Incontri on the road

In Australia, sulle tracce di antichi crateri

Un viaggio nel nord-ovest dell’Australia diventa l’occasione di incontri ricchi
di fascino e umanità, in un ambiente naturale ricco di contrasti e biodiversità.

Perth: una terra diversa da tutte le altre, l’Australia. Troppo piatta, calda e arida per avere ghiacciai, troppo antica per avere attività vulcanica, qui il terreno è stato dilavato per milioni di anni e la vita di piante e animali ha dovuto adattarsi a condizioni estreme. Unico tra i continenti ad essere rimasto isolato, qui si sono sviluppate forme di vita molto diverse, che rappresentano un forte interesse per visitatori e studiosi.
 Ritoo a Perth dopo 10 anni al seguito di una spedizione che ricerca i crateri da impatto di asteroidi, ben visibili in un territorio vasto e disabitato. Mi fermerò a casa di Wendy, deliziosa amica inglese da molti anni in Australia, dopo una vita di lavoro in Arabia Saudita e in Sud Africa. La sua casa domina le dune di Scarborough, sobborgo sull’oceano indiano, dove i tramonti sono spettacolari, anche nelle fresche sere di fine luglio.
Oggi Wendy ha seguito la lezione settimanale d’italiano con un’amica, Antorninette, che si ferma con noi a cena. «Mia madre era irlandese, devota di San Antonio», così spiega il perché del suo nome. Molto conosciuta nello stato del West Australia, prima donna ad essere nominata giudice, Antorninette dichiara serenamente la sua profonda fede cattolica. Nello svolgere il suo delicato compito, segue una linea di grande comprensione e mitezza. «Ho visto casi di violenza terribile, ma la condanna deve mirare alla riabilitazione, non all’annientamento della persona».
Kununurra
Cominciamo il viaggio da Kununurra, sede degli uffici del Wolfe Creek  Crater National Park. Nella parrocchia partecipo alla messa in onore della prima santa australiana. Nata a Melboue nel 1842, Mary Mackillan si consacrò alla vita religiosa a 24 anni, dedicandosi alla promozione delle donne e all’educazione dei bambini nelle zone remote. La chiesa è affollata, ma prima delle letture i bambini vengono invitati dal padre a recarsi nella sala accanto per seguire la messa con l’aiuto di una catechista. Alcuni sono aborigeni, di sangue misto, molto belli. Li ho visti giocare, i bimbi dalla pelle scura, scalzi e felici, nei parchi punteggiati da baobab di questa cittadina del Kimberley, che ho raggiunto con un lungo volo da Perth.
«Fino al ’76 i bambini erano tolti alle famiglie e messi in collegio per essere educati». La suora che mi parla indossa una camicetta rossa. «Oggi si cerca di riparare, ma oramai è troppo tardi». Intanto dall’altra parte della strada si svolge la cerimonia delle chiese protestanti unite. I numerosi fedeli sono seduti o accoccolati a terra e la voce del pastore è amplificata da un megafono. Gli anziani aborigeni vagano intanto lungo i viali; alcuni siedono tristi con una bottiglia o una latta di birra in mano. Le donne sono scalze, i denti guasti e lo sguardo perduto. I loro lineamenti sono duri, la pelle molto scura. Pare ci siano problemi tra aborigeni puri e i meticci, frutto di incroci avvenuti tra i primi coloni e donne native, che sono poco accettati sia dai bianchi che dal loro popolo. Questi territori sono riserve aborigene, ma le miniere sono sfruttate da grossi gruppi minerari. Si estraggono minerali come ferro, stagno, zinco, rame e, nella montagna presso il lago Argyle, i rarissimi diamanti rosa.
 Windham
Windham è un porto sul profondo fiordo che collega il mar di Timor con i territori del West Australia. Qui le maree superano i 9 metri e lasciano lagune bianche di sale. I coccodrilli di mare sono giganteschi e il porto che un tempo era usato per il bestiame pare abbandonato.
«Siete italiani? Di Torino?». Un anziano signore mi apostrofa in perfetto italiano, mentre compro cartoline al post office di Windham. «Mi chiamo Giorgio Pucci, la mia famiglia era originaria di Lucca. Abitavamo a Trieste, dove mio padre era maresciallo di polizia. Conosco Torino, ricordo la caserma dove ero militare, nel ’41. Dopo la guerra gli inglesi mi hanno portato a Perth, inteato in un campo, e spedito a tagliare i boschi. Avevo una fidanzata in città, per due volte sono scappato per andare da lei, ma mi riprendevano sempre». Sorride divertito anche quando racconta di aver saputo poi che la ragazza era rimasta incinta di uno scozzese. «Mi avevano trasferito quassù, al nord, a 2.000 km da Perth; la ragazza non mi ha aspettato. Lavorai fino al 1985 nella più grande macelleria del paese, 12 ore al giorno, dalle 6 del mattino fino a sera».
Giorgio ha avuto una brava moglie, una cinese che aveva bottega a Windham e che gli ha dato tre bravi ragazzi. «Ora è anziana e malata, ospite in una clinica, mentre i miei figli abitano nella regione, mi vengono a trovare e mi aiutano. Ho una pensione di circa 700 euro e ricevo anche 100 euro di pensione dall’Italia». Giorgio è una bella persona, ha occhi azzurri stupiti e mi commuovo sentendolo parlare così bene l’italiano. Ne ho incontrati altri di italiani così, che hanno lasciato il nostro paese per Argentina e Australia. Hanno portato lontano la loro serietà di lavoratori e mi domando che cosa hanno in comune quegli italiani vacanzieri che incontrerò poi in aereo, al ritorno a Milano.
Crateri
Gli amici della spedizione mi hanno raggiunta, dopo 6.000 km di deserto percorsi in una 4×4 giapponese. Abiti e auto ricoperti di polvere rossa, sono pronti a ripartire alla scoperta di altri crateri. Uno dei più famosi è quello di Wolfe Creek, il cui fondo ricoperto di fiori selvatici azzurri, ha un diametro di 800 m. Lo raggiungiamo percorrendo un tratto della Tanami road, una sterrata che attraversa il deserto più difficile del continente. Piantiamo le tende e ci fermiamo per la notte, per dar modo a Mario, astrofisico dell’osservatorio di Pino torinese, di effettuare le sue ricerche. Altri quattro caravan sostano nelle vicinanze, sono tutti australiani che arrivano dal sud, dopo aver percorso le piste seguite dalle mandrie. La notte è fredda, illuminata dalla luna piena e le stelle sono meno visibili del solito.
Fitzroy Crossing
Fitzroy è un fiume che in questo punto scorre tra alte pareti calcaree, formate da corallo e conchiglie, quel che resta di una grande barriera corallina del periodo devoniano, 350 milioni di anni fa. Ci troviamo lontani dal mare, ma nel fiume vi sono razze, squali toro, coccodrilli di mare e altri pesci, che risalgono la corrente per centinaia di km. Sulle rive ci sono diversi tipi di alberi di eucalipto e di malaleuca, che ha la scorza sottile come carta e produce un olio balsamico e disinfettante. Ci troviamo in zona aborigena e l’unico locale è un confortevole bar, annesso al campeggio dove abbiamo piantato le tende. Le pareti sono tappezzate di cartelli: «Se sei ubriaco, non puoi entrare». «Proibito entrare a chi non ha scarpe e non è propriamente vestito». «Se ti ubriachi verrai cacciato». E così via. Qui però gli aborigeni vengono e si comportano bene. Stella è una giovane che mi rivolge la parola e con grande orgoglio mi dice: «Questo è il mio paese». Sorride e le si illuminano gli occhi.
Ma i giovani che vedo al lavoro sono tutti stranieri, con un visto per restare un anno nel paese. Vengono dalla Nuova Zelanda, dall’Europa e dall’Asia, come Irene, cinese di Taiwan. Il nome lo ha adottato perché il suo è troppo difficile da ricordare.
 Broome
La fama di Broome è legata alle perle, che qui hanno dimensioni gigantesche. I primi pescatori venivano dal Giappone, poi si crearono gli allevamenti e ora l’economia della città si basa su questa attività, oltre al turismo e all’arte aborigena, un tipo di arte del tutto diversa, che ha le radici nelle antiche credenze e nei miti della cultura aborigena. Gli artisti aborigeni che sono riusciti a farsi conoscere nel mercato dell’arte si sono riscattati da una vita di abiezione e di perdita di identità.
80 miles beach
Prima di raggiungere il più grande porto commerciale australiano, ci fermiamo per la notte in un grande campeggio sulla «spiaggia delle 80 miglia» che viene usata anche come via di comunicazione dai fuoristrada. La marea si ritira per centinaia di metri, creando all’alba e al tramonto riflessi interessanti sulla sabbia bagnata, ricoperta di conchiglie. Mentre negli stati del sud nevica, piove e fa freddo, qui gli ospiti si godono sole e mare, si pesca e si cucina intorno alle griglie comunitarie.
Io preparo la solita minestra con il liofilizzato, mentre Peter sta arrostendo patate e zucca per i due bimbi e la giovane moglie. «Sono impresario edile a Brisbane», mi spiega, «ho chiuso per 6 mesi e voglio fare una lunga vacanza, ora che i figli non vanno ancora a scuola». I tratti del viso sono mediterranei, infatti il nonno è arrivato da Salina tanti anni fa. «I miei genitori sono stati in Italia, mi hanno detto che Salina è molto bella. Un giorno spero di andarci anche io». Dalle isole Eolie sono partiti in molti per l’Australia, prima e subito dopo la guerra.
Auskie
La road house è l’unica possibilità per noi di fare il pieno di carburante e sostare per la notte. Una fila di prefabbricati circonda lo spiazzo per le tende e i caravan, la caffetteria gestita da una donna in gamba, che tiene tutto sotto controllo, è il punto di riferimento di una vasta zona mineraria.
Paul ha la tuta gialla impolverata di rosso. Si rivolge a me con un largo sorriso, mentre aspetta il panino che ha ordinato. La polvere rossa gli si è raggrumata sul viso, sotto gli occhi azzurri che mi sorridono. Mi vuole parlare del suo lavoro e della famiglia che ha lasciato a Perth. Scopro che fa l’operaio di un’impresa che sta effettuando trivellamenti a 60 km da qui alla ricerca di ferro e altri minerali di cui è ricchissima questa terra. Il lavoro è duro, dodici ore al giorno, senza sosta per il pranzo. Da un taschino tira fuori alcune foto sgualcite: lui giovane, magrissimo, con moglie e due bambine bionde. Poi le foto tessera delle tre figlie: «Questa», mi indica una biondina diciottenne, «è il genio di famiglia. Vuole studiare da avvocato, per diventare giudice e risolvere i crimini».
«Absolutely, certamente» dice, quando gli chiedo se è contento, «qui mi pagano bene. Prima mi accontentavo di lavori occasionali, ora mi danno 5.000 $ ogni due settimane, e posso ritornare a casa una settimana su quattro».  Paul in 12 anni di lavoro è riuscito a comprarsi la casa a Perth, mantenere bene la famiglia e aiutare il figlio avuto da una precedente relazione, che lo ha reso nonno da un anno.
Durante la stagione delle piogge il lavoro si ferma, le strade sono sovente impraticabili e le case sono ancorate alla roccia con strutture di ferro, per evitare che siano spazzate via dai tifoni.
Un topo speciale
L’attenzione lodevole che gli australiani hanno per l’ambiente, è molto recente. Il paese è stato pesantemente sfruttato sin dal sec. 18°, quando si sono insediati i colonizzatori inglesi. L’inserimento di animali e piante estranee ha danneggiato un ecosistema fragile, diverso da tutti gli altri. Qui nel Pilbara, regione remota e sconosciuta agli stessi australiani, ma ricca di risorse minerarie, vive un topo considerato prezioso per l’ambiente. Prende il nome dalla tana che si costruisce, il Pebble mound. Ora è protetto e prima di aprire una miniera o costruire una casa, bisogna accertare se non vi siano le sue tane, sul terreno. Sono vere e proprie abitazioni, che il topolino costruisce portando le pietre una ad una in bocca, dotandole di stanze, cunicoli, zone riservate al nido, uscite di sicurezza.
La sterminata steppa è ricoperta da cespugli spinosi che è meglio evitare, per via di spine dalla punta calcarea che infetta le ferite. Tutto è diverso dalla natura che conosciamo, anche i fiori selvatici, vistosi e stranissimi, che stanno incominciando a fiorire in questo inizio di primavera. I colori sono smaglianti, devono lottare per essere impollinati e alcuni, per riuscire a svilupparsi in terreno sterile, hanno bocche che intrappolano e digeriscono gli insetti.
Newman
 Quando hanno aperto quella che è la più grande miniera di ferro a cielo aperto al mondo, hanno fatto sgombrare le capanne del vecchio villaggio. Per costruire la città e sistemare i lavoratori immigrati, hanno spostato nel bush gli aborigeni, costruendo per loro case popolari e lasciandoli sradicati, senza i punti di riferimento della loro cultura.
Questa terra aspra è stata abitata dall’uomo da più di 30.000 anni. I primi abitanti hanno elaborato raffinati sistemi per sopravvivere in condizioni durissime e tuttora i loro discendenti sono le migliori guide per percorrere le piste nei deserti australiani.
«Abbiamo fatto molti errori, con la popolazione aborigena», mi dice Jane, che sta aspettando il figlio all’uscita della scuola elementare di Newman. «Tuttora i loro bambini raramente frequentano la scuola. Se arrivano la mattina, fanno la doccia, prendono la colazione, e si da loro un paio di scarpe, che vengono ritirate nel pomeriggio, prima di rimandarli a casa con il bus».
Anche a Newman c’è la chiesa cattolica, circondata da un giardino di palme e fiori. La mattina alle 9 c’è la messa, celebrata da padre Roger, un simpatico nigeriano che cura anche la parrocchia di Tom Price, altra città mineraria della regione. Sono solo due le fedeli presenti, oltre a suor Beth, due infermiere indiane, che hanno trovato lavoro in ospedale, ma sognano di ritornare a casa.
BHP
è la sigla di un colosso delle miniere, con pozzi di petrolio e gas offshore non solo in Australia, ma anche in Canada e nei Caraibi. Nel 1969 ha aperto questa miniera, dove si estrae l’ematite Brokman, con alto grado di purezza di ferro. Da allora la richiesta di mano d’opera è in continuo aumento e la città in espansione. Visitiamo la miniera, dove un’intera montagna è stata scavata e spianata. Ora è come una torre di babele con giganteschi gradoni dove passano i camion carichi di 60 tonnellate di materiale, che viene poi macinato e purificato negli impianti, prima di essere caricato sui treni diretti a Port Hedland. Treni in media lunghi 2,5 km, con centinaia di vagoni carichi fino a 30.000 tonnellate di minerale. I numeri che ci sono foiti dalla guida che ci accompagna sono impressionanti. Il primo carico che lasciò Port Hedland nel ’79 era diretto in Giappone, ora sono Cina e India i maggiori acquirenti.
Nanuturra
«Non si è mai troppo vecchi per far campeggio», mi dice il ragazzo keniano addetto al distributore, che mi consegna la chiave della cabin della road house di Nanuturra. Le scorse notti ho sofferto il freddo, in tenda. Nel parco Karjini abbiamo percorso a piedi le profonde gorge, spaccature nella laterite rossa, con cascate e pozze d’acqua fresca. Abbiamo viaggiato per più di 600 km in mezzo al nulla, senza incontrare un’auto, una casa. Solo alcune indicazioni per raggiungere le stations, isolate fattorie di allevatori. Unica possibilità di fare il pieno e sostare è questa road house, forse la più isolata di tutto il paese, gestita da Valeria, efficiente e seria come tutte queste dame australiane dell’outback. «Conosco un po’ di italiano perché ho ospitato una ragazza di Varese quando mia figlia era al liceo, a Perth». Anche Valeria ha fatto una scelta, vivere in questa solitudine, dove però si incontra gente diversa, tutti i giorni. Per la cena mi consiglia il piatto preparato dal giovane keniano, pollo con verdure, ottimo dopo lo scatolame con cui siamo sopravvissuti nei giorni scorsi.
Entra una bella, giovane donna, con una bambina di 9-10 anni. Hanno ambedue le trecce bionde e i jeans rossi di polvere, si fanno dare un panino ed escono prima che io possa capire chi sono. Il loro road train ha dei problemi e dovranno passare qui la notte. La mamma lavora in una station col marito e si occupa anche del trasporto del bestiame, guidando il gigantesco camion. La bimba la segue ovunque e per la scuola si collegano via radio tutte le sere, per seguire le lezioni.
All’alba sono svegliata dalla partenza dei giganti delle strade australiane, con i paracanguri e le prese d’aria lucidi di cromature, che portano tre o quattro vagoni e possono essere lunghi più di 40 metri.
Overlander Road house
Siamo diretti a Shark Bay e dobbiamo fermarci prima dell’imbrunire, quando i canguri che escono dal bush e attraversano la strada. Il Nanga Caravan Park è un luogo bellissimo, ma la struttura è fatiscente. «La padrona è una ricca cinese di Singapore che lascia le sue proprietà nell’abbandono e si fa vedere due volte l’anno per ritirare i soldi», mi spiega Daniel, che fa parte del personale, scarso e mal pagato. La cucina del campeggio è in disordine, sporca. Chiedo a Daniel se vuol cenare con noi stasera, cucinerò il pesce che ha pescato e lui mi promette di riordinare. Sarà una bella serata, con ottima pasta australiana di grano duro condita con sugo di pesce. Il vino lo abbiamo finalmente trovato allo spaccio, dopo giorni di ricerca.
Conchiglie
Shark Bay vuol dire natura ricchissima. Qui la schell beach è una spiaggia immensa fatta interamente di conchiglie compatte, con uno spessore di 10 metri. Nella zona ci sono le cave dove vengono estratti mattoni fatti di conchiglie, tutte uguali, piccole e bianche. Nell’800 si costruirono così edifici, molto belli, e anche una chiesa, a Denham.
Il mare chiuso nel profondo golfo di Shark bay ha una densità e salinità molto alta, ed è famoso per le stomatoliti. Chiamati anche fossili viventi, rappresentano la forma di vita più antica esistente sulla terra e furono scoperti solo nel 1956. Relativamente recenti, hanno solo 3.000 anni. Le stomatoliti che vediamo nella Hamelin pool, dove l’alta salinità impedisce a competitori e predatori di sopravvivere, si presentano come rocce scure, appena coperte dall’acqua del mare. Sono ancora visibili i segni delle ruote dei carri che trasportavano carichi di lana al porto. Oggi sono stati eliminati gli animali introdotti dai coloni, che hanno danneggiato l’ambiente. Con il progetto Eden si cerca di reintrodurre quelli estinti e tutta la zona è protetta dall’UNESCO.
Kalbarri
Kalbarri è una cittadina sul mare che dà il nome al parco nazionale famoso per i fiori, molto strani, su piante ancora più strane: infiorescenze grandi a pennacchio, a forma di pigna, di spazzola, ma anche fiori piccoli, bianchi e gialli, semprevivi. La percorre il fiume Murchison, che ha scavato nella roccia un canyon a forma di grande anello, prima di raggiungere il mare. Siamo nella fascia temperata, che consente la coltivazione di grano, banane e uva.
Alfredo è un bell’uomo, alto e snello, che con Joyce ha fatto 600 km per passare un weekend a Kalbarri. «Viviamo a Perth, città costruita dagli italiani», mi dice, mentre aspettiamo la cena seduti insieme allo stesso grande tavolo di un rustico ristorante. Alfredo arrivò da Lucca nel ’51 per lavorare come muratore, spinto dalla necessità. Allora in lucchesia si era poveri, si mangiavano castagne e si facevano le figurine del presepe, che venivano vendute in giro per l’Italia, nelle ceste di vimini.  Sulla spiaggia di Perth Alfredo conosce Joyce, ragazza dal nome esotico, ma di padre valtellinese. «Mio padre era arrivato prima della guerra, per fare il boscaiolo», mi confida Joyce. «Morì giovane, nel ’49, per una ferita riportata sul lavoro. Mia madre rimase senza aiuto e per mantenere i 4 figli fu costretta a lavorare come lavandaia e domestica». Ora Alfredo e Joyce si godono la pensione nella casa di Perth, con orto e giardino, dove bisogna stare attenti ai serpenti velenosi e al ragno rosso. Le tre figlie sono sposate, un genero è filippino, e hanno 6 nipoti. Italiani di Australia, con storie di fatiche, lavoro e soddisfazioni.

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Saharawi: il popolo dimenticato

Viaggio in una nazione che «non c’è»

Una delegazione italiana della Rete Comuni Solidali (Re.Co.Sol.) visita i campi profughi per osservare, ascoltare, capire e … non permetterci di dimenticare.

Sono le tre di notte quando la jeep si ferma nel deserto algerino. Non vedo nulla, i fari illuminano a stento alcune corde che fungono da tiranti di una tenda. Scendiamo confusi, storditi dal viaggio e ci guardiamo attorno senza orientarci. Alì ci informa che siamo arrivati a Aaiuni, a sud di Tindouf, precisamente nella sua «casa», in cui saremo ospitati. Scarichiamo le nostre valigie nella polvere che si alza intorno, mentre qualcuno grida: «Avete visto il cielo?» e tutti col naso in su, senza parole. Il cielo stellato più bello del mondo! Tratteniamo il respiro, mai visto una tale bellezza …
Entrare in un altro
mondo
Senza rendercene pienamente conto, ci troviamo in un altro mondo, in un campo profughi del popolo saharawi, in Algeria, al confine con la Mauritania e il Sahara Occidentale, lo Stato che non c’è, pur se tratteggiato su tutti gli atlanti. Mi chiedevo da ragazzina, quando dovevo studiare l’Africa, cosa volessero dire quelle righe diagonali che coloravano la cartina geografica e ricordo che un’insegnante mi aveva parlato di contese nel definire a quale Stato spettasse di diritto la terra a sud del Marocco. Ora, insieme ad altri 15 compagni di ventura della delegazione italiana di Re.Co.Sol., mi trovo a due passi da quella mappa, una delle terre più amate, sognate, desiderate, impossibili… un mondo sconosciuto ai più, dove siamo venuti per osservare e ascoltare.
Alì, la nostra guida, ci invita ad entrare nella tenda dove sua moglie ha preparato il tè per noi. Così ha inizio la nostra full immersion nel luogo più povero che abbia mai visto, dove i saharawi sono riusciti a ricostruire una società organizzata, collaborativa ed efficiente. Lo stupore di questa dissonanza si coglie sui nostri visi che si affacciano all’interno della tenda, meravigliosa, tutta un tappeto, divani comodi sui tre lati e un tavolino lungo e basso su cui è appoggiato il necessario per il nostro pasto; qui dentro, dove pare che la sabbia del deserto sia lontana, Adì, bellissima ragazza, mamma di un piccolo di sei mesi, avvolta nel suo musata in fantasia rossa, dà inizio al rito che ci accompagnerà per una settimana: su un braciere portatile ha preparato la bevanda che versa nei bicchierini appoggiati sul tipico vassoio arabo. Il primo tè che ci offre è «amaro» come la vita e lascia in bocca un retrogusto da cui prende il nome. Il tempo di assaporarlo e ne arriva un altro, questa volta «dolce» come l’amore, e poi un terzo, l’ultimo, «soave» come la morte.
Con uno spagnolo stentato abbozziamo le prime parole di presentazione e di ringraziamento, ma è più semplice spiegarci a gesti perché la donna e gli autisti che ci hanno accompagnato fin qui conoscono solo l’arabo. A scuola, a partire dalla terza elementare in poi, si impara lo spagnolo, ma molti adulti non lo conoscono.
La nostra prima notte «profuga» trascorre nella semplicità di questa accoglienza, poi i padroni di casa se ne vanno e lasciano la tenda interamente a noi. Qualcuno apre il sacco a pelo e cede al sonno, qualcun altro esce a guardare incantato la volta celeste, avvolto dal buio totale e dal silenzio del Sahara.
Vivere nel deserto
La tenda di Alì sorge al limite del villaggio. Lo scopriamo al mattino, quando usciamo per andare «in bagno». Il deserto è disseminato di casupole e tende che paiono cadute a caso sulla sabbia di questo luogo piatto, ampissimo, giallo come è tutto qui, a perdita d’occhio.
Il villaggio di Aaiuni è composto da sette centri, ciascuno con circa 7.000 persone che vivono in minuscole casette di mattoni di sabbia cotti al sole. Ogni famiglia possiede una costruzione per l’inverno, quando le temperature scendono verso lo zero, una tenda che va meglio d’estate quando si raggiungono i 50/60 gradi, e poi un cubicolo con una turca e un secchio pieno d’acqua che funge da sciacquone.
Sulla soglia di ogni abitazione, un pannello solare, una batteria d’auto, una parabolica. Ecco il necessario per accendere un neon nelle tende alla sera e per riuscire ad avere notizie dal mondo con una radio. Qui non si possono caricare cellulari né batterie delle macchine fotografiche, non si usano rasoi elettrici, nessun elettrodomestico. E qui non c’è nessun lavandino né doccia. L’acqua è portata dalle cistee che arrivano da Tindouf e scaricano nelle taniche di lamiera che il tempo ha arrugginito. Una gomma porta l’acqua in prossimità delle abitazioni, ma tutto viene centellinato.  A 20 minuti dal villaggio esiste un pozzo che pesca a 150 metri di profondità acqua salata. È lo scherzo che il deserto fa a questo popolo che abitava sul mare. Grazie ad un desalinatore donato dalla provincia di Roma si può utilizzare quest’acqua per tentare di coltivare piante medicinali di cui i vecchi sanno ancora servirsi per guarire molte malattie.
Tra le abitazioni si apre un varco che va verso il nulla: è la strada da cui arrivano e partono le jeep in direzione degli altri centri. In realtà la strada non esiste: è solo una traccia che il vento di sabbia copre presto. Eppure gli autisti riescono a condurci dove dobbiamo andare: le scuole, il centro per i disabili, l’ospedale, la casa del vice-governatore. Sono giorni intensi, il tempo è breve e non va sprecato. Noi dobbiamo visitare e conoscere per poter presentare la situazione in Italia al nostro rientro.
Sognano il mare
Ci accorgiamo presto che molte cose sono simboliche per i saharawi, in primis i colori della bandiera: il verde indica la loro terra che si affaccia al mare più pescoso dell’atlantico: El-Aiun, Dakhla, El-Argob erano i nomi delle città costiere in cui essi risiedevano; il nero è l’oppressione subita per l’invasione avvenuta 35 anni fa, il rosso è il sangue versato da molti di loro, il bianco è la pace che desiderano e in cui sperano. Se il loro sogno si avvererà, se riusciranno un giorno a tornare nelle città di un tempo, il verde che ora sta in basso, prenderà posto in alto nella bandiera.
Ma qual è la storia di questo popolo?
Durante la Conferenza di Berlino del 1885 il Sahara Occidentale viene assegnato alla Spagna. Nel 1957 vengono scoperti enormi giacimenti di fosfati nella zona settentrionale della colonia che acquista molto interesse economico da parte di varie potenze. Nel 1965 l’ONU sollecita la Spagna a lasciare il dominio coloniale e ad organizzare un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, ma la situazione resta immutata per un altro decennio. Nel 1970 il popolo saharawi organizza una grande manifestazione contro il colonialismo che viene repressa nel sangue. Tre anni dopo nasce il Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi. Tra il 1974 e il 1975 finalmente la Spagna decide per il referendum, ma subito il Marocco e la Mauritania annunciano un’opposizione con qualunque mezzo. Così, vista la forte pressione dei due Stati vicini, la Spagna rinuncia all’idea.
Nell’autunno del ’75 il Marocco annuncia una marcia di 350.000 uomini volontari verso nuove terre da coltivare: la marcia verde, che dovrebbe essere pacifica, in realtà si rivela una vera e propria invasione delle regioni in cui vivono i saharawi. La Spagna cede l’amministrazione del nord del paese al Marocco e il sud alla Mauritania in cambio di favori economici. Così, mentre l’esercito e i civili spagnoli si ritirano dal Sahara Occidentale, il fronte marocchino e quello mauritano entrano nella regione per prendee possesso.
Per i saharawi si aprono due possibilità: restare sotto questi nuovi dominatori che non garantiscono nessun diritto, li allontanano dalle proprie abitazioni costringendoli ai lavori più umili, li considerano cittadini di serie B, oppure scegliere l’esodo verso l’unico sbocco possibile: l’Algeria. Colonne di fuggiaschi partono dalle terre invase verso quello Stato. Alcuni si fermano ancora nel Sahara Occidentale, dentro i propri confini, e organizzano i primi campi profughi, ma nel 1976 il Marocco li bombarda con napalm e fosforo.
Il Fronte Polisario e il Consiglio Nazionale del Saharawi velocemente concludono i trasferimenti dei saharawi a sud di Tindouf, in Algeria, nel deserto di pietra, luogo ostile e difficile dove vengono costruiti gli accampamenti per 300.000 profughi. Viene proclamata la R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica) che ottiene il riconoscimento da parte di più di 70 Paesi. Nel Sahara Occidentale il Fronte Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel 1979 la Mauritania ritira le proprie truppe, ma il territorio viene subito occupato dal Marocco con l’appoggio di Spagna, Francia e Stati Uniti.
Nel 1980 il Fronte libera diverse zone dall’occupazione del Marocco che risponde edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500 chilometri in cui racchiude i territori occupati. A ovest del muro, nella zona costiera del Sahara occidentale inizia una massiccia colonizzazione: molte famiglie marocchine sono invitate a trasferirsi in queste zone in cambio di agevolazioni sociali e fiscali; i saharawi iniziano a denunciare la pulizia etnica del loro popolo da parte degli invasori. Fuori dal muro la guerra continua. Nel 1991 l’Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e l’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Ancora una volta però il Marocco boicotta in ogni modo la preparazione del referendum, continuando le azioni militari e affermando l’obbligatorietà di includere tra i votanti i coloni marocchini. Così la consultazione viene rimandata e ancora oggi, a distanza di 19 anni, nulla è accaduto. L’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco continua a non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Organizzare da zero
Ci sono profughi e profughi: quelli che aspettano, quelli che sognano e a poco a poco si deprimono, quelli che si arrabbiano col mondo, quelli che perdono la propria identità e provano a ritrovarsi in un’altra, …
Poi ci sono i saharawi che, nonostante sia passato così tanto tempo – ben 35 anni di esilio nel deserto di Tindouf -, non smettono di impegnarsi e lottare per riavere ciò che spetta loro di diritto. Il Fronte Polisario ha accettato tutte le risoluzioni Onu, il cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri, ma la vita del suo popolo si svolge comunque ancora in estrema povertà, sollevata solo dagli aiuti dell’ACNHUR e di molte associazioni europee (anche italiane) che li sostengono. I saharawi si sono rimboccati le maniche, costruendo una comunità organizzata secondo principi collettivistici e solidaristici che sono un esempio per tutti noi: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, … tutti i ruoli sociali e politici sono volontari, non stipendiati.
Visitiamo le scuole, dall’infanzia alle superiori. è il giorno degli esami per gli allievi della primaria e per i più grandi: serietà assoluta, banchi separati, insegnanti in guardia. Poi suona l’intervallo, spuntano sorrisi e presentazioni nel cortile polveroso dove i più piccoli corrono e giocano, divorando pane e marmellata proprio come in tutti i paesi del mondo. Nonostante le condizioni precarie, nonostante il tetto dell’asilo sia mezzo sfondato e non ci siano libri per tutti e la polvere intasi ibanchi, gli abiti e i vecchi computer su cui le ragazze provano i primi rudimenti dell’informatica, non c’è un minore in tutto il campo profughi che non vada a scuola. Pensare che gli insegnanti non percepiscono alcuna retribuzione adeguata, se non un compenso simbolico di 50 euro al mese.
Anche l’ospedale è gestito volontariamente: «Sarebbero necessari incentivi economici per gli infermieri – dice il vice-governatore, quando gli chiediamo quali siano le necessità più impellenti – non è facile dedicare quotidianamente tempo ai malati, senza un ritorno economico sufficiente per vivere un po’ meglio» Non è l’unica richiesta che ci viene presentata: «Qui manca tutto, ma sicuramente l’acqua è alla base di qualunque sostentamento. Le cistee sono arrugginite, l’acqua si ossida e non è buona. Per voi ospiti abbiamo cucinato utilizzando acqua minerale imbottigliata, ma noi usiamo l’acqua delle cistee e molti hanno problemi intestinali». Lo conferma il pediatra che è con noi e nelle pause tra uno spostamento e l’altro nei villaggi, visita i bambini del campo: la maggioranza ha problemi dovuti all’acqua e alla sabbia del deserto che il vento porta ovunque, anche nei polmoni.
«Servirebbero serbatorni in materiale non ossidabile per ogni famiglia. Ci sono 4.600 famiglie nei campi. Ogni serbatornio costa 150 € circa» – aveva concluso il governatore. Ma servirebbe anche un ambulatorio permanente per il controllo sanitario dei bambini, provvisto di medicinali di base. E biancheria lavabile per l’ospedale e materiale scolastico e una nuova scuola matea più adeguata e sicura…
È incredibile come qui, dove servirebbe tutto, si riescano a definire le priorità: al primo posto acqua, sanità e scuola. È la lezione che ci lasciano i saharawi. Pochi giorni che ci insegnano molto: a guardare nel deserto riconoscendo la vita, il coraggio, la costanza e la speranza; a stabilire priorità dove manca tutto. Una bella dimostrazione per noi. Anche i nostri politici avrebbero molto da imparare.

Di Grazia Liprandi

Grazia Liprandi




Dietro i sorrisi, l’ombra del generale

Dopo le elezioni presidenziali (gennaio) e il sisma (febbraio)

Nella terra di Pablo Neruda, l’anno del Bicentenario (1810-2010) inizia con una serie di terremoti: la terra trema con rara violenza (febbraio), lasciando morte e distruzione, e il panorama politico è scosso dalla fine dell’era della Concertación, vent’anni ininterrotti di governo di centrosinistra che hanno cambiato il paese. Mentre la presidenta Michelle Bachelet esce di scena con un alto indice di gradimento, al governo del paese torna la destra, guidata da Sebastián Piñera, imprenditore e miliardario. Su di lui e sul suo governo  saranno puntati gli occhi di chi teme un ritorno del pinochetismo, in cui una fetta importante di cileni non ha mai smesso di credere.

C’è una strana atmosfera in questa calda estate cilena. Densa di sensazioni contraddittorie. In quest’ultimo angolo del continente americano dalla geografia così particolare, una striscia di 4.300 chilometri – per intenderci, quanto dal Circolo polare artico al deserto del Marocco – ritagliata tra le Ande e l’Oceano Pacifico e ricca di contrasti, sta accadendo qualcosa che non era non facile prevedere. Proprio nel momento in cui Michelle Bachelet, prima donna presidente in un paese fondamentalmente machista, socialista con un passato di tortura ed esilio (1), raggiunge un livello di approvazione dell’84%, la coalizione di destra guidata dall’imprenditore Sebastián Piñera, spesso definito «il Berlusconi cileno», ha appena vinto le elezioni presidenziali.
Per cercare di comprendere un tale terremoto politico, bisogna conoscere un poco la storia di questo paese che forse proprio la sua geografia rende così diverso dal resto del continente sudamericano.

Duecento anni, due dittature

Quest’anno la República de Chile festeggia il suo Bicentenario: il 18 settembre 1810, approfittando della prigionia del re deposto da Napoleone che aveva occupato la Spagna, la colonia spagnola iniziò infatti, con la formazione della prima giunta di governo, il processo che la porterà nel 1818 all’indipendenza. Duecento anni di vita repubblicana con una stabilità inconsueta per quell’area del mondo, interrotti però da due dittature.
La più sanguinaria, quella del generale Augusto Pinochet, pose termine nel 1973 all’esperienza del governo di Salvador Allende, il primo socialista al mondo eletto democraticamente, che aveva nazionalizzato le grandi miniere di rame e cercato di introdurre riforme democratiche in una società polarizzata tra povertà estrema ed estrema ricchezza.
Pinochet, con l’appoggio degli Stati Uniti preoccupati per il pericolo di una diffusione del socialismo che avrebbe minacciato i loro interessi economici nell’area, instaurò un regime di terrore durato ben 17 anni con migliaia di oppositori e comuni cittadini assassinati o scomparsi, e decine di migliaia incarcerati, torturati ed esiliati. Fino al referendum perso dal dittatore nel 1998, e al ritorno della democrazia nel 1990.
Da allora vent’anni ininterrotti di governo della «Concertación de Partidos por la Democracia» la coalizione delle forze di centro-sinistra, hanno cambiato molto questo paese. E questo malgrado i limiti fissati da una costituzione imposta dallo stesso Pinochet, che prevede un sistema elettorale binominale unico al mondo, studiato apposta per impedire cambiamenti sostanziali, equilibrando nel parlamento destra e sinistra.

La Concertación e i difetti del miracolo cileno

In questi vent’anni il tenore di vita medio dei cileni è cresciuto enormemente, la povertà si è drasticamente ridotta – dal 45% dei tempi della dittatura al 10% attuale, Santiago è la capitale commerciale del Sudamerica e le sue multinazionali investono in tutto il continente; le esportazioni di materie prime e prodotti agricoli di qualità, a partire dal vino, continuano a crescere.  Prima del terremoto di febbraio, i conti dello stato, favoriti dai prezzi del rame (di cui il Cile è il maggiore produttore) e da una gestione oculata, andavano a gonfie vele, nonostante la crisi internazionale, permettendo di costruire infrastrutture e organizzare una rete di servizi sociali che ammortizzano in parte gli effetti della crisi e della disoccupazione. Il paese, con una crescita media del 5% all’anno, è al primo posto in America Latina per Indice di sviluppo umano (Isu) ed in molti altri indicatori di sviluppo, ed è appena stato ammesso nell’Ocse, primo paese in quell’area del pianeta.
Certo non tutto è perfetto, in Cile. Dal nord del deserto di Atacama, dove le miniere di rame creano buona parte della ricchezza del paese, all’estremo sud della Patagonia, o nella Araucania che resistette per tre secoli – ultima area del continente – all’invasione dell’uomo bianco ed è ora minacciata da grandi interventi voluti dalle multinazionali per sfruttae le ricchezze naturali, molti cittadini si sentono lontani e trascurati dalla capitale e dalla «Zona Central» dove si concentrano le ricchezze e i grandi investimenti. Se a Santiago, metropoli di quasi sette milioni di abitanti, la rete dei trasporti pubblici, delle autostrade, dei servizi, continua a crescere avvicinandola sempre più ad una modea capitale europea, ed anche l’offerta culturale non è da meno, lo stesso non accade in egual misura nel resto del paese.
Uno dei punti deboli del Cile è il sistema educativo. Se il governo socialista di Allende aveva cercato di garantire un sistema scolastico pubblico universale e unitario, provocando le proteste delle classi più abbienti che preferivano mantenere una separazione tra l’educazione di eccellenza riservata alle élite e una di base per il popolo, il neoliberismo che ha ispirato la dittatura pinochetista ha portato allo smantellamento del sistema pubblico. È stata così garantita soltanto la gratuità di un’istruzione di base e affidato il resto al mercato e all’investimento privato, accollandone dunque i costi alle famiglie e contemporaneamente trasformando l’educazione in uno dei più grandi business del paese, con la nascita di innumerevoli scuole e università private. L’inadeguatezza del finanziamento del sistema scolastico pubblico, che anche il governo della Concertación non è riuscito a superare (le tensioni all’interno del mondo scolastico hanno portato negli ultimi anni a lunghi periodi di occupazione degli istituti, nella cosiddetta «marcia dei pinguini», con riferimento alle uniformi scolastiche) produce un esodo sempre più marcato verso quello privato.
Analogamente il sistema sanitario, basato su un doppio binario pubblico («Fonasa», Fondo Nacional de Salud) e privato (le cosiddette «Isapre», Instituciones de Salud Previsional), pur garantendo una copertura gratuita agli indigenti, favorisce ancora l’impresa privata lasciando al pubblico solo i contributi di chi non può permettersi l’iscrizione alle assicurazioni private.
La mancata risoluzione delle questioni relative all’educazione e alla salute durante i vent’anni di governo della Concertación è forse una delle ragioni del distacco dalla politica da parte di molti cileni, soprattutto giovani, i più colpiti anche dall’aumento della disoccupazione.

Il grigio Frei contro il magnate Piñera

Ma ci sono anche altre ragioni che hanno portato alla vittoria della destra. Tra queste certamente  l’eccessiva fiducia in se stessa da parte di una coalizione di governo logorata – soprattutto a livello locale – da tanti anni di potere ininterrotto e di rigida alternanza tra le sue componenti democristiana, socialista e radicale. E poi la scelta di un candidato poco carismatico come Eduardo Frei, democristiano dall’immagine grigia – ex presidente e figlio di un altro presidente – poco amato dalla sinistra soprattutto per la sua deregulation del mercato del lavoro e le sue privatizzazioni, la cui immagine è stata  ulteriormente compromessa nello scontro fratricida al primo tuo con l’altro candidato di centro-sinistra Marco Enriquez-Ominami, che si presentava come la novità contro il déjà vu.  
Un altro fattore decisivo è stata la capacità da parte della destra ex pinochetista di rifarsi un’immagine presentandosi fin dal nome («Coalición por el Cambio») come «il cambiamento», tappezzando il paese con uno slogan molto obamiano come «Sumate al cambio», ripetuto ossessivamente su ogni albero, su ogni palo della luce, in ogni giardino, e naturalmente in televisione, alla radio, sui giornali, accompagnato dal sorriso fisso e immutabile – molto berlusconiano – del suo candidato Sebastián Piñera, imprenditore di successo divenuto tale anche grazie alla sua vicinanza con il regime di Pinochet (di cui il fratello José era ministro). Sebastián Piñera, populista al punto da farsi fotografare in costume mapuche per conquistare il voto degli indigeni, e promettere che il suo primo atto di governo sarebbe stato un buono una tantum di 40.000 pesos (circa 55 euro)  per quattro milioni di famiglie. E, naturalmente, impegnandosi a creare quello che è ormai un classico delle promesse elettorali: «un milione di posti di lavoro».
 
Aerei, televisioni, calcio e… scandali

Il nuovo presidente eletto, spesso definito «il Berlusconi cileno», che ha fatto fortuna introducendo nel paese le carte di credito ed è ora proprietario di una importante quota della compagnia aerea di bandiera Lan, del network televisivo Chilevisión, di una catena di farmacie, della maggior squadra di calcio del paese e di innumerevoli altre imprese, attento alla sua immagine tanto da ricorrere alla chirurgia estetica, è stato coinvolto in passato in alcuni scandali, i più importanti dei quali furono forse quello del Banco de Talca di cui era amministratore al momento del fallimento (si salvò dal carcere per un intervento dell’allora ministro della giustizia del governo di Pinochet), ed il caso di insider trading di cui fu accusato quando – pare approfittando di informazioni riservate – acquistò una quota importante della compagnia aerea Lan il giorno prima che il prezzo salisse…

Nelle mani delle grandi imprese 

Piñera, appoggiato dai partiti di destra Renovación Nacional e Unión Demócrata Independiente – gli unici che avevano apertamente sostenuto il generale Pinochet in occasione del referendum del 1988 – ha voluto dare un segnale di discontinuità rispetto agli ultimi vent’anni nella scelta della compagine governativa: a parte il ministro della difesa, già presente in due governi di centro-sinistra,  si tratta di personalità provenienti quasi esclusivamente dal mondo dell’impresa privata, dalla «classe alta» del paese, con studi nelle più esclusive università straniere, in buona parte direttamente coinvolte per i loro interessi nei settori dei quali si dovranno occupare. Qualcosa di molto vicino ai «Chicago boys», i professori che si erano formati alla scuola neoliberista dell’Università di Chicago, ai quali si era affidato Pinochet. Persone lontane dalla «gente comune» ed anche da quei tanti cileni che, superata la povertà, hanno creduto di potersi lanciare alla conquista del benessere votando per un imprenditore che prometteva ancora meno stato e più mercato, ancora meno garanzie e più opportunità.
Tutto questo ha permesso alla destra di tornare al potere democraticamente, per la prima volta dopo cinquant’anni. Eppure la gente che festeggiava nelle strade, sventolando ritratti e busti del generale Pinochet, gridando slogan contro i comunisti, sbeffeggiando i desaparecidos e le vittime del regime militare e inneggiando al ritorno del buongoverno dopo vent’anni di corruzione, è la dimostrazione che buona parte della base elettorale di questa che vorrebbe presentarsi come una destra modea e liberale, persino progressista, è la stessa del regime militare, di cui vede in Piñera una continuità, e questo getta un’ombra sul futuro di un paese che, paradossalmente, proprio questa alternanza pare dimostrare essere ormai una democrazia pienamente compiuta. 

Di Carolina M. Lara Meneses e Luca Robino

(1)  Per un ritratto di Michelle Bachelet, si legga: Paolo Moiola-Angela Lano, Donne per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008.
(2)  Subito dopo la vittoria nelle presidenziali, le azioni della Lan sono schizzate verso l’alto. Il neopresidente Piñera possiede un pacchetto azionario pari al 26,33 per cento del capitale.

Carolina Meneses e Luca Robino




Risorgiamo dalla polvere

Fondazione Missioni Consolata Onlus

Inizia con questo numero una nuova rubrica: Cooperando…, spazio di riflessione, proposte  e progetti per pensare il mondo della cooperazione internazionale insieme a Missioni Consolata Onlus.

Il microcosmo delle baraccopoli

Peter posa distrattamente una mano su un mucchio di T-shirt impilate con cura sul suo banco del mercato. Ha sentito il fischio del treno in lontananza e sa che fra pochi secondi un convoglio ferroviario lambirà la sua merce passando sulle rotaie che attraversano Kibera, il più grande degli oltre duecento slum di Nairobi. Viene da sorridere pensando agli annunci nelle stazioni europee, dove voci meccaniche raccomandano ai viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla di sicurezza ogni volta che un treno in transito scorre tra i binari. Peter compie quel gesto con estrema naturalezza, in modo quasi automatico: abita e lavora in una bidonville di trecentomila persone e ha imparato a convivere con la mobilità causata dai pochi lentissimi treni di passaggio, il fango della stagione delle piogge, i rivoli di liquami che scorrono negli scoli a cielo aperto, l’odore acre di pneumatici bruciati e il puzzo dei rifiuti urbani mai raccolti.
Secondo le stime di Un Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, un abitante del globo su sei vive in una baraccopoli, cioè in un agglomerato urbano spontaneo dove non sono garantite cinque condizioni essenziali: l’accesso all’acqua, i servizi igienici, lo spazio vitale sufficiente, la durata e qualità delle abitazioni e le garanzie giuridiche del possesso delle case. Sempre Un Habitat informa che attualmente metà della popolazione mondiale vive in città e questo, nel giro di un ventennio, aumenterà fino al sessanta per cento. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, questa crescita è decisamente sostenuta: ogni mese, cinque milioni di persone abbandonano le zone rurali e vanno a ingrossare le fila della popolazione urbana, inseguendo gli stessi sogni e speranze che portano migliaia di immigrati sulle coste italiane.
Al di là delle ovvie considerazioni sui drammi legati alla vita in uno slum, ciò che impressiona di questi quartieri è la presenza di dinamiche quotidiane del tutto simili a quelle vissute dalle persone appartenenti a contesti sociali più agiati. Ben oltre la soglia di degrado tollerabile per un cittadino occidentale si sviluppa infatti un «microcosmo», come lo ha definito padre Paolo, missionario comboniano attivo nello slum di Korogocho, «con le sue regole e la sua economia». In Kenya, un terzo degli abitanti degli slum è un finto povero che ha scelto di vivere in questi quartieri per evitare gli alti costi e doveri dei luoghi residenziali oppure per lucrare sulla disperazione altrui, affittando baracche di fango e lamiera a chi, invece, non ha scelta.
Non solo. La baraccopoli è ben lontana dall’essere un errore, un imprevisto storico e sociale; al contrario. «Gli slum sono vere e proprie riserve di manodopera giornaliera a buon mercato», commenta padre Franco, missionario della Consolata in Kenya. «E sono un ottimo centro smistamento di merci “sensibili”», gli fa eco dall’altra parte del mondo padre Jaime, missionario della Consolata a San Paolo del Brasile. «Dai quartieri ricchi, decine di automobili di lusso arrivano ogni sera a Héliopolis e nelle altre favelas pauliste per comprare marijuana, cocaina, sesso e qualunque cosa».
L’esistenza di realtà urbane degradate è certamente foriera di tensioni e violenza, dentro e fuori i confini tracciati dal marrone fulvo della ruggine delle lamiere. «Che ti aspetti?», chiede ironico Marco, consulente in psicologia sociale di Johannesburg. «Nelle metropoli del Sudafrica vedi ville immense con piscine da mille e una notte e, letteralmente girato l’angolo, trovi la township dove il piatto forte è la testa di capra arrosto. Ovvio che ogni tanto qualcuno compra un fucile e cerca di rubarti la macchina».
Viene spontaneo chiedersi perché questa marea umana non faccia valere la sua superiorità numerica e non si ribelli mettendo a ferro e fuoco le città e prendendo d’assalto le sedi del potere. «Non otterrebbero niente», spiega padre Franco, «se non una dura repressione da parte delle autorità. Si sentirebbero rispondere: “Ma chi vi ha chiesto di abbandonare le campagne e ammassarvi come bestie in città?”. No, non è questo che vogliono». Ciò che vogliono gli abitanti degli slum è piuttosto il riconoscimento graduale dei propri diritti, la riqualificazione delle aree dove vivono, il risanamento delle infrastrutture. Della quotidianità di una baraccopoli fanno parte anche i numerosi comitati di quartiere e associazioni che, anche con la collaborazione di istituzioni inteazionali, Ong e missionari, lottano ogni giorno per avere case di mattoni, scuole adeguate, allacciamenti idrici ed elettrici, strutture sanitarie.

Missioni Consolata Onlus
nelle periferie urbane
L’impegno nelle periferie urbane è uno degli ambiti prioritari del lavoro di evangelizzazione che i missionari della Consolata portano avanti attraverso la loro presenza decennale, in alcuni paesi anche centenaria, in Africa e America Latina. Sono stati perciò testimoni diretti dell’esodo dalle aree rurali o dalle zone di guerra da cui hanno avuto origine gli insediamenti urbani spontanei e la loro degenerazione in baraccopoli e, nel corso del tempo, hanno cercato di rispondere alle nuove emergenze.
Missioni Consolata Onlus (Mco) nasce proprio per valorizzare questa esperienza e accompagnare il lavoro di promozione umana attraverso lo strumento del progetto. Nella maggioranza dei casi, i progetti di Mco nelle periferie urbane, ideati e gestiti in stretta collaborazione con le comunità locali, intervengono sugli ambiti sanitario e scolastico e mirano a fornire a tutti l’accesso alle cure mediche, ai servizi igienici, a un’istruzione di qualità, senza dimenticare la formazione dei leader e il microcredito.
Tra le esperienze più significative promosse attraverso la campagna quaresimale «Risorgiamo dalla polvere» occorre ricordare il Kenya. Nella periferia di Nairobi, i missionari della Consolata operano negli slums di Kahawa West, Deep Sea, Suswa e Masaai con progetti relativi a istruzione, sanità e sanificazione. A Kahawa West è in corso la costruzione di un asilo mentre continua la collaborazione con Un Habitat e altre agenzie per la costruzione e manutenzione dei servizi igienici. A Deep Sea, Suswa e Masaai sono operativi un centro di artigianato e sartoria con annessa produzione, un dispensario e una scuola matea ed elementare, quest’ultima gestita in collaborazione con l’associazione italiana Afrikasì.
Altra realtà importante è quella della periferia di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima, dove i missionari della Consolata hanno avviato progetti sanitari e di microcredito per la popolazione indigena emigrata in città e i lavoratori urbani.
Nella periferia di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, si sta procedendo all’ampliamento di due strutture scolastiche ed è in programma l’apertura di un centro nutrizionale per far fronte agli alti tassi di malnutrizione rilevati tra i bambini del quartiere di Saint Hilaire.
In Mozambico, nei sobborghi della capitale Maputo, si fornisce appoggio didattico agli studenti universitari attraverso il programma di borse di studio, affiancato dai servizi offerti dal centro culturale e dalla biblioteca.
Infine, i missionari della Consolata sono presenti anche nelle periferie urbane di Caracolí (Colombia), Guayaquil (Ecuador) e Caracas (Venezuela), dove svolgono attività formative e gestiscono centri d’aggregazione.
Il dettaglio dei progetti di Missioni Consolata Onlus è disponibile su sito web all’indirizzo www.missioniconsolataonlus.it, dove è possibile consultare il dossier «Periferie urbane» e visitare la pagina della campagna «Risorgiamo dalla polvere».

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli




Madre Teresita non va in pensione

Legion d’Onore a una missionaria Figlia della carità

La Francia ha onorato con una delle più prestigiose onorificenze nazionali una missionaria francese ultra ottantenne, Madre Teresita, ancora attivissima sulle Ande ecuadoriane nella promozione integrale dei giovani indios quechua.

Ho letto una notizia che ha fatto davvero bene al mio cuore missionario. Soeur Marie Louise Duvignau, più nota in Ecuador come Madre Teresita, il primo gennaio 2010 è stata nominata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, per la prestigiosa onorificenza della «Legion d’Onore». Madre Teresita appartiene alla Congregazione delle Figlie della Carità e lavora attivamente nella parrocchia di Flores, diocesi di Riobamba, Ecuador. Le ho scritto per farle sapere che in molti condividiamo la soddisfazione di vedere che il suo lavoro a favore degli ultimi e una vita spesa per gli altri sono pubblicamente riconosciuti. Mi ha risposto facendo notare che si è sentita a disagio per l’onorificenza: «Abbiamo sempre preferito la parte nascosta e umile perché la nostra luce deve far vedere e rintracciare chi è invisibile e abbandonato».
Alla fine di dicembre Madre Teresita ha compiuto 85 anni, sono un percorso ben definito riguardo all’età, ma incalcolabile in rapporto al suo impegno missionario. È stata anche in Egitto prima di arrivare in Ecuador sempre fedele all’ispirazione e carisma di San Vincenzo de Paoli, che i poveri li trattava da «signori», non perché fossero bravi, belli e buoni, ma perché in questo modo si faceva un investimento sicuro nell’amore di Dio. Oggi, in un angolo sperduto delle Ande, grazie a questa meravigliosa missionaria francese, esiste davvero un luogo dove gli indigeni sono tenuti in considerazione e amati come persone care, ma soprattutto sono aiutati ad essere capaci di dare e ricevere con disponibilità e sensibilità fuori del comune. Quando Madre Teresita faceva notare (e lo faceva spesso) che il progetto «Missione Flores» era frutto della Grazia Divina, si riferiva ai volontari, tutti giovani indigeni, che ancora adesso l’accompagnano e dirigono assieme il centro di formazione, e sono partecipi e seriamente responsabili della gestione pastorale nel territorio della Missione.
Questi collaboratori volontari mi hanno scritto delle testimonianze stupende: «è impressionante l’amore di Teresita per noi indigeni poiché nonostante l’età già avanzata, continua la sua presenza sollecita e generosa. È un regalo grandissimo. I giovani che frequentano il centro sono particolarmente ansiosi di imparare. Il centro è un luogo che li accoglie con molto amore, dove tutti sono benvenuti. Quest’anno (2009-2010) vogliamo impegnarci di più nella informatica, accettando la richiesta degli alunni. Allo stesso tempo avremo spagnolo, matematica, contabilità, inglese, tessitura di fasce, taglio e cucito, arti e mestieri, cucina, produzione agricola e piccoli allevamenti, musica, Bibbia e altre materie. Tutto serve per la vita».
Quando i missionari della Consolata arrivarono nel 1987, madre Teresita era già presente da alcuni anni e con una consorella aveva in affitto due stanze perché non c’erano ancora strutture. La diocesi di Riobamba era ben organizzata, le idee e gli obiettivi chiari. La base teorica, «el marco teorico», prevedeva di partire dalla comprensione della realtà per arrivare alla meta, il Regno di Dio; da qui erano stabiliti gli obiettivi generali e quelli specifici. La fede era accettare Gesù Cristo come premessa e fondazione per impegnarsi a lavorare a costruire la chiesa dai poveri e con i poveri, formando comunità con la coscienza di essere popolo di Dio e segno espressivo del regno. Assieme bisognava fare tutto il possibile per costruire una società nuova che fosse anticipazione del regno nella terra, mettendo al primo posto l’impegno di edificare la chiesa indigena. Gli obiettivi specifici diventavano la formazione, la moltiplicazione e consolidazione delle comunità cristiane di base e altri tipi di comunità cristiana. Tutto cominciava formando i responsabili della marcia di queste comunità: catechisti, missionari, futuri sacerdoti. La diocesi sembrava un laboratorio effervescente. Ma già nel 1987 mons. Leonidas Proaño (1910-1988), anima della diocesi, aveva già dato le dimissioni (1985), subito accettate.
Non ci volle molto a capire che chi aveva voce in capitolo non erano gli indios, ma gli agenti pastorali, francesi, colombiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, preti, laici e suore. Gli indios erano i protetti, i beniamini, e anche loro dovevano esserci sempre, ma lasciar fare agli altri. Ogni tanto potevano anche dire la loro che, guarda caso, appoggiava gli agenti pastorali con attacchi e lamenti contro la chiesa gerarchica, il Fmi e il debito estero. Gli indios erano tutti battezzati e nelle comunità della campagna oltre la cappella c’era anche la casa comunale, la comunità cristiana e l’immancabile comitato locale. Avevano messo in piedi una certa convivenza o almeno una coabitazione con i vari interlocutori. Ma loro seguivano quello che avevano sempre fatto, il loro stile di vita collaudato nei secoli. Secondo la storia, tutti gli indios dell’Ecuador erano puruhà, minuscole tribù confederate e cornordinate in linee generali dai re di Quito. Poi arrivarono gli incas dal Perù a dominarli e all’arrivo degli spagnoli erano già stati assimilati nella cultura incaica. Gli spagnoli fecero il resto: unificarono la lingua e l’amministrazione e promossero a tutta forza la cristianizzazione.
Quando con Madre Teresita ci siamo messi a studiare il progetto missionario degli indigeni di Flores, ci siamo chiesti «cos’era rimasto dei puruhà? E degli incas? E degli spagnoli?». Lungo i secoli erano arrivati poi i libanesi, i cinesi, gli italiani, gli inglesi, i tedeschi. Ma nella diocesi di Riobamba gli indigeni reclamavano si ascoltasse il loro grido che rivendicava luoghi e spazi nella chiesa. Come dire che «se non ci danno spazio nella chiesa cattolica», saremo costretti a fae una noi totalmente indigena, nel pensiero e nella teologia, con riti propri e segni propri. Un bel sogno, ma impossibile da realizzare. Così con Madre Teresita ci siamo messi a lavorare partendo davvero dalla realtà che si trovava senza nostalgie indebite. La chiesa di Riobamba anche se composta per l’ 80% di indios e quasi indios, non aveva che una manata di essi nei suoi quadri direttivi. Allora si può inculturare la chiesa senza presenza indigena?
A Flores abbiamo iniziato modestamente, ma con decisione, a indigenizzare la parrocchia. Il primo impegno è stato pratico: cosa possiamo fare con una chiesa piena di cultura indigena e vuota di ministri, dirigenti e responsabili indigeni? Cooptammo allora indios nei quadri parrocchiali, certi che, una volta inseriti, avrebbero poi manifestato le loro idee e le esigenze più vere. Una delle prime esigenze fu quella di offrire una educazione complementare ai ragazzi e alle ragazze quechua che finivano la scuola primaria e rimanevano senza prospettive per il futuro.
Flores è un piccolo centro di 200 abitanti, ma la parrocchia ne conta 6.000 di cui il 60% sono protestanti evangelici. Subito ci siamo organizzati per migliorare la chiesetta e fare un centro di promozione educativa e formativa. Nel 1989 funzionava già e Madre Teresita diventò l’anima di tutte le attività volte a far sì che gli indigeni fossero avviati a diventare responsabili della propria vita e della organizzazione delle attività comunitarie.
Per il centro sono passati già diverse centinaia di giovani indigeni e tutti hanno ricevuto quello che noi chiamavamo «capacitasion» (rendere una persona capace di), ognuno secondo le proprie qualità. Ciascuno acquisiva delle capacità professionali e umane diverse, secondo i bisogni della famiglia e comunità. Madre Teresita animava una splendida collaborazione tra tutti senza divagare sulla gerarchia dei ruoli. Aveva capito il tessuto della impostazione culturale: ognuno al suo posto con responsabilità e funzione rispettata. Madre Teresita, come religiosa della Carità, si è sempre caratterizzata per la capacità di praticare una solidarietà con i poveri e gli ultimi non fine a se stessa, ma sempre orientata alla costruzione di una società nuova che completasse quella di partenza con più vita, più verità, più amore e più giustizia. Il tutto condito dalla virtù che lei ha praticato di più, la «tendresse» (tenerezza).
Grazie a Madre Teresita la «Missione» non è un altro episodio nella lunga lista di opere che hanno un principio, molti sacrifici e poi una rapida scomparsa. Non ho mai smesso di ringraziare perché Madre Teresita era riuscita a rendere il centro una casa sempre abitata. Ha lavorato molto per elevare, emancipare, far valere l’indio, come qualità imprescindibile dell’essere e dell’agire. E la cultura è stata animata perché davvero coltivasse la persona indigena e la magnificasse nel sapere e nel volere, nel conoscere e nel fare.
Teresita grazie, sempre. L’onorificenza la meriti tutta, anche perché già da tanti anni sei diventata un riferimento stabile, bello e felice per l’indio piccolo, per la comunità umile, per il giovane indio fermo in un presente senza memoria che valga la pena ricordare e privo di un futuro che meriti impegno, fatica e sacrificio. Hai dato loro incentivo per raggiungere una dignità che valga la spesa di essere salvata e degna di essere continuata, anche se sappiamo tutti che il processo è lento e lungo, se si vuole includere tutti quanti e non solamente alcuni più furbi e capaci. Que Dios te pague, cuyashca Hermanita. 

Di Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




MEDIAMENTE

Fuori dal coro

Il meccanico delle rose
Hamid Ziarati, Einaudi editore,  2009 – Euro 18,50

Non so se avete mai provato il piacere di innamorarvi a tal punto di un libro da aspettare la sera o il momento opportuno per tornare a leggerlo. «Il meccanico delle rose» di Hamid Ziarati ha toccato così profondamente  la mia emotività e il  mio piacere verso la lettura da farmi scendere alla fermata sbagliata dall’autobus. Vi assicuro che non è poco, nell’epoca della corsa senza fine ai tanti impegni. Hamid Ziarati è nato a Teheran e all’età di  15 anni si  è trasferito a Torino dove ha fatto il liceo e studiato ingegneria. Al centro del suo libro c’è l’amore – in tutte le sue sfaccettature – che muove i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, in una girandola di storie e sacrifici. Amore,  morte e libertà in cinque storie sullo sfondo di un paese volutamente mai nominato ma decifrabilissimo. Lo stile narrativo  è veramente originale: far conoscere e svelare più spaccati della personalità del protagonista attraverso lo sguardo delle persone che sono state importanti per lui.  Con un tono caldo e suadente, l’autore narra ogni esistenza e lo fa con destrezza, utilizzando anche un linguaggio diverso a seconda dell’epoca in cui si compie la singola vicenda. Una poetica ricca di metafore e di riflessioni,  che ci riporta all’idea del nostro essere protagonisti solo per noi stessi, ma comparse sulla scena della vita altrui.

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Hamid, il tuo libro rappresenta un’innovazione stilistica nel raccontare il protagonista.
Come è nata quest’idea?
«Volevo raccontare la storia di un uomo qualunque, partendo dagli anni Venti ai giorni nostri. Per farlo, riconsegnando al lettore anche il periodo della sua prima infanzia, dovevo far parlare chi lo aveva accompagnato in questo viaggio. Dal padre, al cugino, alla moglie, alla figlia e all’amata. Così si è formata una galleria di personaggi che mi hanno aiutato a dargli una personalità, differente a seconda dei rapporti con ognuno di loro: padre meraviglioso, amante, vigliacco, marito protettivo, cugino astuto, innamorato delle rose. In sostanza, un uomo di passaggio come tutti gli altri e come tutti noi».

Questo libro è dedicato a tua figlia e le  figure femminili di cui narri sono tante. Raccontaci…
«Il libro è dedicato alla mia bambina Emma perché vorrei che imparasse ad apprezzare il valore della vita in una società libera. Le donne del mio libro sono forti, risolute e pronte a sacrificarsi per amore. La figura centrale dell’ultimo episodio, Laleh, è una «pazza d’amore» ed è proprio dal suo letto che ci vengono riconsegnate in un lucido mosaico, tutte le storie del libro. In questo delirio osserviamo Laleh chiedere insistentemente dell’acqua. Ebbene, è proprio quell’acqua che non le viene concessa, la metafora del desiderio di libertà delle donne iraniane. Del loro essere e rimanere assetate!».

Perché la scelta di non nominare mai il tuo paese?  
«Non nominare il mio paese è stata una scelta di solidarietà e di  rispetto verso gli autori locali, vittime di un regime retrogrado e sanguinario, impossibilitati dalla censura a far sentire la loro voce.
Volevo che attraverso le pagine si respirasse un po’ delle trasformazioni sociali, economiche e politiche avvenute in Iran. E desideravo che il pubblico non avesse la solita  visione distorta  dell’Iran – paese musulmano uguale nazione araba – ma che ci leggesse tutta la storia, le tradizioni e il patrimonio dell’antica Persia».

I primi sullo scaffale

Censura
Shahariar Mandanipour, Rizzoli editore, 2009 – Euro 19,50
La storia d’amore tra due giovani negli anni della rivoluzione khomeinista, l’influenza della censura nella scrittura e nella vita stessa degli iraniani, sono i protagonisti di questo insolito romanzo nel romanzo. L’autore, infatti, nelle pagine di «Censura» ci racconta di come nasca in lui l’idea di voler scrivere un romanzo d’amore, di come desideri dar vita ad una storia luminosa in un’epoca oscura, in cui il sentimento stesso non può essere comunicato esplicitamente. Il racconto delle tecniche e degli espedienti dell’autore per mantenersi fedele alla storia si intercala con la narrazione della storia d’amore stessa: quella di  Sara e Dara  che cercano disperatamente di vivere  la loro passione  tra le difficoltà imposte dalle dure leggi della società iraniana. I tagli applicati dall’inflessibile censore Sig. Petrovic si materializzano con tratti di penna che cancellano, pur mantenendole visibili al lettore, le frasi «incriminate» costituite da allusioni reali o immaginate o da semplici parole «proibite».

Le cose che non ho detto
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2009 – Euro 19,50
Ultimo romanzo di Azar Nafisi, «Le cose che non ho mai detto» ha una struttura autobiografica. Lo stile autentico e immediato dell’autrice e la sua tecnica del racconto conduce il lettore in un mondo dove, alle storie legate all’universo famigliare, si contrappongono quelle di una società in trasformazione. L’universo dei personaggi che ritrae è toccante: dal  magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e della madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano.  Due storie in una: quella del paese e di un regime repressivo vista con gli occhi delle dinamiche familiari che, spesso, nei silenzi e nelle doppie verità presentano una chiara analogia.

Leggere Lolita a Teheran
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2007 – Euro 10,00
Il primo libro di Azar Nafisi è un inno alla letteratura e alla libertà. La cultura apre una finestra sul mondo così come il soggiorno dell’autrice diventa luogo fisico e mentale di un anelito alla vita vissuta autenticamente. Azar Nafisi, dopo aver dato le dimissioni dall’ateneo,  decide di organizzare un seminario «segreto» sulla letteratura inglese con le sue sette migliori studentesse. La poetica del  celebre autore inglese Nobokov con il suo impareggiabile «Lolita» instaura con l’autrice e le sue allieve un legame unico. I suoi romanzi, colmi di sfiducia e costruiti attorno a invisibili trappole, diventano  simboli di uno stato d’animo e di una quotidianità priva di ogni libertà. Il salotto diventa momento di scambio e di apertura, dove, senza l’atteggiamento composto e il chador imposto, tutte le allieve si aprono alla confidenza del loro difficile vivere sotto il regime islamico. La narrativa diventa così un veicolo forte e profondo per scoprire e riappropriarsi del loro io più nascosto.

Vediamoli insieme

Premessa:
In Iran, a causa della continua censura, non sono usciti film negli ultimi tempi.  La scelta del movie che proponiamo è però ricco di metafore con l’essere umano e con qualsiasi paese sotto regime dittatoriale.

Cecità – disponibile in formato DVD presso videoteche e negozi dedicati
un Film di Feando Meirelles (2008)
«Cecità» è un film ispirato all’omonimo romanzo di  José Saramago: un’allegorica riflessione sulla cecità dell’uomo verso gli altri esseri umani, sulla mancanza di solidarietà e sull’uso corrotto del potere. La pellicola racconta la storia di una città colpita da una folgorante epidemia di cecità che porterà i suoi abitanti a vedere tutto bianco. L’impossibilità di orientarsi determinerà uno sbando collettivo e lo scatenarsi dei più biechi istinti di sopravvivenza. Solo una donna non sarà colpita dal morbo e sarà la testimone oculare della fragilità umana. L’attrice Julienne Moore (nella foto) è la protagonista nel film.

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Induismo intollerante?

Violenze contro i cristiani e musulmani

Tolleranza o intolleranza religiosa in India? Le violenze dei fondamentalisti indù contro le comunità cristiane dell’Orissa e contro i musulmani dell’India pone alcune domande sulla tradizionale tolleranza religiosa dell’induismo.

L’induismo: tollerante o intollerante? L’Occidente si è sempre trovato in difficoltà nell’interpretare la religione e la cultura dell’India. Per secoli è stato posto l’accento sulla sua spiritualità e la sua cultura millenaria, il cui momento d’inizio della sua storia risale a circa 3000 anni prima di Cristo. Oggi, invece, si preferisce mettere in luce il tasso di crescita del suo prodotto interno lordo e l’eccezionale sviluppo delle sue capacità informatiche, che hanno fatto di Electronic City, vicino a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Entrambe le letture sono parziali e distorte. Nell’abbracciare le varie anime del mondo indiano, vi è il rischio di lasciarsi condizionare da preconcetti e d’incastellare la complessa realtà indiana in una griglia prefabbricata.
Anche nel dibattito, molto vivo oggi, sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.
Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della frateità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Movimenti nazionalisti

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.
Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty Inteational, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Pluralismo religioso
e tolleranza

Dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».
In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.
Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi. Si aggiunga ora il desiderio di trovare una chiara e ben definita identità indù di fronte alle pressioni esercitate sull’induismo da altre tradizioni religiose venute dall’esterno, come il cristianesimo o l’islamismo.

Contro i cristiani dell’Orissa

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.
Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.
La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».
Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili.
Nei mesi successivi all’agosto del 2008 le violenze contro i cristiani si sono ulteriormente complicate. Agli indù si sono unite alcune comunità battiste e diversi gruppi evangelici. «Nella mia diocesi – riferisce il vescovo Jose Mukala di Koshima, nel nord-est dell’India – c’è un grande numero di persone che desiderano diventare cattoliche, ma esiste una fortissima opposizione da parte di alcune confessioni protestanti locali». A Koshima, nel cui distretto i primi cattolici sono stati battezzati solamente nel 1951 all’arrivo dei missionari, ora, in poco più di cinquant’anni, essi hanno raggiunto la cifra di 58.000 fedeli su una popolazione di un milione e 900 mila abitanti, per la maggior parte evangelica.

Violenze anche
nelle nazioni vicine

Gli attentati contro i cristiani in India hanno risvegliato gli estremisti indù che nel Nepal chiedono la fine della libertà religiosa. Il 25 maggio 2009 una bomba è esplosa nella cattedrale cattolica di Dhobighat, alla periferia di Kathmandu, la capitale. Sulla scena del crimine sono stati trovati degli opuscoli di un gruppo militante indùista, denominato National Defense Army (Esercito di difesa nazionale), che ha rivendicato anche l’assassinio del sacerdote salesiano John Prakash, avvenuto nel luglio 2009 nella zona orientale del Nepal. Questo cosiddetto esercito per la difesa nazionale lotta per la restaurazione della monarchia indùista, abolita nel 2008. La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione. Nella cattedrale vi erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti; le persone, molte delle quali ferite, sono state sbalzate lontane dai loro posti, i vetri della cattedrale e gli arredi distrutti. Nel Nepal oltre l’80 per cento degli abitanti è indùista; i cattolici sono solo 7.000, ma ogni anno si registrano circa 300 nuovi battezzati.
La violenza contro i cristiani dell’India ha così superato le frontiere, coinvolgendo, oltre al Nepal, anche il vicino Pakistan. Dei circa 170 milioni di pakistani, nella stragrande maggioranza musulmani, i cristiani vengono subito dopo gli indùisti con circa 2 milioni e 800 mila fedeli. La loro persecuzione è un fatto antico, soprattutto nel Punjab centrale, dove i cristiani vengono sovente accusati di blasfemia. Durante le violenze provocate nel luglio del 2009 dai musulmani nel quartiere cristiano della cittadina di Gojra, nel Punjab, sono stati arsi vivi due bambini, tre donne e due uomini, tutti cristiani. La tensione ha continuato a salire dopo che si era sparsa la voce di una presunta profanazione del Corano per mano di cristiani. In questa tragedia sono state date alle fiamme anche numerose case di cristiani e soprattutto le scuole. Negli ultimi due anni circa 170 scuole hanno subito danni e più di 400 strutture educative sono state costrette a chiudere i battenti o a sospendere la propria attività. Le violenze contro i cristiani in Pakistan non sono però terminate. Il 28 agosto 2009 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco altri cinque cristiani nel centro della città di Quetta, nel Belucistan. Il nuovo episodio arrivava poco dopo il massacro nel Punjab, in cui erano morti undici cristiani e più di cento case erano state saccheggiate o bruciate. I cristiani in Pakistan vivono in uno stato di continua tensione per l’uso improprio delle cosiddette leggi sulla blasfemia e sulle presunte offese contro il Corano e Maometto.
Infine, nello Sri Lanka, l’isola a sud dell’India un tempo denominata Ceylon, i ribelli Tamil di religione indù, i cui combattenti si definiscono Tigri e lottano contro le forze governative, hanno provocato almeno 70 mila morti. Centinaia di migliaia sono stati gli sfollati tra la popolazione civile e circa 250 mila sono rimasti intrappolati nella zona degli scontri. Una tragedia che si consuma ormai da molti anni. Il conflitto tra le forze governative e le Tigri Tamil, che lottano per la liberazione della loro patria nelle zone a nord dell’isola, è infatti iniziato nel 1983 e pare sia terminato il 18 maggio 2009 con la resa incondizionata dei ribelli. Tuttavia l’arcivescovo di Colombo, la capitale del Paese, al termine del conflitto ha dichiarato: «Potremmo dire che abbiamo vinto la battaglia, ma la guerra non è finita».

Quale la causa
delle violenze?

Ecco descritta per sommi capi una delle tante tragedie umane sconosciute o dimenticate. Nel corso delle violenze in Orissa, che ha riguardato almeno 392 villaggi dell’India, circa 500 persone hanno perso la vita, 54 mila sono stati coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case date alle fiamme e 180 chiese son andate distrutte. Ma che cos’è che ha fatto scatenare la furia dei fondamentalisti indù: la conversione al cristianesimo dei tribali dell’India? La paura di perdere la propria identità religiosa nel contesto di un’India democratica e liberale? L’irrompere della globalizzazione che intacca e mette in crisi gli schemi tradizionali? L’influenza dell’Occidente, per molti aspetti laico e indifferente, con il suo potere economico e culturale che convince e trasforma ogni cosa?
Secondo alcuni vescovi indiani la causa dell’attuale persecuzione contro i cristiani non è religiosa, ma nazionalista e politica; in particolare del partito nazionalista Bharatiya Janata, legato al movimento Rashtriya Swayan Sevak Sangh, che ha ispirato diversi gruppi di fanatici. Uno dei fondatori di questo movimento si chiamava Golwalkar. Egli rifiutava l’idea di un’India laica. A essa contrapponeva l’idea dell’Indù Rashtra, di un’organizzazione indù nella quale non ci fosse posto per altre religioni.
I vescovi dell’India non condividono le accuse di proselitismo forzato, dietro cioè ricompense o con l’inganno, perché – dicono – la comunità cristiana «continua a offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discriminazione». «Le accuse infondate di conversioni fraudolenti – continuano i vescovi – sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle loro credenze religiose». Il portavoce della Conferenza episcopale dell’India ha affermato che, dopo gli attacchi e i saccheggi nell’Orissa durati mesi, i cristiani sono ora costretti a convertirsi all’induismo, e a saccheggiare e distruggere le loro chiese. Inoltre, se la maggioranza delle religioni presenti in India convive in modo pacifico, alcuni governi della Federazione hanno messo in atto e ampliato le leggi sull’anti-conversione e non intervengono in modo tempestivo ed efficace per contrastare la violenza contro le comunità cristiane locali.
Questi fatti indùcono a pensare che le violenze contro i cristiani, cattolici o protestanti, non siano semplicemente una strategia socio-politica, ma piuttosto l’espressione di un integralismo religioso che cerca d’imporre l’induismo in ogni parte dell’India, anche nelle regioni delle minoranze tribali del nord-est e, nella parte meridionale del Paese, tra i cristiani del Kerala, regione evangelizzata fin dal IV secolo. Gli attacchi a chiese e istituzioni cristiane si sono infatti estesi negli Stati di Chhattisgarh, Madya Pradesh, Kaataka e Kerala e rischiano di dilagare in altri Stati della Federazione, ormai entrati, come altre parti del mondo, nel vortice del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione della società.
Una tale violenza – affermano ancora i vescovi dell’India – sta umiliando l’antica civiltà indiana e valori come la non-violenza (Ahimsa), la tolleranza, il rispetto per le religioni, il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che l’India ha gelosamente conservato per secoli e che la Costituzione indiana ha posto a fondamento della nazione. In India tutti si dicono scioccati per gli avvenimenti accaduti nell’Orissa. Va inoltre riconosciuto che la deriva del fondamentalismo è solo una manifestazione aberrante di una piccolissima parte dell’India. Essa è però oggi un grave rischio anche per quelle religioni che tentano di preservare e difendere la propria identità con metodi violenti, inaccettabili alla coscienza umana e all’interno stesso dei contenuti della propria fede in Dio.
In India – osservano i vescovi – c’è comunque «bisogno di un dialogo profondo» che non va impoverito dal sincretismo, ma sviluppato nel rispetto reciproco. Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha ricordato che la Chiesa cattolica in India «non ha mai mancato» di promuovere il dialogo e continuerà a farlo rimanendo «dalla parte dei poveri, dei malati, senza guardare se sono indùisti, musulmani o cristiani». Accanto alla preghiera «è vitale e fondamentale» il dialogo. «Solo un vero dialogo interreligioso – ha continuato – permetterà di eliminare ogni possibile causa di tensione e di disaccordo tra gruppi religiosi ed etnici dell’India».
Tutto il mondo cristiano, a cominciare da papa Benedetto XVI, lo desidera e spera che siano rimossi al più presto equivoci e pregiudizi. L’India non si merita il radicalismo dell’Indùtva, il movimento estremista nell’India democratica. Non va infatti dimenticato che nella tradizione indùista la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti e che una guida esemplare della non-violenza è stato il Mahatma Gandhi, giunto al punto di sacrificare la propria vita per mano di un fanatico indù. Lo stesso Primo Ministro della Federazione indiana ha riconosciuto che l’ondata di violenza che ha colpito i cristiani in questi ultimi mesi è una vergogna nazionale, in contraddizione palese con i grandi valori di non-violenza, tolleranza e rispetto delle religioni che l’India ha coltivato per secoli. 

Di Gianpiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Pochi (cristiani) ma buoni

Somalia – Gibuti: monsignor Giorgio Bertin

Il Coo d’Africa. Si combattono i pirati in mare ma non si cercano le cause. La Somalia è ingovernabile e i gruppi di matrice islamica si sono «affiliati» ad Al Qaeda. I cristiani sono ormai pochissimi, e dispersi. Oggi il vescovo ha solo contatti individuali. E tra Gibuti ed Eritrea continua la tensione.  Senza la ribalta dei media.

Monsignor Giorgio Bertin è vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, o «di tutte le Somalie», come lui ama ricordare. È frate francescano dell’Ordine dei frati minori.
Vicentino, ha lavorato a lungo con monsignor Salvatore Colombo,  assassinato a Mogadiscio il 9 luglio del 1989.  Attualmente risiede a Gibuti, e tenta, tra mille difficoltà, di dare il suo appoggio ai pochi cristiani in Somalia. Ha studiato l’arabo e parla somalo, inglese e francese.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’area.

Mons. Bertin come descrive la situazione attuale in Somalia?
La situazione rimane estremamente difficile, non dico disperata, ma molto grave. Inoltre è chiaro che questo crea problemi ai paesi vicini, in particolare a Etiopia e Kenya, ma non sarebbe improbabile che li creasse in futuro a Gibuti, che per ora è risparmiato. Ad esempio la pirateria non si risolve solo sull’acqua, arrestando i pirati, ma è una conseguenza di un problema sulla terra, in Somalia.
C’è uno sforzo concreto per il mare, mentre l’azione di contrasto sulla terra in questo momento è verbale, di buone intenzioni, ma bisogna che queste e i timidi passi che si fanno, siano più rafforzati, presi con maggior decisione.

Lei pensa che questo governo somalo riuscirà a rimanere in piedi a lungo?
Gli shebab (gioventù, in somalo, è il nome con cui si fanno chiamare gli estremisti islamici somali, ndr) sono forti, perché mentre si svolgeva a Gibuti la quindicesima conferenza sulla riconciliazione della Somalia, loro avevano già cominciato a prendere il terreno in mano. Era successa la stessa cosa con il precedente governo di transizione. Non so se prenderanno veramente il potere, anche  perché penso che in quel caso, l’Etiopia reinterverrebbe in modo molto chiaro, per opporsi. La cosa scatenerebbe come reazione un intervento, forse anche del Kenya, mi immagino.
Il governo federale di transizione ha un margine minimo di potere. Come al solito ha la comunità internazionale che lo appoggia, ma sul terreno le cose non vanno tanto bene, soprattutto in quella zona. È vero che dietro gli shebab e anche agli altri ci sono ancora gruppi con legami clanici.
Quindi si ha l’impressione, come dicono i somali, che abbiano cambiato camicia: la prima era quella della libertà e la democrazia, la seconda è stata quella del clan, la terza quella del semplice signore della guerra e adesso, la quarta, è quella dell’ideologia islamica. Ma si ha l’impressione che dietro ci siano sempre alcuni gruppetti, con legami clanici.
Recentemente hanno mostrato una video cassetta in cui dichiaravano la loro lealtà nei confronti di Al Qaeda. Non so se è vera o se è cercare un ulteriore appoggio. Credo che abbiano dei rapporti, ma ho l’impressione che cerchino di tirarli ancora di più dalla loro parte. Per sostenerli nella loro ideologia, ma anche nella loro presa di potere con questi legami clanici.

Cosa ci dice dei cattolici in Somalia, sono perseguitati?
I cattolici in Somalia, sono pochissimi. Anche prima di questa guerra civile eravamo circa 2.000 di cui il 90% stranieri. Questi sono andati via, quelli rimasti in parte sono stati uccisi. E anche tra i somali una buona metà è partita. Ne resta un gruppetto, forse meno di un centinaio, ma disperso. Io sono in contatto telefonico con alcuni di loro, ma nulla di più. Risiedono soprattutto nella zona di Mogadiscio, ma metà della popolazione è fuori città, in campi di sfollati.
Dire che sono perseguitati vorrebbe dire che c’è qualcuno che li perseguita in modo generale e che sono tanti. Io direi che non c’è persecuzione in modo formale, ma certamente questi gruppuscoli violenti legati a shebab e altri, hanno bisogno di crearsi dei diavoli da combattere.
Prima, ma anche ora, quelli che conoscevano i cristiani, avevano imparato a vivere insieme pacificamente, però adesso mancando la legge e lo stato, i gruppetti sono disperatamente alla ricerca del caso da presentare alla loro ideologia. Come i giornalisti, quando venivano in Somalia cercavano il bambino striminzito da far vedere nelle loro foto. Mentre la maggioranza non era così.
Devono quindi stare in clandestinità nascosti.

E lei riesce ad andare in Somalia regolarmente? Qual è oggi il clero presente?
Adesso è un anno e mezzo che non riesco ad andare nella zona centro-sud, ma negli ultimi anni non ho mai potuto incontrare i cristiani insieme come gruppo. Qualche individuo singolo sì. Il rischio era per me ma anche per loro, perché li avrebbero individuati. Questi gruppi che devono far vedere che loro stanno combattendo per il trionfo dell’islam e per scacciare i traditori, li ucciderebbero e lo hanno anche fatto.
Non ci sono sacerdoti stabili, e quando vanno rischiano subito di farsi individuare. Gli unici sono qualche cristiano somalo e qualche cristiano nelle Ong. Anche le suore sono uscite dopo l’uccisione di suor Lionella (missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, ndr). Le consorelle sono andate una a Gibuti e due in Kenya.

E le tensioni tra Gibuti e l’Eritrea sono finite?
No, non sono finite, Gibuti continua a chiedere che gli eritrei se ne vadano e le Nazioni Unite continuano a dichiarare e minacciare, ma l’Eritrea rimane sul territorio occupato a Gibuti, che comunque è poca cosa.
La Francia è intervenuta all’inizio, ha appoggiato Gibuti soprattutto con la logistica, e ha visto che le cose si sono fermate. Ha ritirato i suoi militari dal fronte, mentre vi rimangono i soldati gibutini, perché c’è questo stallo. La mia impressione è che l’Eritrea dica: visto che voi all’Onu avete deciso di darci un po’ di ragione con l’Etiopia e questa non si ritira, io non mi ritiro da Gibuti, convincete l’Etiopia a ritirarsi e io farò altrettanto. È una mia interpretazione perché non capisco cosa gli interessi quel pezzo di terra.

Parlando del sinodo per l’Africa, secondo lei, ha rispettato le aspettative?
Io penso che nelle prime due settimane sia stato un po’ dispersivo. Mi è sembrato che nei vari interventi ognuno mettesse sul tavolo le sue preoccupazioni e l’impressione era che si perdesse forse qual era lo scopo e il tema di questo sinodo. Però credo che ci sia stata un’opera di ridirezione da parte della segreteria perché sia nel messaggio che abbiamo preparato noi, sia nelle proposizioni dei vari gruppi, c’è stato un raddrizzamento, nel senso di evitare dispersioni e rifocalizzare il tema principale. Vedo che c’è stato un buon lavoro positivo.

Per applicare il messaggio del sinodo nella quotidianità della gente, che idee ci sono?
Qui si è detto che Ecclesia in Africa (del 1995, è l’esortazione apostolica del primo sinodo per l’Africa, ndr), si è cercato di applicarla, ma forse è mancato da parte dei vescovi stessi un monitoraggio, per dire cosa stiamo facendo, come stiamo lavorando. Risulta chiaro da diversi interventi, che tornando nei nostri paesi, si aspetterà  l’esortazione post sinodale, ma il Messaggio del sinodo è corposo. Abbiamo preferito tenerlo lungo proprio perché vogliamo tornare dai nostri con qualcosa in mano, senza aspettare troppo. Qualcosa su cui cominciare a riflettere. L’impegno che ci siamo presi è che i punti particolari vogliamo attuarli senza accontentarci di belle parole. Ovvero dire: facciamo una valutazione dopo un periodo, cosa abbiamo messo in pratica, quali sono gli aspetti che ci toccano, fare un monitoraggio.

Ha visto novità particolari in questo secondo sinodo per l’Africa?
Rispetto al precedente sinodo l’aspetto particolare è che ci siamo concentrati su dei temi, cercando di  non disperderci. Non c’è nessuna vera novità, ma un’insistenza e una ricerca per la messa in pratica di alcuni aspetti della dottrina sociale della chiesa, che toccano riconciliazione, giustizia e pace. Questo a livello liturgico, di catechesi, educazione, ecc.
Questi temi devono far parte della formazione della comunità cristiana. Un altro aspetto su cui io personalmente sono coinvolto, è quello della collaborazione con persone di altre religioni, in particolare l’islam ma anche le religioni tradizionali.
Perché è un tema che interessa non solo i cattolici, ma tutti gli abitanti dell’Africa. Pure questo è un aspetto che è stato  messo in luce.

Anche il ruolo della donna è stato messo in luce, è venuto fuori nel messaggio, che la generica affermazione che si trova in Ecclesia in Africa deve essere messa in maggior rilievo e messa in pratica, sia a livello della società ma anche all’interno della chiesa stessa. Si è riconosciuto che in questo ultimo caso non si è fatto molto.  

Di Marco Bello

Marco Bello




Lhasa, nella morsa di Pechino

Tibet: viaggio attraverso il «paese reale»

È stata una teocrazia cruenta ed elitaria. Dopo l’invasione della Cina (1950),
la situazione non è migliorata. Il Tibet è diventato una regione – formalmente autonoma – su cui Pechino agisce con pugno inflessibile. I monasteri sopravvissuti alla chiusura sono strettamente controllati. I tibetani sono rinchiusi in carcere per ogni azione che contrasti con i voleri di Pechino. Gli stranieri possono accedere alla regione soltanto con mille limitazioni, mentre il Dalai Lama viene descritto come un nemico pubblico, da isolare e demonizzare. Il racconto di un viaggiatore occidentale entrato in Tibet clandestinamente.

Jamyang Gyatso, nome legale Lhundrup Kalsang, 29 anni, originario di Gyantse, monaco del monastero di Gyaltse Palkhor. Fu incarcerato nel dicembre del 1996 e condannato a cinque anni per aver distribuito copie di una preghiera di lunga vita composta dal Dalai Lama per il Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
Lobsang Dawa, 28 anni, originario di Phenpo Lhundrup era monaco a Ganden. Fu arrestato il 7 maggio 1996 per «attività politiche» e condannato a 12 anni. Sey Khedup, 27 anni, era monaco a Sog Tsendhen. Fu incarcerato il 19 marzo 2000 per aver affisso ad un muro del Barkhor dei manifesti pro-indipendenza. Fu condannato nel dicembre dello stesso anno all’ergastolo. Lobsang Nyima, 30 anni, originario di Pashoe, era monaco nel monastero di Pomda. Fu incarcerato nell’agosto del 1997 e condannato a cinque anni per non aver partecipato ad un «lavoro di squadra» all’interno del convento.
Thinlay Choenden Samdup, 34 anni, originario di Phenpo Lhundrup. Era monaco nel monastero di Drepung quando fu incarcerato il 25 aprile del 1998. Fu condannato a quattro anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza a Lhasa. Fu tenuto in carcere 18 mesi prima di ricevere una formale accusa. Migmar, 37 anni, originaria di Lhasa, impiegata nel settore delle telecomunicazioni. Fu arrestata nel gennaio 2001 e condannata a sei anni per aver guardato un video del Dalai Lama. Phuntsok Wangdu, 32 anni, di Lhasa, monaco a Ganden. Fu incarcerato il 7 marzo 1997 per non meglio chiarite attività politiche. Condannato a 14 anni.
Sono solo alcuni del «migliaio» di prigionieri politici detenuti nella prigione di Drapchi nel maggio del 2001.

Prima dei cinesi

Così vivono i tibetani in Tibet. Costantemente sotto controllo. Osservati e incarcerati per i più disparati motivi. Distribuire copie di una preghiera per il Dalai Lama equivale a «mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Riunirsi in più di sei persone può significare «attività politiche» e garantire una dozzina di anni di carcere. Guardare un video del Dalai Lama ne garantisce sei. Possedere una bandiera tibetana, sette.
Però in fondo le cose per i tibetani non andavano molto meglio prima dell’invasione cinese. La teocrazia presieduta dal Dalai Lama, nonostante si ispirasse alla filosofia buddista, contraria all’uccisione e ai maltrattamenti, non si comportava secondo tali precetti. Le pene corporali anche cruente erano all’ordine del giorno. Henrich Harrer, che in Tibet passò sette anni tra il 1943 e il 1950, racconta di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyriong: «Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo, fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare fu gettato in un precipizio». Altre volte veniva praticata la fustigazione pubblica, che spesso portava alla morte in seguito a dolori lancinanti.
Altri reati erano puniti con la gogna, con lo sfregio o con il carcere a vita. La punizione per l’adulterio era il taglio del naso.
Non migliore era la situazione economica. Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Il monastero di Drepung, ad esempio, che era il monastero più grande del mondo, possedeva una delle più estese proprietà terriere del globo, con 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di più alto rango, che spesso erano nominati Lama per ingraziarsi le famiglie aristocratiche, mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la classe contadina dalla quale discendeva.
Secondo la giornalista Anna Louise Strong, che viaggiò nel Tibet nel 1959, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.

Il lungo viaggio

Certo, se oggi il Tibet dovesse tornare libero la situazione non sarebbe quella di cinquanta anni fa. L’attuale Dalai Lama si considera mezzo buddista e mezzo marxista e, grazie anche all’esilio e alla conoscenza del mondo esterno che questo ha portato, ha più volte condannato molte delle pratiche medioevali del Tibet pre – cinese.
Nonostante ciò Pechino non ha mai voluto negoziare con il Dalai Lama. A prova del fatto che gli interessi cinesi in Tibet sono di carattere geopolitico ed economico e non ideologico. Ma la scintilla che, costantemente, infiamma i tibetani contro i loro invasori è invece di carattere strettamente ideologico. Ed è per questo che il controllo esercitato dalle autorità di Pechino sugli abitanti dell’altipiano raggiunge livelli paranoici. Alcune persone sono state incarcerate per aver recitato delle preghiere che contenevano le parole «Dalai Lama», altri per aver cercato tali parole su google.
Per evitare che il mondo si accorga di tutto questo, da quando hanno invaso il Tibet le autorità di Pechino hanno sempre vietato a tutti di visitare il tetto del mondo in completa autonomia. L’unico modo oggi possibile per andare in Tibet è con un viaggio organizzato da un tour operator cinese.
Ma io avevo una promessa da mantenere. Nell’aprile del 2007 conobbi Palden Gyatso. Monaco tibetano che aveva passato 33 anni nelle carceri cinesi per non aver denunciato il Dalai Lama e la sua «cricca reazionaria».
Dopo una lunga chiacchierata Palden mi disse: «Io non posso più tornare in Tibet. Vai tu e raccontami come è il paese delle nevi». Due mesi dopo ero sull’altipiano, ma non con un tour operator cinese. Palden mi aveva chiesto di raccontargli il Tibet, e non quello che i cinesi vogliono farti apparire come tale. Passai la frontiera nascosto in un camion insieme ad un pellegrino nepalese che tentava di raggiungere il monte Kailash, la montagna sacra ai buddisti, ai giainisti, ai bön e agli induisti.
Alle pendici del monte Kailash scesi dal camion, e da lì mi incamminai a piedi fino a Lhasa, passando dal monte Everest e dal villaggio natale del mio amico Palden. Percorsi più di 1.500 chilometri a piedi. Ottocento di questi in compagnia di un pellegrino che tornava a casa dopo aver percorso 108 circuiti sacri del monte Kailash. Sono pochi gli occidentali che hanno avuto la fortuna, e la sfortuna, di entrare in Tibet. Ed è anche grazie a questo che la Cina può contare su una costante disinformazione su ciò che vi accade.
Oggi chi parla di Tibet lo fa da Nuova Delhi o da Dharamsala, alcuni addirittura da Pechino. Solo pochi lo fanno da Lhasa. Ma, purtroppo, Lhasa ormai non è più Tibet. Il vero Tibet, quello dei pastori nomadi e dei monaci che resistono, non lo conosce quasi nessuno, e quindi nessuno ne parla. E le autorità di Pechino approfittano molto di questo.
Stando alle agenzie di stampa cinesi la repressione in Tibet è terminata da anni e il paese è una provincia cinese «perfettamente integrata». Potrebbe essere così per quanto riguarda Lhasa. Ma di sicuro non è così nell’altipiano.
Gli arresti indiscriminati continuano. Molti monasteri sono chiusi, altri sono aperti ma i monaci vi possono accedere solo in numero controllato. Ogni monastero può ricevere un numero di monaci massimo che non superi il 10% della sua capienza.
I monaci sono obbligati ad eseguire sedute di rieducazione e «lavori collettivi» con scadenze settimanali. Chi non partecipa finisce dritto dritto in carcere a subire torture di ogni tipo.
La ferocia della repressione è brutale, e lo è per un preciso motivo. I tibetani non mollano la presa. Nelle ultime manifestazioni di indipendenza, quelle del 2008, hanno partecipato persone che sono nate da genitori nati in un Tibet già occupato. Giovani «nati in seno al partito» come dicono in Cina.
E se le autorità di Pechino vietano l’ingresso a tutti lo fanno sì per nascondere le brutalità che stanno commettendo, ma soprattutto per evitare che il mondo si renda conto che il Tibet non è una provincia cinese. Nonostante le repressioni e le vessazioni, nonostante il tentativo sistematico di annullare la cultura tibetana questa è ogni giorno più viva.

Le hanno provate tutte

Fin dal 1950 i governanti di Pechino hanno speso le loro energie migliori per sottomettere il popolo tibetano. Prima l’invasione militare, poi la repressione religiosa, la Rivoluzione Culturale e infine l’immigrazione forzata han. Ma l’occupazione del Tibet si ferma lungo le due strade principali e nelle periferie delle città. I centri storici arroccati intorno ai monasteri, i piccoli villaggi delle verdi vallate, i laghi turchesi, le vette delle montagne, le interminabili lande popolate dai nomadi sono ancora Tibet.
Qui conobbi Lobsang, un ragazzo tibetano che ha studiato a Dharamsala grazie ad una borsa di studio. Una volta rientrato in patria si è trovato costretto a fare, da laureato, il cuoco per un’agenzia di viaggio nepalese, perché chi ha studiato dal Dalai Lama è considerato un reazionario. Lobsang ha un’idea molto chiara delle relazioni Cina – Tibet. Un giorno mi disse: «I cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, sono oltre 1,3 miliardi di persone, hanno la bomba atomica, uno degli eserciti più potenti del mondo, temono un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno».
Ed è forse anche questo concetto che i cinesi vogliono nascondere in Tibet. In Cina parlare di Tibet è tabù.  La pena di morte, lo sfruttamento dei lavoratori, la giustizia sommaria sono tutti argomenti scottanti ma per i cinesi l’argomento più delicato di tutti è proprio il Tibet.
È sorprendente come l’economia più forte del mondo possa essere messa in crisi da un gruppo di pastori nomadi, analfabeti e malnutriti. Ma la risposta è semplice. Allo stato attuale il Tibet rappresenta la più grande sconfitta della Repubblica Popolare Cinese, sia sul piano politico – militare che sul piano delle relazioni inteazionali. Le pressioni dei gruppi filo – tibetani all’estero, il continuo peregrinare del Dalai Lama e le interrogazioni all’Onu sono una fonte di imbarazzo per un paese che si propone come un nuovo leader mondiale, non solo nel campo economico. E i motivi delle incarcerazioni e delle condanne lasciano trapelare quello che sostiene Lobsang. I cinesi hanno paura. Paura che l’immagine di una superpotenza forte, compatta e inarrestabile venga messa in dubbio da un pugno di monaci e qualche pastore nomade. Come mi disse Lobsang: «Mi sembra la storia dell’elefante e il topolino che raccontano in India». 

Di Flaviano Bianchini

CRONOLOGIA

IL TIBET FINO ALLA «GUERRA DELL’OPPIO»

Paleolitico superiore (50.000 anni fa) – Primi insediamenti umani in Tibet.
VII secolo dopo Cristo – Sotto la guida dell’Imperatore Songtsen Gampo il Tibet conquista parte della Cina e dell’India. L’abile Songtsen Gampo sposa una donna cinese e una nepalese per proteggere i confini dell’Impero.
770 – Inizia la diffusione del buddismo sull’altipiano tibetano.
823 – Dopo decenni di lotte un trattato di pace con la Cina sigla che «Il Tibet e la Cina devono fermarsi alle frontiere che stanno occupando ora. Tutto ciò che sta a est è terra della Grande Cina, tutto ciò che sta a ovest è, senza alcun dubbio, territorio del Grande Tibet. D’ora in poi da nessuna delle due parti deve provenire minaccia di guerra o di confisca di territori» ancora oggi inciso sul portone del Jokang a Lhasa.
1240 – I mongoli di Gengis Khan conquistano il Tibet praticamente senza colpo ferire.
1271 – 1368 – Kubulai Khan imperatore della Cina. Inizia la dinastia degli Yuan.
1407 – I mongoli vengono espulsi dal Tibet. Inizia l’espansione del buddismo sull’altipiano. In questi anni sorgono tutti i grandi monasteri del Tibet.
1578 – Altan Khan, imperatore della Mongolia, proclama Seunam Gyamtso Dalai Lama (letteralmente Oceano di Saggezza), inizia il dominio dei Dalai Lama sul Tibet.
1642 – Il quinto Dalai Lama instaura regolari rapporti diplomatici con la Cina.
1696 – 1700 – Muore il quinto Dalai Lama. Truppe cinesi invadono e saccheggiano il Tibet. Il sesto Dalai Lama è costretto all’esilio in Mongolia.
1793 – Trattato dei venti punti. Il Tibet è de facto un protettorato cinese.
1839 – Guerra dell’oppio in Cina. Il Tibet riacquista indipendenza.

LA PERDITA DELL’INDIPENDENZA

1902 – 1904 – Truppe inglesi entrano in Tibet. Sbaragliano completamente l’esercito tibetano (gli inglesi conteranno tre morti, i tibetani quasi tremila) e arrivano a Lhasa. Il XIII Dalai Lama fugge in Mongolia. Il Tibet entra nella sfera d’influenza britannica.
1906 – Trattati sino – inglesi ridanno alla Cina una certa influenza sul Tibet.
1912 – Proclamazione della Repubblica cinese a Lhasa. Rivolta dei monasteri. Il Dalai Lama fugge in India.
1913 – Cacciata dei cinesi. Il XIII Dalai Lama torna in patria e il Tibet dichiara l’indipendenza dalla Cina.
1914 – 1933 – Il XIII Dalai Lama tenta di modeizzare il Tibet. Invia delegazioni all’estero, visita Pechino e riceve delegazioni russe e inglesi. Tenta anche di modeizzare l’esercito ma si scontra continuamente con il clero conservatore.
1934 – Dopo la morte del Dalai Lama il Tibet è scosso da continue lotte intee per la successione. I monaci e gli aristocratici governano il Tibet a tutti i livelli, sono consentite schiavitù e servitù della gleba, la terra è tutta proprietà di monasteri e latifondisti. Nel frattempo in Cina l’esercito di liberazione popolare guidato dal giovane Mao Zedong inizia una lunga guerriglia contro le truppe nazionaliste di Chang Kay Shek e contro i vari signori della guerra presenti in Cina.
1939 – 1945 – Seconda Guerra Mondiale. Il Tibet si dichiara neutrale.
1947 – L’India diventa indipendente.
1949, primo ottobre – Nasce la Repubblica Popolare Cinese. Mao Zedong ne è il leader indiscusso.
1950 – «Volontari» cinesi partecipano alla guerra in Corea. Viene annunciata l’imminente «liberazione» del Tibet.
1950 – 1951 – Truppe cinesi invadono il Tibet. Accordo in 17 punti per la «liberazione pacifica del Tibet». Nasce l’Anvd, l’esercito guerrigliero tibetano.
1954 – Prima riforma agraria. In tutta la Cina (Tibet compreso) la terra viene confiscata ai latifondisti e distribuita ai contadini.
1954 – 1974 – «Guerra dei vent’anni». Ribelli Kham si fronteggiano alle truppe cinesi. La Cia (servizi segreti Usa) li appoggia.
1958 – «Grande balzo in avanti»:  vengono collettivizzate le terre. I contadini che prima lavoravano per un monastero ora lavorano per una comune. Viene obbligato tutto il Tibet a coltivare riso anziché orzo, ma a quelle quote i raccolti sono miseri.
1959 – Rivolta di Lhasa. In occasione del capodanno tibetano decine di migliaia di tibetani si ribellano all’occupazione cinese. L’esercito apre il fuoco sulla folla. Circa 80.000 morti in tre giorni. Il Dalai Lama denuncia l’accordo in 17 punti e fugge in India. Secondo l’Inteational commission of jurists (Icj), commissione sotto l’egida dell’Onu, la Cina è responsabile di genocidio. Iniziano le repressioni religiose.
1960 – 1963 – Prima tensione e poi rottura tra Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica richiede indietro i prestiti in grano. Grave carestia in tutta la Cina. In Tibet si parla del 10 -15% della popolazione morta di fame.
1966 – «Rivoluzione culturale proletaria». Le Guardie rosse distruggono tutti i luoghi di culto del Tibet.
1972 – Incontro tra Nixon e Mao. Le speranze di un aiuto statunitense alla causa tibetana si infrangono.
1976 – Morte di Mao Zedong, fine della Rivoluzione culturale. Dopo dieci anni sono rimasti in piedi solo otto monasteri con un migliaio di monaci. Nel 1959 i monasteri erano oltre 6.000 e i monaci più di 100.000.
1977 – Deng Xiaoping promuove l’immigrazione forzata in Tibet. In venti anni oltre otto milioni di cinesi han si spostano in Tibet. I tibetani diventano una minoranza.
1987 – Rivolte in Tibet represse nel sangue.
1989 – Manifestazione di piazza Tien Anmen. Caduta del muro di Berlino. Premio Nobel per la Pace assegnato al Dalai Lama. Grande rivolta in tutto il Tibet. Hu Jintao, allora governatore del Tibet, impone la legge marziale e reprime la rivolta nel sangue. Il Parlamento europeo lo condanna. Deng Ziao Ping si congratula con lui attraverso un famoso telegramma.
1991 – Anno internazionale per il Tibet.
1995 – Rapimento e sparizione dell’VIII Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
1997 – Morte di Deng Xiaoping.

IL TIBET OGGI

Anni 2000 – La Cina diventa una superpotenza economica. Per molti paesi rappresenta il primo partner economico e il Dalai Lama inizia a vedersi rifiutare da diversi governi.
2007 – Il Dalai Lama in visita in Italia non viene ricevuto né dal Papa né dai rappresentanti del governo italiano. Il premier Romano Prodi, intervistato sull’argomento, risponderà «ragioni di stato».
2008 – Prima delle olimpiadi di Pechino in Tibet scoppia l’ennesima rivolta nuovamente repressa nel sangue. Le olimpiadi si svolgono regolarmente. A giornalisti e atleti non è però concessa libertà di movimento.
2009 – Con la crisi economica globale la Cina diventa l’ancora di salvezza. Si affievoliscono sempre più le speranze di indipendenza dei tibetani.

(a cura di Flaviano Bianchini)

Stanno «sotto» gli interessi di Pechino
Ferro, rame, oro, acqua

La Cina non può fare a meno del Tibet. Il boom economico cinese va supportato da ingenti quantità di materie prime. Metalli, petrolio e, soprattutto, acqua. Il Tibet e il Turkestan sono tutto questo. Il Turkestan è il petrolio. Il Tibet i metalli e l’acqua. I cinesi si sono accorti che, oltre ad andare in Africa o in America Latina, possono rifoirsi di metalli in casa loro.
Nel 1999 il ministero delle Risorse e dei Territori, ha inviato un migliaio di ricercatori, geologi e ingegneri minerari sull’altipiano. Divisi in 24 brigate di ricerca, hanno realizzato una mappatura precisa e dettagliata di tutti i giacimenti presenti sul tetto del mondo. L’operazione, conclusasi nel 2006, è costata circa 44 milioni di dollari. Ma non appena ricevuti i primi dati delle ricerche Pechino ha approvato la costruzione della ferrovia per Lhasa. Costo dell’operazione: quattro miliardi di dollari. Ma ampiamente ripagabili.
Il fabbisogno di ferro, per esempio, è aumentato da 186 milioni di tonnellate nel 2002 a 350 milioni nel 2007. Il solo ingresso della Cina sul mercato internazionale del ferro ha fatto quasi triplicare il prezzo di questo metallo. E lo stesso vale per l’oro, per il rame e per la bauxite. Ma ora Pechino ha scoperto che sul «Tetto del mondo» giacciono un miliardo di tonnellate di ferro e 40 milioni di tonnellate di rame. Nel 2007 la Cina ha superato il Sudafrica nella classifica dei paesi produttori di oro e tutto questo oro arriva proprio dal Tibet. Secondo le stime delle brigate di ricerca sotto il suolo del Tibet giacciono minerali per un valore complessivo di oltre 150 miliardi di dollari. Il che giustifica le spese per la costruzione della ferrovia per Lhasa, il suo ampliamento fino a Shigatze, il finanziamento delle brigate di ricerca e la repressione di ogni forma di protesta. Non saranno certo i monaci a fermare Pechino in questa sua fame di metallo. L’Occidente lo sa.

Per Pechino Tibet significa metalli, ma significa anche acqua. Il 48% della popolazione mondiale, l’82% di quella asiatica, vive grazie all’acqua del Tibet. Da esso si alimentano i bacini del fiume Giallo, Azzurro, Gange, Indo, Sultej e Bramaputra. Controllando la regione, la Cina controlla l’approvvigionamento di acqua di quasi metà della popolazione mondiale.
Ma a tutto questo i tibetani non ci stanno. E continuano a ribellarsi con tutti i loro mezzi. La stragrande maggioranza di loro che, costantemente, scendono in piazza per manifestare contro la Cina e il suo esercito di liberazione popolare non ne sa nulla dei giochi politico – ecologici – strategici intorno al loro Paese. Loro sanno che il Dalai Lama, la loro indiscussa guida spirituale, è costretto all’esilio da ormai cinquanta anni; sanno che le terre sterili del Tibet non producono cibo a sufficienza per l’immigrazione forzata promossa da Pechino; sanno che i monasteri, centri nevralgici e vitali del Tibet, sono stati prima distrutti, poi ricostruiti ed infine svuotati; sanno che non hanno libertà di stampa, di informazione, di preghiera e di religione; sanno che devono rispondere a dei governanti che non parlano la loro lingua e che non si vestono come loro; sanno che ovunque vanno e qualsiasi cosa facciano rischiano di essere considerati reazionari e quindi incarcerati e torturati. Questo a loro basta. Non gli serve di sapere altro.

Il Dalai Lama invece sa perfettamente gli interessi che ci sono dietro (sarebbe meglio dire sotto) la sua terra. Ed è per questo che sono ormai anni che non chiede più l’indipendenza del Tibet. Molti tibetani non sono d’accordo con la linea morbida adottata da Tenzin Gyatso. Ma egli sa perfettamente che, allo stato attuale delle cose, la Cina non può fare a meno del Tibet. E sa anche che, da quando c’è la crisi, è tutto il mondo globalizzato che non può fare a meno del Tibet. O meglio, non può fare a meno delle risorse che la Cina preleva al Tibet. L’economia cinese è la pezza che ha arginato, seppur solo temporaneamente, la crisi mondiale e le sue conseguenze (l’economia americana in crisi ha chiesto prestiti alla Cina e li ha ricevuti dando respiro all’economia, anche se in modo temporaneo). Ma questo rammendo si basa sulle risorse del Tibet (l’aumento dei prezzi delle materie prime è stata una delle cause della crisi, e la Cina ha immesso nuove materie prese da Tibet e Turkestan). Ma non possiamo pensare che l’economia continui a crescere all’infinito, in un mondo dove le risorse sono finite. 

Flaviano Bianchini

Flaviano Bianchini




L’esempio brasiliano

Immigrazione illegale in Italia e in Brasile

Il Brasile è un paese che si è costruito sull’immigrazione e ancora oggi
ha larghe fette di immigrati, essendo uno dei giganti economici emergenti.
Anche là non tutti gli immigrati sono legali, solo che il problema è affrontato
in modo diverso che da noi. Forse abbiamo qualcosa da imparare.

Globalizzazione: basta la parola per avere una fotografia di quello che da un paio di decenni è il modello economico dominante: un flusso costante e interconnesso di merci che si muovono a ritmi vertiginosi da un luogo all’altro. Libertà ampia e senza restrizioni ai beni di consumo. I pomodori turchi in Francia, il gazpacho spagnolo in Giappone, le scarpe italiane negli Stati Uniti, le chincaglierie cinesi sparse per tutto il pianeta, e così via. Tutto si muove, e tutto – in questo incessante muoversi – produce ricchezza o povertà a seconda del punto di vista da cui si osservi il transito. E gli esseri umani? Quelli se ne devono stare a casa loro. E quando cercano di uscire con quella forza che solo la disperazione dà, è la frontiera di qualche lontano Paese in cui vanno a cercare di sfuggire alla miseria che provvede a rispedirli al mittente.
Ma quell’umanità che ha ereditato i peggiori scompensi prodotti dal capitalismo selvaggio, con la sua inarrestabile corsa per la sopravvivenza impone agli altri Paesi di confrontarsi anche con il problema della globalizzazione umana. L’immigrazione contemporanea mette in crisi il ruolo prioritario conferito finora alle merci e riporta al centro della discussione l’uomo, infiammando le società con complessi dibattiti su questioni di carattere etico e politico. Da una parte le nazioni appartenenti al cosiddetto «blocco dei paesi del primo mondo», che si irrigidiscono di fronte al timore delle trasformazioni che stanno avvenendo all’interno delle loro culture, custodite orgogliosamente da centinaia di anni come simboli statici di un periodo aureo di dominazione del mondo. Dall’altra, i paesi emergenti, nati essi stessi da fenomeni migratori, che difendono la necessità di organizzare i flussi mondiali partendo dall’adozione di politiche umanitarie, sì, ma anche pragmatiche e a lungo termine.
Una democrazia in crisi
Nel primo gruppo figura l’Italia dell’era Berlusconi, che di fronte al problema dell’immigrazione ha rivelato un profondo deterioramento del proprio sistema di garanzie democratiche. I numerosi elementi negativi presenti nella politica portata avanti dal Goveo Italiano in quest’ultimo anno sono ormai noti: l’introduzione del crimine di immigrazione clandestina, la subordinazione della concessione del Permesso di Soggiorno al contratto di lavoro dipendente, la persecuzione dei locatori e dei datori di lavoro di immigrati irregolari, il ruolo ambiguo e inquietante delle ronde, il tentativo di segregazione scolastica degli stranieri, l’invito a denunciare gli irregolari che richiedano prestazioni nelle strutture sanitarie, l’aumento della burocrazia per la regolarizzazione di uno straniero, il patealismo nazionalistico di uno stato che offre la Carta di Soggiorno permanente in cambio del dominio della lingua italiana e dell’assimilazione automatica della cultura nazionale o, peggio ancora, regionale. Chiaramente la lista non finisce qui. Le norme sono innumerevoli e trasmesse alle questure ad un ritmo tale da non permettere alla macchina burocratica di metterle in pratica.
Una valanga di leggi che fanno a pugni con un’identica montagna di statistiche presentate dai centri di ricerca più accreditati del Paese – Banca d’Italia, Istat, Caritas/Migrantes, Fondazione Leone Moressa – che rivelano che la nuova Italia è affetta da una miopia politica che la fa remare contro i propri stessi interessi economici. Quasi senza eccezioni, gli studi sui fenomeni migratori finora realizzati concordano infatti su un punto: i flussi non si fermeranno almeno per i prossimi cinquant’anni e ridisegneranno completamente il profilo socio-economico-culturale della penisola.
Umanizzare le politiche
di immigrazione
Nel clou della polemica sulla riforma della legge sull’immigrazione, che in Italia ha trasformato in un istante un milione di irregolari in criminali a tutti gli effetti, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si è presentato alla riunione del G8 dell’Aquila annunciando di voler dare una grande lezione di immigrazione ai Paesi più sviluppati. Lula si riferiva alla legge 11961 di amnistia dei clandestini in Brasile, promulgata il 2 luglio del 2009, che ha permesso la regolarizzazione di cinquantamila stranieri provenienti da altri Paesi latini. L’iniziativa del governo, in realtà, non è stata altro che la ripresa di una disposizione del ‘98, in occasione della quale trentanovemila immigrati furono amnistiati nel Paese.
La differenza fra la politica brasiliana e quella italiana, ovviamente non riguarda solo i numeri. Il Brasile – oggi con poco più di 870 mila immigrati regolari – è passato dal suo ruolo di tradizionale ricettore di stranieri – quando fra il 1820 ed il 1940 giunse a ricevere circa cinque milioni di persone – a quello di paese emissore di migranti, verso la fine degli anni ‘80.
Solo negli ultimi anni è ritornato ad attrarre l’interesse dei Paesi limitrofi, ed in particolare dei boliviani. Le stime prima della regolarizzazione dello scorso luglio, indicavano che sessantamila si erano attestati clandestinamente a São Paulo e diecimila nello stato del Mato Grosso.
«L’immigrazione deve essere trattata come un’emergenza umanitaria e non la si può confondere con la criminalità», ha affermato Lula al G8, confrontando i provvedimenti messi in atto dal Brasile con quelli che stavano per essere adottati in Europa. Ma non è tutto. Secondo Lula, la regolarizzazione è stata il primo passo di un progetto di più ampio respiro che punta alla creazione di una nuova Legge dello Straniero, e che ha come obiettivo riumanizzare l’immigrazione in Brasile.
Uno strumento per evitare che gli immigrati, in condizioni di estrema fragilità finanziaria, siano oggetto dello sfruttamento e del traffico umano praticato dalle gang di narcotrafficanti, che insieme ad altre organizzazioni criminali operano nelle zone di frontiera.
La legge 11961 ha dato ai clandestini che vivono in Brasile la possibilità di ottenere la residenza provvisoria per due anni, che al momento della scadenza potrà essere trasformata in permanente. Vengono garantiti ai beneficiari della legge gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, ad eccezione di quei privilegi di cui si gode per nascita, come la possibilità di candidarsi a cariche elettorali.
Mettendo a confronto la politica del Brasile con la regolarizzazione effettuata dall’Italia nel settembre del 2009 per colf e badanti o con lo stesso decreto flussi, appare chiaro che le complesse pratiche burocratiche italiane hanno una precisa finalità: creare condizioni tali da non permettere agli immigrati di legalizzarsi.
Sette mesi prima della promulgazione della legge di amnistia, in vista del progetto di integrazione dei Paesi dell’America del Sud, il governo Lula ha siglato un accordo bilaterale con l’Argentina, permettendo la concessione del visto permanente a turisti e cittadini argentini muniti di visto provvisorio. Un visto che – come si sostiene a Brasilia – oltre a permettere al viaggiatore di vivere esattamente come un cittadino del Paese che lo ospita, gli offre al tempo stesso la possibilità di decidere se stabilirvisi definitivamente.
Questa preoccupazione, presente anche nella legge di amnistia, dimostra che la politica migratoria del Brasile, offrendo le condizioni di base per l’inserimento legale dell’immigrato nel mercato del lavoro, anticipa in un certo senso il processo di integrazione.
Nulla di tutto questo si avverte per ora nelle scelte dell’Italia, nonostante l’allarme mano d’opera che rischia di compromettere seriamente il potenziale produttivo del Paese a causa dell’invecchiamento della popolazione, del basso indice di natalità e del rifiuto da parte dei giovani italiani di svolgere lavori meno remunerativi o qualificati.

Di Célia Takada

Célia Takada