La cultura scaccia la droga

Medellin: città traformata e riqualificata, a partire dalla cultura

Fino a una decina di anni fa, Medellín (quasi 2,5 milioni di abitanti) era capitale mondiale della violenza e del narcotraffico; oggi, grazie a una nuova amministrazione, è diventata un laboratorio di progetti sociali urbani e di sviluppo, con la partecipazione di tutti i cittadini, diventando un modello di convivenza… da esportare nel resto del paese e nel mondo.

Parques biblioteca: bastano queste due parole per riassumere la rivoluzione in atto a Medellín, seconda città della Colombia: da ex capitale del narcotraffico e della violenza a città dell’educazione per tutti e della democrazia partecipata. Due parole che esprimono un unico concetto: la nascita di influenti biblioteche, oggi frequentatissime, nei quartieri più poveri della città, dove molta gente non era mai andata a scuola e viveva fisicamente separata (da muri invisibili o dalla mancanza di collegamenti) dai luoghi cittadini dove si produceva cultura.
Non è una favola; e nemmeno un volo pindarico creato ad arte per giustificare un buon reportage giornalistico, sia chiaro: di sicuro ha dell’incredibile quello che accade da quasi un decennio a Medellín, ma è tutto vero. Pregasi cancellare dalla memoria, quindi, le immagini di stragi, assassinii mirati in mezzo alla strada, scorrerie di paramilitari legati a doppio filo ai cartelli della droga: tutto ciò oggi non avviene più.
Ecco il primo indizio per capire che la nuova Medellín ha nulla da spartire con quella che nel 1991 viveva 381 omicidi ogni 100 mila abitanti: 16 anni dopo, a fine 2007, quel numero è sceso a meno di un decimo, con 26 morti violente all’anno.
È morto Pablo Escobar, certo. Il «re del terrore», che nel 1989 era, secondo la celebre rivista Forbes, il settimo uomo più ricco del mondo, grazie al controllo dell’80% del mercato globale della cocaina, è stato ucciso nel 1993. Da allora, la gente ha ricominciato a uscire di casa, a smettere di avere paura.
Allora, la guerra veniva combattuta casa per casa; molte persone, soprattutto dei quartieri poveri, si erano unite a Escobar in cambio della sicurezza economica per la propria famiglia, come avviene per le mafie nostrane. Ora, come reazione opposta ad anni di violenza quotidiana, è scaturita, quasi dal nulla, un’enorme forza di volontà cittadina per interessarsi del «bienestar» comunitario, il benessere della collettività.
Un interesse che è convogliato nella creazione, nel 1999, di un movimento della società civile, poi diventato un partito politico inedito, perché totalmente indipendente dai «soliti» due schieramenti al potere: i liberali e i conservatori. Compromiso ciudadano è il suo nome, che in italiano suona come «Impegno di cittadinanza». L’anno dopo la nascita, il movimento-partito ottiene un buon risultato, ma non riesce a vincere; stravince nel 2004, quando il candidato sindaco, il professore di matematica Sergio Fajardo, ottiene il 46% delle preferenze degli ammessi al voto tra i 2,4 milioni di abitanti della metropoli colombiana, contro il 22% del rivale.
A dicembre 2007, alla tornata successiva, Compromiso ciudadano vince ancora, con il nuovo sindaco Alonso Salazar, fondatore del movimento assieme al suo predecessore.

CITTADINI AL POTERE
«Eravamo una ventina di persone speranzose in un mondo migliore possibile» esordisce Geovanny Celis, 50 anni, uno degli uomini di punta nel cambio radicale che il nuovo partito ha impresso nella mentalità della gente di Medellín. Un passato di educatore di strada a favore del reinserimento di prostitute, senzatetto, ragazzi di strada, Celis è stato assessore allo sviluppo economico e sociale fino all’inizio del 2009; ora ha lasciato il posto per appoggiare l’ex sindaco Fajardo alle prossime elezioni parlamentari. Nessuno meglio di lui, dati socio-economici alla mano, può quindi spiegare come sia avvenuto il Renacimiento, la stupefacente rinascita della sua città.
«Nessuna formula magica, piuttosto una coincidenza di due cambiamenti epocali: da una parte lo smantellamento della rete del narcotraffico, grazie al governo nazionale, che ha permesso l’estradizione degli elementi più pericolosi negli Stati Uniti e la riqualificazione dei paramilitari implicati nel giro di droga – spiega Celis -, dall’altra il risveglio della popolazione, che nel 1989 ha ottenuto l’elezione diretta del sindaco e da allora si è sempre più impegnata nella politica locale, per cambiare le cose».
Da qui si è sviluppato Compromiso ciudadano, che ha conquistato la fiducia dei cittadini con una potente arma bianca: la trasparenza assoluta. «Fin dall’inizio, ogni nostra riunione è stata pubblica, abbiamo cercato di riunire e far discutere fra loro più persone possibili, nelle sale pubbliche, nei centri parrocchiali – riprende Celis – e anche oggi è così, ogni comunità ha i suoi incontri aperti, e incide per davvero sulle politiche del comune. Basti pensare che il 26% delle spese comunali è deciso direttamente dalle stesse comunità, per legge».
Una scelta che funziona anche a livello economico, visto che, come recita uno dei principi dello stesso assessore uscente, «la plata no se puede perder»: vietato sprecare denaro. «Se sa di poter incidere sul proprio tenore di vita, la popolazione si rimbocca le maniche». Nel giro di soli quattro anni, dal 2003 al 2007, i negozi in città sono quasi triplicati, passando da 5.943 a 15.220. E la disoccupazione, dal 2001 a oggi, è passata dal 18,2% al 13,6%, una delle più basse di tutto il continente latinoamericano.
In tempi di recessione mondiale, l’esempio di Medellín è una luce che buca l’oscurità. «In tutto questo, la presenza dell’istituzione rimane comunque alta: il comune gestisce, con aziende municipalizzate, la rete idrica, il gas, le fogne, società che rendono molto, fatturando sei volte tanto il budget municipale» specifica Celis. Ovvero milioni di dollari da potere spendere subito.
«Ma quello che conta è il modo in cui vengono reinvestite queste cifre: il 30% degli utili, infatti, viene destinato a spese per due settori fondamentali: scuola e salute». Il motivo di questa scelta è legato a una linea d’indirizzo ben precisa. «Ci si è detti: la priorità è lo sviluppo umano, bisogna mettere ai primi livelli dell’agenda cittadina le necessità di chi è più bisognoso, includendo nella vita sociale gli indigenti, i disabili, oppure i molti rifugiati interni della guerra civile, spesso poveri e senza appoggi familiari allargati» argomenta Celis.
Detto fatto. Oggi Medellín è all’avanguardia nella parità di diritti sia nell’educazione pubblica che in campo sanitario; e per quanto riguarda l’accessibilità sta facendo passi da gigante, nonostante l’altitudine, attorno ai 1.500 metri, e la disposizione di interi quartieri sulle pendici di sette colline.

CULTURA PER TUTTI
Medellín, città natale di Botero (il famoso scultore colombiano, oggi residente in Italia), al quale è dedicata la piazza omonima in cui si ergono ben 23 delle sue «rotonde» sculture, è oggi un ottimo esempio di accesso culturale garantito a tutta la popolazione. Gran parte del merito è proprio di Compromiso ciudadano e del suo primo sindaco Sergio Fajardo, in prima linea nel cambiamento, che ha finito il suo mandato nel dicembre 2007, con il 90% del gradimento popolare: sue le decisioni, concordate con i cittadini, di convertire decine di edifici in disuso o poco valorizzati in nuove occasioni di coesione sociale, perché posti in luoghi strategici della città.
L’esempio più impressionante (anche a livello visivo) è l’enorme biblioteca pubblica España, inaugurata all’inizio del 2007 e collocata all’ingresso del quartiere Santo Domingo Savio, a lato di una delle più grandi baraccopoli della città. Una scelta non a caso, quella di avvicinare la cultura nei luoghi più poveri della città: ecco concretizzata l’inclusione sociale di cui parlava Celis.
Una mossa azzeccata: la España è frequentatissima, con un boom di iscrizioni ai vari percorsi educativi, soprattutto da parte dei residenti, per i quali la biblioteca è diventata un vero e proprio bene collettivo. Così come lo è diventata l’ultramodea teleferica inaugurata poco dopo la biblioteca, la linea K del Metrocable, che collega Santo Domingo Savio, posto su una collina, al centro della città. In pochissimi minuti.
La España è uno dei cinque Parques bibliotecas, così chiamati anche perché le biblioteche popolari sono circondate da una consistente area verde; le altre sono: Tomás Carrasquilla nel quartiere Quintana, Leon de Grieff nel Ladera, Presbitero José Luis Arroyave a San Javier, Belén nella zona sudoccidentale di Medellín. Tutte inaugurate tra il 2006 e il 2007 e, oggi, veri e propri melting pot di Medellín. «Vivo da queste parti da 54 anni. Prima qui era tutto violenza, desolazione e paura. Con l’arrivo della biblioteca, il panorama è mutato in modo radicale: ora guardiamo alla nostra zona con occhi di speranza» afferma José Alvarez, rappresentante di uno dei comitati cittadini di San Javier.
Non solo biblioteche: negli ultimi anni si sono rinnovati musei e parchi, come quelli di Pies Descalzos o Llera, ora pieni di giovani e famiglie; si sono costruiti ponti tra zone collinari confinanti, che prima non avevano alcun collegamento fra loro. Si sono aperte scuole popolari di musica: oggi se ne contano 97.
Per non parlare della spinta all’educazione scolastica: le iscrizioni sono aumentate del 10% in tre anni e, grazie anche alle borse di studio per migliaia di giovani provenienti da situazioni di povertà, l’accesso alla scuola secondaria è dell’87%, ovvero studiano quasi 9 ragazzi su 10. E con il programma «Pace e riconciliazione», dedicato ai giovani paramilitari sottratti al narcotraffico, almeno 4 mila persone hanno potuto frequentare corsi di formazione, la metà dei quali ha oggi un impiego.
All’impegno comunale, inoltre, si affianca in piena armonia quello della Pastorale sociale della Caritas diocesana, soprattutto promuovendo azioni a favore delle famiglie di desplazados (rifugiati interni), i cui figli spesso hanno difficoltà a inserirsi a scuola, e stimolando la responsabilità sociale del settore privato, anche attraverso incontri pubblici, l’ultimo dei quali si è tenuto il 12 maggio 2009.

IMPEGNO PER IL SOCIALE
Il programma di sviluppo di Compromiso ciudadano non ha tralasciato l’economia locale, destinandole incentivi pubblici per milioni di pesos con il programma Cultura E («E» sta per Emprendimiento, impresa). Grazie alla fine degli anni di violenza, molti imprenditori, anche stranieri, hanno ricominciato a investire in città, soprattutto nel settore del tessile e della tecnologia, e si prevede, da qui al 2020, la creazione di 7 mila nuove imprese e 700 mila posti di lavoro.
L’amministrazione del movimento-partito di cittadini, inoltre, ha un occhio di riguardo speciale per tutto quello che riguarda il bienestar social (benessere sociale), soprattutto di chi è in difficoltà: ecco allora nascere, nel 2007, il programma Medellín solidaria, che mira a ottenere l’uscita dalla povertà di 45 mila famiglie tra le più indigenti della città, attraverso servizi agli anziani, giovani disagiati, appoggio psicologico, educativo, anche economico.
C’è grande attenzione alle persone diversamente abili, «che sono almeno 117 mila, il 5,1% della popolazione, molti dei quali lo sono diventati durante la guerra civile» spiega Marta Sierra, 44 anni, oggi viceassessore ai servizi sociali, ma da 18 anni impegnata come tecnico comunale nel settore sociale. «Dal 2001 ogni edificio nuovo deve essere accessibile a tutti. Ma non basta – continua Sierra -. Nel 2007 abbiamo avviato un progetto decennale per garantire loro la parità di diritti; entro il 2010 almeno 3.500 persone disabili saranno inserite nel mondo del lavoro; ma ancora più importante è il fatto che delle loro esigenze se ne parli in incontri pubblici, come succede di questi tempi, per la prima volta in assoluto».
Il Comune, in questo senso, riceve l’aiuto di un partner italiano: il Consorzio Sir («Solidarietà in rete»), che collabora con Medellín dal 2005 e ha avviato, in agosto 2008, la creazione di un sistema di servizi integrato, che opera per la promozione delle persone disabili (almeno 810 i beneficiari diretti, più le loro famiglie) attraverso progetti educativi, di riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo.
Il Consorzio, che ha base a Milano, offre inoltre sostegno tecnico alla cooperazione sociale cittadina, in particolare alla Promotora de empresarismo social, l’agenzia di sviluppo locale per l’impresa sociale, nata alla fine del 2007 e diretta da una giovane energica colombiana, la 30enne Catalina Pacheco: «A Medellín, il mondo associativo e cornoperativistico è in fermento, da progetti assistenzialistici si è passati in pochi anni a un “fare impresa” che sia sostenibile a livello umano» spiega la direttrice della Promotora.
In città sono concentrati almeno 1.500 enti del terzo settore, il 25% di tutta la Colombia. «La nostra esperienza sta facendo scuola, ci chiedono consigli da molte altre regioni del paese». A ben vedere, è tutto il «modello Medellín», che dovrebbe fare scuola ad altre metropoli mondiali.
Nella città in cui, nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano aveva gettato le basi di una nuova chiesa sociale, si rivive oggi, dal basso, uno spirito di cambiamento concreto. In poco più di un decennio, a Medellín, una violenza terrificante ha lasciato il passo a una sete di cultura senza precedenti. Alla base, una scommessa di un gruppo di cittadini, vinta in partenza: quella dell’educazione alla convivenza, alla parità di diritti. Per tutti. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Nel fascino della croce

Spiritualità di Guglielmo Massaia, nel bicentenario della nascita

L’8 giugno 1809 nasceva Guglielmo Massaia, il grande apostolo dei Galla.
Di lui conosciamo e  ammiriamo le eroiche avventure, la creatività e la genialità con cui ha saputo unire evangelizzazione, promozione umana e attività scientifica. Poco o nulla sappiamo, invece, della sua spiritualità, saldamente fondata sull’amore a Cristo Crocifisso.

Nel presentare l’epopea del Massaia si è indugiato molto sull’aspetto umano e umanitario, sull’attività scientifica ed evangelizzatrice del protagonista, senza tenere nel debito conto la forza ispiratrice, propulsiva, direi dirompente della sua attività. Nell’intrepido missionario cappuccino si è visto l’uomo intraprendente e geniale nel crearsi quasi dal nulla metodi, lingue, strumenti indispensabili di lavoro, nell’aprirsi vie fino allora sconosciute e lottare in condizioni di solitudine quasi disperata, contro le forze avverse della natura e degli uomini ottusi e ingrati.
Mentre si è sottovalutata, o addirittura ignorata, l’alta spiritualità del prelato che, trasformando la sua croce pettorale da oggetto-simbolo in realtà, l’aveva piantata nel suo cuore di apostolo, da fargli scrivere: «Ho dato la vita alle missioni fino alla morte, e per me è lo stesso lasciarla qui o là… Purché, prima di morire, mi venga fatto di piantare la croce e circondarla del fuoco evangelico».
C’è una certa affinità tra Guglielmo Massaia e Paolo di Tarso, sia per temperamento e vicissitudini subite, che per una robusta spiritualità della croce. Infatti nei molti suoi scritti il Massaia fa proprie le idee madri della teologia paolina sulla «superscienza» e «superpotenza» della croce, vivendo le perentorie affermazioni di Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14).
«campo di meditazione»
Il 24 giugno 1879, finivano i suoi 33 anni di evangelizzazione, per ordine dell’imperatore Johannes iv, che lo avvierà sulla via dell’esilio; con il cuore lacerato il Massaia scriveva nelle Memorie: «Ho celebrato la mia ultima messa nella cappella di Fekerièghemb avanti il gran crocifisso, campo delle mie meditazioni, il quale ebbe sempre tanta virtù da cambiare le mie più dure prove di spirito in un mare di consolazione. Buon Gesù, esclamai, sarà dunque vero che io non vedrò più questo Calvario che tante volte avete cambiato in Tabor!».
Quel «campo» non lo limitava alle sue personali «meditazioni», ma lo allargava pure ai suoi intimi che condividevano la sua spiritualità, concludendo le sue lettere con le seguenti espressioni, ripetutissime: «Vi abbraccio nel santo Crocifisso», «abbracciandovi strettamente nel santo Crocifisso, nostra unica consolazione e conforto», «vi lascio ai piedi del Crocifisso, nostro divino padrone e maestro» e altre frasi simili.
Negli Statuti per i monaci del vicariato Galla (1854) il Massaia prescrive: «Dalla consacrazione sino al fine del Pater noster, coloro che assistono alla messa, inginocchiati e con le braccia distese, s’immagineranno di trovarsi sopra il Calvario ai piedi della croce con Maria ss. e offriranno a Dio l’incruento sacrifizio per la conversione dei peccatori e degli infedeli redenti col sangue di Gesù Cristo».
Passando dagli atti di culto alla vita di ogni giorno, gli Statuti indicano la passione di Cristo come un superlativo stimolo alla pratica delle virtù più eroiche; perciò esortano il monaco ingiuriato di «ricordarsi che lo stesso accadde a Gesù nostro Signore avanti a Caifa e Anna, e seguire quindi gelosamente il suo esempio, osservando il più scrupoloso silenzio».
La pedagogia della croce dava i suoi frutti, come testimonia l’esempio di uno di quei monaci, abba Jacob: questi, a differenza di padre Cesare da Castelfranco, seppe resistere alle lusinghe del re del Kaffa, che gli proponeva di cambiare religione e sposare una delle sue figlie. «Mia sposa è la croce; prima dovete pensare ad affiggermi su di essa, come il mio Signore» rispose il monaco.
L’apostasia del padre Cesare fu un grave colpo per il Massaia: «Poco mancò che non mi costasse la vita: furono per me tre anni di lacrime e di venerdì santo, prima di arrivare a celebrare una pasqua consolante». Prima di mandargli le ammonizioni canoniche, in vescovo depose la lettera «sotto il corporale, sotto i piedi del buon Gesù» durante la celebrazione del sacrificio del Calvario. In un’altra lettera all’ex-missionario gli confessa di aver offerto la vita per vedere la sua conversione: «Vi assicuro che sarò consolato di morire quel giorno che avrò tale consolazione». E la conversione sincera di padre Cesare fu davvero per il Massaia una pasqua di risurrezione, preceduta dal penosissimo Calvario.
«In questo segno vincerai»
A tale aspetto essenziale della spiritualità del Massaia non era certo rimasto estraneo il culto che gli etiopi nutrono per la croce: le donne cristiane abissine recano il tatuaggio della croce in fronte e i sacerdoti sul dorso delle mani, mentre in ogni casa cristiana domina il simbolo della redenzione.
L’Etiopia è detta terra di Maria e della croce. Ad essa è dedicata la festa nazionale del «Maskal», dell’esaltazione della croce, il 27 settembre, celebrazione in cui si mescolano motivi religiosi, civili, culturali e folcloristici, per ricordare il ritrovamento della croce da parte dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, che aveva ricevuto l’assicurazione: «In questo segno vincerai».
Anche per il Massaia la croce fu un segno di vittoria in vari casi inspiegabili. Un giorno, di fronte a una ricca maga nel Kaffa, pronunciò il breve esorcismo del «Christus vincit…», toccando segretamente la sua croce pettorale nascosta sotto le vesti, e quella fuggì a rompicollo.
Un’altra volta, contro gli abitanti di Celia che si erano rifiutati di concedere la pace a quelli di Lagamara, il vescovo fece piantare tante croci sui confini che i nemici furono sconfitti dallo spavento.
Ma la sua più rilevante vittoria resta il fatto che con la croce egli sia riuscito a conquistare spiritualmente tante anime ostili e a realizzare il paradosso a lui tanto caro e ripetuto spesso nei suoi scritti: ogni vittoria divina è la conseguenza logica di una sconfitta umana.
Nell’ultima fase della sua missione, quando i fedeli cattolici si dichiarano disposti a difenderlo dalle probabili violenze dell’imperatore Johannes iv, il vescovo missionario taglia corto con questo discorso: «Figli miei, vi ringrazio di tutte le vostre simpatie e attaccamento alla missione cattolica, ma dobbiamo intenderci bene, affinché non accada poi di pentirci a vicenda: io non sono venuto qui per fare la guerra e guadagnarmi un regno, ma unicamente per insegnare il vangelo di Cristo… Io non ho bisogno di soldati, ma di figli… Se Cristo è morto, non è morto perché vinto; ma all’opposto, quando noi saremo vinti dai nostri nemici, allora noi saremo vincitori di essi, ed essi entreranno nelle nostre file».
Fuoco, sangue, martirio
Il Massaia non si stanca di ribadire concetti che hanno stretta attinenza con la croce e devono necessariamente essere posti alla base di una evangelizzazione efficace: fuoco, sangue, martirio. Sembra addirittura essee ossessionato.
Scrivendo nel novembre 1847 al procuratore generale, padre Felice Fenech da Lipari, dichiara esplicitamente di essere «non solo missionario, ma di uno spirito tutto fuoco per le missioni»; e aggiunge che tale spirito è un’urgenza per tutta la chiesa. Personalmente non può «riposare tranquillo, fin tanto che i quattro quinti del genere umano corrono la via di perdizione e in un terzo del globo non scorre il Sangue adorabile di Cristo».
Ed è proprio l’urgenza della missione «che mi ha convinto ad abbandonare l’amata provincia monastica per dedicarmi alle missioni, e sono pure i sentimenti di cui vorrei fosse inondato tutto il mondo cattolico; per cui, fino a tanto che avrò fiato e voce, non lascerò di parlare persuaso anche di compiere una parte della missione che per tremendo decreto di Dio sta sulle mie spalle. Quando solamente mi riuscisse di accrescere il capitale del fuoco apostolico di una sola scintilla, io sarei molto fortunato».
In una lettera scritta al Comboni, nel 1865, pur incoraggiandolo ad attuare il suo Piano di rigenerazione dell’Africa, non manca di prospettare difficoltà, persecuzioni e perfino la morte, concludendo: «Il martirio nell’Africa non è martirio di sangue, ma piuttosto martirio di cuore e di tribolazione; e quindi per gli apostoli di energico volere e di paziente fatica, l’evangelizzazione dell’Africa non è a dirsi per nulla difficile; anzi molto semplice toerà a coloro che vi lavoreranno con semplicità.
Carissimo, dopo 18 anni di apostolato tra gli africani, parlo con cognizione di causa: l’Africa è difficile per chi, educato nella nostra patria al fasto e alle delizie, non sa vestire la semplicità e povertà degli etiopi, per renderli doviziosi. Questa è quasi l’unica difficoltà; che però non è tale per i discepoli di Cristo».
Scrivendo il 20 gennaio 1883 al confratello Luigi Gonzaga Lasserre da Morestel, appena consacrato vescovo, il Massaia rivela con tono confidenziale: «Essere consacrato vescovo vuol dire essere sposato alla chiesa di Cristo, per la quale dovete essere disposto a dare il vostro sangue, se occorrerà. Ecco il mio consiglio netto, consiglio che io ho sempre praticato e lo pratico ancora: ogni giorno, celebrando la santa messa o nelle vostre preghiere, rinnovate sempre l’atto di sacrificio della vostra vita in unione con quello fatto da nostro Signore sul Calvario, e che rinnova in modo incruento ogni giorno misticamente nella santa messa, quando dite in nome suo: Hoc est corpus… hic est calix… Se potete, abbiate un desiderio di morire per lui; se poi siete debole, dite un fiat voluntas tua. Con questo esercizio guadagnerete tutta la gloria di martire ogni giorno, anche vivendo cento anni… Vi lascio ai piedi del crocifisso nostro Signore».
«Vescovi delle missioni
vittime e non sposi»
Il Massaia aveva sperimentato in sé la ripugnanza ad accettare il peso dell’episcopato e vi si era piegato solo quando il suo vicario generale, padre Andrea da Arezzo, lo aveva persuaso «che l’episcopato di un missionario è più peso che onore… un vincolo di più al martirio dell’apostolato». Lo stesso ragionamento faceva a quanti si opponevano a essere da lui consacrati vescovi, come nel caso di Giustino de Jacobis. Questi, prefetto della missione dell’Abissinia, rifiutava ostinatamente di essere consacrato vescovo. Dopo averle provate tutte per controbattere le sue obiezioni, il Massaia riuscì a convincerlo quando, con «una forte parlata di risentimento», sentenziò che «i vescovi delle missioni sono vittime e non sposi… Tanto bastò – racconta il Massaia – e contro ogni mia aspettazione si gettò per terra, mi domandò perdono, e finì per dirmi di fare di lui ciò che Iddio mi avrebbe ispirato».
La funzione, svolta con estrema semplicità sul lido di Massaua la notte del 7 gennaio 1849, rimase indelebile nella mente del consacrante: «De Jacobis accettò, direi quasi, con un certo trasporto di piacere, quando l’episcopato si presentò a lui nudo totalmente e spogliato persino della sua maestosa cerimonia, e si presentò nel suo vero senso di sommo sacerdozio coronato di spine con Cristo nel Pretorio e crocifisso con lui sul Calvario».
Con gli stessi argomenti Massaia riuscì a piegare padre Felicissimo Cecino da Cortemilia, suo ex-alunno e poi collaboratore, riluttante all’episcopato, diceva, per scarsità di scienza. «Caro mio – troncò netto il vicario apostolico dei Galla – non è tanto la sapienza quella che ci manca, ma l’umiltà e lo spirito di sacrifizio; né io, nel consacrarvi vescovo, penso coronarvi di rose, ma di spine e crocifiggervi con nostro Signore. Dunque lasciate ogni questione e lasciatevi guidare da me».
«Mi glorio
della croce di Cristo»
Il Massaia ricevette molte onorificenze (tutte custodite nel Museo etiopico «G. Massaia» di Frascati), ma la vanità non riuscì mai a sfiorarlo, come testimoniano i suoi scritti. Nel 1876, alla corte di Menelik, ricevette la croce di commendatore dell’Ordine mauriziano, conferitagli dal re Vittorio Emanuele II; dopo aver sottolineato che tale onorificenza non gli era dovuta e non l’aveva mai sollecitata, concludeva: «La croce a cui io avevo qualche diritto, era quella del Calvario pura e netta, della quale non sono stato degno».
Nel 1879 re Umberto I gli conferì la croce di grand’ufficiale dello stesso Ordine; ma l’anno seguente, quando gli fu recata a Frascati, la ricusò garbatamente. Pochi giorni dopo ne rivela la ragione scrivendo a un confratello: «Il mondo cammina a gran passi verso il paganesimo, perciò ha creduto di vedere in me un gran viaggiatore più che un missionario di Cristo… ha creduto con ciò di essermi riconoscente; e io come uomo civile debbo essere loro grato… ma nel tempo stesso resta in me vivissimo il dovere di far loro conoscere la massima evangelica, perché, educato alla scuola del nostro Signore Gesù Cristo e del nostro serafico padre san Francesco, non soglio riempirmi la pancia di vento, ma di buon pane macinato e cotto ai piedi della croce».
Anche la croce pettorale gli ricorda lo stretto legame con il mistero del Calvario e della sofferenza universale, come scrive nel 1867 all’amico esploratore Antonio Thompson d’Abbadie, per ringraziarlo della croce pettorale e relativa catena d’oro che gli aveva donato: «Senza aver l’aria di voler diminuire la riconoscenza dovuta a sì caro amico per il regalo suddetto, mi permetta di farle osservare, che alla mia persona non era dovuta una croce d’oro, ma di ferro e di spine, perché il missionario deve seguitare Cristo sulla via del Calvario… Comunque, con l’oro si può comprare del grano per i nostri poveri, che non sono pochi, e sotto questo riflesso mi è doppiamente cara, perché cangiato in pane, l’oro diventa pietra preziosa e vero diamante; sia dunque benedetto lei e la di Lei consorte; come pensano a me, Dio pensi a voi…».
«Obbediente
fino alla morte di croce»
Temperamento forte e per nulla arrendevole, immerso nella solitudine più totale, derivante dall’isolamento geografico e, soprattutto, da incomprensioni e accuse da parte dei superiori di Roma, il Massaia arrivò a dare le dimissioni. Eppure, da quel Dio umiliato e immolato, abbandonato pure dal Padre, egli seppe trovare le espressioni più confacenti per dialogare con i superiori (sia pure con difficoltà ma con dovuto rispetto) e la forza di arrendersi ai loro comandi.
In una lettera inviata a Pio ix, significativamente datata «In festa Exaltationis S. Crucis 1860» (14 settembre), egli confessa di essere spesso tentato di tornarsene in convento, «persino di fae qualcheduna grossa» per essere «messo a riposo». E continua: «Qualche volta ai piedi del Crocifisso, sfogando le mie malinconie, dicevo fra me stesso: che tutto il mondo mi dimentichi e anche mi calpesti è poco, perché l’uomo evangelico deve urtare la corrente del mondo… Ma che Roma, la sposa vivente del Crocifisso, la nostra madre comune per cui tanto ci affatichiamo, ella ci dimentichi, ella ci disprezzi… Questo silenzio assoluto, questo vedersi gettato come un aese inutile in un angolo della casa senza nessun segno di pensiero per noi… Ravvolgendo fra me ai piedi dell’altare queste malinconie, non una volta, ma parecchie volte mi vennero delle idee, che a prima vista mi parevano tentazioni… Per il passato non è mai stato mio costume di criticare i superiori… presentemente però la cosa mi pare accompagnata da segni tali, che il nascondere a vostra santità, avrei paura di violare i sacri doveri di figlio che mi legano a lei… Non è lo spirito di partito che mi fa parlare, ma il puro amore della Santa causa, e mentre scrivo tengo il Crocifisso nelle mani raccomandando a lui ogni parola che scrivo».
Inutilmente il Massaia aveva chiesto che tale lettera venisse distrutta. Anzi, cinque anni dopo, quando il grande missionario ripresentò le dimissioni, il prefetto di Propaganda fide, card. Alessandro Baabò, fece riferimento a quella lettera per piegare la volontà granitica del Massaia, invitandolo a riconsiderare, «ai piedi del Crocifisso», la decisione presa.
«Ho cercato di tranquillarmi e spogliarmi dell’amor proprio – rispose il Massaia -, per quanto mi è stato possibile, ed esaminare la cosa avanti al Crocifisso, come ella mi diceva… Ella mi conosce che io non sono tanto facile a convertirmi e a pervertirmi di nuovo…. Ma tenga per base una massima ogni qual volta dovrà fare qualche calcolo sopra di me: un comando dei superiori per me è più forte di un cannone, mi farà star quieto, mi ammazzerà, e mi getterà nel fango e nella polvere; la ragione è, perché, quanto bramo di dire liberamente la verità anche ai superiori, altrettanto poi mi è cara la convinzione e disposizione di morire mille volte per la fede e per l’ubbidienza alla chiesa e di ciò ella ne ha avuto prove sufficienti per il passato, senza che mi trattenga nel portare prove».
Così l’apostolo dei Galla rimase appeso alla croce della sua missione per altri 15 anni, cioè fino alle dimissioni definitive presentate a Leone xii il 23 maggio 1880, in seguito all’espulsione dall’Etiopia: e ciò «per l’amore e per il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, l’unico che mi tiene in questi paesi, non per altro che per sgravare l’obbligo di apostolicità che gravita sopra tutta la chiesa».
Calvario e Santo Sepolcro
Il Massaia avvertì il richiamo della Città Santa e vi compì quattro pellegrinaggi, polarizzando sempre più la sua attenzione sul Calvario e il Santo Sepolcro. Dal primo viaggio (aprile 1851) riportò, come souvenir, lo storico bastone con l’impugnatura di radica d’olivo del Getsemani, che lo accompagnò in tutti gli spostamenti africani, per ricordargli a ogni passo una stazione di via crucis.
Nel secondo pellegrinaggio (marzo 1864) promise sopra il Santo Sepolcro di non lamentarsi più dei suoi «gravi disgusti… perché come missionario deve fare due parti: una di maestro, che è la minima, e l’altra di vittima pacificatrice in continuazione del sacrificio del Calvario».
Per il terzo viaggio (maggio 1866), fu invitato come concelebrante alla consacrazione dell’ausiliare di Gerusalemme; la vigilia della partenza da Gerusalemme, passò «tutta la notte» nella basilica del Santo Sepolcro, dividendo il tempo tra il Calvario e il Sepolcro stesso.
Sulla via dell’esilio, si fermò nella Città Santa per oltre un mese per stare «accanto al sepolcro di nostro Signore con la Maddalena – racconta – per vedere se mi riesce di vedere una volta il volto del mio caro Padrone». E sembra che gli si sia proprio disvelato il martedì santo, 23 marzo 1880, come scrisse due giorni dopo in una lettera: «L’altro giorno ho celebrato la santa messa sul Calvario… dopo ho voluto sentire una messa di ringraziamento; ma, arrivata all’Agnus Dei, caddi svenuto e passai qualche minuto immobile e come morto. Poi, sollevato dai circostanti, mi rinvenni e conobbi per mia disgrazia d’essere condannato a vivere ancora qualche tempo. Oh, quanto sarebbe stato bello per me morire sul Calvario, dopo aver portato la croce per ben 35 anni di miserabile missione! Ma fui indegno di tanto onore e la mia gran messa, incominciata con Cristo e per Cristo nella mia consacrazione vescovile, non è ancora arrivata all’Ite missa est».
La causa di quell’incidente va ben al di là del deliquio dovuto all’estrema debolezza fisica, ma lascia intravedere una dimensione mistica, come il Massaia scrive nelle Memorie: «Quel fatto lasciò in me un non so quale incantesimo, che ancora oggi mentre scrivo, più di sei anni dopo, il solo presentarsi alla mia mente il caso di allora mi causa una crisi tale che non posso spiegare, senza ricorrere al fascino del luogo santo. Bisogna confessare, che in una persona che abbia fede, il pensiero del Calvario produce sempre un effetto che non posso spiegare e che serve molto a ravvivare il mio spirito nella meditazione». 

Di Antonino Rosso

CRONOLOGIA

1809    8 giugno: nasce a Piovà d’Asti (ora Piovà Massaia); è battezzato lo stesso giorno con i nomi: Lorenzo Antonio.
1824-1826: frequenta il seminario di Asti.
1826    6 settembre: a Torino veste il saio cappuccino, assumendo il nome: Guglielmo.
1832    16 giugno: ordinazione sacerdotale a Vercelli.
1834    cappellano all’Ospedale Mauriziano di Torino.
1836    insegna filosofia e teologia a Moncalieri-Testona.
1846    nominato vicario apostolico dei Galla (12 maggio), consacrato vescovo (24 maggio), salpa da Civitavecchia (4 giugno) e sbarca a Massaua (28 ottobre), dove incontra, il 26 novembre, Giustino De Jacobis, prefetto dell’Abissinia.
1847    25 novembre: esiliato da Ubiè, capo del Tigrè.
1849    7 gennaio: a Massaua consacra vescovo Giustino De Jacobis.
1850    aprile: parte da Massaua per Aden, Suez, Marsiglia; raggiunge Roma e torna a Marsiglia.
1851    da Marsiglia passa in Terra Santa, raggiunge l’Egitto e risale il Nilo, travestito da viaggiatore, con il nome di Giorgio Bartorelli.
1852    21 novembre: legato a un otre traghetta il Nilo Azzurro, entra nel Galla, si stabilisce in Asandabo.
1854    aprile: fonda la missione dell’Ennerea.
1855    maggio: fonda la missione del Kaffa.
1859    3 maggio: a Ennerea consacra vescovo coadiutore Felicissimo Cecino.
1861    agosto: esiliato dal Kaffa, ripara nell’Ennerea, poi si stabilisce a Lagamara, quindi nel Gudrù.
1863    maggio: inizia il viaggio per l’Europa. 
1864    torna in Europa dove rimane fino al 1867, incontrando varie personalità religiose e politiche in Italia e in Francia.
1868    marzo: su invito del re Menelik II raggiunge Liccè, capitale dello Scioa, dove fonda le missioni di Fekerièghemb e Finfinnì, la futura Addis-Abeba.
1875    14 febbraio: a Escia consacra vescovo Taurino Cahagne, suo successore.
1879    nominato Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano e accreditato dal governo italiano plenipotenziario del trattato italo-scioano.
    3 ottobre: è esiliato dall’imperatore Johannes IV.
1880    a tappe forzate giunge al Cairo disfatto; sosta alcuni mesi in Medio Oriente, giunge a Roma, è ricevuto in udienza da Leone XIII (7 settembre) e inizia la stesura delle sue memorie, lavorando anche 15 ore al giorno.
1884    febbraio: termina di scrivere le sue memorie.
    10 novembre: Leone XIII lo crea cardinale.
1889    6 agosto: muore a S. Giorgio a Cremano (NA)

LA VERA FELICITA’

I n un momento particolarmente critico della sua missione nel Kaffa, l’11 ottobre 1860, il Massaia scriveva all’ex-alunno e confidente, padre Pier Maurizio da Cossato, la seguente lettera, in cui rivela il segreto della felicità sicura e stabile: il totale abbandono nel Padre, espresso dal mistero della croce e vissuto dal Figlio di Dio.
«Ho ricevuto la vostra carissima e grata lettera: fra i 30 e più studenti che ho allevato, voi siete il solo che mi scrivete; tutti gli altri si sono dimenticati di me… Poiché vi ho sempre amato, e vi amo tuttora, io non cambio linguaggio con voi e tanto più ora che mi vedo invecchiato, distrutto dalle fatiche e vicino a lasciare questo mondo.
Voi dite che questo mondo è crudele, ma sapete voi che cosa è il mondo? Il mondo è il cuor vostro, figlio mio; e appunto diventa crudele, perché non avrà forse ancora saputo riposare bene in Dio… Persuadetevi, figlio mio, che trovando la vera bussola della carità divina, potrete trovare anche tutta la tranquillità in questo mondo. Io vedo che questi selvaggi, e io stesso divenuto mezzo selvaggio, dormiamo sulla nuda terra saporitamente, mentre i delicati d’Europa non possono riposare sopra un monte di piume, di cotone e lana; non è il letto, ma sibbene la diversa disposizione del dormiente che si fabbrica dei bisogni a capriccio.

C osì è il caso nostro; parlando di me stesso, quando ero in convento, io trovavo o tutto buono o tutto cattivo, secondo come stava il mio cuore; presentemente frammezzo a questi selvaggi… in mezzo ai pidocchi, pulci, cimici e altri insetti infiniti che non si conoscono in Europa, e che tormentano la povera umanità, pure basta un momento di fervore che tutto scompare, tutto pare dolce e soave; un tantino che Iddio ritiri la mano, subito compare un vero inferno; cosa volete di più? Persuadetevi di questo, attaccatevi al vero elemento di felicità e sarete felice… Iddio, che mette l’equilibrio ai cardini cosmologici, è quello l’unico che deve ricomporre l’equilibrio del cuore e non altro… Umiltà, figlio mio, e tutto verrà dietro con la benedizione di Dio; io credevo di farmi dotto studiando, ma ho veduto che si guadagna di più meditando, e non cose sublimi, no, il Crocifisso.
Del resto, figlio mio, io sono sempre quello, perché Iddio è sempre lo stesso e la sua parola creatrice e ricreatrice dei cuori non si cambia. Sto occupandomi qui, aspettando che il Padrone mi chiami alla gran cena; il lavoro che faccio, se piaccia o non piaccia a Dio, non lo so e non mi curo di saperlo, purché sciens et volens non faccia ciò che dispiace a lui, anzi, mi sforzi di fare la sua volontà per quanto so e posso.
Dalla mia entrata in questi boschi abbiamo qualche anima che conosce Iddio, un bel numero mi ha preceduto nel riposo eterno di quelli che prima non ci pensavano, una certa quantità di cristiani vi sono che incominciano a temere Iddio; un raggio di luce evangelica è stato gettato in questi luoghi di tenebre; Iddio farà il resto, e noi non sappiamo nulla di più. Vi abbraccio nel santo Crocifisso, e lasciandovi ai piedi di nostra Madre Maria santissima godo rinnovarmi,
aff.mo fra’ G. Massaia, vescovo

Antonino Rosso




Minoranze etniche: problema eterno

Intervista a mons. Peter Nguyen Van Nhon, vescovo di Dalat

I montagnard (montanari) come li chiamarono i francesi,
o nguoi dan toc (popoli etnici) come li chiama il governo,
o degar (figli delle montagne) come si definiscono
essi stessi, rappresentano una quarantina di gruppi aborigeni, sospinti dai vietnamiti nelle zone
montagnose del paese. In buona parte cristiani e da
sempre gelosi della loro libertà, sono stati oggetto
di persecuzione e continuano a subire abusi dei loro
diritti umani da parte del governo comunista.

Gioiello della regione degli altipiani centro-meridionali, Dalat è forse la più famosa città vacanziera del Vietnam: le acque del lago in cui si rifrangono le colline che la circondano, abitate da etnie di montagnard, ricordano più i paesaggi provenzali che non le giungle tropicali vietnamite. Non è un caso che furono proprio i colonialisti francesi a sviluppare questo centro montano, favorito da un clima unico e terreni fertili, soprannominandolo «La piccola Parigi» e dotandolo di una Torre Eiffel in miniatura.
Qui vive la più alta concentrazione di cattolici di tutto il Vietnam: un abitante su quattro è battezzato. Incontriamo Peter Nguyen Van Nhon, vescovo della diocesi, nella sua residenza in riva al lago Xuan Huong. Consacrato prete a 29 anni, dal 1991 regge la diocesi che lo ha visto nascere e crescere. Dal 2007 è anche presidente della Conferenza episcopale del Vietnam.

Monsignor Peter, vorrei iniziare la conversazione parlando della chiesa incontrata in Vietnam: mi è parsa molto più libera e indipendente da quella dipinta dai mass media in Occidente; confrontata poi con quella in Cina, l’autonomia che si respira qui è davvero sorprendente. È solo una mia impressione?
Non conosco a fondo la chiesa cinese per fare un confronto, ma è vero che oggi la chiesa cattolica vietnamita è piuttosto libera. Devo comunque anche aggiungere che forse lei ha visto solo una parte della realtà cattolica vietnamita, quella che, effettivamente, gode di una certa libertà nella vita religiosa. Nel Vietnam ogni diocesi vive una situazione differente a seconda dei rapporti tra i vescovi e i preti con le amministrazioni locali. Sulla base di queste relazioni, anche individuali, la situazione può cambiare radicalmente.

Mi è sembrato che i rapporti tra chiesa e amministrazioni locali si stratifichino su tre livelli distinti: un dialogo problematico con le amministrazioni del Nord Vietnam, un attrito in via di limatura con le amministrazioni delle province abitate da minoranze etniche, un confronto più aperto e vivace con le amministrazioni del Sud Vietnam.
In effetti è così. Nel Sud i rapporti sono più lineari e meno conflittuali, perché c’è sempre stata una costante presenza della chiesa all’interno della società. Nel Nord i rapporti sono problematici semplicemente perché si stanno evolvendo, dopo decenni di stasi. Nelle province delle minoranze etniche, invece, siamo ancora piuttosto lontani dalla risoluzione dei problemi e il dialogo è ancora problematico.

Ho visitato anche le chiese di Sa Pa e Kontum, dove di fatto la situazione è più critica che altrove, però mi sembra sostanzialmente migliore di quanto mi ero prospettato.
Ha ragione, la situazione di Sa Pa e Kontum forse è la peggiore di tutta la nazione. Lì i fedeli appartengono a minoranze etniche e i rapporti con il governo vietnamita sono sempre stati molto difficili.

Vuole dire che, più che per la convivenza ideologica, le difficoltà incontrate dalla chiesa in Vietnam derivano da una problematica sociale più profonda tra vietnamiti e etnici, che ha coinvolto anche la chiesa senza che questa ne fosse direttamente responsabile.
Sì, la chiesa ha ereditato una situazione già tesa che si è acutizzata in due fasi: una prima fase ideologica, secondo cui la religione è l’oppio dei popoli, e una seconda fase che si concretizzava in un rifiuto delle regole governative da parte delle minoranze etniche, specialmente negli altipiani centrali.

È l’annoso problema dei montagnard, oggi meno acuto di qualche anno fa, ma sempre presente nell’agenda dei diritti umani.
Penso che il cuore del problema stia nella diversità dello stile di vita e dell’ambiente in cui le culture tribali e Kinh (i viet) si sono sviluppate. Vede, nella foresta la società è molto più libera che nelle comunità più organizzate, come quelle in cui vivono i Kinh, i quali, dovendo organizzarsi in spazi più ristretti e delimitati, hanno bisogno di leggi che regolino la convivenza. I tribali, invece, non hanno bisogno di tali regole: la giungla permette loro di vivere in modo autonomo, ma il governo vietnamita, dovendo controllare le popolazioni etniche, ha imposto le proprie leggi. Questo non è accettato dalle minoranze etniche, che rifiutano l’imposizione legislativa e, quindi, il controllo delle autorità centrali.

C’è però il problema delle alleanze storiche tra montagnard e europei, continuato anche dopo la liberazione con il Fulro, movimento indipendentista appoggiato dagli Usa.
Durante la guerra sembrava che i montagnard accettassero l’influenza francese prima, e statunitense poi. In realtà i montagnard sono stati sfruttati dai colonizzatori francesi e dagli americani in funzione anticomunista. Dopo la fine della guerra, nel 1975, gli Stati Uniti rafforzarono il Fulro (Fronte unito di liberazione delle razze oppresse), ma non penso che qualcuno abbia mai veramente pensato che un movimento così piccolo e isolato potesse raggiungere gli obiettivi di indipendenza prefissati. Piuttosto, il Fulro serviva agli Stati Uniti per «disturbare» il Vietnam durante la guerra fredda. Oggi il movimento non esiste più, ma il nome è tuttora utilizzato dal governo vietnamita per identificare qualunque persona o gruppo che compiono atti illegali e criminali.

Tuttavia negli Stati Uniti esiste ancora una Fondazione montagnard guidata da Kok Ksor, che si prefigge, tramite la lotta armata, la creazione di uno stato montagnard.
Kok Ksor non è in grado di costituire una minaccia per il Vietnam. Non ha i mezzi finanziari, né armi e neppure gli uomini per organizzare una resistenza contro il Vietnam. Il suo è un movimento che non si è espanso al di là degli Stati Uniti e oggi, con la nuova collaborazione diplomatica e economica tra Hanoi e Washington, non penso abbia un futuro.

E la chiesa vietnamita, da parte sua, cosa sta facendo nel campo dell’inculturazione?
Lei è stato a Kontum e avrà certamente visto la cattedrale e il campus, costruiti secondo l’architettura montagnard. Penso che quello sia un tipo di inculturazione, ma non esiste solo quello, perché la chiesa si è impegnata in questo campo in tutto il Vietnam. Siamo nel paese da 500 anni e quindi abbiamo acquisito un’ottica vietnamita. Un esempio concreto di come la chiesa cattolica si sia fatta vietnamita, lo si può vedere a Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi, dove c’è la chiesa di Phat Diem, costruita secondo l’architettura del tempio buddista cinese a pagoda.

Oltre all’estetica e all’architettura, quali passi sono stati compiuti nel campo liturgico per innestarsi nella cultura locale?
Sin dai primi anni della loro missione, i gesuiti hanno tradotto le preghiere secondo i canoni letterari e musicali vietnamiti. Nelle zone tribali i preti cercano sempre di imparare le principali lingue etniche. Le assicuro che non è compito facile, visto che per molte popolazioni non esiste una lingua scritta. Anzi, tra i montagnard è stata proprio la chiesa a codificare la lingua scritta, pubblicando libri di letteratura, leggende, racconti, fiabe e di storia per evitare la morte delle culture più deboli. Inoltre nelle case vietnamite buddiste e taoiste esiste l’usanza di avere un altare. Questa usanza è stata mantenuta anche dalle famiglie cattoliche, nelle cui case si trova sempre un altare con la croce e la Sacra Famiglia. La stessa pietà filiale presente nella vita famigliare tradizionale vietnamita, viene tradotta nelle famiglie cattoliche in rispetto verso i propri genitori, che si traduce in un rafforzamento dei vincoli di parentela e di fedeltà coniugale.

Il Vietnam è stato diviso per due decenni. In che modo questa separazione ha influito sull’evoluzione della chiesa cattolica vietnamita?
Non c’è alcuna differenza nella fede, anche se dal 1945 al 1975 la vita dei cattolici nel Nord è stata durissima a causa della guerra. Viceversa, la chiesa del sud ha avuto un decorso storico meno critico e forse per questo è riuscita ad accettare con più facilità la spiritualità del Concilio Vaticano II. Devo però aggiungere che, sebbene il Vietnam fosse diviso in due parti tra il 1945 e il 1975, in realtà la chiesa era una. La diversità a cui lei accennava prima, non era una diversità nella fede, ma si rispecchiava unicamente nelle relazioni diplomatiche.

Dopo la liberazione e unificazione, i rapporti tra chiesa e governo hanno avuto due fasi: nella prima, tra il 1975 e il 1990, tali rapporti erano tesi, nella seconda si sono registrati segnali di apertura: come pensa evolverà il dialogo con Hanoi?
Nessuno può conoscere cosa ci riserverà il futuro, specialmente in un paese socialista. Nel 1986 è stata introdotta la doi moi (innovazione) ma da allora, e sono passati più di due decenni, molte cose sono rimaste immobili. In quanto cattolici dobbiamo continuare a dialogare con il governo socialista nello spirito del vangelo secondo il Concilio Vaticano II.

Quando non è possibile dialogare?
Talvolta abbiamo l’impressione che il dialogo stagni, è come se fosse una conversazione tra sordi; ma anche allora dobbiamo perseverare. Abbiamo imparato che nella storia ci sono tempi adatti al dialogo e tempi in cui invece il dialogo stenta a decollare.

Questo periodo come lo classificherebbe?
Oggi le opinioni della chiesa sono ascoltate dal governo.

Quindi potrebbe essere un periodo propizio per sviluppare rapporti diplomatici tra Vietnam e Santa Sede: come sono le relazioni tra il governo e la Conferenza episcopale vietnamita?
Possiamo dire che il governo è convinto che, se il Vaticano è il «capo» della chiesa cattolica, la Conferenza episcopale vietnamita non è altro che un organismo nato per realizzare i progetti del Vaticano in Vietnam. Secondo il governo la Conferenza episcopale vietnamita agisce come diretta emanazione del Vaticano.

Beh, la Conferenza episcopale vietnamita non potrebbe andare contro il Vaticano; ne nascerebbe un caso internazionale. Se non sbaglio la chiesa patriottica cinese è in rotta con la Santa Sede perché sottomettendosi alle direttive dello stato, si rende indipendente da essa.
Le faccio un esempio: quando ci sono state le manifestazioni ad Hanoi per sollecitare il rimpossesso dei terreni ecclesiastici confiscati dal governo vietnamita negli anni Cinquanta-Sessanta, i fedeli cattolici si sono riuniti per pregare pubblicamente con delle candele in mano. Immediatamente il governo ha voluto sapere se questa manifestazione fosse stata ordinata direttamente dal Vaticano o se fosse, invece, un’idea della chiesa locale. Quando si è dimostrato che il Vaticano non aveva in alcun modo organizzato il raduno, l’amministrazione vietnamita si è tranquillizzata e ha lasciato che i fedeli continuassero le loro dimostrazioni.

Parliamo della diocesi di cui è a capo: Dalat. Questa è una città completamente differente dalle altre in Vietnam: un centro montano costruito apposta dai colonizzatori francesi per le loro vacanze che è riuscito a mantenere un’atmosfera rilassante. Come si è svolto l’inserimento di Dalat nel mondo socialista dopo la liberazione? Faccio difficoltà a immaginarmi un regime duro e autoritario come lo è stato in altre parti del paese.
Dopo il 1975, per un decennio la situazione politica è stata dura e difficile. In questi anni la diocesi ha perso chiese, l’università cattolica è stata requisita, così come il Pontificio collegio Pio X e tutte le scuole primarie e secondarie gestite dalla chiesa cattolica. Ma è anche vero ciò che afferma lei, che a Dalat l’avvento del nuovo governo non ha imposto drastici cambiamenti come in altre regioni. Questo perché, nella regione il 25% della popolazione è cattolica, inducendo le autorità ad assumere un atteggiamento più aperto verso la chiesa.
Infine non dimentichiamo l’aspetto climatico, che influisce sul carattere della popolazione. Il clima di Dalat è considerato uno tra i più belli dell’intero paese. Per questo la città è sempre stata sede di università e di scuole. L’atteggiamento della popolazione si riflette in questo clima gentile e il fatto che vi sia un’alta concentrazione di istituti scolastici permette di avere un’elevata scolarizzazione. Forse anche per questo il governo di Dalat si è sempre mostrato tollerante sia verso la chiesa sia verso le minoranze. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




«La chiesa siamo noi»

Mozambico: finalmente i laici protagonisti

La chiesa mozambicana ha fatto uno straordinario percorso dagli inizi degli anni ‘70 a oggi. Con la «Chiesa ministeriale» si è attuato un modello in cui
i laici sono veramente protagonisti. Secondo i principi del Concilio Vaticano II. E come le prime comunità cristiane. Un cammino oggi confrontato a nuove sfide. La maggiore è l’invasione della cultura occidentale.  Un esempio anche per la chiesa italiana.

«Sto facendo il corso per imparare, approfondire la vita spirituale, liturgia, catecumenato, bibbia… Per portare la buona novella agli altri fratelli, affinché anche loro intraprendano il cammino della luce».  È Matheus Andres Mal che parla e siamo a Guiúa (Inhassoro) nel sud del Mozambico. Con sua moglie e altre 13 famiglie, ha iniziato un anno fa il corso di formazione per catechisti, al Centro di promozione umana di Guiúa.
Matheus viene dalla parrocchia Santa Ana Maimelane, ed è animatore da alcuni anni della comunità Santa Maria Macopane. Il consiglio pastorale l’ha «inviato» per formarsi e diventare catechista.
«I laici sono i pilastri della chiesa, se vengono a mancare loro cosa succede? – si chiede Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico fino al 2008.  – Senza di loro non siamo niente, diventiamo solo il clericalismo esportato dall’Europa».
In Mozambico assistiamo, da quasi quarant’anni, a un particolare percorso che fa la chiesa, definito come «chiesa ministeriale» ovvero, come sottolinea Onorio Matti, missionario dehoniano e studioso del fenomeno, «chiesa famiglia, chiesa comunione».
Per le origini occorre risalire al Concilio Vaticano II, che spinge i laici ad avere un ruolo attivo nella chiesa, per una chiesa di comunione ispirata alla Trinità, non strutturata in modo piramidale ma, orizzontale, di popolo.

Le origini

Sono i primi anni ’70, il Mozambico è ancora colonia portoghese, ma infuria la guerra di liberazione. In quel periodo un gruppo di giovani missionari illuminati e formati al concilio inizia a riflettere su questo «Nuovo modello di chiesa». Anche il giovane vescovo di Nampula dom Manuel Vieira Pinto dà un notevole impulso alla riflessione. Il sistema di oppressione del periodo coloniale fa pensare al modello delle «Comunità ecclesiali di base» dell’America Latina, che si sviluppano in quegli anni nell’ambito della Teologia della liberazione. Il percorso sarà un adattamento al contesto africano e, più in particolare, alla cultura dei popoli del Mozambico.
Si considera che la nascita delle cosiddette «Piccole comunità cristiane ministeriali» (Pccm) avvenne in concomitanza con l’indipendenza del paese (1975), anche se, in realtà, si tratta di un processo che durò alcuni anni e quindi non è identificabile con una data precisa.
«Le comunità ecclesiali di base latinoamericane e le Pccm mozambicane coltivano e sviluppano in comune il valore della uguale dignità e delle differenti funzioni dei battezzati e quindi della responsabilità e corresponsabilità che si traducono in servizio. Affermano il dono dello Spirito che è dato a ciascuno per cui il popolo può accedere alla parola dal basso senza doverla sempre e solo ricevere dal presbitero» ricorda padre Onorio nella sua tesi: Storia e prospettive future delle piccole comunità cristiane ministeriali in Zambezia (2007).
Un’altra fonte per la riflessione di quegli anni fu la nuova teologia africana, nello specifico quella congolese elaborata alla facoltà teologica di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo). I testi africani criticavano i missionari che all’epoca trattavano la gente come bambini e pretendevano di «svuotare la mente dell’africano per introdurvi idee cristiane», senza alcun adattamento del cristianesimo nelle culture locali. C’è in essi un superamento del vecchio modo di fare missione e le basi per quella che fu, più tardi, definita «inculturazione».
Nulla di così nuovo, in realtà nelle Pccm, perché i principi sono quelli delle prime comunità cristiane (dagli Atti degli Apostoli e lettere di S. Paolo): comunione, condivisione e corresponsabilità.
Nelle Pccm, infatti, ogni battezzato ha un ruolo attivo, di servizio gratuito alla comunità di appartenenza. Il modello si contrappone e sostituisce quello del missionario che ha al suo servizio un catechista principale, scelto da lui e retribuito per vari incarichi. Il passaggio prevede un cambio di mentalità, non solo della gente, ma anche della gerarchia ecclesiastica e per questo fu lento e non privo di problemi.
La Chiesa ministeriale mozambicana resta però originale nella sua realizzazione concreta, difficile trovarla altrove, se non nei paesi confinanti dove viene «esportato» dagli stessi esuli del Mozambico.

Appoggio ufficiale

Il lavoro preparatorio e la sperimentazione del nuovo modello di chiesa riceve approvazione ufficiale e appoggio del clero nella prima Assemblea nazionale pastorale, Anp (Beira, settembre 1977), che ha proprio il tema: «Cercare piste comuni di orientamento pastorale nelle
comunità cristiane e suoi ministeri a partire dalla  esperienza vissuta e condivisa, interpellati dalla forza dello Spirito e dai rapidi e profondi cambiamenti in corso nel nostro paese». Le Anp sono il momento più alto di riflessione della chiesa mozambicana tutta: durante una settimana tutti i delegati delle diocesi (vescovi, presbiteri e laici) si incontrano e scambiano idee su tematiche che sono state preparate, con incontri a livello diocesano, per alcuni anni.
Il tema sarà poi ripreso nella seconda Anp a Maputo (dicembre 1991): «Consolidare la Chiesa locale». Mentre la terza e ultima Anp (Matola, 2005), prevederà ampi spazi all’analisi e la valutazione del percorso fatto, ma anche alcune idee su come «rifondare» le Pccm negli anni postconflitto (la guerra civile finisce nel 1992 e questo cambia il contesto).
Le tre Anp sono quindi i pilastri stessi del cammino fatto dalla Chiesa ministeriale e sanciscono e confermano la scelta, anche ufficiale, in questo senso.
Matheus ha 34 anni ed  è commerciante di professione: vende galline e capre. Nella sua comunità è animatore: «Faccio la catechesi e ho anche altri incarichi». Dopo il corso di formazione di un anno a Guiúa «il servizio che svolgerò sarà quello di formatore degli altri membri della parrocchia, provenienti dalle diverse comunità, che vogliono impegnarsi. Questa è la mia vocazione, fare germogliare il frutto che c’è negli altri». Anche sua moglie Cecilia ha seguito il corso: «Animavo la liturgia della gioventù, non ero catechista, mentre ora lo sono diventata grazie al corso. Avrò il compito di animare le donne, sempre nella carità e condivisione». I padri sono a 22 chilometri dalla comunità Santa Ana. Ecco che i laici sono chiamati a svolgere ruoli essenziali: «Quest’anno sono anche diventato ministro dell’eucaristia, e potrò quindi distribuirla». E aggiunge: «Con l’aiuto di Dio, vorrei annunciare la parola nella mia comunità, affinché tutti quelli che sono lontani, riescano ad avvicinarsi a Gesù Cristo», ma ribadisce «desidero anche che tanti fratelli abbiano la possibilità di venire a Guiúa a seguire questo corso e imparare, perché ”la messe è tanto grande e i lavoratori sono pochi”».

I laici «davvero» protagonisti

Sul vasto territorio delle parrocchie nascono e si moltiplicano le comunità. In ognuna di queste i cristiani, corresponsabili, eleggono i propri incaricati dei diversi ministeri.
I ministri eletti da tutti mantengono questo ruolo di norma per un anno, in modo tale che il maggior numero di cristiani possano partecipare. Fanno eccezione gli incarichi per i quali occorre una formazione specifica e sono quindi più difficilmente rimpiazzabili. Si tratta del catechista, dell’animatore della comunità e del ministro della parola.
Altri ministeri per la liturgia sono: lettore, incaricato del commento delle letture, incaricato dell’eucaristia, animatore del canto, della musica della danza. In seguito si aggiungono il ministero della famiglia, dell’ecumenismo, dei giovani, degli ospiti, di giustizia e pace.
Scelto il ministro, con un procedimento democratico e partecipativo, tra le persone di particolare integrità riconosciuta dalla comunità, questi riceve il mandato dall’équipe missionaria durante la celebrazione domenicale. Alla festa di Pentecoste, i mandati sono rinnovati. Il ministero può anche essere revocato in caso di cattivo comportamento del ministro.
Un concetto, non sempre facile da applicare, è che il servizio è gratuito, in quanto «servizio alla comunità» e non permanente, affinché leadership non diventi esercizio di potere.

Formazione: necessità primaria

Elias Mehama è di Mecanhelas, nella provincia Nord del Niassa. Ha 46 anni, in un paese dove l’aspettativa di vita è di 42. Ha viaggiato tre giorni con la moglie e tre figli per raggiungere Guiúa. Mentre ne ha lasciati altri cinque a casa, che saranno accuditi dai parenti. Al Centro di promozione umana, lui e la moglie Sabina, seguono il corso da catechisti.
 «Sto studiando diverse materie che mi aiuteranno nel mio servizio e che dovrò trasmettere agli altri fratelli della mia parrocchia» ci racconta. Al rientro sarà anche lui formatore di catechisti e animatori anche di altre comunità che fanno capo alla sua parrocchia.
«I laici hanno molte responsabilità nella nostra comunità. La parrocchia è molto grande, conta 130 comunità e un solo padre. Difficile visitarle tutte. Si fa un programma per andare in due comunità al giorno. Il sacerdote ha un lavoro enorme».
E continua: «Per le celebrazioni della domenica, quando non c’è il missionario, interviene l’animatore principale che fa “la celebrazione della parola”.  L’eucaristia la va a cercare (di solito a piedi ndr) il nostro ministro preposto e poi la distribuiamo».
Fin dalle origini delle Pccm si avverte come necessità quella della formazione. Nascono tre centri specifici: il Centro catechetico Paolo VI ad Anchilo (Nampula) per il Nord del paese, il Centro di formazione di Nazaré (Beira) per il centro e il Centro di promozione umana di Guiúa per il Sud.
Il nome del centro di Guiúa fondato nel 1972 dai missionari della Consolata (che ancora oggi lo gestiscono) si ispirava alla enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, dove si legge: «È necessario promuovere un umanesimo totale», ricorda padre Francisco Lerma, responsabile del centro per diversi anni.
È costituito da una trentina di casette dove ogni famiglia può ricostituire il suo focolare, e diversi locali con aule per formazione, sale, cappella, biblioteca. Ma anche un centro sanitario, la residenza dei formatori. Intoo al centro ci sono campi utilizzati per alcune attività.
La giornata formativa è intensa. Alle sei del mattino le coppie si ritrovano nel fondo valle di fianco alla missione dove ogni famiglia ha un orto da coltivare.
Poi iniziano le ore in aula. Oltre a liturgia, Bibbia, pastorale, si impara storia del Mozambico, diritti umani, cittadinanza. E poi materie più pratiche: tecniche agricole, informatica, taglio e cucito. Alcune materie sono frequentate da donne e uomini insieme, per altre la frequenza è separata. Le donne, inoltre, accudiscono la casa e i figli, mentre gli uomini continuano la formazione.

Guerra e martirio

Ma il centro non ha sempre vissuto momenti facili. Il 13 settembre 1987, in piena guerra civile, i guerriglieri della Renamo (per la situazione politica si veda MC gennaio 2009) attaccarono la missione. Il catechista Manuel Peres fu assassinato e 36 altri laici furono fatti prigionieri. Di alcuni non si seppe mai più nulla.
Il centro fu quasi chiuso: annullati i corsi biennali per famiglie, vi si tenevano formazioni per aggioamento di una o tue settimane. Indirizzati a famiglie e non a individui.
La necessità di laici formati è evidente, così a fine 1991 si valuta, a livello diocesano, se riaprire il centro. Si decide per un’azione coraggiosa e nel marzo del 1992 quindici famiglie giungono a Guiúa per una formazione annuale. Ma ecco che il 21 marzo ancora la Renamo attacca il centro. Questa volta in ventiquattro furono brutalmente massacrati, alcuni dopo interrogatori e torture (vedi box). Altri furono deportati.
Nel 2002 padre Sandro Faedi solleva di nuovo la questione della mancanza di catechisti preparati:
«Quelli che avevano sostenuto la chiesa durante il tempo della persecuzione (dopo l’indipendenza, ndr), stavano diminuendo per età o decesso. I catechisti sono anche formatori di animatori, quindi tutta la struttura della parrocchia e delle comunità ne soffriva».
Padre Faedi ne parla con il vescovo dom Alberto Setele, dicendo che in nessuna parte del Mozambico si fanno più questi corsi.
Il vescovo acconsente a cercare una persona che possa riaprire il centro di Guiúa: un teologo con esperienza. Le persone contattate non si resero disponibili. Il vescovo allora insiste con Faedi: «Sarai tu a riaprire il centro catechetico».
«Arrivai a Guiúa dalla missione di Vilankulos. All’inizio consultai tutti coloro che avevano già fatto corsi in passato per avere consigli su come organizzarlo». Finalmente il corso inizia con quattordici famiglie nel 2003. Si decide per corsi residenziali di un anno.
 La scelta è quella di formare solo famiglie: «Vogliamo formare la famiglia cristiana: lui e lei, uno dei due catechisti, ma entrambi coinvolti nel cammino di fede e testimonianza. La condivisione di vita di queste famiglie cristiane a Guiúa, con le difficoltà, ma soprattutto la comunione di preghiere, lavoro, riflessione. Poi sono “seminati” nel loro villaggio».
I formatori sono missionari, e missionarie, ma anche laici, tra i quali catechisti che hanno già seguito il corso.
Parte della formazione è svolta in lingua, xitwha, mentre fondamentale è pure l’alfabetizzazione in portoghese.
«Ho avuto molte soddisfazioni da questa missione» ricorda Faedi «Uomini e donne che hanno lasciato tutto per un anno, per affrontare una vita diversa. Uomini rudi, abituati al lavoro nei campi che devono mettersi a studiare». E continua: «Quando li richiamavo per fare il corso agli altri, vedevo che erano cresciuti a livello intellettuale, teologico, di impegno cristiano, vita famigliare. Una crescita umana e religiosa». La comunità che li ha scelti e inviati ne accudisce la casa e il campo (talvolta i figli) durante la loro assenza.

CURA DELLA FAMIGLIA

«Nella mia comunità siamo più di 800 cristiani» ricorda Elias Mehama. «Abbiamo molti catechisti, animatori principali, animatori di carità, animatori di economia, laici delle famiglie. Ognuno ha un ruolo definito. Questi ultimi, ad esempio, aiutano le famiglie, quando ci sono problemi, affinché non divorzino e vivano in pace». Figura che sarebbe quanto mai utile anche nelle nostre comunità.
«L’animatore di economia, invece, controlla il denaro dell’offertorio, organizza la raccolta».
Nella celebrazione della parola «ci sono parti che spettano agli animatori e altre al sacerdote, che noi non tocchiamo. Occorre una formazione per sapere questo. Fino ad arrivare alla comunione ai propri colleghi. Io ho imparato anche questo al corso di Guiúa» conclude Elias.

Vero socialismo

Dopo l’indipendenza il Frelimo sceglie il marxismo-leninismo e avvia una campagna di nazionalizzazione. Missioni e opere (scuole, dispensari) sono tolti ai missionari, molti dei quali devono concentrarsi nelle città, altri lasciano il paese. Il fatto di avere un tessuto laico attivo e strutturato, le Pccm, salva la chiesa mozambicana. Molti missionari che tornano nei territori abbandonati in seguito a un ammorbidimento delle posizioni del governo, sono stupiti di trovare una chiesa vivace e le comunità che si sono moltiplicate. Non si assiste a divisioni di tipo famigliare o clanico, come è tendenza in Africa, ma il modello «democratico» di gestione della Pccm è sopravvissuto e si è sviluppato.
Con le Pccm «nasce veramente la chiesa locale con la coscienza di esserlo. La chiesa mozambicana fino all’Indipendenza era troppo caratterizzata e condizionata dalla cultura europea e coloniale. La gente era passiva, viveva sottomessa al missionario come ad una autorità civile, viveva nella paura dello stato di polizia vigente e soffriva un cronico complesso di inferiorità». Scrive Onorio Matti, e continua: «Nel loro ambito, le Pccm hanno dimostrato una esemplare capacità di autogestione, di corresponsabilità, di condivisione e di comunione, realizzando in piccolo, buona parte del modello di società socialista che non solo è fallita ma, purtroppo, ha prodotto il suo contrario, un basso livello di senso civile, di responsabilità  e partecipazione sociale con l’aggravante di un processo crescente e incontrollabile di corruzione a vari livelli».

Futuro incerto

Il Mozambico di oggi, e quindi anche la sua chiesa, si confronta con l’invasione culturale dei «non valori» occidentali. Quella che, padre Matti, definisce senza mezzi termini: «L’irruzione dell’Occidente attraverso i mass media in una società indifesa. Tutto questo chiede un rinnovamento del metodo e dei contenuti della pastorale e dei relativi testi che bisognerebbe saper riscrivere con la stessa fantasia e intelligenza, entusiasmo e forza, volontà e capacità di allora».
A fianco di un bisogno e domanda di spiritualità, si assiste a una pericolosa tendenza al ritorno al clericalismo, il che rappresenterebbe una involuzione.
Nelle parrocchie torna ad avere un’importanza predominante il parroco, che accentra e dirige: «Figura e autorità centrale da cui tutto e tutti devono dipendere». I laici rischiano di diventare meri esecutori dei suoi ordini e non attivi ministri eletti dalla comunità e che a essa devono rendere conto.
Ancora Onorio Matti propone un «antidoto» a queste derive: «Quello della formazione spirituale rimane un punto carente e da colmare nel cammino delle Pccm. Bisogna coltivare di più la formazione spirituale del catechista, dell’incaricato della parola e del responsabile della comunità. Solo la solidità spirituale nella fede permette di attraversare i tempi difficili». 

Di Marco Bello

MASSACRO IN MISSIONE

La Chiesa ministeriale del Mozambico conta i suoi martiri. Tra gli altri i 24 di Guiúa.  A livello diocesano si era fatta la scelta coraggiosa di riaprire il centro di formazione, dopo oltre quattro anni di chiusura. Era la notte del 22 marzo 1992 e mancavano poco più di sei mesi alla fine della guerra.  Suor Thérèse Balela, francescana missionaria di Maria, congolese, era arrivata a gennaio e faceva parte dell’équipe che avrebbe dovuto organizzare le formazioni.  Testimone diretta di quella tragedia racconta.

«Era la vigilia dell’inaugurazione del centro. I ribelli della Renamo sono arrivati sulla montagna e vi hanno fatto il loro accampamento. Preparavamo la cerimonia di apertura della formazione e pensavamo che fossero militari, giunti per assicurare la sicurezza.  Verso l’una di notte ho sentito un gran frastuono: battevano sulle porte e le finestre delle case dei catechisti. Dopo 20 minuti ecco i primi spari:  avevano ucciso Carlos un catechista, arrivato tra i primi.  Voleva scappare e gli hanno sparato alla schiena. La mia consorella mi ha detto di spegnere le luci. Ma i ribelli dicevano:  “abbiamo visto che siete qui, uccideremo tutte le suore e i padri”.
Ho chiuso tutte le consorelle nella mia camera e mi sono barricata in casa. Io pensavo che in quanto straniera, non mi avrebbero ammazzata.
I ribelli avevano preso tutti i catechisti ed erano scesi alla nostra casa. Erano sempre più furiosi perché non riuscivano a entrare. I padri Andrea Brevi, che era il direttore del centro, e John Njoroge, del Kenya erano a casa loro e dormivano.
Sono scesa in cappella, ho preso il santissimo dal tabeacolo e ho salito le scale: parlavo con il sacramento. I ribelli intanto dicevano: “sei là e ti uccideremo”».

«Facevano delle domande ai catechisti e questi rispondevano: “siamo appena arrivati, non sappiamo nulla”.
Nel frattempo si sono sentiti altri spari. Era l’esercito regolare che si avvicinava.  “Andiamo perché il Frelimo sta arrivando” dissero e partirono con i catechisti e i loro bambini. Sono andati a tre chilometri, nella foresta, dove li hanno massacrati.
Il mattino sono rimasta in casa, tutte le suore erano molto giù di morale e non parlavano. Io volevo andare dai padri. Le suore mi hanno detto che c’era pericolo di mine. Intanto un neonato di cui avevano ucciso la madre era stato gettato sulla nostra strada. Sono andata a recuperarlo e ho visto arrivare i missionari. Il padre ha preso la macchina ed è andato in città ad avvisare il vescovo. Intanto un bambino di 7 anni è arrivato piangendo e mi ha detto “hanno ucciso tutti i nostri genitori. Mi hanno inviato a dirvelo affinché andiate a recuperare i cadaveri”.
Abbiamo soccorso quel bimbo e più tardi, con una scorta militare mandataci dal governatore siamo andati sul posto.
Abbiamo visto tre cerchi: le mamme in un cerchio, i papà in un altro e i bambini in un terzo. Tutti uccisi alla baionetta. Ho trovato quattro piccoli che succhiavano i seni delle loro mamme. Erano gli unici superstiti. Erano feriti ma si salvarono: adesso sono grandi e sono ancora con noi. Hanno ucciso i bambini, e altri li hanno portati con loro per il trasporto di munizioni e viveri. Abbiamo recuperato almeno sette bambini di quelli deportati, quando siamo andati nelle basi per il programma di riconciliazione, alla fine della guerra.
Due famiglie di catechisti si salvarono. Un uomo con moglie e due figli si nascosero nella fossa della latrina, un’altra famiglia trovò riparo nel bagno in casa. Oggi prestano ancora il loro servizio».

a cura di Marco Bello

Sui martiri di Guiúa Mc aveva già pubblicato un servizio nel marzo 2002. Padre Francisco Lerma ha scritto «I martiri di Guiúa», 2001.

Marco Bello




Prigionieri delle montagne

Viaggio in un paese quasi… senza storia

Nato artificiosamente 80 anni fa come una delle 5 repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, dichiaratosi indipendente nel 1991, il Tagikistan
è da sempre uno stato povero, con scarse risorse e difficoltà di comunicazione. La crisi economica mondiale ne aggrava la situazione.

Occorre molta determinazione per arrivare fino a qui, in Tagikistan. Montuoso per il 93% del territorio, alla fine di tutte le strade, una specie di budello, non ci si capita per caso né lo si attraversa di passaggio verso altre destinazioni. Unici accessi non montuosi sono dall’Afghanistan e Uzbekistan, due frontiere difficili, per ragioni diverse; via aria i voli sono pochi e costosi.
Anche muoversi al suo interno è impresa non da poco. Non appena la neve comincia a scendere, la circolazione sugli alti valichi s’interrompe e il paese si spezza in tre parti: la regione sud occidentale con al suo centro Dushanbe, quella di Khujand al nord e il Goo Badakhshan a oriente. Tutte queste regioni sono facilmente accessibili da territori che stanno al di fuori dei confini nazionali, ma al loro interno si trovano divise da poderose dorsali montane.
Quando nel 1895 l’impero russo e quello britannico arrivarono finalmente a un accordo sul confine in Pamir tra le loro rispettive zone d’influenza, si stabilì che esso dovesse seguire il corso del fiume Pianj: la riva destra con il Badakhshan e la provincia orientale dell’Emirato di Bukhara rimaneva sotto protettorato russo, quella sinistra avrebbe fatto parte dell’Afghanistan sotto protettorato inglese. Ma proprio sulla bassa riva sinistra correva la strada di collegamento tra l’est e l’ovest del Badakhshan, che in tal modo rimase in territorio afghano. Una strada alternativa attraverso i monti fu costruita solo nel 1940.
Allo stesso modo, il naturale collegamento tra Dushanbe e Khujand, le due città principali del Tagikistan, passa per la pianura uzbeka. Questo è il percorso che segue la ferrovia. Volendo rimanere all’interno del territorio nazionale si è costretti a valicare i due passi di Anzob (3.372 m.) e Shahristan (3.351 m.). Bisognò aspettare fino al 1935 per avere una strada vera e propria che s’inerpicasse fino a quelle altezze, prima c’erano soltanto mulattiere.
Come nasce un paese…
improbabile
Prima dell’epoca sovietica il Tagikistan non era mai esistito come formazione politica indipendente; questi territori avevano sempre costituito la periferia di stati i cui centri erano o nelle pianure irrigue a nord delle montagne, o negli altopiani a sud. Solo a metà degli anni ‘20 esso fu costituito come entità amministrativa, quando il governo bolscevico decise di dare un nuovo assetto ai governatorati del Turkestan e della Steppa, assegnando un proprio territorio a ogni popolo presente all’interno dell’ex impero zarista. Nacquero così, inizialmente, tre repubbliche socialiste, che presero il nome di altrettante etnie: Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan; al loro interno furono, poi, disegnate delle regioni autonome per le etnie considerate minoritarie.
Così facendo si applicava un principio astratto a una realtà non corrispondente: il concetto di nazionalità era del tutto estraneo alla storia, alla religione, alla cultura dei popoli centroasiatici. In Asia Centrale non c’erano mai state nazioni, ma entità statali multietniche, dove la consapevolezza etnica era inesistente; il senso d’identità era dato dall’appartenenza a una famiglia estesa, o a un clan, e dalla comune fede islamica. Il principio base di distinzione dei gruppi era lo stile di vita nomade, o sedentario: nomadi erano i kazaki, i turkmeni, i karakalpaki, i kirghizi, tutti popoli di origine turco-mongola; sedentari erano gli uzbeki turchi, che avevano col tempo abbandonato le proprie tradizioni nomadi, si erano sedentarizzati e vivevano da secoli in strettissimo contatto con i tagiki iranici, gli abitanti originari della regione e sedentari da sempre.
Dividere questa regione in base a criteri etnici, in cui gli stessi interessati faticavano a riconoscersi, era impresa impossibile, che scontentò molti e lasciò ampie fette di popolazione al di fuori dei nuovi confini nazionali. Ci fu a chi andò bene, come agli uzbeki, o benissimo, come ai kazaki, e a chi toccò una fetta troppo piccola, come ai tagiki, che videro i loro principali centri di cultura, le città di Bukhara e Samarcanda, rimanere in territorio uzbeko.
Alla regione autonoma del Tagikistan, ritagliata nel 1924 all’interno della repubblica dell’Uzbekistan, andarono la provincia orientale dell’ex emirato di Bukhara, la più arretrata e remota, e il Pamir. In mancanza di meglio, assurse a dignità di centro amministrativo un villaggio, poco più di un centinaio di case d’argilla lungo la strada carovaniera per Samarcanda, sede di un mercato che si teneva il lunedì: Dushanbe in tagiko significa, appunto, lunedì.
Nel 1929 il Tagikistan si staccò dall’Uzbekistan per diventare la settima Repubblica socialista sovietica. Essendo quasi interamente montuosa, per renderla economicamente più agibile in quell’occasione vi fu inglobata la città di Khujand e una fetta di pianura circostante, appartenute in precedenza all’Uzbekistan.
rischio disintegrazione
Finché esistette l’Urss, questa strana repubblica poté godere il vantaggio di trovarsi all’interno di uno stato multietnico che, di fatto, ricreava le condizioni originarie. I confini erano esclusivamente amministrativi e in nessun modo poteva essere tagliato il cordone ombelicale con le altre parti dell’Unione. Per andare a Khujand si saliva sul treno a Dushanbe, si faceva un tratto in Uzbekistan, poi in Turkmenistan, ancora in Uzbekistan e si rientrava in Tagikistan. Nessun visto, né dogana.
Inserito nel sistema economico dell’Unione, poco importava che non ci fossero riserve energetiche proprie e scarseggiassero i terreni agricoli: il gas vi era portato dall’Uzbekistan, il grano dalla Russia e dal Kazakistan. Furono impiantate industrie che potevano funzionare solo in un ambito interrepubblicano, come l’enorme fabbrica d’alluminio di Tursunzadè, una delle più grandi dell’Urss, dove la materia prima arrivava da altre repubbliche. Inoltre, come zona montana e depressa, il Tagikistan riceveva consistenti sovvenzioni federali.
La fine dell’Urss significò la brusca interruzione dei canali linfatici che tenevano in vita la repubblica, la quale si ritrovò a dipendere totalmente dai vicini, senza via d’accesso, senza energia, senza cibo. Tutti i vizi che stavano all’origine del suo concepimento furono d’improvviso evidenti: isolamento, scarsità di risorse agricole ed energetiche, frammentazione del territorio e difficoltà delle comunicazioni intee.
Le conseguenze della fine del sistema sovietico sono state molto più gravi che in tutte le altre parti dell’Unione. Il Tagikistan dovette affrontare una guerra civile che rischiò di mandarlo in frantumi, col nord pronto alla secessione e quasi imprendibile dietro a due poderosi bastioni montani; il Badakhshan pericolosamente isolato. I tagiki considerano un miracolo che la loro repubblica continui a esistere.
Sono passati 12 anni dalla fine del conflitto. Il Tagikistan di oggi è un paese tranquillo, dove gli orrori della guerra sembrano ormai appartenere al passato. Nel presente, però, rimane tutto il resto.
paese ricattato
A sei anni dalla mia prima visita in questo paese i segni di un miglioramento delle condizioni di vita sono ancora esigui. Non credo si possa annoverare tra di essi la comparsa di una sporadica edilizia di lusso, per non parlare del gigantesco palazzo presidenziale, ufficialmente chiamato Palazzo del Popolo, con evidenti segni di megalomania, in un’ampia area nel centro della capitale; sono, piuttosto, segni di una ricchezza proveniente dai profitti illeciti del traffico di droga, o dall’uso irresponsabile delle risorse nazionali. È noto che il presidente e membri della sua famiglia controllano i settori più produttivi dell’economia tagika.
Per la stragrande maggioranza degli abitanti l’esistenza continua a essere molto dura e la dieta giornaliera rimane a pane e tè. Anche se dal 2000 il Pil tagiko ha segnato una crescita dell’8-10% annuo, rimane molto inferiore agli ultimi anni sovietici. Inoltre, tale crescita, più che da un equilibrato sviluppo economico, è in buona parte motivata da fattori estei: la ripresa, dopo la cacciata dei talebani, del traffico di droga dall’Afghanistan, che ha nel Tagikistan uno dei maggiori canali di esportazione, e il boom economico in Russia e Kazakistan, che ha assicurato maggiori possibilità d’impiego ai lavoratori stagionali provenienti dalle ex repubbliche sovietiche. Si calcola che circa un milione di tagiki lavori in questi due paesi e che le loro rimesse alle famiglie costituiscano circa il 40% del Pil. Ciò fa sì che nel paese circoli parecchio denaro non prodotto da attività svolte al suo interno.
Girando per negozi e bazar di Dushanbe, ho subito notato che i prezzi dei beni, anche di prima necessità, erano del tutto sproporzionati agli stipendi medi di 30-40 euro. Si paga l’equivalente di due euro per un fascicoletto scolastico, un euro per un chilo di pomodori! Quando ho chiesto il prezzo di un biglietto aereo per Mosca, mi sono sentita rispondere che era valido solo per i due-tre giorni successivi, perché la quotazione era aggiornata di continuo secondo il prezzo del carburante.
La maggiore disponibilità di denaro nelle famiglie, grazie alle rimesse dall’estero, porta a una maggior domanda di beni di consumo, causando un aumento di inflazione e importazioni: quasi tutte le merci, infatti, passano dall’Uzbekistan, che impone alte tasse doganali, a cui si aggiungono i pedaggi non ufficiali estorti dalle guardie di frontiera. 
Ancora una volta, il Tagikistan paga il prezzo di una posizione geografica infelice, che lo rende dipendente per la sopravvivenza da uno stato confinante. Fino a quando la situazione in Afghanistan non cambierà e l’Uzbekistan rimarrà l’unico plausibile collegamento col mondo esterno, il Tagikistan sarà soggetto ai ricatti del vicino, che non perde occasione di far valere il proprio monopolio. È capitato che le autorità uzbeke abbiano deciso unilateralmente la sospensione, o la decurtazione delle foiture di gas; o che abbiano chiuso senza spiegazioni e senza preavviso tutti i posti di frontiera per più giorni. Un episodio del genere è accaduto alla fine dello scorso novembre, proprio durante il mio soggiorno nel paese.
dipendenza energetica
Il governo non assicura i servizi essenziali alla popolazione, eccetto l’istruzione pubblica, la cui qualità è in peggioramento per mancanza di risorse e per la fuga degli insegnanti dalla scuola, scoraggiati dagli stipendi troppo bassi. L’assistenza medica non è garantita; l’acqua non è potabile nemmeno nella capitale; i rifiuti non vengono raccolti: nelle strade in prossimità dei cassonetti si formano grossi mucchi di spazzatura cui di tanto in tanto gli abitanti danno fuoco. Nelle città l’illuminazione scarseggia e spesso viene a mancare: i più accorti si portano sempre appresso una pila tascabile.
A Dushanbe questo è stato il primo inverno in cui la foitura di energia elettrica è avvenuta con limitate interruzioni. Nelle città di provincia e nei villaggi, invece, l’elettricità viene erogata per 7-8 ore al giorno, mattino e sera. Da quando l’Uzbekistan ha ridotto drasticamente le foiture del gas, in tanti casi l’elettricità rimane l’unica fonte di riscaldamento, soprattutto nelle città.
Quest’anno l’inverno è stato relativamente mite, ma lo scorso anno il freddo fu feroce e i tagiki si ricordano con terrore di come tremavano nelle loro case gelate. Pur di ottenere un po’ di calore, gli operai della grande fabbrica di Tursunzadè trafugavano le scorie lasciate dalla lavorazione del minerale d’alluminio, che bruciano, sì, in modo simile al carbone, ma sono nocive e possono causare gravi malattie.
Le interruzioni dell’elettricità causano anche seri danni alle attività della gente: negli uffici si fermano i computer, nei laboratori le macchine e apparecchiature, gli artigiani smettono di lavorare, le pompe di benzina di erogare carburante.
Sembra un paradosso che un paese all’ottavo posto nel mondo per risorse idriche non riesca a far fronte al proprio fabbisogno di energia elettrica. Ai tempi sovietici per il riscaldamento si usava il gas e le centrali elettriche servivano in gran parte per alimentare l’industria. Da quando è diventato indipendente il Tagikistan non è stato in grado di finanziare da solo la costruzione di altre centrali. Per le grandi opere pubbliche è costretto a contare sull’aiuto di altri paesi.
Inizialmente aveva fatto affidamento soprattutto sulla Russia, che a tutt’oggi rimane per i tagiki il principale riferimento, per diversi motivi: le è riconosciuto un ruolo primario nella fine della guerra civile; è la meta privilegiata dei lavoratori stagionali; è il primo partner commerciale.
Da parte sua, la Russia ha in Tagikistan forti interessi strategici: innanzitutto quello di assicurare il controllo della frontiera afghana, da cui viene la minaccia del terrorismo islamico e del traffico di droga, che potrebbe avere un effetto destabilizzante su tutta l’area centroasiatica, per lei d’interesse vitale. Fino a poco tempo fa la frontiera era controllata dai militari russi; adesso ci sono i tagiki, ma i russi rimangono come consiglieri militari e mantengono nel paese un’intera divisione motorizzata.
Recentemente, però, altre potenze regionali hanno cominciato un’attiva collaborazione col governo tagiko e si stanno conquistando un importante spazio economico. Accanto alla Russia, che ha in cantiere le centrali elettriche di Rogun e Sangtuda 1 sul Vakhsh, ora anche l’Iran è impegnato nella costruzione di una centrale, quella di Sangtuda 2, sullo stesso fiume. Se completate esse potranno dare al Tagikistan una certa tranquillità energetica.
Oltre all’indipendenza energetica, è di assoluta priorità assicurare collegamenti permanenti tra le varie regioni, anche nella stagione invernale. Proprio in questo campo l’assistenza tecnica e finanziaria di Cina e Iran si sta rivelando preziosa. La prima sta costruendo un tunnel sotto il passo di Shahristan e una società iraniana ha da poco ultimato il tunnel Esteqlol (Indipendenza), sotto il passo di Anzob. In tal modo, tra qualche tempo sarà finalmente possibile viaggiare tutto l’anno tra le due maggiori città del Tagikistan.
è arrivata la crisi
Nel 2004 il Tagikistan ha festeggiato l’80° compleanno della capitale Dushanbe. È una città giovane, non molto estesa, con ampi viali, moltissimo verde e un’invidiabile cerchia di montagne a farle da contorno. Nonostante ciò, l’aria è densa per il fumo che sale dai roghi dei rifiuti non smaltiti dall’amministrazione cittadina. Solo il vento e la pioggia riescono a togliere il pesante odore di bruciato.
Il centro ha conservato la sua impronta staliniana, in cui predomina il neoclassico, lo stile ufficiale negli anni ‘30 del secolo scorso. Ci sono i palazzi governativi, l’imponente teatro dell’opera, la filarmonica, teatri di prosa, tutti quasi sempre chiusi. La fine dell’Urss ha avuto una pesante ricaduta anche sulla vita artistica e culturale della città.
In mancanza di altri luoghi d’intrattenimento, nei giorni di festa gli abitanti si ritrovano nei parchi cittadini. Le donne, giovani e meno giovani, indossano vestiti lunghi, dai colori sgargianti, con i fazzoletti a fiori calcati sulla fronte e annodati dietro la nuca; gli uomini, invece, hanno in prevalenza abiti scuri. Passeggiano in gruppi numerosi: amiche, amici, intere famiglie, molti con le macchine fotografiche, e si concedono qualche ora di distensione. Facce sorridenti: Dushanbe la domenica ha un sapore di normalità.
Ben diverse erano le facce dei passeggeri, per lo più uomini, che ho visto in aeroporto mentre m’imbarcavo per Mosca. Consegnavano i bagagli al check in e poi, con fare incerto come di chi non sa dove andare, finivano per accalcarsi davanti alla strettornia del controllo passaporti.
Mentre aspettavo il mio tuo, un ragazzo mi ha superato ed è andato a occupare un passaggio che doveva rimanere libero. Quando mi sono rivolta a lui per avvertirlo, ho visto i suoi occhi smarriti, la sua espressione timida e ho capito: quel ragazzo non aveva mai messo piede in un aeroporto, arrivava probabilmente da qualche villaggio e andava a Mosca a cercar lavoro per mandare tutti i mesi un po’ di soldi ai famigliari. Era lo stesso sguardo disorientato che adesso leggevo sulle facce di tanti passeggeri. Molti di loro lasciavano le loro case per cominciare un viaggio il cui esito era incerto, ma che certamente sarebbe stato pieno di fatica e umiliazioni.
Ai lavoratori stagionali in Russia spettano i mestieri più umili e duri. Ma questo è il male minore: spesso ricevono una paga molto inferiore a quella dei russi e può capitare che non la ricevano affatto, se non possono far valere un regolare contratto; il datore di lavoro sa che, anche se insolvente, resterà impunito.
La recente crisi, che ha colpito duramente anche la Russia, ha peggiorato la loro condizione. I cantieri, dove i tagiki e altri stagionali costituiscono tutta la bassa manovalanza, hanno cominciato a chiudere, lasciandoli senza paga e senza impiego. Molti saranno costretti a tornare; tra chi rimarrà la concorrenza sarà più dura e la paga scenderà ancora. Tante famiglie rischiano di perdere la loro unica fonte di reddito.
È così che la crisi finanziaria sta arrivando anche in Tagikistan, dove non ci sono né capitali, né borse. Sta arrivando veloce, a dispetto della sua lontananza e delle inaccessibili montagne. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Rafforzata e consolata

Spagna

Suor Marisa Isabel Soy, argentina, dopo avere lavorato in Bolivia e in Liberia, ora si trova in Spagna, a Madrid, dove le missionarie della Consolata svolgono un servizio di animazione missionaria e pastorale parrocchiale. Inoltre, suor Marisa, collabora in un progetto a favore dei Migranti.

Ousmane ha circa quarant’anni ed è uno dei tanti migranti proveniente dall’Africa Occidentale che ha attraversato il mare per cercare una vita migliore a Madrid, in Spagna.  Un lavoro da pescatore che non riusciva più a mantenere e sfamare una famiglia numerosa: ecco cosa c’è alla base del sogno europeo di Ousmane. L’ho conosciuto  grazie al «Progetto RAPA» (Rete di appoggio per l’Africa, creata dai Gesuiti spagnoli con cui da due anni collaboro), organizzazione che aiuta i migranti ad inserirsi nella realtà spagnola. Un lavoro che svolgo volentieri, riconoscente per il tanto bene che ho ricevuto dalla gente africana, durante i miei anni trascorsi in quel continente.
Ousmane, arrivato circa un anno fa dal Senegal, è ospite di un centro di accoglienza temporanea. Prima dell’attuale crisi economica, era facile per chi arrivava in Spagna trovare un lavoro, avere in breve tempo i documenti in regola ed ottenere il permesso di soggiorno. Ora, anche in Spagna la situazione è difficile per cui gli ospiti del Centro non trovando lavoro, restano all’interno della struttura. Questa situazione rende i migranti tesi e a volte  anche violenti. Per questo, noi che lavoriamo nel RAPA ci siamo proposti di «personalizzare» l’accompagnamento, offrendo a ciascuno la possibilità di dialogare e allentare così le tensioni. Migliorare la comunicazione con gli ospiti del Centro ci ha anche permesso di conoscere le motivazioni che hanno indotto queste persone a lasciare i loro Paesi, nonché di cogliere le loro capacità lavorative e aspirazioni, aiutandoli così meglio  nella ricerca di un impiego.
Curiamo anche la formazione personale e professionale degli ospiti, offrendo corsi di lingua spagnola e avviamento professionale.
Attraverso i programmi del Centro RAPA ho conosciuto e seguito da vicino Ousmane. Mi ha colpito la sua salda fede in Allah, che lo aiuta ad affrontare con calma e serenità la situazione di emergenza e solitudine in cui si trova.
Mi impressiona anche la sua riconoscenza per tutto ciò che riceve: la sua sofferenza più grande è quella di non poter mandare, come vorrebbe, aiuti economici alla sua famiglia.
Spesso, mi chiede di pregare per lui e di aiutarlo a trovare un lavoro. Purtroppo, oltre alle molteplici difficoltà burocratiche, un test medico ha diagnosticato a Ousmane un diabete, per cui deve seguire una dieta speciale e sottoporsi a controlli sanitari regolari, cosa che complica ancor di più la sua situazione di migrante senza permesso di soggiorno. Tuttavia, niente di tutto questo mina la fede di quest’uomo. La sua presenza serena e senza pretese è per me il segno palpabile che Dio è con lui.  In questo mondo del consumo e delle apparenze, dove questi fratelli vivono raccogliendo le «briciole» del nostro spreco, mi sento consolata accompagnando i passi di coloro che, come Ousmane, non contano e sempre vengono lasciati ai margini della società: per questa esperienza rendo grazie a Dio e mi sento rafforzata nella mia vocazione di Missionaria della Consolata.

Di suor Marisa Isabel Soy

Marisa Isabel Soy




Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello




102 giorni d’inferno e paradiso

Suor Caterina e suor Maria Teresa raccontano…

Rapite il 20 novembre 2008 a El Wak (Kenya), tenute prigioniere in Somalia per 102 giorni, le due suore del Movimento contemplativo missionario Charles de Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, una volta rilasciate, sono rimaste per alcuni giorni nella quiete della casa regionale dei missionari della Consolata a Nairobi. Una sera le ho «sequestrate» per fare una lunga chiacchierata sulla loro esperienza. E si sono arrese volentieri.

A  raccontare la loro brutta avventura è soprattutto suor Caterina, Rinuccia per le sue sorelle, donna minuta di 67 anni, che parla in modo dolce e quieto, ma con una grande forza interiore, ed è persino capace di sorridere e scherzare nel ricordare momenti anche buffi della loro prigionia. È infermiera e si arrangia con la lingua somala, in cui è chiamata con il nome di Khatra.
Suor Maria Teresa, 60 anni, è la più forte delle due. Alta, con mani grandi e forti da figlia di contadini, Mariam, come è chiamata in lingua somala, non parla molto. Così si limita a spalleggiare Khatra, con una voce che invita alla cautela, conferma, corregge, aggiunge, chiarisce e mette in guardia quando la potenza evocatrice dei ricordi supera la prudenza, per non rivelare cose che sarebbe meglio non dire. Ma quanta profonda e delicata sensibilità si notano in quelle poche parole e in quella voce profonda!
Dal loro racconto non sapremo molto sul perché furono catturate, sui negoziati ed eventuale richiesta di riscatto, su come furono liberate. Notizie di stampa locale e internazionale hanno riferito che i sequestratori erano miliziani di Al Shabaab e che la loro detenzione fosse a Mogadiscio. Sui giornali sono apparse anche congetture su un pagamento di riscatto e su uno scambio di prigionieri. La verità è gelosamente custodita da chi ha fatto il suo dovere in silenzio. Da parte mia ho evitato deliberatamente l’argomento durante la nostra conversazione.
So solo che il 19 febbraio, alle 3 del pomeriggio, una festosa telefonata mi informava che le due suore erano state liberate e, arrivate a Nairobi, erano state portate subito all’ambasciata italiana, da dove avevano potuto mettersi in contatto con le loro consorelle e confratelli. Ma lasciamo la parola a suor Caterina.
La cattura
Era circa mezzanotte. Dormivamo tranquille, sentendoci al sicuro nelle nostre stanze, protette dalle mura del recinto e due portoni di ferro, quando d’improvviso fui svegliata dall’inconfondibile scricchiolio del portone del cortile interno. Mi alzai allarmata, chiamai suor Maria e corsi alla finestra del soggiorno in tempo per vedere le luci di molte torce che avanzavano verso le nostre stanze. Poi si udirono degli spari, mitragliavano la porta della stanza di suor Maria.
Corsi indietro e mi aggrappai alla vecchia sirena a mano (foitaci negli anni ‘70 da padre Giovanni Bonzanino!). Suonai l’allarme girando la manovella con tutte le mie forze per diversi minuti, finché sentii sparare anche contro la mia porta.
Mi resi conto che ero ancora in pigiama; mi vestii in fretta e mi nascosi dietro un armadio (mi viene da ridere pensando alla mia ingenuità!), mentre la porta stava crollando sotto la gragnola di proiettili. Entrò un giovane, si diresse verso il mio letto. Non c’ero. Guardò in giro, mi scorse, mi afferrò una mano, uno strattone e mi ritrovai in terra come un sacco di patate. Mi trascinò fuori senza complimenti e … senza scarpe.
Suor Maria era già fuori, con una torcia in mano. Prima che la sua porta fosse sfondata, aveva tentato di chiamare aiuto con il telefono mobile, ma nessuno aveva risposto.
Spintonate dai nostri sequestratori, arrivammo al portone esterno: un colpo di fucile mandò in frantumi il grosso lucchetto nel quale avevamo riposto tanta fiducia. Trascinate e strattonate, attraversammo a passo svelto l’intero villaggio di El Wak. Io gridavo aiuto con tutta la mia voce, mentre il mio sequestratore mi picchiava dietro la testa: «Silenzio! Silenzio!».
Poi caddi a terra lunga e distesa. Ero scalza. Era buio. Mi spingevano. Sentii sul collo la canna di una pistola, ma continuavo a gridare. In quel momento cominciai a sentire interiormente che non ci avrebbero ucciso. Volevano farci prigioniere. Cadde a terra anche suor Maria. La colpirono in testa con il calcio del fucile. Cominciò a sanguinare; per fortuna la ferita era superficiale.
Alcune automobili ci aspettavano. Mi gettarono di peso dentro una di esse senza complimenti: ero troppo esausta per reagire. Maria si sedette al mio fianco. Aspettammo un poco. Da quel momento cominciammo a pregare. Una preghiera continua. Si udì un’improvvisa scarica di armi da fuoco proveniente dalla città: il cuore ci batteva forte; qualcuno veniva a liberarci. Speranza vana. I nostri sequestratori si raggrupparono, balzarono nelle auto e si gettarono dritti nella boscaglia. Passammo vicino a El Uach, il villaggio somalo opposto a El Wak, e continuammo per oltre un’ora, finché ci fermammo e fummo trasferite in una comoda Range Rover dai vetri scuri.
Alcuni sequestratori si avvicinarono al finestrino; avevano telefonini cellulari. Uno ci mostrò una foto: «Lo conosci?». Era l’inconfondibile faccia di Bin Laden! «Sì» rispose suor Maria. Il cuore sembrava scoppiare: eravamo proprio in «buone» mani! «Siamo di Al Shabaab» dissero, poi domandarono: «Siete musulmane o pagane?». «Siamo persone che amano tutti nel nome di Dio» rispose suor Maria: una risposta ispirata da Dio! Da allora non ci fecero più simili domande.
Cinque giorni fuori pista
Viaggiammo tutta la notte, fino alle quattro del pomeriggio seguente, senza cibo né acqua. Avevo grande bisogno di zucchero o di sale per la mia pressione. Lo chiesi, ma fecero orecchie da mercante. Quando finalmente ci fermammo, il capo del gruppo disse: «Ora mangiamo pastò». Intendeva pastasciutta. Ci sedemmo al sole accanto all’auto; dopo un po’ ci portarono un grosso piatto di spaghetti, luccicanti di olio e qualcos’altro. Assaggiai. Era zucchero! Dopo 16 ore di viaggio e la pressione che continuava a scendere, anche gli spaghetti allo zucchero potevano andar bene.
Ma il vero problema era l’acqua. Quella disponibile l’avevano usata tutta per cuocere gli spaghetti. Rimanemmo senza bere fino la sera del giorno seguente, quando arrivammo a un villaggio e le auto si fermarono accanto alla moschea, da cui la gente era appena uscita. Qualcuno ci portò una tazza di tè: era meraviglioso; dopo 40 ore di viaggio quel tè aveva gusto di paradiso! Vedendo la gioia e gratitudine con cui lo avevamo bevuto, ce ne portarono un altro; poi un uomo arrivò con un piattino di riso e due cucchiai; un altro con un piattino di nyieri-nyieri, gustosa carne fritta nell’olio cucinata solo in speciali occasioni di festa. Fu poi la volta di una tanichetta d’acqua da 3 litri e una bustina di shampoo: così suor Maria poté lavarsi la ferita.
Fummo portate in un luogo nascosto, nell’alveo secco di un torrente, dove ci avevano preparato una stuoia su cui dormire, al chiaro di luna. Dato che ero scalza, il vice capo mi prestò le sue scarpe per raggiungere lo spiazzo. Faceva freddo e avevo niente per coprirmi, allora lo stesso corse al villaggio e toò con un grande lenzuolo. Cominciammo a dormire, un sonno agitato, mentre anche i sequestratori si coricarono in circolo attorno a noi, sempre stretti ai loro fucili e lancia razzi. Erano tutti ragazzi giovani, eccetto il capo.
Al mattino riprese il viaggio verso sud, su percorsi fuori pista. Dormimmo per qualche ora e di nuovo in viaggio, finché dovettero fermarsi per problemi meccanici. Per quasi tutto il giorno rimanemmo in quel posto isolato, senza cibo e senza acqua. Suor Maria ebbe un momento di panico. Dei tre litri restavano solo un paio di bicchieri d’acqua bianchiccia e fangosa: fu la molla che fece scattare le nostre paure: prigioniere, in mano a sconosciuti, per ragioni ignote, in terra deserta…
Riuscimmo, tuttavia, a riprendere il controllo di noi stesse. Arrivò il tramonto e la sete divenne più sopportabile. Per la prima volta riuscimmo a recitare un rosario per intero. Fino a quel momento avevamo pregato sempre, in continuazione, ma solo con brevi invocazioni, come «Signore, salvaci». Ci aiutava a restar calme.
Appena finito il rosario, fummo portate alle auto. La «nostra» Range Rover era pronta alla partenza. E proprio in quel momento arrivò il meccanico con una tanica da 20 litri d’acqua. Ognuno se ne prese una bottiglia, anche noi; ma il vice capo ci diede un extra, prese la nostra tanichetta, la riempì e ce la consegnò. Una gentilezza che apprezzammo molto.
Era già buio, ma il capo decise di lasciare il gruppo con le macchine rotte e proseguire da solo con la Range Rover, con dentro noi e altri due uomini. Guidò per 20 ore di seguito, giorno e notte. Eravamo arrivati così a sud, da perdere la direzione; dopo aver chiesto spiegazioni via cellulari, il capo fece salire un uomo che ci guidò verso una grande città, che immaginammo dovesse essere Mogadiscio.
la prigionia
Dopo 5 giorni di terribile viaggio, eravamo finalmente in una casa. La padrona sapeva del nostro arrivo. Ci diede un vestito nuovo ciascuna, acqua per bere e per lavarci e un materasso per dormire. Quella notte riuscimmo a riposare.
Il giorno seguente il capo stesso, con voce severa, ci ricordò che saremmo morte se le trattative fossero fallite. La minaccia ci lasciò di ghiaccio. Eppure ci sentivamo molto forti. Fin dall’inizio di quella dura prova avevamo fatto lo stesso proposito: affrontare con pace interiore qualsiasi cosa fosse capitata; così instaurammo un rapporto il più positivo possibile con i nostri rapitori. Per grazia di Dio, non abbiamo mai avuto sentimenti di rabbia, odio o avversione verso di loro.
Nella città, sebbene più volte trasferite da un posto all’altro, fummo tenute in stanze abbastanza larghe; avevamo due materassi e due cuscini e qualche vestito di ricambio; là ci fecero indossare il burka e coprire i capelli. Rimanevamo chiuse nella stanza tutto il giorno; ci era permesso di uscire solo per i bisogni fisiologici. Solo nelle ultime 4 settimane ci fu consentita un’ora all’aria aperta nel sole di mezzogiorno.
A parte ciò, ci trattavano sempre con rispetto e cortesia, provvedendoci cibo buono e abbondante. Un giorno uno di loro ci presentò un libro. «Lo conoscete? The Holy Bible!». Ci spiegò che avevano ucciso un soldato straniero e gli avevano trovato quella Bibbia in tasca; ora era lì per noi. Un regalo stupendo, che accettammo con immensa gioia.
La usammo molto, ma con prudenza, per non provocare discussioni su argomenti religiosi. Infatti avevamo qualche problema con uno dei giovani carcerieri alquanto zelante. Per cui, un giorno ne parlammo al vice-capo, che era sempre stato gentile con noi. Raccontammo come eravamo ammirate per il loro comportamento: tutti disciplinati, mai un litigio o parole irriguardose, non facevano uso di tabacco e alcolici né masticavano miraa (la droga così comune tra i somali!), sempre rispettosi nei nostri riguardi e verso le donne in generale. C’era solo quel giovane miliziano che ogni tanto ci metteva in imbarazzo. Da quel giorno il giovane ci lasciò in pace e ci trattò con gentilezza.
Per 40 giorni (nella nostra comunità siamo allenati ai 40 giorni! [Ndr. i 40 giorni di deserto e preghiera che caratterizzano la vita spirituale dei contemplativi missionari]) riuscimmo a conservare il morale discretamente alto. Certo, avevamo paura. Chi non ne avrebbe avuta in tale situazione, con uomini sempre armati di fucili e bombe, sempre pronti a vantarsi delle loro uccisioni? Ma resistevamo, e non abbiamo mai perso la nozione del tempo. Suor Maria aveva ancora il suo orologio; il mio si era rotto mentre mi trascinavano a El Wak. Eravamo anche riuscite a compilare un calendario di fortuna, con un pezzo di carta e un mozzicone di matita trovato sul davanzale di una finestra.
Avemmo un momento di grande apprensione il 23 dicembre, quando uno dei carcerieri ci disse che le trattative per il nostro rilascio erano ferme. Seduto nella nostra stanza, ci riferì la notizia in modo calmo e cortese, provando perfino a consolarci e condividendo il nostro dolore. Ma fu terribile. Ci sentivamo tradite, abbandonate, sole, impotenti, e ferite nel profondo dell’anima.
In tale stato d’ansietà celebrammo il natale; abbiamo pregato, letto i passi biblici della natività di Cristo; sentivamo Gesù profondamente presente, lì, prigioniero con noi. Ma fu un momento di grande oscurità, durato fino alla fine dell’anno. Poi cominciarono a trapelare notizie migliori.
la forza della preghiera
A darci coraggio era la preghiera. All’inizio eravamo persino incapaci di pregare insieme; pregavamo molto, ma ognuna per conto suo. Poi cominciammo a pregare insieme la sera; alla terza settimana ci eravamo già organizzate bene: lodi mattutine, vespri serali, 4-5 rosari durante la giornata e la partecipazione mentale alla messa, momento per momento, con comunione spirituale.
Per la recita dei salmi ci aiutavamo a vicenda ricordandoli a memoria. Naturalmente il primo che ci venne in mente fu: «Il Signore è il mio pastore». Lo sapevamo bene ed era proprio giusto per la nostra situazione. Poi il salmo 103, «Benedici il Signore, anima mia!». Il salmo 63 era sempre sulle nostre labbra: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco». Riuscivamo a ricordae abbastanza bene circa 15; ne recitavamo sei-sette nella mattinata; gli altri alla sera, ripetendoli anche due volte. Pregavamo con molta calma: non avevamo altro da fare tutto il giorno.
Pregavamo sempre a bassa voce, per non attirare l’attenzione. Non osavamo cantare. Solo nelle ultime settimane trovammo il coraggio di intonare qualche canto, perché la nostra stanza era la più isolata, lontano dalle orecchie dei nostri custodi.
Per mantenerci occupate camminavamo su e giù per la piccola stanza, fino a stancarci. Andando avanti e indietro, recitavamo il rosario, tanti rosari. A ogni Ave Maria inserivamo qualche giaculatoria: «Gesù, io confido in te»; «Spirito Santo illuminaci, guidaci ogni istante della giornata»; «Madre nostra, Maria, aiutaci a ringraziare»… Un rosario poteva durare più di mezz’ora. Pregare in quel modo era un balsamo per noi. Ci ha aiutato tantissimo.
Nei vespri serali avevamo un’occasione per ringraziare con il Magnificat. Ringraziare! Era molto importante per noi. Forse dovuto all’insistenza e formazione instillateci dal fondatore della nostra comunità, il ringraziamento è sempre stato parte della nostra preghiera, anche in quei giorni difficili. Ogni giorno avevamo motivi per rendere grazie.
La Parola di Dio ci accompagnava tutto il giorno. Ripetevamo spesso passi o versetti più familiari della Parola di Dio. A volte usavamo la Bibbia che ci avevano dato. Alcuni versetti ci venivano facilmente in testa, come «venite a me voi che siete stanchi e oppressi…» e «ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti perseguitano». Citazioni molto significative, che ci aiutavano a illuminare, rinnovare, correggere ogni giorno la nostra relazione con quelli che ci stavano vicino in quei momenti. Quando li sentivamo pregare, anche noi pregavamo per loro. Invocavamo lo Spirito Santo perché operasse in loro.
Eravamo convinte che lo Spirito fosse al lavoro, anche in quella difficile situazione. Non che fosse facile. Anzi! C’erano momenti di sconforto, come quando ci sentivamo abbandonate con la sensazione che Dio fosse lontano: «Perché non rispondi? Fai presto, aiutaci. Liberaci!». Eravamo tentate di perdere la speranza, di cadere nella più nera disperazione. Ma poi… «Se tu non fossi qui, Signore, cosa sarebbe di noi? Cosa potremmo mai fare?». Non era possibile dubitare. Sentivamo davvero che il Signore era lì con noi, prigioniero anche lui con noi!
Esperienza di Paradiso
È stata molto, molto dura… tante lacrime, non solo interiori. Molte ore insonni; l’angoscia che ti prendeva dentro; essere sveglia e sentire accanto la sorella piangere nel sonno… ti trafigge il cuore; e pensi: «Sto già soffrendo troppo! E se anche lei patisce tanto dolore, come faremo a sopravvivere?».
Tale esperienza ci faceva sentire più vicine al Cristo crocifisso. Un giorno ci siamo persino dette che dovevamo essere grate a Dio perché avevamo il privilegio di condividere la passione di Cristo. Tale pensiero non veniva da ragionamento, era piuttosto un’intuizione, ma ci fu di grande aiuto. La sofferenza di Gesù, il suo essere tradito, la sua debolezza, come agnello portato al macello… ci siamo sentite anche noi così: impotenti, spoglie, indifese, inermi di fronte a una realtà fuori del nostro controllo.
Eravamo certe che la nostra comunità, i parenti e tantissime persone erano con noi e ci stavano sostenendo con la preghiera. Ma in realtà eravamo sole, senza contatti, senza notizie, senza risposte alle nostre mute domande. Era un’esperienza di purificazione. Crescevamo nella fede giorno dopo giorno, ma era una fede nuda, oscura… proprio «come succhiare un chiodo», come usava dire il nostro fondatore. Ma era fede. Sapevamo che il Signore era lì con noi. Recitando il rosario, sperimentavamo la presenza della nostra Madre, lì, con noi. Era un continuo scorrere di grazia. Al tempo stesso era una croce, nella sua totalità, senza sconti.
Sentivamo entrambe che lo stare insieme era una benedizione. A un certo punto, percepimmo che stavamo vivendo un’esperienza di paradiso: mai nella vita ci eravamo sentite così legate da affetto, profonda comunicazione e solidarietà. Stavamo vivendo l’una per l’altra.
Non che fossimo senza problemi. In certi momenti eravamo così tese e stanche da non riuscire a sopportarci a vicenda. Brevi momenti dolorosi, ma lo capivamo; era normale. Si cercava di evitare parole inutili, pesanti… per non aggravare il già pesante fardello che dovevamo portare.
Abbiamo imparato a condividere tutto, persino le sofferenze più segrete. Come quando suor Maria mi vide piangere nel sonno: non aveva il coraggio di dirmelo, le sembrava troppo; ma poi decidemmo che anche quei momenti dovevano essere condivisi, perché una sofferenza così forte che per notti e notti non ti permette di dormire può essere lenita solo condividendola.
Il futuro
Due ore prima di salire sull’aereo ci fu detto che eravamo libere. Fu una gioia incredibile. E ora siamo qui e ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e solidarietà, da tutti gli angoli del mondo.
Anche i nostri amici musulmani di El Wak e Mandera hanno pregato per noi dal primo giorno della nostra prigionia. Ora ci chiamano ogni giorno, chiedendoci di ritornare. Molti di loro non riescono neanche a parlare al telefono, si mettono a piangere. Hanno fatto tanto per noi, pregando ed insistendo con gli anziani per la nostra liberazione. I poveri, i malati, le madri, i vecchi… erano tutti dalla nostra parte. Ma i poveri non han potere né voce!
Toeremo? Preghiamo e speriamo, ma non sappiamo. Il nostro futuro è nelle mani di Dio! 

Di Luigi Anataloni

Luigi Anataloni




Danza dei morti e dei vivi

La «grande isola rossa»: religione tradizionale e cristianesimo (seconda parte)

Dopo un secolo e mezzo di evangelizzazione, metà della popolazione malgascia è cristiana e un quarto appartiene alla chiesa cattolica, la cui vitalità
è caratterizzata dall’abbondanza di vocazioni e si esprime nell’impegno nel promuovere lo sviluppo fino agli angoli più reconditi del paese, diventando così punto di riferimento per la soluzione di numerosi problemi che ancora affliggono la gente.

M età circa della popolazione del Madagascar ha credenze e pratica riti tradizionali, mentre l’altra metà è di religione cristiana, suddivisa più o meno equamente tra cattolici (25 per cento circa) e protestanti (20 per cento); soltanto una piccola minoranza è musulmana. In questi ultimi anni sono però diventati popolari i predicatori carismatici, al punto che un libro, edito nel 2007 e scritto da Adolphe Rahamefy, che insegna all’Università di Antananarivo, è intitolato: Sette e crisi religiose in Madagascar.
religione tradizionale
Forme e credenze della religione tradizionale variano a secondo delle regioni in cui è diviso il Madagascar. Cielo, terra e acqua sono sacri. Così pure, un po’ ovunque, esistono luoghi sacri: laghi, grotte, montagne, foreste, alberi. Su di essi gravano interdetti e tabù (fady). Sono luoghi di preghiera e di sacrifici. Vi si depositano offerte e fiori.
Importanti sono i punti cardinali della terra. La costruzione di una casa deve rispettae l’orientamento. Sono essi che preservano la casa da tabù e la caricano di senso. L’est, dove sorge il sole, è una direzione particolarmente sacra, quella del culto degli antenati; il nord è invece un luogo che esprime e indica onore e stima. Lo spazio viene così ritualizzato. L’est è opposto all’ovest nel senso di puro e impuro, sacro e profano; il nord al sud, ossia il re contrapposto al popolo, il nobile al plebeo.
Non è però facile definire la religiosità dei malgasci, fondata su tutta una serie di riti e tabù, come per esempio il sacrificio dello zebù, i giorni fasti e nefasti, la divinazione, la guarigione dalle malattie, i riti propiziatori, la cerimonia del «bagno delle reliquie regali», quelle per la riproduzione ordinata del ciclo annuale, i riti della circoncisione dei bambini con cui si consacra la loro appartenenza sociale alla famiglia patea. Tutti questi riti hanno la funzione di mettere l’uomo in comunione con la divinità.
Gli antenati, dotati di poteri magici, ne sono per eccellenza gli intermediari. Studi recenti hanno anche messo in evidenza che un dio di nome Zanahary, creatore del cielo e della terra, è superiore a tutte le divinità e a tutti gli idoli. A lui, invisibile, i malgasci si rivolgono attraverso la mediazione degli antenati e di divinità secondarie.
La base della religione e della cultura malgascia consiste però principalmente nel rispetto e nella venerazione degli antenati, fondati su un complesso di riti di sepoltura. Il più noto e costoso di questi riti è il famadihana (letteralmente «rivoltare le ossa»), una cerimonia di esumazione e di nuova sepoltura del cadavere, che normalmente si ripete ogni sette anni e ha lo scopo di riunire tutta la grande famiglia, rinnovare i legami familiari e quelli con gli antenati e, non ultimo anche se spesso inconscio, di esorcizzare la paura della morte.
Le salme vengono estratte dalla tomba, ripulite e avvolte in tappeti di paglia e poi fatte «ballare» sopra la folla in festa. L’orchestrina suona un motivo allegro. I tavoli sono carichi di dolci, di carne di zebù o di porco ben ingrassato, di rhum estratto dalla canna da zucchero e di ciotole di riso fumante. Le salme vengono poi avvolte con fasce di colore bianco, il colore funebre tradizionale, e quindi cosparse di profumo e segnate con i loro nomi.
Segue un momento di silenzio, i cui membri della famiglia tengono in grembo i corpi dei defunti, comunicando con loro senza pronunciare parola e piangendo lacrime di felicità in un’atmosfera carica di emozione. Infine, dopo che i corpi sono fatti nuovamente «ballare» intorno alla tomba di famiglia, la pietra tombale viene murata e chiusa per altri sette anni.
La famadihana o rito di esumazione dei defunti diventa così la festa dei morti e dei vivi.
l’evangelizzazione
Il cristianesimo penetrò nella grande isola rossa, a parte qualche sporadico incontro con i portoghesi, soltanto nei primi decenni del secolo xix. Nel 1817 re Radama I cominciò a intrattenere relazioni diplomatiche con gli inglesi. L’influenza britannica durò fino a gran parte del secolo. Con gli inglesi arrivarono i primi missionari protestanti, gallesi e norvegesi, e la London Missionary Society. Molti di essi morirono di febbre poco dopo il loro arrivo. I sopravvissuti non si diedero per vinti e in breve tempo convertirono al protestantesimo la corte della dinastia Merina.
Già nel 1838 venne stampata la prima Bibbia in lingua malgascia e nel 1869 la regina Ranavalona II, convertita al protestantesimo, fece costruire una chiesa all’interno del rova di Antananarivo.
Il re Radama I morì a soli 36 anni nel 1828. Gli successe la vedova Ranavalona I. La nuova regina, desiderosa di proteggere le tradizioni e la cultura malgasce e contraria alla presenza degli europei, dichiarò illegale il cristianesimo e perseguitò tutti coloro che non ne rinnegavano la fede. Molti furono condannati a morte o subirono vessazioni e tormenti atroci, che solo una regina come Ranavalona I, incline alla violenza, poté escogitare. Alla sua morte il figlio Radama II abbandonò la politica adottata dalla madre e ripristinò la libertà religiosa. Da allora il cristianesimo divenne la religione predominante del Madagascar e l’attività missionaria, protestante e cattolica, si estese a tutta l’isola.
I primi missionari cattolici furono i Lazzaristi, la Congregazione della Missione fondata in Francia da san Vincenzo de’ Paoli. Il 4 dicembre 1648 essi sbarcarono a Fort-Duphin, nel sud dell’isola, inviati dal loro stesso fondatore. Ma la vera diffusione della religione cattolica in Madagascar cominciò intorno al 1841, quando il prefetto apostolico monsignor Dalmond chiamò i gesuiti dalla vicina isola di Réunion a evangelizzare l’isola.
Ad Antananarivo, la capitale, il cattolicesimo si diffuse a partire dal 1861 dopo la morte della regina Ranavalona I. I gesuiti e le suore di San Giuseppe di Cluny vi fondarono le prime scuole e battezzarono parecchi malgasci. Poco dopo, nel 1872, la città divenne sede della prefettura apostolica del Madagascar, poi vicariato durante la prima guerra franco-malgascia (1883-1886) e arcidiocesi nel 1955.
Anche la parte settentrionale del paese fu eretta in prefettura apostolica nel 1848 e in vicariato nel 1898. In questo caso i primi missionari furono i Preti dello Spirito Santo e le suore del Sacro Cuore di Maria, ai quali in seguito si aggiunsero i Redentoristi e i Montfortani.
È questo che abbiamo descritto il normale evolversi dell’organizzazione ecclesiastica cattolica nei territori di missione.
la realtà ecclesiale oggi
Attualmente il Madagascar conta ben 21 diocesi, delle quali quattro arcidiocesi nelle regioni ecclesiastiche in cui è suddiviso: il Centro, il Nord, il Sud-Est e il Sud-Ovest. I vescovi sono tutti malgasci, a eccezione di cinque: un italiano di Gallico Superiore (Reggio Calabria – Bova), un altro italiano di Orta Nova (Foggia), uno spagnolo di San Llorente (Valladolid), uno di origine portoghese e un polacco. Malgascio è pressoché anche tutto il clero.
Le congregazioni religiose maschili, alcune delle quali di origine locale e una anche trappista di stretta osservanza claustrale, sono numerose. Se ne enumerano 33, alcune giunte in Madagascar nei primi tempi dell’evangelizzazione dell’isola, altre più recentemente, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso.
La presenza dei gesuiti e dei salesiani con la loro organizzazione scolastica e pastorale è predominante. Gestiscono collegi, licei, centri di spiritualità e di formazione professionale e rurale, dispensari medici e radio locali. I loro scolasticati, dove ci si prepara per diventare religiosi, sono pieni di giovani malgasci. Molti di loro studiano in Europa, nell’America del Nord e in Africa.
Ancora più numerose sono le congregazioni religiose femminili, venute in Madagascar già nei primi anni dell’evangelizzazione dell’isola e soprattutto alla fine del secolo scorso. Il numero è per certi versi impressionante. Se ne contano ben 88, elencate nell’Annuario della chiesa cattolica malgascia e cornordinate dal Centro di formazione della Conferenza delle superiori maggiori. Poche sono di origine malgascia, la maggior parte di esse hanno le loro radici in Francia, in Italia, in Svizzera e Belgio.
Queste congregazioni sono certo venute in Madagascar per dare continuità alla grande tradizione missionaria dei secoli xix e xx, ma anche, non lo si può nascondere, con l’intento di ridare nuova vita alle loro istituzioni in crisi di vocazioni mediante l’inserimento di giovani religiose malgasce.
Buona parte di queste congregazioni, nate in Europa, hanno scoperto il carisma missionario proprio dinanzi al grave problema delle vocazioni in continuo e vertiginoso calo; lo hanno scoperto quasi «improvvisamente», anche se dietro impulso del Concilio Vaticano ii e di altri documenti che definiscono la chiesa «tutta missionaria». Si deve però riconoscere che da questo fenomeno, per alcuni versi pieno di incognite, non ne vanno immuni neppure le congregazioni maschili, anch’esse in crisi di vocazioni.
presenza provvidenziale
La presenza delle congregazioni femminili in Madagascar è stata provvidenziale non solo per il consolidamento e il progresso del cristianesimo nell’isola, ma anche per lo sviluppo economico e sociale della nazione. La maggior parte di esse partecipa attivamente allo sviluppo del paese con una nutrita e preziosa schiera di scuole di vario grado, di ospedali e dispensari, di case per anziani, e con una straordinaria e commovente dedizione ai poveri e agli ammalati. Le suore di origine malgascia si contano ormai a centinaia e dirigono con molta intelligenza e intraprendenza scuole matee, primarie e secondarie, dispensari, lebbrosari, orfanotrofi, librerie, case per studenti, centri di promozione della donna e di sviluppo rurale. Molto apprezzato è il loro impegno nella catechesi e nell’animazione pastorale non solo nelle parrocchie, ma anche nelle prigioni, negli ospedali e in ambienti rurali lontani e dimenticati.
Esistono anche quattro monasteri di carmelitane scalze e alcuni di trappiste e clarisse, che si dedicano esclusivamente alla preghiera. Altre congregazioni hanno religiose malgasce in terra di missione, in Africa e in Asia; altre ancora sostituiscono le suore anziane o malate in Francia o in Italia, impegnandosi nelle attività assistenziali e nell’apostolato parrocchiale.
la danza di Noè
Vi sono anche comunità di suore che dimostrano una vitalità e un impegno non comuni. Le suore Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Lecce nel 1929 e giunte in Madagascar nel 1988, hanno per esempio tre comunità: una nell’isola di Nosy-Be al nord, un’altra a Mandrosao-Ivato presso la capitale e un’altra ancora ad Andasibé verso sud.
In appena 20 anni le suore di origine malgascia hanno raggiunto il numero di circa 85 religiose, di cui una cinquantina si trovano in Italia, impegnate in case di riposo, asili e pensionati; solo 33 sono rimaste in Madagascar, dove dirigono sei scuole matee, quattro elementari e due medie superiori. Le novizie sono attualmente 10 e le postulanti 22, mentre le suore di origine italiana sono soltanto 17, quasi tutte anziane e residenti in Italia.
Si tratta perciò di una congregazione in rapida espansione, grazie alle religiose provenienti dal Madagascar, ma anche povera di mezzi. Hanno quindi bisogno di assistenza economica e benefattori, in questo provvidenzialmente aiutate da un missionario italiano, che si prende cura di loro, delle loro attività, delle loro scuole e delle loro abitazioni in alcuni casi fatiscenti.
Non è più giovane questo missionario. È un brianzolo Doc e si chiama padre Noè Cereda, l’unico missionario della Consolata in Madagascar. Ha già compiuto 72 anni di età e, rendendosi conto delle sue condizioni di salute, non ha paura di scrivere: «Ogni giorno mi dico: faresti meglio a rallentare, non danzare così veloce. Il tempo è breve. La musica non durerà».
Malgrado tutto, ha ancora in mente numerosi progetti da attuare. Vorrebbe (e ce la farà) aprire proprio al più presto una scuola tecnica di falegnameria e meccanica, in modo da insegnare ai falegnami a fare letti, sedie, tavoli e armadietti, e ai fabbri porte, griglie e strumenti per lavori agricoli. Alla fine dei corsi assegnerà a ogni giovane malgascio una cassetta con i principali strumenti di lavoro per mettersi in proprio.
La scuola copre una superficie di 700 metri quadrati. A causa dell’inflazione i prezzi dei materiali in un anno sono raddoppiati.
Ma non è finita! I suoi piani prevedono di terminare ad Andasibé una scuola e di costruire un serbatornio per l’acqua alto 12 metri con una capienza di 10 metri cubi di acqua, di costruire altre tre aule nella scuola di Andranoro, uno dei quartieri della capitale, e di sollevare di un piano l’attuale costruzione. A tutto questo si aggiunga quello che già funziona: tre foi a legna che ogni giorno producono 3 mila panini per i bambini delle scuole e un pasto caldo al giorno per gli scolari di Andasibé.
Si è inoltre in attesa della consegna di cento biciclette da distribuire agli scolari meritevoli. Come ha scritto, ringraziando in occasione della pasqua tutti coloro che lo aiutano in Italia e nel Principato di Monaco, l’infaticabile e coraggioso missionario è convinto che «semina, semina, ogni chicco arricchirà un angolo della terra».

I ntanto tutti i malgasci, anche i non cristiani, attendono con trepidazione e orgoglio l’arrivo in Madagascar di papa Benedetto XVI (o almeno lo desiderano), per proclamare santa Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), una malgascia di famiglia reale, nipote del primo ministro che sposò la regina Ranavalona II.
Proclamata beata da Giovanni Paolo II il 30 aprile 1989, è stata definita da papa Benedetto XVI «una vera missionaria» e «un modello per i fedeli laici di oggi». La beata Vittoria, la cui famiglia era protestante, si fece cattolica nel 1863 all’età di quindici anni. Essa è senza dubbio un segno e un’attestazione della vitalità della chiesa cattolica in Madagascar e un onore per tutti i malgasci. 

di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Dialogo e libertà… controllata

Intervista al cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville

Dal 1976, quando in Vietnam è stato instaurato il regime comunista, i cristiani sono oggetto di repressione; le tensioni sono ancora forti nel nord del paese. La chiesa reclama la restituzione delle migliaia di proprietà confiscate, ma il governo, l’8 gennaio scorso, ha chiuso definitivamente il discorso. Nel sud le relazioni tra stato e chiesa stanno migliorando, grazie anche al dialogo a oltranza perseguito dal cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville.

L a stupenda casa coloniale che ospita l’arcivescovado di Ho Chi Minh Ville, inizia a tingersi di rosa quando i caldi raggi di sole dell’alba vietnamita pennellano l’aria circostante. Di fronte alla cancellata, un ritratto di Ho Chi Minh ricorda che il paese, pur irriconoscibile rispetto a 30 anni fa, è pur sempre una delle ultime nazioni a seguire un indirizzo ideologico socialista. È lo stesso cardinale Pham Minh Man ad accogliermi nel suo studio privato.
Classe 1934, Pham Minh Man ha trascorso gran parte della sua vita in Vietnam, sperimentando in prima persona gli orrori della guerra e le difficoltà che il paese ha dovuto superare dopo la liberazione. Nominato vescovo da Giovanni Paolo II nel 1993, alla guida della diocesi di Ho Chi Minh Ville dal 1998, è stato elevato al rango cardinalizio nel 2003.

Eminenza, nonostante il paese sia stato unificato nel 1976, lo sviluppo economico e sociale del Vietnam sembra procedere su due differenti binari. Immagino che anche con la chiesa cattolica, il governo mantenga due tipi di approccio, come dimostra la recente diatriba con l’amministrazione di Hanoi sulla restituzione dei terreni confiscati negli anni ‘50. È davvero così diverso il rapporto che la chiesa deve instaurare con le amministrazioni del Nord e del Sud Vietnam?
La difficile situazione al Nord è data da una mancanza di dialogo e dall’oggettiva difficoltà di cornoperare con le autorità delle regioni settentrionali, ancora sospettose della religione. Quando andammo nella visita ad limina a Roma, il papa Giovanni Paolo II, che aveva una grande esperienza di vita e di confronto con i regimi comunisti, ci disse di perseverare con il dialogo, raccomandandoci di essere sempre sinceri e franchi, in modo da cornoperare per lo sviluppo del paese e del popolo vietnamita. E questo è quanto cerchiamo di fare.

Di recente i media hanno ipotizzato una visita papale in Vietnam. Non le chiedo quanto siano fondate queste voci, ma vorrei sapere: il governo vietnamita sarebbe pronto a ricevere una visita del papa?
Posso rispondere sì e no allo stesso tempo, perché non tutti i membri del governo vietnamita hanno la medesima visione nel valutare una eventuale visita papale. Dipende dalle condizioni contingenti della situazione politica, sociale ed economica che vivrà il paese nel periodo in cui questa visita verrà proposta.

Questa continua ricerca di equilibrio di poteri all’interno del governo vietnamita mi permette di addentrarmi in un’altra domanda, più strettamente politica: la storica divisione della nazione vietnamita, non solo ideologica, ma anche culturale e religiosa, porta allo scontro di due fazioni che si dividono cautamente le cariche del potere per raggiungere un equilibrio più o meno precario: semplificando al massimo possiamo dire che i membri del governo originari del Sud fanno parte della fazione progressista, aperta ai cambiamenti, mentre i membri originari del Nord sono più conservatori. Quale fazione prevale attualmente?
Effettivamente all’interno del governo vietnamita c’è una parte di membri che vuole cambiare lo stato delle cose anche in modo non repentino, mentre un’altra ostacola questa visione. La supremazia dell’una o dell’altra fazione non è sempre così chiara perché il bilanciamento delle forze si basa sulla contrattazione sulla base del do ut des.

La politica dei paesi si ripercuote anche sullo sviluppo interno della chiesa locale; così, seppur vicine, la chiesa vietnamita si è sviluppata in modo completamente differente da quella cinese: in Vietnam, ad esempio, non esiste la chiesa patriottica.
Ho avuto l’opportunità di conoscere la chiesa in Cina e di avere scambi di opinione con fedeli e preti cinesi. Noi abbiamo già conosciuto la situazione che la Cina sta attraversando attualmente: prima degli anni ‘80 avevamo anche noi due chiese, anche se il contesto era differente. La chiesa cattolica in Cina è chiamata chiesa «sotterranea» perché non riconosciuta dal governo. Allo stesso modo anche noi, nel Nord del Vietnam, prima degli anni ‘80, avevamo una chiesa non riconosciuta, con vescovi e preti nominati dal Vaticano, ma che erano impossibilitati a esporsi in pubblico. Nonostante questo riuscivamo ad avere contatti con il Nord e quindi in qualche modo la chiesa vietnamita era una chiesa unita e completamente in comunione con il Vaticano.
La situazione era chiaramente più aperta e libera al Sud, ma dopo che nel 1980 la Conferenza dei vescovi vietnamiti riunificò la chiesa, anche al Nord i preti cominciarono a esporsi pubblicamente. Al Sud, grazie al Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha sempre cercato di avere buoni rapporti con il governo, per cornoperare a ricostruire la società e per il benessere, sociale e morale, del popolo vietnamita. Forse è anche grazie a questo corso storico, che ci ha permesso di assorbire un’esperienza di apertura e di dialogo, che oggi al sud abbiamo un confronto meno turbolento che al Nord.

Eppure questo confronto non è sempre stato esemplare per i cattolici: negli anni ‘60, il presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, non è certo stato un esempio di virtù: non pensa che abbia nuociuto alla chiesa cattolica una figura di questo genere?
Non condannerei completamente Diem. In certi aspetti è stato un buon presidente. Gli uomini che lo circondavano forse non erano all’altezza.

Un buon politico dovrebbe però saper scegliere gli uomini giusti.
Su questo ha ragione e in tal senso non è stato un buon politico.

L’area di Ho Chi Minh Ville è un melting pot di religioni: cattolicesimo, evangelisti, protestanti, buddisti, caodaisti, Hoa Hao… Come cornoperate con tutte queste religioni?
L’unico modo attraverso cui possiamo cornoperare insieme è tramite le attività sociali. Ma fino ad oggi a tutte le religioni è stato proibito lavorare nel campo sociale. Due anni fa i vescovi vietnamiti sono andati a parlare con il presidente del Vietnam, chiedendogli di potere iniziare a svolgere anche opere sociali. Il presidente promise che avrebbe cercato di risolvere il problema. Lo scorso anno ci siamo incontrati con il primo ministro, ribadendo la nostra richiesta e pochi mesi fa ci siamo incontrati anche con il direttore dell’ufficio degli Affari religiosi, i cui funzionari sono venuti appositamente da Hanoi per incontrarmi. Ci siamo lasciati con l’intento di organizzare una riunione con tutti i rappresentanti delle organizzazioni religiose operanti in Vietnam. Verranno raccolte le intenzioni avanzate dalle diverse chiese, per portarle poi all’attenzione del primo ministro e ai ministri interessati alle singole proposte. La nostra speranza è che il governo permetta a tutte le organizzazioni religiose di operare anche in campo sociale: scuola, educazione, sanità… Purtroppo non sappiamo quando questo sarà possibile. La buona volontà sicuramente c’è, ma i tempi burocratici sono molto lunghi.

Eppure già oggi la chiesa cattolica a Ho Chi Minh Ville è coinvolta in opera a sfondo sociale con partner governativi o con organizzazioni straniere ufficialmente rappresentate presso il governo vietnamita.
Non la chiesa cattolica direttamente, ma individui appartenenti alla chiesa cattolica, che lavorano in questi campi a titolo personale. Abbiamo preti, catechisti e singoli fedeli che cornoperano con organizzazioni non governative o con enti sociali, ospedali, dispensari. Quando l’attuale presidente del Vietnam era sindaco di Ho Chi Minh Ville, mi scrisse una lettera, invitandomi a mandare religiosi presso i ricoveri per anziani gestiti dal governo. Sedici organizzazioni religiose hanno mandato più di 100 volontari che ancora oggi collaborano con le strutture governative.
Ora vorremmo aprire un centro in Ho Chi Minh Ville per curare le persone colpite da Hiv. Abbiamo comperato la terra, registrato il progetto e svolto tutte le pratiche burocratiche per iniziare la costruzione.
Ad Hanoi, la chiesa sta protestando per poter ottenere i terreni su cui costruire opere sociali; quanto è difficile per la chiesa del Sud ottenere i permessi per costruire, non solo opere sociali, ma anche chiese?
Qui al Sud è relativamente facile, ma ci vuole tempo. Abbiamo almeno otto nuovi luoghi in cui stiamo costruendo, o intendiamo costruire, campus, chiese, ospedali, dispensari. Almeno quattro diverranno parrocchie. Il numero dei cattolici sta aumentando rapidamente e abbiamo bisogno di nuovi centri di aggregazione. Abbiamo comperato degli appezzamenti di terra in aree che erano considerate depresse, isolate e abitate da povera gente. Oggi, con il forte sviluppo economico e imprenditoriale di questa città, tutte queste aree sono diventate o stanno per diventare nuovi centri residenziali.
Le voglio raccontare un fatto divertente: nel 1998 ero in un’area depressa e in 4 anni il numero dei cattolici era salito da poche unità a 400. Necessitavamo di una chiesa. Comprammo la terra e chiesi il permesso alle autorità, ma per un anno non ricevetti risposta. Nel 2004, una rappresentanza di fedeli della parrocchia mandò una lettera alle autorità locali, dicendo che volevano farmi un regalo molto speciale per i miei 70 anni: costruire una chiesa. Due mesi dopo un funzionario governativo contattò questo gruppo di fedeli, chiedendo loro dove avrei voluto celebrare la posa della prima pietra. Era il marzo 2004. Dissi loro che avrei voluto celebrare la messa prima della fine del mese: un periodo strettissimo per i tempi vietnamiti e non avrei mai creduto che potessimo ottenere i permessi necessari. E invece, con grande meraviglia di tutti, i permessi arrivarono e entro la fine del mese di marzo 2004 potei celebrare la posa della prima pietra. Partecipò una folla composta da più di 1.000 persone cattolici, buddisti, caodaisti, hoa hao. Le ho raccontato questa storia per dimostrare il grande potere di convincimento che la gente comune può avere verso il governo.

Da allora quali passi avanti sono stati compiuti?
Ora abbiamo comperato 20 ettari di terra in un’altra area per costruire con le suore di Madre Teresa un centro per malati di Hiv. Era un’area paludosa bonificata e una compagnia di Taiwan vi costruirà un nuovo quartiere. Hanno comprato questa terra per 3 dollari al metro quadro, rivendendola poi a 50 dollari. Oggi un metro quadro di quello stesso terreno vale 3 mila dollari. Noi l’abbiamo acquistato all’inizio, quando nessuno voleva comprarlo perché troppo isolato e lontano dalla città. La compagnia ci propose di comprare questo terreno per costruire un asilo, in modo da attrarre gente. «Se la gente vede che la chiesa cattolica costruisce un asilo, allora sarà più invogliata a venire ad abitare in questo nuovo quartiere» ci dissero. Oggi, dopo 10 anni, il nuovo quartiere è considerato un quartiere modello nel District 7. L’asilo ha 300 bambini, mentre ogni domenica alla messa assistono circa 200 persone, di cui almeno 150 sono colf immigrate dalle regioni settentrionali.

E il governo come giudica questo espandersi della chiesa cattolica?
È stato favorevolmente impressionato da questa nostra presenza, tanto da concederci il permesso di costruire non solo un asilo e chiesa, ma una vera e propria missione che scaturisca dai bisogni della gente.

Pensa che questa visione favorevole dell’impegno sociale della chiesa da parte delle autorità del Sud, possa favorire il dialogo anche in settentrione?
Nel Nord c’è molta più difficoltà per diverse ragioni: il governo è tradizionalmente meno aperto alle innovazioni e la chiesa del Nord non ha sufficienti preti.

Come vede la chiesa vietnamita in un prossimo futuro? Sarà possibile avere in Vietnam missionari stranieri?
Le confido un segreto che sanno tutti: oggi in Vietnam ci sono già molti preti stranieri. Ovviamente non sono presenti sul territorio in forma ufficiale, ma tutti sanno che ci sono, anche gli stessi funzionari del governo. Lavorano nell’educazione e sanità, alcuni sono studenti di lingua vietnamita, altri cooperanti.
Le racconto un aneddoto. Durante l’ultimo conclave, il primo giorno ci sedemmo per cenare e di fronte a me, per puro caso, c’era il futuro papa; alla mia sinistra due cardinali statunitensi, tra cui quello di Chicago, Francis George che, quando seppe che ero vietnamita, mi svelò che due suoi religiosi erano in Vietnam, naturalmente in veste non ufficiale. Risposi che in Vietnam c’erano molti religiosi dall’Europa, Canada, Usa, Australia, Giappone. Solo a Ho Chi Minh Ville ce ne sono almeno 40 in veste non ufficiale. Allora Francis George mi disse: «Penso che la polizia sappia chi siano veramente, ma chiude un occhio». Risposi: «La polizia nel mio paese non chiude mai gli occhi, neppure quando dorme».

Son convinto anche io che il governo sappia che e quanti siano i religiosi «camuffati» in Vietnam. Secondo lei come mai non li espelle?
Perché i tempi sono cambiati e sono cambiati anche i politici. Prima il governo vedeva la chiesa cattolica come un avversario politico e sociale. Oggi, invece, la vede come un partner con cui può cornoperare per costruire il bene del paese.  

Piergiorgio Pescali

scheda biografica

N ato nel 1934 a Hoa Thanh, nella diocesi di Can Tho, nell’estremo sud del Vietnam, Jean-Baptiste Pham Minh Man compie gli studi secondari e la preparazione umana e spirituale nel seminario minore di Pnompenh (Cambogia) dal 1946 al 1954. Quindi viene inviato al seminario maggiore di San Giuseppe di Saigon (oggi Ho Chi Minh Ville) dove studia filosofia (1954-1956). Dopo un periodo di insegnamento nella scuola secondaria, nel 1961 riprende gli studi di teologia nel seminario maggiore di Saigon ed è ordinato sacerdote nel 1965 nella cattedrale di Cân Tho.
Giovane sacerdote insegna presso il seminario minore Beato Quy a Cai Rang (Can Tho), finché il vescovo lo manda, nel 1968, negli Stati Uniti per studiare presso l’Università di Loyola a Los Angeles. Rientrato nel 1971 in Vietnam, riprende l’insegnamento presso il seminario minore Beato Quy, fino al 1974.
Con la fine della guerra Usa-Vietnam (1975), la riunificazione del paese e l’estensione del regime comunista anche al Sud-Vietnam, il governo chiude o confisca alla chiesa strutture e centri per le attività pastorali, educative e caritative, come seminari, scuole, ospedali. In tale situazione, don Jean-Baptiste è incaricato della formazione sacerdotale. Dal 1976 al 1981 i seminaristi vengono formati insieme, secondo le limitate disponibilità di strutture; dal 1981 al 1988 sono distribuiti nelle parrocchie per completare la formazione, almeno dal punto di vista pastorale, con l’aiuto dei parroci e laici. Nel 1988, il governo concede di riaprire sei seminari maggiori in tutto il Vietnam e don Jean-Baptiste Pham viene nominato rettore del seminario di Cai Rang. Un incarico difficile a causa di concrete difficoltà: locali ridotti, mancanza di professori, anche perché dal 1975 nessun sacerdote può essere inviato all’estero per lo studio superiore delle materie ecclesiastiche.
Nel 1993 don Jean-Baptiste Pham è nominato coadiutore, con diritto di successione di mons. André Nguyên Van Nam, vescovo di My Tho. All’ordinazione episcopale sceglie come motto: «Come io vi ho amati». Nel 1996 si reca a Roma per la visita ad limina.
Nel mese di marzo del 1998, mons. Pham viene nominato vescovo di Ho Chi Minh Ville, sede vacante da tre anni. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo eleva alla dignità cardinalizia. Oggi la diocesi da lui guidata conta 316 sacerdoti e 209 parrocchie, 646 mila laici iscritti a 16 grandi associazioni cattoliche.

Benedetto Bellesi


Piergiorgio Pescali