«Una storia di negri»

Osvalde Lewat: donna, africana, regista

Africana, madre di famiglia. Gioalista, ma non le basta. Osvalde vuole approfondire. Ma vuole soprattutto risvegliare il senso civico e politico della gente. È convinta che le difficoltà quotidiane diminuiranno se si riesce a intervenire sulla società. Questo lo fa con i film documentari, per scuotere,
far riflettere, e far agire.

«Ho scelto di ritornare sulla storia drammatica del Comando operativo, che fu istituito dal capo di stato in Camerun tra il 2000 e il 2001, con l’obiettivo di combattere il grande banditismo. Ma rapidamente ci sono state derive, e dopo un anno ci si è resi conto che più di 1.000 persone erano scomparse, o erano state arrestate per essere interrogate e non sono mai più tornate».
Osvalde Lewat è nata nel 1976 in Camerun. È sposata ed è madre di due figli. Ha cominciato come giornalista della carta stampata lavorando per diversi anni nel suo paese, anche al quotidiano Camerun Tribune. «Ero frustrata perché ogni volta che facevo un articolo il giorno dopo era già superato». Lavorava molto sull’attualità, ma era attirata dagli approfondimenti sui temi trattati, sentiva di dover prendere del tempo per fare delle vere ricerche. «Volevo anche realizzare dei lavori che potessero restare, in un certo senso, essere rivisti».
Dopo aver frequentato l’Istituto nazionale dell’immagine e del suono di Montréal (Canada), realizza il suo primo documentario. Si interessa ai diritti degli innuit, le popolazioni indigene del Canada. Il taglio è sociale. Frequenta un corso anche alla prestigiosa Femis di Parigi (Scuola nazionale superiore dell’immagine e del suono) e realizza un documentario sulla vita di una religiosa.
Comincia a lavorare per la televisione, facendo dei programmi d’informazione. Arriva così al suo primo cortometraggio impegnato: Au-delà de la peine (Al di là della pena). È la storia vera di un carcerato in Camerun, che condannato a 4 anni, ne aveva passati 33 in prigione. Questo film riceverà diversi premi, tra cui il gran premio film televisivi in Portogallo e il premio diritti umani al festival Vues d’Afrique di Montréal.
Osvalde non si ferma, ha trovato il suo modo di essere e fare giornalismo. Unisce alla sua intelligenza e capacità tecniche una grande determinazione.
«Questo film mi ha dato voglia di andare avanti. Ho continuato quindi con i documentari quello che avevo iniziato con il giornalismo, una sorta di attrazione per i soggetti socio-politici».

Per una nuova
coscienza cittadina

Se le si chiede da cosa scaturisce questo suo «impegno» risponde: «Non so se è un giornalismo impegnato. Forse. Voglio piuttosto che gli altri, tramite i lavori che faccio, si sentano impegnati, coinvolti. Che i film portino qualcosa alla gente, al mondo in cui vivo, all’Africa. Non so se riesco sempre a farlo, ma ci provo».
E così si trova a raccontare tragedie: «Mi dicono che i miei film fanno piangere. Io ho piuttosto voglia di scuotere la gente e farla muovere. Fare in modo che ci sia più coscienza cittadina in Africa, e quindi un risveglio politico maggiore. Che la gente comprenda che ha una responsabilità sul proprio destino, quindi non può dare le dimissioni di fronte a delle questioni che sono preoccupanti nella loro società».
In Africa è difficile vivere, occorre battersi: quotidianamente ci si domanda se si riuscirà a nutrire la propria famiglia. Così molti africani non si interessano più a quello che succede nel loro mondo: «Io invece penso che cercando di far muovere la società si può riuscire a migliorare anche il proprio quotidiano. È questa la mia visione ed è per questo che faccio i film».
Nel 2005 Osvalde Lewat torna sugli schermi con il soggetto delle donne violentate in Congo durante la guerra: Une amour pendant la guerre (Un amore durante la guerra). Un punto di vista di una africana su una tragedia di africane.
Nonostante la durezza dei temi trattati, Osvalde è molto femminile e non nasconde una certa tenerezza sotto la quale fermenta una grande grinta.
Donna e realizzatrice, si rischia di avere più difficoltà in questo mestiere. «Penso che noi donne abbiamo molti più ostacoli per fare una carriera professionale. Quando si è veramente impegnate è difficile conciliare una vita di famiglia con la carriera. E questo non solo per le donne cineasta. Per noi c’è la dimensione supplementare di dover andare ai festival, assentarsi settimane per le riprese e per la promozione del film».
Come donna, cineasta, africana è ancora più complicato, ricorda Osvalde, perché: «Il cinema è un universo molto chiuso, pieno di uomini. Talvolta quando si gira ci si ritrova come sola donna con quindici uomini. Non è mai molto semplice… Anche a livello internazionale è un ambiente machista e sessista». Nonostante questo il numero di donne africane che realizzano film in tv o per il cinema è in aumento.

Una storia di «negri»

Nel 2003 decide di dedicarsi a un progetto ambizioso: un documentario sul Commandement opérationnel (letteralmente: Comando operativo). Si tratta di un corpo militare d’élite, che il presidente camerunese Paul Biya (ancora in carica) creò, con decreto presidenziale, nel febbraio del 2001. Vi facevano parte reparti scelti di esercito, gendarmeria e vigili del fuoco. L’obiettivo era quello di combattere il «grande banditismo» che imperversava la zona di Douala, la capitale economica del paese, sulla costa.
Purtroppo il «Co» (come veniva chiamato) ha una deriva violenta e diventa incontrollabile. I giovani dei quartieri spariscono, sono torturati e, il più delle volte, uccisi. In altri casi sono chiusi in piccole celle dove sono lasciati consumare per fame e sete. Se non basta, sono avvelenati.
Tutto senza processo e spesso senza prove, ma dietro semplice delazione.
Le organizzazioni inteazionali di difesa dei diritti umani, come Amnesty Inteational, la Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo (Fidh), l’Associazione contro la tortura (Apt) e quelle locali, come la Acat (Associazione cristiana contro la tortura) denunciano persecuzioni ed esecuzioni sommarie.
Già nel novembre dello stesso anno la commissione delle Nazioni Unite contro la tortura chiede al governo del Camerun di sciogliere il corpo. Si muoverà anche l’Alto commissariato per i diritti umani.
Dopo appena un anno di attività i desaparecidos africani sono oltre un migliaio.
«Quando decisi di girare Une affaire de nègres, tutti mi dicevano: “Tu non avrai la capacità e la forza di portare a termine un progetto così difficile”. Ma poi, quando incontravo dei personaggi, mi vedevano fragile e così mi davano fiducia più facilmente. I rapporti personali sono a volte più semplici, quando si è donna. Poi ci sono finanziamenti in favore della promozione delle donne realizzatrici, e cerchiamo di approfittae».

Le vittime non
si dimenticano

«Abitavo in Camerun quando il Commandement opérationnel è stato creato ed ero più o meno nello stesso torpore dei miei concittadini, non sapendo che cosa stava succedendo. Non ero cosciente. La città in cui è successo, Douala, è conosciuta per il suo lato eccessivo e soprattutto per la sua posizione all’opposizione rispetto al governo. Leggendo i giornali si prendeva distanza rispetto ai fatti e mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che vicino a me un tale dramma si era consumato».
Le motivazioni che la portano a questa vicenda sono ancora una volta interiori: «È un film forse egoista, un po’ catartico, nel quale tento di fare qualcosa che non ho fatto prima. Dovevo agire. Fare in modo che questa storia sia conosciuta, in quanto lo è molto poco, e che la gente si fermi a riflettere. Volevo che le famiglie delle vittime, i cui figli sono stati sepolti come dei malfattori, accusati di banditismo senza alcuna prova, avessero la possibilità di dire: no, non erano dei banditi».
Girare un film su un tema che il governo vuole si dimentichi, a pochi anni dall’accaduto, non è impresa esente da rischi.
«Ho fatto quattro anni di ricerche prima di iniziare le riprese. Chiesi a tutta l’équipe la totale discrezione su quello che stavamo facendo. Abbiamo girato le immagini con molta prudenza e con un po’ di fortuna non ci sono stati problemi.
Certo abbiamo avuto anche paura: ogni volta che iniziavamo a prendere delle immagini non sapevamo se avremmo terminato. Mi ricordo quando siamo partiti dal Camerun, all’aeroporto tremavo e mi dicevo “avranno saputo che stiamo facendo questo film”».
Il documentario è diffuso dalla televisione francese. Viene visto anche in Camerun, nella versione Tv, un cortometraggio, nel febbraio del 2008. Al ministero camerunese della comunicazione vanno in fibrillazione e vogliono preparare un contrattacco: un video che presenti il punto di vista governativo. Ma poi non si sa più nulla.
«Ci sono state reazioni aggressive da parte del governo del Camerun, ma solo di tipo verbale – racconta Osvalde -. Sono stati sorpresi che io sia ritornata su questa storia imbarazzante, che si vuole non risvegliare. Mi hanno telefonato, e non erano molto amichevoli».

Testimoni coraggiosi

Il film presenta molte testimonianze. Familiari delle vittime, il giornalista Séverin Tchounkeu (direttore di La Nouvelle Expression), politici di opposizione. Fondamentale è il coraggioso avvocato Jean de Dieu Momo, che cura la difesa  dei parenti delle vittime in tribunale.
Struggente il racconto di madame Etaha, la vedova di uno dei nove scomparsi del quartiere Bepanda (febbraio 2001), il caso che ha creato più scalpore e quindi reazioni nazionali e poi inteazionali. I nove furono arrestati, torturati e uccisi perché sospettati del furto di una bombola di gas.
Agghiacciante invece la descrizione delle operazioni da parte di un militare, ex membro del Commandement, Rigobert Kouyang.
I testimoni, tutti residenti in Camerun, non hanno avuto problemi dopo la diffusione.
«Non che io sappia – racconta Osvalde -. Hanno raccontato in tutta coscienza. Sono stata con loro tre anni prima di girare e ho chiesto loro se erano sicuri di fare questa testimonianza. Sapevamo tutti che avremmo preso dei rischi, pur non sapendo quali. Ognuno ha avuto tempo di misurare le conseguenze del proprio impegno in questo film».
Una pellicola molto coinvolgente per tutti. «Sono questioni ancora attuali. Eravamo preoccupati per la reazione del governo». Un film mostrato pure all’estero, che attira l’attenzione della comunità internazionale.
«Anche l’équipe tecnica era cosciente dei rischi, ma tutti hanno voluto andare fino in fondo».
Osvalde ha realizzato due versioni di Une affaire de nègres, una per la televisione e un’altra, più lunga, per il cinema. Ora sta lavorando per proiettare in Camerun la versione integrale, eventualmente in dvd oppure riaprendo per l’occasione un cinema (le ultime sale cinematografiche del Camerun sono state chiuse a Yaoundé nel 2008).
«In realtà il film ha già avuto un grande impatto nel paese, è stato anche piratato e diffuso sul mercato informale. È una pagina della nostra storia che è un po’ nera, ma siamo pronti…».

Difficile reperire i fondi

Una lavorazione che dura cinque anni è costosa e soprattutto il film non è redditizio economicamente.
Uno sforzo notevole è stato fatto per reperire i fondi.
«Avere i soldi per la realizzazione è stato complicato. Non volevo fare un film senza mezzi, volevo avere un potenziale cinematografico. Purtroppo i giovani cineasti non capiscono sempre che bisogna prendere molto tempo per fare bene le cose. Ho avuto la fortuna di presentare un piccolo testo a un fondo canadese per la cultura. Non hanno dato molto, ma hanno conferito credibilità al progetto. Da lì ho ottenuto altri finanziamenti: fondi d’autore, fondi francesi per cinema africano, ecc. Occorreva però avere un pre-acquirente, un canale televisivo che si impegnasse a diffonderlo, per accedere a quei finanziamenti. Non è stato facile, poi ci sono riuscita con France 5».

Una società addormentata

Il film si chiude con interviste lampo sul marciapiede. Alla domanda: «Vorrebbe di nuovo il Commandement opérationnel?», la maggior parte della gente risponde di sì, che c’è bisogno di maggiore sicurezza.
Possibile che la gente abbia già dimenticato?
«No, non hanno dimenticato. Ma siamo in un paese dove la coscienza cittadina è quasi inesistente, mentre la delinquenza è un vero problema. La questione che pone il mio film non è se combattere l’insicurezza, ma come combatterla. Occorre fare un’analisi per capire l’origine di questo stato di cose: la gente non è istruita, è povera, ma perché?».
 «Ho voluto mostrare queste risposte a freddo per spiegare che malgrado tutto quello che è successo la gente vuole sicurezza, la reclama». Nessuno pensa che possa succedere a lui di essere arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso. 
«È anche il segno di una società che è addormentata. In molti paesi l’accento è stato messo sulla questione sicurezza: anche in Francia e Italia. Sono le grandi questioni di oggi, e le soluzioni sono di tipo populista. La gente è contenta se ha l’impressione che ci sono misure molto forti, dure, repressive, per portare la sicurezza. Ma non si rendono conto che quando si fa un’unità speciale per combattere il grande banditismo, alla fine, tutti noi abbiamo perso».
«La gente, nonostante abbia visto quello che è successo, non è neanche cosciente che la risposta non è il Co, non è la repressione».
Il Commandement opérationnel era una risposta puntuale per combattere il gran banditismo, un problema reale che si poneva. Quando cominciarono le derive, le prove di corruzione e di abusi, questa unità speciale è comunque rimasta operativa. C’è stata poi una pressione internazionale, affinché sia fatta giustizia. In realtà, il Co non sarà sciolto ufficialmente e diventerà il «Centro operativo della gendarmeria».

Un titolo che
non si dimentica

Une affaire de nègres, (letteralmente: una questione di negri) un titolo che colpisce: «Cercavo qualcosa di un po’ schoccante, in quanto ho la sensazione che poca gente conosca questa storia. Perché è successo in Africa, è un dramma in più, una deriva in più, la gente è stanca di queste piaghe. Il fatto di essere africana e nera mi ha permesso di usare un titolo così, se fossi stata bianca magari non avrei osato. Penso che ci sia gente che pensa: “Oh, ancora una storia di negri” ma non possono esprimerlo. Volevo attraverso questo titolo prendere in contropiede queste persone, dicendo: no, è un affare umano, un dramma universale, successo in Camerun, ma quando parliamo di delazione, corruzione, impunità, ovunque siamo sulla terra, in Europa, in Africa, sono questioni che ci riguardano tutti, che ci preoccupano tutti, non è solo una storia di negri». 

di Marco Bello

Marco Bello




L’anno del vento

Antropologia culturale / Cosa resta della celebrazione del «capodanno maya»

La società civile guatemalteca promuove un ritorno alle tradizioni. Ma la gente sembra aver dimenticato i riti pubblici. Colpa della dominazione spagnola e di 36 anni di guerra civile.  Come l’attesa del nuovo anno, che prevede 5 giorni di riflessione. È iniziato l’anno del vento,
ovvero respirazione, movimento, che fa girare la terra, alimenta la vita.

Nebaj. Esiste il calendario dell’antico Egitto, quello romano, quello cristiano così come quello musulmano, e infine esiste il calendario maya. A dire il vero sarebbe più corretto parlare di calendari maya visto le sottili differenze nei nomi e nelle date che esistono in corrispondenza ai vari stati in cui il popolo maya era diviso nell’area centroamericana prima dell’invasione spagnola.
Cosa accomuna però tutte le tradizioni maya è la visione del tempo e il suo legame con fenomeni naturali. I maya consideravano il tempo come un qualcosa senza né inizio né fine, per questo non hanno dato all’«anno uno» lo stesso significato di altri popoli, come i romani che iniziarono la loro cronologia a partire dalla fondazione di una città.
Per la cultura maya l’origine del calendario è strettamente ispirata all’universo e agli elementi naturali necessari per vivere: fuoco, terra, acqua e aria, oltre che ad alcuni simboli fondamentali, come la donna, il risveglio e la morte.
Il calendario maya è circolare, in accordo alla cultura ciclica che lo ispirava, mentre quello gregoriano è lineare. Inoltre si fonda sui cambiamenti cosmici e non sulla misurazione del tempo. L’aspetto sorprendente è la precisione di questo calendario, che creato in accordo ai movimenti del sole, aveva calcolato la durata dell’anno in 365, 2420 giorni, l’approssimazione più perfetta elaborata dall’umanità fino all’epoca dello sviluppo di sistemi tecnologici e informatici.

Un nuovo anno

Il 21 febbraio a Nebaj, cittadina di circa 20.000 abitanti situata nel dipartimento del Quichè, centro dei massacri inflitti alla popolazione indigena maya durante il conflitto armato e cuore della tradizione maya ixil (pronuncia iscil)  ha accolto l’anno 5125.
Chi si aspettava una celebrazione rumorosa, appariscente e molto partecipativa ha dovuto fronteggiare una certa delusione. Il capodanno maya, ci spiega Ana Laynez Herrera, guida spirituale appartenente al gruppo indigeno ixil, è un evento interiore, sacro. «Per accogliere il nuovo anno ci prepariamo con cinque giorni di riflessione, di purificazione: si tratta del wayeb, il periodo di transizione tra un anno e l’altro».
L’associazione Fundamaya, organizzazione guatemalteca impegnata nella promozione dei diritti umani e la salvaguardia delle tradizioni maya, ha sostenuto una celebrazione più ufficiale, simbolica, quasi per ricordare e mostrare alla gente che la cultura maya esiste ancora e non deve essere perduta.
Quello che sembra però stonare è un marcato senso di vuoto alla cerimonia. La gente partecipa, segue il rito di benvenuto al nuovo anno, ma alle semplici domande di turisti e curiosi, su quale sia il significato più profondo dell’atto o perché si usano determinati colori di candele piuttosto che elementi naturali, non sa rispondere.
La sensazione è quasi quella che si ripetano gesti che sono diventati automatici ma dei quali non si ricorda il valore. Conferma la riflessione Carolina, antropologa tedesca che da oltre tre mesi sta portando avanti una ricerca nell’area ixil: «La dominazione spagnola e la guerra civile (durata dal 1960 al 1996, ndr) hanno minato fortemente le tradizioni maya, arrivando quasi a cancellarle. Oggi varie organizzazioni stanno lottando per riprendere abitudini indigene che sono state dimenticate da molta gente, specie la nuova generazione.
La mia opinione è che questi tentativi possano correre il rischio di irrigidire e schematizzare troppo cerimonie che originariamente, per i maya, erano sentite come qualcosa di naturale, strettamente connesso al ciclo della vita e della natura.  Le guide spirituali in origine non seguivano schemi così fissi nel celebrare i riti, né bisognava convocare la gente per riunirsi ad assistere».

Lo spirito del vento

Il calendario maya si struttura in 18 mesi di 20 giorni ciascuno ai quali si aggiunge il periodo di transizione di 5 giorni. Ogni nuovo anno si definisce sulla base di un nahual reggente, ovvero un elemento sacro protettore che corrisponde alla simbologia religiosa dei maya e che imprime determinate caratteristiche al periodo che «protegge». 
L’anno corrente, il 5125, inaugurato il 21 febbraio scorso, si presenta sotto la carica del Iq. Iq simboleggia lo spirito del vento, il fulmine, la tempesta, le correnti e la purezza del cristallo. Ana Laynez interpreta il nahual entrante non tanto come un fenomeno meternorologico quanto piuttosto come l’anima vitale:  «Vento nella cosmovisione maya significa aria, movimento, respirazione. È ciò che alimenta la vita, che fa girare la Terra, muovere le onde del mare e le foglie degli alberi. Siamo entrati nel periodo 10 Iq, è un periodo pari, questo ci garantisce che le forze del nahual saranno piuttosto equilibrate, non ci aspettiamo grandi disastri o squilibri».
 L’Iq ha preso il posto al protettore anteriore che era il 9 Noj, rappresentante la saggezza, il pensiero e la riflessione. Il passaggio da un nahual all’altro è contrassegnato appunto dai giorni  «senza nome o wayeb», in cui ci si dedica alla purificazione e alla preparazione per accogliere quello nuovo. Così dal 17 al 21 febbraio, in varie forme, in Guatemala, le guide spirituali maya si sono ritrovate per riflettere e fare un bilancio dell’anno terminato.
Le celebrazioni più vistose sono avvenute nei luoghi sacri importanti, presso le rovine maya, come a Iximché, vicino Tecpan, dove la cerimonia è stata convocata e organizzata dal ministero della Cultura, la Commissione presidenziale contro il razzismo e varie associazioni indigene.

«Grande cambio» in vista

Aspettando l’anno 2012 e il grande cambio preannunciato dalla fine del quinto ciclo del sole secondo la visione maya, restano molti i dubbi sulla capacità e la forza della cultura indigena maya di resistere e conservarsi, ma soprattutto di sapersi riadattare a una società che per secoli ha voluto cancellarla sotto le bandiere della conquista spagnola, delle chiese (cattolica e evangelica), e poi della dittatura militare. Questa ha creato nel paese una profonda confusione, o forse, un vuoto di sapere. 

di Ermina Martini


SIMBOLI
E SACERDOTI

La cerimonia maya solitamente si svolge in un luogo sacro ed è una celebrazione di ringraziamento delle forze della natura: Kab’awil (dio) è l’universo e si manifesta nella dualità, per questo ci sono giorni buoni e giorni cattivi, perché Kab’awil rappresenta due energie opposte. Le cerimonie, cornordinate dalle guide spirituali, sono caratterizzate dalla presenza di un fuoco centrale e iniziano sempre con il saluto ai quattro punti cardinali per seguire con l’offerta di vari elementi quali resina, petali o fiori, mais, acqua per invocare la protezione del dio e degli antenati.
Nell’area di Nebaj, in Quiché, esistono circa 350 guide spirituali. Le guide possono essere uomini o donne, ma l’importante è che la dote per essere «tatas» e «nanas» non si può acquisire o imparare, è innata.

Spesso si manifesta in giovane età in sogno, con simboli rappresentanti il volo, come varie specie di uccelli. È necessario l’appoggio di una guida spirituale già formata per coltivare le doti e aiutarle a manifestarsi. Durante le cerimonie le guide spirituali si riconoscono perché si coprono il capo con un tessuto, spesso di colore bianco, e impugnano un bastone simbolico.
Se un tempo «tatas» e «nanas» vivevano delle offerte che ricevevano per il servizio che prestavano nelle comunità oggi invece si trovano in difficoltà e devono svolgere altre attività per sostentarsi. Vari progetti di salvaguardia delle tradizioni indigene appoggiano l’attività delle guide, forse in parte snaturando la loro funzione, ma quanto meno ne garantiscono una formale esistenza.         

Ermina Martini

Ermina Martini




Riso, fagioli e tlc

Neoliberismo e pensiero unico. I paesi dell’America Centrale davanti alla crisi mondiale

La crisi odiea nei paesi del Quarto mondo latinoamericano (Centroamerica e Caraibi) iniziò
la sua gestazione almeno 20 anni fa, quando la globalizzazione neoliberista divenne religione e il «Consenso di Washington» – con lo smantellamento dello stato nazionale e il business delle privatizzazioni – i suoi 10 comandamenti.

Lungo la sua storia recente, l’America Centrale ha attraversato un periodo di dittature e movimenti di liberazione conclusosi con gli accordi di pace degli anni Novanta:1990 in Nicaragua (dopo 50 mila morti), 1992 in El Salvador (80 mila morti), 1996 in Guatemala (250 mila morti). A ciò è seguita la globalizzazione neoliberista (con le riforme strutturali e le privatizzazioni dei settori strategici degli stati nazionali) e, infine negli ultimi sei anni, è arrivata la stagione dei negoziati e dei Trattati di libero commercio (Tlc), tra le aristocrazie native allineate con i poteri del Nord. Prima con gli Usa, poi, sulla scia di quei trattati capestro, dall’anno scorso con il suo sosia europeo: l’«Accordo di associazione» tra l’Unione Europea e il Centroamerica (Acuerdo de Asociación entre América Central y la Unión Europea, Ada). Sulla carta questo Tlc europeo include, oltre al commercio, il dialogo politico e l’integrazione regionale e per ciò, secondo i negoziatori europei è un Tlc «dal volto più umano». «Il solito Tlc ma confezionato in carta da regalo», ha chiosato Sigfrido Reyes, deputato salvadoregno del Fronte Farabundo Martì (al governo dal 1 giugno 2009).

I costi (pesanti)
delle privatizzazioni

Il Centroamerica di oggi è il frutto perverso di una serie di cambiamenti, che presero il via con il fallimento economico e politico delle dittature dell’istmo verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1989, questa sconfitta economica diede il via libera al cosiddetto «Consenso di Washington», che stabilì in tutta la regione i comandamenti della globalizzazione. Queste riforme strutturali spingevano verso l’accumulazione della ricchezza e lo smantellamento dello stato nazionale con la privatizzazione dei sistemi pubblici di educazione e salute, passando per la svendita delle imprese statali di telefonia, elettricità e acqua, sempre con la promessa di migliorare il servizio. La procedura era consolidata: prima si rendevano deficitarie le imprese pubbliche, per non avere movimenti di piazza al momento della loro privatizzazione, successivamente dividendole in bad and good company, vendendo quest’ultima a prezzo stracciato alle multinazionali «amiche» del governo di tuo.
Il caso del Nicaragua ha visto il governo e la multinazionale spagnola Unión Fenosa (distribuzione elettrica) entrare nel vicolo cieco di una diplomazia legata a doppio filo alla Banca mondiale (che funge da guardia del corpo delle 100 multinazionali che operano nella regione). Facile prevedere che, in caso di un conflitto giudiziale, la vicenda si concluderebbe con un parere favorevole alla multinazionale spagnola (www.unionfenosa.es) e con l’impossibilità del governo sandinista di pagare il prezzo della rinazionalizzazione dell’antico Instituto  nicaraguense de energia (Ine).
Per parte loro, Honduras, El Salvador e Guatemala sono state invase dalla miniera a cielo aperto, con in testa la multinazionale Glamis Gold Ltd. che lavora in tutto il Centroamerica con prestiti della Banca mondiale (www.goldcorp.com). Questa multinazionale, secondo l’organizzazione ambientalista Madreselva, utilizza in un’ora l’acqua che una famiglia utilizzerebbe in 22 anni e in Honduras lavorano con royalties che si aggirano attorno alla cifra ridicola dell’1% (www.madreselvaondg.net).

Contadini senza terra
e senza futuro

Le privatizzazioni sono giunte anche al credito per il settore di piccoli produttori agricoli e allevatori.  In Nicaragua, questo credito una volta era a disposizione di tutti. Oggi è stato dirottato dalla produzione di alimenti al commercio, passando la prima dal 34% nel 1993 al 4% dieci anni dopo, il secondo dal 37% all’84% nello stesso periodo.   
  A distanza di quasi 20 anni questi cambiamenti si sono tradotti nella regione (per la sua natura contadina e produttrice di materie prime) nello smantellamento dell’agricoltura sostenibile, dei sistemi alimentari locali e delle reti sociali su cui essi poggiano. Un modello che ha spinto progressivamente il Centroamerica verso la vulnerabilità alimentare e la dipendenza dalle importazioni di cereali Usa (sovvenzionati da Washington fino al 60% dei costi di produzione).
La conseguenza successiva è stato l’esodo rurale, con una massiccia decontadinizzazione a livello regionale, accompagnata da una controriforma agraria per via dell’insolvenza dei piccoli produttori. Il canovaccio è consolidato: ormai senza credito pubblico ai contadini non resta che ipotecare i loro piccoli appezzamenti di terra come garanzia per l’acquisto di concimi e semi, a cui segue spesso il pignoramento per l’impossibilità di ripagare i prestiti (a causa delle oscillazioni dei prezzi sui mercati inteazionali del Nord o del passaggio di un uragano caraibico che spazza via raccolti e non solo); e il cerchio si chiude con la terra che cade in mano ai nuovi latifondisti tramite le aste delle banche private.
Questi contadini senza più terra sono finiti accalcati nelle città, ingrossando le bidonvilles. In migliaia si sono riciclati come lavoratori informali: venditori ambulanti di caramelle, sigarette e cianfrusaglie varie, che ora vagano per le strade delle capitali centroamericane, portandosi dietro un capitale umano di conoscenze generazionali di agricoltura e allevamento, che si perde in città senza biglietto di ritorno.
Quanto alle donne contadine, in città erano attese dalle multinazionali straniere del subappalto, le fabbriche di assemblaggio tessile, las maquilas, che si sono diffuse con l’inteazionalizzazione della produzione industriale. Questa altro non è che la delocalizzazione dei cicli di produzione, avente l’obiettivo di ridurre fino al 90% i costi di lavorazione manuale manifatturiera, con un salario che si aggira intorno ai 30 centesimi di euro all’ora. Previo all’arrivo delle maquilas però, nel Centroamerica si è compiuto uno metodico smantellamento dei sindacati locali e la creazione di sindicatos blancos agli ordini dei proprietari.
L’emigrazione internazionale è invece riservata di più agli uomini, pochissimi dei quali giungono a destinazione: uno per ogni cento fra gli emigranti honduregni. A coloro che non sono in grado di emigrare è riservato il sottornimpiego, in cui si concentra il 41% della popolazione attiva della regione.

Le classi proletarie
e il «triangolo 80-100-10»

Due decenni di questa globalizzazione hanno provocato una metamorfosi nell’architettura dell’accumulazione nel Centroamerica. Da 3 si è passati ad avere 5 classi sociali di cui una all’estero, los expatriados: in cima un’élite di 10 famiglie (secondo un quotidiano del Guatemala, El Periodico) che controllano la regione; sotto di loro  una classe di 80 milionari (secondo la rivista del Costa Rica, Estrategia & Negocios), queste due classi fanno affari con le 100 transnazionali presenti nella regione (secondo la rivista del Nicaragua, Envio).  Sotto ancora, una classe media ogni volta più povera formata da professionisti, commercianti e impiegati statali. Al di sotto ancora, il 70% dei centroamericani che vivono con meno di tre euro al giorno e in casi come il Nicaragua l’80% che vive con meno di due. All’estero poi ci sono gli espatriati, circa 4,5 milioni di centroamericani su i 37 milioni, di cui il 75% negli Stati Uniti.
Questo modello in Centroamerica a grandi linee funziona così. Le rimesse entrano alla regione e rappresentano circa il 15% del Pil totale (nel caso di El Salvador il 20%, con un incremento del 10% annuo, anche se la tendenza è a diminuire per via della crisi globale). Esse vengono quasi interamente spese dagli impoveriti per acquistare beni e servizi (mentre solo il 10% va in investimento e studio).  Tali merci e servizi sono venduti al dettaglio dai commercianti e dalle 100 transnazionali, che si rifoiscono dai grandi importatori, gli 80 milionari tra cui ci sono anche gli esportatori a loro volta legati alle 100 transnazionali, prevalentemente nordamericane ed europee. Queste, a loro volta, si dotano di capitali dalle 10 famiglie, che controllano le banche private e concentrano questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzare i guadagni all’estero, perché il Centroamerica non dà garanzie. Insomma, 80-100-10 è un triangolo perfetto…
Altra domanda interessante è la seguente: quanto gli affari di queste 10 famiglie e gli 80 milionari sono intrecciati con il business del narcotraffico in Centroamerica, se la  progressiva de-regolarizzazione dello stato di diritto ha convertito l’Istmo in un paradiso per il lavaggio di narco-dollari e in un passaggio indisturbato della coca verso il Nord? Quale è la percentuale dei suoi capitali che si «contamina» di questo affare, aldilà dei prestanome?
Con la scusa della violenza

La criminalità organizzata che martella il «triangolo del Nord» (Guatemala, El Salvador e Honduras) è aumentata a dismisura negli ultimi anni e frattura l’unione fra stato di diritto e politica. Il Centroamerica si trova stretto fra i più grandi produttori (Colombia) e consumatori di cocaina (Stati Uniti). Per ogni grammo di cocaina che viene spostato fra Colombia e Stati Uniti, il 90% del suo prezzo si gioca sul trasporto attraverso il Centroamerica. Situazione che ha provocato lo scoppio della violenza in questi tre paesi, accelerata dal fuggire verso il triangolo del nord delle reti di crimine organizzato messicane per via dell’intensificarsi della lotta al narcotraffico in Messico.
Il mercato delle droghe illecite si sa, è un alibi di vecchia data per il controllo militare di paesi e regioni. Allo stesso modo che il Plan Colombia nel paese andino, si è creato promosso dagli Usa un suo alias per il Messico e il Centroamerica: il Plan Merida, messo a punto nell’ottobre 2007 dal senato nordamericano e venduto come un’iniziativa per combattere il crimine e il traffico di stupefacenti nella regione. Ma questa iniziativa con alla base una logica repressiva, non tiene conto che la criminalità organizzata e la violenza nel triangolo del Nord è il frutto storico di un sistema economicamente diseguale. Infatti la situazione madre che l’aveva provocata è rimasta pressoché  intatta e nel frattempo la violenza nell’Istmo continua ad allargarsi.
Per qualche anno si sono promossi, con scarsi risultati, programmi repressivi per combattere la violenza, puntando il dito soprattutto sulle maras (gruppi delinquenziali di giovani). Tra questi programmi, ricordiamo: la strategia Cero tolerancia (Honduras, 2001), il Plan Escoba (Guatemala, 2003), e il Plan Mano Súper Dura (El Salvador, 2004). Le maras, infatti, sono state criminalizzate e utilizzate come capro espiatorio della situazione politica ed economica che si vive nel triangolo del Nord, dove più della metà della sua popolazione ha meno di 24 anni. Questi programmi repressivi sono andati avanti ad oltranza, ignorando studi che affermavano cose diverse: secondo il Pnud, in Honduras, solo l’11% dei crimini del 2007 era  attribuibile alle maras; in Guatemala, un 14% secondo uno studio della polizia e in El Salvador il 12%, secondo l’Istituto di medicina legale.
Questa campagna si è fermata solo nelle ultime elezioni dell’Honduras in cui il candidato Porfirio Lobo Sosa del Partido de la Innovaciòn y la Unidad ha perso le elezioni contro Zelaya del Partido Liberal per i toni alti del suo discorso di repressione alle bande giovanili. Allo stesso modo, in Guatemala, Otto Perez Molina del Partido Patriota ha perso con la sua campagna elettorale della mano dura (alla violenza) contro Alvaro Colom.
La delinquenza è stata un riflesso sociale della globalizzazione centroamericana, che – pur con una crescita media annua del 5% – negli ultimi anni ha visto crescere la povertà delle popolazioni.

Rimesse e cooperazione,
ancore (incerte) di salvezza

Vent’anni di neoliberismo hanno attirato in questa parte del mondo la cooperazione internazionale, per sopperire agli effetti collaterali del modello. Il Guatemala, l’Honduras e il Nicaragua si trovano tra i 9 paesi a livello globale che ricevono più cooperazione internazionale. Inoltre, il 60% della cooperazione internazionale dell’Ue per l’America Latina viene data al Centroamerica, pur rappresentando solo il 7% della popolazione latinoamericana.
Nel Centroamerica, escluso il Costa Rica, la cooperazione internazionale  rappresenta in media il 15% del Pil.
Simile è la percentuale delle rimesse degli espatriati, di cui El Salvador detiene il primato nell’Istmo. Con la minore spesa sociale della regione 6,6% del Pil (la metà della media latinoamericana), eredità dei due decenni di governo di Arena, partito di ultradestra. Il costo sociale lo hanno pagato gli espulsi, un terzo della popolazione del paese: 2 milioni e mezzo di salvadoregni che vivono attualmente all’estero, prevalentemente negli Usa, mentre in patria il 70%  sopravvive grazie alle rimesse. Le rimesse e la cooperazione (nonostante la crisi abbia fatto diminuire queste voci d’entrata) costituiscono ancora oggi il motore dell’economia di questi paesi, insieme rappresentano circa il 30% del Pil, con il quale i governi dell’Istmo tengono a galla l’economia della regione in una versione (pericolante) della globalizzazione (alla) centramericana.
Ora che questo modello economico sta franando, sono le stesse fasce vulnerabili di questi popoli a pagare la fattura sociale, con la disoccupazione che sale, le rimesse che crollano e gli espatriati che ritornano a casa, grazie all’inasprimento delle leggi migratorie nel Nord del mondo. Se nei paesi industrializzati la maggioranza della popolazione utilizza il 10-15% dello stipendio in alimenti, nei paesi centroamericani, fra riso e fagioli, tortillas e ogni tanto un po’ di carne, si arriva all’80%, e molto probabilmente sono queste le proporzioni che alla fine della crisi (fra 5 anni nel Nord e 10 nel Sud secondo gli esperti) pagherà il ricco e povero mondo.

 Strumenti alternativi:
Alba e Petrocaribe

Il nuovo quadro geopolitico nell’Istmo viene modellato dal diffondersi della crisi negli Stati Uniti, che aumenta la disoccupazione per via del rallentamento della domanda globale. Nei paesi dell’Istmo ciò si traduce in crollo delle esportazioni e nella riduzione delle rimesse. Dalla sponda opposta, tentando di contenere i danni della crisi, si assiste all’aumento dell’influenza di Petrocaribe, «il braccio energetico» dell’Alteativa bolivariana delle Americhe (Alba), che ha spinto i governi di Alvaro Colom (Guatemala) e Zelaya (Honduras), entrambi socialdemocratici, verso l’Alba, alter-ego dei Tlc proposti dal Nord del mondo.
Petrocaribe è nato il 29 di giugno del 2005 e vedeva la partecipazione del Venezuela e di 13 paesi dei Caraibi. Oggi i paesi sono diventati 17. Petrocaribe è stato creato su proposta del presidente del Venezuela Hugo Chávez con l’intenzione di dare sicurezza energetica e contrastare gli effetti negativi che con la crisi si abbattono sulle popolazioni più vulnerabili del Sud del mondo.
Contraddicendo la logica neoliberista, Petrocaribe fonda le sue basi nella cooperazione energetica orizzontale e la solidarietà tra i popoli, tenendo conto delle asimmetrie degli stati e con l’obiettivo di creare progetti  sociali e d’infrastrutture. Inoltre cerca il cornordinamento di politiche energetiche, cooperazione tecnologica, e potenziamento di fonti alternative.
Dei paesi centroamericani, il primo membro ad entrare a Petrocaribe è stato il Nicaragua, nell’agosto 2007 durante il terzo Summit di Petrocaribe. Il seguente paese è stato l’Honduras del governo Zelaya nel corso del quarto Summit e nel quinto il Guatemala. Il Costa Rica per ora ha sollecitato l’ingresso formale. Manca solo El Salvador, dove però dal 1 giugno ha assunto la presidenza Mauricio Funes, uomo  del Fronte Farabundo Martì (Fmln).
A luglio dell’anno scorso,  nel quinto Summit di Petrocaribe, a Maracaibo in Venezuela, si decise la creazione di una impresa mista Grannacional de energia. In controtendenza all’operato delle multinazionali, si invitano i paesi membri a partecipare fin dalla estrazione del greggio nella Faja del Orinoco nel Venezuela e in questo modo acquisire conoscenze e benefici fin dalle basi.
Petrocaribe agisce però su un Centroamerica con paesi sostanzialmente non produttori di petrolio e con una dipendenza di idrocarburi che dal 1990 ad oggi si è incrementata del 557%, insieme a problemi alimentari storici:  «tra il 1940 e il 2004 si sono prodotte più di 2,6 milioni di morti associate alla denutrizione nella regione centroamericana, questo numero di morti è molto maggiore al totale delle vittime dei conflitti armati  in quei decenni», secondo l’informe del 2007 del Cepal («Commissione economica per l’America Latina»).

I pesanti numeri
della povertà

Oggi la povertà tocca in Honduras il 75% della popolazione, in Guatemala il 51%,  in Nicaragua il 60% , in El Salvador il 40%, in tutti i casi con una forte causale esogena data dall’inflazione importata. Con l’attuale crisi alimentare c’è il rischio che altri 800 mila centramericani entrino a ingrossare le fila dell’indigenza, perché si calcola che per ogni 5 tonnellate di cereali che ingessano a uno dei paesi dell’Istmo, un contadino diventa candidato all’emigrazione.
Per combattere questa crisi è stato creato un fondo chiamato prima Petroalimentos e poi, a partire dalla riunione dei ministri dell’agricoltura all’Avana a metà agosto 2008, Alba-alimentos. Con l’intenzione di cornordinare le politiche in ambito agro-alimentare, composto da un consiglio con i ministri di agricoltura dei paesi membri. Questo fondo si sta utilizzando per la produzione di alimenti, tramite la donazione di concimi e semi migliorati unicamente per i piccoli e medi produttori. Con esso si intende anche promuovere tecnologie agricole sostenibili, con una serie di programmi sociali in tutta la regione a beneficio della maggioranza impoverita. 

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




«Ho viaggiato con i “matti”»

Patasarriba: diario di un viaggio particolare

Avevano già viaggiato in treno fino a Pechino, in Cina.
A fine 2008, in 240 sono andati a Buenos Aires, in Argentina.
Sono i partecipanti a «Patasarriba», un viaggio culturale e sportivo effettuato da utenti, familiari e operatori dei servizi di salute mentale.
Un viaggio contro lo stigma e il pregiudizio che ancora colpisce le persone affette da disagio psichico. Un viaggio per riaffermare la validità della legge Basaglia (Legge 180), che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani.

Roma, 21 novembre 2008. Aeroporto Leonardo da Vinci. L’articolo fatica a prendere forma. Non riesco a concentrarmi. Troppo rumore. C’è un folto gruppo di persone che, in attesa di imbarcarsi sul volo per Buenos Aires, parlano, ridono, scherzano, si rincorrono. Insomma, si divertono.
Ma chi saranno?, mi domando, forse un po’ invidioso di tanta vitalità. Provo a darmi delle risposte: una squadra in trasferta con i propri tifosi; un gruppo di Avventure nel mondo, la nota agenzia turistica; una gita aziendale. No, osservando i partecipanti, non sembra che alcuna delle mie ipotesi possa trovare conferma. Qualcuno, notando che sto osservando quello che accade, mi si avvicina e mi chiede se voglio firmare anch’io la bandiera.
Posso farlo, ma di che si tratta?, chiedo. Guardo la bandiera che dovrei firmare: «Italia-Argentina, Patasarriba, Un viaggio contro ogni pregiudizio, per un mondo senza manicomi». Patasarriba mi rammenta un saggio di Eduardo Galeano. Ma è il resto dello slogan che aiuta a capire. «Apparteniamo ad alcune associazioni che si occupano di salute mentale», mi spiega Daniele Benfenati, operatore sanitario a Bologna. Le associazioni sono l’Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale) e l’Unasam (Unione nazionale associazioni per la salute mentale).
«È un viaggio contro il pregiudizio a 30 anni dal varo della Legge Basaglia, una legge di civiltà giustamente famosa in tutto il mondo. Patasarriba, sottosopra in italiano, è il termine spagnolo che abbiamo scelto per sottolineare l’urgenza di un ribaltamento nelle politiche di salute mentale in Argentina», aggiunge Ennio Sergio, operatore ad Imola, tenendo stretta tra le mani la sua videocamera. Franco Basaglia, psichiatra veneziano promotore della Legge 180, che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani, è molto conosciuto in America Latina, dove tenne una serie di seminari e conferenze.
Ma quante persone voleranno a Buenos Aires?, domando. «In tutto quasi 240 delle quali circa 150 sono affette da disagio psichico», mi risponde Rita Lambertini, operatrice a Bologna. Per organizzare una settimana fitta di incontri, attività e spettacoli, le associazioni italiane hanno trovato aiuto e appoggio in una associazione argentina similare, l’Adesam, Asociacion por los derechos en salud mental. 

Benvenuti all’Università

Buenos Aires, 24 novembre. Per una strana coincidenza anch’io, come il gruppo di Patasarriba, ho previsto una visita alla sede di Buenos Aires dell’Università di Bologna. Per capire se le dure accuse di sprechi mosse da il Gioale, siano vere o mero frutto di una ovvia scelta filogovernativa del quotidiano berlusconiano. Quella in calle Rodriguez Peña 1778, nell’elegante quartiere della Recoleta, è l’unico esempio di università italiana con una sede operativa all’estero, ma fare cultura costa e spesso non dà profitti immediati. E questo, nell’Italia delle veline, del Grande fratello, dell’Isola dei famosi, della Fattoria, non è un fatto bensì un mero delitto… 
La gente di Patasarriba ha preso posto nella piccola ma bella aula convegni dell’Università, dove il professor Giorgio Alberti, direttore dell’istituto, fa gli onori di casa. Assieme a lui, Stefania Costanza dell’ambasciata italiana, Roberto Grelloni, presidente di Anpis, e Carmen Mercedes Cáceres, presidente di Adesam. 
Io mi perdo ad osservare le persone, cercando di capire chi possa essere un utente affetto da disagio psichico, chi un operatore sanitario, chi un familiare o un amico. Difficile capirlo, a volte impossibile. E per fortuna è così. Anzi, forse sta proprio in questo la filosofia di Franco Basaglia: fare sì che i matti (termine improprio ma dai più ancora utilizzato) siano soltanto persone tra le persone, indistinguibili e dunque non catalogabili o etichettabili. 

La pazzia nel pallone

Giovedì 27 novembre. La località Torres de Lujan dista circa 90 chilometri da Buenos Aires. Qui sorge Montes de Oca, un manicomio statale con quasi 800 degenti.
La squadra italiana che sosterrà una partita di calcio contro una squadra di pazienti argentini è già in viaggio, seguita dalla piccola troupe televisiva guidata da Paula Kleiman, la regista che sull’evento girerà un documentario.
Il manicomio intitolato al dottor Manuel Montes de Oca è una struttura con più edifici immersa in un grande parco. Il sole picchia forte, ma gli alberi secolari leniscono la calura. Il dottor José Mario Romé, responsabile dell’area riabilitazione, ci fa da guida e ci accompagna al campo di calcio, dove le squadre sono già schierate. Fin dalle prime battute, si nota che gli argentini sono forti e il portiere della squadra italiana si arrabbia molto con i suoi difensori che non riescono a fermare gli attaccanti avversari. Il tutto si svolge sotto l’occhio elettronico delle due telecamere di Paula. Vince di misura la squadra di casa, ma gli italiani si sono battuti bene.
Una piccola delegazione di Patasarriba, guidata da Ennio Sergio, si ferma per visitare alcuni degli 11 padiglioni del manicomio che, pur nella penuria delle risorse finanziarie, sta tentando di rendere più umana la condizione di vita dei propri pazienti. A dimostrare questa filosofia, ci sono le strutture alternative, aperte fuori dall’istituto, come le case famiglia o il Centro diuo. Prima di riprendere la strada per Buenos Aires, Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore di Montes de Oca, ci invita nel suo studio per uno scambio di opinioni. In mostra, in una vetrina della stanza, c’è anche una vecchia macchina per l’elettroshock. Per fortuna, oggi è soltanto un cimelio.

La «Bombonera»
di Maradona

Venerdì 28 novembre. Come il Matadero, visitato mercoledì, anche La Boca è un quartiere difficile, ma a differenza del primo è famoso, soprattutto tra i calciofili.
Franca Aceti, docente di neuropsichiatria a La Sapienza, Marcella Venier, psicologa, e Marco D’Alema, psichiatra a Frascati, oggi non sono qui come terapeuti, ma soltanto come spettatori. I protagonisti sono nelle accoglienti palestre del Club Atletico Boca Juniors, che è mondialmente conosciuto per le imprese della propria squadra di calcio, ma che in primis è una società polisportiva fondata nel 1905 da alcuni immigrati genovesi.
Cinque squadre italiane (che includono anche donne) stanno disputando partite di calcetto contro le squadre locali. Ai bordi dei campi e sugli spalti il tifo è incessante, accompagnato da cori, tamburi e sventolio di bandiere. L’entusiasmo è palpabile.
Gli organizzatori hanno pensato a tutto. Infatti, mentre nelle palestre si svolgono le partite, piccoli gruppi vengono accompagnati  a visitare la Bombonera, il mitico stadio del Boca, con la sua forma particolare, i colori sgargianti (giallo e blu), il museo multimediale, le foto e le storie dei giocatori, Diego Armando Maradona in primis.
Al termine degli incontri, il folto gruppo di Patasarriba a piedi si sposta nella parte turistica de La Boca, quella che si è sviluppata attorno a Calle Caminito e al Riachuelo, fiume (ora inquinatissimo) che confluisce nel Rio de La Plata e che un tempo ospitò il porto di Buenos Aires. E dove, nell’Ottocento, approdarono gli immigrati genovesi. Ma la storia del quartiere oggi passa in secondo piano. Pazienti, operatori, familiari si perdono tra bancarelle e ristorantini. E locali di tango, dove alcuni non esitano ad esibirsi al fianco dei ballerini professionisti.

La poesia di Marta

Domenica 30 novembre: per Patasarriba è il giorno del rientro in Italia. Marta, una paziente con cui ho stretto amicizia, vuole lasciarmi un suo ricordo sul quaderno degli appunti. Scrive: «La gioia entra in te/ a poco a poco invade il tuo essere/ e diventa veramente tua/ nella misura in cui tu sai donare agli altri».
Per un puro caso, ho incontrato e conosciuto la gente di Patasarriba. È stato bello provare orgoglio nell’essere italiano. Non mi capita spesso. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




I matti non votano

In manicomio (1) / La «Colonia Montes de Oca»

Visita ad una struttura manicomiale pubblica, in cui il personale tenta
di percorrere strade alternative. Facendo leva sulla propria professionalità
e volontà per superare ostacoli e diffidenze. 

Torres de Lujan. Sul campo di calcio del manicomio «Colonia nacional dr. Manuel A. Montes de Oca» è in pieno svolgimento la partita tra la squadra locale e quella degli ospiti italiani. Mentre i giocatori, tutti pazienti psichiatrici, si danno battaglia senza risparmiarsi,  ci accomodiamo a bordo campo con il piccolo gruppo degli accompagnatori. Di lì a poco siamo avvicinati da un uomo alto, barbetta grigia, camice azzurrino. Sul taschino è riportato un nome: dr. J. M. Romé.  Medico, il dottor José Mario Romé è direttore della riabilitazione a Montes de Oca. Dopo rapide presentazioni, gentile e disponibile, Romé risponde alle domande. «In Argentina – spiega -, il sistema sanitario è diviso in pubblico, privato e quello delle opere sociali. Normalmente, dove si paga, si riceve una migliore attenzione. Tra le opere sociali, che appartengono ai sindacati, alcune sono buone, altre secondo me dovrebbero essere chiuse. Quanto alla sanità pubblica, fa quello che può. Dipende molto da come vengono amministrati i fondi, dipende molto dal luogo». Si intuisce subito che tipo di medico sia il nostro interlocutore: «Io credo – spiega -, che lo stato non può non occuparsi di ciò che riguarda la salute, l‘educazione, la pensione e la sicurezza per il futuro».
 Romé lavora nel manicomio da 25 anni: nessuno meglio di lui può aiutare a capire il luogo. «L’85 per cento degli ospiti – racconta – sono pazienti con ritardo mentale, di varia entità: lieve, moderato, grave. Il resto sono pazienti psicotici, che stanno nel padiglione 3, un edificio per sole donne con una cinquantina di letti, non sempre occupati».
Ci raggiunge anche il dottor Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore della Colonia Montes de Oca. Lui vuole parlare in italiano perché – spiega – «la mia famiglia  è di origine piemontese, di Novara». Rossetto ricorda che, negli anni Settanta, Franco Basaglia lodò l’Argentina e le sue strutture manicomiali. «La Colonia Montes de Oca ha appena superato il secolo di vita. Aveva un’immagine molto negativa, enfatizzata dai media. Poi, nel 2004, anno del mio arrivo, abbiamo iniziato uno sforzo di trasformazione della struttura manicomiale. Adesso stiamo portando avanti la riconversione del nostro modello di attenzione, passando da un sistema di chiusura ad uno di integrazione comunitaria, dove cioè la comunità partecipa attivamente. Siamo in un momento interessante. Si stanno riducendo i letti nei padiglioni, mentre stanno aumentando i letti in case comuni. Abbiamo, ad esempio, un programma che si chiama “Ritoo a casa”. Ad oggi ne beneficiano 80 persone. Insomma, il processo di cambio procede lento, ma procede».
«Al padiglione 7 – interviene il dottor Romé – abbiamo iniziato a formare gruppi più piccoli. I pazienti cambiano attitudini: si autogestiscono, maneggiano un po’ di denaro, escono con la famiglia, anche se non è facile, perché quelle sono le stesse persone che a suo tempo li cacciarono».

Accompagnati dal dottor Romé, andiamo a visitare alcuni padiglioni. Ce ne sono 11 di funzionanti per un totale di circa 800 pazienti e 850 operatori. Il padiglione n. 1 salta subito agli occhi perché è stato dipinto con accesi colori pastello: giallo, verde, rosa.  Diviso in 3 parti autonome, una per ogni piano, l’edificio ospita donne con ritardo mentale, basso, moderato, profondo. Tutto è molto spartano, ma le stanze sono pulite e le infermiere sembrano avere un buon feeling con le pazienti. Anche il padiglione n.3 appare adeguato.
Padiglioni dignitosi dunque, ma pur sempre all’interno di una struttura manicomiale tradizionale. Per trovare qualcosa di diverso, ci facciamo accompagnare al Centro diuo, che sta fuori della Colonia, anche se poco distante da essa.  Il Centro è una struttura molto semplice, ad un solo piano, con in mezzo un ampio spazio coperto da una tettornia.
Gladys Chutte, Hector Possetto, Romina Caricato e Carina Rebottaro lavorano al Centro diuo e parlano con sincero entusiasmo del loro lavoro. Ognuno con la propria professionalità dà vita alla struttura ed alle attività per gli ospiti. «Questo – racconta Hector – è stato il primo Centro diuo, nato dopo un intervento al padiglione 7, il più problematico. Abbiamo iniziato poco più di 3 anni fa con 30 pazienti. Il modello proposto era articolato su 3 tappe: Colonia, Centro diuo, paese con le case di convivenza».  «Dei nostri utenti, la metà – spiega Gladys – rientra alla Colonia, un’altra metà va nelle due case residenziali che abbiamo in paese. Inoltre, dato che abbiamo diversi laboratori, ci sono anche persone che vengono non per stare qui tutto il giorno ma semplicemente per seguire un corso».
Al Centro la scelta è ampia. Ci sono laboratori artistici (si tesse, si dipinge, si scrive) ed altri dove si cucina e si prepara il dulce de leche, il dolce argentino per antonomasia. C’è l’orto con la serra. Una parte dei prodotti dei laboratori vengono posti in vendita in paese.  

Romé, Rossetto, Gladys, Hector… la Colonia Montes de Oca è un manicomio pubblico che, attraverso il lavoro di persone capaci ed illuminate, sta facendo un percorso importante di  smarcamento dalla struttura manicomiale tradizionale.
Non è un’impresa semplice, anche per questioni di opportunità politica. «La sanità – chiosa il dottor Romé – dovrebbe sempre essere pubblica. Lo stato non dovrebbe mai delegare in questo campo, ma ci sono troppi interessi, come quelli dell’industria farmaceutica, per esempio. Quanto alla locura (pazzia) è sempre stata qualcosa da nascondere. Senza contare che i matti non portano voti, dato che non votano quando ci sono elezioni. Dunque, a chi importa di loro?».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Made in Borda

In manicomio (2) / Il «Borda»

Le borse di plastica costituiscono la produzione più banale. Con i prodotti
artigianali in carta ricilata c’è un bel salto qualitativo. Ma il massimo
lo raggiungono con i mobili restaurati. Gli artefici non sono operai comuni,
ma pazienti dell’ospedale neuropsichiatrico Borda
.

Buenos Aires. Sarebbe facile parlare male o molto male del Borda, ospedale neuropsichiatrico fondato nel 1863 nel barrio di Barracas. Basterebbe descrivere le sue stanze fatiscenti. O le condizioni dei pazienti che vagano sporchi e con i vestiti logori per corridoi bui e deprimenti.
Eppure, in questo luogo triste e degradato, ci sono due isole felici, dove si tenta il riscatto dell’istituzione e soprattutto dove i pazienti sono trattati da esseri umani, con i loro problemi ma anche con le loro ricchezze. La prima isola è Radio La Colifata, un’emittente nata nel Borda e che ogni sabato trasmette dall’ospedale, attraverso l’impegno di pazienti, ex pazienti, amici e volontari. La seconda è relativa ad alcuni programmi lavorativi denominati «emprendimientos en salud mental». I pazienti sono impegnati in differenti attività artigianali: producono buste di plastica, fanno oggetti con carta riciclata, restaurano mobili antichi. Si tratta di progetti piccoli, ma che raggiungono varie finalità: occupano in maniera adeguata i malati che guadagnano in autostima; insegnano una professione a persone che un giorno potrebbero trovare una nuova collocazione nella società; vendendo i prodotti, generano un reddito che consente alle attività di autosostentarsi; infine, producono qualcosa di nuovo partendo dal vecchio (carta usata, mobili antichi, eccetera).

Dei progetti imprenditoriali è responsabile Federico Bejarano, psicologo sociale, dal 1990 operatore presso il Borda. «Le persone che seguiamo – spiega Federico – hanno una doppia vulnerabilità: quella derivante dalle minori capacità (lavorative e socio-familiari) e quella generata dall’esclusione. Noi non crediamo che l’ospedale psichiatrico debba trasformarsi nel destino delle persone e che queste siano costrette a viverci. Proprio per abbattere questi muri stiamo lavorando, da alcuni anni, con alcune iniziative imprenditoriali».
Con la nostra guida saliamo al quarto piano, dove sono ospitate alcune di queste attività. Dapprima, per presentarci e salutare, ci affacciamo nella sala della biblioteca, piccola, ma molto luminosa. Attoo al tavolo ci sono alcuni pazienti intenti nella lettura.  «Abbiamo 3.700 libri – ci raccontano con orgoglio Enrique e Eduardo -. Ogni paziente del Borda può avere un libro in prestito per una settimana. Ecco qui l’elenco…». Eduardo vuole anche regalarci una sua esibizione. Ci canta una ballata di tango.
Nella stanza a lato, è ospitata l’impresa più vecchia, sorta dei primi anni Novanta, che si occupa della produzione di borse in polietilene. «Ne produciamo – spiega Federico – circa100 mila all’anno, che vengono offerte al mercato comune. L’impresa funziona ed è autosufficiente».
Nella prima stanza del corridoio, c’è un altro laboratorio, quello adibito alla produzione di carta. Ci accoglie Dora Manzilla, psicologa sociale: «Non fate foto ai pazienti, per favore». Certo che no. Dora ci mostra qualche prodotto. «Ecco, questo è un biglietto di invito per un matrimonio, quest’altro è il programma di un teatro, questo un biglietto da visita…». La qualità artigianale (e artistica) si nota subito.

Negli anni passati, sulla sanità pubblica dell’Argentina si è abbattuta la scure delle politiche neoliberiste. Il Borda non è rimasto immune. «Un tempo – racconta Federico – questo ospedale è stato un faro della psichiatria latinoamericana. Poi, come tutte le istituzioni dello stato, ha iniziato a soffrire per la riduzione dello spazio di intervento pubblico». Federico ci regala una spilletta con i colori della bandiera argentina, e una scritta: «Defendamos el Hospital público».  Gli domandiamo se esistono normative equiparabili alla legge 180 che in Italia nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi. «Non ancora. Tuttavia, qualche progresso è stato fatto. Per esempio, la legge di salute mentale numero 448 della città di Buenos Aires è una legge progressista. Se essa venisse applicata, basterebbe per una trasformazione profonda del sistema. Comunque… venite che andiamo nel nostro laboratorio più impegnativo, quello del restauro».
Dal quarto piano del padiglione centrale dell’ospedale ci spostiamo dunque in un edificio nuovo, dove ci sono anche un moderno ascensore e le scale antincendio. Qui ha trovato uno spazio adeguato il laboratorio di falegnameria, in cui un gruppo di utenti del Borda restaurano vecchi mobili.
Nella stanza, ampia ed ordinata, alcune persone (in camice bianco) sono impegnate nel restauro: una scrivania, un tavolo, delle sedie, un armadio. Qualcuno scambia due parole con Federico, ma poi torna subito al lavoro. C’è un programma di lavoro e di consegne da rispettare, come ricordano gli avvisi scritti sulla lavagna bianca posta su una parete.

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




L’inferno può attendere

Père Richard Frechette, al secolo Rick: ritratto

Haiti, isola perduta. Realtà inimmaginabile. Eppure c’è. Esiste. Il popolo haitiano continua a soffrire e a morire. Ma c’è anche qualcuno che ha messo la propria vita a fianco di questi fratelli. Storia di un prete e di un medico con la passione.

Tabarre, periferia di Port-au-Prince. In una stanza dell’ospedale Saint Damien due piccoli fagotti: Olivier Beisah e Luvens Bethoven non ce l’hanno fatta, non hanno superato la notte.
La camera è avvolta dal dolore e dal silenzio, spezzato solo dal Salve Regina che padre Rick intona, mentre con le sue grandi mani unge i minuscoli corpi di olio benedetto e li avvolge con cura in un sudario bianco. Sarà lui a garantir loro una sepoltura, un lusso che qui in molti, moltissimi, non si possono permettere. Poveri da vivi e poveri da morti. Per entrambi sono pronte due bare di cartone (il legno è prezioso), costruite riciclando scatoloni.
Le stesse che il sacerdote utilizza quando va all’obitorio dell’ospedale della capitale, ogni giovedì, per donare un funerale ai tanti cadaveri lì abbandonati. Morti di nessuno che vengono pietosamente sottratti alla fossa comune, e portati fuori città, su una collina che funge da cimitero, punteggiata di croci bianche senza nome.

Uragani e mancanza di cibo

«I morti hanno sempre torto», dice un proverbio haitiano. Qui, ad aver il torto di essere nati nel paese più povero e instabile delle Americhe, sono in tanti, soprattutto bambini.
Uno su nove non arriva ai cinque anni, muore di malattie in Europa facilmente curabili. E alle difficoltà di sopravvivenza quotidiana si aggiunge, spesso, anche la violenza della natura: verso la fine del 2008 Haiti è stata sconquassata da Fay, Gustav e Hanna, tre uragani che hanno provocato centinaia di morti  e ingenti danni a una terra già di per sé esausta, incapace di produrre il necessario per i suoi circa 10 milioni di abitanti (con un’aspettativa di vita intorno a 53 anni), la metà dei quali vive con meno di un dollaro al giorno.
Non a caso, nell’aprile dello scorso anno il rincaro del riso ha avuto ripercussioni tali da provocare scontri e morti, e da causare le dimissioni del primo ministro Jacques-Edouard Alexis.
Come denuncia Amnesty Inteational nell’ultimo rapporto sul paese, carenza di cibo, disoccupazione cronica e disastri naturali hanno esacerbato povertà e marginalizzazione, mettendo a rischio diritti minimi essenziali quali casa, sanità e istruzione (secondo fonti ufficiali il 40% della popolazione non ha accesso ad acqua pulita o a sistemi fognari). 
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha nominato l’ex presidente americano Bill Clinton suo inviato speciale per Haiti. Clinton – ha detto il capo dell’Onu – aiuterà Haiti a riprendersi dopo una serie di gravi uragani e di instabilità. Clinton aveva accompagnato Ban in una visita nel paese all’inizio del 2009.

Il passionista dei bambini

La situazione la conosce bene padre Richard Frechette, semplicemente padre Rick, come lo chiamano tutti. Cinquantacinque anni, sacerdote e medico, da oltre 20 vive e lavora qui in prima linea per l’organizzazione umanitaria Nph, Nuestros Pequeños Hermanos (Nostri piccoli fratelli), fondata nel 1954 da padre William Wasson (1923-2006), sempre dedito, nella sua vita, ai bambini più bisognosi e agli orfani, in particolare nelle aree di maggior emarginazione  dell’America centrale e meridionale.
«Sono stato ordinato nel 1979 presso il monastero dei Passionisti a New York – racconta padre Rick – e ho deciso di vivere la mia chiamata servendo il Signore attraverso l’opera grandiosa di William Wasson, ad Haiti, dove, nella sofferenza e nella miseria di questa popolazione, ma soprattutto in quella dei bambini, ogni giorno contemplo la passione di Cristo».
«Dopo poco tempo trascorso ad Haiti, decisi di rientrare a New York perché sentivo la necessità di studiare per diventare chirurgo, e rendermi ancor più utile nel concreto.
Nel 1987 terminai  i miei studi e la specializzazione e tornai qui. Da allora opero in questi luoghi come prete e come medico».
Una forza della natura questo atletico e instancabile statunitense del Connecticut, che precedentemente ha maturato esperienza lavorando anche come parroco a Baltimora, a New York con i rifugiati cubani, e per cinque anni in Honduras. Ma a colpirlo profondamente, a segnarlo, è l’esperienza ad Haiti.

Quasi un supereroe

Fisico possente, mascella squadrata, potrebbe sembrar uscito da un film di cowboy o apparire come un supereroe, ma non dei fumetti, bensì di una delle realtà più tragiche dei nostri tempi. «Uno dei primi modi in cui la povertà di Haiti è manifestata a noi, nel suo aspetto più drammatico – ricorda il sacerdote – è stata la moltitudine di bambini abbandonati alle porte del nostro orfanotrofio, nel 1987, quando abbiamo aperto la prima clinica.
Non avevamo i mezzi per offrire a tutti quei moribondi la salvezza, e infatti la prima clinica servì ad assistere i bimbi in una morte dignitosa e non per offrire loro una speranza di vita. Presto, comunque, risultò evidente che la maggior parte di quei bambini non sarebbe morta se solo ci fosse stato un posto dove curarli nel modo adeguato».
Il 4 dicembre 2006 segna una data importante in questo percorso: viene inaugurato l’ospedale pediatrico Saint Damien: un unicum nel paese, in grado di assistere gratis 40 mila bambini all’anno, nato nel giro di tre anni grazie ai fondi raccolti dalla Fondazione Rava, che rappresenta in Italia Nph (www.nphitalia.org).
Ogni mattina, già alle 6.30, davanti ai cancelli del St. Damien ci sono tante mamme che sperano di salvare le proprie creature. La struttura è all’avanguardia, offre stanze linde con 350 posti, pronte ad accogliere i piccoli malati, affetti soprattutto da malnutrizione, anemia, meningite, Tbc, Aids. Ci sono anche due nuove sale operatorie, già in funzione, volte anche a potenziare la chirurgia pediatrica sull’isola.
Un altro fiore all’occhiello è la Casa dei piccoli Angeli, aperta lo scorso dicembre, dedicata ai bimbi con handicap fisici e mentali.  Grandi e importanti successi che non fermano il prete «maratoneta» (ha scalato l’Aconcagua per raccogliere fondi per Nph e quando può partecipa alla maratona di New York per dar voce ai suoi bambini): corre in continuazione, padre Rick, tutto il giorno, parlando ora francese, ora inglese, ora creolo, occupandosi di mille aspetti contemporaneamente, ma al tempo stesso infondendo una grande calma.
I suoi occhi sono sempre attenti, vigili. Si capisce che, mentre spiega e racconta, sta pensando alle tante cose da fare, ma riesce ad essere chiaro e a fornire, con poche, precise parole, un quadro della difficile situazione: «Qui il primo problema è rappresentato dalla fame e dalla malnutrizione. A ciò si va ad aggiungere l’impossibilità di accesso alle cure per molti, unita all’assenza di lavoro.
Il paese è provato da una situazione pesante, un’emergenza tristemente continua e c’è necessità di trovare un equilibrio dopo tante tragedie. Bisogna creare delle infrastrutture, dalle strade a tutto ciò che serve per consentire e sostenere lo sviluppo del paese. Ma occorrono anche strutture morali, a partire da un sistema di giustizia che funziona».

Bidonville: incrocio
di tutti i traffici

Si comprendono ancor meglio le sue parole andando in uno dei gironi infeali dove il sacerdote quotidianamente opera: si parte alla volta della bidonville Cité Soleil.
Polvere, fumo, odore acre di pattume bruciato che si mescola al fetore delle fogne a cielo aperto e a quello di montagne di rifiuti; un maiale rovista in un ammasso di immondizia, un bimbo nudo si lava tra le baracche, con i piedi immersi nella melma.
Qui persino le forze dell’ordine hanno paura ad entrare, e i Caschi blu vengono solo se ben armati.  La missione delle Nazioni Unite è stata rinnovata lo scorso ottobre per il quindo anno consecutivo.
Ma con padre Rick presente, le guardie del corpo non servono:  è lui il salvacondotto. A lui non torcono un capello neppure i capi delle gang che qui dettano legge, gestendo il mercato della droga in transito dalla Colombia verso gli Usa, delle armi e dei rapimenti, purtroppo sempre più frequenti e con vittime i bambini,  spesso resi possibili dal coinvolgimento di poliziotti corrotti. «La violenza che nasce dalla disperazione». Così la definisce il sacerdote.
Lui stesso, qualche tempo fa, è stato aggredito: volevano rapirlo, ma quando l’hanno riconosciuto l’hanno pregato di non far parola dell’episodio: se i boss l’avessero saputo, gli autori del gesto l’avrebbero pagata cara.
Qui e nelle altre zone a rischio della capitale, infatti, padre Rick è rispettato da tutti: è riuscito a creare 17 scuole di strada, sottraendo oltre 3mila bambini al giro della prostituzione, della droga e del lavoro minorile, offrendo un’istruzione di base che permetta di imparare un mestiere, e dando lavoro a circa 80 insegnanti, molti dei quali provengono dalla casa orfanotrofio Nph di Kenscoff.
Ha organizzato delle cliniche mobili, per fornire soccorso ai bambini e alle loro famiglie e portare i casi più gravi in ospedale, e con l’auto cisterna distribuisce gratuitamente acqua potabile a circa 2.000 persone. Sta anche mettendo in piedi il progetto mateità sicura, nella bidonville Wharf Jeremy, per garantire assistenza alle donne in gravidanza, spesso giovanissime e impreparate, e ai neonati, per i quali vuole allestire delle sale al St. Damien, mirate alla degenza post parto cesareo e alla terapia intensiva neonatale.

un popolo con
Una grande umanità

Risultati davvero importanti in condizioni di degrado così forte, e ancor più evidente, nella sua crudezza, quando la luce inizia a calare  e il fumo dei falò di spazzatura rende i contorni delle cose e delle persone meno nitidi. La strada diventa tutto un brulichio di voci, risa, traffico, con una miriade di bancarelle che, illuminate dalle fiammelle delle candele, paiono tanti piccoli altari pagani.
Mentre si incrocia un blindato dei Caschi blu, ad attirare l’attenzione è un cartellone pubblicitario su cui campeggia la foto di una donna, con la scritta «M’ap denonce kidnappé» (denuncerò i rapimenti).
La sensazione di impotenza e di sconforto si alterna al desiderio di speranza, anche in chi vede la situazione dall’esterno, e ne viene colpito e travolto, inesorabilmente. Sono ancora le parole di Rick Frechette a offrire un ulteriore spunto di riflessione: «La gente qui ha un’enorme capacità di soffrire, ma anche di reagire e di andare avanti. Ho visto, in tante situazioni tragiche, difficili,  una creatività veramente impressionante. Sono persone con incredibili qualità.
Lo constato ogni giorno, anche in tutti coloro che lavorano con me: sono seri, onesti, fedeli, lavoratori, dotati di grande umanità. E non posso non pensare alle madri che ogni giorno, affrontando difficoltà di ogni genere, vengono qui all’ospedale per cercare di salvare i loro bambini, e stanno loro accanto con un affetto e una dedizione commoventi.
Queste sono qualità enormi. Cosa ci vorrebbe per cambiare la situazione nel paese? Non lo so, forse un miracolo! Ma credo che ci siano molte iniziative e segnali per iniziare a migliorare».
Piccoli grandi miracoli, uno per volta, in questo paese complesso, di contrasti, che rimane nel cuore. Come padre Rick insegna e dimostra, ogni giorno. 

Di Paola Babich

Paola Babich




Il sistema è giusto: mercato sì, stato no

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 1 / Incontro con l’ex ministro Domingo Cavallo

A Buenos Aires, abbiamo incontrato Domingo Felipe Cavallo, economista di scuola neoliberista, plurilaureato, per tre volte ministro dell’Argentina. In questa intervista, Cavallo difende le scelte fatte nel suo passato di ministro, attacca i politici di oggi e conferma la validità delle tesi economiche neoliberiste, che mettono il libero mercato al centro di tutto. Nelle sue risposte non manca neppure qualche riferimento
ai bonos dello stato argentino, tristemente famosi anche tra migliaia
di risparmiatori italiani…

Vuoi ascoltare il reportage?
Un resoconto audio di questo incontro è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it. sezione “Ascolta”.
La trasmissione fa parte del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America»,
trasmesso dall’emittente Radio Flash di Torino e curato da Paolo Moiola.


Buenos Aires. Sui giornali si parla dell’ultimo libro di Domingo Felipe Cavallo. Proprio lui: l’ex ministro dell’economia divenuto famoso, nel bene e nel male, prima (1991) per la legge che istituiva la parità tra la valuta argentina e il dollaro statunitense e poi (2001) per aver bloccato nelle banche i soldi di tutta una nazione. Scriviamo al suo blog per chiedere un incontro. Qualche ora dopo siamo contattati dal solerte ufficio stampa che ci invita per il tardo pomeriggio nella sua casa alla Recoleta, uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires.
L’indirizzo al quale dobbiamo presentarci corrisponde a quello di una elegante villa.
Ci apre e ci dà il benvenuto un collaboratore del padrone di casa. Dopo pochi minuti veniamo accompagnati al primo piano. Entriamo in uno studio alle cui pareti fanno bella mostra di sé i diplomi di laurea di svariate università del mondo, tra cui ben 3 italiane: Bologna, Genova e Torino.
«Sono quasi tutte lauree honoris causa – ci spiega il nostro ospite appena entrato nello studio -. Quelle guadagnate sul campo – ce le indica con un cenno della mano – sono appese lì: Università di Harvard e Università di Cordoba».
Di ascendenze piemontesi, Domingo Felipe Cavallo è un personaggio che ha segnato – e non c’è timore di smentita al riguardo – la storia recente dell’Argentina e sul cui operato ancora oggi il dibattito è accesissimo, anche se i giudizi negativi o molto negativi sembrerebbero prevalere.
Faccia sveglia, voce decisa e squillante, modi cortesi, l’ex ministro ci fa sedere davanti alla sua scrivania, carica di libri e di qualche oggetto ricordo, come una statuetta del «toro rampante» simbolo della città di Torino.

Da Carlos Menem
a Feando De la Rúa

Dottor Cavallo, lei è un professore di economia, ma è diventato famoso come politico. Come preferisce essere chiamato?
«Sono prima di tutto un economista, attivo in ambito accademico».

La sua fama è però dovuta ai suoi periodi come ministro di questo paese. Qual è il suo consuntivo?
«Con De la Rúa non andò bene, soprattutto perché, all’epoca, ci fu molta gente che mi incolpò di tutti i mali dell’Argentina.
Però, con Menem – prima come ministro degli esteri e poi come ministro dell’economia – ho favorito un cambio che era assolutamente necessario per l’Argentina.
Con Menem fu un periodo di grandi riforme, in politica estera e in materia di organizzazione del sistema economico argentino. Con De la Rúa fu un periodo di crisi, dovuto a circostanze inteazionali sfavorevoli e con il paese che aveva accumulato una serie di problemi, che condizionarono molto il modo di affrontare la situazione. Inoltre, con la coalizione De la Rúa la mia posizione era molto debole, mentre con Menem fu il contrario, perché la sua coalizione di centrodestra appoggiava compattamente le riforme che si volevano introdurre.
Visto in prospettiva storica, il mio lavoro ha prodotto buoni risultati».

Lei parla con orgoglio del suo (lungo) periodo come ministro dell’economia durante la presidenza di Carlos Menem. Quali considera i suoi successi?
«È abbastanza semplice. Con Menem passammo da un’economia chiusa al mondo ad un’economia aperta con investimenti, commercio, buone relazioni inteazionali. Prima avevamo problemi non soltanto con la Gran Bretagna (per le Malvinas), ma anche con il Brasile, il Paraguay, la Bolivia, il Cile. Risolvemmo tutti questi conflitti. L’Argentina si integrò al mondo e questo fu il primo grande cambio.
Il secondo fu l’eliminazione dell’inflazione che era un problema cronico del paese e ultimamente si era trasformata in iperinflazione. Fino al 5.000 per cento all’anno! Dal 1991 in avanti inaugurammo un periodo di stabilità, simile alla stabilità europea e nordamericana, che durò 11 anni, precisamente fino al 2001.
Questi successi economici furono possibili anche perché avevo preparato il terreno durante l’anno e mezzo come ministro degli esteri».

Oggi un dollaro Usa vale oltre 3,5 pesos. All’epoca di Menem, la misura più famosa fu la parità cambiaria tra dollaro Usa e peso argentino. È ancora convinto della giustezza di quella decisione?
«Naturalmente sono convinto della sua giustezza! Ma è improprio spiegarla con l’equivalenza – 1 a 1 -del peso con il dollaro. La convertibilità consisteva nel fatto che gli argentini potevano convertire liberamente il peso in altre monete e utilizzare liberamente nei contratti e nelle transazioni la moneta che volevano. La parità del peso con il dollaro durò 11 anni, ma doveva terminare prima.  Infatti, quando nel 2001  entrai nel governo De la Rúa cercai di formalizzare un paniere monetario in cui entrasse anche l’euro. Ma ormai era tardi».

È abbastanza naturale chiedersi come si può avere una moneta nazionale di valore identico al dollaro (o altra valuta) quando un’economia è molto più debole dell’altra…
«Questo non ha niente a che vedere, perché la moneta è una convenzione. Non c’entra nulla con i livelli di produttività di un paese. Comunque, la convertibilità non avrebbe dovuto essere abbandonata.   Avendolo fatto, oggi l’Argentina si ritrova con un’inflazione annuale che supera il 20 per cento».

L’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec) parla di un’inflazione ben inferiore…
 «È una delle tante barbarie commesse da questo governo. Ha distrutto quel prestigioso istituto, mettendolo in mano a funzionari che invece di fare statistiche corrette mentono per nascondere l’inflazione».

La crisi delle banche di questi mesi fa ricordare la crisi argentina del 2001, quando lei introdusse una misura altamente impopolare conosciuta come corralito. Ci furono manifestazioni di piazza e gli istituti di credito erano sotto assedio…
«Il corralito fu una misura necessaria per frenare la corsa al ritiro dei depositi bancari. Precisiamo una cosa, però: la gente non poteva ritirare il contante, ma poteva disporre dei propri risparmi con altri strumenti, come carte di debito, assegni, trasferimenti bancari. Sarebbe stato peggio se si fossero chiuse le banche. Poi, Duhalde e i suoi fecero cadere il governo di De la Rúa e instaurarono il corralón con l’obiettivo di appropriarsi del risparmio della gente, per alleggerire il debito pubblico e soprattutto quello privato dei grandi gruppi economici».

Può spiegarci in parole semplici in cosa si tradusse praticamente il corralón introdotto dal governo di Duhalde?
«Con la pesificazione dei depositi e la svalutazione del peso rubarono ai risparmiatori per avvantaggiare i grandi gruppi industriali, tra cui i principali gruppi editoriali del paese, che per questo tornaconto si prestarono all’operazione del governo, confondendo l’opinione pubblica e demonizzando il sottoscritto». 

Lei si riferisce al gruppo che fa capo al Clarín (il più grande quotidiano argentino, ndr)?
«Preferisco non fare nomi».

Quelle decisioni influirono anche sui bonos (bonds, in inglese, ndr) dello stato che erano stati venduti in tutto il mondo, in primis in Italia?
«Certo. Rubarono non soltanto agli argentini, ma a tutti quegli stranieri  che avevano confidato nell’Argentina. Insomma, agli italiani o agli altri stranieri che avevano investito i loro risparmi in bonos argentini decisero di restituire soltanto il 30 per cento del valore. Queste ragioni economiche furono il vero motivo del golpe istituzionale del dicembre 2001».

È difficile capire come mai un paese tanto ricco come l’Argentina abbia conosciuto (e conosca) la povertà…
«Inizialmente perché, dal 1940 agli anni Novanta, l’Argentina si isolò dal mondo. C’erano bassi salari e il loro valore era deteriorato dall’inflazione, che è il metodo ideale per fabbricare poveri. Con le riforme che noi facemmo nella decade del Novanta il panorama cambiò molto e in positivo.
Dal 1998 la povertà aumentò di nuovo, raggiungendo il massimo nel 2002, dopo la svalutazione di Duhalde. Poi si abbassò per fattori inteazionali, come il boom dei prezzi della soia, di cui l’Argentina è una grande esportatrice. Il problema è che il governo cominciò a distribuire i maggiori introiti non per investimenti produttivi o per occupare la gente, ma per motivi patealistici. Nestor Kirchner guadagnò in popolarità e riuscì anche a far eleggere la moglie come presidenta degli argentini. Adesso però la situazione è di nuovo grave, perché abbiamo recessione con inflazione».

Lei è conosciuto come uno strenuo neoliberista. Volendo essere sintetici, possiamo dire che le parole d’ordine del neoliberismo sono: molto mercato e poco stato?
«Guardi, questi non sono termini adeguati. Le economie possono essere di due tipi: o economie aperte (come sono quasi tutte le economie del mondo, Cina inclusa) o economie dove interviene lo stato. Per le prime non si può parlare di neoliberismo o liberismo, si tratta di economie di mercato, aperte, competitive, integrate al mondo, che cercano la stabilità dei prezzi, perché considerano che inflazione e deflazione siano eventi negativi per il funzionamento dell’economia.
Poi ci sono economie in cui lo stato – in maniera arbitraria ed imprevedibile – senza stabilire regole del gioco, ma attraverso decisioni autoritarie, tende a prendere la maggior parte delle decisioni economiche. Un caso estremo, storicamente finito, è stato quello del comunismo della Russia e della Cina all’epoca di Mao.
Sfortunatamente hanno adottato questo sistema dell’economia di stato molti paesi arretrati del mondo, tra cui molti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Cuba (che è stata la prima). E purtroppo anche l’Argentina, che va nella direzione dello statalismo e dell’economia chiusa, invece di seguire l’esempio di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e della maggior parte dei paesi centroamericani.
Riassumendo senza andare troppo lontani: in America Latina ci sono due classi di paesi. Quelli che avanzano verso il futuro e  quelli che stanno tornando al passato con il protezionismo e l’isolamento».

Lei è molto critico verso il suo paese e in particolare verso la gestione dei Kirchner. Perché?
«In primis, è compito dello stato fissare le regole del gioco dell’economia; quindi, occorre creare un regime monetario e farlo funzionare. In Argentina, oggi non si sa come si determina il valore della moneta e nessuno può trattare liberamente valute straniere (se non nei limiti fissati dal Banco centrale). Nessuno poi ha fiducia nella moneta nazionale, perché abbiamo un’inflazione annua del 20 per cento. In tutto questo lo stato argentino è assente. Come è assente nella difesa del diritto di proprietà. Così è stato, nel 2002,  per i risparmiatori argentini e per i detentori stranieri, in primis italiani, dei bonos, i titoli pubblici. Lo stato è dunque assente in una questione fondamentale.
 Al contrario, lo stato si intromette nelle decisioni di investimento delle imprese private, imponendo tasse distorsive ad un soggetto per favorire un altro. Questo tipo di statismo crea occasioni di corruzione e di privilegio. Purtroppo, è la filosofia che si sta imponendo in Argentina».
   
Secondo lei, cosa deve fare uno stato?
«Lo stato deve finanziare la scuola primaria e secondaria e buona parte dell’università. Deve provvedere un’assicurazione sanitaria a tutti i cittadini. Deve organizzare un sistema pensionistico e contro la disoccupazione. E soprattutto deve offrire ai cittadini un sistema di sicurezza, perché uno stato dove c’è crimine, si ruba e si uccide, dove non hai sicurezza fisica, è uno stato che non esiste.
Queste sono le funzioni su cui uno stato dovrebbe concentrarsi. Quando invece vuole sostituirsi al soggetto privato nelle decisioni economiche, sbaglia».
Ai tempi di Carlos Menem, in questo paese si privatizzò di tutto. Le privatizzazioni sono uno strumento adeguato?
«Dipende da ciò che si privatizza. Responsabilità dello stato è di finanziare un sistema di salute. Poi le prestazioni sanitarie possono essere foite dal pubblico o dai privati. Se lo stato proibisse di avere ospedali privati, commetterebbe un gravissimo errore, perché in genere questi offrono livelli di prestazioni migliori rispetto agli ospedali pubblici. La competizione tra pubblico e privato è importante. L’importante è che la popolazione abbia una copertura sanitaria.
Identicamente per l’istruzione: ci sono scuole pubbliche e scuole private. Quella pubblica è finanziata dallo stato, mentre quella privata può avere dei contributi se tiene basse le rette d’ingresso».

In Argentina, esiste una tradizione pubblica sia per il sistema educativo che per il sistema sanitario. Peccato che per scuole ed ospedali manchino sempre i fondi…
«Perché si stanno spendendo 10 mila milioni di dollari all’anno per sussidiare il trasporto urbano, l’energia, una marea di attività, indipendentemente dal costo di produzione. Sottraendo risorse finanziarie alla salute, all’educazione, alla sicurezza. C’è un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche, cosa che non accadde nel decennio degli anni Novanta, quando lo stato si concentrò sui propri compiti fondamentali.
All’epoca, chi fece investimenti nei trasporti, nell’elettricità, nella comunicazione, nel petrolio? Il settore privato. Per questo vennero molti investitori dall’estero.
Dal 2002 non ci sono più stati investimenti e lo stato ha dovuto iniziare a costruire centrali elettriche, a sovvenzionare le perforazioni per il gas. Intervenendo sempre in maniera inefficiente ed ingiusta in settori che dovrebbero essere di competenza del mercato e dell’economia privata. Se non fosse intervenuto, oggi avrebbe molte più risorse da destinare alla salute, alla sicurezza, alla giustizia».

Dottor Cavallo, dal settembre 2008 paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno intervenendo massicciamente nell’economia. Questo è un dato di fatto innegabile…
«Sì, sta avvenendo, ma non ha niente a che vedere con un cambio di organizzazione economica, di sistema. Semplicemente, quando c’è una recessione è ovvio che lo stato debba tentare di aumentare la domanda effettiva attraverso l’applicazione di politiche fiscali e monetarie».

Se non si tratta di una revisione de facto del capitalismo, si tratta però di politiche  keynesiane, fino a poco tempo fa neglette dalla maggioranza degli economisti e dei governi…
«Quando le politiche keynesiane sono buone? Lo sono quando, in momenti di auge, di boom, sono ristrettive mentre sono espansive in momenti di recessione. Sono politiche compensatorie rispetto al ciclo economico.
Sfortunatamente quelli che si fanno chiamare keynesiani (e che io chiamo invece statalisti-populisti) applicano in periodi di boom politiche espansive, accumulando debiti invece che avanzi di bilancio con quelle fiscali, e producendo inflazione con quelle monetarie. Quando arriva la recessione, ovvero il momento in cui dovrebbero applicare politiche espansive, non le possono applicare, perché non hanno più credito e non possono creare moneta per non alimentare altra inflazione.
Oggi nel mondo – in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Messico, Cile – è ragionevole che lo stato finanzi aumenti della spesa pubblica, diminuzione delle imposte e allentamento delle politiche monetarie. Ma non da parte di quei paesi che lo hanno fatto in periodi di boom, quando le politiche avrebbero dovuto essere di segno opposto. Ebbene, oggi questi paesi non possono affrontare la recessione, perché non hanno credito e hanno troppa inflazione. Ad esempio, Argentina e Venezuela, per rimanere qui in America Latina».

Dottor Cavallo, non ci ha spiegato le cause che, secondo lei, hanno prodotto questa crisi…
«Per le stesse ragioni per cui si sono prodotte le crisi finanziarie. Per un eccesso di ottimismo, soprattutto da parte dei banchieri.
Il mondo lo supererà in uno o due anni. Per l’Argentina sarà più lungo recuperare per colpa dell’attuale governo».

Nessun potere pubblico ha controllato le banche, il sistema finanziario, gli intermediari, gli speculatori…
«Sì, è mancata una regolazione.  Si doveva chiedere alle banche e agli intermediari finanziari di essere molto più conservatori di quanto non siano stati, pretendendo dai clienti maggiori garanzie, tassi più alti, periodi di credito meno lunghi.  Insomma, essere meno generosi. Però, in epoche di ottimismo generalizzato, i politici non vanno a porre freni alle banche. Al contrario, le spingono. Com’è successo negli Stati Uniti: gli stessi politici che oggi criticano, ieri spingevano il sistema ad offrire più credito e condizioni più favorevoli per comprare case. Insomma, in questo gioco di assegnare responsabilità per la crisi finanziaria, c’è moltissa ipocrisia».

Lei cosa dice ai suoi studenti di economia?
«Che studino. Che guardino alla storia e alla geografia. L’economia non si può studiare come una cosa matematica. È una materia sociale, complessa, in cui occorre guardare all’uomo nel suo contesto storico e geografico».

Corsi, conferenze, libri. Significa che lei non toerà più alla politica attiva?
«No, non vedo alcuna possibilità di tornare alla politica. Almeno per il momento». 

Di Paolo Moiola         

Domingo Cavallo,
ascesa e caduta di un profeta del neoliberismo     

1946, 21 luglio – Nasce a San Francisco, nella provincia di Córdoba.

1967-1977 – Si laurea in economia prima all’Universidad Nacional de Córdoba e successivamente all’Università di Harvard (PhD in Economics), negli Stati Uniti.

1978-1987 – È fondatore e direttore dell’«Instituto de Estudios económicos de la Fundación Mediterránea».

1982 – Viene designato presidente del «Banco Central de la República argentina».

1987 – Alle elezioni viene eletto deputato nazionale per provincia di Córdoba nelle fila peroniste.

1989-1991 – Il presidente Carlos Menem lo nomina ministro degli esteri, incarico che ricopre per circa un anno e mezzo.

1991-1996 – Sono gli anni – quasi 6 – come ministro (superministro) dell’economia del governo Menem.

1991, 27 marzo – Come nuovo ministro dell’economia fa votare la «ley de convertibilidad», in base alla quale si stabilisce un cambio fisso tra il dollaro Usa e la valuta nazionale (prima l’austral, poi il peso, la nuova moneta argentina). Inizia il periodo conosciuto come «el uno a uno». La legge rimane in vigore per oltre 10 anni azzerando l’inflazione ma producendo effetti alla lunga devastanti sul sistema industriale del paese.

1991, ottobre/novembre – Il governo Menem-Cavallo vara un programma di privatizzazioni, deregolazione economica e di flessibilizzazione del lavoro.

1997 –  Crea una propria formazione politica, «Acción por la República», e si candida come deputato, risultando eletto.

1999, novembre –  Si candida alla presidenza, ottenendo 2 milioni di voti e arrivando al terzo posto. Viene nominato presidente Feando De la Rúa.

2001, marzo – Il nuovo presidente Feando de la Rúa lo nomina ministro dell’economia.

30 novembre 2001 – Annuncia il «corralito», misura in base alla quale vengono stabilite severissime restrizioni al prelevamento di denaro dai depositi bancari. La misura produce una ribellione generalizzata, con manifestazioni di piazza («cacerolazos»).

19 dicembre 2001 – Dopo violente proteste di piazza si dimette da ministro. Il giorno dopo si dimette anche il presidente De la Rúa, che fugge ignominiosamente in elicottero dalla Casa Rosada.

2002-ad oggi – Professore visitante in alcune università degli Usa, si dedica alla pubblicazione di libri. E tiene conferenze in giro per il mondo.

FONTI: Domingo Cavallo con Juan Carlos de Pablo, Pasion por crear, Editorial Planeta, Buenos Aires 2001; per altre informazioni legate all’attualità si vada sul blog personale del protagonista: www.cavallo.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il sistema è sbagliato: meno mercato, più solidarietà

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 2 / Incontro con i lavoratori dell’Hotel Bauen

Negli anni Novanta e successivamente allo scoppio della crisi, sotto lo sguardo del mondo finanziario internazionale (prima vestale, poi arpia), centinaia
di fabbriche argentine chiusero i battenti, buttando sulla strada migliaia
di persone con le rispettive famiglie.  Molte non si ripresero più, altre cercarono occupazioni diverse, altre ancora attesero tempi migliori. Una importante minoranza si ribellò al sistema e rimise in attività le imprese abbandonate dai proprietari. Nacque allora il fenomeno delle «fabbriche recuperate».
L’Hotel Bauen ed i suoi lavoratori sono protagonisti di una di quelle storie…

Buenos Aires. A poche centinaia di metri dal Congresso, affacciato sulla centrale Avenida Callao, sorge un palazzo di venti piani, tutto vetro e metallo verde scuro.  Quel palazzo ospita l’Hotel Bauen.
Entriamo in una hall spaziosa, elegante senza essere sfarzosa. Sulla parete che separa il bancone della reception dalla caffetteria è appesa una targa, molto sobria, che ricorda una tappa fondamentale nella storia recente di questo hotel. Leggiamo: «Empresa recuperada por sus trabajadores, 20 de marzo de 2003». Insomma, l’Hotel Bauen è un’impresa chiusa dai proprietari e riaperta dai lavoratori licenziati. Un avvenimento inconsueto nel mondo, ma abbastanza diffuso nell’Argentina post-2001.
Sotto la targa storica sta un quadro che raccoglie poesie di Juan Gelman, poeta e giornalista nato a Buenos Aires. Le liriche di Gelman sono una scelta azzeccata, non soltanto per la loro intrinseca bellezza, ma anche perché l’autore è stato una vittima della dittatura militare.
L’Hotel Bauen fu costruito sotto gli auspici di quel regime. Correva l’anno 1978 e la giunta militare argentina aveva organizzato i Campionati mondiali di calcio, come vetrina per legittimarsi agli occhi (colpevolmente distratti) del mondo. Un impresario vicino ai militari, Marcelo Iurcovich, approfittò delle proprie amicizie politiche e del momento favorevole per ottenere un prestito (mai più restituito) da una banca statale (Banco nacional de desarrollo, Banade) con il quale costruire l’hotel. Questo assunse il nome di Bauen, dall’acronimo della impresa del signor Iurcovich (Buenos Aires Una Empresa Nacional, Bauen). 
Venduto ad un gruppo cileno, a fine dicembre 2001, nel pieno della crisi economica argentina, il Bauen chiuse per fallimento. Ma qualcuno degli oltre 100 lavoratori gettati sulla strada non si arrese…

Come si lavora senza…
padroni
Marcelo Ruarte, un uomo distinto e con la barba grigia tenuta a pizzetto, è uno di loro. Ci accoglie in una stanza luminosa tappezzata di manifesti. Alcuni ricordano momenti della storia del Bauen e di altre imprese recuperate; altri ritraggono personaggi del presente (Hugo Chávez, Evo Morales, Fidel Castro) e del passato (Che Guevara).

Marcelo, all’entrata abbiamo letto una targa che celebra la nascita del nuovo Bauen. Ma l’inizio è stato un altro…
«Il Bauen fu propiziato dalla dittatura durante i mondiali di calcio. La manifestazione sportiva faceva parte di una strategia dei militari per far dimenticare la repressione e la tortura».

La storia di questo hotel ha avuto parecchi momenti drammatici…
«Quando il 28 dicembre del 2001 l’hotel chiuse: erano 21 anni che lavoravo nel Bauen. Il 21 marzo del 2003 occupammo l’hotel con l’aiuto del “Movimento delle fabbriche recuperate”, il cui slogan era “occupare, resistere, produrre”. Fu molto dura. Nessuno di noi era un militante. Eravamo lavoratori imprigionati da meccanismi che venivano da fuori: il neoliberismo, la globalizzazione. Una politica selvaggia e crudele che i nostri governanti adottarono a scatola chiusa».

Il Bauen ha quasi 200 camere e 500 posti letto… Riuscite ad essere competitivi sul mercato?
«A Buenos Aires ci sono le grandi catene alberghiere che hanno un altro progetto e un altro target. Noi dobbiamo fare leva sulla nostra storia di impresa recuperata».

In Argentina, le imprese recuperate sono oltre 200. Possiamo parlare di  una storia di successo?
«A noi va bene. Ma non è così per tutte le imprese recuperate. Il compagno che deve produrre un bene deve pagare le materie prime e non è facile se non ottieni credito sul mercato capitalista.
Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa».
Nel Bauen oggi lavorano 150 persone, riunite in cornoperativa di lavoro. È una impresa senza padroni, come dite orgogliosamente. I rapporti tra voi lavoratori come sono?
    «Non tutto funziona. Quando ci sono le assemblee, ci sono compagni che dicono: “io sono padrone di questo”. Inoltre, molti, nella quotidianità, non fanno il loro lavoro e il collega deve lavorare anche per lui.
Perché accade questo? È un problema di cultura del lavoro che si è instillata in molti: secondo costoro, niente si poteva fare senza padrone. Invece, il Bauen è la dimostrazione che si può fare e che si può fare addirittura senza capitale, se c’è la volontà. In questi tempi (e non sto parlando di Argentina) non c’è altro modo per riuscire».

Le imprese recuperate sono nate all’epoca della crisi argentina. Con le due presidenze Kirchner, prima Nestor ed ora Cristina, le cose sono migliorate?
«Le imprese recuperate nascono dalla caduta di De la Rúa, quando il presidente scappò in elicottero. Il governo di Kirchner non è il governo di Menem o il governo della dittatura, ma la legge di espropriazione non è ancora stata approvata (ha passato una sola commissione su 3).  Però noi siamo ancora qui e abbiamo dimostrato di saper generare occupazione e capitale».

Oggi il Bauen è un punto di riferimento anche per molti altri lavoratori, giusto?
«Sì, cerchiamo di aiutare. Per esempio, quando arriva un compagno a dire:  “non ci stanno pagando”, “vogliono portare via i mezzi di produzione”…, noi gli suggeriamo di… “aggrapparsi ai macchinari”. Perché spesso occorre una soluzione immediata e concreta. Non la burocrazia dei politici o la complicità dei sindacalisti».

Quando si parla di occupazione e di espropri, si corre il rischio di incappare nei rigori della legge, che salvaguarda sempre il diritto di proprietà privata. È stato così anche nel vostro caso?
«Infatti, noi non siamo titolari dell’immobile: davanti alla legge siamo illegali. Per questo chiediamo allo stato che diventi proprietario di questo edificio e ci permetta di continuare con i nostri progetti. Abbiamo investito oltre un milione di dollari, ma nelle assemblee qualcuno sempre domanda: perché continuiamo ad investire in un luogo che non è nostro? Adesso, per esempio, stiamo ristrutturando la piscina e l’esterno che, essendo di vetro e metallo, si è ossidato».

Nel luglio del 2007, il tribunale vi ha dato torto. Come spiega questa sconfitta?
«La giudice commerciale Paula Hualde che ha deciso sul Bauen ha fatto esclusivo riferimento alla proprietà privata: secondo la legge, la Mercoteles è la proprietaria dell’immobile. Alla giudice non importa che gli Iurcovich, proprietari della Mercoteles, costruirono l’hotel con i soldi dello stato, con la corruzione, l’amoralità.
Ricordo che, quando eravamo seduti attorno a questo tavolo, lei parlava del diritto alla proprietà privata previsto dalla Costituzione argentina (articolo 17) e noi  rispondavamo con il diritto al lavoro previsto dalla stessa Costituzione (articolo 14)».
A pochi passi da qui, su Avenida Corrientes, c’è il Bauen Suite Hotel appartenente alla Mercoteles della famiglia Iurcovich. Quella del Bauen sembra una telenovela con la famiglia Iurcovich  sempre protagonista…
«Il maggiore creditore del Bauen è lo stato, che prestò il denaro alla famiglia Iurcovich per costruirlo.  Quel credito iniziale, ricevuto dal Banco Banade, di proprietà statale, non fu mai restituito.
Una storia di complicità, corruzione, negligenza. Basti pensare che sono passati 30 anni dalla nascita del Bauen, 30 anni di clandestinità, perché non è mai stato abilitato come hotel!».

Oggi tutto il mondo si dibatte in una crisi economica che sembra una crisi strutturale e non ciclica come nel passato, che pensa al riguardo?
«Penso che la nostra debba essere una lotta per un sistema diverso, distinto da quella capitalista, trasparente, umano. Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa.
Il capitalismo non aveva altro destino se non quello che sta capitando».

E gli Stati Uniti?
«Spero che il presidente Obama abbia la forza e possibilità per agire diversamente dal suo predecessore».

In Argentina, la disoccupazione e la sottoccupazione rimangono alte, ma durante la crisi del 2001 si respirava aria peggiore, no?
«Ma Tucuman e Salta stanno combattendo contro la fame. La fame! E non occorre andare mille chilometri a nord. Basta muoversi qui, in periferia. Ci sono famiglie che sopravvivono nella precarietà. Con i figli che non possono avere un’assistenza medica adeguata perché gli ospedali pubblici sono al collasso, senza farmaci, senza strumenti. E lo stesso dicasi per l’educazione».
Dunque, voi siete fortunati perché almeno avete un lavoro. A casa portate un salario adeguato?
«No, ovviamente non abbiamo un salario sufficiente, ma sono soldi generati dal nostro lavoro, senza padroni. Tutti riceviamo la stessa cifra: circa 400 dollari al mese. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo lavoratori e in quanto tali non possiamo sfruttare altri lavoratori. Dobbiamo salvaguardare la nostra origine. Altrimenti non ha ragione di esistere questa lotta.
Me entiendes?». 

Di Paolo Moiola

Storia dell’Hotel Bauen:
diritto di proprietà Vs diritto al lavoro

1978 – In occasione dei Campionati mondiali di calcio, viene costruito un hotel in Avenida Callao a poche centinaia di metri dal Congresso della Repubblica. L’Hotel assume come nome l’acronimo della impresa – B.A.U.E.N. che sta per «Buenos Aires Una Empresa Nacional» -, guidata da Marcelo Iurcovich, un impresario legato alla dittatura militare.

1997-2001 – L’hotel viene acquistato e gestito dal gruppo Solari, di origine cilena.

2001, 28 dicembre – Il Bauen viene chiuso per fallimento. Oltre 100 lavoratori rimangono senza lavoro.

2003, 21 marzo – Con l’aiuto del «Movimento nazionale delle imprese recuperate» – Movimiento nacional de empresas recuperadas, Mner -, un gruppo di lavoratori del Bauen occupa l’hotel ed inizia il suo recupero.

2004, giugno – Il Bauen viene riaperto al pubblico ed inizia l’attività.

2007, 20 luglio – La giudice commerciale Paula Hualde stabilisce che l’hotel deve essere sgombrato dalla cornoperativa di lavoratori che lo gestisce e deve passare alla società Mercoteles della famiglia Iurcovich.

2008-2009 – Il Bauen continua ad operare sotto la cornoperativa dei lavoratori, mentre la deputata Victoria Donda si è fatta promotrice di una Ley de expropiación (Legge di espropriazione), che affidi definitivamente l’hotel a chi lo ha salvato e dal 2003 lo gestisce.

Fonti: Diego Ruarte, responsabile Prensa trabajadores del Bauen; Elisabet Contrera, Negocio cinco estrellas, pubblicato in 2 puntate – 21 agosto e 22 agosto 2007 – sul quotidiano argentino Página 12.
Sito: www.bauenhotel.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Consumare o essere?

Neoliberismo e pensiero unico / Riflessioni

Il pensiero unico, propagandato dai media, ha magnificato il sistema neoliberista («la follia spacciata per virtù») ed affossato ogni alternativa. Un sistema ingiusto e distruttivo, fondato sul libero mercato
e sul consumo privato, oggi chiede aiuto allo stato. E lo ottiene…

Abbiamo incontrato un economista e un operaio, due persone molto diverse per estrazione sociale, professione e percorso esistenziale.
Quello con Domingo Cavallo (vedi articolo) è stato un incontro con una persona di vasta cultura e preparazione, un fedelissimo dell’economia neoliberista, cioè di un’economia in cui domina il mercato con le sue leggi della domanda e dell’offerta e in cui lo stato deve limitarsi a svolgere poche e definite funzioni, senza interferire con la libera iniziativa dell’individuo. Marcelo Ruarte (vedi articolo), l’altra persona incontrata, è l’esatto contrario: un lavoratore, che ha lottato contro questo sistema neoliberista che, prima della sua ribellione, già lo aveva destinato alla disoccupazione o comunque ad una esistenza ai margini.

Partendo dalle loro risposte e dalle loro esperienze personali abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione sul modello di economia e società che è in crisi profonda. E lo è ben da prima dello scoppio della bolla finanziaria, anche se fino a ieri la follia «era spacciata per virtù».
«Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere». Parafrasando questa lapidaria ma azzeccatissima definizione di Mark Twain, avremmo potuto dire che il libero mercato e i suoi corollari (dogmi di fede, sarebbe più corretto dire) sono perfetti finché c’è espansione economica, mentre non vanno più bene quando c’è recessione. Ma la perifrasi non va bene. Perché la globalizzazione neoliberista in realtà ha funzionato soltanto per una piccola parte dell’umanità, checché ne dicano i commentatori dei giornali mainstream. 
«Nel capitalismo – ha scritto Frei Betto nell’Agenda Latinoamericana (1) -, l’appropriazione individuale, familiare e/o corporativa della ricchezza è un diritto protetto dalla legge. E l’aritmetica e il buon senso insegnano che quando uno si appropria, molti sono espropriati. L’opulenza di pochi dipende dalla povertà di molti. La storia della ricchezza nel capitalismo è una sequenza di guerre, oppressioni colonialiste, saccheggi, furti, invasioni, annessioni, speculazioni».
La crisi globale attuale non è una normale fase del ciclo economico (boom, stagnazione, recessione, ripresa). Non è uno squilibrio passeggero, ma strutturale (2).
«Il fondamentalismo del credo mercantile – ha scritto Paolo Cacciari – porta all’integralismo: non solo ogni oggetto, ma anche ogni creatura della Terra e ogni singolo processo vitale deve avere un padrone, deve essere asservito al processo produttivo, altrimenti il processo produttivo si inceppa» (3).
«Il nostro modello di sviluppo – scrivono Armaroli e Balzani – è fondato sulla circolarità forzata produzione-consumo: si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. Queste devono essere rapidamente consumate per essere sostituite» (4).
Ora è tornato di moda lo stato, reclamato a gran voce. «Negli ultimi trent’anni – ha sintetizzato benissimo il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos (5) -, si è consolidato il consenso attorno all’idea che lo stato è il problema e il mercato la soluzione; che l’attività economica è tanto più efficiente quanto più priva di regole; che i mercati globali sono sempre preferibili al protezionismo; che nazionalizzare è anatema, mentre privatizzare e liberalizzare è la norma. Intrigante è la facilità con cui (…) si passa da un’idea ad un’altra totalmente opposta. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una di queste trasformazioni. All’improvviso lo stato è diventato la soluzione e il mercato il problema». In verità, una delle regole auree di questo capitalismo senza etica è sempre stata quella di «socializzare le perdite» (dopo aver incamerato i profitti – magari nascondendoli in qualche paradiso fiscale -, a danno dei lavoratori, dell’ambiente e della collettività).

Il dottor Domingo Felipe Cavallo e Marcelo Ruarte (e i lavoratori del Bauen) sono la personificazione di due modi opposti di guardare all’economia. Il primo vede nel sistema neoliberista l’unico dei modelli possibili; il secondo – come tanti – ha provato sulla propria pelle l’iniquità e la crudeltà dello stesso. Si è ribellato e ha tentato di percorrere nuove strade. Strade diverse che, dopo essere state a lungo demonizzate e ridicolizzate, l’attuale crisi globale potrebbe anche rivalutare.
«Viviamo in un sistema – scrive il Centro Nuovo modello di sviluppo -, che osanna la ricchezza come scopo di vita. A livello individuale le parole d’ordine sono carriera, eleganza, lusso. A livello di sistema produttivo l’imperativo è crescere, crescere, crescere. Contro ogni logica continuiamo a voler produrre di più e consumare di più. È la follia spacciata per virtù» (6).
L’attuale momento storico offre l’opportunità unica per ripensare il sistema e per operare una scelta di campo tra consumare o essere. Pur nella consapevolezza che il pensiero unico (secondo il quale «non c’è alternativa»), veicolato dalla maggior parte dei mass-media (7), è lungi dall’essere defunto.

Paolo Moiola


Note:
(1)  L’Agenda Latinoamericana 2009 di José Maria Vigil e Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile), è uscita con un titolo che fa storcere il naso (eufemismo) alle persone più tradizionaliste (o meno progressiste): Verso un socialismo nuovo. L’utopia continua.
(2)  Tonino Pea, A recessione estrema, rimedi radicali, settimanale Carta, 3 aprile 2009.
(3)   Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Edizioni Intra Moenia 2006, pagina 62.
(4)  Nicola Armaroli-Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli 2008, pagina 6.
(5)  Riportato in Adista n. 44 del 25 aprile 2009.
(6)  Centro Nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2008.
(7)  C’è qualcuno che non si è mai unito alla vasta platea dei cantori del pensiero unico neoliberista e che oggi potrebbe farsi vanto delle proprie posizioni. Due nomi su tutti, uno italiano e l’altro straniero, con i loro ultimi lavori: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi 2009; Ronald Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino 2009.

Paolo Moiola