Haiti: Alzati e cammina!


Non esiste un altro posto così al mondo. Un paese di figli di schiavi. Ma di schiavi ribelli, che si rivoltano guidati da un grande leader, quale fu Toussaint Louverture e arrivano a sconfiggere le truppe di Napoleone. Così il primo gennaio 1804 nasce la prima repubblica indipendente delle Americhe, con popolazione di origine africana. Ma poi la storia non è clemente e le dittature si susseguono, tra le più feroci quella dei Duvalier, durata trent’anni, che mette in ginocchio il paese. Nei primi anni Novanta uno spiraglio che diventa una speranza per tutta l’America Latina oppressa. La teologia della liberazione sembra incarnarsi in un altro leader, il padre salesiano Jean-Bertrand Aristide, che, appoggiato dalla chiesa di base diventa presidente della repubblica. «Gli haitiani sono un popolo “messianico” hanno bisogno di un leader carismatico, poi lo seguono, in massa» mi diceva padre Jean-Yves Urfié.

Aristide promette di liberare il paese dal giogo degli aiuti e dell’imperialismo. Un cattivo esempio, giudicano a Washington, dove siede George Bush (padre). La Cia organizza un sanguinoso colpo di stato. È il 1991. Aristide non è morto, ma «comprato» e quando sarà riportato al potere dagli Usa di Clinton, è diventato un burattino, che si arricchisce con i soldi degli aiuti e del traffico di droga. Il sogno è svanito. Il popolo ancora tradito. L’isola è in mano alle bande criminali che dettano legge. Uno dei paesi più poveri del mondo, ma forse il popolo più sfortunato. Un popolo accogliente, caloroso. Ma sanguigno, rissoso … per il quale la violenza è ancora uno dei tratti caratteristici. Un paese dai sentimenti forti. Non è un popolo di miserabili, come si vorrebbe. Ma un popolo di grandi artisti, pittori, poeti, scrittori e musici. Jaques Stephen Alexis poeta e scrittore fonda la corrente del «Realismo meraviglioso».

La realtà descritta ha sempre qualcosa di meraviglioso, di magico. Ed è proprio questo Haiti: i confini tra la realtà e la magia si fondano. Terra di gente profondamente religiosa, che ha saputo unire le credenze africane con il cristianesimo, imposto all’inizio dai padroni agli schiavi delle piantagioni. Dove il culto dei morti occupa un posto di particolare importanza. Un popolo al 90% di origine africana, ma non di africani. Che sente le sue radici affondare nell’acqua per cercare di raggiungere la Guiné (come viene chiamata l’Africa in creolo) senza mai arrivarci. Un popolo che ha creato il proprio idioma, kreyol, fondendo lingue africane, francese, un pizzico di spagnolo e poi sempre più neologismi inglesi. Una lingua e una cultura che il grandissimo scrittore Félix Morisseau-Leroy, haitiano doc, ha promosso, fino ad adattare l’Antigone di Sofocle all’immaginario creolo.

Cosa succederà adesso? Duecento anni rasi al suolo in un minuto. Il cuore pulsante di Haiti non c’è più. Un paese povero, vero, dove la speranza di vita è tra le più basse del mondo e grande parte della popolazione vive di stenti. Ma che stava (prima), lentamente, trovando una via per migliorare. Adesso interi settori della società haitiana sono finiti sotto le macerie di Port-au-Prince nell’immane tragedia del 12 gennaio. Il clero, ad esempio, è stato decimato. Tutte le chiese della capitale sono crollate. Poi gli intellettuali, i funzionari, i professionisti (un esempio tra tutti medici e infermieri). Ripercorro con la mente le vie di Port-au-Prince, che è stata la mia città, e penso alla sua gente. Da ricostruire non saranno solo le case, ma la stessa società haitiana. Difficile oggi pensare al dopo. Quando i riflettori si spegneranno. Quando la primissima emergenza sarà passata e le fosse con decine di migliaia di cadaveri saranno chiuse. Quando tutte le infrastrutture saranno da ricostruire e non ci saranno competenze per fare e per gestire. Una generazione di orfani da far crescere. Non ci dimentichiamo di Haiti: un posto speciale, un popolo unico. Non ne esiste uno uguale al mondo.

Marco Bello




Le nazioni cammineranno alla sua luce

Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale

«Scopo della missione della Chiesa è di illuminare
con la luce del vangelo tutti i popoli nel loro
cammino storico verso Dio, perché in Lui
abbiano la loro piena realizzazione ed il
loro compimento. Dobbiamo sentire l’ansia
e la passione di illuminare tutti i popoli, con la
luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa,
perché tutti si raccolgano nell’unica famiglia umana, sotto
la pateità amorevole di Dio». Rivolgendosi ai «Fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale» e ai «fratelli e sorelle dell’intero Popolo di Dio», nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2009,
che si celebrerà domenica 18 ottobre, il Santo Padre Benedetto XVI esorta «a ravvivare in sé la consapevolezza del mandato missionario di Cristo di fare “discepoli tutti i popoli”, sulle orme di san Paolo,
l’Apostolo delle Genti».

Nel Messaggio, intitolato «Le nazioni cammineranno alla sua luce» (Ap 21, 24), il Santo Padre ribadisce ancora una volta che «la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell’umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata, perché crediamo che l’impegno di annunziare il vangelo agli uomini del nostro tempo… è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità».

1. Tutti i Popoli chiamati
alla salvezza
«L’umanità intera, in verità, ha la vocazione radicale di ritornare alla sua sorgente, che è Dio, nel Quale solo troverà il suo compimento finale mediante la restaurazione di tutte le cose in Cristo. La dispersione, la molteplicità, il conflitto, l’inimicizia saranno rappacificate e riconciliate mediante il sangue della Croce, e ricondotte all’unità.
L’inizio nuovo è già cominciato con la risurrezione e l’esaltazione di Cristo, che attrae tutte le cose a sé, le rinnova, le rende partecipi dell’eterna gioia di Dio. Già oggi, nelle contraddizioni e nelle sofferenze del mondo contemporaneo, si accendono le luci della speranza di una vita nuova», pertanto il Pontefice sottolinea che «la missione della Chiesa è quella di “contagiare” di speranza tutti i popoli. Per questo Cristo chiama, giustifica, santifica e invia i suoi discepoli ad annunciare il Regno di Dio, perché tutte le nazioni diventino Popolo di Dio… La missione universale deve divenire una costante fondamentale della vita della Chiesa. Annunciare il vangelo deve essere per noi, come già per l’apostolo Paolo, impegno impreteribile e primario».

2. Chiesa pellegrina

Il Santo Padre ricorda poi che la Chiesa universale «si sente responsabile dell’annuncio del vangelo di fronte a popoli interi» e «deve continuare il servizio di Cristo al mondo», in quanto la sua missione e il suo servizio non sono «a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale, ma di una salvezza trascendente, che si attua nel Regno di Dio. Questo Regno, pur essendo nella sua completezza escatologico e non di questo mondo (cfr Gv 18,36), è anche in questo mondo e nella sua storia forza di giustizia, di pace, di vera libertà e di rispetto della dignità di ogni uomo. La Chiesa mira a trasformare il mondo con la proclamazione del vangelo dell’amore» ribadisce ancora il Papa, chiamando a «partecipare a questa missione tutti i membri e le istituzioni della Chiesa».

3. Missio ad gentes

Soffermandosi in particolare sulla missione ad gentes, Benedetto XVI ricorda che la missione della Chiesa, è quella di chiamare tutti i popoli alla salvezza e sottolinea la necessità di «rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo, che è fermento di libertà e di progresso, di frateità, di unità e di pace», impegno particolarmente urgente considerando «i vasti e profondi mutamenti della società attuale. Animati e ispirati dall’Apostolo delle genti, dobbiamo essere coscienti che Dio ha un popolo numeroso in tutte le città percorse anche dagli apostoli di oggi… La Chiesa intera deve impegnarsi nella missio ad gentes, fino a che la sovranità salvifica di Cristo non sia pienamente realizzata».

4. Chiamati ad evangelizzare
anche mediante il martirio

La giornata dedicata alle missioni è anche occasione per ricordare le Chiese locali e i missionari e le missionarie «che si trovano a testimoniare e diffondere il Regno di Dio in situazioni di persecuzione che vanno dalla discriminazione sociale fino al carcere, alla tortura e alla morte. Non sono pochi quelli che attualmente sono messi a morte a causa del suo “Nome”…
La partecipazione alla missione di Cristo, infatti, contrassegna anche il vivere degli annunciatori del vangelo, cui è riservato lo stesso destino del loro Maestro. “Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità».
Quindi il Pontefice ricorda alle Chiese antiche come a quelle di recente fondazione, che «sono poste dal Signore come sale della terra e luce del mondo, chiamate a diffondere Cristo, Luce delle genti, fino agli estremi confini della terra», pertanto «la missio ad gentes deve costituire la priorità dei loro piani pastorali».
Ringraziando e incoraggiando le Pontificie Opere Missionarie «per l’indispensabile lavoro che assicurano di animazione, formazione missionaria e aiuto economico alle giovani Chiese», il Pontefice ricorda che «attraverso queste istituzioni si realizza in maniera mirabile la comunione tra le Chiese, con lo scambio di doni, nella sollecitudine vicendevole e nella comune progettualità missionaria».

5. Conclusione

Nella conclusione il Papa riafferma che «l’evangelizzazione è opera dello Spirito e che prima ancora di essere azione è testimonianza e irradiazione della luce di Cristo da parte della Chiesa locale, la quale invia i suoi missionari e missionarie per spingersi oltre le sue frontiere». Perciò chiede a tutti i cattolici «di pregare lo Spirito Santo perché accresca nella Chiesa la passione per la missione di diffondere il Regno di Dio e di sostenere i missionari, le missionarie e le comunità cristiane impegnate in prima linea in questa missione, talvolta in ambienti ostili di persecuzione.
Invito, allo stesso tempo, tutti a dare un segno credibile di comunione tra le Chiese, con un aiuto economico, specialmente nella fase di crisi che sta attraversando l’umanità, per mettere le giovani Chiese locali in condizione di illuminare le genti con il vangelo della carità.
Ci guidi nella nostra azione missionaria la Vergine Maria, stella della Nuova Evangelizzazione, che ha dato al mondo il Cristo, posto come luce delle genti, perché porti la salvezza “sino all’estremità della terra” (At 13,47)». 

A cura di Sergio Frassetto

Sergio Frassetto




A caccia di biodiversità

Ritoo nella foresta nuvolosa, dopo 16 anni

Piccolo dal punto di vista geografico, l’Ecuador è uno dei paesi con la maggiore diversità biologica e climatica del mondo.  Dalla costa del Pacifico alla duplice catena delle Ande, dalla foresta Amazzonica alle isole Galapagos, vi sono ben 46 ecosistemi. Tanti mondi in uno, da difendere dalle speculazioni multinazionali e dal turismo selvaggio.

A 16 anni di distanza è sempre lo stesso fratel Giovanni, l’entusiasta missionario delle foreste. È sera già inoltrata quando arriviamo, una mia amica e io, alla sua missione nella capitale ecuadoriana, e mi accoglie con il solito calore, anche se porto con me tre italiani, padre, madre e figlio, conosciuti in aereo. In soffitta c’è posto anche per loro.
Esauriti i convenevoli, fratel Giovanni indossa il grembiule, si mette in cucina e prepara una buona zuppa per tutti. Ci sono anche altri ospiti, un collega entomologo, il padre spagnolo Josè dei maristi di Leòn, due visitatori italiani e le due ragazze che fratel Giovanni fa studiare e che aiutano in cucina. Sono allegre e affettuose, di famiglia contadina, numerosa, che vive in una zona remota della sierra, dove non ci sono scuole.
Durante la cena, Queti è venuta a incontrarmi: non la riconosco tanto è cambiata. Sono passati 16 anni, da quando la conobbi bambina sui monti di Las Pampas e rimasi per alcuni giorni ospite della sua famiglia, impiegata da fratel Giovanni Onore nella custodia del territorio della Fondazione Otonga.
Era stata un’esperienza indimenticabile, che mi fece scoprire un modo di vita semplice, guidata dalla fede, ricca di valori a noi italiani quasi dimenticati: ospitalità, rispetto e amore in famiglia. Di questo e della natura fantastica del paese scrissi in uno dei miei primi reportages per Missioni Consolata (ndr  luglio agosto 1995, pag. 34).
Ora Queti ha 27 anni ed è una giovane molto attraente, con vestiti attillati e scarpine eleganti con tacchi alti. Dopo aver studiato turismo al college, ha trovato lavoro in un albergo e vive in città. Mamma Carmen e papà Cesare Tapia, sono rimasti lassù, tra le nuvole della foresta, i 9 figli sono in giro per il paese a lavorare. Mario, il maggiore, vive e lavora in Italia come scultore.
Devo ritornare lassù, vedere quello che fratel Giovanni sta facendo in quella zona montagnosa da una ventina di anni, per salvare la preziosa foresta nuvolosa. Ma le notizie da Guayaquil parlano di allagamenti, dovuti alle piogge incessanti. Le strade sono interrotte per frane, le città allagate, quindi per ora non possiamo raggiungere Otonga e cambiamo programma.
NELLA FORESTA DEL NAPO
Un breve volo ci porta a superare il ciglione della sierra orientale, sullo sfondo le cime di ghiaccio dei vulcani. Dai 3 mila metri di Quito scendiamo ai 300 di Coca, sul rio Napo, in Amazzonia. Sorvoliamo una vasta zona dove le piantagioni di palma da olio africana hanno sostituito la foresta pluviale amazzonica. In lontananza ci sono i fuochi dei pozzi petroliferi che hanno portato a uno sviluppo caotico e molta immigrazione. Da qualche giorno è scattato l’allarme per via di una perdita che ha inquinato il grande fiume, la popolazione è stata invitata a fare scorta di acqua, perché tra poco arriverà l’onda nera.
«Le multinazionali che stanno sfruttando il bacino sono americane – mi spiega Emily, una biologa di New York che lavora in Ecuador da qualche anno per monitorare lo stato dell’inquinamento provocato dagli insediamenti industriali -. Ma ora sono attente a non far mancare acqua potabile alla popolazione. Vi è stata una immigrazione da altre regioni del paese perché qui c’è più lavoro ed è meglio pagato».
Un servizio di battelli lungo tutto il rio Napo permette di raggiungere in 8 il confine peruviano, per poi proseguire verso il rio delle Amazzoni e addentrarsi nella foresta brasiliana. Ci imbarchiamo anche noi, ma per raggiungere uno degli «eco-lodge» sorti lungo il fiume per i turisti che visitano il Parco nazionale Yasuní.
Facciamo il viaggio in compagnia di Conceptiòn e della figlia Hilda, che ha appena vinto il concorso di reginetta di bellezza del Parco Yasunì. La mamma è felice, sorride orgogliosa accanto alla ragazza, seria e compresa nel suo ruolo, i lineamenti indi e la fascia di miss sulle spalle. Vivremo insieme questa piccola avventura. «Hilda mi assomiglia molto. Alla sua età avrei potuto sposare un americano, lasciare il mio povero villaggio sulla costa del Pacifico» ricorda con rimpianto.
Invece, con 6 figli da allevare, lei e il marito decisero alcuni anni fa di trasferirsi a Coca, dove aveva trovato un lavoro ben remunerato in una compagnia americana. Ma a contatto con gli occidentali,  l’antica tradizione familiare, cristiana, si sta sgretolando, si lamenta Conceptiòn: la figlia maggiore è già divorziata ed è tornata a vivere coi genitori insieme ai suoi due bambini.
Nel parco sarà Froilan la nostra guida naturalistica. Di etnia yasuní, discendenti dei primi abitanti della foresta, i nativi sono oggi superati in numero dai nuovi arrivati, che vivono nelle città. Depositari della cultura amazzonica, solo loro sono autorizzati a farci conoscere le meraviglie della selva amazzonica, che è più difficile da apprezzare rispetto alla foresta nebulosa della sierra. Qui infatti le dimensioni e l’altezza delle piante e la densità del loro fogliame mantengono nell’oscurità molti aspetti della vita vegetale e animale, impossibili da cogliere e apprezzare in tutta la loro ricchezza, senza l’aiuto di una guida indigena.
Il Parco Yasuní, presentato come «oro verde» nei volantini di propaganda turistica, è stato dichiarato area protetta e «riserva della biosfera», ma la minaccia della corsa all’oro nero è sempre incombente e tiene gli indigeni sul piede di guerra.
LA FORESTA NUVOLOSA
Padre Josè e fratel Giovanni mi accompagnano sul fuoristrada verso la Riserva di Otonga. È un giorno di sole, ma appena lasciamo la vista sublime dei vulcani Pichincha e Cotopaxi e superiamo il ciglio della sierra occidentale, troviamo la nebbia che sale dalla valle. Lunghe colonne di camion attendono che le ruspe liberino le frane che continuano a cadere, a causa delle piogge.
Il traffico è intenso e pesante; arriva da Guayaquil e i carichi maggiori  proseguono per l’Amazzonia, dove ferve l’attività di estrazione del petrolio. Le strade sono asfaltate e sono costeggiate da frequenti edifici bassi e senza finestre, case da gioco e prostituzione per gli autisti. Non ricordo di aver visto cose del genere 16 anni fa: allora le strade erano sterrate e si viaggiava salendo sulla lechera, il camion che trasportava i bidoni di latte e le mucche; o sugli automezzi carichi di forme di panela, lo zucchero fatto col succo di canna.
Otonga è frutto di un sogno del fratello marianista Giovanni Onore, nato a Costigliole d’Asti nel 1941, laureato in agraria presso l’Università di Torino, da più di una ventina di anni missionario in Ecuador, attualmente docente di entomologia all’Università Cattolica di Quito.
Il sogno cominciò a realizzarsi alla fine degli anni ‘80, quando comperò 100 ettari di foresta, a un centinaio di chilometri a sud di Quito, sul versante occidentale della cordigliera delle Ande, dove le particolari condizioni climatiche favoriscono una biodiversità altissima, un prezioso ecosistema minacciato dalla deforestazione per sfruttare il legname e fare spazio a prati, pascoli e strade. Il territorio comperato è stato affidato alla famiglia Taipa: Cesare e i figli Italo, Elicio e Arturo continuano ancora oggi a occuparsi della conservazione della fauna e flora, sviluppando attività guidate per i visitatori.
Da anni fratel Giovanni continua a girare il mondo per illustrare il suo progetto e raccogliere fondi, invitando gli studiosi a visitarlo per conoscere e studiare le meraviglie del «bosque nublado», selva nuvolosa, così chiamata per distinguerla dalle foreste pluviali dei bacini dei fiumi equatoriali. Con i fondi arrivati da varie parti, pezzo per pezzo è stata comperata la foresta integrale di Otonga, che si estende per circa 1.500 ettari, da circa 800 fino a 2.300 metri di altitudine. Essa è proprietà dell’Università cattolica di Quito; con l’arrivo di altri fondi si spera di raggiungere i 3 mila ettari.
Raggiungere la riserva non è cosa semplice, soprattutto se la stagione delle piogge è iniziata. Di fatto vi arriviamo che è già notte, a causa delle frequenti interruzioni stradali causate dagli smottamenti. Saliamo nel buio, lungo il sentirnero che attraversa un lembo di foresta e raggiungiamo la casa del guardiano del centro di Otongachi. Durante la notte la pioggia aumenta di intensità e porta via un ponticello che ci aveva permesso di arrivare, superando un ruscello. Un grosso albero è crollato e la pioggia continua a cadere, più leggera.
A Otongachi è in funzione un Centro di educazione ambientale, che ospita un museo interattivo sulla biodiversità, con strutture per attività didattiche a disposizione di studenti e scienziati. L’edificio è moderno, in cemento armato, per evitare la corrosione dovuta al clima.
Da una decina d’anni il centro è fornito anche di una costruzione che consente l’alloggio a una trentina di persone. Così biologi e naturalisti di diverse parti del mondo, hanno potuto visitare la riserva, come pure diversi gruppi di studenti universitari di Quito hanno fatto esperienza in campo, imparando a conoscere le migliaia e migliaia di specie animali e vegetali della foresta di Otonga, molte delle quali non hanno ancora un nome perché nessuno le ha ancora scoperte: specie diverse di farfalle, di orchidee (3.600 specie) e bromeliacee, fiori e uccelli colorati, insetti e serpenti, con i quali Giovanni Onore ha una dimestichezza sorprendente.
La nostra guida è Jessica, bimba di 11 anni, rimasta orfana con 5 fratelli due anni fa, quando la madre è morta per il morso di un serpente, mentre tagliava la canna. Giovanni si è preso a cuore la famiglia, dà lavoro e fa studiare i ragazzi.
A Otonga fratel Giovanni ha accolto varie famiglie che trovano da vivere nella conservazione della riserva e in varie attività artigianali, costruendo così una comunità grata e solidale verso il missionario italiano, come dimostra quanto è accaduto pochi giorni dopo la mia visita: alcuni banditi sono entrati nel centro di Otongachi, armi in pugno, terrorizzando e depredando gli ospitati, un gruppo di studiosi e appassionati della natura canadesi.
Ma i contadini che abitano nei dintorni si sono insospettiti, sono accorsi armati di machete, hanno circondato la foresta, chiamando rinforzi e la polizia della caserma più vicina, e insieme hanno catturato i banditi, eccetto uno, trovato poi ferito e annegato due giorni dopo.
Galapagos
«Non andare alle Galapagos – mi dice fratel Giovanni Onore -; hanno scarsa biodiversità e poi, sono molto costose…». Ma come si fa, una volta arrivati in Ecuador, a ignorare quel posto meraviglioso, quel mondo a sé stante, dallo sviluppo botanico zoologico fuori dall’ordinario, sperduto nell’oceano a mille chilometri dalla costa ecuadoriana? Disobbedisco e, la mia amica e io, partiamo con un volo da Guayaquil.
In aereo, siede accanto a me un giovane danese, che fa parte di un gruppo di 17 studenti che vivono in Ecuador grazie ai programmi di scambi interculturali. «La famiglia che mi ospita è meravigliosa e molto numerosa – mi confida -. La città dove abito è al confine col Perù, le scuole sono di livello molto basso e i ragazzi che vanno all’Università di Guayaquil devono pagare per entrare e c’è il numero chiuso».
Questi ragazzi hanno la fortuna di visitare solo qualche isola dell’arcipelago. Noi decidiamo di fermarci più a lungo, ne vale la pena. Alcune isole sono abitate da coloni, inviati nel dopoguerra dal governo. Ma poi, a partire dal 1964 il governo ecuadoriano si è reso conto dell’importanza delle isole e ha cominciato a impegnarsi per riparare i danni subiti dall’ambiente per l’introduzione di animali e piante estranee all’ecosistema.
Puerto Ayora è la cittadina più grande; alle 10 di sera il parco giochi è ancora pieno di bambini. L’atmosfera è molto diversa da quella, così tesa, che si respira nelle piazze delle città del continente.
Al parco incontro Julio e Inés, una coppia di anziani che ha ricevuto dai figli il dono di un viaggio per l’anniversario di nozze. «Siamo insieme da 50 anni – spiega Julio -. Abitiamo a nord di Quito, nella casa che ci siamo costruita, circondata da un giardino con alberi da frutta e verdura». Ora che è in pensione, da impiegato del ministero delle finanze, Julio si è comprato un’auto e, quando se la sente, fa il tassista. Con i 6 figli tutti sistemati e 11 nipoti, Inés si dà ancora da fare nel commercio di frutta e verdura, che compera ad Ambato e rifornisce i supermercati della capitale.
Pare che vi sia molta richiesta di trasferirsi sulle isole, per la vita tranquilla e l’assenza di criminalità, così diffusa nelle città ecuadoriane. Si pone così il problema di non stravolgere l’ecosistema già a rischio a causa del turismo, che quest’anno ha avuto un rallentamento a causa della crisi internazionale, dopo anni di crescita forte.
Pato, la nostra guida, vive con la famiglia a San Cristòbal, una delle isole più belle, tra quelle abitate, dove è nato da una famiglia di contadini della sierra, immigrati negli anni ‘50, inviati dal governo per colonizzare le isole. Dopo aver seguito un corso presso il centro di ricerche di Puerto Ayora, egli si è impiegato come guida naturalistica, a bordo delle navi che trasportano i visitatori nell’arcipelago. Senza una seria preparazione scientifica, Pato trova difficoltà a esprimersi e rendere interessanti le visite.
Mi rendo conto che la qualità delle guide si è abbassata, da quando visitai i luoghi 16 anni fa. Allora erano studiosi, anche stranieri, che curavano le visite delle isole. Nello stesso tempo ho notato che in alcuni casi la situazione è migliorata, gli straordinari animali endemici per cui le isole sono famose (uccelli, iguane, pinguini e otarie… ) sono aumentati. La lotta per eliminare animali estranei come le capre, sta dando i primi frutti. 

di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Nella pelle dei disperati

Tre giorni nei campi degli orrori e della follia

In molti paesi negare l’olocausto è un reato; eppure vari negazionisti
continuano a sostenere le loro teorie, con argomenti assurdi
e chiedono prove inconfutabili. Queste ci sono, afferma l’autrice
di questo articolo: basta andare ad Auschwitz e immergersi nel suo silenzio
di morte, per capire e sperimentare uno dei momenti più orrendi
della nostra storia… da non dimenticare.

H o conosciuto Hans. Il nome è di fantasia, per mantenere l’anonimato di chi mi ha aiutata a ottenere permessi per entrare nei campi e rimanerci giornate intere per il mio reportage. È venuto a cercarmi in albergo a Cracovia, colpito dalle mie richieste; non dimenticherò mai la sua faccia, quando sono scesa nella hall tendendogli la mano. «Mi aspettavo una di quelle giornaliste anziane, austere per una richiesta così stravagante, invece lei… potrebbe essere mia nipote… quanti anni ha? Ma lei è pazza! Come le è venuto in mente di fare un reportage del genere? È impossibile fare quello che lei mi ha chiesto… a meno che… sia una turista semplice… Nessuno è mai riuscito a sopravvivere per più di quattro ore nei campi!» mi ha tuonato nelle orecchie. «Allora adesso ce n’è una» gli ho risposto io.
Davanti a un paio di bicchieri di un meraviglioso rosso polacco, mi ha raccontato il dolore intrinseco e genetico degli ebrei e dei polacchi ogni qualvolta si neghi l’olocausto. Lo rassicuro raccontandogli le ore trascorse a Budapest con sopravvissuti. Ho ascoltato storie drammatiche e storie di amore straordinario, ma non posso realmente raccontarle se non mi immergo nella loro storia e nel loro dolore. Devo provare e gli prometto che resisterò. Due occhi grigi mi analizzano come a dire: questa non è normale!
Il giorno dopo vado a ritirare i miei «visti» e un anziano nonno che mi farà da guida e guardia del corpo, nel caso che, mi fa notare Hans, dovessi svenire, come spesso accade.

P elle. Un odore acre di pelle… stampato per sempre nel naso. Mi sento osservata da decine e decine di occhi. Sguardi finiti che mi avvolgono a destra e sinistra nel corridoio che percorro. Sono le foto che facevano ai deportati. Grandi foto in bianco e nero, nitidissime. Immediatamente penso al fotografo che le ha fatte. Doveva essere molto bravo. Una messa a fuoco disarmante. Ma sapeva che stava fotografando dei cadaveri vivi? Cerco di immedesimarmi nelle sue emozioni, sensazioni… è difficile.
Ho scelto di immergermi fisicamente e psicologicamente nei campi di Auschwitz e Birkenau. Quando dico alla mia guida cosa ho in mente di fare mi guarda perplessa. E solo dopo una scarica di domande decide di accompagnarmi. Per tre giorni interi mi lascerò volontariamente attraversare da quel terrore, dalla disperazione stanca dei deportati, la lunga attesa della morte. Morte come salvezza. Morte come libertà.
Quando arrivo davanti al cancello di Auschwitz la prima cosa che noto è il silenzio di un curatissimo prato inglese. Flotte di turisti discutono, parlano e si allineano con la loro guida, interrogandosi sul perché c’è una fotografa quando è severamente vietato fotografare.
Non sarà semplice immergermi intenzionalmente nei campi, dappertutto mi spuntano fuori cappellini di curiosi. Li lascio andare avanti e inizio dagli ultimi blocchi. La mia guida, un ex-deportato i cui occhi ancora si bagnano quando mi racconta di quegli anni, mi segue in ogni singolo scatto. Iniziamo dai sotterranei dove venivano torturati gli ebrei. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due di altezza, in cui venivano obbligate a stare in piedi tre, quattro persone per giorni e notti intere.
Entro in una di queste e mi chiudo dietro la cancellata. È quasi buio, circola poca aria. La fiamma di una candela mi illumina la macchina fotografica. Ho difficoltà a vedere l’esposizione da usare per la foto. Un senso claustrofobico inizia a farsi strada nel mio corpo. L’odore pungente è ancora troppo forte. Sono sola. Zoltan, il mio guardiano, mi osserva a distanza. Gli ho chiesto io di lasciarmi sola. I muri scrostati mi raccontano il loro calvario. Richieste di aiuto, nomi, promesse, raccomandazioni e ricordi, incisi con le unghie su un muro freddo. Mi siedo per terra, lasciandomi illuminare il viso da un buco che funge da finestra. E li vedo. Larve nude, terrorizzate, umiliate, prive di dignità umana. Uno è seduto dove sono io, gli altri tre in piedi e a tuo siedono le loro ossa.
Un senso di nausea mi scuote, ma mi obbligo a restare. Sento gli occhi appannarsi dietro l’obiettivo. Devo asciugarli per poi ricominciare a scattare. Se ero una di loro! Se i miei nonni erano loro. Se mio figlio dopo essermi stato strappato dal grembo era uno di quei quattromila bambini fatti fuori. Come hanno potuto una mente e un corpo umano, menti e corpi uguali a quelli di quasi un milione e mezzo di ebrei uccisi, arrivare a tanta violenza. Una violenza meditata, studiata. Come può esserci nel cuore dell’uomo una brutalità tale.
Esco dalla cella e continuo il mio viaggio in un mondo di ricordi non miei. Zoltan racconta, racconta, scrutandomi. Montagne di capelli, di pettini, di gavette, di scarpe e vestiti dietro un’anticamera di vetro riempiono le stanze. Gigantografie svegliano chi non ha avuto ancora il tempo di immaginare come avveniva l’ispezione. La luce di una fredda mattina di marzo filtra dalle finestre evidenziando le vetrate con i loro tesori. Una luce perfetta… Ma che senso ha fotografare montagne di capelli? mi chiedo.
Mi sento prendere la mano. È Zoltan che legge nei miei movimenti. Lo guardo e nei suoi occhi leggo le mie domande. Ricorda ancora il freddo che scioglieva le ossa durante la notte, con un sacco di tela che copriva quattro persone, il lavoro, le violenze e i soprusi.
Entriamo nella sala dove venivano portati i bambini. Vestitini, ciucci, scarpine sono ancora integre sotto teche di vetro. Il cuore mi balza in gola, un brivido freddo mi attraversa; immagino le scene lette nei libri, penso all’inquadratura ponendo tra me e quei ciucci una barriera, la mia macchina fotografica. Ma il sangue mi bolle nelle vene, rabbia e impotenza mi esplodono dentro. Devo fermarmi non vedo più. Gli occhi inondati si rifiutano di vedere, di fissare attraverso un obiettivo l’immagine che ho di fronte. Esco per respirare aria nuova. Non sento più il mio corpo.

S ono le 16.00. La nausea continua a scuotermi. Zoltan mi consiglia di tornare in hotel e rilassarmi. Ci organizziamo per il giorno seguente. Percorro i 40 chilometri di strada che separano Auschwitz da Cracovia, osservando quei boschi fitti e impervi. Gli stessi attraverso i quali molti sono scappati, sono morti o sono stati fucilati da giovani soldati tedeschi.
Arrivo all’hotel stordita. Mi segue ancora quell’odore acre di pelle. Ce l’ho addosso, sui vestiti, nei capelli. Ancora adesso quando ci penso, eccolo che puntuale m’inonda le narici.
La mattina seguente di buon’ora riparto per Auschwitz. Arrivo che hanno appena aperto. Sono le 8.30 e c’è poca gente. Vado direttamente al blocco delle camere a gas e ai foi. Zoltan, ancora assonnato, mi segue a fatica. Lo saluto davanti alla porta di legno delle docce. Entro. Mi hanno concesso due ore per poter lavorare in solitudine. Le stanze sono illuminate da una piccola lampadina che pende dall’alto. Delle candele illuminano il pavimento dove venivano ammassati i corpi. Entro nella doccia. Prima di entrare, un cartello invita a lasciare l’accappatornio lì.
Mi metto nella stessa loro posizione, alzo lo sguardo e osservo il jat della doccia, pensando all’esplosione di terrore quando hanno capito che da lì usciva gas e non acqua. Gocce di sudore mi freddano la schiena. Il senso di nausea torna e scalpita nello stomaco.
Zoltan, la mia ombra da due giorni, mi accompagna ai bagni. Lo troverò lì, quando uscirò dopo un po’, ancora stordita. Mi chiede perché voglio soffrire così. E già doloroso ascoltare i racconti dei deportati, perché voler entrare nel loro tormento!
Andiamo a pranzo da sua figlia, ormai siamo amici. Mi scorta con la tenerezza di un nonno e io lo interrogo con la curiosità frenetica di una nipote. La moglie è morta dieci anni fa stroncata da un cancro all’utero. Lui l’ha sposata appena usciti da Birkenau. Gli occhi blu ancora si illuminano quando racconta del loro amore. «Un amore povero, ma intenso, vissuto giorno per giorno fino all’ultima notte quando l’ho lasciata andare da Lui» mi dice.
Chiedo a Maria, la figlia di Zoltan, come può vivere al confine di un luogo così straziante. Il suo balcone si affaccia sulle casette avvolte dal filo spinato. Mi spiega che la loro proprietà era lì: «È l’unico panorama! E nella vita bisogna anche sapersi accontentare di quello che si ha».
N el pomeriggio too ai campi. Entro nella camera dei foi. L’odore di morte, di pelle inonda ancora l’aria. Fermi, immobili, lucenti come fossero stati appena spenti. I foi mi fissano. Io li guardo attraverso il mirino: sembrano distanti, invece sono lì a pochi centimetri.
L’odore della ghisa si mischia a quell’odore che brucia dentro e fuori i campi. Ne avrò i polmoni pieni dopo tre giorni. Dopo aver girato per ogni singolo blocco, per ogni singola via, mi fermo a osservare la realtà estea attraverso grandi e luminose finestre. Cosa pensavano? A chi pensavano? Pregavano? Credevano ancora in Dio? Un Dio che sembrava essersi dimenticato. Avevano ancora sogni e speranze? Quali?
Quella sera girerò fino a stancarmi per le viuzze di Cracovia. Accendo il computer per scaricare le foto. Ogni foto è una fucilata. Gli scatti alle docce sono mossi e lì che ho la consapevolezza che ricorderò ogni singolo minuto di questi giorni. La mano ferma di una fotografa, non ha avuto la forza di reggere la macchinetta.
Birkenau, l’ultimo giorno,  sarà il colpo di grazia. Percorro tutta la ferrovia che arriva dritta nei campi. Un silenzio mi grida nelle orecchie. Il cielo è blu. Limpido e terso fa compagnia a un sole che brucia gli occhi. Mi guardo attorno e vedo solo due binari che tagliano in due, chilometri e chilometri di casette recintate da filo elettrico spinato. E loro erano lì. Abitavano lì, vivevano lì, lavoravano e morivano lì.
Sento i passi stanchi di Zoltan dietro di me, continua a bere la sua bottiglietta d’acqua. È stanco. I ricordi pesano più della fatica fisica. Arriviamo alla fine della ferrovia con la testa, il cuore e le gambe straziati. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




A colpi di fax

Carlos Cardoso:  per non dimenticare

Sono passati nove anni, ma chi abbia pianificato e deciso la morte del giornalista Carlos Cardoso dorme ancora sonni tranquilli. Il giornalista investigativo più noto del Mozambico lottava contro le misure strutturali imposte dalla Banca Mondiale e contro la corruzione nel suo paese. Lo ricorda un suo collega e compagno di lotta.

È il 22 novembre 2000, quando Carlos Cardoso, giornalista di 48 anni, viene freddato da due killer in pieno centro a Maputo (foto in alto). Cardoso era «il migliore e il più rispettato giornalista mozambicano» riporterà l’inglese The Guardian due giorni dopo.
Nato a Beira nel 1951, figlio di immigrati portoghesi, Cardoso era un giornalista investigativo che non lasciava nulla al caso. Aveva moglie e due figli.
Dopo una carriera nei media di stato, aveva co-fondato Mediacornop, la prima cornoperativa di giornalisti indipendenti (1992) e Media fax, primo quotidiano che usa il fax come mezzo di diffusione.
Cardoso fonda poi da solo il giornale economico Metical (1997, dal nome della moneta del paese), anch’esso via fax. Si dedica in particolare alle battaglie contro le misure imposte dalla Banca Mondiale e dalle altre organizzazioni inteazionali per il suo paese.
In quelle settimane sta lavorando a un’inchiesta scottante. La frode di 14 milioni di dollari nel caso della privatizzazione del Banco Comercial de Moçambique, la maggiore banca del paese.

«C’è libertà di stampa in questo paese, ma è una libertà condizionata – ci racconta Feando Lima, giornalista, presidente del consiglio di amministrazione di Mediacornop, e amico di Cardoso -. Sembra che tutti in Mozambico siano favorevoli a questo governo, ma non è così.
Quando un giornalista fa delle domande alla prima ministra, se sono superficiali non c’è problema, ma se vuole approfondire le cose si complicano, come quando si vuole scrivere di corruzione del governo o dei funzionari dello stato».
E continua: «Ci sono molte barriere per chiedere, e ottenere la libertà che dovrebbe essere insita a questo mestiere. Le pressioni poi non mancano».
Il panorama mediatico non è eccellente. Continua Lima: «I giornalisti sono in genere mal preparati e mal pagati, questo porta al fatto che non riescono a fare articoli di una grande profondità. Ci sono varie scuole, ma non molto buone».

Quando gli chiediamo se cambiò qualcosa per la stampa in Mozambico, dopo l’assassinio di Cardoso, risponde con un velo di emozione: «Non molto, quello che succede è che ne sentiamo la mancanza. Per fare quel lavoro lui aveva qualità e non ci sono altre persone del suo livello. È una perdita molto grande, dal punto di vista umano e professionale. Una delle ragioni che portarono alla sua morte fu che si trovò molto isolato. Era un caso unico. Così decisero: attacchiamo lui e risolviamo il problema. In quel momento lo risolvettero, perché determinate inchieste caddero. Le forze politiche ed economiche legate al crimine, si salvarono».

Un evento del genere potrebbe ancora verificarsi? «Chiaro che io posso essere ucciso domani, ma qualcuno pagherà un prezzo in perdita di popolarità, prestigio, relazioni inteazionali, cooperazione. È penalizzante per un presidente, arrivare in un paese e per prima cosa ti chiedono perché è stato ucciso un giornalista. È molto imbarazzante per un governo. Non è solo incriminare persone, ma l’immagine di uno stato, soprattutto se si vuole apparire un regime di legalità democratica e garantita».
«Io so e tutti sappiamo determinate cose, non è detto che non ci saranno più morti, ma qui in Mozambico molte persone muoiono nel contesto del crimine, della droga».
Dopo diversi processi, nel gennaio 2006 è stato condannato come  mandante Annibal dos Santos junior a 30 anni di carcere. Questi, noto malvivente, è già riuscito a fuggire due volte dal carcere. Sarebbe protetto da alte personalità, e nell’inchiesta spuntò anche il nome di Nyimpine Chissano, figlio dell’ex presidente Joaquim. Ma la giustizia sui veri mandanti deve ancora fare il suo corso. 

di Marco Bello

Marco Bello




Bianchi da morire

Albini: persecuzioni in Africa centrale

Ci sono tante superstizioni in Burundi. Negli ultimi mesi se ne è aggiunta una, importata dalla Tanzania. Una macabra idea per cui gli albini varrebbero tanto oro quanto pesano. E questo diventa una forte minaccia per la loro sicurezza. Un’associazione locale lotta per i loro diritti.

Tutto è cominciato verso la fine del mese di agosto 2008. Alcune superstizioni arrivate dalla Tanzania, raccontano che gli albini sono sì portatori di handicap, ma che ogni parte del loro corpo vale oro. Rapidamente, le voci si trasformano in fatti. L’8 settembre dello stesso anno a Nyabitsinda, in provincia di Ruyigi, una ragazzina di 14 anni viene sgozzata da due individui.
Questo assassinio è come lo sparo di partenza. In tutto il paese inizia la caccia agli albini. Almeno altri tre bambini sono ammazzati in diverse province.
Gli albini non sono più sicuri nelle loro località. Terrorizzati sentono la loro vita costantemente minacciata. In molti decidono di lasciare il loro domicilio e andare a vivere nei capoluoghi di provincia dove c’è qualche garanzia in più di sicurezza. Alcuni partono soli, altri con la famiglia o con un membro della stessa. Altri cambiano radicalmente regione.
A Ngozi sette albini vanno a vivere nel capoluogo, mentre a Ruyigi sono in 23.  Le famiglie sono distrutte e chi ancora va a scuola è costretto ad abbandonare la propria classe, con il rischio di perdere l’anno. Godefroid Hakizimana, albino di 27 anni, sposato e con un figlio di due anni ha lasciato la sua famiglia, spiegando che: «Sento che alla lunga sto diventando una minaccia per i miei cari, anche se questi assassini cercano solo le persone come me».

Discriminazioni

Un albino nella società burundese è visto come un essere con molti difetti, per il fatto che il suo handicap sia così visibile: la pelle. Per questo motivo una vecchia pratica è sempre nelle credenze di un burundese: quando vedi un albino si dice una preghiera, sputandosi sul cuore e chiedendo di non mettere mai al mondo degli albini. Un’altra superstizione recita che non bisogna mai guardare negli occhi un albino, altrimenti si rischia di avere dei figli con questo problema.
Per Liduine Nyamushirwa, storica, di superstizioni ce ne saranno sempre, ma quello che è sicuro è che in passato «Un albino era considerato come un individuo qualsiasi. È vero che il suo aspetto fisico sembrava strano, ma i nostri antenati avevano capito che tutti i bambini vengono da dio, Imana, e che nessuno aveva il diritto di togliergli la vita con il pretesto che il colore della sua pelle è diversa dalla nostra».
Secondo la studiosa: «Il Burundi tradizionale era una società che rispettava la vita degli innocenti e che non accettava assassini ed altre pratiche di carattere criminale». All’epoca degli antenati un albino era considerato alla stregua di ogni altro essere umano. Essi avevano capito che si trattava di una malformazione cutanea, per cui si spalmava la loro pelle con burro per proteggerla dai raggi solari.
«Posso anche affermare che gli antichi non hanno mai creduto che il corpo o il sangue di un albino avesse dei poteri magici», continua.
Ricorda che durante la sua infanzia, la famiglia aveva per vicina una donna albina, di nome Kabura. Spesso lei chiedeva a sua madre perché la vicina era «bianca» e la risposta era che il colore della pelle non le impedisce di essere burundese.
Ciononostante il presidente dell’associazione Albini senza frontiere (Asf), Kassim Kazungu, ci confida che in passato si raccontava che un albino non può morire, ma solo scomparire. Inoltre, secondo Kassim, che è lui stesso albino, è spiacevole constatare che per certe famiglie, avere un figlio albino è una vergogna a tal punto che si vuole dimenticare la sua esistenza.

Un orrore importato

Ma da dove viene questo recente fenomeno di uccisione degli albini?
Nella vicina Tanzania gli stregoni utilizzano gli organi e le ossa degli albini negli intrugli portafortuna che, secondo credenze locali, permettono ai cercatori di diamanti di trovare le gemme più preziose, mentre i pescatori utilizzano i loro capelli per preparare le esche e pescare nel lago Vittoria.
Sono dunque gli stregoni spesso i mandanti di questi assassini. Si serviranno poi di parti del corpo della vittima come capelli, braccia, gambe, e soprattutto il sangue, per preparare delle pozioni che, assicurano, renderanno i loro clienti molto ricchi.
Dopo una quarantina di omicidi, il governo tanzaniano ha deciso di reprimere il fenomeno, cercando gli autori dei crimini e facendo anche un censimento degli albini viventi sul territorio. Questo per poter meglio assicurare la loro sicurezza.
Rapidamente gli omicidi sono diminuiti, ma con l’effetto di trasferirsi nel vicino Burundi, a cominciare dalle province di frontiera (Ruyigi, Cankuzo e Muyinga).
È in questo modo che cominciò il misterioso e macabro «commercio». Dopo aver sgozzato o pugnalato la vittima, i criminali ne amputano gli arti e ne prendono il sangue.
Il bottino dei malfattori è venduto in Tanzania a somme colossali, come 600 milioni di franchi (circa 400mila euro) per il corpo di un albino.

Crisi di valori?

Secondo l’onorevole François Bizimana, deputato dell’East African Community, queste pratiche si aggiungono ad altre già in uso in Burundi. Il tutto è segnale di una reale crisi di valori che sta attraversando il paese: «La povertà non può in nessun caso essere presa come fattore esplicativo di questo fenomeno, si tratta piuttosto d’ignoranza».
I sostenitori di queste pratiche di stregoneria si nascondono dietro la miseria per giustificarle, ma in realtà approfittano dell’ignoranza delle persone.
La lega Iteka, associazione burundese per la difesa dei diritti umani, nel suo ultimo rapporto (2008) ha denunciato energicamente questo fenomeno che tende a prendere una ampiezza inquietante. Allo stesso tempo Iteka critica la passività della quale fanno prova le autorità amministrative per contrastarlo.
Gli attivisti aggiungono che questi omicidi premeditati sono un attacco a ogni diritto alla vita e al fatto che tutti gli uomini nascono liberi e uguali.
L’assistenza degli albini che lasciano le loro famiglie per cercare luoghi più sicuri nelle città sembra essere un compito difficile. Le autorità amministrative non vogliono affrontare il problema in modo radicale. I costi della casa per 25 albini raggruppati a Sanzu saranno foiti dall’associazione Asf. Il procuratore della repubblica a Ruyigi, Nicodeme Gahimbare, si è impegnato a fornire a questi sfollati viveri e protezione per mezzo di poliziotti.
Ma il raggruppamento di albini in un posto più o meno sicuro è come una «quarantena» o ancora una stigmatizzazione, secondo il deputato Bizimana: «Con questo metodo di protezione, un bambino albino crescerà sapendo che non è accettato, che è perseguitato e che per poter vivere deve essere messo in quarantena».
Proibito manifestare

Il presidente dell’Asf ha dichiarato che ogni mese almeno quattro albini sono assassinati. Di fronte a questo fenomeno, che ha preso oggi un’ampiezza inquietante, lo scorso marzo Asf voleva organizzare una manifestazione per denunciare queste pratiche e, soprattutto, per chiedere che queste persone siano considerati esseri umani e siano accettati per quello che sono.
Purtroppo, il governo del Burundi, ha rifiutato il permesso, dicendo che l’associazione non è legalmente riconosciuta. Ma si tratta di un falso pretesto secondo Kassim Kazungu, il riconoscimento dell’associazione è arrivato nel dicembre 2002.
Il presidente di Asf chiede che ci sia un censimento degli albini come è avvenuto in Tanzania, e che si facciano delle sensibilizzazioni della popolazione. Ma anche che gli albini, e tutti i burundesi possano essere coscienti che la sicurezza dei primi non può essere garantita che dalla popolazione. 

Di Amandine Inamahoro

Prime Condanne
A fine luglio, in Burundi, c’è stata una prima sentenza. Otto degli undici imputati, accusati dell’omicidio di dieci albini,  sono stati condannati a pene che vanno da un anno di detenzione all’ergastolo.


Amandine Inamahoro




Terra del drago tonante

Reportage dal piccolo regno himalayano, ultimo Shangri-La

Un piede nel passato e l’altro nel futuro, il Bhutan si sta aprendo alla modeizzazione, ma a modo suo, con leggi di avanguardia nella tutela dell’ambiente, con imposizioni restrittive per conservare le secolari tradizioni culturali. Ma l’invasione mediatica ed economica, con i suoi modelli e stili di vita occidentali, mette a rischio un sistema sociale che considera la felicità degli abitanti più importante del prodotto interno lordo.

I raggi del sole appena sorto lambiscono batuffoli di vapore che rimbalzano tra la vegetazione della foresta attorno a Trongsa. Mentre seguo con lo sguardo i contadini intenti a trapiantare il riso, dallo dzong le voci gutturali dei monaci elevano le preghiere mattutine al cielo. Tutto attorno è silenzio: nella valle sottostante solo il Puna Tsang, il fiume che scorre sinuoso come il drago che decora la bandiera del Bhutan, rivela la sua presenza.
PAURA DELLA DEMOCRAZIA
È da questa regione che, sul finire del XIX secolo, il penlop (governatore) di Trongsa, Ugyen Wangchuck, con l’appoggio dei britannici, sconfisse il rivale filotibetano di Paro, dando vita all’attuale dinastia dei Wangchuck e gettando le basi per la modeizzazione del paese. Ancora oggi, le incoronazioni ufficiali dei Druk Gyalpo (re dragone), vengono svolte in questo monastero, a sei ore di auto dalla capitale Thimphu.
La devozione verso la casa regnante è, a dir poco, impressionante: quasi ogni casa bhutanese mostra i ritratti dei cinque monarchi succedutisi, dal 1907 a oggi, alla guida della nazione. Ma ci si deve chiedere se, dopo l’attuale re, il ventinovenne Jigme Khesar Namgyal Wangchuck, ne seguirà un altro. La modeizzazione voluta da Jigme Singye Wangchuch, padre dell’attuale Druk Gyalpo, ha infatti gettato le basi per la democratizzazione, da molti vista come un primo passo per un eclissamento della monarchia.
Paradossalmente, in un’area geopolitica caratterizzata da una gestione assolutistica e personale del potere, qui in Bhutan è proprio il massimo rappresentante a volersene privare. L’imposizione democratica non è stata accettata dal popolo bhutanese, il quale ha così dimostrato di aver sviluppato un elevato grado di maturità sociale e politica.
«Siamo preoccupati – mi dice Tshering Lhadin, una ragazza impiegata in un centro di informatica a Thimphu -. La storia dimostra che, ogni qualvolta un paese raggiunge la democrazia, subisce un tracollo sociale e morale. È stato così per il Nepal e l’India. Non vogliamo che anche il Bhutan segua questi esempi».
Sono in molti a pensarla come Lhadin, ma decenni di cieca fedeltà alla corona hanno convinto i bhutanesi a partecipare, nel marzo 2008, alle prime consultazioni elettorali nella storia della nazione. «Elezioni farsa – accusa dalla sua casa di Kathmandu Vikalpa, nome di battaglia del segretario generale del clandestino Partito comunista maoista bhutanese -. I partiti con idee e programmi alternativi, repubblicani e antifeudali non hanno potuto presentarsi. Gli unici due schieramenti in lizza non differivano nei loro manifesti».
In effetti la schiacciante maggioranza dei voti è andata al Druk phuensum tshogpa (Dpt, Partito della pace e del progresso), più per la popolarità del suo leader, il primo ministro Jigme Yoser Thinley, che per i contenuti programmatici.
PRODOTTO
DI FELICITà LORDA
Lo sviluppo raggiunto dal Bhutan in questi 30 anni di modeizzazione è un motivo più che sufficiente affinché lo status quo sia, una volta tanto, l’obiettivo più ambito dalla maggioranza dei 690 mila bhutanesi. Elaborando un singolare metodo di misura della crescita, chiamato Prodotto di felicità lorda (Pfl), il Bhutan è il primo paese al mondo a stimare il progresso sociale della nazione non solo su base materiale, ma monitorando l’effettivo sentimento popolare verso nove principali fondamenti: buon governo, cultura, sanità, educazione scolastica, equilibrio psicologico, ecologia, standard di vita, utilizzo del proprio tempo e qualità della vita comunitaria.
«Il concetto che abbiamo in occidente di economia si misura esclusivamente dalla quantità di risorse economiche messe a disposizione dell’uomo. In Bhutan, ma più in generale nelle economie buddiste, l’economia si misura sulla serenità che la produzione materiale può dare a ciascun individuo» spiega Sender Tindeman, direttore del Maitreya Institute di Amsterdam.
Criticato dagli economisti «materialisti» per l’inaffidabilità scientifica di valutazione, il Prodotto di felicità lorda è forse ciò che più vicino oggi ci sia a quello che il Premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, afferma essere uno sviluppo sostenibile: «La libertà di scegliere e di poter scegliere compatibilmente con le proprie responsabilità».
Durante un’intervista alla fine degli anni ‘90, avevo chiesto proprio ad Amartya Sen come si potevano creare i meccanismi sociali e culturali per rendere partecipi anche gli impoveriti allo sviluppo economico. La sua risposta, mi accorgo ora, potrebbe essere un riconoscimento al Pfl: «Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio».
Mi tornano in mente queste parole mentre visito una comunità nella sperduta valle di Tang, nella regione centrale del Bhutan. Nel piccolo dispensario si assiepano una trentina di persone. Alcune, come l’analfabeta Chukie, si sono portate il nipotino per compilare i formulari necessari per ricevere le medicine; altre, come Trishan, hanno dovuto camminare quasi due ore per farsi visitare: «Solo due anni fa avrei dovuto recarmi direttamente a Jakar, a quattro o cinque ore di cammino. Ora abbiamo anche una strada e se troviamo i mezzi possiamo arrivarci in un’ora».
VANTAGGI E RISCHI           DELLA MODERNIZZAZIONE
Trishan è fortunato: è riuscito a separarsi da quel 21% della popolazione che vive a più di 4 ore di cammino dalla prima strada carrozzabile. In soli tre decenni, le infrastrutture di questa minuscola nazione, poco più grande della Svizzera, sono state accresciute in modo esponenziale. La rete stradale che nel 1974 si sviluppava per 1.300 chilometri attorno a Phuntsholing, Paro, Thimphu e Punakha, oggi attraversa l’intero paese da est a ovest su 5.000 chilometri di asfalto, permettendo un migliore e rapido trasferimento di persone e merci.
Grazie a una politica di capillarizzazione dei presidi sanitari, i bhutanesi vivono in media 66 anni, venti in più di quanto ci si potesse aspettare solo tre decenni fa. Il sistema scolastico statale, totalmente gratuito, oltre ad aver ridotto l’analfabetismo dal 90 al 25%, ha introdotto l’inglese, come lingua accoppiata allo dzongha nell’insegnamento di alcune materie, permettendo ai bhutanesi di dialogare con il mondo.
Ma il Bhutan si affaccia al XXI secolo portando con sé anche una serie di incognite che gettano preoccupazione nella classe politica. Se nei secoli scorsi bastavano le formidabili catene dell’Himalaya a sfiancare ogni esercito e mantenere salda e integra la cultura drukpa, permettendo al governo di scegliere gli interlocutori con cui interfacciarsi, oggi la modeizzazione ha di fatto fagocitato anche questa minuscola nazione nei circuiti di scambi inteazionali. Le inevitabili aperture al mondo esterno, iniziate timidamente negli anni ‘60 con re Jigme Dorji Wangchuck e perseguite con più vigore dal suo successore, Jigme Singye, hanno costretto i bhutanesi a raffrontarsi con cambiamenti sociali mondiali.
Nel Tiger Pub di Thimphu le luci soffuse proiettano ombre di ragazzi e ragazze che si sbaciucchiano sorseggiando una birra; a Paro, in occasione di una partita di calcio della Champions League, un bar promette hard rock music per tutta la nottata, a Wangdue osservo un ragazzo che, indossando jeans Levi’s e una maglietta Armani, ha raccolto i capelli meschati in treccine rasta, mentre nei pressi del monastero di Gangtey, nella valle di Phobjkha, diversi monaci poco più che tredicenni si passano un paio di sigarette.
Viaggiando per il paese noto diversi centri di aiuto per disintossicati e affetti da Hiv. «Fino a cinque anni fa nessuno sapeva cosa fosse la droga o l’Aids. Oggi è divenuta una piaga sociale, per ora ancora contenuta, ma destinata ad allargarsi» spiega un ragazzo di 29 anni in cura presso il presidio di Thimphu. Piccoli segni, se vogliamo, ma che denotano un cambiamento in atto difficilmente contrastabile con decreti e imposizioni.
Dagli aerei della Druk Air nel 2008 sono scesi quasi 18 mila turisti che importano modelli di vita affascinanti per i giovani bhutanesi, il 40% dei quali ha meno di 20 anni. Il gho e la kira, i vestiti tradizionali per gli uomini e le donne imposti obbligatoriamente dal governo durante attività pubbliche e nelle cerimonie ufficiali, sono dismessi appena possibile. Al loro posto vengono indossate magliette del Manchester United e jeans attillati. Il tiro con l’arco, sport nazionale, sta per venire soppiantato da attività più fisiche che mentali quali calcio, cricket e basket (il principe stesso gioca in una squadra di pallacanestro).
turismo E INQUINAMENTO AMBIENTALE E CULTURALE
Per far fronte alla crescente disoccupazione, che nelle città raggiunge il 30% della forza lavoro, il governo punta sul turismo, unica voce economica con un settore privato in espansione. I 200 dollari al giorno che ogni straniero deve pagare per visitare il paese dovrebbero selezionare un turismo d’élite e intellettualmente rispettoso della cultura locale, ma questo non sempre è un fatto positivo. Il turismo dei ricchi non si accontenta degli alberghetti, di viaggiare su mezzi pubblici, di mangiare nei ristorantini e i contatti con i bhutanesi sono estremamente limitati.
Tutto questo impone al governo il miglioramento delle infrastrutture logistiche con le ricadute del caso. La costruzione di alberghi di lusso richiede maggior consumo di risorse energetiche e idriche, nonché un notevole aumento di rifiuti che dovranno essere trattati, mentre il viaggiare su mezzi privati implica una congestione del traffico con la necessità di migliorare la rete stradale e un conseguente innalzamento dell’inquinamento.
Come si concilierà tutto questo con la volontà di integrare lo sviluppo con il rispetto dell’ambiente? Per legge il 60% del territorio deve essere coperto da foreste, ma il vertiginoso aumento demografico e il fatto che il 40% delle case utilizza legna per cucinare e riscaldarsi, mette in serio pericolo la rigogliosa vegetazione. E se il turismo è una fonte di inquinamento culturale e ambientale, tuttavia ancora relativamente controllato, visto che la maggior parte della popolazione ne è immune, televisione e internet sono mezzi che più subdolamente entrano nelle abitazioni dei bhutanesi e ne cambiano la mentalità.
Si calcola che un terzo delle famiglie del paese possieda un apparecchio televisivo e che 40 mila persone utilizzino internet. Il governo ha cercato di correre ai ripari criptando i canali, a suo parere, più offensivi verso la morale: Mtv, Fashion Tv e quelli che trasmettono il wrestling. A Paro, però, vedo diversi ragazzini imitare le mosse della lotta e, nell’isolata Ura, un bambino sfoggia orgoglioso una maglietta serigrafata con l’immagine di John Cena. Le ragazze, inoltre, recepiscono immediatamente gli ultimi dettami della moda dalle copertine patinate delle riviste o dai film indiani proiettati al Luger Cinema di Thimphu.
«Non sono contraria alle trasformazioni. Una cultura per sopravvivere deve adattarsi anche ai cambiamenti estei – confida Kunzan Yeshey, una scrittrice in erba incontrata a Punakha -. Ho però paura che non siamo ancora pronti. Ci sono troppi esempi che ci consiglierebbero di rallentare il processo di modeizzazione». La grande paura di Yeshey si chiama storia e integrazione.
INTOLLERANZA ETNICA
Già alla metà degli anni ‘60 il Bhutan era entrato in una pericolosa spirale di violenza, quando l’allora primo ministro, Jigme Palden Dorji, dopo aver varato delle riforme in campo militare e religioso, fu assassinato in una faida tra la famiglia Dorji e il consigliere tibetano del Druk Gyalpo, Yangki. La stessa Yangki complottò dieci anni più tardi per assassinare il quarto monarca, appena incoronato.
Ma sono gli sviluppi più recenti che hanno svegliato i bhutanesi dal loro sogno di vivere in una Shangri-La (utopico paradiso himalayano descritto nel 1933 da James Hilton nel romanzo Orizzonte perduto, ndr). Dopo che, nel censimento del 1988, il governo scoprì con sgomento che i lhotshampa, l’etnia di origine nepalese, hinduista, di lingua nepali e concentrata nelle regioni meridionali, aveva raggiunto il 45% dell’intera popolazione, il re varò la campagna «Una nazione, un popolo». Oltre a bandire la lingua nepali nelle scuole, costrinse i lhotshampa a conformarsi al Driglam Namzha, i valori tradizionali bhutanesi, non tutti confacenti alla cultura del sud.
Il terrore del governo bhutanese era seguire l’esempio del confinante Sikkim, che nel 1975 perse l’indipendenza divenendo il 22° stato dell’India a seguito di un referendum il cui risultato fu condizionato dalla maggioranza nepalese. Per evitarlo, si emanò una serie di leggi di cittadinanza che discriminavano le etnie meridionali nei confronti dei bhote, la razza maggioritaria. Ne seguirono scontri e circa 100 mila persone si rifugiarono in Nepal, dove tutt’ora sono confinati in sette campi profughi.
«Quello che è chiaro è che, dopo il 1988, il governo ha implementato una politica di intolleranza verso i bhutanesi di lingua nepalese» ha detto lo scrittore Christopher Strawn, autore del libro Bhutan.
Nei campi profughi la vita è miserrima e sia Bhutan che Nepal cercano di rimpallarsi responsabilità e soluzioni. Secondo il governo bhutanese il 25% dei rifugiati non avrebbe neppure diritto alla cittadinanza. Dopo che l’ambasciatrice Usa in Nepal, Nancy J. Powell, ha dichiarato che il suo paese, assieme ad altre sei nazioni, ha accettato di accogliere i rifugiati, nei campi si è innescata una serie di violenze il cui scopo è quello di impedire un insediamento in paesi terzi. Suhas Chakra, direttore dell’Asian Centre for Human Rights (Achr) di New Delhi, avverte che «il reinsediamento senza un diretto coinvolgimento del Bhutan è pericoloso, perché potrebbe favorire la politica di pulizia etnica del governo bhutanese e aggravare la situazione delle popolazioni di origine nepalese».
Sempre a New Delhi incontro quello che forse è il più famoso dissidente bhutanese: Devi Bhakta Lamitarey, fondatore del Bhutan State Congress e autore di due libri di discreto successo: Dankido Bhutan e Murder of Democracy. La sua tesi, per certi versi allucinante e pericolosa, è che «per essere indipendente il Bhutan dovrebbe avere almeno 5 milioni di abitanti, così da disporre di un esercito di 500 mila soldati. Se non raggiungerà tali traguardi, l’unico destino è l’assorbimento da parte dell’India, così come avvenuto con Sikkim». E alla fine aggiunge: «Sempre meglio essere uno stato indiano che un servo della Cina».
FOBIA INGLOBAMENTO
Attraversando il Bhutan incontro diverse squadre di manutentori stradali: tutti, o quasi, sono di origine nepalese, così come di origine nepalese sono i lavoratori che svolgono attività di fatica. Negli uffici statali, invece, le sedie sono monopolio dei Bhote. «Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura. Siamo un piccolo paese schiacciato tra due giganti. Non vogliamo diventare il 23° stato dell’India e neppure un’appendice del Tibet» giustifica Tsheltrim, un impiegato della Banca del Bhutan.
La fobia dell’inglobamento, se non politico almeno culturale, in una delle due grandi aree geopolitiche confinanti col Bhutan, è presente ovunque. Il Trattato di Punakha del 1910, siglato tra il primo re, Ugyen Wangchuck, e la Gran Bretagna, in base al quale Londra, pur non interferendo negli affari interni della nazione himalayana, ne avrebbe guidato la politica estera, è stato sostituito pari pari nel 1949 dal Trattato di amicizia con l’India. Ma con la democratizzazione, Thimphu potrebbe adottare una politica estera più autonoma, cercando una equidistanza tra New Delhi e l’altro potente vicino, Pechino, entrambi interessati alle enormi potenzialità energetiche offerte dal paese.
India e Cina hanno anche un contenzioso con l’Arunachal Pradesh, regione che Pechino considera di propria competenza e che, assieme all’Assam, ha dato non pochi grattacapi al Bhutan. Al passo Dochu La, i 108 stupa costruiti sul valico testimoniano la lotta condotta nel dicembre 2003 dall’esercito bhutanese in collaborazione con l’India, contro i guerriglieri dell’Ulfa (United Liberation Front of Assam), del Ndfb (National Democratic Front of Bodoland) e del Klo (Kamatapur Liberation Organization), tre organizzazioni indipendentiste che controllavano una trentina di campi nel Bhutan.
L’ingombrante presenza dell’India, principale partner commerciale, non sembra però allarmare i bhutanesi, che hanno addirittura esentato i cittadini indiani dall’esorbitante tassa turistica imposta agli altri paesi.

U na volta visitato questo stupendo paese, viene istintivo chiedersi se il Bhutan riuscirà a convivere con i modelli che gli provengono dall’esterno o se questi avranno il sopravvento sulla sua cultura. Nella storia, il Drago Tonante è riuscito a respingere gli assalti di eserciti ben più potenti e armati di lui, ma di fronte all’invasione mediatica ed economica, forse i suoi artigli non sono in grado di difendere questa terra di miti e leggende. 

di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Perù, «come stai»?

Un breve racconto dal paese latinoamericano

In questi mesi, il paese andino è stato sulle prime pagine a causa della durissima repressione del presidente Alan García contro le popolazioni amazzoniche insorte a difesa dei propri territori. In questo racconto di Wilfredo Ardito, una classe di bambini peruviani parla del proprio paese e dei suoi problemi. Con una sorpresa finale…

«José Gabriel lascia il computer che adesso arriva l’autobus e non hai fatto ancora colazione!», disse la mamma, mentre apriva il microonde per servire il succo di arancia che aveva riscaldato. 
«Mamma, soltanto un momento, che sto per battere il mio amico tibetano!».
«Ma lascialo stare!  Lo sai che a quest’ora lui va a letto!».
José Gabriel ingurgitò la colazione in fretta e furia. Un momento dopo suonò il campanello, che il papà aveva programmato con la musica di Star Trek. Si avvolse nella giacca termica acquistata al Saga Falabella di Sicuani (1):  fuori c’erano sei gradi sotto zero. Si mise il cappello di alpaca e, dopo aver salutato la mamma, corse al pullman.
 «Allinllachu?» (2), disse  l’autista, Richard Quispe.  Quando nacque lui, nei primi anni del secolo XXI, ancora erano di moda fra i contadini i nomi in inglese. 
 L’autobus continuò per la strada in mezzo alla puna (3), fermandosi presso altre case per fare salire i figli dei contadini. 

Siccome era ancora presto, José Gabriel ebbe tempo per giocare una partita di basketball nel ginnasio e lavarsi la faccia con acqua calda prima della lezione iniziale.
Nell’aula  appese la sua giacca all’attaccapanni, che si trovava a un’altezza adeguata per bambini di 8 anni. 
Fra tutte le facce andine dei suoi compagni si staccavano due bambini bianchi, che erano venuti da Lima per un programma di intercambio. Così potevano migliorare il loro quechua e anche approfittare di due o tre mesi di sole, nel periodo in cui sulla costa il cielo è sempre coperto.
La prima lezione era Storia peruviana.  Parlando in quechua, l’insegnante ricordò ai bambini il loro compito:  «Avete fatto la ricerca sulla vita al tempo dei vostri genitori?».
«La mia mamma ha detto che a quel tempo non c’era il riscaldamento», disse José Gabriel.
«Neppure energia elettrica o solare», disse Kusi, che sedeva accanto a lui.
«Non c’erano bagni nelle case», aggiunse Cahuide.
«Ne autocarri che portavano via la spazzatura», precisò Ollanta.
«Ma che schifo!», esclamò la piccola Chaska, con una espressione tanto disgustata, che tutti gli altri scoppiarono in una risata.
«Tutto questo è vero, bambini – spiegò la maestra -. La vita era molto difficile a quei tempi…  Ma tutti i peruviani soffrivano tanto?».
«No, assolutamente – rispose Inti, il più bravo della classe -. A Lima e in altre città della costa c’era gente che viveva molto meglio.  Alcuni avevano in casa anche la donna di servizio proveniente dalla sierra e che veniva trattata molto male». 
«Sì, quelle donne dovevano sempre chiamare i padroni “señor” o “joven” e parlare sempre con “usted”», aggiunse José Gabriel, usando quelle parole in spagnolo. 
 «Io sono andato al “Museo della segregazione” alla spiaggia di Asia (4) ed era molto interessante», intervenne Sinchi, uno dei bambini di Lima, pronunciando con precisione i suoni più difficili della lingua quechua. 
«I  visitanti dovevano mettersi addosso dei grembiuli bianchi o blu per poter capire come lavoravano le donne di servizio». 

Tutti i bambini si misero a chiacchierare sull’ ultima volta che erano andati in vacanza al mare, a Asia, Camanà o Paracas. Finché l’insegnante chiese loro di tornare attenti:   «E i vostri genitori vi hanno raccontato come erano le scuole?».
«Non c’era acqua calda o carta igienica nei bagni», disse Ollanta.  
«A volte non c’erano i bagni», aggiunse Ayar.
«I miei dicono che dovevano camminare parecchie ore per arrivare alla scuola, ma deve essere una bugia.  Sarebbero morti con tanto freddo!», borbottò Huáscar.
«Anche i miei hanno detto questo», disse Kusi, sorpresa. E aggiunse: «Ma,  è vero che non c’era l’autobus della scuola?». 
«Se questo è vero, erano proprio scemi! – esclamò Cahuide -. Invece di camminare potevano rimanere in casa a seguire le lezioni collegati ad internet».
«Non c’era internet nelle case a quel tempo!», si burlò Inti. Seguì una risata generale.
«Una domanda, maestra – intervenne Micarnela, la bambina limeña -. Ho sentito dire che a quel tempo c’erano delle “scuole private”.  Cos’erano?».
«Erano scuole dove le famiglie con più danaro pagavano per dare ai loro figli una migliore educazione – spiegò l’insegnante -. A quei tempi si doveva pagare per molte cose, anche per le medicine in ospedale». 
Ogni volta che arrivava a questa parte della spiegazione, la maestra sapeva che nella classe sarebbe calato il silenzio e che tutti i bambini sarebbero rimasti a bocca aperta. 
Nessuno voleva dire quello che tutti pensavano. Dopo alcuni minuti, Cahuide ebbe il coraggio di parlare:  «… E per chi non aveva i soldi, cosa succedeva?».

Non c’era bisogno di risposta.  Tutti avevano capito. «Quello che io non riesco a capire – disse José Gabriel -, è perché a Lima si sprecava tanto danaro in cose che non servivano a niente, ma a quella gente non interessava che qui i contadini morivano di fame o di freddo». 
«Signorina, come mai le cose cambiarono?», chiese Kusi.
«Perché adesso tutti ci trattano come esseri umani?», continuò Huáscar. 
«Cosa successe?», insistette Cahuide.
«Ma perché piange?», domandò Chaska, vedendo che una lacrima scendeva lungo la guancia della maestra. 
«Bambini, piango perché ricordo tutto quello che soffrivamo senza che a nessuno importasse».
O forse la maestra piangeva, perché lei e i suoi bambini sono soltanto parte di un racconto di un Perù del futuro, che non si sa quando potrà tradursi in realtà.  

Di Wilfredo Ardito

Note:
(1) Saga Falabella, di proprietà cilena, è uno dei principali negozi di vestiti di Lima, con prezzi molto elevati.  Vende anche i prodotti di Benetton. Sicuani è una piccola città delle Ande, molto lontana da questo tipo di negozi.
(2) «Stai bene?», in lingua quechua.
(3) La puna è la parte più fredda delle Ande, ma dove ancora è possibile abitare, fino a 4.000 metri di altitudine.
(4) Asia è una città di villeggiatura, 100 chilometri a sud di Lima, dove oggi vanno soltanto i peruviani più ricchi, quasi tutti bianchi.  Ad Asia, è vietato (!) alle donne di servizio accedere al mare. Di solito, i bambini delle Ande non conoscono il mare.

Wilfredo Ardito




La resistenza degli «uomini di mais»

Latifondisti e speculatori contro gli indigeni

Nello stato di Morelos, che diede i natali a Emiliano Zapata, gli indigeni nahua, eredi degli aztechi, lottano per la terra e l’acqua da cui dipende la loro stessa esistenza. Gli usurpatori di oggi sono imprenditori che, con l’appoggio delle istituzioni, comprano la terra per fae centri commerciali, villaggi di casette a schiera, campi da golf. Un ecocidio e un desplazamento cui gli indigeni hanno risposto unendo le forze nel «Consiglio dei popoli per la difesa dell’acqua, dell’aria e della terra». Una lotta difficile, ma carica di significati. Anche per noi.

Lo stato di Morelos dista un centinaio di chilometri da Città del Messico. È uno degli stati più piccoli del paese, con i suoi due milioni di abitanti.
Qui, l’8 agosto del 1883 – o forse nel ’73 – nacque Emiliano Zapata, a San Miguel Villa de Ayala. Fu proprio dalla sua terra, da questi spazi larghi che alternano deserto a foreste, che meno di trent’anni dopo – o meno di quaranta, a seconda –  Zapata, divenuto generale, fece partire la rivoluzione agraria, che distribuiva terre ai contadini e attaccava al cuore il latifondismo asservito al dittatore Porfirio Diaz. Era il 1910.
Un secolo dopo a Morelos si stanno ricostituendo i latifondi contro i quali aveva lottato Emiliano Zapata. Questa volta la mano è quella delle immobiliarie e dei ricchi imprenditori, avallati dalle istituzioni locali e statali.
La politica di stampo dichiaratamente neoliberista del  presidente conservatore – del «Partito di Azione nazionale» (Pan) – Felipe Calderon, ha dato carta bianca ai governatori del Morelos, che oggi sono Marco Adame Castillo e Jesús Giles. Essi e il sistema che rappresentano, stanno smembrando e vendendo a quarti alla macelleria del mercato questa terra di rivoluzionari, abitata per larga parte da popolazioni indigene. Le nuove frontiere della ricchezza non sono più i grandi appezzamenti agricoli dove venivano a schiavizzare i peones per massimizzare guadagno e rendimento. Più sguaiatamente, la terra di Zapata oggi serve a fare campi da golf, centri commerciali, migliaia di casette a schiera dai colori pastello e dai muri di cartone, per allettare i vicini cittadini col sogno della casa full confort poco fuori dalla metropoli. Chi abita da sempre questi territori non è consultato né rispettato. Così come non lo è il fragile equilibrio naturale di uno degli ultimi ecosistemi integri della regione. Uno sfruttamento selvaggio – un ecocidio – che sta avvelenando falde acquifere ed uccidendo specie animali. E che prevede il violento desplazamento (allontanamento coatto) degli indigeni contadini, coltivatori di mais.
Non è che a noi suoni tanto strano, perché è quello che anche in Italia succede di continuo: ecomostri, casette «schierate», che nascono come funghi e che in effetti non rispondono ad una reale richiesta abitativa, «figliolo, un giorno qui era tutta campagna…» ed ora è centro commerciale… Però Zapata è Zapata. Il simbolo della rivoluzione messicana è l’espressione anche di altro, che non è morto con lui e che era nato molto tempo prima: gli indigeni.
Lo stato di Morelos vanta una forte presenza di indigeni, in particolare di etnia nahua. Lo stesso Zapata parlava nahuatl. Gli indigeni contadini, gli «uomini di mais», come essi stessi si definiscono perché esperti coltivatori di questa pianta, erano al suo fianco allora, per difendere le loro terre dai loro sfruttatori; prima, avevano fieramente combattuto i conquistadores spagnoli in difesa della loro cultura. E anche oggi continuano con altre rivoluzioni.
Loro, i nahua, discendenti dagli aztechi, dicono: «Dalla nostra Madre Terra abbiamo imparato a leggere la nebbia, il freddo e il calore, le piccole scosse della terra e le eclissi; ad interpretare il suono dei ruscelli e parlare al vento che esce dai pozzi naturali e dai fiumi sotterranei. Nel dialogo con gli elementi abbiamo imparato ad interpretare gli spazi e da lì, a pianificare le attività dell’anno. Veneriamo la relazione con le nostre terre e con le nostre acque e per questo siamo organizzati collettivamente, e sappiamo che il giorno in cui questa morirà, morirà anche la nostra terra portandosi via le sue risorse. Per questo conserviamo le nostre danze. Perché attraverso di esse  parliamo con l’acqua e possiamo chiederle di scendere dal cielo».
Queste parole di pura poesia provengono dal «Manifesto de Los Pueblos de Morelos», redatto nel 2007 in occasione di un grande congresso delle popolazioni indigene dello stato.
Un quarto di secolo fa infatti, alcune comunità indigene di Morelos si sono spontaneamente unite – indignate per il sopruso che stava di nuovo avvenendo sotto i loro occhi e a loro danno – per tentare di arginare il frazionamento della propria terra e l’inquinamento delle loro acque. In principio, furono 13, i pueblos, che si unirono in un congresso: i «13 Pueblos en defensa del agua, el aire y la tierra».

«Ci chiamano terroristi e criminali»

Saul Roque Morales, in testa ad un folto corteo, dice: «Siamo indigeni, parliamo nahuatl, veniamo dalla comunità di Morelos, e per questo diciamo al segretario di Goveo che guardi bene quanto siamo terroristi, che guardi bene quanti criminali ci sono fra di noi, perché ci mandi poi i suoi elicotteri ed il suo esercito per farci paura. A noi che solo chiediamo di difendere la nostra acqua».
Quando parla, Don Saul tiene sempre la stessa espressione imperturbabile di chi conta le nuvole all’orizzonte, e il tono della voce non s’increspa mai. Giusto quando parla del suo matrimonio, della sorpresa che la sua gente fece agli sposi, organizzando una festa con cibo e fiori; della moglie, che sembrava essere afflitta da un male incurabile e poi fu guarita dallo sciamano del villaggio vicino. Allora sì, s’addolciscono i suoi tratti.
Sennò, alle adunate e di fronte all’esercito armato, alle riunioni e ai convegni in giro per il mondo, il suo viso di contadino, di rivoluzionario, di saggio e di coraggioso, si muove sempre dentro  un’espressione eterna.
È considerato il capo spirituale della popolazione di Xoxocotla, una piccola cittadina di qualche migliaio di abitanti. Oggi è anche il referente politico di un movimento che arriva a contare 800.000 persone in tutto lo stato di Morelos: praticamente, metà della popolazione.
Quando Don Saul aveva pronunciato quelle parole era il luglio dell’85. L’esercito era intervenuto da pochi giorni con violenza spropositata per sedare le manifestazioni – pacifiche -, che i 13 popoli di Morelos avevano messo in atto per opporsi alla costruzione di un enorme complesso abitativo che voleva sorgere esattamente sopra i quattro bacini idrici che davano da bere a tutto il Creato di Morelos. Tale progetto, conosciuto come la Cienega, prevedeva la costruzione di migliaia di casette in un’area adibita alla coltivazione comunitaria del mais. I contadini indigeni erano scesi in corteo ed avevano occupato le arterie d’accesso a Morelos. L’esercito aveva picchiato e sparato. Una loro compagna – la signora Carmen Lucila González Gómez – aveva perso l’uso delle gambe in seguito alle botte.
Fu allora che i primi 13 popoli di Morelos cominciarono ad organizzarsi per difendere «l’acqua, l’aria e la terra». Non vinsero la battaglia – ancora in corso -. per salvare la cuenca di Chihuahuita e gli altri tre bacini d’acqua. Ma da allora le tante vertenze che li vedevano sconfitti in partenza per la violenza militare, per le difficoltà burocratiche, per la povertà e l’analfabetismo e la disgregazione sociale che l’indigenza e il frazionamento del loro territorio stava portando, vennero affrontate insieme.
È stato così che la comunità di Cuentepec, nel municipio di Temixco, è riuscita a sopravvivere con il suo modello di organizzazione nonostante la vicinanza dell’aeroporto Mariano Matamoros. E che la mobilitazione in Tepoztlán ha vinto contro la costruzione, nel 1997, di un club da golf. Qualche anno dopo, gli abitanti della comunità di Ocotepec si sono opposti all’installazione di uno spaccio della catena Soriana, del gruppo Monterrey, evento che ha costituito la prima sonora sconfitta dell’amministrazione panista di Sergio Estrada Cajigal Ramírez.
Ma i 13 pueblos riuscirono anche in un’altra importante vittoria: obbligarono il governo a riconoscere la gestione comunitaria delle proprie risorse idriche.  Venne creato il Sistema di Acqua potabile di Xoxocotla. Consta di 110 dirigenti e si considera in «lotta permanente per la difesa e protezione delle proprie sorgenti e di ciò che le circonda». E salvaguarda la dimensione fondamentale della vita indigena, la comunitarietà.
Da allora, ogni domenica, i 13 popoli si ritrovano nelle loro assemblee. Ogni domenica, una comunità nuova si aggiunge.
Il 28 e 29 luglio del 2007 venne organizzato il primo Congresso dei Popoli del Morelos a Xoxocotla: erano 49 popolazioni originarie. Oggi, a distanza di due anni, sono 64.
Nella Dichiarazione dei Popoli Indigeni di Morelos, essi dichiarano:  «Che vogliamo, che chiediamo? Che ci rispettino come popoli indigeni. Che non ci arrestino perché difendiamo le nostre terre. Che ci sia un’autentica giustizia. Che non costruiscano mega-progetti industriali e commerciali sulle terre comunali e ejidali (da ejidos, le porzioni di campi comunitari, ndr).  Che non distruggano i nostri boschi, le nostre acque e le nostre risorse naturali. Che non si imponga una modeizzazione neoliberale che significhi la sparizione dei popoli indigeni. Che tengano conto di noi quando si deve decidere».
A questo appello hanno risposto in tanti. L’Università statale Unam, che da anni si è affiancata alle lotte dei nuovi rivoluzionari discendenti di Zapata foendo gli studi di fattibilità ambientale, che dimostrano come i megaprogetti proposti dalle autorità non hanno nessun riscontro scientificamente rilevante sul reale impatto ambientale. E poi molti docenti, intellettuali, avvocati, artisti.
Ma è stato nell’agosto di due anni fa che si è capito come la strenua lotta di questi contadini poveri ma resistenti era diventata davvero qualcosa di esemplare: da tutti i paesi americani, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, vennero in pellegrinaggio i delegati delle popolazioni indigene del continente. Per dare il proprio appoggio alla lotta dei «Pueblos», 153 fra sciamani ed alti rappresentanti delle comunità indigene americane, si riunirono ai piedi del sito archeologico azteco di Xochicalco, per un rito comune in difesa «dell’acqua, dell’aria e della terra».

L’acqua della Coca-Cola e la perdita dei beni comuni

Don Saul  è stato recentemente in visita in Italia, assieme all’associazione Yaku. Incontrando le comunità italiane che lottano anch’esse per difendere i propri territori – dagli impianti di geotermia sul Monte Amiata, in Toscana alla privatizzazione dei servizi idrici in Trentino -, spiegava: «Le fonti d’acqua nel Morelos sono in mano alla Coca-Cola, nessuna restrizione viene imposta alle imprese edili. Con la Colonia eravamo peones. Oggi è peggio. La nostra lotta è per difendere gli spazi di convivenza collettiva, per forme razionali di sviluppo economico; e per governi onesti. Noi, popoli del Morelos in lotta, aspettiamo il giorno in cui rivedremo splendere il luogo in cui viviamo, e in cui potremo riunirci con chi è stato costretto ad emigrare e con chi ancora deve nascere. Anche se si tratta di un sogno profondo, in realtà, lo stiamo facendo ad occhi aperti». Parole che ricongiungevano gli spazi e aprivano gli occhi, sotto la luce della semplicità inattaccabile propria del pensiero delle culture indigene.
Enzo Vitalesta dell’associazione Yaku, nella prefazione della versione italiana del «Manifesto de los Pueblos del Morelos», lo spiega bene: «Leggendo il Manifesto ci rendiamo conto quanto siamo lontani dallo stare bene. E quanto ci stiamo allontanando dalle cose che ci appartenevano e ci appartengono. Dai beni comuni che sono il luogo in cui viviamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’energia che ci tiene in vita, la terra, i boschi, i mari, i ghiacciai. Ma stiamo allungando le distanze anche dal patrimonio collettivo che alimenta lo spirito comunitario di ogni territorio».
I 13 popoli tengono vivo questo spirito anche per noi. 

di Francesca Caprini

Francesca Caprini




Paure, speranze e rabbia

Storie di immigrati

Questo reportage riguarda una casa occupata da immigrati a Ostia, realtà molto difficile e chiusa, con traffici e attività non sempre legali, e la casa di «Action» a Roma, in via Carlo Felice, a San Giovanni in Laterano. Casa questa, composta da circa 150 persone. Entrambe le case
sono state sgomberate.

Calcinacci, muri affumicati dall’umidità, secchi ovunque per raccoglier l’acqua che gocciola come un lavandino semi chiuso e un odore fortissimo che mi ottura il naso. «Attenzione non aprire a nessuno! Guardate sempre dal buco… attenzione alla polizia!». È la scritta tradotta in arabo, serbo, rumeno, wolof e italiano che ricopre il grosso portone che si chiude immediatamente dietro di noi.
È difficile far finta di nulla, parlare, camminare e pensare mentre un odore opprimente si insinua nel naso, nella mente, nella bocca. La scenografia in cui mi muovo sembra quella di un film ambientato dopo la guerra in Jugoslavia. Invece siamo solo a Roma a pochi metri dalla basilica di San Giovanni in Laterano. In uno dei tanti quartieri più costosi di Roma.
Tantissime porte si aprono e si chiudono, sguardi terrorizzati mi attraversano scrutandomi dall’alto in basso. I pensieri silenziosi e la paura li avverto con la stessa intensità di una fucilata. Lo stesso rumore sordo. Pianti, lamenti, chiacchiericcio occupano l’aria insieme a quell’odore che mi rimarrà dentro. Un melting pot di cucine e culture diverse aumenta man mano che salgo i sei piani dell’edificio.
Cento-centocinquanta persone, 60 nuclei familiari occupano questa grande casa di proprietà della Banca d’Italia in via Carlo Felice. Senza luce perché la Banca d’Italia impedisce all’Acea di Roma di stipulare contratti con gli occupanti per l’erogazione dell’energia elettrica.
Non sono sola. Con me c’è la mia collega Alessandra Sinibaldi. Il nostro contatto è una peruviana, Alexandrina. Colf di una famiglia borghese romana. Alexandrina è una vera e propria istituzione nella casa. Ci racconta come, tramite una regolare elezione fatta dagli inquilini, si vota il rappresentante capo della casa. «Ci sono regole rigide per i nuovi arrivati. Non possiamo rischiare tutti per qualcuno» spiega Alexandrina.
Organizzati come in una fabbrica ci sono tui di pulizia degli spazi comuni, tui di coloro che fanno i muratori, la stragrande maggioranza della manovalanza edilizia romana, che sistemano, bucano, tirano su muri cercando di migliorare la casa.
I bambini come sempre sono i più curiosi. Come in Africa, bastano pochi passi per ritrovarseli attorno a flotte in un riuscitissimo esempio di integrazione. Ma l’integrazione non è solo dei bambini. Non può che stupirci questa straordinaria integrazione tra stranieri e italiani, perché la casa ospita anche italiani del meridione, che lavorano in nero nella capitale e non possono permettersi gli affitti altissimi.
Inutile dire che quella è considerata una bruttura estetica al centro di Roma, vissuta come un pericolo dai vicini chiusi nei loro grandi appartamenti. E come ho sempre sostenuto quando si parla di immigrazione un esempio del quale i nostri stressati ministri potrebbero prendere esempio per una migliore politica d’immigrazione e miglioramento dell’integrazione in spazi di vita comuni.
Musulmani, cattolici, cristiani copti che si capiscono in un italiano mescolato da parole della loro lingua che non hanno traduzione. I bambini corrono su e giù per le scale. Si chiamano, si cercano contenti di avere uno spazio tanto grande per giocare.

U na decina di materassi a terra incastrati come un puzzle in quattro metri per quattro. Un armadio, un tavolino e due sedie per gli ospiti. Ci giriamo come due elefanti in una giornielleria tra i sorrisi di Aisha, una giovane etiope che vive in questa stanza con marito, figli e parenti. Una decina di etiopi che si dividono l’umidità che trasuda dai muri al pavimento.
Due occhi magnetici grandi e scuri ci fissano. Sembra una bambola seduta su uno di quei materassi con la stessa eleganza di una regina d’oriente sul suo trono. È Sara. Per molto tempo sarà la nostra modella, vincendo la timidezza e la paura dei suoi due anni. Un odore di caffè riempie l’aria. È Mohamed che appena dopo le presentazioni è scomparso nell’anticamera di una pseudo-cucina. Sarà il primo dei sei caffè della giornata, dei sei piani. Forte e scuro come la loro terra africana.
Aisha ci racconta la sua storia. Amava Mohamed, ma in Etiopia era dura. Volevano sposarsi, ma nel loro villaggio era iniziata una guerriglia tribale. Appartengono a due tribù rivali da sempre. Un fratello di Mohamed era venuto in Italia e gli scriveva una lettera al mese. Gli mancava la sua terra. La luce e i colori dell’Etiopia, la famiglia, le feste tutti insieme, ma «mi ripeteva sempre, non sai che gioia svegliarsi la mattina senza saltare dal letto, non andare a dormire con il terrore che anche quella notte verranno a fare razzie – ricorda Mohamed -. È vero. Qui è dura. Non si fidano. E quando trovi lavoro ti ricattano con uno stipendio da fame, tanto sanno che non possiamo ribellarci, altrimenti non abbiamo una documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Menomale abbiamo saputo di questa casa occupata. Siamo in tanti e diversi. La sera succede di tutto, perché c’è sempre chi fa entrare qualcuno che spaccia come amico. Ma almeno abbiamo un tetto. E la maggior parte degli abitanti sono brave persone. Sono riuscito a trovare questi materassi e piano piano compro qualcosa per la mia famiglia. La nostra gioia più grande è la nostra Sara. Non riuscivamo ad avere figli. E per noi che siamo cresciuti con il pensiero fisso di fare dei bambini, non avee di nostri era dura. Ma abbiamo pregato e pregato, e il buon Dio ci ha premiato» continua Mohamed.
Parliamo mentre Sara continuamente si gratta la testa piena di ricci. «È un’allergia del cuoio capelluto, mi hanno detto» dice Aisha. La mia paura, avendo una testa altrettanto piena di ricci, è che fossero pidocchi. Ma che fare. Non posso andar via. Non posso non ascoltarli. Non posso non stargli vicina. Non è stato semplice entrare laddove non entra nessuno. Ci avevano dato fiducia. E io non potevo tradirli.
Guardo Alessandra, capisco lo stesso timore, ma la stessa voglia di documentare come si possa ancora, nel terzo millennio, vivere in queste condizioni, nella Roma multietnica. Alexandrina ci fa capire che ci stanno aspettando. Continuiamo a salire le scale tra i saluti e gli sguardi di chi è intrinsecamente intimorito. Sono clandestini. Clandestini con storie alle spalle allucinanti. Ma tutti insieme vanno a manifestare per il diritto alla casa. La casa di Carlo Felice è nota per le sue manifestazioni. Spesso sono finiti nei telegiornali nazionali.

A lexandrina ci porta a casa sua; vive con il nipote, la sorella e un’altra sudamericana che ha ospitato. L’odore di cibi e l’arredamento tipicamente sudamericani ci avvolge e ci impregnerà i vestiti. Un bellissimo ragazzo vestito come tanti suoi coetanei italiani è steso su un letto fisso a guardare i video di Mtv. Non si gira, non ci guarda, sembra quasi non accorgersene.
Alexandrina dice essere suo nipote. «Diciassette anni e da due anni su quel letto per problemi forti alle articolazioni. È stato in coma per un lungo periodo, quando si è risvegliato doveva seguire una fisioterapia costante per riprendere a camminare. Il primo periodo l’ha fatta in ospedale, ma poi è tornato a casa e io e mia sorella non siamo riuscite a farlo curare».
Le chiedo se in Perù non sarebbe stato più semplice e la sorella mi dice che vivevano in una povertà spaventosa. «Tanti fratelli con tante mogli, figli e genitori troppo anziani. Come tutti abbiamo sognato una vita dignitosa e comunque riusciamo a mantenerci e a mandare anche qualche soldo a casa per i nostri genitori, abbiamo conosciuto un medico volontario che ogni tanto viene a trovarci e ha detto che aiuterà mio figlio, ma Dio ci aiuterà come sempre, conclude Rosaria».

D io, Dio, Dio ci salverà. Ci aiuterà. Come in tante altre situazioni, mi chiedo come riescono in queste situazioni a credere con tanta forza. Ma forse è proprio in queste situazioni drammatiche che devi avere fede. Se non hai un Dio in cui credere, in cui sperare, la vita non ha più senso.
Il loro amico più stretto è il terrore di essere sgomberati da un momento all’altro. Vivono con la valigia sempre pronta a scappare perché, mi ripetono, «sappiamo che prima o poi verranno a sgombrarci» dice Alexandrina.
Nella mente vedo la foto del loro terrore. Incursione della polizia e anziani, donne e bambini buttati sulla strada, rinunciando anche a quei materassi, tavolini che hanno comprato con tanta fatica.
Ci sono interessi enormi per quella casa al centro di Roma. A distanza di due anni mi chiedo spesso dove sono andati. Sara sarà cresciuta ma dove sarà? E Alexandrina? Ho provato a chiamarla, ma non risponde più a quel numero.

N ello stesso periodo visitiamo anche la realtà di un’altra casa occupata che non nominerò per ragioni di sicurezza, perché la situazione all’interno è molto pericolosa, dovuta anche al fatto che non c’è una organizzazione ma c’è di tutto.
È una scuola abbandonata a Ostia. Una realtà molto più seria e complicata della casa a San Giovanni. Non è semplice entrare, ma il nostro contatto è un attivista di diritto alla casa, che spesso viene qui per dare una mano a chi vuol essere aiutato. È lui che ci accompagnerà e ci spiegherà.
Parliamo all’entrata mentre a flotte la gente entra e esce, non prima di averci scrutato e interrogato il nostro amico con lo sguardo, su chi siamo e perché siamo lì. Sembra una casa della periferia degradata di Bucarest. Fredda. Vetri rotti. Muri di cartongesso sfondati. Dalle tracce sono i topi i veri padroni di casa.
Un bimbo di circa sei anni scorrazza con una mini moto da competizioni, senza casco e palesemente troppo piccolo per una moto. Gli immigrati si sono divisi in piani. Al primo piano ci sono marocchini, tunisini, egiziani che lavorano qua e là come muratori; al secondo piano sudamericani e italiani disperati, quasi tutti impiegati come colf nelle case e nel mercato della droga; gli ultimi due piani del tutto incontrollabili e abitati da africani. Nigeriani, senegalesi e africani soprattutto dell’Africa occidentale, che hanno ricreato la loro gerarchia tribale.
Sguardi spauriti e spaventati di altissimi ragazzi africani ci osservano e escono per andare a vendere occhiali e asciugamani. Alcuni mi sorridono, mi danno la mano e si presentano. Altri mi chiedono di fargli una foto per mandarla alle famiglie e alle mamme, preoccupate del destino dei figli spariti da mesi in quell’Europa di bianchi.
Ragazzini rumeni sniffano colla in un sottoscala. Avranno meno di 18 anni, ma occhi da uomini che hanno assaggiato la durezza della vita da immigrato povero. «Hashish, marijuana, erba, coca…» ripetono come un disco incantato da tempo.

D ue bambini si avvicinano curiosi della macchina fotografica, vogliono vederla, toccarla. Esce una donna, la madre, vestita al quanto succintamente: non mi servono spiegazioni per capire il suo lavoro. Mi chiede se i bimbi mi stanno dando fastidio.
Prendo la palla al balzo per dirle che sono carinissimi, dolcissimi e che amo i bimbi africani. «Menomale che c’è ancora qualcuno che ci vuol bene – dice, voltando lo sguardo a quel bianco vicino la porta -. È il padre di Jafety, il più grande dei miei figli e nettamente più chiaro della mamma e del fratellino, viene qui ma non ne vuole sapere. È un operaio di Ostia, razzista, con moglie e figli a casa ma qui viene a comandare e a divertirsi sbandierandomi i suoi soldi» mi dice stizzita Rosa.
Lo guardo fulminandolo per lo sdegno da donna, italiana e bianca, mentre lui, indifferente e con ancora indosso la tuta da lavoro, fa cenno a Rosa che la sta aspettando già da troppo tempo. Mi fa capire che non vuole finire nelle mie foto, chiudendosi la porta dietro non prima di aver fatto entrare Rosa.
Guardo Alessandra impotente: che si fa? Chiamiamo la polizia? Non possiamo, ne andrebbero di mezzo tutti e poi vuoi che non si sappia già cosa succede qui dentro. Continuiamo a giocare con i bambini mentre la mamma si sta prostituendo dentro quella stanza. A pochi metri dai figli che potrebbero spingere la maniglia della porta, entrare e vedere tutto. Vedere cosa mi dico, che non avranno già visto!
Dopo un po’ si riapre la porta, l’italiano esce e se ne va senza nemmeno salutare suo figlio e noi ci avviciniamo. Rosa sta sistemando quell’umida e scrostata camera. Non so che dirle. Che discorso iniziare. Ci invita subito a entrare e ad accomodarci sull’unica cosa che ha: un grande letto matrimoniale con ancora lenzuola disfatte. Cosa dirle? «Non preoccuparti, ne uscirai! Ci sono tante associazioni, ti aiuteremo».

I l brutto e il bello del mio lavoro è proprio questo. Quando ti occupi di reportage sociale, quando racconti la disperazione, le difficoltà di queste persone… è vero che dai loro voce, ma non puoi dirgli esplicitamente ti aiuterò perché non puoi farlo. Non puoi aiutare tutti. Perché anche se conosci tante persone non puoi sempre chiedere e chiedere di darti una mano a sistemare questo e quello. Puoi consigliare delle associazioni di aiuto e sostegno.
Rosa chiarisce subito che se siamo lì per farle una predica o per giudicarla è perché non conosciamo come va il mondo. Le dico che posso provare a capirla. Non voglio giudicarla. Voglio invece ascoltarla.
«Sono venuta qui come tante, con la speranza di un futuro e di un lavoro. Mio fratello in Nigeria mi aveva venduta a un trafficante di droga e donne, molto pericoloso e io non lo sapevo. Sapevo che in Nigeria succedevano queste cose, ma se non ti fidi nemmeno di tuo fratello! Noi in Africa non siamo come voi, crediamo nella famiglia, viviamo tutti insieme senza distinzioni e se un parente ha bisogno siamo pronti a fare sacrifici tutti. Ho capito chi era quel mio tranquillo fratello quando era ormai troppo tardi. E la storia continua come voi giornaliste già sapete. Botte, botte, botte e poi la strada. Aborti continui e strada. Strada, droga e aborti clandestini. Lavoravo dalle 12 alle 15 ore sulla strada senza potermi permettere nulla. Anche i vestiti erano i loro».
Cerco di capirla e iniziare con dei se e dei ma… Rosa tronca il discorso. «Non accetto critiche da te. Che ne sai tu della disperazione, di tuo figlio che ti dice mamma ho freddo, mi fa male la pancia. Ho fame. Allora anche se quel bimbo ha la faccia di quello che ti ha usato è anche parte di me. Jafety ha i miei occhi. Nelson la mia faccia. Allora non pensi al tuo corpo o a te stessa. Pensi che è l’unica cosa che hai che può dare da mangiare a tuo figlio. Sono riuscita a staccarmi da quello che mi ha messa sulla strada. Gli ho pagato il famoso debito con milioni e ora lavoro per conto mio, qui. Ho provato e continuo a cercare un lavoro onesto. Ma sembra non esserci. Sono andata da tante associazioni che stai nominando. Ma la verità è che io sono una prostituta e rimarrò sempre una prostituta. Per giunta nera. Una prostituta nera. Vorrei solo un lavoro di cui i miei figli non dovranno mai vergognarsi, vivere in una casa povera, ma dignitosa e magari un buon compagno. Ma ho perso le speranze. L’amore non esiste. Per quelle come me l’amore non esiste. E gli uomini, mie care, fidatevi: sono tutti uguali.
Qui fa schifo, lo so. Le finestre sono rotte. I bagni sono di tutti e ci trovi anche gente che si spara in vena eroina. E il terrore continuo che possano fare qualcosa ai miei figli. Ma è meglio che stare sotto i ponti. La luce va e viene, quindi d’inverno i termosifoni vanno per un po’. Ogni tanto vengono a chiuderli, perché non paghiamo… Menomale c’è un’associazione di attivisti che ci aiuta. Abbiamo una stanza tutta per noi. Sono cose per voi assurde, ma per me è già un passo avanti» chiude il discorso Rosa.
C ontinuiamo a scattare tra i sorrisi dei bambini che vogliono entrare dentro l’obiettivo. Rosa ci guarda divertita ma non dice più nulla. Ci ha già vomitato la rabbia e il dolore. Non è stata un’intervista la mia, ma solo un suo sfogo. E lo prendo così. Il senso di impotenza torna come il senso di colpa che si fa spazio nel cuore e nella mente ogni volta dopo aver visto e ascoltato queste storie. E ti dici: è il tuo lavoro. Sei la loro voce e così li puoi aiutare.
Dopo qualche settimana leggo nella cronaca locale del Lazio che a Ostia, nella malfamata casa occupata da clandestini «è stata ammazzata una giovane nigeriana. Si faceva chiamare Rosa. Lascia due bambini di cinque e due anni affidati all’assistente sociale».
Riguardo le foto e rivedo quella sagoma nello sfondo del primo piano di Jafety. Ogni foto è un ricordo. Rivivo quel suo sfogo. Ricordo i sorrisi dei bambini così come lo sguardo di quel cliente. Il padre di Jafety che ha abbandonato suo figlio pur di non rovinare quel finto matrimonio che andava avanti da troppi anni. 

Romina Remigio

Romina Remigio