«Sono un ribelle permanente»

Incontro con Adolfo Pérez Esquivel

Guerra e pace, economia e neoliberismo, risorse e multinazionali, governi e diritti umani. Tutti temi
su cui il premio Nobel per la pace ha posizioni nette, senza ambiguità. Un personaggio che confida nella forza della fede e della spiritualità. Un personaggio che, con identica sincerità, non ha paura di criticare Barack Obama o elogiare Fidel Castro.


Buenos Aires. Porta gli occhiali ed ha i capelli bianchi «sparati» alla Einstein.
Le pareti del suo ufficio presso la Fundación Servicio Paz y Justicia (Serpaj) dicono molto. Ci sono quadri: «Questa è una tappa della Via Crucis latinoamericana che dipinsi nel 1991»(1). Ci sono foto: immagini storiche e foto di incontri con religiosi e politici di ogni dove. «Qui sono con Fidel Castro, un uomo molto capace e solidale, a dispetto dei forti attacchi che subisce. È uno dei grandi statisti del nostro tempo». Lui si chiama Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace dell’anno 1980. Nato a Buenos Aires nel 1931, professore di architettura, pittore e scultore, Esquivel ha ricevuto il riconoscimento dell’Accademia svedese per la sua lotta durante la dittatura argentina, ma da allora – e sono ormai passati 30 anni – non ha mai smesso di lottare per affermare e difendere i diritti umani nel mondo.

Lei è premio Nobel per la pace come il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Come si sente?
«Sono rimasto sorpreso – risponde con un sorriso -, ma gli ho inviato una lettera di complimenti.
Ho scritto ad Obama che mi aveva sorpreso la sua designazione, ma che ora, in quanto premio Nobel, doveva essere coerente, lavorando e lottando per la pace. Però, lamentabilmente, Obama ha subito una metamorfosi. Ogni giorno di più si sta mimetizzando con George Bush. Non può essere che installi 7 basi militari in Colombia, che concordi con la riattivazione della IV Flotta della marina, che mandi 30.000 soldati in Afghanistan in una guerra persa, aggiungendo morte e dolore alla vita di quelle genti. Inclusa a quella dei soldati Usa e della Nato che tornano morti o irrecuperabili per il resto dell’esistenza.
Queste sono le guerre dei paesi ricchi contro i paesi impoveriti. Sono guerre economiche e per l’appropriazione delle risorse naturali.
Se questa è la politica degli Stati Uniti e di Obama, niente ha a che vedere con la pace. Credo che la pace sia un’altra cosa. La pace è un progetto di vita. Obama ha un progetto di morte(2)».

Tuttavia, l’elezione di Obama ha generato molte speranze, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti…
«Io capisco che Obama è arrivato al governo, ma non al potere. Una cosa è ciò che Obama può volere come persona, altra è ciò che può fare come capo di una potenza che gli impone condizioni. Lui è schiavo di alcuni centri di potere: il complesso militare statunitense, il Pentagono, la Cia, le grandi imprese multinazionali».

Lei insiste sempre molto sul ruolo che le imprese multinazionali hanno nella situazione mondiale.
«Le multinazionali non hanno frontiere e si muovono nel mondo in funzione di saccheggiare le risorse dei popoli. Le Nazioni Unite hanno lanciato un allarme sulla sovranità alimentare. Secondo la Fao, ogni giorno nel mondo muoiono di fame 35.000 bambini. Come si chiama questo?
Questa è la sfida che dobbiamo affrontare. Le grandi multinazionali lavorano sulle monocolture. Ma la natura non ha mai creato monocolture, ma diversità per generare l’equilibrio. Stanno distruggendo una creazione di Dio. Soltanto piantando il seme della solidarietà e del lavoro, si possono generare la pace e la vita».

Per tornare alla domanda iniziale, allora perché l’Accademia svedese ha assegnato il premio Nobel per la pace a Barack Obama?
«Francamente non lo so. Come – a dire il vero – non so perché lo diedero a me. Credo che si sbagliarono anche nel mio caso. Perché io sono un ribelle permanente di fronte alle ingiustizie.
Sì, un ribelle, ma nella speranza».

La chiesa, la fede,
la speranza

Un ribelle di base cristiana…
«Sì, io ho una base cristiana, che
per me è fondamentale. La mia fonte è il vangelo. Io sono cresciuto con i francescani. E seguo molto quella spiritualità, come quella di Charles de Foucauld».

Si dice spesso che la chiesa stia sempre con il potere…
«No, non la chiesa, ma la gerarchia e comunque non tutta. Guardate le pareti di questo ufficio… Lì sta Evaristo As, vescovo di San Paolo. Qui sta la foto di mons. Angelelli, un martire, assassinato dalla dittatura militare. Pensiamo a una figura come mons. Romero…
Io sono un uomo di meditazione e preghiera. Per me l’azione deve avere un retroterra trascendente. Ci sono valori e principi. Tutte le persone sono fratelli o sorelle, anche se sono miei nemici.
Quando si dice “ama anche il tuo
nemico”, cosa si sta dicendo? Di non fare loro danno, ma di cercare di trasformae il cuore.
Io sono un sopravvivente e l’unica
cosa che mi sostenne in quei momenti fu la fede. Quando, dopo 32 giorni in un calabozo(3) immondo (perché non entrava né luce né altro), aprirono la porta, vidi sul muro che un prigioniero precedente aveva scritto con il proprio sangue: “Dios no mata” (Dio non uccide). Questo è una testimonianza di fede profonda».

Ci dica qualcosa di più sulla sua prigionia durante la dittatura…
«Fui 14 mesi in prigione e quindi in libertà vigilata. Il 5 di maggio del 1977 mi presero e, incatenato, mi misero su un aereo della morte che volò alcune ore sul Rio de la Plata ed il mare. Alla fine decisero di non gettarmi fuori a causa delle forti pressioni inteazionali.
Debbo ringraziare Dio per essere
ancora qui a lavorare e a testimoniare. Dunque, come non si può avere fede? E non una fede distruttiva. Per me la fede è vita».

Si spieghi…
«Nel senso dell’allegria del vivere e non dell’angustia esistenziale. A volte la chiesa dice: “In questa valle di lacrime…”. Ma no, ciò che abbiamo è un mondo con ricchezze straordinarie da condividere. Le lacrime ci sono, ma sono la guerra, l’Iraq, l’Afghanistan, la fame, la povertà, i bambini a cui hanno rubato la speranza della vita».
A dispetto di tutto, lei parla ancora di speranza…
«Perché, nonostante tutto, abbiamo la capacità di trasformare la realtà. E questa è la speranza».

Un tribunale
per l’ambiente

Come presidente dell’Accademia internazionale di Scienze ambientali di Venezia, cosa pensa del recente vertice di Copenhagen?
«Credo che l’unica cosa che si è ottenuta a Copenhagen(4) è che non si è approvato nulla. Si è capito che c’è una guerra tra i paesi poveri o impoveriti e quelli ricchi, che vogliono appropriarsi delle risorse e che per questo mettono in campo gli eserciti, le forze multinazionali, l’Organizzazione mondiale, del commercio, il Fondo internazionale, la Banca mondiale…
Questo è il tragico.
Attraverso l’Accademia delle scienze di Venezia, di cui io sono presidente, abbiamo proposto la costituzione del Tribunale penale internazionale per l’ambiente e un Osservatorio internazionale sul comportamento ambientale delle imprese multinazionali che sono le principali responsabili della distruzione dell’ambiente.
Si pensi alle imprese minerarie o a quelle della soia. Si pensi alle imprese contaminanti del Nord che vengono mandate in America Latina, Africa ed Asia. Sono le multinazionali che si appropriano dei semi e se un contadino li usa, lo accusano di essere un delinquente».
E qui dove vede la speranza?
«Per esempio, il movimento dei
contadini senza terra dell’America Latina che si sta diffondendo anche in Africa e in Asia tentando in tal modo di stabilire dei vincoli Sud-Sud. Questi contadini vogliono la terra per lavorarla, non per sfruttarla; per dare vita, non per dare morte. Al contrario delle multinazionali che stanno distruggendo per guadagnare di più e in poco tempo. Altra cosa a cui occorre prestare molta attenzione è il movimento degli indigeni, che stanno recuperando la memoria e la lingua e che si stanno organizzando. Altro elemento importante sono i movimenti delle donne, che stanno avanzando in tutti i campi con la loro sensibilità, con il loro diverso modo di pensare. Sono leader straordinarie per le sfide che ci attendono».

L’uomo, la tecnologia e
l’accelerazione del tempo

A quali sfide si riferisce?
«Abbiamo avuto enormi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, che ci hanno portato ad un processo di “accelerazione del tempo”. Ma in questa accelerazione noi abbiamo perso la capacità di analisi e il ritmo con la natura. Non abbiamo più tempo per guardare il sole, l’acqua, gli insetti. Siamo entrati in una dinamica che ci fa dimenticare di essere umani e ci fa diventare schiavi della tecnologia. Dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberare la parola. In una parola, dobbiamo pensare».

È azzardato dire che spesso la gran parte dei media non aiuta a pensare?
«I mezzi di comunicazione non
stanno a servizio della gente, ma del potere. Non permettono di pensare e non informano, al contrario disinformano. E condizionano. Quando fui in Iraq, ci fu una strage di centinaia di bambini e mamme. La sola cosa che la Cnn disse è che due bombe intelligenti – perché adesso le bombe “pensano” – erano entrate per i canali di ventilazione di un bunker militare e avevano ucciso delle persone.
Una parola può essere tanto distruttiva come un’arma. E poi la menzogna, che è – come diceva Ghandi – la madre di tutte le violenze. Su una menzogna si sono fatte le guerre d’Iraq e di Afghanistan e praticamente tutte le guerre.
Oggi i mezzi di comunicazione ci
impongono il pensiero unico. Per questo, abbiamo necessità della ribellione sociale, politica e dello spirito. Per liberarci e per recuperare il senso di essere persone».

«Essere persone» sembrerebbe una ovvietà…
«Nel teatro greco, gli attori usavano maschere, che fungevano anche da amplificatore della voce. Quando si toglievano la maschera, gli attori smettevano di essere personaggi e tornavano ad essere persone. Nella nostra società ci sono persone che continuano ad essere personaggi e non si tolgono la maschera per paura di vedere se stessi. Sta capitando ai nostri politici, sta capitando ad Obama. Sta capitando a molti – politici, presidenti, premi Nobel – che si comportano come personaggi avendo paura di essere persone».

Ad ogni persona fanno capo dei diritti proprio in quanto persona. Lei ha combattuto per i diritti umani negli anni della dittatura. Com’è oggi la situazione?
«I diritti umani non sono soltanto
quelli per cui abbiamo combattuto contro la dittatura. Sono anche quelli economici, sociali e culturali. Sono quelli di educazione, di lavoro, di informare e di essere informato. Sono quelli della cosiddetta “terza generazione”, dove ad esempio si parla del diritto all’ambiente. In breve, i diritti umani sono integrali e indivisibili. Come la democrazia è indivisibile dai diritti umani».

Tutti parlano di diritti umani, ma alla prova dei fatti la realtà è spesso diversa…
«È vero. Ci sono governi che hanno firmato, ma che non hanno ratificato gli accordi. Per esempio, gli Stati Uniti che fino al giorno d’oggi non hanno ratificato la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”(5). Come può essere che una grande potenza che si atteggia a difensore della democrazia si opponga?
Questo va molto al di là della volontà personale di Obama. È la politica degli Stati Uniti che impone la propria volontà al resto del pianeta. Ma tutto questo può terminare perché nessuna società è statica. Come i diritti umani che sono una dinamica permanente della vita. Una dichiarazione non è una lettera morta. C’è una dinamica nella società e nelle coscienze. Credo che nei prossimi anni assisteremo a cambi fondamentali.
Oggi c’è uno svuotamento di valori e  di contenuti, ma non dobbiamo disperare».

La fame in Argentina:
incredibile, ma vero

Come vede l’Argentina dopo gli anni del tracollo economico?
«È un paese ricchissimo, ma impoverito. E purtroppo non gli si permette di uscire da questa situazione di impoverimento. C’è una sorta di sottomissione.
Quando ci sono 10 milioni di persone in condizioni di povertà su un totale di 40, la situazione è allarmante. Quando, in un paese produttore di alimenti, muoiono di fame 25 bambini al giorno…».

Al giorno?
«Al giorno, al giorno, secondo dati ufficiali dell’Unicef. Ma la realtà è più drammatica. Il mio amico dom Helder Camara – che vedete in quella foto – raccontava che, quando egli dava un piatto di cibo ad un povero, si commentava: “Questo vescovo è un santo”. Ma quando cominciò a chiedere perché ci sono i poveri, l’opinione cambiava: “Questo vescovo è comunista”.
Non possiamo fermarci agli effetti, senza ricercare le cause. Perché c’è la povertà? Perché si espellono i contadini dalle campagne? Perché le imprese minerarie transnazionali si portano via tutti i minerali strategici? In tutto questo, c’è una grande complicità dei governi».

United Colours
of Benetton

Anche dell’attuale governo argentino?
«Del nostro governo attuale come dei precedenti. Insomma, dobbiamo domandare perché i poveri sono aumentati in un paese dove nessuno dovrebbe morire di fame. Dobbiamo attaccare le cause. Dobbiamo domandare perché si svende la terra ad un signore che voi conoscete bene…».

Si riferisce a Benetton?
«Benetton possiede più di un milione di ettari(6). E ha tolto 385 ettari ad una famiglia mapuche(7). Oltre ad essere immorale, questo è ingiusto. Ma quando protestiamo, dobbiamo anche fare una domanda: chi vendette questa terra a Benetton?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Al voto… senza fretta

Il Paese si prepara alle elezioni

Dopo 50 anni di dittatura quasi ininterrotta, la giunta militare ha promesso libere elezioni.
Ma l’opposizione è divisa, movimenti etnici e spinte separatiste richiedono ancora la presenza dei militari nel governo: la piena democrazia è ancora un miraggio, ma il futuro sarà meglio del regime attuale.
Lo sperano tutti.

Da quando Win ha saputo che ero un giornalista, ho dovuto cambiare hotel. «Mi dispiace – si è scusato – ma è diventato troppo pericoloso tenerti qui tra i miei clienti. Alcuni funzionari hanno già fatto domande e mi hanno fatto capire che i tuoi articoli non sono piaciuti».  
Non che ne sia rimasto particolarmente sorpreso; padre Philip, sacerdote cattolico della cattedrale di St. Mary, mi aveva avvertito: «Ogni hotel che ospita stranieri ha almeno un informatore tra lo staff. Continuando a frequentare lo stesso albergo, prima o poi verranno a sapere chi sei».
Speravo che, scegliendo un alloggio da quattro soldi, riuscissi a mimetizzarmi, ma alla fine quel giorno è arrivato: ho fatto le valige e mi sono cercato un’altra stanza. Prima di andarmene, Win mi ha abbracciato sussurrandomi: «Spero che presto la situazione cambi: i militari non possono durare per sempre».
INCERTEZZE… CERTE
Per sempre no di certo, a lungo, invece, sì. Probabilmente Win, che si avvia verso la settantina, non riuscirà a vedere l’auspicato cambiamento. Prima, infatti, dovranno sparire i due generali che dominano la scena politica del paese: Than Shwe e Maung Aye. Entrambi sono malati e vecchi, è vero, ma da anni stanno manovrando l’Spdc (State Peace and Development Council), la giunta militare che governa la nazione, affinché alla loro dipartita poco o nulla cambi. Tutti e due sanno che in Myanmar non è mai accaduto che vi fosse un trasferimento di poteri pacifico. La loro unica preoccupazione, quindi, è trovare il modo di mettersi da parte volontariamente, preservando gli interessi economici e politici delle loro famiglie.
Nel frattempo tutto rimane come sospeso. Il futuro del Myanmar rimane drammaticamente certo nelle proprie incertezze. È certo che nel 2010 si terranno le elezioni generali, ma non è ancora dato sapere quando verranno aperte le ue. È certo che i militari continueranno ad avere un ruolo fondamentale nel governo del Paese, ma non si sa chi sarà chiamato a gestirlo. È certo che Aung San Suu Kyi non potrà ricoprire cariche istituzionali, ma non si sa se il governo manterrà la promessa di liberarla a novembre. È certo, infine, che la popolazione non si aspetta rivelazioni clamorose dai risultati elettorali, ma non è chiaro in quale verso muterà la situazione sociale ed economica.
«L’insicurezza rende tutto più difficile da affrontare – racconta Htway, uno studente universitario di Yangon -. È frustrante osservare che tutte le speranze di una rinascita vengono spente quando incominciavamo a credere nel cambiamento».
Zeya, sua amica, aggiunge: «A questo punto preferirei sapere che niente cambierà in Myanmar. Almeno avrei una certezza su cui costruire la mia vita. Non voglio più lottare per un’illusione».
C’È POCO DA RIDERE
Non tutti, per fortuna, la pensano come Zeya.
A Mandalay, ad esempio, U Pa Pa Lay e U Lu Zaw, in arte The Moustache Brothers, da anni sfidano la censura rappresentando ogni sera, in una stanzina di tre metri per quattro, uno spettacolo satirico che mette in ridicolo la giunta militare. La popolarità riscossa tra i turisti in visita nella vecchia capitale, ha contribuito a proteggerli da eventuali rappresaglie.
La fama nazionale, invece, non è servita al dentista U Maung Thura, più noto con il soprannome di Zarganar, la cui comicità, più pungente e diretta, non ha riscontrato, tra gli stranieri, lo stesso entusiasmo riscosso dai Moustache Brothers. Questo è stato sufficiente perché i suoi denti fossero spaccati dalle spranghe dei militari. «Oramai sono un dentista senza denti. Chi andrebbe a farsi curare da un dentista che ha perso tutti i suoi denti?» ha scherzato qualche anno fa, quando l’ho incontrato poche settimane prima che fosse di nuovo rimesso in prigione.
Le sue battute restano memorabili e vengono ancora sussurrate nelle serate conviviali e goliardiche: «In Birmania i dentisti non hanno lavoro perché nessuno osa aprire bocca»; oppure la famosa storiella di tre ragazzini che si ritrovano a raccontare le gesta dei loro parenti: un cugino senza braccia che ha attraversato a nuoto l’Ayeyarwady, un fratello senza gambe che ha scalato la montagna più alta del paese, risultano ben poca cosa rispetto allo zio del terzo ragazzino che «pur essendo senza testa, governa un’intera nazione!».
ELEZIONI A SORPRESA
Eppure, anche se l’orizzonte sembra cupo, qualche timido raggio di sole sembra si stia infiltrando tra le nubi. Le elezioni, ad esempio, che dopo l’amara esperienza del 1990 il governo cercherà di manipolare, sono pur sempre una tappa verso quella «road map to democracy» disegnata dalla giunta per ridare al Myanmar una parvenza di partecipazione popolare alla gestione del potere.
«I generali vogliono evitare di ripetere l’esperienza traumatizzante delle elezioni del 1990, quando la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) conquistò la maggioranza assoluta dei voti – spiega Sean Tuell, professore di Economia alla MacQuarie University di Sydney -; per questo la data sarà comunicata il più tardi possibile per non lasciare ai partiti tempo di organizzarsi.
Nel 1990, infatti, il regolamento per la registrazione era stato promulgato venti mesi prima la scadenza elettorale e i candidati dell’opposizione avevano avuto la possibilità di compiere una sorta di campagna elettorale, conquistando così la fiducia di gran parte della popolazione. La Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi che nel 1990 aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ha deciso di non partecipare alle consultazioni. La dichiarazione di astensione di Aung San Suu Kyi, nasconde però la realtà di un dibattito interno alla Lnd, che rimane fortemente diviso tra chi vorrebbe comunque aderire alle elezioni e chi, invece, è contrario.
Win Tin, uno dei leader storici del partito, ha criticato l’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, per aver incoraggiato il governo birmano a organizzare le elezioni del 2010 in modo accettabile per la comunità internazionale. «Non è la comunità internazionale che deve essere accontentata, ma è il popolo birmano» ha giustamente replicato Win Tin.
Tre erano le condizioni imposte dalla Lega nazionale per la democrazia affinché avesse potuto prendere in considerazione un suo coinvolgimento: il rilascio di tutti i prigionieri politici, la riforma della Costituzione approvata nel 2008 in un referendum farsa e la supervisione internazionale del voto.
«L’unico punto accettabile per i militari sarebbe stato il terzo – risponde Bertil Lintner, giornalista svedese che, da Bangkok, segue le vicende birmane -. Degli altri due, solo la liberazione dei prigionieri politici può essere messa sul tavolo delle trattative dalla giunta».
PER STRADE DIVERSE
Nel frattempo le fratture intee alla Lnd si sono allargate, sancendo la spaccatura del partito lungo la crepa di chi segue la linea della dirigenza storica, capeggiata da Aung San Suu Kyi e Win Tin, e chi, invece, preferisce cogliere l’occasione di intrufolarsi nello spiraglio di democrazia che le elezioni lasciano trasparire. Sarà quindi interessante vedere quale posizione prenderà il bacino elettorale democratico: si asterrà o piuttosto dirotterà il proprio voto sui membri della Lnd che, in dissidenza con la Signora, hanno deciso di partecipare alle consultazioni?
In attesa di un verdetto, alcuni leaders si sono già mossi: il National Unity Party, il partito emanazione del vecchio Burma Socialist Programme Party che nel 1990 aveva avuto il 22% dei voti, è sceso in lizza in una nuova veste, meno legata ai militari. Il Democratic Party di Thu Wai e la Graduated Old Student Democratic Association, di idee democratiche, ma critici verso la Lnd, uniranno le proprie forze e anche Sandar Win, figlia di Ne Win, sembra voglia formare una propria lista.
Nelle aree tribali, dove la Lnd e l’icona di Aung San Suu Kyi non sono così inossidabili come nelle regioni Bamar, i movimenti si stanno muovendo l’uno per contro proprio. Per molti di loro, la nuova costituzione assicura una partecipazione alle decisioni locali maggiore di ogni altra precedente, compresa quella del 1947, garantendo la costituzione di sei regioni autonome per i Wa, i Naga, i Danu, i Pa-O, i Pa Laung e i Kokang e la rappresentanza nei governi locali di 135 etnie. «Tutti i gruppi etnici con una popolazione maggiore di 57 mila unità hanno diritto ad avere un loro rappresentante – contesta Pu Cin Sian Thang, portavoce del United Nationalities Alliance, una coalizione di dodici partiti etnici contrari alla costituzione – ma non c’è alcun censimento che attesti la popolazione. Su che base potremmo rivalerci di questo diritto?».
Il Karen National Union, che già aveva rigettato la costituzione del 1947 scegliendo la via della completa indipendenza, ha ribadito il rifiuto di partecipare alle prossime elezioni, a differenza di altri gruppi etnici, come i Kachin, che negli ultimi vent’anni hanno concluso accordi di cessate il fuoco con Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar.
«Dobbiamo difendere i nostri diritti e la costituzione approvata nel 2008, pur con i suoi difetti, contiene dei semi di democrazia. È per questo che abbiamo deciso di partecipare alle elezioni» mi dice James Lum Dau, vice ministro degli Esteri del Kachin Independence Organization e uno dei fondatori del Kachin State Progressive Party.
PROBLEMI A VENIRE
I maggiori problemi, però, nasceranno dopo che i risultati avranno stabilito quale governo dovrà imporre la legge nel paese. Con il 25% dei seggi riservato ai militari, i generali continueranno ad avere un ruolo attivo nella politica del Myanmar, ma per la prima volta dal 1962 ai civili verranno aperte alcune nuove opportunità.
«L’appoggio dei militari sarà comunque indispensabile per approvare gli emendamenti – spiega un giornalista birmano – ma un 25% è sempre meglio che un 100%».
In effetti, alcuni analisti hanno fatto notare che la soglia voluta dai militari potrebbe essere un primo passo di una transizione indolore verso un governo democratico e civile, visto che un improvviso ritiro del Tatmadaw (l’esercito birmano) da ogni forma di potere, potrebbe far piombare il paese nel caos e in una sanguinosa guerra civile con la periferia. È anche per questo che le nuove autorità avranno il difficile compito di disarmare quei gruppi etnici che, nonostante abbiano firmato l’armistizio, continuano ad avere propri eserciti.
Per rendere più accettabile la smobilitazione, la costituzione birmana prevede la formazione delle cosiddette «Forze di guardia alle frontiere». Le armi non saranno più rivolte verso l’interno e verso i soldati del governo centrale, bensì verso l’esterno e usate contro altri gruppi etnici ribelli (cosa, del resto, che già accade). Il problema è che sino ad ora nessuno, tranne il Democratic Kayin Buddhist Army, ha accettato la proposta.
Uno dei punti principali su cui ci si confronterà, sarà l’elezione del presidente, che dovrà essere residente in Myanmar da almeno 20 anni (e quindi vengono esclusi tutti i dissidenti), non essere sposato con stranieri (in questo caso Aung San Suu Kyi, in quanto vedova, potrebbe essere eletta) e non avere figli con passaporto straniero (è questa la clausola che esclude la Lady dalla presidenza).
Anche qui, i militari hanno il diritto di presentare uno dei tre candidati che, quasi sicuramente, non sarà Than Shwe, notoriamente refrattario ai viaggi e agli incontri con stranieri, in particolare occidentali. Ma l’orgoglioso generale non ama neppure essere «comandato», men che meno da una figura, come quella del presidente, che potrebbe essere ricoperta da un civile. Si pensa, quindi, che i militari creeranno una posizione ad hoc, estea al governo, ma altrettanto autorevole; una sorta di Grande Leader o Leader Supremo.
Ed archiviato Than Shwe, rimane il numero due, Maung Aye, l’unico generale che non ha ancora trovato una collocazione nel dopo elezioni e, per questo, potrebbe rappresentare un pericolo nella stabilità nazionale. L’accantonamento di Maung Aye, infatti, porterebbe alla rovina tutta la sua famiglia e l’entourage.
Un’aperta rivolta all’interno stesso dei ranghi militari, potrebbe, inoltre, invogliare i gruppi etnici più refrattari a Naypyidaw, a riprendere la lotta per l’indipendenza. Un’eventualità, questa, che destabilizzerebbe l’intera regione sud orientale dell’Asia, chiazzata da migliaia di minoranze, le quali non si sono mai sottomesse ai governi centrali. Cina, India e Thailandia, in particolare, le nazioni confinanti con il Myanmar e che hanno tutte grossi problemi con le etnie tribali a ridosso delle proprie frontiere, non gradirebbero di certo un paese poco controllato.
La guerra d’Indocina con i suoi tragici lasciti non è ancora scomparsa dalla memoria delle diplomazie mondiali e poco più a ovest, l’Afghanistan è un preciso monito verso chi chiede democrazia senza avere le basi su cui costruirla.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli




Incontri on the road

In Australia, sulle tracce di antichi crateri

Un viaggio nel nord-ovest dell’Australia diventa l’occasione di incontri ricchi
di fascino e umanità, in un ambiente naturale ricco di contrasti e biodiversità.

Perth: una terra diversa da tutte le altre, l’Australia. Troppo piatta, calda e arida per avere ghiacciai, troppo antica per avere attività vulcanica, qui il terreno è stato dilavato per milioni di anni e la vita di piante e animali ha dovuto adattarsi a condizioni estreme. Unico tra i continenti ad essere rimasto isolato, qui si sono sviluppate forme di vita molto diverse, che rappresentano un forte interesse per visitatori e studiosi.
 Ritoo a Perth dopo 10 anni al seguito di una spedizione che ricerca i crateri da impatto di asteroidi, ben visibili in un territorio vasto e disabitato. Mi fermerò a casa di Wendy, deliziosa amica inglese da molti anni in Australia, dopo una vita di lavoro in Arabia Saudita e in Sud Africa. La sua casa domina le dune di Scarborough, sobborgo sull’oceano indiano, dove i tramonti sono spettacolari, anche nelle fresche sere di fine luglio.
Oggi Wendy ha seguito la lezione settimanale d’italiano con un’amica, Antorninette, che si ferma con noi a cena. «Mia madre era irlandese, devota di San Antonio», così spiega il perché del suo nome. Molto conosciuta nello stato del West Australia, prima donna ad essere nominata giudice, Antorninette dichiara serenamente la sua profonda fede cattolica. Nello svolgere il suo delicato compito, segue una linea di grande comprensione e mitezza. «Ho visto casi di violenza terribile, ma la condanna deve mirare alla riabilitazione, non all’annientamento della persona».
Kununurra
Cominciamo il viaggio da Kununurra, sede degli uffici del Wolfe Creek  Crater National Park. Nella parrocchia partecipo alla messa in onore della prima santa australiana. Nata a Melboue nel 1842, Mary Mackillan si consacrò alla vita religiosa a 24 anni, dedicandosi alla promozione delle donne e all’educazione dei bambini nelle zone remote. La chiesa è affollata, ma prima delle letture i bambini vengono invitati dal padre a recarsi nella sala accanto per seguire la messa con l’aiuto di una catechista. Alcuni sono aborigeni, di sangue misto, molto belli. Li ho visti giocare, i bimbi dalla pelle scura, scalzi e felici, nei parchi punteggiati da baobab di questa cittadina del Kimberley, che ho raggiunto con un lungo volo da Perth.
«Fino al ’76 i bambini erano tolti alle famiglie e messi in collegio per essere educati». La suora che mi parla indossa una camicetta rossa. «Oggi si cerca di riparare, ma oramai è troppo tardi». Intanto dall’altra parte della strada si svolge la cerimonia delle chiese protestanti unite. I numerosi fedeli sono seduti o accoccolati a terra e la voce del pastore è amplificata da un megafono. Gli anziani aborigeni vagano intanto lungo i viali; alcuni siedono tristi con una bottiglia o una latta di birra in mano. Le donne sono scalze, i denti guasti e lo sguardo perduto. I loro lineamenti sono duri, la pelle molto scura. Pare ci siano problemi tra aborigeni puri e i meticci, frutto di incroci avvenuti tra i primi coloni e donne native, che sono poco accettati sia dai bianchi che dal loro popolo. Questi territori sono riserve aborigene, ma le miniere sono sfruttate da grossi gruppi minerari. Si estraggono minerali come ferro, stagno, zinco, rame e, nella montagna presso il lago Argyle, i rarissimi diamanti rosa.
 Windham
Windham è un porto sul profondo fiordo che collega il mar di Timor con i territori del West Australia. Qui le maree superano i 9 metri e lasciano lagune bianche di sale. I coccodrilli di mare sono giganteschi e il porto che un tempo era usato per il bestiame pare abbandonato.
«Siete italiani? Di Torino?». Un anziano signore mi apostrofa in perfetto italiano, mentre compro cartoline al post office di Windham. «Mi chiamo Giorgio Pucci, la mia famiglia era originaria di Lucca. Abitavamo a Trieste, dove mio padre era maresciallo di polizia. Conosco Torino, ricordo la caserma dove ero militare, nel ’41. Dopo la guerra gli inglesi mi hanno portato a Perth, inteato in un campo, e spedito a tagliare i boschi. Avevo una fidanzata in città, per due volte sono scappato per andare da lei, ma mi riprendevano sempre». Sorride divertito anche quando racconta di aver saputo poi che la ragazza era rimasta incinta di uno scozzese. «Mi avevano trasferito quassù, al nord, a 2.000 km da Perth; la ragazza non mi ha aspettato. Lavorai fino al 1985 nella più grande macelleria del paese, 12 ore al giorno, dalle 6 del mattino fino a sera».
Giorgio ha avuto una brava moglie, una cinese che aveva bottega a Windham e che gli ha dato tre bravi ragazzi. «Ora è anziana e malata, ospite in una clinica, mentre i miei figli abitano nella regione, mi vengono a trovare e mi aiutano. Ho una pensione di circa 700 euro e ricevo anche 100 euro di pensione dall’Italia». Giorgio è una bella persona, ha occhi azzurri stupiti e mi commuovo sentendolo parlare così bene l’italiano. Ne ho incontrati altri di italiani così, che hanno lasciato il nostro paese per Argentina e Australia. Hanno portato lontano la loro serietà di lavoratori e mi domando che cosa hanno in comune quegli italiani vacanzieri che incontrerò poi in aereo, al ritorno a Milano.
Crateri
Gli amici della spedizione mi hanno raggiunta, dopo 6.000 km di deserto percorsi in una 4×4 giapponese. Abiti e auto ricoperti di polvere rossa, sono pronti a ripartire alla scoperta di altri crateri. Uno dei più famosi è quello di Wolfe Creek, il cui fondo ricoperto di fiori selvatici azzurri, ha un diametro di 800 m. Lo raggiungiamo percorrendo un tratto della Tanami road, una sterrata che attraversa il deserto più difficile del continente. Piantiamo le tende e ci fermiamo per la notte, per dar modo a Mario, astrofisico dell’osservatorio di Pino torinese, di effettuare le sue ricerche. Altri quattro caravan sostano nelle vicinanze, sono tutti australiani che arrivano dal sud, dopo aver percorso le piste seguite dalle mandrie. La notte è fredda, illuminata dalla luna piena e le stelle sono meno visibili del solito.
Fitzroy Crossing
Fitzroy è un fiume che in questo punto scorre tra alte pareti calcaree, formate da corallo e conchiglie, quel che resta di una grande barriera corallina del periodo devoniano, 350 milioni di anni fa. Ci troviamo lontani dal mare, ma nel fiume vi sono razze, squali toro, coccodrilli di mare e altri pesci, che risalgono la corrente per centinaia di km. Sulle rive ci sono diversi tipi di alberi di eucalipto e di malaleuca, che ha la scorza sottile come carta e produce un olio balsamico e disinfettante. Ci troviamo in zona aborigena e l’unico locale è un confortevole bar, annesso al campeggio dove abbiamo piantato le tende. Le pareti sono tappezzate di cartelli: «Se sei ubriaco, non puoi entrare». «Proibito entrare a chi non ha scarpe e non è propriamente vestito». «Se ti ubriachi verrai cacciato». E così via. Qui però gli aborigeni vengono e si comportano bene. Stella è una giovane che mi rivolge la parola e con grande orgoglio mi dice: «Questo è il mio paese». Sorride e le si illuminano gli occhi.
Ma i giovani che vedo al lavoro sono tutti stranieri, con un visto per restare un anno nel paese. Vengono dalla Nuova Zelanda, dall’Europa e dall’Asia, come Irene, cinese di Taiwan. Il nome lo ha adottato perché il suo è troppo difficile da ricordare.
 Broome
La fama di Broome è legata alle perle, che qui hanno dimensioni gigantesche. I primi pescatori venivano dal Giappone, poi si crearono gli allevamenti e ora l’economia della città si basa su questa attività, oltre al turismo e all’arte aborigena, un tipo di arte del tutto diversa, che ha le radici nelle antiche credenze e nei miti della cultura aborigena. Gli artisti aborigeni che sono riusciti a farsi conoscere nel mercato dell’arte si sono riscattati da una vita di abiezione e di perdita di identità.
80 miles beach
Prima di raggiungere il più grande porto commerciale australiano, ci fermiamo per la notte in un grande campeggio sulla «spiaggia delle 80 miglia» che viene usata anche come via di comunicazione dai fuoristrada. La marea si ritira per centinaia di metri, creando all’alba e al tramonto riflessi interessanti sulla sabbia bagnata, ricoperta di conchiglie. Mentre negli stati del sud nevica, piove e fa freddo, qui gli ospiti si godono sole e mare, si pesca e si cucina intorno alle griglie comunitarie.
Io preparo la solita minestra con il liofilizzato, mentre Peter sta arrostendo patate e zucca per i due bimbi e la giovane moglie. «Sono impresario edile a Brisbane», mi spiega, «ho chiuso per 6 mesi e voglio fare una lunga vacanza, ora che i figli non vanno ancora a scuola». I tratti del viso sono mediterranei, infatti il nonno è arrivato da Salina tanti anni fa. «I miei genitori sono stati in Italia, mi hanno detto che Salina è molto bella. Un giorno spero di andarci anche io». Dalle isole Eolie sono partiti in molti per l’Australia, prima e subito dopo la guerra.
Auskie
La road house è l’unica possibilità per noi di fare il pieno di carburante e sostare per la notte. Una fila di prefabbricati circonda lo spiazzo per le tende e i caravan, la caffetteria gestita da una donna in gamba, che tiene tutto sotto controllo, è il punto di riferimento di una vasta zona mineraria.
Paul ha la tuta gialla impolverata di rosso. Si rivolge a me con un largo sorriso, mentre aspetta il panino che ha ordinato. La polvere rossa gli si è raggrumata sul viso, sotto gli occhi azzurri che mi sorridono. Mi vuole parlare del suo lavoro e della famiglia che ha lasciato a Perth. Scopro che fa l’operaio di un’impresa che sta effettuando trivellamenti a 60 km da qui alla ricerca di ferro e altri minerali di cui è ricchissima questa terra. Il lavoro è duro, dodici ore al giorno, senza sosta per il pranzo. Da un taschino tira fuori alcune foto sgualcite: lui giovane, magrissimo, con moglie e due bambine bionde. Poi le foto tessera delle tre figlie: «Questa», mi indica una biondina diciottenne, «è il genio di famiglia. Vuole studiare da avvocato, per diventare giudice e risolvere i crimini».
«Absolutely, certamente» dice, quando gli chiedo se è contento, «qui mi pagano bene. Prima mi accontentavo di lavori occasionali, ora mi danno 5.000 $ ogni due settimane, e posso ritornare a casa una settimana su quattro».  Paul in 12 anni di lavoro è riuscito a comprarsi la casa a Perth, mantenere bene la famiglia e aiutare il figlio avuto da una precedente relazione, che lo ha reso nonno da un anno.
Durante la stagione delle piogge il lavoro si ferma, le strade sono sovente impraticabili e le case sono ancorate alla roccia con strutture di ferro, per evitare che siano spazzate via dai tifoni.
Un topo speciale
L’attenzione lodevole che gli australiani hanno per l’ambiente, è molto recente. Il paese è stato pesantemente sfruttato sin dal sec. 18°, quando si sono insediati i colonizzatori inglesi. L’inserimento di animali e piante estranee ha danneggiato un ecosistema fragile, diverso da tutti gli altri. Qui nel Pilbara, regione remota e sconosciuta agli stessi australiani, ma ricca di risorse minerarie, vive un topo considerato prezioso per l’ambiente. Prende il nome dalla tana che si costruisce, il Pebble mound. Ora è protetto e prima di aprire una miniera o costruire una casa, bisogna accertare se non vi siano le sue tane, sul terreno. Sono vere e proprie abitazioni, che il topolino costruisce portando le pietre una ad una in bocca, dotandole di stanze, cunicoli, zone riservate al nido, uscite di sicurezza.
La sterminata steppa è ricoperta da cespugli spinosi che è meglio evitare, per via di spine dalla punta calcarea che infetta le ferite. Tutto è diverso dalla natura che conosciamo, anche i fiori selvatici, vistosi e stranissimi, che stanno incominciando a fiorire in questo inizio di primavera. I colori sono smaglianti, devono lottare per essere impollinati e alcuni, per riuscire a svilupparsi in terreno sterile, hanno bocche che intrappolano e digeriscono gli insetti.
Newman
 Quando hanno aperto quella che è la più grande miniera di ferro a cielo aperto al mondo, hanno fatto sgombrare le capanne del vecchio villaggio. Per costruire la città e sistemare i lavoratori immigrati, hanno spostato nel bush gli aborigeni, costruendo per loro case popolari e lasciandoli sradicati, senza i punti di riferimento della loro cultura.
Questa terra aspra è stata abitata dall’uomo da più di 30.000 anni. I primi abitanti hanno elaborato raffinati sistemi per sopravvivere in condizioni durissime e tuttora i loro discendenti sono le migliori guide per percorrere le piste nei deserti australiani.
«Abbiamo fatto molti errori, con la popolazione aborigena», mi dice Jane, che sta aspettando il figlio all’uscita della scuola elementare di Newman. «Tuttora i loro bambini raramente frequentano la scuola. Se arrivano la mattina, fanno la doccia, prendono la colazione, e si da loro un paio di scarpe, che vengono ritirate nel pomeriggio, prima di rimandarli a casa con il bus».
Anche a Newman c’è la chiesa cattolica, circondata da un giardino di palme e fiori. La mattina alle 9 c’è la messa, celebrata da padre Roger, un simpatico nigeriano che cura anche la parrocchia di Tom Price, altra città mineraria della regione. Sono solo due le fedeli presenti, oltre a suor Beth, due infermiere indiane, che hanno trovato lavoro in ospedale, ma sognano di ritornare a casa.
BHP
è la sigla di un colosso delle miniere, con pozzi di petrolio e gas offshore non solo in Australia, ma anche in Canada e nei Caraibi. Nel 1969 ha aperto questa miniera, dove si estrae l’ematite Brokman, con alto grado di purezza di ferro. Da allora la richiesta di mano d’opera è in continuo aumento e la città in espansione. Visitiamo la miniera, dove un’intera montagna è stata scavata e spianata. Ora è come una torre di babele con giganteschi gradoni dove passano i camion carichi di 60 tonnellate di materiale, che viene poi macinato e purificato negli impianti, prima di essere caricato sui treni diretti a Port Hedland. Treni in media lunghi 2,5 km, con centinaia di vagoni carichi fino a 30.000 tonnellate di minerale. I numeri che ci sono foiti dalla guida che ci accompagna sono impressionanti. Il primo carico che lasciò Port Hedland nel ’79 era diretto in Giappone, ora sono Cina e India i maggiori acquirenti.
Nanuturra
«Non si è mai troppo vecchi per far campeggio», mi dice il ragazzo keniano addetto al distributore, che mi consegna la chiave della cabin della road house di Nanuturra. Le scorse notti ho sofferto il freddo, in tenda. Nel parco Karjini abbiamo percorso a piedi le profonde gorge, spaccature nella laterite rossa, con cascate e pozze d’acqua fresca. Abbiamo viaggiato per più di 600 km in mezzo al nulla, senza incontrare un’auto, una casa. Solo alcune indicazioni per raggiungere le stations, isolate fattorie di allevatori. Unica possibilità di fare il pieno e sostare è questa road house, forse la più isolata di tutto il paese, gestita da Valeria, efficiente e seria come tutte queste dame australiane dell’outback. «Conosco un po’ di italiano perché ho ospitato una ragazza di Varese quando mia figlia era al liceo, a Perth». Anche Valeria ha fatto una scelta, vivere in questa solitudine, dove però si incontra gente diversa, tutti i giorni. Per la cena mi consiglia il piatto preparato dal giovane keniano, pollo con verdure, ottimo dopo lo scatolame con cui siamo sopravvissuti nei giorni scorsi.
Entra una bella, giovane donna, con una bambina di 9-10 anni. Hanno ambedue le trecce bionde e i jeans rossi di polvere, si fanno dare un panino ed escono prima che io possa capire chi sono. Il loro road train ha dei problemi e dovranno passare qui la notte. La mamma lavora in una station col marito e si occupa anche del trasporto del bestiame, guidando il gigantesco camion. La bimba la segue ovunque e per la scuola si collegano via radio tutte le sere, per seguire le lezioni.
All’alba sono svegliata dalla partenza dei giganti delle strade australiane, con i paracanguri e le prese d’aria lucidi di cromature, che portano tre o quattro vagoni e possono essere lunghi più di 40 metri.
Overlander Road house
Siamo diretti a Shark Bay e dobbiamo fermarci prima dell’imbrunire, quando i canguri che escono dal bush e attraversano la strada. Il Nanga Caravan Park è un luogo bellissimo, ma la struttura è fatiscente. «La padrona è una ricca cinese di Singapore che lascia le sue proprietà nell’abbandono e si fa vedere due volte l’anno per ritirare i soldi», mi spiega Daniel, che fa parte del personale, scarso e mal pagato. La cucina del campeggio è in disordine, sporca. Chiedo a Daniel se vuol cenare con noi stasera, cucinerò il pesce che ha pescato e lui mi promette di riordinare. Sarà una bella serata, con ottima pasta australiana di grano duro condita con sugo di pesce. Il vino lo abbiamo finalmente trovato allo spaccio, dopo giorni di ricerca.
Conchiglie
Shark Bay vuol dire natura ricchissima. Qui la schell beach è una spiaggia immensa fatta interamente di conchiglie compatte, con uno spessore di 10 metri. Nella zona ci sono le cave dove vengono estratti mattoni fatti di conchiglie, tutte uguali, piccole e bianche. Nell’800 si costruirono così edifici, molto belli, e anche una chiesa, a Denham.
Il mare chiuso nel profondo golfo di Shark bay ha una densità e salinità molto alta, ed è famoso per le stomatoliti. Chiamati anche fossili viventi, rappresentano la forma di vita più antica esistente sulla terra e furono scoperti solo nel 1956. Relativamente recenti, hanno solo 3.000 anni. Le stomatoliti che vediamo nella Hamelin pool, dove l’alta salinità impedisce a competitori e predatori di sopravvivere, si presentano come rocce scure, appena coperte dall’acqua del mare. Sono ancora visibili i segni delle ruote dei carri che trasportavano carichi di lana al porto. Oggi sono stati eliminati gli animali introdotti dai coloni, che hanno danneggiato l’ambiente. Con il progetto Eden si cerca di reintrodurre quelli estinti e tutta la zona è protetta dall’UNESCO.
Kalbarri
Kalbarri è una cittadina sul mare che dà il nome al parco nazionale famoso per i fiori, molto strani, su piante ancora più strane: infiorescenze grandi a pennacchio, a forma di pigna, di spazzola, ma anche fiori piccoli, bianchi e gialli, semprevivi. La percorre il fiume Murchison, che ha scavato nella roccia un canyon a forma di grande anello, prima di raggiungere il mare. Siamo nella fascia temperata, che consente la coltivazione di grano, banane e uva.
Alfredo è un bell’uomo, alto e snello, che con Joyce ha fatto 600 km per passare un weekend a Kalbarri. «Viviamo a Perth, città costruita dagli italiani», mi dice, mentre aspettiamo la cena seduti insieme allo stesso grande tavolo di un rustico ristorante. Alfredo arrivò da Lucca nel ’51 per lavorare come muratore, spinto dalla necessità. Allora in lucchesia si era poveri, si mangiavano castagne e si facevano le figurine del presepe, che venivano vendute in giro per l’Italia, nelle ceste di vimini.  Sulla spiaggia di Perth Alfredo conosce Joyce, ragazza dal nome esotico, ma di padre valtellinese. «Mio padre era arrivato prima della guerra, per fare il boscaiolo», mi confida Joyce. «Morì giovane, nel ’49, per una ferita riportata sul lavoro. Mia madre rimase senza aiuto e per mantenere i 4 figli fu costretta a lavorare come lavandaia e domestica». Ora Alfredo e Joyce si godono la pensione nella casa di Perth, con orto e giardino, dove bisogna stare attenti ai serpenti velenosi e al ragno rosso. Le tre figlie sono sposate, un genero è filippino, e hanno 6 nipoti. Italiani di Australia, con storie di fatiche, lavoro e soddisfazioni.

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Saharawi: il popolo dimenticato

Viaggio in una nazione che «non c’è»

Una delegazione italiana della Rete Comuni Solidali (Re.Co.Sol.) visita i campi profughi per osservare, ascoltare, capire e … non permetterci di dimenticare.

Sono le tre di notte quando la jeep si ferma nel deserto algerino. Non vedo nulla, i fari illuminano a stento alcune corde che fungono da tiranti di una tenda. Scendiamo confusi, storditi dal viaggio e ci guardiamo attorno senza orientarci. Alì ci informa che siamo arrivati a Aaiuni, a sud di Tindouf, precisamente nella sua «casa», in cui saremo ospitati. Scarichiamo le nostre valigie nella polvere che si alza intorno, mentre qualcuno grida: «Avete visto il cielo?» e tutti col naso in su, senza parole. Il cielo stellato più bello del mondo! Tratteniamo il respiro, mai visto una tale bellezza …
Entrare in un altro
mondo
Senza rendercene pienamente conto, ci troviamo in un altro mondo, in un campo profughi del popolo saharawi, in Algeria, al confine con la Mauritania e il Sahara Occidentale, lo Stato che non c’è, pur se tratteggiato su tutti gli atlanti. Mi chiedevo da ragazzina, quando dovevo studiare l’Africa, cosa volessero dire quelle righe diagonali che coloravano la cartina geografica e ricordo che un’insegnante mi aveva parlato di contese nel definire a quale Stato spettasse di diritto la terra a sud del Marocco. Ora, insieme ad altri 15 compagni di ventura della delegazione italiana di Re.Co.Sol., mi trovo a due passi da quella mappa, una delle terre più amate, sognate, desiderate, impossibili… un mondo sconosciuto ai più, dove siamo venuti per osservare e ascoltare.
Alì, la nostra guida, ci invita ad entrare nella tenda dove sua moglie ha preparato il tè per noi. Così ha inizio la nostra full immersion nel luogo più povero che abbia mai visto, dove i saharawi sono riusciti a ricostruire una società organizzata, collaborativa ed efficiente. Lo stupore di questa dissonanza si coglie sui nostri visi che si affacciano all’interno della tenda, meravigliosa, tutta un tappeto, divani comodi sui tre lati e un tavolino lungo e basso su cui è appoggiato il necessario per il nostro pasto; qui dentro, dove pare che la sabbia del deserto sia lontana, Adì, bellissima ragazza, mamma di un piccolo di sei mesi, avvolta nel suo musata in fantasia rossa, dà inizio al rito che ci accompagnerà per una settimana: su un braciere portatile ha preparato la bevanda che versa nei bicchierini appoggiati sul tipico vassoio arabo. Il primo tè che ci offre è «amaro» come la vita e lascia in bocca un retrogusto da cui prende il nome. Il tempo di assaporarlo e ne arriva un altro, questa volta «dolce» come l’amore, e poi un terzo, l’ultimo, «soave» come la morte.
Con uno spagnolo stentato abbozziamo le prime parole di presentazione e di ringraziamento, ma è più semplice spiegarci a gesti perché la donna e gli autisti che ci hanno accompagnato fin qui conoscono solo l’arabo. A scuola, a partire dalla terza elementare in poi, si impara lo spagnolo, ma molti adulti non lo conoscono.
La nostra prima notte «profuga» trascorre nella semplicità di questa accoglienza, poi i padroni di casa se ne vanno e lasciano la tenda interamente a noi. Qualcuno apre il sacco a pelo e cede al sonno, qualcun altro esce a guardare incantato la volta celeste, avvolto dal buio totale e dal silenzio del Sahara.
Vivere nel deserto
La tenda di Alì sorge al limite del villaggio. Lo scopriamo al mattino, quando usciamo per andare «in bagno». Il deserto è disseminato di casupole e tende che paiono cadute a caso sulla sabbia di questo luogo piatto, ampissimo, giallo come è tutto qui, a perdita d’occhio.
Il villaggio di Aaiuni è composto da sette centri, ciascuno con circa 7.000 persone che vivono in minuscole casette di mattoni di sabbia cotti al sole. Ogni famiglia possiede una costruzione per l’inverno, quando le temperature scendono verso lo zero, una tenda che va meglio d’estate quando si raggiungono i 50/60 gradi, e poi un cubicolo con una turca e un secchio pieno d’acqua che funge da sciacquone.
Sulla soglia di ogni abitazione, un pannello solare, una batteria d’auto, una parabolica. Ecco il necessario per accendere un neon nelle tende alla sera e per riuscire ad avere notizie dal mondo con una radio. Qui non si possono caricare cellulari né batterie delle macchine fotografiche, non si usano rasoi elettrici, nessun elettrodomestico. E qui non c’è nessun lavandino né doccia. L’acqua è portata dalle cistee che arrivano da Tindouf e scaricano nelle taniche di lamiera che il tempo ha arrugginito. Una gomma porta l’acqua in prossimità delle abitazioni, ma tutto viene centellinato.  A 20 minuti dal villaggio esiste un pozzo che pesca a 150 metri di profondità acqua salata. È lo scherzo che il deserto fa a questo popolo che abitava sul mare. Grazie ad un desalinatore donato dalla provincia di Roma si può utilizzare quest’acqua per tentare di coltivare piante medicinali di cui i vecchi sanno ancora servirsi per guarire molte malattie.
Tra le abitazioni si apre un varco che va verso il nulla: è la strada da cui arrivano e partono le jeep in direzione degli altri centri. In realtà la strada non esiste: è solo una traccia che il vento di sabbia copre presto. Eppure gli autisti riescono a condurci dove dobbiamo andare: le scuole, il centro per i disabili, l’ospedale, la casa del vice-governatore. Sono giorni intensi, il tempo è breve e non va sprecato. Noi dobbiamo visitare e conoscere per poter presentare la situazione in Italia al nostro rientro.
Sognano il mare
Ci accorgiamo presto che molte cose sono simboliche per i saharawi, in primis i colori della bandiera: il verde indica la loro terra che si affaccia al mare più pescoso dell’atlantico: El-Aiun, Dakhla, El-Argob erano i nomi delle città costiere in cui essi risiedevano; il nero è l’oppressione subita per l’invasione avvenuta 35 anni fa, il rosso è il sangue versato da molti di loro, il bianco è la pace che desiderano e in cui sperano. Se il loro sogno si avvererà, se riusciranno un giorno a tornare nelle città di un tempo, il verde che ora sta in basso, prenderà posto in alto nella bandiera.
Ma qual è la storia di questo popolo?
Durante la Conferenza di Berlino del 1885 il Sahara Occidentale viene assegnato alla Spagna. Nel 1957 vengono scoperti enormi giacimenti di fosfati nella zona settentrionale della colonia che acquista molto interesse economico da parte di varie potenze. Nel 1965 l’ONU sollecita la Spagna a lasciare il dominio coloniale e ad organizzare un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, ma la situazione resta immutata per un altro decennio. Nel 1970 il popolo saharawi organizza una grande manifestazione contro il colonialismo che viene repressa nel sangue. Tre anni dopo nasce il Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi. Tra il 1974 e il 1975 finalmente la Spagna decide per il referendum, ma subito il Marocco e la Mauritania annunciano un’opposizione con qualunque mezzo. Così, vista la forte pressione dei due Stati vicini, la Spagna rinuncia all’idea.
Nell’autunno del ’75 il Marocco annuncia una marcia di 350.000 uomini volontari verso nuove terre da coltivare: la marcia verde, che dovrebbe essere pacifica, in realtà si rivela una vera e propria invasione delle regioni in cui vivono i saharawi. La Spagna cede l’amministrazione del nord del paese al Marocco e il sud alla Mauritania in cambio di favori economici. Così, mentre l’esercito e i civili spagnoli si ritirano dal Sahara Occidentale, il fronte marocchino e quello mauritano entrano nella regione per prendee possesso.
Per i saharawi si aprono due possibilità: restare sotto questi nuovi dominatori che non garantiscono nessun diritto, li allontanano dalle proprie abitazioni costringendoli ai lavori più umili, li considerano cittadini di serie B, oppure scegliere l’esodo verso l’unico sbocco possibile: l’Algeria. Colonne di fuggiaschi partono dalle terre invase verso quello Stato. Alcuni si fermano ancora nel Sahara Occidentale, dentro i propri confini, e organizzano i primi campi profughi, ma nel 1976 il Marocco li bombarda con napalm e fosforo.
Il Fronte Polisario e il Consiglio Nazionale del Saharawi velocemente concludono i trasferimenti dei saharawi a sud di Tindouf, in Algeria, nel deserto di pietra, luogo ostile e difficile dove vengono costruiti gli accampamenti per 300.000 profughi. Viene proclamata la R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica) che ottiene il riconoscimento da parte di più di 70 Paesi. Nel Sahara Occidentale il Fronte Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel 1979 la Mauritania ritira le proprie truppe, ma il territorio viene subito occupato dal Marocco con l’appoggio di Spagna, Francia e Stati Uniti.
Nel 1980 il Fronte libera diverse zone dall’occupazione del Marocco che risponde edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500 chilometri in cui racchiude i territori occupati. A ovest del muro, nella zona costiera del Sahara occidentale inizia una massiccia colonizzazione: molte famiglie marocchine sono invitate a trasferirsi in queste zone in cambio di agevolazioni sociali e fiscali; i saharawi iniziano a denunciare la pulizia etnica del loro popolo da parte degli invasori. Fuori dal muro la guerra continua. Nel 1991 l’Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e l’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Ancora una volta però il Marocco boicotta in ogni modo la preparazione del referendum, continuando le azioni militari e affermando l’obbligatorietà di includere tra i votanti i coloni marocchini. Così la consultazione viene rimandata e ancora oggi, a distanza di 19 anni, nulla è accaduto. L’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco continua a non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Organizzare da zero
Ci sono profughi e profughi: quelli che aspettano, quelli che sognano e a poco a poco si deprimono, quelli che si arrabbiano col mondo, quelli che perdono la propria identità e provano a ritrovarsi in un’altra, …
Poi ci sono i saharawi che, nonostante sia passato così tanto tempo – ben 35 anni di esilio nel deserto di Tindouf -, non smettono di impegnarsi e lottare per riavere ciò che spetta loro di diritto. Il Fronte Polisario ha accettato tutte le risoluzioni Onu, il cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri, ma la vita del suo popolo si svolge comunque ancora in estrema povertà, sollevata solo dagli aiuti dell’ACNHUR e di molte associazioni europee (anche italiane) che li sostengono. I saharawi si sono rimboccati le maniche, costruendo una comunità organizzata secondo principi collettivistici e solidaristici che sono un esempio per tutti noi: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, … tutti i ruoli sociali e politici sono volontari, non stipendiati.
Visitiamo le scuole, dall’infanzia alle superiori. è il giorno degli esami per gli allievi della primaria e per i più grandi: serietà assoluta, banchi separati, insegnanti in guardia. Poi suona l’intervallo, spuntano sorrisi e presentazioni nel cortile polveroso dove i più piccoli corrono e giocano, divorando pane e marmellata proprio come in tutti i paesi del mondo. Nonostante le condizioni precarie, nonostante il tetto dell’asilo sia mezzo sfondato e non ci siano libri per tutti e la polvere intasi ibanchi, gli abiti e i vecchi computer su cui le ragazze provano i primi rudimenti dell’informatica, non c’è un minore in tutto il campo profughi che non vada a scuola. Pensare che gli insegnanti non percepiscono alcuna retribuzione adeguata, se non un compenso simbolico di 50 euro al mese.
Anche l’ospedale è gestito volontariamente: «Sarebbero necessari incentivi economici per gli infermieri – dice il vice-governatore, quando gli chiediamo quali siano le necessità più impellenti – non è facile dedicare quotidianamente tempo ai malati, senza un ritorno economico sufficiente per vivere un po’ meglio» Non è l’unica richiesta che ci viene presentata: «Qui manca tutto, ma sicuramente l’acqua è alla base di qualunque sostentamento. Le cistee sono arrugginite, l’acqua si ossida e non è buona. Per voi ospiti abbiamo cucinato utilizzando acqua minerale imbottigliata, ma noi usiamo l’acqua delle cistee e molti hanno problemi intestinali». Lo conferma il pediatra che è con noi e nelle pause tra uno spostamento e l’altro nei villaggi, visita i bambini del campo: la maggioranza ha problemi dovuti all’acqua e alla sabbia del deserto che il vento porta ovunque, anche nei polmoni.
«Servirebbero serbatorni in materiale non ossidabile per ogni famiglia. Ci sono 4.600 famiglie nei campi. Ogni serbatornio costa 150 € circa» – aveva concluso il governatore. Ma servirebbe anche un ambulatorio permanente per il controllo sanitario dei bambini, provvisto di medicinali di base. E biancheria lavabile per l’ospedale e materiale scolastico e una nuova scuola matea più adeguata e sicura…
È incredibile come qui, dove servirebbe tutto, si riescano a definire le priorità: al primo posto acqua, sanità e scuola. È la lezione che ci lasciano i saharawi. Pochi giorni che ci insegnano molto: a guardare nel deserto riconoscendo la vita, il coraggio, la costanza e la speranza; a stabilire priorità dove manca tutto. Una bella dimostrazione per noi. Anche i nostri politici avrebbero molto da imparare.

Di Grazia Liprandi

Grazia Liprandi




Dietro i sorrisi, l’ombra del generale

Dopo le elezioni presidenziali (gennaio) e il sisma (febbraio)

Nella terra di Pablo Neruda, l’anno del Bicentenario (1810-2010) inizia con una serie di terremoti: la terra trema con rara violenza (febbraio), lasciando morte e distruzione, e il panorama politico è scosso dalla fine dell’era della Concertación, vent’anni ininterrotti di governo di centrosinistra che hanno cambiato il paese. Mentre la presidenta Michelle Bachelet esce di scena con un alto indice di gradimento, al governo del paese torna la destra, guidata da Sebastián Piñera, imprenditore e miliardario. Su di lui e sul suo governo  saranno puntati gli occhi di chi teme un ritorno del pinochetismo, in cui una fetta importante di cileni non ha mai smesso di credere.

C’è una strana atmosfera in questa calda estate cilena. Densa di sensazioni contraddittorie. In quest’ultimo angolo del continente americano dalla geografia così particolare, una striscia di 4.300 chilometri – per intenderci, quanto dal Circolo polare artico al deserto del Marocco – ritagliata tra le Ande e l’Oceano Pacifico e ricca di contrasti, sta accadendo qualcosa che non era non facile prevedere. Proprio nel momento in cui Michelle Bachelet, prima donna presidente in un paese fondamentalmente machista, socialista con un passato di tortura ed esilio (1), raggiunge un livello di approvazione dell’84%, la coalizione di destra guidata dall’imprenditore Sebastián Piñera, spesso definito «il Berlusconi cileno», ha appena vinto le elezioni presidenziali.
Per cercare di comprendere un tale terremoto politico, bisogna conoscere un poco la storia di questo paese che forse proprio la sua geografia rende così diverso dal resto del continente sudamericano.

Duecento anni, due dittature

Quest’anno la República de Chile festeggia il suo Bicentenario: il 18 settembre 1810, approfittando della prigionia del re deposto da Napoleone che aveva occupato la Spagna, la colonia spagnola iniziò infatti, con la formazione della prima giunta di governo, il processo che la porterà nel 1818 all’indipendenza. Duecento anni di vita repubblicana con una stabilità inconsueta per quell’area del mondo, interrotti però da due dittature.
La più sanguinaria, quella del generale Augusto Pinochet, pose termine nel 1973 all’esperienza del governo di Salvador Allende, il primo socialista al mondo eletto democraticamente, che aveva nazionalizzato le grandi miniere di rame e cercato di introdurre riforme democratiche in una società polarizzata tra povertà estrema ed estrema ricchezza.
Pinochet, con l’appoggio degli Stati Uniti preoccupati per il pericolo di una diffusione del socialismo che avrebbe minacciato i loro interessi economici nell’area, instaurò un regime di terrore durato ben 17 anni con migliaia di oppositori e comuni cittadini assassinati o scomparsi, e decine di migliaia incarcerati, torturati ed esiliati. Fino al referendum perso dal dittatore nel 1998, e al ritorno della democrazia nel 1990.
Da allora vent’anni ininterrotti di governo della «Concertación de Partidos por la Democracia» la coalizione delle forze di centro-sinistra, hanno cambiato molto questo paese. E questo malgrado i limiti fissati da una costituzione imposta dallo stesso Pinochet, che prevede un sistema elettorale binominale unico al mondo, studiato apposta per impedire cambiamenti sostanziali, equilibrando nel parlamento destra e sinistra.

La Concertación e i difetti del miracolo cileno

In questi vent’anni il tenore di vita medio dei cileni è cresciuto enormemente, la povertà si è drasticamente ridotta – dal 45% dei tempi della dittatura al 10% attuale, Santiago è la capitale commerciale del Sudamerica e le sue multinazionali investono in tutto il continente; le esportazioni di materie prime e prodotti agricoli di qualità, a partire dal vino, continuano a crescere.  Prima del terremoto di febbraio, i conti dello stato, favoriti dai prezzi del rame (di cui il Cile è il maggiore produttore) e da una gestione oculata, andavano a gonfie vele, nonostante la crisi internazionale, permettendo di costruire infrastrutture e organizzare una rete di servizi sociali che ammortizzano in parte gli effetti della crisi e della disoccupazione. Il paese, con una crescita media del 5% all’anno, è al primo posto in America Latina per Indice di sviluppo umano (Isu) ed in molti altri indicatori di sviluppo, ed è appena stato ammesso nell’Ocse, primo paese in quell’area del pianeta.
Certo non tutto è perfetto, in Cile. Dal nord del deserto di Atacama, dove le miniere di rame creano buona parte della ricchezza del paese, all’estremo sud della Patagonia, o nella Araucania che resistette per tre secoli – ultima area del continente – all’invasione dell’uomo bianco ed è ora minacciata da grandi interventi voluti dalle multinazionali per sfruttae le ricchezze naturali, molti cittadini si sentono lontani e trascurati dalla capitale e dalla «Zona Central» dove si concentrano le ricchezze e i grandi investimenti. Se a Santiago, metropoli di quasi sette milioni di abitanti, la rete dei trasporti pubblici, delle autostrade, dei servizi, continua a crescere avvicinandola sempre più ad una modea capitale europea, ed anche l’offerta culturale non è da meno, lo stesso non accade in egual misura nel resto del paese.
Uno dei punti deboli del Cile è il sistema educativo. Se il governo socialista di Allende aveva cercato di garantire un sistema scolastico pubblico universale e unitario, provocando le proteste delle classi più abbienti che preferivano mantenere una separazione tra l’educazione di eccellenza riservata alle élite e una di base per il popolo, il neoliberismo che ha ispirato la dittatura pinochetista ha portato allo smantellamento del sistema pubblico. È stata così garantita soltanto la gratuità di un’istruzione di base e affidato il resto al mercato e all’investimento privato, accollandone dunque i costi alle famiglie e contemporaneamente trasformando l’educazione in uno dei più grandi business del paese, con la nascita di innumerevoli scuole e università private. L’inadeguatezza del finanziamento del sistema scolastico pubblico, che anche il governo della Concertación non è riuscito a superare (le tensioni all’interno del mondo scolastico hanno portato negli ultimi anni a lunghi periodi di occupazione degli istituti, nella cosiddetta «marcia dei pinguini», con riferimento alle uniformi scolastiche) produce un esodo sempre più marcato verso quello privato.
Analogamente il sistema sanitario, basato su un doppio binario pubblico («Fonasa», Fondo Nacional de Salud) e privato (le cosiddette «Isapre», Instituciones de Salud Previsional), pur garantendo una copertura gratuita agli indigenti, favorisce ancora l’impresa privata lasciando al pubblico solo i contributi di chi non può permettersi l’iscrizione alle assicurazioni private.
La mancata risoluzione delle questioni relative all’educazione e alla salute durante i vent’anni di governo della Concertación è forse una delle ragioni del distacco dalla politica da parte di molti cileni, soprattutto giovani, i più colpiti anche dall’aumento della disoccupazione.

Il grigio Frei contro il magnate Piñera

Ma ci sono anche altre ragioni che hanno portato alla vittoria della destra. Tra queste certamente  l’eccessiva fiducia in se stessa da parte di una coalizione di governo logorata – soprattutto a livello locale – da tanti anni di potere ininterrotto e di rigida alternanza tra le sue componenti democristiana, socialista e radicale. E poi la scelta di un candidato poco carismatico come Eduardo Frei, democristiano dall’immagine grigia – ex presidente e figlio di un altro presidente – poco amato dalla sinistra soprattutto per la sua deregulation del mercato del lavoro e le sue privatizzazioni, la cui immagine è stata  ulteriormente compromessa nello scontro fratricida al primo tuo con l’altro candidato di centro-sinistra Marco Enriquez-Ominami, che si presentava come la novità contro il déjà vu.  
Un altro fattore decisivo è stata la capacità da parte della destra ex pinochetista di rifarsi un’immagine presentandosi fin dal nome («Coalición por el Cambio») come «il cambiamento», tappezzando il paese con uno slogan molto obamiano come «Sumate al cambio», ripetuto ossessivamente su ogni albero, su ogni palo della luce, in ogni giardino, e naturalmente in televisione, alla radio, sui giornali, accompagnato dal sorriso fisso e immutabile – molto berlusconiano – del suo candidato Sebastián Piñera, imprenditore di successo divenuto tale anche grazie alla sua vicinanza con il regime di Pinochet (di cui il fratello José era ministro). Sebastián Piñera, populista al punto da farsi fotografare in costume mapuche per conquistare il voto degli indigeni, e promettere che il suo primo atto di governo sarebbe stato un buono una tantum di 40.000 pesos (circa 55 euro)  per quattro milioni di famiglie. E, naturalmente, impegnandosi a creare quello che è ormai un classico delle promesse elettorali: «un milione di posti di lavoro».
 
Aerei, televisioni, calcio e… scandali

Il nuovo presidente eletto, spesso definito «il Berlusconi cileno», che ha fatto fortuna introducendo nel paese le carte di credito ed è ora proprietario di una importante quota della compagnia aerea di bandiera Lan, del network televisivo Chilevisión, di una catena di farmacie, della maggior squadra di calcio del paese e di innumerevoli altre imprese, attento alla sua immagine tanto da ricorrere alla chirurgia estetica, è stato coinvolto in passato in alcuni scandali, i più importanti dei quali furono forse quello del Banco de Talca di cui era amministratore al momento del fallimento (si salvò dal carcere per un intervento dell’allora ministro della giustizia del governo di Pinochet), ed il caso di insider trading di cui fu accusato quando – pare approfittando di informazioni riservate – acquistò una quota importante della compagnia aerea Lan il giorno prima che il prezzo salisse…

Nelle mani delle grandi imprese 

Piñera, appoggiato dai partiti di destra Renovación Nacional e Unión Demócrata Independiente – gli unici che avevano apertamente sostenuto il generale Pinochet in occasione del referendum del 1988 – ha voluto dare un segnale di discontinuità rispetto agli ultimi vent’anni nella scelta della compagine governativa: a parte il ministro della difesa, già presente in due governi di centro-sinistra,  si tratta di personalità provenienti quasi esclusivamente dal mondo dell’impresa privata, dalla «classe alta» del paese, con studi nelle più esclusive università straniere, in buona parte direttamente coinvolte per i loro interessi nei settori dei quali si dovranno occupare. Qualcosa di molto vicino ai «Chicago boys», i professori che si erano formati alla scuola neoliberista dell’Università di Chicago, ai quali si era affidato Pinochet. Persone lontane dalla «gente comune» ed anche da quei tanti cileni che, superata la povertà, hanno creduto di potersi lanciare alla conquista del benessere votando per un imprenditore che prometteva ancora meno stato e più mercato, ancora meno garanzie e più opportunità.
Tutto questo ha permesso alla destra di tornare al potere democraticamente, per la prima volta dopo cinquant’anni. Eppure la gente che festeggiava nelle strade, sventolando ritratti e busti del generale Pinochet, gridando slogan contro i comunisti, sbeffeggiando i desaparecidos e le vittime del regime militare e inneggiando al ritorno del buongoverno dopo vent’anni di corruzione, è la dimostrazione che buona parte della base elettorale di questa che vorrebbe presentarsi come una destra modea e liberale, persino progressista, è la stessa del regime militare, di cui vede in Piñera una continuità, e questo getta un’ombra sul futuro di un paese che, paradossalmente, proprio questa alternanza pare dimostrare essere ormai una democrazia pienamente compiuta. 

Di Carolina M. Lara Meneses e Luca Robino

(1)  Per un ritratto di Michelle Bachelet, si legga: Paolo Moiola-Angela Lano, Donne per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008.
(2)  Subito dopo la vittoria nelle presidenziali, le azioni della Lan sono schizzate verso l’alto. Il neopresidente Piñera possiede un pacchetto azionario pari al 26,33 per cento del capitale.

Carolina Meneses e Luca Robino




Induismo intollerante?

Violenze contro i cristiani e musulmani

Tolleranza o intolleranza religiosa in India? Le violenze dei fondamentalisti indù contro le comunità cristiane dell’Orissa e contro i musulmani dell’India pone alcune domande sulla tradizionale tolleranza religiosa dell’induismo.

L’induismo: tollerante o intollerante? L’Occidente si è sempre trovato in difficoltà nell’interpretare la religione e la cultura dell’India. Per secoli è stato posto l’accento sulla sua spiritualità e la sua cultura millenaria, il cui momento d’inizio della sua storia risale a circa 3000 anni prima di Cristo. Oggi, invece, si preferisce mettere in luce il tasso di crescita del suo prodotto interno lordo e l’eccezionale sviluppo delle sue capacità informatiche, che hanno fatto di Electronic City, vicino a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Entrambe le letture sono parziali e distorte. Nell’abbracciare le varie anime del mondo indiano, vi è il rischio di lasciarsi condizionare da preconcetti e d’incastellare la complessa realtà indiana in una griglia prefabbricata.
Anche nel dibattito, molto vivo oggi, sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.
Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della frateità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Movimenti nazionalisti

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.
Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty Inteational, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Pluralismo religioso
e tolleranza

Dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».
In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.
Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi. Si aggiunga ora il desiderio di trovare una chiara e ben definita identità indù di fronte alle pressioni esercitate sull’induismo da altre tradizioni religiose venute dall’esterno, come il cristianesimo o l’islamismo.

Contro i cristiani dell’Orissa

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.
Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.
La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».
Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili.
Nei mesi successivi all’agosto del 2008 le violenze contro i cristiani si sono ulteriormente complicate. Agli indù si sono unite alcune comunità battiste e diversi gruppi evangelici. «Nella mia diocesi – riferisce il vescovo Jose Mukala di Koshima, nel nord-est dell’India – c’è un grande numero di persone che desiderano diventare cattoliche, ma esiste una fortissima opposizione da parte di alcune confessioni protestanti locali». A Koshima, nel cui distretto i primi cattolici sono stati battezzati solamente nel 1951 all’arrivo dei missionari, ora, in poco più di cinquant’anni, essi hanno raggiunto la cifra di 58.000 fedeli su una popolazione di un milione e 900 mila abitanti, per la maggior parte evangelica.

Violenze anche
nelle nazioni vicine

Gli attentati contro i cristiani in India hanno risvegliato gli estremisti indù che nel Nepal chiedono la fine della libertà religiosa. Il 25 maggio 2009 una bomba è esplosa nella cattedrale cattolica di Dhobighat, alla periferia di Kathmandu, la capitale. Sulla scena del crimine sono stati trovati degli opuscoli di un gruppo militante indùista, denominato National Defense Army (Esercito di difesa nazionale), che ha rivendicato anche l’assassinio del sacerdote salesiano John Prakash, avvenuto nel luglio 2009 nella zona orientale del Nepal. Questo cosiddetto esercito per la difesa nazionale lotta per la restaurazione della monarchia indùista, abolita nel 2008. La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione. Nella cattedrale vi erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti; le persone, molte delle quali ferite, sono state sbalzate lontane dai loro posti, i vetri della cattedrale e gli arredi distrutti. Nel Nepal oltre l’80 per cento degli abitanti è indùista; i cattolici sono solo 7.000, ma ogni anno si registrano circa 300 nuovi battezzati.
La violenza contro i cristiani dell’India ha così superato le frontiere, coinvolgendo, oltre al Nepal, anche il vicino Pakistan. Dei circa 170 milioni di pakistani, nella stragrande maggioranza musulmani, i cristiani vengono subito dopo gli indùisti con circa 2 milioni e 800 mila fedeli. La loro persecuzione è un fatto antico, soprattutto nel Punjab centrale, dove i cristiani vengono sovente accusati di blasfemia. Durante le violenze provocate nel luglio del 2009 dai musulmani nel quartiere cristiano della cittadina di Gojra, nel Punjab, sono stati arsi vivi due bambini, tre donne e due uomini, tutti cristiani. La tensione ha continuato a salire dopo che si era sparsa la voce di una presunta profanazione del Corano per mano di cristiani. In questa tragedia sono state date alle fiamme anche numerose case di cristiani e soprattutto le scuole. Negli ultimi due anni circa 170 scuole hanno subito danni e più di 400 strutture educative sono state costrette a chiudere i battenti o a sospendere la propria attività. Le violenze contro i cristiani in Pakistan non sono però terminate. Il 28 agosto 2009 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco altri cinque cristiani nel centro della città di Quetta, nel Belucistan. Il nuovo episodio arrivava poco dopo il massacro nel Punjab, in cui erano morti undici cristiani e più di cento case erano state saccheggiate o bruciate. I cristiani in Pakistan vivono in uno stato di continua tensione per l’uso improprio delle cosiddette leggi sulla blasfemia e sulle presunte offese contro il Corano e Maometto.
Infine, nello Sri Lanka, l’isola a sud dell’India un tempo denominata Ceylon, i ribelli Tamil di religione indù, i cui combattenti si definiscono Tigri e lottano contro le forze governative, hanno provocato almeno 70 mila morti. Centinaia di migliaia sono stati gli sfollati tra la popolazione civile e circa 250 mila sono rimasti intrappolati nella zona degli scontri. Una tragedia che si consuma ormai da molti anni. Il conflitto tra le forze governative e le Tigri Tamil, che lottano per la liberazione della loro patria nelle zone a nord dell’isola, è infatti iniziato nel 1983 e pare sia terminato il 18 maggio 2009 con la resa incondizionata dei ribelli. Tuttavia l’arcivescovo di Colombo, la capitale del Paese, al termine del conflitto ha dichiarato: «Potremmo dire che abbiamo vinto la battaglia, ma la guerra non è finita».

Quale la causa
delle violenze?

Ecco descritta per sommi capi una delle tante tragedie umane sconosciute o dimenticate. Nel corso delle violenze in Orissa, che ha riguardato almeno 392 villaggi dell’India, circa 500 persone hanno perso la vita, 54 mila sono stati coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case date alle fiamme e 180 chiese son andate distrutte. Ma che cos’è che ha fatto scatenare la furia dei fondamentalisti indù: la conversione al cristianesimo dei tribali dell’India? La paura di perdere la propria identità religiosa nel contesto di un’India democratica e liberale? L’irrompere della globalizzazione che intacca e mette in crisi gli schemi tradizionali? L’influenza dell’Occidente, per molti aspetti laico e indifferente, con il suo potere economico e culturale che convince e trasforma ogni cosa?
Secondo alcuni vescovi indiani la causa dell’attuale persecuzione contro i cristiani non è religiosa, ma nazionalista e politica; in particolare del partito nazionalista Bharatiya Janata, legato al movimento Rashtriya Swayan Sevak Sangh, che ha ispirato diversi gruppi di fanatici. Uno dei fondatori di questo movimento si chiamava Golwalkar. Egli rifiutava l’idea di un’India laica. A essa contrapponeva l’idea dell’Indù Rashtra, di un’organizzazione indù nella quale non ci fosse posto per altre religioni.
I vescovi dell’India non condividono le accuse di proselitismo forzato, dietro cioè ricompense o con l’inganno, perché – dicono – la comunità cristiana «continua a offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discriminazione». «Le accuse infondate di conversioni fraudolenti – continuano i vescovi – sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle loro credenze religiose». Il portavoce della Conferenza episcopale dell’India ha affermato che, dopo gli attacchi e i saccheggi nell’Orissa durati mesi, i cristiani sono ora costretti a convertirsi all’induismo, e a saccheggiare e distruggere le loro chiese. Inoltre, se la maggioranza delle religioni presenti in India convive in modo pacifico, alcuni governi della Federazione hanno messo in atto e ampliato le leggi sull’anti-conversione e non intervengono in modo tempestivo ed efficace per contrastare la violenza contro le comunità cristiane locali.
Questi fatti indùcono a pensare che le violenze contro i cristiani, cattolici o protestanti, non siano semplicemente una strategia socio-politica, ma piuttosto l’espressione di un integralismo religioso che cerca d’imporre l’induismo in ogni parte dell’India, anche nelle regioni delle minoranze tribali del nord-est e, nella parte meridionale del Paese, tra i cristiani del Kerala, regione evangelizzata fin dal IV secolo. Gli attacchi a chiese e istituzioni cristiane si sono infatti estesi negli Stati di Chhattisgarh, Madya Pradesh, Kaataka e Kerala e rischiano di dilagare in altri Stati della Federazione, ormai entrati, come altre parti del mondo, nel vortice del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione della società.
Una tale violenza – affermano ancora i vescovi dell’India – sta umiliando l’antica civiltà indiana e valori come la non-violenza (Ahimsa), la tolleranza, il rispetto per le religioni, il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che l’India ha gelosamente conservato per secoli e che la Costituzione indiana ha posto a fondamento della nazione. In India tutti si dicono scioccati per gli avvenimenti accaduti nell’Orissa. Va inoltre riconosciuto che la deriva del fondamentalismo è solo una manifestazione aberrante di una piccolissima parte dell’India. Essa è però oggi un grave rischio anche per quelle religioni che tentano di preservare e difendere la propria identità con metodi violenti, inaccettabili alla coscienza umana e all’interno stesso dei contenuti della propria fede in Dio.
In India – osservano i vescovi – c’è comunque «bisogno di un dialogo profondo» che non va impoverito dal sincretismo, ma sviluppato nel rispetto reciproco. Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha ricordato che la Chiesa cattolica in India «non ha mai mancato» di promuovere il dialogo e continuerà a farlo rimanendo «dalla parte dei poveri, dei malati, senza guardare se sono indùisti, musulmani o cristiani». Accanto alla preghiera «è vitale e fondamentale» il dialogo. «Solo un vero dialogo interreligioso – ha continuato – permetterà di eliminare ogni possibile causa di tensione e di disaccordo tra gruppi religiosi ed etnici dell’India».
Tutto il mondo cristiano, a cominciare da papa Benedetto XVI, lo desidera e spera che siano rimossi al più presto equivoci e pregiudizi. L’India non si merita il radicalismo dell’Indùtva, il movimento estremista nell’India democratica. Non va infatti dimenticato che nella tradizione indùista la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti e che una guida esemplare della non-violenza è stato il Mahatma Gandhi, giunto al punto di sacrificare la propria vita per mano di un fanatico indù. Lo stesso Primo Ministro della Federazione indiana ha riconosciuto che l’ondata di violenza che ha colpito i cristiani in questi ultimi mesi è una vergogna nazionale, in contraddizione palese con i grandi valori di non-violenza, tolleranza e rispetto delle religioni che l’India ha coltivato per secoli. 

Di Gianpiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Pochi (cristiani) ma buoni

Somalia – Gibuti: monsignor Giorgio Bertin

Il Coo d’Africa. Si combattono i pirati in mare ma non si cercano le cause. La Somalia è ingovernabile e i gruppi di matrice islamica si sono «affiliati» ad Al Qaeda. I cristiani sono ormai pochissimi, e dispersi. Oggi il vescovo ha solo contatti individuali. E tra Gibuti ed Eritrea continua la tensione.  Senza la ribalta dei media.

Monsignor Giorgio Bertin è vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, o «di tutte le Somalie», come lui ama ricordare. È frate francescano dell’Ordine dei frati minori.
Vicentino, ha lavorato a lungo con monsignor Salvatore Colombo,  assassinato a Mogadiscio il 9 luglio del 1989.  Attualmente risiede a Gibuti, e tenta, tra mille difficoltà, di dare il suo appoggio ai pochi cristiani in Somalia. Ha studiato l’arabo e parla somalo, inglese e francese.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’area.

Mons. Bertin come descrive la situazione attuale in Somalia?
La situazione rimane estremamente difficile, non dico disperata, ma molto grave. Inoltre è chiaro che questo crea problemi ai paesi vicini, in particolare a Etiopia e Kenya, ma non sarebbe improbabile che li creasse in futuro a Gibuti, che per ora è risparmiato. Ad esempio la pirateria non si risolve solo sull’acqua, arrestando i pirati, ma è una conseguenza di un problema sulla terra, in Somalia.
C’è uno sforzo concreto per il mare, mentre l’azione di contrasto sulla terra in questo momento è verbale, di buone intenzioni, ma bisogna che queste e i timidi passi che si fanno, siano più rafforzati, presi con maggior decisione.

Lei pensa che questo governo somalo riuscirà a rimanere in piedi a lungo?
Gli shebab (gioventù, in somalo, è il nome con cui si fanno chiamare gli estremisti islamici somali, ndr) sono forti, perché mentre si svolgeva a Gibuti la quindicesima conferenza sulla riconciliazione della Somalia, loro avevano già cominciato a prendere il terreno in mano. Era successa la stessa cosa con il precedente governo di transizione. Non so se prenderanno veramente il potere, anche  perché penso che in quel caso, l’Etiopia reinterverrebbe in modo molto chiaro, per opporsi. La cosa scatenerebbe come reazione un intervento, forse anche del Kenya, mi immagino.
Il governo federale di transizione ha un margine minimo di potere. Come al solito ha la comunità internazionale che lo appoggia, ma sul terreno le cose non vanno tanto bene, soprattutto in quella zona. È vero che dietro gli shebab e anche agli altri ci sono ancora gruppi con legami clanici.
Quindi si ha l’impressione, come dicono i somali, che abbiano cambiato camicia: la prima era quella della libertà e la democrazia, la seconda è stata quella del clan, la terza quella del semplice signore della guerra e adesso, la quarta, è quella dell’ideologia islamica. Ma si ha l’impressione che dietro ci siano sempre alcuni gruppetti, con legami clanici.
Recentemente hanno mostrato una video cassetta in cui dichiaravano la loro lealtà nei confronti di Al Qaeda. Non so se è vera o se è cercare un ulteriore appoggio. Credo che abbiano dei rapporti, ma ho l’impressione che cerchino di tirarli ancora di più dalla loro parte. Per sostenerli nella loro ideologia, ma anche nella loro presa di potere con questi legami clanici.

Cosa ci dice dei cattolici in Somalia, sono perseguitati?
I cattolici in Somalia, sono pochissimi. Anche prima di questa guerra civile eravamo circa 2.000 di cui il 90% stranieri. Questi sono andati via, quelli rimasti in parte sono stati uccisi. E anche tra i somali una buona metà è partita. Ne resta un gruppetto, forse meno di un centinaio, ma disperso. Io sono in contatto telefonico con alcuni di loro, ma nulla di più. Risiedono soprattutto nella zona di Mogadiscio, ma metà della popolazione è fuori città, in campi di sfollati.
Dire che sono perseguitati vorrebbe dire che c’è qualcuno che li perseguita in modo generale e che sono tanti. Io direi che non c’è persecuzione in modo formale, ma certamente questi gruppuscoli violenti legati a shebab e altri, hanno bisogno di crearsi dei diavoli da combattere.
Prima, ma anche ora, quelli che conoscevano i cristiani, avevano imparato a vivere insieme pacificamente, però adesso mancando la legge e lo stato, i gruppetti sono disperatamente alla ricerca del caso da presentare alla loro ideologia. Come i giornalisti, quando venivano in Somalia cercavano il bambino striminzito da far vedere nelle loro foto. Mentre la maggioranza non era così.
Devono quindi stare in clandestinità nascosti.

E lei riesce ad andare in Somalia regolarmente? Qual è oggi il clero presente?
Adesso è un anno e mezzo che non riesco ad andare nella zona centro-sud, ma negli ultimi anni non ho mai potuto incontrare i cristiani insieme come gruppo. Qualche individuo singolo sì. Il rischio era per me ma anche per loro, perché li avrebbero individuati. Questi gruppi che devono far vedere che loro stanno combattendo per il trionfo dell’islam e per scacciare i traditori, li ucciderebbero e lo hanno anche fatto.
Non ci sono sacerdoti stabili, e quando vanno rischiano subito di farsi individuare. Gli unici sono qualche cristiano somalo e qualche cristiano nelle Ong. Anche le suore sono uscite dopo l’uccisione di suor Lionella (missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, ndr). Le consorelle sono andate una a Gibuti e due in Kenya.

E le tensioni tra Gibuti e l’Eritrea sono finite?
No, non sono finite, Gibuti continua a chiedere che gli eritrei se ne vadano e le Nazioni Unite continuano a dichiarare e minacciare, ma l’Eritrea rimane sul territorio occupato a Gibuti, che comunque è poca cosa.
La Francia è intervenuta all’inizio, ha appoggiato Gibuti soprattutto con la logistica, e ha visto che le cose si sono fermate. Ha ritirato i suoi militari dal fronte, mentre vi rimangono i soldati gibutini, perché c’è questo stallo. La mia impressione è che l’Eritrea dica: visto che voi all’Onu avete deciso di darci un po’ di ragione con l’Etiopia e questa non si ritira, io non mi ritiro da Gibuti, convincete l’Etiopia a ritirarsi e io farò altrettanto. È una mia interpretazione perché non capisco cosa gli interessi quel pezzo di terra.

Parlando del sinodo per l’Africa, secondo lei, ha rispettato le aspettative?
Io penso che nelle prime due settimane sia stato un po’ dispersivo. Mi è sembrato che nei vari interventi ognuno mettesse sul tavolo le sue preoccupazioni e l’impressione era che si perdesse forse qual era lo scopo e il tema di questo sinodo. Però credo che ci sia stata un’opera di ridirezione da parte della segreteria perché sia nel messaggio che abbiamo preparato noi, sia nelle proposizioni dei vari gruppi, c’è stato un raddrizzamento, nel senso di evitare dispersioni e rifocalizzare il tema principale. Vedo che c’è stato un buon lavoro positivo.

Per applicare il messaggio del sinodo nella quotidianità della gente, che idee ci sono?
Qui si è detto che Ecclesia in Africa (del 1995, è l’esortazione apostolica del primo sinodo per l’Africa, ndr), si è cercato di applicarla, ma forse è mancato da parte dei vescovi stessi un monitoraggio, per dire cosa stiamo facendo, come stiamo lavorando. Risulta chiaro da diversi interventi, che tornando nei nostri paesi, si aspetterà  l’esortazione post sinodale, ma il Messaggio del sinodo è corposo. Abbiamo preferito tenerlo lungo proprio perché vogliamo tornare dai nostri con qualcosa in mano, senza aspettare troppo. Qualcosa su cui cominciare a riflettere. L’impegno che ci siamo presi è che i punti particolari vogliamo attuarli senza accontentarci di belle parole. Ovvero dire: facciamo una valutazione dopo un periodo, cosa abbiamo messo in pratica, quali sono gli aspetti che ci toccano, fare un monitoraggio.

Ha visto novità particolari in questo secondo sinodo per l’Africa?
Rispetto al precedente sinodo l’aspetto particolare è che ci siamo concentrati su dei temi, cercando di  non disperderci. Non c’è nessuna vera novità, ma un’insistenza e una ricerca per la messa in pratica di alcuni aspetti della dottrina sociale della chiesa, che toccano riconciliazione, giustizia e pace. Questo a livello liturgico, di catechesi, educazione, ecc.
Questi temi devono far parte della formazione della comunità cristiana. Un altro aspetto su cui io personalmente sono coinvolto, è quello della collaborazione con persone di altre religioni, in particolare l’islam ma anche le religioni tradizionali.
Perché è un tema che interessa non solo i cattolici, ma tutti gli abitanti dell’Africa. Pure questo è un aspetto che è stato  messo in luce.

Anche il ruolo della donna è stato messo in luce, è venuto fuori nel messaggio, che la generica affermazione che si trova in Ecclesia in Africa deve essere messa in maggior rilievo e messa in pratica, sia a livello della società ma anche all’interno della chiesa stessa. Si è riconosciuto che in questo ultimo caso non si è fatto molto.  

Di Marco Bello

Marco Bello




Lhasa, nella morsa di Pechino

Tibet: viaggio attraverso il «paese reale»

È stata una teocrazia cruenta ed elitaria. Dopo l’invasione della Cina (1950),
la situazione non è migliorata. Il Tibet è diventato una regione – formalmente autonoma – su cui Pechino agisce con pugno inflessibile. I monasteri sopravvissuti alla chiusura sono strettamente controllati. I tibetani sono rinchiusi in carcere per ogni azione che contrasti con i voleri di Pechino. Gli stranieri possono accedere alla regione soltanto con mille limitazioni, mentre il Dalai Lama viene descritto come un nemico pubblico, da isolare e demonizzare. Il racconto di un viaggiatore occidentale entrato in Tibet clandestinamente.

Jamyang Gyatso, nome legale Lhundrup Kalsang, 29 anni, originario di Gyantse, monaco del monastero di Gyaltse Palkhor. Fu incarcerato nel dicembre del 1996 e condannato a cinque anni per aver distribuito copie di una preghiera di lunga vita composta dal Dalai Lama per il Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
Lobsang Dawa, 28 anni, originario di Phenpo Lhundrup era monaco a Ganden. Fu arrestato il 7 maggio 1996 per «attività politiche» e condannato a 12 anni. Sey Khedup, 27 anni, era monaco a Sog Tsendhen. Fu incarcerato il 19 marzo 2000 per aver affisso ad un muro del Barkhor dei manifesti pro-indipendenza. Fu condannato nel dicembre dello stesso anno all’ergastolo. Lobsang Nyima, 30 anni, originario di Pashoe, era monaco nel monastero di Pomda. Fu incarcerato nell’agosto del 1997 e condannato a cinque anni per non aver partecipato ad un «lavoro di squadra» all’interno del convento.
Thinlay Choenden Samdup, 34 anni, originario di Phenpo Lhundrup. Era monaco nel monastero di Drepung quando fu incarcerato il 25 aprile del 1998. Fu condannato a quattro anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza a Lhasa. Fu tenuto in carcere 18 mesi prima di ricevere una formale accusa. Migmar, 37 anni, originaria di Lhasa, impiegata nel settore delle telecomunicazioni. Fu arrestata nel gennaio 2001 e condannata a sei anni per aver guardato un video del Dalai Lama. Phuntsok Wangdu, 32 anni, di Lhasa, monaco a Ganden. Fu incarcerato il 7 marzo 1997 per non meglio chiarite attività politiche. Condannato a 14 anni.
Sono solo alcuni del «migliaio» di prigionieri politici detenuti nella prigione di Drapchi nel maggio del 2001.

Prima dei cinesi

Così vivono i tibetani in Tibet. Costantemente sotto controllo. Osservati e incarcerati per i più disparati motivi. Distribuire copie di una preghiera per il Dalai Lama equivale a «mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Riunirsi in più di sei persone può significare «attività politiche» e garantire una dozzina di anni di carcere. Guardare un video del Dalai Lama ne garantisce sei. Possedere una bandiera tibetana, sette.
Però in fondo le cose per i tibetani non andavano molto meglio prima dell’invasione cinese. La teocrazia presieduta dal Dalai Lama, nonostante si ispirasse alla filosofia buddista, contraria all’uccisione e ai maltrattamenti, non si comportava secondo tali precetti. Le pene corporali anche cruente erano all’ordine del giorno. Henrich Harrer, che in Tibet passò sette anni tra il 1943 e il 1950, racconta di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyriong: «Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo, fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare fu gettato in un precipizio». Altre volte veniva praticata la fustigazione pubblica, che spesso portava alla morte in seguito a dolori lancinanti.
Altri reati erano puniti con la gogna, con lo sfregio o con il carcere a vita. La punizione per l’adulterio era il taglio del naso.
Non migliore era la situazione economica. Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Il monastero di Drepung, ad esempio, che era il monastero più grande del mondo, possedeva una delle più estese proprietà terriere del globo, con 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di più alto rango, che spesso erano nominati Lama per ingraziarsi le famiglie aristocratiche, mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la classe contadina dalla quale discendeva.
Secondo la giornalista Anna Louise Strong, che viaggiò nel Tibet nel 1959, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.

Il lungo viaggio

Certo, se oggi il Tibet dovesse tornare libero la situazione non sarebbe quella di cinquanta anni fa. L’attuale Dalai Lama si considera mezzo buddista e mezzo marxista e, grazie anche all’esilio e alla conoscenza del mondo esterno che questo ha portato, ha più volte condannato molte delle pratiche medioevali del Tibet pre – cinese.
Nonostante ciò Pechino non ha mai voluto negoziare con il Dalai Lama. A prova del fatto che gli interessi cinesi in Tibet sono di carattere geopolitico ed economico e non ideologico. Ma la scintilla che, costantemente, infiamma i tibetani contro i loro invasori è invece di carattere strettamente ideologico. Ed è per questo che il controllo esercitato dalle autorità di Pechino sugli abitanti dell’altipiano raggiunge livelli paranoici. Alcune persone sono state incarcerate per aver recitato delle preghiere che contenevano le parole «Dalai Lama», altri per aver cercato tali parole su google.
Per evitare che il mondo si accorga di tutto questo, da quando hanno invaso il Tibet le autorità di Pechino hanno sempre vietato a tutti di visitare il tetto del mondo in completa autonomia. L’unico modo oggi possibile per andare in Tibet è con un viaggio organizzato da un tour operator cinese.
Ma io avevo una promessa da mantenere. Nell’aprile del 2007 conobbi Palden Gyatso. Monaco tibetano che aveva passato 33 anni nelle carceri cinesi per non aver denunciato il Dalai Lama e la sua «cricca reazionaria».
Dopo una lunga chiacchierata Palden mi disse: «Io non posso più tornare in Tibet. Vai tu e raccontami come è il paese delle nevi». Due mesi dopo ero sull’altipiano, ma non con un tour operator cinese. Palden mi aveva chiesto di raccontargli il Tibet, e non quello che i cinesi vogliono farti apparire come tale. Passai la frontiera nascosto in un camion insieme ad un pellegrino nepalese che tentava di raggiungere il monte Kailash, la montagna sacra ai buddisti, ai giainisti, ai bön e agli induisti.
Alle pendici del monte Kailash scesi dal camion, e da lì mi incamminai a piedi fino a Lhasa, passando dal monte Everest e dal villaggio natale del mio amico Palden. Percorsi più di 1.500 chilometri a piedi. Ottocento di questi in compagnia di un pellegrino che tornava a casa dopo aver percorso 108 circuiti sacri del monte Kailash. Sono pochi gli occidentali che hanno avuto la fortuna, e la sfortuna, di entrare in Tibet. Ed è anche grazie a questo che la Cina può contare su una costante disinformazione su ciò che vi accade.
Oggi chi parla di Tibet lo fa da Nuova Delhi o da Dharamsala, alcuni addirittura da Pechino. Solo pochi lo fanno da Lhasa. Ma, purtroppo, Lhasa ormai non è più Tibet. Il vero Tibet, quello dei pastori nomadi e dei monaci che resistono, non lo conosce quasi nessuno, e quindi nessuno ne parla. E le autorità di Pechino approfittano molto di questo.
Stando alle agenzie di stampa cinesi la repressione in Tibet è terminata da anni e il paese è una provincia cinese «perfettamente integrata». Potrebbe essere così per quanto riguarda Lhasa. Ma di sicuro non è così nell’altipiano.
Gli arresti indiscriminati continuano. Molti monasteri sono chiusi, altri sono aperti ma i monaci vi possono accedere solo in numero controllato. Ogni monastero può ricevere un numero di monaci massimo che non superi il 10% della sua capienza.
I monaci sono obbligati ad eseguire sedute di rieducazione e «lavori collettivi» con scadenze settimanali. Chi non partecipa finisce dritto dritto in carcere a subire torture di ogni tipo.
La ferocia della repressione è brutale, e lo è per un preciso motivo. I tibetani non mollano la presa. Nelle ultime manifestazioni di indipendenza, quelle del 2008, hanno partecipato persone che sono nate da genitori nati in un Tibet già occupato. Giovani «nati in seno al partito» come dicono in Cina.
E se le autorità di Pechino vietano l’ingresso a tutti lo fanno sì per nascondere le brutalità che stanno commettendo, ma soprattutto per evitare che il mondo si renda conto che il Tibet non è una provincia cinese. Nonostante le repressioni e le vessazioni, nonostante il tentativo sistematico di annullare la cultura tibetana questa è ogni giorno più viva.

Le hanno provate tutte

Fin dal 1950 i governanti di Pechino hanno speso le loro energie migliori per sottomettere il popolo tibetano. Prima l’invasione militare, poi la repressione religiosa, la Rivoluzione Culturale e infine l’immigrazione forzata han. Ma l’occupazione del Tibet si ferma lungo le due strade principali e nelle periferie delle città. I centri storici arroccati intorno ai monasteri, i piccoli villaggi delle verdi vallate, i laghi turchesi, le vette delle montagne, le interminabili lande popolate dai nomadi sono ancora Tibet.
Qui conobbi Lobsang, un ragazzo tibetano che ha studiato a Dharamsala grazie ad una borsa di studio. Una volta rientrato in patria si è trovato costretto a fare, da laureato, il cuoco per un’agenzia di viaggio nepalese, perché chi ha studiato dal Dalai Lama è considerato un reazionario. Lobsang ha un’idea molto chiara delle relazioni Cina – Tibet. Un giorno mi disse: «I cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, sono oltre 1,3 miliardi di persone, hanno la bomba atomica, uno degli eserciti più potenti del mondo, temono un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno».
Ed è forse anche questo concetto che i cinesi vogliono nascondere in Tibet. In Cina parlare di Tibet è tabù.  La pena di morte, lo sfruttamento dei lavoratori, la giustizia sommaria sono tutti argomenti scottanti ma per i cinesi l’argomento più delicato di tutti è proprio il Tibet.
È sorprendente come l’economia più forte del mondo possa essere messa in crisi da un gruppo di pastori nomadi, analfabeti e malnutriti. Ma la risposta è semplice. Allo stato attuale il Tibet rappresenta la più grande sconfitta della Repubblica Popolare Cinese, sia sul piano politico – militare che sul piano delle relazioni inteazionali. Le pressioni dei gruppi filo – tibetani all’estero, il continuo peregrinare del Dalai Lama e le interrogazioni all’Onu sono una fonte di imbarazzo per un paese che si propone come un nuovo leader mondiale, non solo nel campo economico. E i motivi delle incarcerazioni e delle condanne lasciano trapelare quello che sostiene Lobsang. I cinesi hanno paura. Paura che l’immagine di una superpotenza forte, compatta e inarrestabile venga messa in dubbio da un pugno di monaci e qualche pastore nomade. Come mi disse Lobsang: «Mi sembra la storia dell’elefante e il topolino che raccontano in India». 

Di Flaviano Bianchini

CRONOLOGIA

IL TIBET FINO ALLA «GUERRA DELL’OPPIO»

Paleolitico superiore (50.000 anni fa) – Primi insediamenti umani in Tibet.
VII secolo dopo Cristo – Sotto la guida dell’Imperatore Songtsen Gampo il Tibet conquista parte della Cina e dell’India. L’abile Songtsen Gampo sposa una donna cinese e una nepalese per proteggere i confini dell’Impero.
770 – Inizia la diffusione del buddismo sull’altipiano tibetano.
823 – Dopo decenni di lotte un trattato di pace con la Cina sigla che «Il Tibet e la Cina devono fermarsi alle frontiere che stanno occupando ora. Tutto ciò che sta a est è terra della Grande Cina, tutto ciò che sta a ovest è, senza alcun dubbio, territorio del Grande Tibet. D’ora in poi da nessuna delle due parti deve provenire minaccia di guerra o di confisca di territori» ancora oggi inciso sul portone del Jokang a Lhasa.
1240 – I mongoli di Gengis Khan conquistano il Tibet praticamente senza colpo ferire.
1271 – 1368 – Kubulai Khan imperatore della Cina. Inizia la dinastia degli Yuan.
1407 – I mongoli vengono espulsi dal Tibet. Inizia l’espansione del buddismo sull’altipiano. In questi anni sorgono tutti i grandi monasteri del Tibet.
1578 – Altan Khan, imperatore della Mongolia, proclama Seunam Gyamtso Dalai Lama (letteralmente Oceano di Saggezza), inizia il dominio dei Dalai Lama sul Tibet.
1642 – Il quinto Dalai Lama instaura regolari rapporti diplomatici con la Cina.
1696 – 1700 – Muore il quinto Dalai Lama. Truppe cinesi invadono e saccheggiano il Tibet. Il sesto Dalai Lama è costretto all’esilio in Mongolia.
1793 – Trattato dei venti punti. Il Tibet è de facto un protettorato cinese.
1839 – Guerra dell’oppio in Cina. Il Tibet riacquista indipendenza.

LA PERDITA DELL’INDIPENDENZA

1902 – 1904 – Truppe inglesi entrano in Tibet. Sbaragliano completamente l’esercito tibetano (gli inglesi conteranno tre morti, i tibetani quasi tremila) e arrivano a Lhasa. Il XIII Dalai Lama fugge in Mongolia. Il Tibet entra nella sfera d’influenza britannica.
1906 – Trattati sino – inglesi ridanno alla Cina una certa influenza sul Tibet.
1912 – Proclamazione della Repubblica cinese a Lhasa. Rivolta dei monasteri. Il Dalai Lama fugge in India.
1913 – Cacciata dei cinesi. Il XIII Dalai Lama torna in patria e il Tibet dichiara l’indipendenza dalla Cina.
1914 – 1933 – Il XIII Dalai Lama tenta di modeizzare il Tibet. Invia delegazioni all’estero, visita Pechino e riceve delegazioni russe e inglesi. Tenta anche di modeizzare l’esercito ma si scontra continuamente con il clero conservatore.
1934 – Dopo la morte del Dalai Lama il Tibet è scosso da continue lotte intee per la successione. I monaci e gli aristocratici governano il Tibet a tutti i livelli, sono consentite schiavitù e servitù della gleba, la terra è tutta proprietà di monasteri e latifondisti. Nel frattempo in Cina l’esercito di liberazione popolare guidato dal giovane Mao Zedong inizia una lunga guerriglia contro le truppe nazionaliste di Chang Kay Shek e contro i vari signori della guerra presenti in Cina.
1939 – 1945 – Seconda Guerra Mondiale. Il Tibet si dichiara neutrale.
1947 – L’India diventa indipendente.
1949, primo ottobre – Nasce la Repubblica Popolare Cinese. Mao Zedong ne è il leader indiscusso.
1950 – «Volontari» cinesi partecipano alla guerra in Corea. Viene annunciata l’imminente «liberazione» del Tibet.
1950 – 1951 – Truppe cinesi invadono il Tibet. Accordo in 17 punti per la «liberazione pacifica del Tibet». Nasce l’Anvd, l’esercito guerrigliero tibetano.
1954 – Prima riforma agraria. In tutta la Cina (Tibet compreso) la terra viene confiscata ai latifondisti e distribuita ai contadini.
1954 – 1974 – «Guerra dei vent’anni». Ribelli Kham si fronteggiano alle truppe cinesi. La Cia (servizi segreti Usa) li appoggia.
1958 – «Grande balzo in avanti»:  vengono collettivizzate le terre. I contadini che prima lavoravano per un monastero ora lavorano per una comune. Viene obbligato tutto il Tibet a coltivare riso anziché orzo, ma a quelle quote i raccolti sono miseri.
1959 – Rivolta di Lhasa. In occasione del capodanno tibetano decine di migliaia di tibetani si ribellano all’occupazione cinese. L’esercito apre il fuoco sulla folla. Circa 80.000 morti in tre giorni. Il Dalai Lama denuncia l’accordo in 17 punti e fugge in India. Secondo l’Inteational commission of jurists (Icj), commissione sotto l’egida dell’Onu, la Cina è responsabile di genocidio. Iniziano le repressioni religiose.
1960 – 1963 – Prima tensione e poi rottura tra Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica richiede indietro i prestiti in grano. Grave carestia in tutta la Cina. In Tibet si parla del 10 -15% della popolazione morta di fame.
1966 – «Rivoluzione culturale proletaria». Le Guardie rosse distruggono tutti i luoghi di culto del Tibet.
1972 – Incontro tra Nixon e Mao. Le speranze di un aiuto statunitense alla causa tibetana si infrangono.
1976 – Morte di Mao Zedong, fine della Rivoluzione culturale. Dopo dieci anni sono rimasti in piedi solo otto monasteri con un migliaio di monaci. Nel 1959 i monasteri erano oltre 6.000 e i monaci più di 100.000.
1977 – Deng Xiaoping promuove l’immigrazione forzata in Tibet. In venti anni oltre otto milioni di cinesi han si spostano in Tibet. I tibetani diventano una minoranza.
1987 – Rivolte in Tibet represse nel sangue.
1989 – Manifestazione di piazza Tien Anmen. Caduta del muro di Berlino. Premio Nobel per la Pace assegnato al Dalai Lama. Grande rivolta in tutto il Tibet. Hu Jintao, allora governatore del Tibet, impone la legge marziale e reprime la rivolta nel sangue. Il Parlamento europeo lo condanna. Deng Ziao Ping si congratula con lui attraverso un famoso telegramma.
1991 – Anno internazionale per il Tibet.
1995 – Rapimento e sparizione dell’VIII Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
1997 – Morte di Deng Xiaoping.

IL TIBET OGGI

Anni 2000 – La Cina diventa una superpotenza economica. Per molti paesi rappresenta il primo partner economico e il Dalai Lama inizia a vedersi rifiutare da diversi governi.
2007 – Il Dalai Lama in visita in Italia non viene ricevuto né dal Papa né dai rappresentanti del governo italiano. Il premier Romano Prodi, intervistato sull’argomento, risponderà «ragioni di stato».
2008 – Prima delle olimpiadi di Pechino in Tibet scoppia l’ennesima rivolta nuovamente repressa nel sangue. Le olimpiadi si svolgono regolarmente. A giornalisti e atleti non è però concessa libertà di movimento.
2009 – Con la crisi economica globale la Cina diventa l’ancora di salvezza. Si affievoliscono sempre più le speranze di indipendenza dei tibetani.

(a cura di Flaviano Bianchini)

Stanno «sotto» gli interessi di Pechino
Ferro, rame, oro, acqua

La Cina non può fare a meno del Tibet. Il boom economico cinese va supportato da ingenti quantità di materie prime. Metalli, petrolio e, soprattutto, acqua. Il Tibet e il Turkestan sono tutto questo. Il Turkestan è il petrolio. Il Tibet i metalli e l’acqua. I cinesi si sono accorti che, oltre ad andare in Africa o in America Latina, possono rifoirsi di metalli in casa loro.
Nel 1999 il ministero delle Risorse e dei Territori, ha inviato un migliaio di ricercatori, geologi e ingegneri minerari sull’altipiano. Divisi in 24 brigate di ricerca, hanno realizzato una mappatura precisa e dettagliata di tutti i giacimenti presenti sul tetto del mondo. L’operazione, conclusasi nel 2006, è costata circa 44 milioni di dollari. Ma non appena ricevuti i primi dati delle ricerche Pechino ha approvato la costruzione della ferrovia per Lhasa. Costo dell’operazione: quattro miliardi di dollari. Ma ampiamente ripagabili.
Il fabbisogno di ferro, per esempio, è aumentato da 186 milioni di tonnellate nel 2002 a 350 milioni nel 2007. Il solo ingresso della Cina sul mercato internazionale del ferro ha fatto quasi triplicare il prezzo di questo metallo. E lo stesso vale per l’oro, per il rame e per la bauxite. Ma ora Pechino ha scoperto che sul «Tetto del mondo» giacciono un miliardo di tonnellate di ferro e 40 milioni di tonnellate di rame. Nel 2007 la Cina ha superato il Sudafrica nella classifica dei paesi produttori di oro e tutto questo oro arriva proprio dal Tibet. Secondo le stime delle brigate di ricerca sotto il suolo del Tibet giacciono minerali per un valore complessivo di oltre 150 miliardi di dollari. Il che giustifica le spese per la costruzione della ferrovia per Lhasa, il suo ampliamento fino a Shigatze, il finanziamento delle brigate di ricerca e la repressione di ogni forma di protesta. Non saranno certo i monaci a fermare Pechino in questa sua fame di metallo. L’Occidente lo sa.

Per Pechino Tibet significa metalli, ma significa anche acqua. Il 48% della popolazione mondiale, l’82% di quella asiatica, vive grazie all’acqua del Tibet. Da esso si alimentano i bacini del fiume Giallo, Azzurro, Gange, Indo, Sultej e Bramaputra. Controllando la regione, la Cina controlla l’approvvigionamento di acqua di quasi metà della popolazione mondiale.
Ma a tutto questo i tibetani non ci stanno. E continuano a ribellarsi con tutti i loro mezzi. La stragrande maggioranza di loro che, costantemente, scendono in piazza per manifestare contro la Cina e il suo esercito di liberazione popolare non ne sa nulla dei giochi politico – ecologici – strategici intorno al loro Paese. Loro sanno che il Dalai Lama, la loro indiscussa guida spirituale, è costretto all’esilio da ormai cinquanta anni; sanno che le terre sterili del Tibet non producono cibo a sufficienza per l’immigrazione forzata promossa da Pechino; sanno che i monasteri, centri nevralgici e vitali del Tibet, sono stati prima distrutti, poi ricostruiti ed infine svuotati; sanno che non hanno libertà di stampa, di informazione, di preghiera e di religione; sanno che devono rispondere a dei governanti che non parlano la loro lingua e che non si vestono come loro; sanno che ovunque vanno e qualsiasi cosa facciano rischiano di essere considerati reazionari e quindi incarcerati e torturati. Questo a loro basta. Non gli serve di sapere altro.

Il Dalai Lama invece sa perfettamente gli interessi che ci sono dietro (sarebbe meglio dire sotto) la sua terra. Ed è per questo che sono ormai anni che non chiede più l’indipendenza del Tibet. Molti tibetani non sono d’accordo con la linea morbida adottata da Tenzin Gyatso. Ma egli sa perfettamente che, allo stato attuale delle cose, la Cina non può fare a meno del Tibet. E sa anche che, da quando c’è la crisi, è tutto il mondo globalizzato che non può fare a meno del Tibet. O meglio, non può fare a meno delle risorse che la Cina preleva al Tibet. L’economia cinese è la pezza che ha arginato, seppur solo temporaneamente, la crisi mondiale e le sue conseguenze (l’economia americana in crisi ha chiesto prestiti alla Cina e li ha ricevuti dando respiro all’economia, anche se in modo temporaneo). Ma questo rammendo si basa sulle risorse del Tibet (l’aumento dei prezzi delle materie prime è stata una delle cause della crisi, e la Cina ha immesso nuove materie prese da Tibet e Turkestan). Ma non possiamo pensare che l’economia continui a crescere all’infinito, in un mondo dove le risorse sono finite. 

Flaviano Bianchini

Flaviano Bianchini




L’esempio brasiliano

Immigrazione illegale in Italia e in Brasile

Il Brasile è un paese che si è costruito sull’immigrazione e ancora oggi
ha larghe fette di immigrati, essendo uno dei giganti economici emergenti.
Anche là non tutti gli immigrati sono legali, solo che il problema è affrontato
in modo diverso che da noi. Forse abbiamo qualcosa da imparare.

Globalizzazione: basta la parola per avere una fotografia di quello che da un paio di decenni è il modello economico dominante: un flusso costante e interconnesso di merci che si muovono a ritmi vertiginosi da un luogo all’altro. Libertà ampia e senza restrizioni ai beni di consumo. I pomodori turchi in Francia, il gazpacho spagnolo in Giappone, le scarpe italiane negli Stati Uniti, le chincaglierie cinesi sparse per tutto il pianeta, e così via. Tutto si muove, e tutto – in questo incessante muoversi – produce ricchezza o povertà a seconda del punto di vista da cui si osservi il transito. E gli esseri umani? Quelli se ne devono stare a casa loro. E quando cercano di uscire con quella forza che solo la disperazione dà, è la frontiera di qualche lontano Paese in cui vanno a cercare di sfuggire alla miseria che provvede a rispedirli al mittente.
Ma quell’umanità che ha ereditato i peggiori scompensi prodotti dal capitalismo selvaggio, con la sua inarrestabile corsa per la sopravvivenza impone agli altri Paesi di confrontarsi anche con il problema della globalizzazione umana. L’immigrazione contemporanea mette in crisi il ruolo prioritario conferito finora alle merci e riporta al centro della discussione l’uomo, infiammando le società con complessi dibattiti su questioni di carattere etico e politico. Da una parte le nazioni appartenenti al cosiddetto «blocco dei paesi del primo mondo», che si irrigidiscono di fronte al timore delle trasformazioni che stanno avvenendo all’interno delle loro culture, custodite orgogliosamente da centinaia di anni come simboli statici di un periodo aureo di dominazione del mondo. Dall’altra, i paesi emergenti, nati essi stessi da fenomeni migratori, che difendono la necessità di organizzare i flussi mondiali partendo dall’adozione di politiche umanitarie, sì, ma anche pragmatiche e a lungo termine.
Una democrazia in crisi
Nel primo gruppo figura l’Italia dell’era Berlusconi, che di fronte al problema dell’immigrazione ha rivelato un profondo deterioramento del proprio sistema di garanzie democratiche. I numerosi elementi negativi presenti nella politica portata avanti dal Goveo Italiano in quest’ultimo anno sono ormai noti: l’introduzione del crimine di immigrazione clandestina, la subordinazione della concessione del Permesso di Soggiorno al contratto di lavoro dipendente, la persecuzione dei locatori e dei datori di lavoro di immigrati irregolari, il ruolo ambiguo e inquietante delle ronde, il tentativo di segregazione scolastica degli stranieri, l’invito a denunciare gli irregolari che richiedano prestazioni nelle strutture sanitarie, l’aumento della burocrazia per la regolarizzazione di uno straniero, il patealismo nazionalistico di uno stato che offre la Carta di Soggiorno permanente in cambio del dominio della lingua italiana e dell’assimilazione automatica della cultura nazionale o, peggio ancora, regionale. Chiaramente la lista non finisce qui. Le norme sono innumerevoli e trasmesse alle questure ad un ritmo tale da non permettere alla macchina burocratica di metterle in pratica.
Una valanga di leggi che fanno a pugni con un’identica montagna di statistiche presentate dai centri di ricerca più accreditati del Paese – Banca d’Italia, Istat, Caritas/Migrantes, Fondazione Leone Moressa – che rivelano che la nuova Italia è affetta da una miopia politica che la fa remare contro i propri stessi interessi economici. Quasi senza eccezioni, gli studi sui fenomeni migratori finora realizzati concordano infatti su un punto: i flussi non si fermeranno almeno per i prossimi cinquant’anni e ridisegneranno completamente il profilo socio-economico-culturale della penisola.
Umanizzare le politiche
di immigrazione
Nel clou della polemica sulla riforma della legge sull’immigrazione, che in Italia ha trasformato in un istante un milione di irregolari in criminali a tutti gli effetti, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si è presentato alla riunione del G8 dell’Aquila annunciando di voler dare una grande lezione di immigrazione ai Paesi più sviluppati. Lula si riferiva alla legge 11961 di amnistia dei clandestini in Brasile, promulgata il 2 luglio del 2009, che ha permesso la regolarizzazione di cinquantamila stranieri provenienti da altri Paesi latini. L’iniziativa del governo, in realtà, non è stata altro che la ripresa di una disposizione del ‘98, in occasione della quale trentanovemila immigrati furono amnistiati nel Paese.
La differenza fra la politica brasiliana e quella italiana, ovviamente non riguarda solo i numeri. Il Brasile – oggi con poco più di 870 mila immigrati regolari – è passato dal suo ruolo di tradizionale ricettore di stranieri – quando fra il 1820 ed il 1940 giunse a ricevere circa cinque milioni di persone – a quello di paese emissore di migranti, verso la fine degli anni ‘80.
Solo negli ultimi anni è ritornato ad attrarre l’interesse dei Paesi limitrofi, ed in particolare dei boliviani. Le stime prima della regolarizzazione dello scorso luglio, indicavano che sessantamila si erano attestati clandestinamente a São Paulo e diecimila nello stato del Mato Grosso.
«L’immigrazione deve essere trattata come un’emergenza umanitaria e non la si può confondere con la criminalità», ha affermato Lula al G8, confrontando i provvedimenti messi in atto dal Brasile con quelli che stavano per essere adottati in Europa. Ma non è tutto. Secondo Lula, la regolarizzazione è stata il primo passo di un progetto di più ampio respiro che punta alla creazione di una nuova Legge dello Straniero, e che ha come obiettivo riumanizzare l’immigrazione in Brasile.
Uno strumento per evitare che gli immigrati, in condizioni di estrema fragilità finanziaria, siano oggetto dello sfruttamento e del traffico umano praticato dalle gang di narcotrafficanti, che insieme ad altre organizzazioni criminali operano nelle zone di frontiera.
La legge 11961 ha dato ai clandestini che vivono in Brasile la possibilità di ottenere la residenza provvisoria per due anni, che al momento della scadenza potrà essere trasformata in permanente. Vengono garantiti ai beneficiari della legge gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, ad eccezione di quei privilegi di cui si gode per nascita, come la possibilità di candidarsi a cariche elettorali.
Mettendo a confronto la politica del Brasile con la regolarizzazione effettuata dall’Italia nel settembre del 2009 per colf e badanti o con lo stesso decreto flussi, appare chiaro che le complesse pratiche burocratiche italiane hanno una precisa finalità: creare condizioni tali da non permettere agli immigrati di legalizzarsi.
Sette mesi prima della promulgazione della legge di amnistia, in vista del progetto di integrazione dei Paesi dell’America del Sud, il governo Lula ha siglato un accordo bilaterale con l’Argentina, permettendo la concessione del visto permanente a turisti e cittadini argentini muniti di visto provvisorio. Un visto che – come si sostiene a Brasilia – oltre a permettere al viaggiatore di vivere esattamente come un cittadino del Paese che lo ospita, gli offre al tempo stesso la possibilità di decidere se stabilirvisi definitivamente.
Questa preoccupazione, presente anche nella legge di amnistia, dimostra che la politica migratoria del Brasile, offrendo le condizioni di base per l’inserimento legale dell’immigrato nel mercato del lavoro, anticipa in un certo senso il processo di integrazione.
Nulla di tutto questo si avverte per ora nelle scelte dell’Italia, nonostante l’allarme mano d’opera che rischia di compromettere seriamente il potenziale produttivo del Paese a causa dell’invecchiamento della popolazione, del basso indice di natalità e del rifiuto da parte dei giovani italiani di svolgere lavori meno remunerativi o qualificati.

Di Célia Takada

Célia Takada