per tornare a leggerlo. «Il meccanico delle rose» di Hamid Ziarati ha toccato così profondamente  la mia emotività e il  mio piacere verso la lettura da farmi scendere alla fermata sbagliata dall’autobus. Vi assicuro che non è poco, nell’epoca della corsa senza fine ai tanti impegni. Hamid Ziarati è nato a Teheran e all’età di  15 anni si  è trasferito a Torino dove ha fatto il liceo e studiato ingegneria. Al centro del suo libro c’è l’amore – in tutte le sue sfaccettature – che muove i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, in una girandola di storie e sacrifici. Amore,  morte e libertà in cinque storie sullo sfondo di un paese volutamente mai nominato ma decifrabilissimo. Lo stile narrativo  è veramente originale: far conoscere e svelare più spaccati della personalità del protagonista attraverso lo sguardo delle persone che sono state importanti per lui.  Con un tono caldo e suadente, l’autore narra ogni esistenza e lo fa con destrezza, utilizzando anche un linguaggio diverso a seconda dell’epoca in cui si compie la singola vicenda. Una poetica ricca di metafore e di riflessioni,  che ci riporta all’idea del nostro essere protagonisti solo per noi stessi, ma comparse sulla scena della vita altrui.

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Hamid, il tuo libro rappresenta un’innovazione stilistica nel raccontare il protagonista.
Come è nata quest’idea?
«Volevo raccontare la storia di un uomo qualunque, partendo dagli anni Venti ai giorni nostri. Per farlo, riconsegnando al lettore anche il periodo della sua prima infanzia, dovevo far parlare chi lo aveva accompagnato in questo viaggio. Dal padre, al cugino, alla moglie, alla figlia e all’amata. Così si è formata una galleria di personaggi che mi hanno aiutato a dargli una personalità, differente a seconda dei rapporti con ognuno di loro: padre meraviglioso, amante, vigliacco, marito protettivo, cugino astuto, innamorato delle rose. In sostanza, un uomo di passaggio come tutti gli altri e come tutti noi».

Questo libro è dedicato a tua figlia e le  figure femminili di cui narri sono tante. Raccontaci…
«Il libro è dedicato alla mia bambina Emma perché vorrei che imparasse ad apprezzare il valore della vita in una società libera. Le donne del mio libro sono forti, risolute e pronte a sacrificarsi per amore. La figura centrale dell’ultimo episodio, Laleh, è una «pazza d’amore» ed è proprio dal suo letto che ci vengono riconsegnate in un lucido mosaico, tutte le storie del libro. In questo delirio osserviamo Laleh chiedere insistentemente dell’acqua. Ebbene, è proprio quell’acqua che non le viene concessa, la metafora del desiderio di libertà delle donne iraniane. Del loro essere e rimanere assetate!».

Perché la scelta di non nominare mai il tuo paese?  
«Non nominare il mio paese è stata una scelta di solidarietà e di  rispetto verso gli autori locali, vittime di un regime retrogrado e sanguinario, impossibilitati dalla censura a far sentire la loro voce.
Volevo che attraverso le pagine si respirasse un po’ delle trasformazioni sociali, economiche e politiche avvenute in Iran. E desideravo che il pubblico non avesse la solita  visione distorta  dell’Iran – paese musulmano uguale nazione araba – ma che ci leggesse tutta la storia, le tradizioni e il patrimonio dell’antica Persia».

I primi sullo scaffale

Censura
Shahariar Mandanipour, Rizzoli editore, 2009 – Euro 19,50
La storia d’amore tra due giovani negli anni della rivoluzione khomeinista, l’influenza della censura nella scrittura e nella vita stessa degli iraniani, sono i protagonisti di questo insolito romanzo nel romanzo. L’autore, infatti, nelle pagine di «Censura» ci racconta di come nasca in lui l’idea di voler scrivere un romanzo d’amore, di come desideri dar vita ad una storia luminosa in un’epoca oscura, in cui il sentimento stesso non può essere comunicato esplicitamente. Il racconto delle tecniche e degli espedienti dell’autore per mantenersi fedele alla storia si intercala con la narrazione della storia d’amore stessa: quella di  Sara e Dara  che cercano disperatamente di vivere  la loro passione  tra le difficoltà imposte dalle dure leggi della società iraniana. I tagli applicati dall’inflessibile censore Sig. Petrovic si materializzano con tratti di penna che cancellano, pur mantenendole visibili al lettore, le frasi «incriminate» costituite da allusioni reali o immaginate o da semplici parole «proibite».

Le cose che non ho detto
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2009 – Euro 19,50
Ultimo romanzo di Azar Nafisi, «Le cose che non ho mai detto» ha una struttura autobiografica. Lo stile autentico e immediato dell’autrice e la sua tecnica del racconto conduce il lettore in un mondo dove, alle storie legate all’universo famigliare, si contrappongono quelle di una società in trasformazione. L’universo dei personaggi che ritrae è toccante: dal  magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e della madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano.  Due storie in una: quella del paese e di un regime repressivo vista con gli occhi delle dinamiche familiari che, spesso, nei silenzi e nelle doppie verità presentano una chiara analogia.

Leggere Lolita a Teheran
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2007 – Euro 10,00
Il primo libro di Azar Nafisi è un inno alla letteratura e alla libertà. La cultura apre una finestra sul mondo così come il soggiorno dell’autrice diventa luogo fisico e mentale di un anelito alla vita vissuta autenticamente. Azar Nafisi, dopo aver dato le dimissioni dall’ateneo,  decide di organizzare un seminario «segreto» sulla letteratura inglese con le sue sette migliori studentesse. La poetica del  celebre autore inglese Nobokov con il suo impareggiabile «Lolita» instaura con l’autrice e le sue allieve un legame unico. I suoi romanzi, colmi di sfiducia e costruiti attorno a invisibili trappole, diventano  simboli di uno stato d’animo e di una quotidianità priva di ogni libertà. Il salotto diventa momento di scambio e di apertura, dove, senza l’atteggiamento composto e il chador imposto, tutte le allieve si aprono alla confidenza del loro difficile vivere sotto il regime islamico. La narrativa diventa così un veicolo forte e profondo per scoprire e riappropriarsi del loro io più nascosto.

Vediamoli insieme

Premessa:
In Iran, a causa della continua censura, non sono usciti film negli ultimi tempi.  La scelta del movie che proponiamo è però ricco di metafore con l’essere umano e con qualsiasi paese sotto regime dittatoriale.

Cecità – disponibile in formato DVD presso videoteche e negozi dedicati
un Film di Feando Meirelles (2008)
«Cecità» è un film ispirato all’omonimo romanzo di  José Saramago: un’allegorica riflessione sulla cecità dell’uomo verso gli altri esseri umani, sulla mancanza di solidarietà e sull’uso corrotto del potere. La pellicola racconta la storia di una città colpita da una folgorante epidemia di cecità che porterà i suoi abitanti a vedere tutto bianco. L’impossibilità di orientarsi determinerà uno sbando collettivo e lo scatenarsi dei più biechi istinti di sopravvivenza. Solo una donna non sarà colpita dal morbo e sarà la testimone oculare della fragilità umana. L’attrice Julienne Moore (nella foto) è la protagonista nel film.

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Haiti: Alzati e cammina!


Non esiste un altro posto così al mondo. Un paese di figli di schiavi. Ma di schiavi ribelli, che si rivoltano guidati da un grande leader, quale fu Toussaint Louverture e arrivano a sconfiggere le truppe di Napoleone. Così il primo gennaio 1804 nasce la prima repubblica indipendente delle Americhe, con popolazione di origine africana. Ma poi la storia non è clemente e le dittature si susseguono, tra le più feroci quella dei Duvalier, durata trent’anni, che mette in ginocchio il paese. Nei primi anni Novanta uno spiraglio che diventa una speranza per tutta l’America Latina oppressa. La teologia della liberazione sembra incarnarsi in un altro leader, il padre salesiano Jean-Bertrand Aristide, che, appoggiato dalla chiesa di base diventa presidente della repubblica. «Gli haitiani sono un popolo “messianico” hanno bisogno di un leader carismatico, poi lo seguono, in massa» mi diceva padre Jean-Yves Urfié.

Aristide promette di liberare il paese dal giogo degli aiuti e dell’imperialismo. Un cattivo esempio, giudicano a Washington, dove siede George Bush (padre). La Cia organizza un sanguinoso colpo di stato. È il 1991. Aristide non è morto, ma «comprato» e quando sarà riportato al potere dagli Usa di Clinton, è diventato un burattino, che si arricchisce con i soldi degli aiuti e del traffico di droga. Il sogno è svanito. Il popolo ancora tradito. L’isola è in mano alle bande criminali che dettano legge. Uno dei paesi più poveri del mondo, ma forse il popolo più sfortunato. Un popolo accogliente, caloroso. Ma sanguigno, rissoso … per il quale la violenza è ancora uno dei tratti caratteristici. Un paese dai sentimenti forti. Non è un popolo di miserabili, come si vorrebbe. Ma un popolo di grandi artisti, pittori, poeti, scrittori e musici. Jaques Stephen Alexis poeta e scrittore fonda la corrente del «Realismo meraviglioso».

La realtà descritta ha sempre qualcosa di meraviglioso, di magico. Ed è proprio questo Haiti: i confini tra la realtà e la magia si fondano. Terra di gente profondamente religiosa, che ha saputo unire le credenze africane con il cristianesimo, imposto all’inizio dai padroni agli schiavi delle piantagioni. Dove il culto dei morti occupa un posto di particolare importanza. Un popolo al 90% di origine africana, ma non di africani. Che sente le sue radici affondare nell’acqua per cercare di raggiungere la Guiné (come viene chiamata l’Africa in creolo) senza mai arrivarci. Un popolo che ha creato il proprio idioma, kreyol, fondendo lingue africane, francese, un pizzico di spagnolo e poi sempre più neologismi inglesi. Una lingua e una cultura che il grandissimo scrittore Félix Morisseau-Leroy, haitiano doc, ha promosso, fino ad adattare l’Antigone di Sofocle all’immaginario creolo.

Cosa succederà adesso? Duecento anni rasi al suolo in un minuto. Il cuore pulsante di Haiti non c’è più. Un paese povero, vero, dove la speranza di vita è tra le più basse del mondo e grande parte della popolazione vive di stenti. Ma che stava (prima), lentamente, trovando una via per migliorare. Adesso interi settori della società haitiana sono finiti sotto le macerie di Port-au-Prince nell’immane tragedia del 12 gennaio. Il clero, ad esempio, è stato decimato. Tutte le chiese della capitale sono crollate. Poi gli intellettuali, i funzionari, i professionisti (un esempio tra tutti medici e infermieri). Ripercorro con la mente le vie di Port-au-Prince, che è stata la mia città, e penso alla sua gente. Da ricostruire non saranno solo le case, ma la stessa società haitiana. Difficile oggi pensare al dopo. Quando i riflettori si spegneranno. Quando la primissima emergenza sarà passata e le fosse con decine di migliaia di cadaveri saranno chiuse. Quando tutte le infrastrutture saranno da ricostruire e non ci saranno competenze per fare e per gestire. Una generazione di orfani da far crescere. Non ci dimentichiamo di Haiti: un posto speciale, un popolo unico. Non ne esiste uno uguale al mondo.

Marco Bello




Le nazioni cammineranno alla sua luce

Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale

«Scopo della missione della Chiesa è di illuminare
con la luce del vangelo tutti i popoli nel loro
cammino storico verso Dio, perché in Lui
abbiano la loro piena realizzazione ed il
loro compimento. Dobbiamo sentire l’ansia
e la passione di illuminare tutti i popoli, con la
luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa,
perché tutti si raccolgano nell’unica famiglia umana, sotto
la pateità amorevole di Dio». Rivolgendosi ai «Fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale» e ai «fratelli e sorelle dell’intero Popolo di Dio», nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2009,
che si celebrerà domenica 18 ottobre, il Santo Padre Benedetto XVI esorta «a ravvivare in sé la consapevolezza del mandato missionario di Cristo di fare “discepoli tutti i popoli”, sulle orme di san Paolo,
l’Apostolo delle Genti».

Nel Messaggio, intitolato «Le nazioni cammineranno alla sua luce» (Ap 21, 24), il Santo Padre ribadisce ancora una volta che «la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell’umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata, perché crediamo che l’impegno di annunziare il vangelo agli uomini del nostro tempo… è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità».

1. Tutti i Popoli chiamati
alla salvezza
«L’umanità intera, in verità, ha la vocazione radicale di ritornare alla sua sorgente, che è Dio, nel Quale solo troverà il suo compimento finale mediante la restaurazione di tutte le cose in Cristo. La dispersione, la molteplicità, il conflitto, l’inimicizia saranno rappacificate e riconciliate mediante il sangue della Croce, e ricondotte all’unità.
L’inizio nuovo è già cominciato con la risurrezione e l’esaltazione di Cristo, che attrae tutte le cose a sé, le rinnova, le rende partecipi dell’eterna gioia di Dio. Già oggi, nelle contraddizioni e nelle sofferenze del mondo contemporaneo, si accendono le luci della speranza di una vita nuova», pertanto il Pontefice sottolinea che «la missione della Chiesa è quella di “contagiare” di speranza tutti i popoli. Per questo Cristo chiama, giustifica, santifica e invia i suoi discepoli ad annunciare il Regno di Dio, perché tutte le nazioni diventino Popolo di Dio… La missione universale deve divenire una costante fondamentale della vita della Chiesa. Annunciare il vangelo deve essere per noi, come già per l’apostolo Paolo, impegno impreteribile e primario».

2. Chiesa pellegrina

Il Santo Padre ricorda poi che la Chiesa universale «si sente responsabile dell’annuncio del vangelo di fronte a popoli interi» e «deve continuare il servizio di Cristo al mondo», in quanto la sua missione e il suo servizio non sono «a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale, ma di una salvezza trascendente, che si attua nel Regno di Dio. Questo Regno, pur essendo nella sua completezza escatologico e non di questo mondo (cfr Gv 18,36), è anche in questo mondo e nella sua storia forza di giustizia, di pace, di vera libertà e di rispetto della dignità di ogni uomo. La Chiesa mira a trasformare il mondo con la proclamazione del vangelo dell’amore» ribadisce ancora il Papa, chiamando a «partecipare a questa missione tutti i membri e le istituzioni della Chiesa».

3. Missio ad gentes

Soffermandosi in particolare sulla missione ad gentes, Benedetto XVI ricorda che la missione della Chiesa, è quella di chiamare tutti i popoli alla salvezza e sottolinea la necessità di «rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo, che è fermento di libertà e di progresso, di frateità, di unità e di pace», impegno particolarmente urgente considerando «i vasti e profondi mutamenti della società attuale. Animati e ispirati dall’Apostolo delle genti, dobbiamo essere coscienti che Dio ha un popolo numeroso in tutte le città percorse anche dagli apostoli di oggi… La Chiesa intera deve impegnarsi nella missio ad gentes, fino a che la sovranità salvifica di Cristo non sia pienamente realizzata».

4. Chiamati ad evangelizzare
anche mediante il martirio

La giornata dedicata alle missioni è anche occasione per ricordare le Chiese locali e i missionari e le missionarie «che si trovano a testimoniare e diffondere il Regno di Dio in situazioni di persecuzione che vanno dalla discriminazione sociale fino al carcere, alla tortura e alla morte. Non sono pochi quelli che attualmente sono messi a morte a causa del suo “Nome”…
La partecipazione alla missione di Cristo, infatti, contrassegna anche il vivere degli annunciatori del vangelo, cui è riservato lo stesso destino del loro Maestro. “Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità».
Quindi il Pontefice ricorda alle Chiese antiche come a quelle di recente fondazione, che «sono poste dal Signore come sale della terra e luce del mondo, chiamate a diffondere Cristo, Luce delle genti, fino agli estremi confini della terra», pertanto «la missio ad gentes deve costituire la priorità dei loro piani pastorali».
Ringraziando e incoraggiando le Pontificie Opere Missionarie «per l’indispensabile lavoro che assicurano di animazione, formazione missionaria e aiuto economico alle giovani Chiese», il Pontefice ricorda che «attraverso queste istituzioni si realizza in maniera mirabile la comunione tra le Chiese, con lo scambio di doni, nella sollecitudine vicendevole e nella comune progettualità missionaria».

5. Conclusione

Nella conclusione il Papa riafferma che «l’evangelizzazione è opera dello Spirito e che prima ancora di essere azione è testimonianza e irradiazione della luce di Cristo da parte della Chiesa locale, la quale invia i suoi missionari e missionarie per spingersi oltre le sue frontiere». Perciò chiede a tutti i cattolici «di pregare lo Spirito Santo perché accresca nella Chiesa la passione per la missione di diffondere il Regno di Dio e di sostenere i missionari, le missionarie e le comunità cristiane impegnate in prima linea in questa missione, talvolta in ambienti ostili di persecuzione.
Invito, allo stesso tempo, tutti a dare un segno credibile di comunione tra le Chiese, con un aiuto economico, specialmente nella fase di crisi che sta attraversando l’umanità, per mettere le giovani Chiese locali in condizione di illuminare le genti con il vangelo della carità.
Ci guidi nella nostra azione missionaria la Vergine Maria, stella della Nuova Evangelizzazione, che ha dato al mondo il Cristo, posto come luce delle genti, perché porti la salvezza “sino all’estremità della terra” (At 13,47)». 

A cura di Sergio Frassetto

Sergio Frassetto




A caccia di biodiversità

Ritoo nella foresta nuvolosa, dopo 16 anni

Piccolo dal punto di vista geografico, l’Ecuador è uno dei paesi con la maggiore diversità biologica e climatica del mondo.  Dalla costa del Pacifico alla duplice catena delle Ande, dalla foresta Amazzonica alle isole Galapagos, vi sono ben 46 ecosistemi. Tanti mondi in uno, da difendere dalle speculazioni multinazionali e dal turismo selvaggio.

A 16 anni di distanza è sempre lo stesso fratel Giovanni, l’entusiasta missionario delle foreste. È sera già inoltrata quando arriviamo, una mia amica e io, alla sua missione nella capitale ecuadoriana, e mi accoglie con il solito calore, anche se porto con me tre italiani, padre, madre e figlio, conosciuti in aereo. In soffitta c’è posto anche per loro.
Esauriti i convenevoli, fratel Giovanni indossa il grembiule, si mette in cucina e prepara una buona zuppa per tutti. Ci sono anche altri ospiti, un collega entomologo, il padre spagnolo Josè dei maristi di Leòn, due visitatori italiani e le due ragazze che fratel Giovanni fa studiare e che aiutano in cucina. Sono allegre e affettuose, di famiglia contadina, numerosa, che vive in una zona remota della sierra, dove non ci sono scuole.
Durante la cena, Queti è venuta a incontrarmi: non la riconosco tanto è cambiata. Sono passati 16 anni, da quando la conobbi bambina sui monti di Las Pampas e rimasi per alcuni giorni ospite della sua famiglia, impiegata da fratel Giovanni Onore nella custodia del territorio della Fondazione Otonga.
Era stata un’esperienza indimenticabile, che mi fece scoprire un modo di vita semplice, guidata dalla fede, ricca di valori a noi italiani quasi dimenticati: ospitalità, rispetto e amore in famiglia. Di questo e della natura fantastica del paese scrissi in uno dei miei primi reportages per Missioni Consolata (ndr  luglio agosto 1995, pag. 34).
Ora Queti ha 27 anni ed è una giovane molto attraente, con vestiti attillati e scarpine eleganti con tacchi alti. Dopo aver studiato turismo al college, ha trovato lavoro in un albergo e vive in città. Mamma Carmen e papà Cesare Tapia, sono rimasti lassù, tra le nuvole della foresta, i 9 figli sono in giro per il paese a lavorare. Mario, il maggiore, vive e lavora in Italia come scultore.
Devo ritornare lassù, vedere quello che fratel Giovanni sta facendo in quella zona montagnosa da una ventina di anni, per salvare la preziosa foresta nuvolosa. Ma le notizie da Guayaquil parlano di allagamenti, dovuti alle piogge incessanti. Le strade sono interrotte per frane, le città allagate, quindi per ora non possiamo raggiungere Otonga e cambiamo programma.
NELLA FORESTA DEL NAPO
Un breve volo ci porta a superare il ciglione della sierra orientale, sullo sfondo le cime di ghiaccio dei vulcani. Dai 3 mila metri di Quito scendiamo ai 300 di Coca, sul rio Napo, in Amazzonia. Sorvoliamo una vasta zona dove le piantagioni di palma da olio africana hanno sostituito la foresta pluviale amazzonica. In lontananza ci sono i fuochi dei pozzi petroliferi che hanno portato a uno sviluppo caotico e molta immigrazione. Da qualche giorno è scattato l’allarme per via di una perdita che ha inquinato il grande fiume, la popolazione è stata invitata a fare scorta di acqua, perché tra poco arriverà l’onda nera.
«Le multinazionali che stanno sfruttando il bacino sono americane – mi spiega Emily, una biologa di New York che lavora in Ecuador da qualche anno per monitorare lo stato dell’inquinamento provocato dagli insediamenti industriali -. Ma ora sono attente a non far mancare acqua potabile alla popolazione. Vi è stata una immigrazione da altre regioni del paese perché qui c’è più lavoro ed è meglio pagato».
Un servizio di battelli lungo tutto il rio Napo permette di raggiungere in 8 il confine peruviano, per poi proseguire verso il rio delle Amazzoni e addentrarsi nella foresta brasiliana. Ci imbarchiamo anche noi, ma per raggiungere uno degli «eco-lodge» sorti lungo il fiume per i turisti che visitano il Parco nazionale Yasuní.
Facciamo il viaggio in compagnia di Conceptiòn e della figlia Hilda, che ha appena vinto il concorso di reginetta di bellezza del Parco Yasunì. La mamma è felice, sorride orgogliosa accanto alla ragazza, seria e compresa nel suo ruolo, i lineamenti indi e la fascia di miss sulle spalle. Vivremo insieme questa piccola avventura. «Hilda mi assomiglia molto. Alla sua età avrei potuto sposare un americano, lasciare il mio povero villaggio sulla costa del Pacifico» ricorda con rimpianto.
Invece, con 6 figli da allevare, lei e il marito decisero alcuni anni fa di trasferirsi a Coca, dove aveva trovato un lavoro ben remunerato in una compagnia americana. Ma a contatto con gli occidentali,  l’antica tradizione familiare, cristiana, si sta sgretolando, si lamenta Conceptiòn: la figlia maggiore è già divorziata ed è tornata a vivere coi genitori insieme ai suoi due bambini.
Nel parco sarà Froilan la nostra guida naturalistica. Di etnia yasuní, discendenti dei primi abitanti della foresta, i nativi sono oggi superati in numero dai nuovi arrivati, che vivono nelle città. Depositari della cultura amazzonica, solo loro sono autorizzati a farci conoscere le meraviglie della selva amazzonica, che è più difficile da apprezzare rispetto alla foresta nebulosa della sierra. Qui infatti le dimensioni e l’altezza delle piante e la densità del loro fogliame mantengono nell’oscurità molti aspetti della vita vegetale e animale, impossibili da cogliere e apprezzare in tutta la loro ricchezza, senza l’aiuto di una guida indigena.
Il Parco Yasuní, presentato come «oro verde» nei volantini di propaganda turistica, è stato dichiarato area protetta e «riserva della biosfera», ma la minaccia della corsa all’oro nero è sempre incombente e tiene gli indigeni sul piede di guerra.
LA FORESTA NUVOLOSA
Padre Josè e fratel Giovanni mi accompagnano sul fuoristrada verso la Riserva di Otonga. È un giorno di sole, ma appena lasciamo la vista sublime dei vulcani Pichincha e Cotopaxi e superiamo il ciglio della sierra occidentale, troviamo la nebbia che sale dalla valle. Lunghe colonne di camion attendono che le ruspe liberino le frane che continuano a cadere, a causa delle piogge.
Il traffico è intenso e pesante; arriva da Guayaquil e i carichi maggiori  proseguono per l’Amazzonia, dove ferve l’attività di estrazione del petrolio. Le strade sono asfaltate e sono costeggiate da frequenti edifici bassi e senza finestre, case da gioco e prostituzione per gli autisti. Non ricordo di aver visto cose del genere 16 anni fa: allora le strade erano sterrate e si viaggiava salendo sulla lechera, il camion che trasportava i bidoni di latte e le mucche; o sugli automezzi carichi di forme di panela, lo zucchero fatto col succo di canna.
Otonga è frutto di un sogno del fratello marianista Giovanni Onore, nato a Costigliole d’Asti nel 1941, laureato in agraria presso l’Università di Torino, da più di una ventina di anni missionario in Ecuador, attualmente docente di entomologia all’Università Cattolica di Quito.
Il sogno cominciò a realizzarsi alla fine degli anni ‘80, quando comperò 100 ettari di foresta, a un centinaio di chilometri a sud di Quito, sul versante occidentale della cordigliera delle Ande, dove le particolari condizioni climatiche favoriscono una biodiversità altissima, un prezioso ecosistema minacciato dalla deforestazione per sfruttare il legname e fare spazio a prati, pascoli e strade. Il territorio comperato è stato affidato alla famiglia Taipa: Cesare e i figli Italo, Elicio e Arturo continuano ancora oggi a occuparsi della conservazione della fauna e flora, sviluppando attività guidate per i visitatori.
Da anni fratel Giovanni continua a girare il mondo per illustrare il suo progetto e raccogliere fondi, invitando gli studiosi a visitarlo per conoscere e studiare le meraviglie del «bosque nublado», selva nuvolosa, così chiamata per distinguerla dalle foreste pluviali dei bacini dei fiumi equatoriali. Con i fondi arrivati da varie parti, pezzo per pezzo è stata comperata la foresta integrale di Otonga, che si estende per circa 1.500 ettari, da circa 800 fino a 2.300 metri di altitudine. Essa è proprietà dell’Università cattolica di Quito; con l’arrivo di altri fondi si spera di raggiungere i 3 mila ettari.
Raggiungere la riserva non è cosa semplice, soprattutto se la stagione delle piogge è iniziata. Di fatto vi arriviamo che è già notte, a causa delle frequenti interruzioni stradali causate dagli smottamenti. Saliamo nel buio, lungo il sentirnero che attraversa un lembo di foresta e raggiungiamo la casa del guardiano del centro di Otongachi. Durante la notte la pioggia aumenta di intensità e porta via un ponticello che ci aveva permesso di arrivare, superando un ruscello. Un grosso albero è crollato e la pioggia continua a cadere, più leggera.
A Otongachi è in funzione un Centro di educazione ambientale, che ospita un museo interattivo sulla biodiversità, con strutture per attività didattiche a disposizione di studenti e scienziati. L’edificio è moderno, in cemento armato, per evitare la corrosione dovuta al clima.
Da una decina d’anni il centro è fornito anche di una costruzione che consente l’alloggio a una trentina di persone. Così biologi e naturalisti di diverse parti del mondo, hanno potuto visitare la riserva, come pure diversi gruppi di studenti universitari di Quito hanno fatto esperienza in campo, imparando a conoscere le migliaia e migliaia di specie animali e vegetali della foresta di Otonga, molte delle quali non hanno ancora un nome perché nessuno le ha ancora scoperte: specie diverse di farfalle, di orchidee (3.600 specie) e bromeliacee, fiori e uccelli colorati, insetti e serpenti, con i quali Giovanni Onore ha una dimestichezza sorprendente.
La nostra guida è Jessica, bimba di 11 anni, rimasta orfana con 5 fratelli due anni fa, quando la madre è morta per il morso di un serpente, mentre tagliava la canna. Giovanni si è preso a cuore la famiglia, dà lavoro e fa studiare i ragazzi.
A Otonga fratel Giovanni ha accolto varie famiglie che trovano da vivere nella conservazione della riserva e in varie attività artigianali, costruendo così una comunità grata e solidale verso il missionario italiano, come dimostra quanto è accaduto pochi giorni dopo la mia visita: alcuni banditi sono entrati nel centro di Otongachi, armi in pugno, terrorizzando e depredando gli ospitati, un gruppo di studiosi e appassionati della natura canadesi.
Ma i contadini che abitano nei dintorni si sono insospettiti, sono accorsi armati di machete, hanno circondato la foresta, chiamando rinforzi e la polizia della caserma più vicina, e insieme hanno catturato i banditi, eccetto uno, trovato poi ferito e annegato due giorni dopo.
Galapagos
«Non andare alle Galapagos – mi dice fratel Giovanni Onore -; hanno scarsa biodiversità e poi, sono molto costose…». Ma come si fa, una volta arrivati in Ecuador, a ignorare quel posto meraviglioso, quel mondo a sé stante, dallo sviluppo botanico zoologico fuori dall’ordinario, sperduto nell’oceano a mille chilometri dalla costa ecuadoriana? Disobbedisco e, la mia amica e io, partiamo con un volo da Guayaquil.
In aereo, siede accanto a me un giovane danese, che fa parte di un gruppo di 17 studenti che vivono in Ecuador grazie ai programmi di scambi interculturali. «La famiglia che mi ospita è meravigliosa e molto numerosa – mi confida -. La città dove abito è al confine col Perù, le scuole sono di livello molto basso e i ragazzi che vanno all’Università di Guayaquil devono pagare per entrare e c’è il numero chiuso».
Questi ragazzi hanno la fortuna di visitare solo qualche isola dell’arcipelago. Noi decidiamo di fermarci più a lungo, ne vale la pena. Alcune isole sono abitate da coloni, inviati nel dopoguerra dal governo. Ma poi, a partire dal 1964 il governo ecuadoriano si è reso conto dell’importanza delle isole e ha cominciato a impegnarsi per riparare i danni subiti dall’ambiente per l’introduzione di animali e piante estranee all’ecosistema.
Puerto Ayora è la cittadina più grande; alle 10 di sera il parco giochi è ancora pieno di bambini. L’atmosfera è molto diversa da quella, così tesa, che si respira nelle piazze delle città del continente.
Al parco incontro Julio e Inés, una coppia di anziani che ha ricevuto dai figli il dono di un viaggio per l’anniversario di nozze. «Siamo insieme da 50 anni – spiega Julio -. Abitiamo a nord di Quito, nella casa che ci siamo costruita, circondata da un giardino con alberi da frutta e verdura». Ora che è in pensione, da impiegato del ministero delle finanze, Julio si è comprato un’auto e, quando se la sente, fa il tassista. Con i 6 figli tutti sistemati e 11 nipoti, Inés si dà ancora da fare nel commercio di frutta e verdura, che compera ad Ambato e rifornisce i supermercati della capitale.
Pare che vi sia molta richiesta di trasferirsi sulle isole, per la vita tranquilla e l’assenza di criminalità, così diffusa nelle città ecuadoriane. Si pone così il problema di non stravolgere l’ecosistema già a rischio a causa del turismo, che quest’anno ha avuto un rallentamento a causa della crisi internazionale, dopo anni di crescita forte.
Pato, la nostra guida, vive con la famiglia a San Cristòbal, una delle isole più belle, tra quelle abitate, dove è nato da una famiglia di contadini della sierra, immigrati negli anni ‘50, inviati dal governo per colonizzare le isole. Dopo aver seguito un corso presso il centro di ricerche di Puerto Ayora, egli si è impiegato come guida naturalistica, a bordo delle navi che trasportano i visitatori nell’arcipelago. Senza una seria preparazione scientifica, Pato trova difficoltà a esprimersi e rendere interessanti le visite.
Mi rendo conto che la qualità delle guide si è abbassata, da quando visitai i luoghi 16 anni fa. Allora erano studiosi, anche stranieri, che curavano le visite delle isole. Nello stesso tempo ho notato che in alcuni casi la situazione è migliorata, gli straordinari animali endemici per cui le isole sono famose (uccelli, iguane, pinguini e otarie… ) sono aumentati. La lotta per eliminare animali estranei come le capre, sta dando i primi frutti. 

di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Nella pelle dei disperati

Tre giorni nei campi degli orrori e della follia

In molti paesi negare l’olocausto è un reato; eppure vari negazionisti
continuano a sostenere le loro teorie, con argomenti assurdi
e chiedono prove inconfutabili. Queste ci sono, afferma l’autrice
di questo articolo: basta andare ad Auschwitz e immergersi nel suo silenzio
di morte, per capire e sperimentare uno dei momenti più orrendi
della nostra storia… da non dimenticare.

H o conosciuto Hans. Il nome è di fantasia, per mantenere l’anonimato di chi mi ha aiutata a ottenere permessi per entrare nei campi e rimanerci giornate intere per il mio reportage. È venuto a cercarmi in albergo a Cracovia, colpito dalle mie richieste; non dimenticherò mai la sua faccia, quando sono scesa nella hall tendendogli la mano. «Mi aspettavo una di quelle giornaliste anziane, austere per una richiesta così stravagante, invece lei… potrebbe essere mia nipote… quanti anni ha? Ma lei è pazza! Come le è venuto in mente di fare un reportage del genere? È impossibile fare quello che lei mi ha chiesto… a meno che… sia una turista semplice… Nessuno è mai riuscito a sopravvivere per più di quattro ore nei campi!» mi ha tuonato nelle orecchie. «Allora adesso ce n’è una» gli ho risposto io.
Davanti a un paio di bicchieri di un meraviglioso rosso polacco, mi ha raccontato il dolore intrinseco e genetico degli ebrei e dei polacchi ogni qualvolta si neghi l’olocausto. Lo rassicuro raccontandogli le ore trascorse a Budapest con sopravvissuti. Ho ascoltato storie drammatiche e storie di amore straordinario, ma non posso realmente raccontarle se non mi immergo nella loro storia e nel loro dolore. Devo provare e gli prometto che resisterò. Due occhi grigi mi analizzano come a dire: questa non è normale!
Il giorno dopo vado a ritirare i miei «visti» e un anziano nonno che mi farà da guida e guardia del corpo, nel caso che, mi fa notare Hans, dovessi svenire, come spesso accade.

P elle. Un odore acre di pelle… stampato per sempre nel naso. Mi sento osservata da decine e decine di occhi. Sguardi finiti che mi avvolgono a destra e sinistra nel corridoio che percorro. Sono le foto che facevano ai deportati. Grandi foto in bianco e nero, nitidissime. Immediatamente penso al fotografo che le ha fatte. Doveva essere molto bravo. Una messa a fuoco disarmante. Ma sapeva che stava fotografando dei cadaveri vivi? Cerco di immedesimarmi nelle sue emozioni, sensazioni… è difficile.
Ho scelto di immergermi fisicamente e psicologicamente nei campi di Auschwitz e Birkenau. Quando dico alla mia guida cosa ho in mente di fare mi guarda perplessa. E solo dopo una scarica di domande decide di accompagnarmi. Per tre giorni interi mi lascerò volontariamente attraversare da quel terrore, dalla disperazione stanca dei deportati, la lunga attesa della morte. Morte come salvezza. Morte come libertà.
Quando arrivo davanti al cancello di Auschwitz la prima cosa che noto è il silenzio di un curatissimo prato inglese. Flotte di turisti discutono, parlano e si allineano con la loro guida, interrogandosi sul perché c’è una fotografa quando è severamente vietato fotografare.
Non sarà semplice immergermi intenzionalmente nei campi, dappertutto mi spuntano fuori cappellini di curiosi. Li lascio andare avanti e inizio dagli ultimi blocchi. La mia guida, un ex-deportato i cui occhi ancora si bagnano quando mi racconta di quegli anni, mi segue in ogni singolo scatto. Iniziamo dai sotterranei dove venivano torturati gli ebrei. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due di altezza, in cui venivano obbligate a stare in piedi tre, quattro persone per giorni e notti intere.
Entro in una di queste e mi chiudo dietro la cancellata. È quasi buio, circola poca aria. La fiamma di una candela mi illumina la macchina fotografica. Ho difficoltà a vedere l’esposizione da usare per la foto. Un senso claustrofobico inizia a farsi strada nel mio corpo. L’odore pungente è ancora troppo forte. Sono sola. Zoltan, il mio guardiano, mi osserva a distanza. Gli ho chiesto io di lasciarmi sola. I muri scrostati mi raccontano il loro calvario. Richieste di aiuto, nomi, promesse, raccomandazioni e ricordi, incisi con le unghie su un muro freddo. Mi siedo per terra, lasciandomi illuminare il viso da un buco che funge da finestra. E li vedo. Larve nude, terrorizzate, umiliate, prive di dignità umana. Uno è seduto dove sono io, gli altri tre in piedi e a tuo siedono le loro ossa.
Un senso di nausea mi scuote, ma mi obbligo a restare. Sento gli occhi appannarsi dietro l’obiettivo. Devo asciugarli per poi ricominciare a scattare. Se ero una di loro! Se i miei nonni erano loro. Se mio figlio dopo essermi stato strappato dal grembo era uno di quei quattromila bambini fatti fuori. Come hanno potuto una mente e un corpo umano, menti e corpi uguali a quelli di quasi un milione e mezzo di ebrei uccisi, arrivare a tanta violenza. Una violenza meditata, studiata. Come può esserci nel cuore dell’uomo una brutalità tale.
Esco dalla cella e continuo il mio viaggio in un mondo di ricordi non miei. Zoltan racconta, racconta, scrutandomi. Montagne di capelli, di pettini, di gavette, di scarpe e vestiti dietro un’anticamera di vetro riempiono le stanze. Gigantografie svegliano chi non ha avuto ancora il tempo di immaginare come avveniva l’ispezione. La luce di una fredda mattina di marzo filtra dalle finestre evidenziando le vetrate con i loro tesori. Una luce perfetta… Ma che senso ha fotografare montagne di capelli? mi chiedo.
Mi sento prendere la mano. È Zoltan che legge nei miei movimenti. Lo guardo e nei suoi occhi leggo le mie domande. Ricorda ancora il freddo che scioglieva le ossa durante la notte, con un sacco di tela che copriva quattro persone, il lavoro, le violenze e i soprusi.
Entriamo nella sala dove venivano portati i bambini. Vestitini, ciucci, scarpine sono ancora integre sotto teche di vetro. Il cuore mi balza in gola, un brivido freddo mi attraversa; immagino le scene lette nei libri, penso all’inquadratura ponendo tra me e quei ciucci una barriera, la mia macchina fotografica. Ma il sangue mi bolle nelle vene, rabbia e impotenza mi esplodono dentro. Devo fermarmi non vedo più. Gli occhi inondati si rifiutano di vedere, di fissare attraverso un obiettivo l’immagine che ho di fronte. Esco per respirare aria nuova. Non sento più il mio corpo.

S ono le 16.00. La nausea continua a scuotermi. Zoltan mi consiglia di tornare in hotel e rilassarmi. Ci organizziamo per il giorno seguente. Percorro i 40 chilometri di strada che separano Auschwitz da Cracovia, osservando quei boschi fitti e impervi. Gli stessi attraverso i quali molti sono scappati, sono morti o sono stati fucilati da giovani soldati tedeschi.
Arrivo all’hotel stordita. Mi segue ancora quell’odore acre di pelle. Ce l’ho addosso, sui vestiti, nei capelli. Ancora adesso quando ci penso, eccolo che puntuale m’inonda le narici.
La mattina seguente di buon’ora riparto per Auschwitz. Arrivo che hanno appena aperto. Sono le 8.30 e c’è poca gente. Vado direttamente al blocco delle camere a gas e ai foi. Zoltan, ancora assonnato, mi segue a fatica. Lo saluto davanti alla porta di legno delle docce. Entro. Mi hanno concesso due ore per poter lavorare in solitudine. Le stanze sono illuminate da una piccola lampadina che pende dall’alto. Delle candele illuminano il pavimento dove venivano ammassati i corpi. Entro nella doccia. Prima di entrare, un cartello invita a lasciare l’accappatornio lì.
Mi metto nella stessa loro posizione, alzo lo sguardo e osservo il jat della doccia, pensando all’esplosione di terrore quando hanno capito che da lì usciva gas e non acqua. Gocce di sudore mi freddano la schiena. Il senso di nausea torna e scalpita nello stomaco.
Zoltan, la mia ombra da due giorni, mi accompagna ai bagni. Lo troverò lì, quando uscirò dopo un po’, ancora stordita. Mi chiede perché voglio soffrire così. E già doloroso ascoltare i racconti dei deportati, perché voler entrare nel loro tormento!
Andiamo a pranzo da sua figlia, ormai siamo amici. Mi scorta con la tenerezza di un nonno e io lo interrogo con la curiosità frenetica di una nipote. La moglie è morta dieci anni fa stroncata da un cancro all’utero. Lui l’ha sposata appena usciti da Birkenau. Gli occhi blu ancora si illuminano quando racconta del loro amore. «Un amore povero, ma intenso, vissuto giorno per giorno fino all’ultima notte quando l’ho lasciata andare da Lui» mi dice.
Chiedo a Maria, la figlia di Zoltan, come può vivere al confine di un luogo così straziante. Il suo balcone si affaccia sulle casette avvolte dal filo spinato. Mi spiega che la loro proprietà era lì: «È l’unico panorama! E nella vita bisogna anche sapersi accontentare di quello che si ha».
N el pomeriggio too ai campi. Entro nella camera dei foi. L’odore di morte, di pelle inonda ancora l’aria. Fermi, immobili, lucenti come fossero stati appena spenti. I foi mi fissano. Io li guardo attraverso il mirino: sembrano distanti, invece sono lì a pochi centimetri.
L’odore della ghisa si mischia a quell’odore che brucia dentro e fuori i campi. Ne avrò i polmoni pieni dopo tre giorni. Dopo aver girato per ogni singolo blocco, per ogni singola via, mi fermo a osservare la realtà estea attraverso grandi e luminose finestre. Cosa pensavano? A chi pensavano? Pregavano? Credevano ancora in Dio? Un Dio che sembrava essersi dimenticato. Avevano ancora sogni e speranze? Quali?
Quella sera girerò fino a stancarmi per le viuzze di Cracovia. Accendo il computer per scaricare le foto. Ogni foto è una fucilata. Gli scatti alle docce sono mossi e lì che ho la consapevolezza che ricorderò ogni singolo minuto di questi giorni. La mano ferma di una fotografa, non ha avuto la forza di reggere la macchinetta.
Birkenau, l’ultimo giorno,  sarà il colpo di grazia. Percorro tutta la ferrovia che arriva dritta nei campi. Un silenzio mi grida nelle orecchie. Il cielo è blu. Limpido e terso fa compagnia a un sole che brucia gli occhi. Mi guardo attorno e vedo solo due binari che tagliano in due, chilometri e chilometri di casette recintate da filo elettrico spinato. E loro erano lì. Abitavano lì, vivevano lì, lavoravano e morivano lì.
Sento i passi stanchi di Zoltan dietro di me, continua a bere la sua bottiglietta d’acqua. È stanco. I ricordi pesano più della fatica fisica. Arriviamo alla fine della ferrovia con la testa, il cuore e le gambe straziati. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




A colpi di fax

Carlos Cardoso:  per non dimenticare

Sono passati nove anni, ma chi abbia pianificato e deciso la morte del giornalista Carlos Cardoso dorme ancora sonni tranquilli. Il giornalista investigativo più noto del Mozambico lottava contro le misure strutturali imposte dalla Banca Mondiale e contro la corruzione nel suo paese. Lo ricorda un suo collega e compagno di lotta.

È il 22 novembre 2000, quando Carlos Cardoso, giornalista di 48 anni, viene freddato da due killer in pieno centro a Maputo (foto in alto). Cardoso era «il migliore e il più rispettato giornalista mozambicano» riporterà l’inglese The Guardian due giorni dopo.
Nato a Beira nel 1951, figlio di immigrati portoghesi, Cardoso era un giornalista investigativo che non lasciava nulla al caso. Aveva moglie e due figli.
Dopo una carriera nei media di stato, aveva co-fondato Mediacornop, la prima cornoperativa di giornalisti indipendenti (1992) e Media fax, primo quotidiano che usa il fax come mezzo di diffusione.
Cardoso fonda poi da solo il giornale economico Metical (1997, dal nome della moneta del paese), anch’esso via fax. Si dedica in particolare alle battaglie contro le misure imposte dalla Banca Mondiale e dalle altre organizzazioni inteazionali per il suo paese.
In quelle settimane sta lavorando a un’inchiesta scottante. La frode di 14 milioni di dollari nel caso della privatizzazione del Banco Comercial de Moçambique, la maggiore banca del paese.

«C’è libertà di stampa in questo paese, ma è una libertà condizionata – ci racconta Feando Lima, giornalista, presidente del consiglio di amministrazione di Mediacornop, e amico di Cardoso -. Sembra che tutti in Mozambico siano favorevoli a questo governo, ma non è così.
Quando un giornalista fa delle domande alla prima ministra, se sono superficiali non c’è problema, ma se vuole approfondire le cose si complicano, come quando si vuole scrivere di corruzione del governo o dei funzionari dello stato».
E continua: «Ci sono molte barriere per chiedere, e ottenere la libertà che dovrebbe essere insita a questo mestiere. Le pressioni poi non mancano».
Il panorama mediatico non è eccellente. Continua Lima: «I giornalisti sono in genere mal preparati e mal pagati, questo porta al fatto che non riescono a fare articoli di una grande profondità. Ci sono varie scuole, ma non molto buone».

Quando gli chiediamo se cambiò qualcosa per la stampa in Mozambico, dopo l’assassinio di Cardoso, risponde con un velo di emozione: «Non molto, quello che succede è che ne sentiamo la mancanza. Per fare quel lavoro lui aveva qualità e non ci sono altre persone del suo livello. È una perdita molto grande, dal punto di vista umano e professionale. Una delle ragioni che portarono alla sua morte fu che si trovò molto isolato. Era un caso unico. Così decisero: attacchiamo lui e risolviamo il problema. In quel momento lo risolvettero, perché determinate inchieste caddero. Le forze politiche ed economiche legate al crimine, si salvarono».

Un evento del genere potrebbe ancora verificarsi? «Chiaro che io posso essere ucciso domani, ma qualcuno pagherà un prezzo in perdita di popolarità, prestigio, relazioni inteazionali, cooperazione. È penalizzante per un presidente, arrivare in un paese e per prima cosa ti chiedono perché è stato ucciso un giornalista. È molto imbarazzante per un governo. Non è solo incriminare persone, ma l’immagine di uno stato, soprattutto se si vuole apparire un regime di legalità democratica e garantita».
«Io so e tutti sappiamo determinate cose, non è detto che non ci saranno più morti, ma qui in Mozambico molte persone muoiono nel contesto del crimine, della droga».
Dopo diversi processi, nel gennaio 2006 è stato condannato come  mandante Annibal dos Santos junior a 30 anni di carcere. Questi, noto malvivente, è già riuscito a fuggire due volte dal carcere. Sarebbe protetto da alte personalità, e nell’inchiesta spuntò anche il nome di Nyimpine Chissano, figlio dell’ex presidente Joaquim. Ma la giustizia sui veri mandanti deve ancora fare il suo corso. 

di Marco Bello

Marco Bello




Bianchi da morire

Albini: persecuzioni in Africa centrale

Ci sono tante superstizioni in Burundi. Negli ultimi mesi se ne è aggiunta una, importata dalla Tanzania. Una macabra idea per cui gli albini varrebbero tanto oro quanto pesano. E questo diventa una forte minaccia per la loro sicurezza. Un’associazione locale lotta per i loro diritti.

Tutto è cominciato verso la fine del mese di agosto 2008. Alcune superstizioni arrivate dalla Tanzania, raccontano che gli albini sono sì portatori di handicap, ma che ogni parte del loro corpo vale oro. Rapidamente, le voci si trasformano in fatti. L’8 settembre dello stesso anno a Nyabitsinda, in provincia di Ruyigi, una ragazzina di 14 anni viene sgozzata da due individui.
Questo assassinio è come lo sparo di partenza. In tutto il paese inizia la caccia agli albini. Almeno altri tre bambini sono ammazzati in diverse province.
Gli albini non sono più sicuri nelle loro località. Terrorizzati sentono la loro vita costantemente minacciata. In molti decidono di lasciare il loro domicilio e andare a vivere nei capoluoghi di provincia dove c’è qualche garanzia in più di sicurezza. Alcuni partono soli, altri con la famiglia o con un membro della stessa. Altri cambiano radicalmente regione.
A Ngozi sette albini vanno a vivere nel capoluogo, mentre a Ruyigi sono in 23.  Le famiglie sono distrutte e chi ancora va a scuola è costretto ad abbandonare la propria classe, con il rischio di perdere l’anno. Godefroid Hakizimana, albino di 27 anni, sposato e con un figlio di due anni ha lasciato la sua famiglia, spiegando che: «Sento che alla lunga sto diventando una minaccia per i miei cari, anche se questi assassini cercano solo le persone come me».

Discriminazioni

Un albino nella società burundese è visto come un essere con molti difetti, per il fatto che il suo handicap sia così visibile: la pelle. Per questo motivo una vecchia pratica è sempre nelle credenze di un burundese: quando vedi un albino si dice una preghiera, sputandosi sul cuore e chiedendo di non mettere mai al mondo degli albini. Un’altra superstizione recita che non bisogna mai guardare negli occhi un albino, altrimenti si rischia di avere dei figli con questo problema.
Per Liduine Nyamushirwa, storica, di superstizioni ce ne saranno sempre, ma quello che è sicuro è che in passato «Un albino era considerato come un individuo qualsiasi. È vero che il suo aspetto fisico sembrava strano, ma i nostri antenati avevano capito che tutti i bambini vengono da dio, Imana, e che nessuno aveva il diritto di togliergli la vita con il pretesto che il colore della sua pelle è diversa dalla nostra».
Secondo la studiosa: «Il Burundi tradizionale era una società che rispettava la vita degli innocenti e che non accettava assassini ed altre pratiche di carattere criminale». All’epoca degli antenati un albino era considerato alla stregua di ogni altro essere umano. Essi avevano capito che si trattava di una malformazione cutanea, per cui si spalmava la loro pelle con burro per proteggerla dai raggi solari.
«Posso anche affermare che gli antichi non hanno mai creduto che il corpo o il sangue di un albino avesse dei poteri magici», continua.
Ricorda che durante la sua infanzia, la famiglia aveva per vicina una donna albina, di nome Kabura. Spesso lei chiedeva a sua madre perché la vicina era «bianca» e la risposta era che il colore della pelle non le impedisce di essere burundese.
Ciononostante il presidente dell’associazione Albini senza frontiere (Asf), Kassim Kazungu, ci confida che in passato si raccontava che un albino non può morire, ma solo scomparire. Inoltre, secondo Kassim, che è lui stesso albino, è spiacevole constatare che per certe famiglie, avere un figlio albino è una vergogna a tal punto che si vuole dimenticare la sua esistenza.

Un orrore importato

Ma da dove viene questo recente fenomeno di uccisione degli albini?
Nella vicina Tanzania gli stregoni utilizzano gli organi e le ossa degli albini negli intrugli portafortuna che, secondo credenze locali, permettono ai cercatori di diamanti di trovare le gemme più preziose, mentre i pescatori utilizzano i loro capelli per preparare le esche e pescare nel lago Vittoria.
Sono dunque gli stregoni spesso i mandanti di questi assassini. Si serviranno poi di parti del corpo della vittima come capelli, braccia, gambe, e soprattutto il sangue, per preparare delle pozioni che, assicurano, renderanno i loro clienti molto ricchi.
Dopo una quarantina di omicidi, il governo tanzaniano ha deciso di reprimere il fenomeno, cercando gli autori dei crimini e facendo anche un censimento degli albini viventi sul territorio. Questo per poter meglio assicurare la loro sicurezza.
Rapidamente gli omicidi sono diminuiti, ma con l’effetto di trasferirsi nel vicino Burundi, a cominciare dalle province di frontiera (Ruyigi, Cankuzo e Muyinga).
È in questo modo che cominciò il misterioso e macabro «commercio». Dopo aver sgozzato o pugnalato la vittima, i criminali ne amputano gli arti e ne prendono il sangue.
Il bottino dei malfattori è venduto in Tanzania a somme colossali, come 600 milioni di franchi (circa 400mila euro) per il corpo di un albino.

Crisi di valori?

Secondo l’onorevole François Bizimana, deputato dell’East African Community, queste pratiche si aggiungono ad altre già in uso in Burundi. Il tutto è segnale di una reale crisi di valori che sta attraversando il paese: «La povertà non può in nessun caso essere presa come fattore esplicativo di questo fenomeno, si tratta piuttosto d’ignoranza».
I sostenitori di queste pratiche di stregoneria si nascondono dietro la miseria per giustificarle, ma in realtà approfittano dell’ignoranza delle persone.
La lega Iteka, associazione burundese per la difesa dei diritti umani, nel suo ultimo rapporto (2008) ha denunciato energicamente questo fenomeno che tende a prendere una ampiezza inquietante. Allo stesso tempo Iteka critica la passività della quale fanno prova le autorità amministrative per contrastarlo.
Gli attivisti aggiungono che questi omicidi premeditati sono un attacco a ogni diritto alla vita e al fatto che tutti gli uomini nascono liberi e uguali.
L’assistenza degli albini che lasciano le loro famiglie per cercare luoghi più sicuri nelle città sembra essere un compito difficile. Le autorità amministrative non vogliono affrontare il problema in modo radicale. I costi della casa per 25 albini raggruppati a Sanzu saranno foiti dall’associazione Asf. Il procuratore della repubblica a Ruyigi, Nicodeme Gahimbare, si è impegnato a fornire a questi sfollati viveri e protezione per mezzo di poliziotti.
Ma il raggruppamento di albini in un posto più o meno sicuro è come una «quarantena» o ancora una stigmatizzazione, secondo il deputato Bizimana: «Con questo metodo di protezione, un bambino albino crescerà sapendo che non è accettato, che è perseguitato e che per poter vivere deve essere messo in quarantena».
Proibito manifestare

Il presidente dell’Asf ha dichiarato che ogni mese almeno quattro albini sono assassinati. Di fronte a questo fenomeno, che ha preso oggi un’ampiezza inquietante, lo scorso marzo Asf voleva organizzare una manifestazione per denunciare queste pratiche e, soprattutto, per chiedere che queste persone siano considerati esseri umani e siano accettati per quello che sono.
Purtroppo, il governo del Burundi, ha rifiutato il permesso, dicendo che l’associazione non è legalmente riconosciuta. Ma si tratta di un falso pretesto secondo Kassim Kazungu, il riconoscimento dell’associazione è arrivato nel dicembre 2002.
Il presidente di Asf chiede che ci sia un censimento degli albini come è avvenuto in Tanzania, e che si facciano delle sensibilizzazioni della popolazione. Ma anche che gli albini, e tutti i burundesi possano essere coscienti che la sicurezza dei primi non può essere garantita che dalla popolazione. 

Di Amandine Inamahoro

Prime Condanne
A fine luglio, in Burundi, c’è stata una prima sentenza. Otto degli undici imputati, accusati dell’omicidio di dieci albini,  sono stati condannati a pene che vanno da un anno di detenzione all’ergastolo.


Amandine Inamahoro




Terra del drago tonante

Reportage dal piccolo regno himalayano, ultimo Shangri-La

Un piede nel passato e l’altro nel futuro, il Bhutan si sta aprendo alla modeizzazione, ma a modo suo, con leggi di avanguardia nella tutela dell’ambiente, con imposizioni restrittive per conservare le secolari tradizioni culturali. Ma l’invasione mediatica ed economica, con i suoi modelli e stili di vita occidentali, mette a rischio un sistema sociale che considera la felicità degli abitanti più importante del prodotto interno lordo.

I raggi del sole appena sorto lambiscono batuffoli di vapore che rimbalzano tra la vegetazione della foresta attorno a Trongsa. Mentre seguo con lo sguardo i contadini intenti a trapiantare il riso, dallo dzong le voci gutturali dei monaci elevano le preghiere mattutine al cielo. Tutto attorno è silenzio: nella valle sottostante solo il Puna Tsang, il fiume che scorre sinuoso come il drago che decora la bandiera del Bhutan, rivela la sua presenza.
PAURA DELLA DEMOCRAZIA
È da questa regione che, sul finire del XIX secolo, il penlop (governatore) di Trongsa, Ugyen Wangchuck, con l’appoggio dei britannici, sconfisse il rivale filotibetano di Paro, dando vita all’attuale dinastia dei Wangchuck e gettando le basi per la modeizzazione del paese. Ancora oggi, le incoronazioni ufficiali dei Druk Gyalpo (re dragone), vengono svolte in questo monastero, a sei ore di auto dalla capitale Thimphu.
La devozione verso la casa regnante è, a dir poco, impressionante: quasi ogni casa bhutanese mostra i ritratti dei cinque monarchi succedutisi, dal 1907 a oggi, alla guida della nazione. Ma ci si deve chiedere se, dopo l’attuale re, il ventinovenne Jigme Khesar Namgyal Wangchuck, ne seguirà un altro. La modeizzazione voluta da Jigme Singye Wangchuch, padre dell’attuale Druk Gyalpo, ha infatti gettato le basi per la democratizzazione, da molti vista come un primo passo per un eclissamento della monarchia.
Paradossalmente, in un’area geopolitica caratterizzata da una gestione assolutistica e personale del potere, qui in Bhutan è proprio il massimo rappresentante a volersene privare. L’imposizione democratica non è stata accettata dal popolo bhutanese, il quale ha così dimostrato di aver sviluppato un elevato grado di maturità sociale e politica.
«Siamo preoccupati – mi dice Tshering Lhadin, una ragazza impiegata in un centro di informatica a Thimphu -. La storia dimostra che, ogni qualvolta un paese raggiunge la democrazia, subisce un tracollo sociale e morale. È stato così per il Nepal e l’India. Non vogliamo che anche il Bhutan segua questi esempi».
Sono in molti a pensarla come Lhadin, ma decenni di cieca fedeltà alla corona hanno convinto i bhutanesi a partecipare, nel marzo 2008, alle prime consultazioni elettorali nella storia della nazione. «Elezioni farsa – accusa dalla sua casa di Kathmandu Vikalpa, nome di battaglia del segretario generale del clandestino Partito comunista maoista bhutanese -. I partiti con idee e programmi alternativi, repubblicani e antifeudali non hanno potuto presentarsi. Gli unici due schieramenti in lizza non differivano nei loro manifesti».
In effetti la schiacciante maggioranza dei voti è andata al Druk phuensum tshogpa (Dpt, Partito della pace e del progresso), più per la popolarità del suo leader, il primo ministro Jigme Yoser Thinley, che per i contenuti programmatici.
PRODOTTO
DI FELICITà LORDA
Lo sviluppo raggiunto dal Bhutan in questi 30 anni di modeizzazione è un motivo più che sufficiente affinché lo status quo sia, una volta tanto, l’obiettivo più ambito dalla maggioranza dei 690 mila bhutanesi. Elaborando un singolare metodo di misura della crescita, chiamato Prodotto di felicità lorda (Pfl), il Bhutan è il primo paese al mondo a stimare il progresso sociale della nazione non solo su base materiale, ma monitorando l’effettivo sentimento popolare verso nove principali fondamenti: buon governo, cultura, sanità, educazione scolastica, equilibrio psicologico, ecologia, standard di vita, utilizzo del proprio tempo e qualità della vita comunitaria.
«Il concetto che abbiamo in occidente di economia si misura esclusivamente dalla quantità di risorse economiche messe a disposizione dell’uomo. In Bhutan, ma più in generale nelle economie buddiste, l’economia si misura sulla serenità che la produzione materiale può dare a ciascun individuo» spiega Sender Tindeman, direttore del Maitreya Institute di Amsterdam.
Criticato dagli economisti «materialisti» per l’inaffidabilità scientifica di valutazione, il Prodotto di felicità lorda è forse ciò che più vicino oggi ci sia a quello che il Premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, afferma essere uno sviluppo sostenibile: «La libertà di scegliere e di poter scegliere compatibilmente con le proprie responsabilità».
Durante un’intervista alla fine degli anni ‘90, avevo chiesto proprio ad Amartya Sen come si potevano creare i meccanismi sociali e culturali per rendere partecipi anche gli impoveriti allo sviluppo economico. La sua risposta, mi accorgo ora, potrebbe essere un riconoscimento al Pfl: «Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio».
Mi tornano in mente queste parole mentre visito una comunità nella sperduta valle di Tang, nella regione centrale del Bhutan. Nel piccolo dispensario si assiepano una trentina di persone. Alcune, come l’analfabeta Chukie, si sono portate il nipotino per compilare i formulari necessari per ricevere le medicine; altre, come Trishan, hanno dovuto camminare quasi due ore per farsi visitare: «Solo due anni fa avrei dovuto recarmi direttamente a Jakar, a quattro o cinque ore di cammino. Ora abbiamo anche una strada e se troviamo i mezzi possiamo arrivarci in un’ora».
VANTAGGI E RISCHI           DELLA MODERNIZZAZIONE
Trishan è fortunato: è riuscito a separarsi da quel 21% della popolazione che vive a più di 4 ore di cammino dalla prima strada carrozzabile. In soli tre decenni, le infrastrutture di questa minuscola nazione, poco più grande della Svizzera, sono state accresciute in modo esponenziale. La rete stradale che nel 1974 si sviluppava per 1.300 chilometri attorno a Phuntsholing, Paro, Thimphu e Punakha, oggi attraversa l’intero paese da est a ovest su 5.000 chilometri di asfalto, permettendo un migliore e rapido trasferimento di persone e merci.
Grazie a una politica di capillarizzazione dei presidi sanitari, i bhutanesi vivono in media 66 anni, venti in più di quanto ci si potesse aspettare solo tre decenni fa. Il sistema scolastico statale, totalmente gratuito, oltre ad aver ridotto l’analfabetismo dal 90 al 25%, ha introdotto l’inglese, come lingua accoppiata allo dzongha nell’insegnamento di alcune materie, permettendo ai bhutanesi di dialogare con il mondo.
Ma il Bhutan si affaccia al XXI secolo portando con sé anche una serie di incognite che gettano preoccupazione nella classe politica. Se nei secoli scorsi bastavano le formidabili catene dell’Himalaya a sfiancare ogni esercito e mantenere salda e integra la cultura drukpa, permettendo al governo di scegliere gli interlocutori con cui interfacciarsi, oggi la modeizzazione ha di fatto fagocitato anche questa minuscola nazione nei circuiti di scambi inteazionali. Le inevitabili aperture al mondo esterno, iniziate timidamente negli anni ‘60 con re Jigme Dorji Wangchuck e perseguite con più vigore dal suo successore, Jigme Singye, hanno costretto i bhutanesi a raffrontarsi con cambiamenti sociali mondiali.
Nel Tiger Pub di Thimphu le luci soffuse proiettano ombre di ragazzi e ragazze che si sbaciucchiano sorseggiando una birra; a Paro, in occasione di una partita di calcio della Champions League, un bar promette hard rock music per tutta la nottata, a Wangdue osservo un ragazzo che, indossando jeans Levi’s e una maglietta Armani, ha raccolto i capelli meschati in treccine rasta, mentre nei pressi del monastero di Gangtey, nella valle di Phobjkha, diversi monaci poco più che tredicenni si passano un paio di sigarette.
Viaggiando per il paese noto diversi centri di aiuto per disintossicati e affetti da Hiv. «Fino a cinque anni fa nessuno sapeva cosa fosse la droga o l’Aids. Oggi è divenuta una piaga sociale, per ora ancora contenuta, ma destinata ad allargarsi» spiega un ragazzo di 29 anni in cura presso il presidio di Thimphu. Piccoli segni, se vogliamo, ma che denotano un cambiamento in atto difficilmente contrastabile con decreti e imposizioni.
Dagli aerei della Druk Air nel 2008 sono scesi quasi 18 mila turisti che importano modelli di vita affascinanti per i giovani bhutanesi, il 40% dei quali ha meno di 20 anni. Il gho e la kira, i vestiti tradizionali per gli uomini e le donne imposti obbligatoriamente dal governo durante attività pubbliche e nelle cerimonie ufficiali, sono dismessi appena possibile. Al loro posto vengono indossate magliette del Manchester United e jeans attillati. Il tiro con l’arco, sport nazionale, sta per venire soppiantato da attività più fisiche che mentali quali calcio, cricket e basket (il principe stesso gioca in una squadra di pallacanestro).
turismo E INQUINAMENTO AMBIENTALE E CULTURALE
Per far fronte alla crescente disoccupazione, che nelle città raggiunge il 30% della forza lavoro, il governo punta sul turismo, unica voce economica con un settore privato in espansione. I 200 dollari al giorno che ogni straniero deve pagare per visitare il paese dovrebbero selezionare un turismo d’élite e intellettualmente rispettoso della cultura locale, ma questo non sempre è un fatto positivo. Il turismo dei ricchi non si accontenta degli alberghetti, di viaggiare su mezzi pubblici, di mangiare nei ristorantini e i contatti con i bhutanesi sono estremamente limitati.
Tutto questo impone al governo il miglioramento delle infrastrutture logistiche con le ricadute del caso. La costruzione di alberghi di lusso richiede maggior consumo di risorse energetiche e idriche, nonché un notevole aumento di rifiuti che dovranno essere trattati, mentre il viaggiare su mezzi privati implica una congestione del traffico con la necessità di migliorare la rete stradale e un conseguente innalzamento dell’inquinamento.
Come si concilierà tutto questo con la volontà di integrare lo sviluppo con il rispetto dell’ambiente? Per legge il 60% del territorio deve essere coperto da foreste, ma il vertiginoso aumento demografico e il fatto che il 40% delle case utilizza legna per cucinare e riscaldarsi, mette in serio pericolo la rigogliosa vegetazione. E se il turismo è una fonte di inquinamento culturale e ambientale, tuttavia ancora relativamente controllato, visto che la maggior parte della popolazione ne è immune, televisione e internet sono mezzi che più subdolamente entrano nelle abitazioni dei bhutanesi e ne cambiano la mentalità.
Si calcola che un terzo delle famiglie del paese possieda un apparecchio televisivo e che 40 mila persone utilizzino internet. Il governo ha cercato di correre ai ripari criptando i canali, a suo parere, più offensivi verso la morale: Mtv, Fashion Tv e quelli che trasmettono il wrestling. A Paro, però, vedo diversi ragazzini imitare le mosse della lotta e, nell’isolata Ura, un bambino sfoggia orgoglioso una maglietta serigrafata con l’immagine di John Cena. Le ragazze, inoltre, recepiscono immediatamente gli ultimi dettami della moda dalle copertine patinate delle riviste o dai film indiani proiettati al Luger Cinema di Thimphu.
«Non sono contraria alle trasformazioni. Una cultura per sopravvivere deve adattarsi anche ai cambiamenti estei – confida Kunzan Yeshey, una scrittrice in erba incontrata a Punakha -. Ho però paura che non siamo ancora pronti. Ci sono troppi esempi che ci consiglierebbero di rallentare il processo di modeizzazione». La grande paura di Yeshey si chiama storia e integrazione.
INTOLLERANZA ETNICA
Già alla metà degli anni ‘60 il Bhutan era entrato in una pericolosa spirale di violenza, quando l’allora primo ministro, Jigme Palden Dorji, dopo aver varato delle riforme in campo militare e religioso, fu assassinato in una faida tra la famiglia Dorji e il consigliere tibetano del Druk Gyalpo, Yangki. La stessa Yangki complottò dieci anni più tardi per assassinare il quarto monarca, appena incoronato.
Ma sono gli sviluppi più recenti che hanno svegliato i bhutanesi dal loro sogno di vivere in una Shangri-La (utopico paradiso himalayano descritto nel 1933 da James Hilton nel romanzo Orizzonte perduto, ndr). Dopo che, nel censimento del 1988, il governo scoprì con sgomento che i lhotshampa, l’etnia di origine nepalese, hinduista, di lingua nepali e concentrata nelle regioni meridionali, aveva raggiunto il 45% dell’intera popolazione, il re varò la campagna «Una nazione, un popolo». Oltre a bandire la lingua nepali nelle scuole, costrinse i lhotshampa a conformarsi al Driglam Namzha, i valori tradizionali bhutanesi, non tutti confacenti alla cultura del sud.
Il terrore del governo bhutanese era seguire l’esempio del confinante Sikkim, che nel 1975 perse l’indipendenza divenendo il 22° stato dell’India a seguito di un referendum il cui risultato fu condizionato dalla maggioranza nepalese. Per evitarlo, si emanò una serie di leggi di cittadinanza che discriminavano le etnie meridionali nei confronti dei bhote, la razza maggioritaria. Ne seguirono scontri e circa 100 mila persone si rifugiarono in Nepal, dove tutt’ora sono confinati in sette campi profughi.
«Quello che è chiaro è che, dopo il 1988, il governo ha implementato una politica di intolleranza verso i bhutanesi di lingua nepalese» ha detto lo scrittore Christopher Strawn, autore del libro Bhutan.
Nei campi profughi la vita è miserrima e sia Bhutan che Nepal cercano di rimpallarsi responsabilità e soluzioni. Secondo il governo bhutanese il 25% dei rifugiati non avrebbe neppure diritto alla cittadinanza. Dopo che l’ambasciatrice Usa in Nepal, Nancy J. Powell, ha dichiarato che il suo paese, assieme ad altre sei nazioni, ha accettato di accogliere i rifugiati, nei campi si è innescata una serie di violenze il cui scopo è quello di impedire un insediamento in paesi terzi. Suhas Chakra, direttore dell’Asian Centre for Human Rights (Achr) di New Delhi, avverte che «il reinsediamento senza un diretto coinvolgimento del Bhutan è pericoloso, perché potrebbe favorire la politica di pulizia etnica del governo bhutanese e aggravare la situazione delle popolazioni di origine nepalese».
Sempre a New Delhi incontro quello che forse è il più famoso dissidente bhutanese: Devi Bhakta Lamitarey, fondatore del Bhutan State Congress e autore di due libri di discreto successo: Dankido Bhutan e Murder of Democracy. La sua tesi, per certi versi allucinante e pericolosa, è che «per essere indipendente il Bhutan dovrebbe avere almeno 5 milioni di abitanti, così da disporre di un esercito di 500 mila soldati. Se non raggiungerà tali traguardi, l’unico destino è l’assorbimento da parte dell’India, così come avvenuto con Sikkim». E alla fine aggiunge: «Sempre meglio essere uno stato indiano che un servo della Cina».
FOBIA INGLOBAMENTO
Attraversando il Bhutan incontro diverse squadre di manutentori stradali: tutti, o quasi, sono di origine nepalese, così come di origine nepalese sono i lavoratori che svolgono attività di fatica. Negli uffici statali, invece, le sedie sono monopolio dei Bhote. «Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura. Siamo un piccolo paese schiacciato tra due giganti. Non vogliamo diventare il 23° stato dell’India e neppure un’appendice del Tibet» giustifica Tsheltrim, un impiegato della Banca del Bhutan.
La fobia dell’inglobamento, se non politico almeno culturale, in una delle due grandi aree geopolitiche confinanti col Bhutan, è presente ovunque. Il Trattato di Punakha del 1910, siglato tra il primo re, Ugyen Wangchuck, e la Gran Bretagna, in base al quale Londra, pur non interferendo negli affari interni della nazione himalayana, ne avrebbe guidato la politica estera, è stato sostituito pari pari nel 1949 dal Trattato di amicizia con l’India. Ma con la democratizzazione, Thimphu potrebbe adottare una politica estera più autonoma, cercando una equidistanza tra New Delhi e l’altro potente vicino, Pechino, entrambi interessati alle enormi potenzialità energetiche offerte dal paese.
India e Cina hanno anche un contenzioso con l’Arunachal Pradesh, regione che Pechino considera di propria competenza e che, assieme all’Assam, ha dato non pochi grattacapi al Bhutan. Al passo Dochu La, i 108 stupa costruiti sul valico testimoniano la lotta condotta nel dicembre 2003 dall’esercito bhutanese in collaborazione con l’India, contro i guerriglieri dell’Ulfa (United Liberation Front of Assam), del Ndfb (National Democratic Front of Bodoland) e del Klo (Kamatapur Liberation Organization), tre organizzazioni indipendentiste che controllavano una trentina di campi nel Bhutan.
L’ingombrante presenza dell’India, principale partner commerciale, non sembra però allarmare i bhutanesi, che hanno addirittura esentato i cittadini indiani dall’esorbitante tassa turistica imposta agli altri paesi.

U na volta visitato questo stupendo paese, viene istintivo chiedersi se il Bhutan riuscirà a convivere con i modelli che gli provengono dall’esterno o se questi avranno il sopravvento sulla sua cultura. Nella storia, il Drago Tonante è riuscito a respingere gli assalti di eserciti ben più potenti e armati di lui, ma di fronte all’invasione mediatica ed economica, forse i suoi artigli non sono in grado di difendere questa terra di miti e leggende. 

di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali