Il papa ama l’Africa

A due anni dal viaggio di Benedetto XVI

A quasi due anni dalla visita di Benedetto XVI nei paesi dell’Africa occidentale (17-23 marzo 2009) pochi si sono domandati quali sono stati i suoi sentimenti e quali i contenuti dei suoi messaggi. Ci accontentiamo di essere spettatori alla televisione o di leggere sui giornali la cronaca della sua accoglienza e delle dimostrazioni di gioia e di affetto che gli sono state riservate. Non sempre invece ci chiediamo lo scopo del suo viaggio apostolico e quali problemi sente dentro di sé quando pensa all’Africa e alle difficili condizioni della sua gente.

Proviamo allora a ripercorrere insieme questo suo primo viaggio «missionario» africano da pontefice che ha cura di tutte le Chiese, anche le più dimenticate, come sono in genere quelle di alcune parti del continente africano, per scoprire così quali sono i problemi che tormentano l’Africa.
«Con questa visita – ha ricordato prima di partire da Roma per il Camerun e l’Angola – intendo idealmente abbracciare l’intero continente africano: le sue mille differenze e la sua profonda anima religiosa; le sue antiche culture e il suo faticoso cammino di sviluppo e di riconciliazione; i suoi gravi problemi, le sue dolorose ferite e le sue enormi potenzialità e speranze. Intendo, inoltre, confermare nella fede i cattolici, incoraggiare i cristiani nell’impegno ecumenico, recare a tutti l’annuncio di pace affidato alla Chiesa dal Signore risorto». «Penso in particolare – ha ancora aggiunto – alle vittime della fame, delle malattie, delle ingiustizie, dei conflitti fratricidi e di ogni forma di violenza che purtroppo continua a colpire adulti e bambini, senza risparmiare missionari, sacerdoti, religiosi, religiose e volontari».
«Io amo l’Africa», ha detto ai giornalisti mentre il Boeing 777 dell’Alitalia lo portava da Roma a Yaoundé in Camerun. «Ho tanti amici africani già dai tempi in cui ero professore. Amo la gioia della fede, questa fede giorniosa che si trova in Africa».
Con la sua prima visita in Africa (marzo 2009) il papa ha infatti voluto promuovere la fede che caratterizza la Chiesa africana. Ma poiché la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non è mai una «società perfetta», ha fatto anche appello a «una purificazione» non tanto delle strutture estee, quanto piuttosto del cuore e della coscienza, perché le strutture sono il risultato di ciò che è il cuore.
Ha inoltre parlato dei moltissimi movimenti religiosi, che nascono come funghi in varie parti del continente, e ha ricordato che la fede cristiana è frutto di un annuncio sereno e giornioso, perché propone un Dio vicino all’uomo e dà vita a una grande rete di solidarietà umana e cristiana. Le stesse religioni tradizionali africane si aprono sempre più al messaggio evangelico, perché vedono che il Dio dei cristiani non è un Dio lontano, ma un Dio vicino a ciascuno di noi.
Durante il suo viaggio in Africa il papa ha ancora affrontato l’impatto che l’attuale crisi economica può aver avuto nei Paesi poveri e l’importanza dell’etica per un retto ordine economico mondiale. La causa della recessione – ha sottolineato – è soprattutto di carattere etico, perché «dove manca l’etica, la morale, non può esserci correttezza di rapporti». Questo vale non soltanto per i paesi più ricchi, ma anche per l’Africa, dove la corruzione è uno dei mali da sconfiggere.
È, quello di combattere la corruzione per il bene della gente, un compito quanto mai urgente e necessario di qualsiasi governo, ma lo è soprattutto di coloro che si dicono cristiani. «Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione e all’abuso di potere – ha affermato il papa rispondendo alle parole di benvenuto del presidente della Repubblica camerunese, Paul Biya – un cristiano non può mai rimanere in silenzio». Il messaggio del Vangelo esige di essere proclamato con forza e chiarezza, «così che la luce di Cristo possa brillare nel buio della vita delle persone». In Africa, come pure in tante parti del mondo, «innumerevoli uomini e donne anelano a udire una parola di speranza e di conforto».
In un tempo di scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di cambiamenti climatici, l’Africa soffre in modo sproporzionato rispetto ad altri continenti. Un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà, della malattia, in particolare dell’Aids, mentre il traffico di esseri umani, specialmente di donne e bambini inermi, sta diventando una modea forma di schiavitù, e i «conflitti locali lasciano migliaia di senza tetto e di bisognosi, di orfani e vedove».
Nelle parole del papa si percepiscono sentimenti di amarezza, di angoscia profonda, di rammarico e sofferenza. Egli chiede a gran voce riconciliazione, giustizia e pace. È quanto la Chiesa offre: «Non nuove forme di oppressione economica o politica, ma la libertà gloriosa dei figli di Dio, non rivalità interetniche e interreligiose, ma la rettitudine, la pace e la gioia del Regno di Dio, descritto in modo così appropriato da papa Paolo VI come civiltà dell’amore».
Appena toccato il suolo africano per la prima volta durante il suo pontificato, Benedetto XVI si è fatto portavoce del grido di giustizia e di pace che risuona in tutto il continente. Citando una frase di un sacerdote camerunese, il presidente Biya, che ha accolto il papa ed è al potere dal novembre 1982, si è chiesto «Come è possibile non ascoltare il grido di dolore dell’uomo africano?». È il grido di molte donne rimaste vedove e di innumerevoli bambini che sopravvivono come possono per strada.
Per questo il papa in Africa è stato accolto come una «benedizione». Lo ha detto il grande iman di Yaoundé, lo sceicco Ibrahim Moussa: «Nel Corano il profeta Maometto ci raccomanda di accogliere bene gli stranieri, perché spesso vengono in pace. Per noi, quindi, l’arrivo del papa è una benedizione». Lo sceicco ha perciò rivolto un appello ai musulmani invitandoli a «rispettare la religione degli altri e a unirsi per accogliere questo grande uomo». Anche le comunità protestanti del Camerun hanno considerato l’arrivo del papa «una grazia che non può lasciare un cristiano indifferente» e hanno ritenuto il suo arrivo «un avvenimento di grande portata spirituale».

Giampietro Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Diamo un calcio alla dittatura

Intervista ad Aung San Suu Kyi

La liberazione di Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per 15 anni, è di buon auspicio per il ritorno alla democrazia. Un cammino che richiede alla «Signora» di cambiare strategia: ricompattare il partito, dialogare con i militari, rispondere alle minoranze etniche, non inimicarsi la Cina. Ma l’Occidente deve mutare atteggiamento.

I sette giorni che cambiarono il Myanmar. Così potrebbe passare alla storia, nel Paese asiatico, la seconda settimana di novembre 2010. Alle prime elezioni dopo vent’anni tenutesi domenica 7, è seguita, ad appena sei giorni di distanza, la liberazione, tanto attesa quanto insperata, di Aung San Suu Kyi.
Pur rivelandosi un bluff istituzionale, le consultazioni generali hanno mostrato che la giunta militare sta cercando di riaprire la «road to democracy», il percorso politico e sociale che dovrebbe traghettare il Myanmar verso un regime democratico e pluralista.
Il rilascio della leader del movimento democratico birmano sarebbe la seconda importante tappa di questo tragitto, peraltro sconnesso e ricco di incongruenze.
«sgraditi» i giornalisti
Una di queste contraddizioni l’ho sperimentata direttamente, allorché, a poche ore dall’apertura dei cancelli della sua villa sul lago Inya, ho potuto avvicinare la «Signora», come viene spesso soprannominata Aung San Suu Kyi in Myanmar.
L’incontro avrebbe dovuto essere un primo approccio per un’intervista più estesa e dettagliata, per cui avevamo già concordato tempi e modalità, che però non ha mai potuto avere luogo. Il severo controllo del regime sull’informazione, atta a filtrare ogni notizia che trapela dal Myanmar, si è tramutato in un’immediata espulsione dal Paese. «Il visto turistico non permette di effettuare servizi giornalistici» è stata la spiegazione data da uno dei due funzionari che mi ha notificato l’allontanamento dalla nazione.
In effetti, il solo fatto di essere riuscito a ottenere un visto d’entrata a ridosso delle elezioni, dopo che le ambasciate di Roma, Bangkok, Singapore e Kuala Lumpur me lo avevano negato in quanto «persona non grata», è stato un successo. L’essere riuscito, tra mille difficoltà e continui cambi di hotel per non essere rintracciabile dalla polizia, a seguire tutto il percorso elettorale fino a incontrare Aung San Suu Kyi, è stato un ulteriore trionfo.
libertà senza compromessi
Dell’incontro con Aung San Suu Kyi riporto le poche frasi che ci siamo scambiati.
Finalmente libera. Ci credeva o pensava che la Giunta ritirasse all’ultimo momento anche questa promessa?
«Non mi sono mai posta il problema. La giunta e io abbiamo idee contrapposte sulla democrazia e ho sempre sostenuto che la mia libertà non dovesse essere un pegno utilizzato dalla giunta per raggiungere compromessi».
Libertà significa anche azione, responsabilità e quindi essere oggetto di critiche. Cosa farà come prima cosa?
«Vorrei girare il Paese, incontrare gente, sentire i problemi direttamente da loro. Fare, insomma, quello che ho sempre fatto quando la Giunta me lo permetteva».
In carcere ci sono ancora più di 2 mila prigionieri politici: la sua liberazione non rischia di far dimenticare al mondo queste persone dai nomi meno noti del suo?
«Ha ragione, la mia libertà non deve far dimenticare questi difensori della democrazia che, per le loro idee, sono ancora incarcerate e io mi batterò affinché anche loro possano vedere aprirsi le spranghe delle celle».
La Lega Nazionale per la Democrazia non si è presentata alle elezioni e quindi non avrà nessun rappresentante al Parlamento. Come pensa di continuare la sua lotta politica dall’esterno?
«Il problema non è l’assenza dei nostri rappresentanti al Parlamento. Del resto la nostra posizione è stata chiara fin dal principio: chi l’avesse voluto, poteva candidarsi liberamente alle elezioni. Il problema però, è che le consultazioni del 7 novembre, così come la costituzione, si sono dimostrate un colossale imbroglio. Parteciparvi significava accettare la costituzione e ingannare il popolo. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia e della verità».
Ma L’intransigenza non paga
Le poche frasi scambiateci e le successive interviste rilasciate a media inteazionali e locali, mostrano che Aung San Suu Kyi è sempre più determinata a continuare l’attività politica che le è valsa la popolarità mondiale e un Premio Nobel per la Pace nel 1991. Govei di tutto il mondo e organizzazioni a favore del movimento democratico birmano hanno salutato, a ragione, la liberazione di Suu con soddisfazione.
Ma valutando attentamente ciò che la Lady ha sino ad oggi detto, appare chiaramente un mutamento della sua prospettiva politica. Sembra che i lunghi anni di segregazione le abbiano insegnato che per cambiare il regime dei generali non serve il pugno di ferro, ma una tattica vincente, prerogativa indispensabile per ogni politico, che a lei, però, è sempre mancata.
All’interno della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), il partito da lei fondato nel 1988, sono sempre più numerosi coloro che si chiedono quali frutti abbia portato l’intransigenza mostrata sino ad oggi dal Segretario generale. Troppe, infatti, sono le occasioni mancate, a partire dal fallimento dei colloqui con Khin Nyunt, nel 2003, considerato da molti, e a ragione, come l’unico militare in grado di cambiare le sorti della nazione.
Pur continuando a rappresentare la maggioranza dell’elettorato birmano, l’Lnd sta perdendo pezzi. Un primo gruppo è stato espulso dalla stessa Aung San Suu Kyi nel 1997, un secondo, più consistente, nel 2003 all’indomani della rottura dei negoziati con Khin Nyunt, allora numero uno della giunta militare e principale interlocutore con il movimento democratico. Nell’ottobre 2008, cento membri dell’ala giovanile dell’Lnd hanno lasciato il partito perché il nepotismo non lasciava loro spazio; infine, nel maggio 2010, un altro gruppo di dissidenti guidato da Khin Maung Shwe, ex portavoce e membro del Comitato Centrale, ha deciso di formare il National Democratic Force per partecipare alle elezioni di novembre, contravvenendo alle decisioni del partito di boicottare le votazioni.
«Gli ideali e i principi di democrazia e di giustizia di cui sono intrisi gli animi delle persone che formano il nucleo storico della Lega Nazionale per la Democrazia, purtroppo si stanno dissolvendo» spiega Raymond Sumlut Gam, vescovo di Bhamo, che continua: «Molti membri che negli ultimi anni sono entrati nella Lega non sono poi molto differenti dagli amministratori militari che abbiamo oggi».
Occorre, a questo punto, chiedersi cosa succederebbe se improvvisamente Aung San Suu Kyi o un membro del movimento per la democrazia, potesse assumere le redini del governo. «Il popolo pretenderebbe cambiamenti radicali immediati che nessuno, attualmente, sarebbe in grado di garantire» afferma un diplomatico occidentale. «Ci sarebbe il rischio di un malcontento diffuso e la rabbia crescerebbe assieme al sentimento di frustrazione e di disperazione. Il Paese sarebbe seriamente esposto a disordini sociali» conclude il diplomatico, che pur rappresentando un governo che critica aspramente il regime militare, non esita ad esprimere il suo scetticismo su un improvviso cambiamento di regime.
strada molto diplomatica
La diplomazia, si sa, viaggia sempre su piani paralleli: ciò che viene detto quasi mai rispecchia la reale conduzione politica che viene discussa a porte chiuse.
Molto probabilmente è quanto accaduto con Aung San Suu Kyi. Non a tutti è piaciuto quanto la leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha detto appena liberata. La richiesta di dialogo e di incontro con Than Shwe a molti, specialmente a coloro che nel 2003 erano stati espulsi dal partito per aver criticato l’intransigenza di Aung San Suu Kyi verso Khin Nyunt, è apparsa un voltafaccia inconcepibile: «Than Shwe è il militare più ottuso e incapace che abbiamo mai avuto: perché ora Aung San Suu Kyi decide di voler aprire un negoziato con lui quando con Khin Nyunt ha interrotto le trattative?» si chiede polemicamente Zaw Lin Oo, del Myanmar Democratic Congress, un partito formato principalmente da esponenti democratici e attivisti birmani.
Anche l’assoluzione data alla Cina riguardo al suo coinvolgimento nella gestione economica delle risorse del Myanmar, è apparsa a molti incomprensibile. La dichiarazione secondo cui «non vi è alcuna prova che la Cina stia depredando le ricchezze della Birmania» ha dell’incredibile, se non dell’eresia, soprattutto per le centinaia di organizzazioni che in Occidente da anni si battono a fianco del Premio Nobel per la Pace e che hanno sempre sostenuto che Pechino, uno dei principali alleati di Naypyidaw, sia complice di un bracconaggio economico ai danni del popolo birmano.
Pur essendo stata agli arresti domiciliari negli ultimi sette anni, Aung San Suu Kyi non può non sapere che la più grande economia asiatica è pesantemente coinvolta nel depauperamento delle risorse naturali birmane. La Signora ha semplicemente capito che la chiave della svolta politica nel suo Paese si trova proprio in Cina ed è con essa, più che con i governi occidentali, che dovrà trovare un modus vivendi.
Lo stesso governo cinese ha tutto l’interesse affinché il processo di democratizzazione proceda in Myanmar. La Cina, come hanno dimostrato i recenti conflitti etnici del Kokang nel 2009 e negli stati Kayan e Mon nel novembre 2010, è indispensabile affinché i gruppi minoritari abbiano un interlocutore valido e affidabile. Aung San Suu Kyi, in quanto bamar e figlia di Aung San, che non gode di buona fama tra le etnie del Myanmar, non ha potere sulle periferie del Paese. Una svolta democratica che non escluda a priori i militari, indispensabili per mantenere unita la nazione, è quindi necessaria affinché non si ritorni sull’orlo dell’instabilità etnica. E la Cina potrebbe fare da mediatore tra il governo centrale, i movimenti democratici e le spinte autonomiste delle minoranze etniche.
boicottaggio: non serve più
A una studiosa di storia come Aung San Suu Kyi non è certamente sfuggito l’insegnamento delle vicende passate della nazione birmana: tutto, nel Paese, può essere rimesso in discussione in brevissimo tempo. Dal 1988, anno in cui rientrò in patria per assistere la madre morente, Aung San Suu Kyi ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari, venendo liberata in diverse riprese, per poi ritornare coercitivamente alla sua villa al N. 54 di University Avenue.
Gli stessi generali non sono immuni da improvvise defenestrazioni: Ne Win, il compagno dell’eroe nazionale e padre di Suu Kyi, Aung San, e protagonista del putsch che nel 1962 pose fine alla breve parentesi democratica birmana, è morto agli arresti domiciliari e il suo successore, Khin Nyunt, è tuttora segregato nella sua dimora a Yangon.
Than Shwe e Maung Aye, rispettivamente numero uno e due del regime, sanno che, giunti oramai alla fine della loro carriera, le piaggerie di cui sono stati circondati sino ad oggi, potrebbero tramutarsi in ostilità. I due generali stanno quindi preparando il terreno per una pensione tranquilla e ricca, per sé stessi e per i loro accoliti, ritagliandosi probabilmente un posto puramente onorifico all’interno del nuovo assetto istituzionale.
Anche sul boicottaggio economico e turistico, Aung San Suu Kyi si è detta pronta a rivedere le sue posizioni, «se il popolo vuole veramente che queste siano cambiate». Haral Bockman, presidente del Norwegian-Burma Committee e presidente della Democratic Voice of Burma, afferma che, «guardando nel passato, il solo Paese dove l’embargo ha avuto successo nel cambiare politica, è stato il Sud Africa. In altre nazioni, come Iraq o Iran, il boicottaggio non ha portato a nulla. Ma in Birmania i generali sono imbevuti di nazionalismo e un’apertura economica verso il Paese asiatico, potrebbe radicare ancora di più questo sciovinismo».
Eppure, viaggiando per il Myanmar, risulta chiaro che, specialmente nel campo turistico, la popolazione accoglie con favore l’arrivo degli stranieri, specialmente quelli che arrivano individualmente. «Chi è favorevole all’embargo non è mai stato in Birmania, non ha mai parlato con un birmano, non ha mai visto le condizioni in cui viviamo» polemizza Ka Bawi, uno studente di Mawalamyine, sulla costa orientale del Paese.
Del resto all’interno stesso della Lega Nazionale per la Democrazia, non ci sono visioni unanimi sul boicottaggio. La stessa Aung San Suu Kyi nel 1985 ha scritto un libro dal titolo inequivocabile: Let’s go to Burma. Ha Yanghwe, figlio del primo presidente della Repubblica Birmana e direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles, interrogato sulla questione, ha dichiarato che «i turisti che visitano il Paese tramite agenzie di viaggio locali private o hotel non statali, possono essere utili perché interagiscono con la gente; ma quelli che utilizzano agenzie governative o arrivano con pacchetti turistici, generalmente visitano solo monumenti e si godono il sole sulle spiagge. Questo è un turismo di cui beneficiano solo i generali ed è questo ciò che noi non accettiamo».
Anche l’ovest deve cambiare
Una voce controcorrente proviene dalla Chiesa cattolica: l’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, dice che «ufficialmente siamo contrari all’embargo, non solo per il Myanmar, ma per tutti i Paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma ferisce ancora di più i birmani. I generali hanno innumerevoli possibilità per aggirare l’embargo. Sono i semplici cittadini birmani a non poterlo fare».
Mons. Bo si inoltra anche nella delicata questione affrontata da Aung San Suu Kyi a proposito della Cina, avallando la nuova posizione assunta dall’eroina birmana: «Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leader militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi da utilizzare per riportare il Paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina affinché questa induca i militari ad accettare i cambiamenti. Come seconda cosa gli Stati Uniti devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e di imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti verso il Myanmar».
L’amministrazione Obama sembra aver capito che questa è la strada da intraprendere. Hillary Clinton si è detta disposta a rivedere la posizione di Washington sul problema del boicottaggio e a intraprendere un dialogo con la giunta militare. Da parte loro i generali sembrano finalmente disposti ad allentare la presa sul Paese. Le elezioni, seppur falsificate nei loro risultati, e ancor più il rilascio di Aung San Suu Kyi, potrebbero essere le prime pedine mosse sulla scacchiera birmana.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Pelle nera, cuore indio

Nabasanuka: evangelizzazione e culture

Padre Josiah K’Okal, missionario fra gli indios warao, del Venezuela, ci parla della sua comunità, dei progetti, delle sfide, ma anche del grande entusiasmo con cui affronta quotidianamente il suo lavoro di pastore nel delta del grande fiume Orinoco.

Josiah, sono passati ormai quattro anni da quando ci hai raccontato gli inizi della vostra missione nel delta del fiume Orinoco (cf. MC, marzo 2007). Sarebbe ora di fare il punto della situazione. Per esempio, ti avevamo lasciato alle prese con il sogno di costruire un salone multi-uso per la tua comunità, che ne è stato di quel progetto ambizioso?

Ambizioso, hai detto bene: infatti, continua ad essere un sogno. Alcune organizzazioni ci hanno aiutato con diversi progetti, ma poche di esse si sono impegnate con costruzioni perché il lavoro risulta essere troppo costoso. Il problema è rappresentato dal trasporto del materiale che avviene esclusivamente per via fluviale. Tuttavia, il salone resta una priorità.
La struttura del popolo warao è cambiata; un tempo le comunità erano «comunità-famiglia», numericamente ridotte, e quindi in grado di trovare facilmente posti in cui incontrarsi. Oggi questo è impossibile ed è necessario identificare luoghi dove recuperare l’abitudine a ritrovarsi, raccontare la propria storia, insegnare le tradizioni ai più giovani e ai bambini. Vorremmo anche creare una specie di biblioteca-museo della cultura warao all’interno dello stesso salone. Dovrebbe diventare un posto dove i warao possano investigare le radici della propria cultura. Il sogno c’è, un giorno si realizzerà.

Lo stato non potrebbe dare una mano? Mi sembra che la politica dell’attuale governo sia abbastanza aperta alla difesa del patrimonio indigeno.
Dobbiamo riconoscere che questo governo si è sforzato più di altri nel dare uno spazio e un riconoscimento ai popoli indigeni. Sono anche stati investiti più fondi nella costruzione di scuole. Questo non solleva però il governo dalle sue responsabilità. Mi spiego: nel comune Antonio Diaz, dove sorge la missione di Nabasanuka, vi sono quattro scuole secondarie. Quando arrivammo, nel 2006, ne esistevano soltanto due, mentre altre due hanno aperto recentemente. È un fatto apparentemente positivo, ma quando si va a guardare nel concreto si nota che, per esempio, mancano moltissime cose fondamentali, a partire dalle strutture. Parlo per esperienza personale, dato che io stesso insegno inglese in una di quelle scuole: non abbiamo aule, non abbiamo una sede propria. L’unico modo per garantire il normale svolgimento delle lezioni in uno spazio che sia idoneo è ritrovarci di pomeriggio nelle aule della scuola elementare. L’istituto è a carattere scientifico e non abbiamo laboratori, né di chimica, né di fisica, tanto meno di informatica. Mancano i libri di testo e se voglio usare il gesso per la lavagna me lo devo comprare di tasca mia. I professori sono pagati, ma come maestri di scuola primaria; nessuno riceve uno stipendio di scuola superiore. Continuano a a lavorare solo perché ci credono. Ho qui sul computer due rapporti inviati in passato al ministero dell’Educazione, ma … nulla, non ci hanno degnati neppure di una risposta.

E per quanto riguarda la salute?

In Nabasanuka c’è un ambulatorio di quelli che chiamiamo «Centro di attenzione integrale di secondo livello», che secondo la legislazione del Venezuela prevede la presenza di un medico residente. Ne abbiamo avuto qualcuno in passato, ma oggi non più. Inoltre, non ci sono farmaci; a volte riceviamo la visita di medici di passaggio e non hanno medicine con cui trattare i pazienti.
Quello della salute è un vero problema: per andare da Nabasanuka a Tucupita, che è la capitale dello Stato e sede dell’ospedale a cui fare riferimento, un’imbarcazione normale impiega almeno quattro ore. Se il motore della barca è meno potente se ne possono impiegare anche sei e, inoltre, a Nabasanuka non abbiamo un’ambulanza fluviale. Abbiamo prestato anche l’imbarcazione della missione per portare pazienti, ma più di una volta abbiamo dovuto constatare con molto dolore la morte di persone che si sarebbero salvate se avessero avuto l’opportunità di essere trasferite tempestivamente all’ospedale.
E poi c’è la tragedia del combustibile…

In che senso?

Devi partire dal presupposto che per i warao l’unico mezzo di comunicazione e trasporto è il motoscafo e lungo il fiume ci sono moltissime imbarcazioni a motore. Bisogna riconoscere che il Goveo ha fatto investimenti affinché le comunità indigene abbiano più imbarcazioni e si possano muovere più agevolmente per il fiume, ma alle barche serve la benzina e qui sta il problema. Nei caños, ovvero nei canali del delta, c’è un solo luogo oltre a Tucupita dove si può comprare combustibile, e bisogna a volte fare code di quattro giorni per poterlo acquistare. Ecco allora che nella stessa Tucupita c’è chi lo vende al mercato nero, evitandoti lunghissime attese ma facendo pagare fino a dieci volte il prezzo corrente. Ci sarebbe anche un altro posto più vicino, Curiaco, ma la gente preferisce a volte andare fino a Tucupita perché Curiaco si trova vicino al confine con la Guyana inglese; lì c’è molto contrabbando e traffico di carburanti e uno corre il rischio di andarvi senza riuscire ad approvigionarsi.
Per rispondere alla domanda iniziale: il governo ha una chiara linea a favore degli indigeni, la qual cosa è positiva; ma, allo stesso tempo, queste buone intenzioni non vengono tradotte in pratica dalle autorità locali. Ci si ricorda dei warao in tempo di campagna elettorale; allora sì che c’è una presenza continua dei politici… ma dopo?

La missione dovrebbe tenere una proiezione verso la città. Come state vivendo questa sfida

Ormai i warao non si trovano più soltanto nei canali del delta. Oggi si muovono seguendo flussi migratori di vario tipo. Ci sono coloro che emigrano per sempre e vanno in città, convinti che la vita sull’Orinoco non porterà loro alcun futuro. Poi ci sono quelli che emigrano perché vogliono fare studiare i loro figli e non possono mandarli in città da soli. Una caratteristica sorprendente dei warao è che sono capaci di spostarsi con tutta la famiglia, arrangiarsi con qualche lavoretto, tirarsi su una baracca alla bene e meglio, pur di accompagnare due figli che vanno a fare le scuole superiori in città. Terzo, ci sono quelli che vanno e vengono. Si spostano soprattutto per motivi di salute, visto che nel delta non ci sono centri di attenzione medica, oppure per incassare soldi che lo stato deve loro, come il personale infermieristico o gli insegnanti che vanno a ritirare lo stipendio. Il paradosso, cosa che trovo sommamente ingiusta, è che la gente spende per andare in città gran parte dei soldi che va a incassare. È mai possibile che non si possa trovare il sistema di fare arrivare i pagamenti direttamente a Nabasanuka e negli altri centri all’interno del delta?
Infine ci sono quelli che vanno temporaneamente a chiedere l’elemosina. Per il warao andare a chiedere l’elemosina non è propriamente mendicare, ma piuttosto un vero e proprio lavoro. Del resto, per loro tutto viene dalla natura e se qualcuno ha di più deve condividerlo con chi non ha. Una volta in città le donne e i bambini vanno a chiedere l’elemosina, mentre gli uomini rimangono a casa a guardare la baracca che si sono costruiti oppure vanno in giro a cercare di guadagnare qualche bolivar. Le famiglie si fermano in città un mese o due, il tempo di raccogliere un po’ di soldi, qualche vestito che la gente dà loro, e poi ritornano alla loro comunità. A volte si spingono fino a Caracas.

Non c’è il rischio che l’indio emigrante perda i suoi valori culturali e religiosi?

In effetti ci siamo resi conto che i warao che andavano in città non frequentavano più la chiesa, mentre nelle loro comunità sono fedelissimi a tutte le funzioni. Appena arrivano in città iniziano invece a vedere la chiesa come un qualcosa che appartiene al criollo, al bianco, qualcosa che non sentono più loro.
La migrazione crea molte baraccopoli, cresciute ai margini della città; e lì, oltre al lavoro pastorale, c’è molto da fare nell’organizzare le nuove comunità. Occorre infatti accettare il fatto che sono nuove realtà, cresciute in un contesto urbano e che come tali vanno trattate. È nata da questa presa di coscienza la nostra decisione di andare in città. Oggi, un missionario della Consolata, padre Zachariah Kariuki, keniano, vive a Tucupita e lavora in questo settore. La sua presenza è importante affinché i warao possano sentirsi accompagnati, fare chiesa. Nel nostro piano pastorale cerchiamo anche di includere elementi della loro spiritualità tradizionale, come la cura della natura, l’ecologia, perché tutta la loro vita di popolo è nata totalmente immersa nella natura. È importante aiutarli a pensare come possono vivere oggi in una città, senza i loro fiumi e con la presenza dell’inquinamento: una bella sfida.

Come la spiritualità warao influenza lo stile missionario?

Il warao è molto rispettoso del divino. Alcuni antropologi affermano che i warao non hanno Dio, ma nei miei pochi anni di esperienza ho scoperto di avere a che fare con un popolo profondamente spirituale, che vive il rapporto con l’essere supremo sullo stile dell’Antico Testamento, con grande paura del castigo che può essere comminato, ma anche con grande rispetto.
In secondo luogo, secondo la loro cosmovisione, tutto merita di essere rispettato e trattato con dignità perché ogni cosa ha il suo spirito: l’acqua ha il suo spirito, la foresta ha il suo spirito… Ne consegue che uno non può entrare in una selva e iniziare a tagliare alberi così come gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.
Per i warao la vita è una sola realtà. Noi, che siamo intrisi di cultura occidentale, tendiamo a frammentare la vita, distinguendo per esempio ciò che è politico da ciò che è invece religioso, economico. Essi, al contrario, hanno una visione olistica della vita. La chiesa non è vista soltanto come un luogo dove la gente va a pregare, ma come uno spazio dove la comunità si incontra in assemblea.
Un altro elemento importante è la fiducia. Il warao è una persona che dimostra la fiducia che nutre in te e, di conseguenza, si aspetta che tu ce l’abbia nei suoi confronti. Nel nostro lavoro siamo quindi chiamati, come missionari, a dimostrare che noi vogliamo loro bene, ma anche che abbiamo fiducia in loro.
La famiglia occupa un luogo simbolico importante nella comunità warao. La prima cosa che un warao ti chiede, anche un bambino, è il tuo nome, poi il nome dei tuoi genitori, quanti fratelli hai… e hanno una memoria tremenda perché qualsiasi nome tu dica loro, se riguarda la tua famiglia, viene ricordato. La famiglia dorme in una sola casa. Risulta per esempio molto strano ad essi che noi e le suore dormiamo ciascuno nella propria stanza. Il valore warao della famiglia ha influenzato molto il nostro stesso modo di vivere. Viviamo con ciò che è necessario, cercando di condividere uno stile povero e semplice, cercando di condividere molto il poco che abbiamo.

Parlando della famiglia, parliamo anche della vostra famiglia. Pur riservandovi spazi fisici separati, avete creato una comunità di vita fatta da missionari e missionarie della Consolata, in linea con le scelte dei nostri istituti. Cosa ci puoi raccontare al riguardo?

Ciò che fino ad oggi siamo riusciti a costruire a Nabasanuka è stato il frutto di una riflessione e di un cammino fatto insieme, un progetto dinamico che si è venuto realizzando poco a poco. In teoria si erano fatte delle ipotesi, poi la realtà ci ha insegnato qualcosa di diverso.
Quando le sorelle arrivarono, il piano prevedeva la costruzione di una casa per loro, da eseguirsi il prima possibile. Ricordo bene il momento in cui ricevetti una lettera da Suor Ivana, una delle tre missionarie italiane che con padre Wilson, brasiliano, e il sottoscritto formano la nostra comunità. Ivana mi scriveva: «Abbiamo deciso che non è conveniente costruire una casa indipendente, ma preferiamo costruire una piccola estensione della casa attuale e continuare a vivere insieme». Quella lettera conteneva una delle decisioni più sagge da noi prese nel corso della nostra esperienza missionaria. Viviamo in mezzo a un popolo molto semplice e povero e avere due case, con strutture complicate, non era ideale per l’ambiente in cui ci trovavamo a vivere. Una volta salvaguardati gli spazi personali, il resto si poteva provare a condividere. Eravamo convinti che il nostro modo di vivere sarebbe stato più eloquente di tante parole.
Volevamo fare un’esperienza che fosse più di un semplice lavoro in équipe; una vera e propria comunità: preghiamo insieme, pianifichiamo insieme, cuciniamo e laviamo insieme le nostre cose, condividendo ciò che appartiene alla vita quotidiana di ogni famiglia.
Facciamo tutto noi, al punto che l’unico impiegato della missione è colui che guida la barca.
Una delle chiavi del successo del nostro stare insieme è stata quella di provare a condividere da subito la nostra storia: «Chi sei tu, da dove vieni, che cosa hai fatto finora?». Questo esercizio ci ha aiutato molto, ci ha fatto arrivare al cuore l’uno dell’altra. Una delle cose molto belle di cui facciamo oggi tesoro è che quando uno di noi non c’è per una ragione o per l’altra, il resto della comunità ne sente la mancanza. Per noi hanno contato l’esperienza, l’apertura all’altro, il lavorare insieme, il voler vivere fianco a fianco ed accettarci per quello che siamo. Ci siamo resi immediatamente conto, sin dall’inizio, che avevamo dei pregiudizi reciproci, ma abbiamo avuto la forza e la saggezza di condividerli. Questo ci ha fatto sperimentare la nostra umanità e la nostra fragilità, aiutandoci a riconoscere che abbiamo ricevuto una formazione differente e veniamo da culture differenti.

Come hai vissuto da africano in quel contesto?

Ti racconto un aneddoto. Ero a Nabasanuka da circa tre mesi. In una cittadina vicino a Tucupita, dove vanno molti warao, viveva un sacerdote che io ancora non conoscevo. Un giorno ci incontriamo e lui mi dice: « Ah, tu sei K’Okal, il famoso K’Okal». «Famoso perché?». «Sai – mi risponde – sono venuti alcuni da Nabasanuka a dirmi che avevano un problema serio: era arrivato un padre negro! Al che ho chiesto loro qual era il problema, se li maltrattavi o mancavi loro di rispetto». «No No – è stata la risposta –  assolutamente. È solo che è davvero “molto” negro».
Questo popolo non aveva mai visto un sacerdote nero. Anzi, i pochi neri con cui erano entrati in contatto erano gente della Guyana, passata di lì rubando motori, comprando la loro roba per niente, sfruttandoli. Chiaro che c’era una certa repulsione nei confronti del colore della mia pelle. Oggi mi chiamano bare mekoro, padre negro, ma lo dicono con moltissimo affetto.
Credo che al di là del colore, la missione offra sempre e a tutti la possibilità di fare lo stesso tipo di esperienza.  Ciò che le persone cercano in un missionario è una persona che sappia farsi fratello nella realtà in cui vivono, accettandole, aprendo loro il suo cuore.
A livello personale, ti posso dire che da quando sono arrivato a Nabasanuka sono cresciuto nella consapevolezza di essere luo, di appartenere a questa cultura del Kenya in cui sono nato e cresciuto. Questo mi aiuta non poco nel momento in cui mi relaziono con la cultura indigena. Il popolo warao è stato sfruttato, da sempre, anche a livello culturale e l’autostima di molti è finita sotto i tacchi. Un giorno ero in città, in banca, quando improvvisamente mi sono imbattuto in una donna warao che conoscevo; era una professionista, oggi deputata dipartimentale. Pensando di farle un piacere mi sono avvicinato e le ho rivolto la parola con il poco warao che avevo appreso e lei, acidamente, mi ha redarguito per averle parlato nella sua lingua in pubblico, in città. Le provocava vergogna. Questa è stata un’esperienza che mi ha nel contempo ferito e fatto riflettere. Vorrei che la gente indigena si sentisse fiera, orgogliosa e felice di essere ciò che è. Per questo mi sento luo e sono contento di esserlo, di tornare a casa e poter parlare la mia lingua, leggerla, usarla nella liturgia.
Il mio sentirmi tale ha fatto sì che oggi possa dire loro che è possibile imparare lo spagnolo, l’inglese, ciò che si vuole, senza perdere ciò che è proprio e, anzi, sentendosi orgogliosi di ciò che per cultura ti appartiene.
Se non aiutiamo queste culture a conservarsi, possono rapidamente perdersi. In un ambiente, come quello indigeno, il ruolo del missionario è estremamente delicato. Io credo che se un domani si dovesse perdere la cultura del popolo a noi affidato, Dio ce ne chiederà conto. Un politico può visitare frequentemente una comunità al fine di conquistae il voto, può anche costruirsi una casa in mezzo ad essa, ma il suo modo di vivere sarà sempre distinto da quello della gente. Il missionario può avvicinarsi di più al cuore vitale di un popolo perché è stato inviato a condividere con esso la Parola di Dio, e anche la sua stessa vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




La cittadella della salute

Una cardiologa all’ospedale di Ikonda

L’ospedale di Ikonda  è una delle opere più care ai missionari della Consolata in Tanzania.
Ad esso hanno dedicato passione e competenza molti missionari e missionarie della Consolata e tantissimi volontari da ogni parte d’Italia, e non solo. Anna Gennari, cardiologa, è una di questi volontari. Scopriamo l’ospedale con i suoi occhi.

La prima impressione che ho provato arrivando all’ospedale di Ikonda è stata di meraviglia: nonostante avessi parlato con diversi medici che erano già stati là e avessi visto la documentazione  fotografica non ero davvero  preparata a quello che ho trovato. Dopo due giorni di viaggio, in mezzo a una regione bellissima, ma poverissima, che vive di agricoltura di sussistenza e un lungo percorso su una strada sterrata attraverso villaggi privi di acqua ed energia elettrica, davanti ai miei occhi è apparsa una struttura nuova, perfettamente curata e pulita con prati verdi, piante e fiori e vialetti di ghiaia. Al nostro arrivo ci riceve Padre Sandro Nava, anima e amministratore dell’ospedale, con una piccola festa di benvenuto.
L’ospedale, una struttura bianca ad un piano, è nuovissimo e perfetto sia come costruzione che come manutenzione; ha 270 letti per i ricoverati che, in certi periodi, possono diventare anche più di 300! All’ingresso un servizio di accettazione, svolto dalle infermiere che effettuano un primo triage (smistamento/selezione), e  controllano frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura di tutti i pazienti, che così vengono smistati ai vari ambulatori. Anche nei momenti di maggiore affluenza (i pazienti arrivano spesso a gruppi con i pulmini di pubblico servizio e, ovviamente, senza prenotare) questo lavoro si svolge con code ordinate di persone tranquille ed educate.
con gli occhi dell’ospite
Il giorno stesso del mio arrivo sono condotta a fare un giro di tutto l’ospedale dalla dott. Manuela Buzzi, che tutti chiamano familiarmente Manu, vero pilastro dell’organizzazione. Come farmacista ella svolge il lavoro di approvvigionamento di tutti i farmaci e i materiali di consumo e li smista quotidianamente alla farmacia intea e ai vari reparti secondo le esigenze. Questo lavoro già molto impegnativo è reso più difficile da diversi problemi: la lontananza dalla fonte di approvvigionamento che è, per quasi tutto, Dar es Salaam, le pessima condizioni delle strade soprattutto nella stagione delle piogge e la precarietà organizzativa dei distributori centrali che a volte rimangono sprovvisti di farmaci o ne danno in quantità inferiore alle richieste e anche alle promesse! Si rende perciò necessario fare delle scorte a lungo termine prevedendo i consumi. Il miracolo è che non manca quasi mai niente e poiché questo è ormai risaputo dalla popolazione, chi ha bisogno di un farmaco particolare chiede all’ospedale di Ikonda invece che a Dar es Salaam!
Visito così tutti i reparti di degenza: la pediatria, la mateità, la medicina e la chirurgia per donne e uomini, le malattie infettive. Le camere, grandi a tre letti, sono separate dai bagni con acqua corrente calda e fredda (a Ikonda, durante i mesi invernali – da giugno ad agosto – fa proprio freddo, con delle belle brinate). C’è persino un reparto a pagamento con camere singole per chi se lo può permettere. Completano il tutto il blocco operatorio con due sale ben attrezzate, la grande farmacia e il laboratorio di analisi. Due corridoi sono riservati agli ambulatori, radiologia ed ecografia. All’esterno dell’edificio principale ci sono l’ambulatorio per i malati di AIDS e tutti i servizi: la lavanderia e stireria, alla centrale termica, la centrale elettrica, la produzione dell’ossigeno, la casa dei missionari della Consolata, quelle degli infermieri, dei volontari e delle suore, l’asilo, i magazzini. Appena fuori dai cancelli dell’ospedale ci sono un ostello per le gestanti che vi sono accolte se provengono da molto lontano, e un grande un edificio per alloggiare i parenti dei ricoverati che devono provvedere il cibo per i rispettivi congiunti degenti. Una piccola città insomma dove la vita scorre tranquilla e organizzata.

Subito al lavoro
Il primo giorno, durante la riunione del mattino alle 8 precise, ci sono le presentazioni e sono introdotta ai vari colleghi, medical officers e infermieri capi dei vari reparti e …inizio il mio lavoro vero e proprio. L’ambulatorio di Cardiologia ha già molte richieste perché del mio arrivo ha dato notizia anche il parroco del villaggio di Ikonda durante la messa della domenica, e perché altri tre colleghi mi hanno preceduto in questo lavoro. Mi affianca il dott. Abdon, tanzaniano, che ha già preso confidenza con i problemi di diagnosi e terapia dell’ipertensione, dello scompenso cardiaco, ce delle valvulopatie e inizia a familiarizzarsi con elettrocardiogramma ed ecografia, ma ha soprattutto un buon modo di parlare con i pazienti (ovviamente in kiswahili) ai quali traduce anche mie eventuali domande. Come tutte le persone che ho conosciuto durante il mio soggiorno a Ikonda è tranquillo e gentile in modo spontaneo, ciò che ha reso più facile il mio lavoro.
Durante la mattina, visitiamo un gran numero di persone, richiedendo, per alcune, esami supplementari (raggi-x, esami di laboratorio, …). Queste aspettano quindi di essere riviste se possibile nel pomeriggio, a volte anche il giorno dopo! Il problema del tempo è vissuto in un modo decisamente meno stressante che nel mondo occidentale. La difficoltà maggiore, soprattutto all’inizio, è affrontare delle patologie già avanzate senza documentazione di precedenti visite o esami: in effetti il ricorso all’ospedale è spesso visto come rimedio estremo di situazioni già molto gravi o per altri versi non rimediabili.
Il lavoro, specie nei primi giorni è stato intenso, ma sempre tranquillo perché a Ikonda si impara presto a non essere assillati dal tempo: si fa tutto con la necessaria calma e alla fine della giornata si trova sempre il tempo per fare una passeggiatina nei dintorni, per leggere un libro, ricevere e scrivere qualche e-mail o preparare qualche utile aggioamento di cardiologia per il personale locale che ne ha fatto specifica richiesta. La vita ad Ikonda trascorre serena, scandita dagli orari dei pasti che si consumano con i missionari e gli altri volontari che prestano la loro opera in ospedale. Dopo cena un appuntamento con le informazioni dall’Italia tramite la TV satellitare e poi una passeggiatina fino a casa sotto il magnifico cielo stellato dell’Africa .

La clinica mobile
Una mattina sono uscita con la clinica mobile: una fuoristrada con due infermiere che ogni giorno del mese visita un diverso villaggio della regione per un controllo dei bambini fino a cinque anni di età e delle loro mamme. Il viaggio, su strade sterrate piuttosto accidentate, richiede da una a due ore. Nel villaggio di tuo visitato si radunano tutte le mamme con i loro bambini che sono visti e pesati, mentre le mamme, riunite poi in un locale-consultorio, ricevono indicazioni sull’alimentazione e l’igiene. I nati da donne sieropositive sono seguiti secondo un preciso protocollo di controlli e sono registrati in un apposito libro. Il legame tra l’ospedale e le esigenze della popolazione è molto stretto, e il servizio sanitario offerto non viene somministrato dall’alto, ma è partecipato e apprezzato da tutta la popolazione. Durante la clinica l’atmosfera è serena e festosa: le mamme chiacchierano mentre i bambini giocano tutt’intorno.
Vi voglio raccontare un piccolo episodio che aiuta a capire la situazione: un pomeriggio, guidati dalla Dott. Manuela, siamo andati a visitare l’ospedale Regionale di Machete, organizzato e finanziato dal governo Tanzaniano, a circa 1 ora e mezza di strada. La sensazione è stata quella di abbandono e degrado, con pochissimi ricoverati di cui quattro puerpere. Chiediamo di fotografarle e loro acconsentono, ma chiedono di avere una copia della foto. Manuela dice: “Certo, ma dovete venire a prenderla a Ikonda” e una di loro: “Verrò la prima volta che sono ammalata!”.
La Tanzania gode di una situazione politica stabile e senza guerre da molti anni e la popolazione ha un atteggiamento veramente riconoscente nei riguardi di tutti coloro che si prodigano per la loro salute; un misto di gentilezza, rispetto e riconoscenza che rende più lieve il compito di fare i medici e più difficile il momento del commiato… molti (volontari) infatti tornano perché lasciano là un pezzetto di cuore.

Anna Gennari

Anna Gennari




Il potere, prima di tutto

Costa d’Avorio: la battaglia di Abidjan

Due presidenti, due primi ministri, due governi, 179 morti e centinaia di feriti, violazioni massicce dei diritti umani. Il paese che era il più prospero dell’Africa dell’Ovest è di nuovo in balia della stupidità dei suoi dirigenti. Laurent Gbagbo, al potere da 10 anni, ha perso le elezioni ma non vuole passare la mano.

Guerra civile o riconciliazione nazionale? La Costa d’Avorio sta camminando sul filo del rasoio. Le elezioni del 28 novembre, che avrebbero dovuto porre il sigillo su un decennio di instabilità politica e sociale, non sono riuscite ad aprire una transizione democratica. Il risultato ottenuto è il caos, con i due candidati, Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara, che si proclamano vittoriosi. Una comunità internazionale che appoggia apertamente Ouattara. Il rischio di sanzioni da parte di Francia e Stati Uniti. Le forze armate che sostengono Gbagbo e gli ex ribelli del Nord che appoggiano Ouattara. Ma da dove nasce questa crisi? E quali sono state le cause scatenanti?

Gbagbo e la Francia
Tutto ha origine nel 2000. «In quell’anno – spiegano alcuni osservatori ivoriani – il generale Robert Guei, che aveva perso le elezioni, non si rassegnava a lasciare la scena e voleva mantenere il potere a tutti i costi. I sostenitori di Laurent Gbagbo, allora sfidante, scesero per strada, sostenuti dalle forze armate, per impedire la vittoria di Guei». Laurent Koudou Gbagbo sale quindi al potere. Nato da una famiglia di etnia bété a Gagnoa il 31 maggio 1945, professore di storia all’università di Cocody-Abidjan, successivamente diventa preside della facoltà di Lingue e culture. Nel 1982 entra in politica fondando il Fronte popolare ivoriano (Fpi). Sono gli anni del potere quasi assoluto del presidente-padre della patria Félix Houphouët-Boigny, sostenuto massicciamente dalla Francia, l’ex potenza coloniale, che in Costa d’Avorio mantiene forti interessi commerciali. Nel 1985, il presidente costringe Gbagbo all’esilio (che terminerà solo nel 1988). Gbagbo partecipa alle elezioni presidenziali del 1990, ricevendo però solo l’11% dei voti. Ci riprova nel 2000 e il consenso popolare premia il suo programma che vuole rompere con il passato.
Quali sono gli elementi di novità introdotti da Gbagbo? A differenza dei suoi predecessori, Gbagbo, che è un leader nazionalista fortemente legato alle etnie del Sud, non fa nulla per compiacere la Francia. È significativo il fatto che la sua prima visita all’estero sia stata in Italia e non in Francia. Ciò ha irritato moltissimo Parigi. Oltre al fatto che Gbagbo cerca nuove alleanze sia a livello politico sia a livello economico (guardando con interesse a nuovi partner tra i quali Stati Uniti e Cina). Questa «indipendenza» non può essere accettata da Parigi che, tra gli anni Novanta e Duemila, non ha ancora rinunciato alla politica egemonica sull’Africa occidentale.

La ribellione
La politica di Gbagbo non scontenta solo la Francia, ma anche il Nord del paese (e le sue etnie) sempre più relegato ai margini della vita politica nazionale e discriminato dal Sud egemone. Così, il 19 settembre 2002, ribelli delle regioni settentrionali tentano di rovesciarlo. Il golpe fallisce e si trasforma in una rivolta. La versione, diffusa da alcuni giornalisti francesi e dai sostenitori di Gbagbo, parla di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un potere politico nazionalista e intellettualmente autonomo. La versione ufficiale francese è invece di soldati ribelli che tentano di conquistare Abidjan, Bouaké e Korhogo. Non riescono a prendere Abidjan, ma hanno successo nelle altre due città. Il paese si spacca: il Sud controllato dai governativi, il Nord dai ribelli.
Dopo alcuni mesi di combattimento viene raggiunto un primo accordo tra le parti che prevede l’arrivo dei peacekeeper francesi a controllare la linea del cessate il fuoco.
Dopo altri tentativi di accordo, lo stallo si rompe solo nel 2007 con la firma a Ouagadougou (Burkina Faso) di un’intesa che prevede il disarmo dei ribelli, il loro arruolamento nelle forze armate ivoriane e, soprattutto, nuove elezioni. Secondo l’accordo, Gbagbo deve rimanere in carica (i ribelli ne avevano chiesto la destituzione), ma con un nuovo governo di unità nazionale guidato da un primo ministro «neutrale»: il leader della ribellione Guillaume Soro.
I rapporti tra Gbagbo e la Francia intanto continuano a deteriorarsi. All’inizio di novembre del 2004, in seguito al rifiuto di abbandonare le armi da parte dei ribelli, Gbagbo ordina raid aerei contro le loro basi. Durante un attacco a Bouaké, vengono uccisi nove soldati francesi. Il governo ivoriano dichiara che si tratta di un errore, ma i francesi sostengono sia stato voluto e distruggono gran parte delle forze aeree militari ivoriane.

Il rivale Ouattara
Il mandato di Gbagbo scade nel 2005, ma viene più volte prorogato. E quindi anche le elezioni vengono rimandate. Le parti non riescono a trovare un’intesa sui criteri per il riconoscimento della cittadinanza ivoriana, requisito indispensabile per potersi iscrivere alle liste elettorali. I sostenitori di Gbagbo sono a favore di criteri restrittivi del riconoscimento della cittadinanza, nel tentativo di limitare l’accesso alle ue della gente del Nord, in gran parte musulmani di origine burkinabè (arrivati in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao e di caffé) o di etnie diverse da quelle che abitano le regioni meridionali. Tra molti dissidi, la registrazione degli elettori viene portata a termine quest’anno e le elezioni vengono fissate il 31 ottobre. Il primo tuo ha visto il successo di Laurent Gbagbo (38,3%) seguito da Alassane Ouattara (32,1%) che così hanno avuto accesso al ballottaggio, tenutosi il 28 novembre. Al terzo posto, l’ex presidente Henri Konan Bedié (25,2 %), ora alleato di Ouattara.
Alassane Dramane Ouattara, 68 anni, è un politico ivoriano di lungo corso. Nominato primo ministro dal presidente Félix Houphouët-Boigny è rimasto in carica dal 1990 al 1993 (assumendo per alcuni mesi gli incarichi presidenziali in sostituzione del presidente malato). Dopo la morte di Houphouët-Boigny, Ouattara ricopre ruoli prestigiosi prima al Fondo monetario internazionale (Fmi) e poi alla Banca centrale dell’Africa occidentale (Bceao), istituzioni per le quali aveva già lavorato negli anni Ottanta. Ma non tralascia la politica. Nel 1994 aderisce al Rassemblement des Républicains (Rdr), un partito che ha la sua base elettorale fra le etnie del Nord. Ma Ouattara paga cara la sua provenienza e il suo essere rappresentante delle regioni settentrionali. Per evitare la sua elezione, infatti, il rivale Henri Konan Bedié promuove una modifica della Costituzione che impedisce di candidarsi a chiunque non sia figlio di entrambi i genitori ivoriani. Il padre di Ouattara non ha origini ivoriane. Per questo motivo Alassane non riesce a candidarsi né nel 1995 né nel 2000. Di fronte alla ribellione del 2002, va in esilio in Francia, da dove toerà nel 2006.
Arroccato al potere
La sua candidatura alle presidenziali del 2010 mette in serio pericolo la rielezione di Gbagbo. E, infatti, i primi risultati delle elezioni del 28 novembre, resi pubblici il 3 dicembre dalla Commissione elettorale (l’organismo che ha gestito tutta la consultazione), danno la vittoria proprio a Ouattara (51,4%) con Gbagbo sconfitto (48,6%). Ma poche ore dopo la pubblicazione di questi risultati, il presidente del Consiglio costituzionale (organo supremo al quale la Costituzione ivoriana affida il compito di valutare la validità delle elezioni), Paul Yao N’Dre, un fedelissimo di Gbagbo, annulla il voto in alcune regioni settentrionali. Secondo i giudici, in queste zone, i sostenitori di Ouattara avrebbero impedito a quelli di Gbagbo di votare.
«È vero – spiega un commentatore ivoriano – ci sono stati casi in cui i sostenitori di Ouattara hanno impedito a quelli di Gbagbo di esercitare il voto. E gli osservatori inteazionali hanno registrato queste violazioni. Però, come ha fatto notare Choi, il rappresentante del Segretario generale dell’Onu, anche se tutte le contestazioni presentate da Gbagbo fossero riconosciute valide, non sarebbero in grado di invalidare il secondo tuo e di rovesciare gli esiti delle ue».
Gbagbo comunque si proclama vincitore e sabato 4 dicembre giura nelle mani del presidente del Consiglio costituzionale. Ouattara fa lo stesso e giura solennemente in una cerimonia che si è tenuta all’Hotel du Golf, un prestigioso albergo di Abidjan (dove Ouattara risiede, protetto dai caschi blu dell’Onu).
Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) riconoscono la vittoria di Ouattara. Lo stesso fa la Francia e gli Stati Uniti.

Crisi
La tensione sale alle stelle. Si registrano ben presto scontri tra i sostenitori dei due presidenti. Almeno 179 morti e centinaia di feriti in pochi giorni.
Mentre l’Alto commissariato ai diritti umani dell’Onu denuncia violazioni massive e casi di rapimenti nottui e uccisioni selettive, ad opera delle Forze di difesa e di sicurezza (Fds), corpo militare fedele a Gbagbo.
Nei giorni successivi la pressione internazionale su Gbagbo diventa forte. Da più parti il presidente viene invitato a lasciare il potere. In un’intervista rilasciata venerdì 10 dicembre al quotidiano pubblico (a lui vicino) Frateité Matin, Gbagbo apre a un possibile dialogo con l’avversario: «Se c’è un problema bisogna sedersi e parlare». Una dichiarazione che può essere interpretata come un’apertura nei confronti di Ouattara.
In questo senso lavorano anche i rappresentanti religiosi. Tre arcivescovi guidati dal presidente della Conferenza episcopale, monsignor Joseph Aké, si sono recati da Gbagbo invitando a lasciare spazio ai negoziati. Esponenti musulmani e di altre fedi hanno seguito la stessa strada sottolineando che nessuno vuole che il Paese precipiti nuovamente in un conflitto interno.
Economia in difficoltà
La prima vittima di questa crisi politica è il sistema economico. Già duramente messa alla prova dalla rivolta del 2002, l’economia ivoriana stava lentamente riprendendo. Il tasso di crescita del Pil era aumentato del 3,6% dal 2008 al 2009. Nei primi giorni di dicembre, però, l’esito incerto delle elezioni (che ha causato un blocco decisionale e ha portato con sé anche il coprifuoco per gran parte della giornata) ha di fatto rallentato ogni attività. Il 14 dicembre 130 camion provenienti da Mali e Burkina Faso (paesi senza sbocco al mare e che si servono dei porti ivoriani) erano fermi al porto di Abidjan in attesa che le merci venissero scaricate e imbarcate sui mercantili. I negozi, ma anche le banche, gli uffici e molte fabbriche erano chiuse o marciavano a rilento. I prezzi di molti beni di prima necessità sono aumentati del 50%. Anche il settore del cacao (che rappresenta il 40% delle esportazioni e il 10% del Pil), già in difficoltà per la disorganizzazione della filiera e la corruzione dilagante, ne sta risentendo. L’incertezza politica rischia di far chiudere molte aziende e di allontanare gli investimenti stranieri.
Il 20 dicembre l’Unione europea dà seguito all’ultimatum e decide sanzioni contro Gbagbo, sua moglie Simone, e persone a loro fedeli, tra cui il presidente del Consiglio costituzionale e il direttore della Radio Televisione e alte cariche dell’esercito.
Si attende una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo della missione Onuci (10.000 caschi blu e 900 francesi), che l’auto proclamato presidente Gbabgo vuole mettere alla porta.

Enrico Casale

Enrico Casale




Haiti: la voce della società civile

Il libro

Pezzo d’Africa nei Caraibi, Haiti è la prima repubblica «nera» indipendente del mondo. Ma questo primato l’ha sempre pagato caro. Ancora oggi, c’è chi vuole negarglielo. Esce in Italia il primo libro-testimonianza di questo popolo. Tre domande agli autori.

Perché questo libro?
«Sui mass media italiani (ma anche stranieri) a parte rare eccezioni, non si è mai presentato il punto di vista degli haitiani di fronte alla tragedia del 12 gennaio 2010. Le testimonianze erano sempre quelle del cornoperante, del funzionario delle Nazioni Unite o del missionario. Noi abbiamo voluto invertire questo schema.
L’idea è stata quella di mettere in luce le caratteristiche del popolo haitiano e sottrarre al lettore lo stereotipo di un popolo sfortunato che può vivere solo con l’aiuto delle grandi potenze. Per far questo si presenta il punto di vista di personaggi, leader, della società haitiana a diversi livelli. Vogliamo far conoscere Haiti attraverso una lente diversa: quella di un paese che rinasce dalla popolazione locale che vi abita e ne è la linfa vitale. Mostrae il vero volto facendo parlare gli haitiani che vogliono essere protagonisti di questa ricostruzione: sociologi, intellettuali, artisti, donne impegnate nei movimenti femminili, politici, giornalisti, religiosi, personalità del mondo vudù, leader contadini. Di fatto sono loro che “scrivono” il libro».

Parlando di Haiti si pensa a terremoto, uragani,
colera. Calamità di ogni genere. Non viene in mente che ci possa essere una società civile organizzata.
«Ad Haiti i movimenti sociali, sono stati fondamentali in alcune fasi della storia. Intendiamo il movimento contadino, quello femminista e quello operaio, le associazioni per la difesa dei diritti umani, i media indipendenti, e molti altri. I movimenti degli anni ’70-’80 riuscirono a cacciare il dittatore Duvalier e a portare un loro membro a capo del paese. Fu un caso molto significativo a livello di America Latina, di uno Stato in cui il potere era diventato emanazione della base. Ma anche un esempio troppo “scomodo” per i vicini Stati Uniti. Questa esperienza fu repressa nel sangue e si fece di tutto per indebolire la società civile haitiana.
Oggi assistiamo a una tragedia dopo la tragedia. La comunità internazionale, Usa in testa, con la “scusa” della ricostruzione sta mettendo il futuro del paese sotto tutela. Gli sta, di fatto, rubando l’indipendenza. E il popolo haitiano rischia, ancora una volta, di restare escluso anche dai piani per il proprio sviluppo. Ma la società civile fa sentire la sua voce e noi siamo andati a raccoglierla».

Una parte del libro è consacrata agli haitiani in Italia. Qual è il loro peso nel processo di ricostruzione?
«Gli haitiani qui da noi non sono molti. Ma, per loro caratteristica, sono molto legati al paese di origine. In questa fase di ricostruzione, la diaspora (come si fanno chiamare) può essere fondamentale per un appoggio economico e intellettuale. Certo i numeri importanti sono gli haitiani di Stati Uniti, Canada e Francia. Ma gli haitiani d’Italia si sono subito attivati con sensibilizzazioni sul paese e raccolte fondi per dare assistenza. È una realtà, quella dei migranti, che fa parte della nostra società, ma allo stesso tempo ci permette di capire meglio anche paesi così lontani come Haiti».

Dalla prefazione
«Questo libro ci porta in mezzo agli haitiani, ad ascoltare la loro voce, le loro visioni sulla ricostruzione o “rifondazione” del Paese e della società. Le “forze vive” della nazione chiedono di partecipare alla definizione del futuro, ma questo diritto viene loro sottratto dai grandi della terra grazie alla complicità del governo haitiano. Ascoltare queste voci ci porterà a creare un legame di solidarietà con questo popolo, per andare oltre la carità» .
Maurizio Chierici

Marco Bello, Alessandro Demarchi, Haiti, l’innocenza violata. Chi sta rubando il futuro del Paese? ,
Infinito Edizioni, Roma, 2011, € 13,00.
www.infinitoedizioni.it.




Il formaggio di malga khizabavra

Una storia di cooperazione partita dal palato

Isolata e senza prospettive la zona si era spopolata. Poi, nel 2005, Temur e Nana pensarono che con le mucche e i pascoli avrebbero potuto cambiare il presente e il futuro di Khizabavra.
Con l’aiuto dei missionari camilliani, della Caritas e di alcuni esperti venuti da Belluno è nato un caseificio che produce un formaggio apprezzato da tutti: cattolici e ortodossi, georgiani, armeni e italiani. 

Il Javakheti è un altopiano che si estende dal confine armeno-turco fino alla valle del Mtkvari, il principale corso d’acqua della Georgia. Il fiume scorre in un ampio corridoio inciso nell’altopiano, le cui pareti, le coste dei monti, salgono dapprima assai ripide per poi bruscamente distendersi in ampie praterie. La strada che porta a Khizabavra sale erta fino a raggiungere il limite di questa balza da dove la vista si spalanca sul pianoro, in fondo al quale si scorge il borgo raccolto intorno alla chiesa. Qui gli abitanti sono georgiani, ma se si sale ancora, addentrandosi nell’altipiano, s’incontrano villaggi interamente armeni. La convivenza tra i due gruppi etnici non è mai stata semplice. Da secoli georgiani e armeni si contendono primati culturali, artistici, religiosi, nonché la terra, su cui hanno sempre vissuto insieme.  
Le rivalità etniche, rimaste sopite sotto il regime sovietico, si sono risvegliate con l’istituzione della repubblica indipendente di Georgia, quando gli armeni del Javakheti si sono sentiti, e non del tutto a torto, cittadini di seconda categoria. Sono nati partiti politici che chiedevano maggiore autonomia dal governo centrale, il quale, dal canto suo riservava poche attenzioni a questo territorio isolato e arretrato. Fortunatamente, a differenza di Abkhazia e Ossezia, le aspirazioni irredentiste non hanno portato a un conflitto armato, sebbene le condizioni per una secessione ci fossero qui molto più che altrove. Il Javakheti, infatti, non solo confina con l’Armenia, ma è abitato per il 95% da armeni.

L’ARRIVO DEI CATTOLICI
La fine del regime comunista ha creato le condizioni per una rinascita religiosa in tutto il territorio dell’Urss, e la Georgia non ha fatto eccezione. Nel paese c’è una presenza cattolica non numerosa ma di vecchia data. Negli anni Novanta cominciarono ad arrivare i primi sacerdoti cattolici per prendersi cura delle comunità di fedeli che stavano riorganizzandosi e tentando di riaprire le chiese rimaste chiuse per decenni.
Sebbene la Georgia sia un paese tradizionalmente cristiano ortodosso, i rapporti con il mondo cattolico nei secoli sono stati generalmente non conflittuali, e in certi periodi, apertamente amichevoli. Così in disparte com’era rispetto al teatro delle dispute teologiche che occuparono i cristiani nel corso del primo millennio, la Georgia non ha vissuto il dramma della frattura tra le chiese d’Oriente e d’Occidente, consumatosi con lo scisma del 1054. Solo nel XIII secolo prese coscienza che era avvenuta una separazione tra la sua chiesa e quella di Roma, ma nessun atto ufficiale la sancisce. I missionari cattolici erano accolti con benevolenza dai signori georgiani, che, tra l’altro, speravano di ottenere dall’Occidente cattolico un aiuto contro i più potenti vicini musulmani; aiuto che non giunse mai.
Francescani e domenicani furono i primi ad arrivare in Georgia proprio nel XIII secolo. Nel 1329 fu istituito a Tbilisi (capitale della Georgia) il vescovato cattolico. Nel XVII secolo anche i teatini e i cappuccini fondarono proprie missioni nel paese. Intoo ad esse si crearono piccole comunità cattoliche che sono giunte fino a noi, attraverso secoli di dominazione musulmana e settant’anni di ateismo di stato. Queste comunità erano rimaste senza pastori durante il periodo sovietico, per cui, non appena fu possibile, furono inviati loro sacerdoti dall’Europa. Vi arrivarono gli stimmatini da Verona e i camilliani dalla Polonia. Ai polacchi la Santa Sede ha tradizionalmente affidato la cura dei fedeli cattolici nei paesi dell’area ex sovietica, contando sulla loro conoscenza del russo, che ha continuato a essere lingua di comunicazione anche dopo il crollo dell’Urss. La scelta degli italiani si spiega, invece, per le evidenti affinità di carattere che esistono tra i due popoli.

I CAMILLIANI E PADRE PAATA
La presenza cattolica in Samtskhe-Javakheti è concentrata in alcuni insediamenti: ad Arali, Vale, Ude, Khizabavra e Vargavi. Khizabavra fu affidata ai camilliani. Il primo fu padre Pawel Szczepanek nel 1997. Lui e i suoi confratelli, che nel frattempo avevano aperto una missione permanente aTbilisi, si dovettero rimboccare le maniche. Si trattava di ricominciare quasi da zero un’attività pastorale dopo decenni di vuoto totale.
Sotto il regime comunista la chiesa cattolica, costruita nel 1898 dall’architetto Varzelashvili, era stata chiusa e adibita a deposito, la casa parrocchiale era diventata un distaccamento della scuola locale. Adesso gli edifici non recano più le tracce del triste passato sovietico. La casa parrocchiale ha ripreso la sua funzione originaria ed è stata completamente ristrutturata. La grande chiesa in cima al villaggio è fresca di pittura. Un busto a Varzelashvili, il cui figlio fu fucilato nel 1937, è stato posto nel giardinetto accanto alla scuola. Caritas Georgia ha aperto un ambulatorio, dove si possono ricevere gratuitamente assistenza e farmaci, i camilliani hanno costruito un asilo per circa settanta bambini.
Molto più difficile, però, si è dimostrato ricostruire una vita di comunità. I fedeli dovevano riprendere pratiche di culto abbandonate da decenni senza sacerdoti che parlassero la loro lingua. Ai camilliani toccò imparare il georgiano e dedicarsi al catechismo, alla formazione dei giovani, all’attività pastorale con adulti e anziani, in attesa che i primi seminaristi locali terminassero gli studi e potessero sostituirsi a loro. Ora a Khizabavra c’è finalmente un sacerdote georgiano, padre Paata.
Sembrerebbe, dunque, che ormai non rimanessero più ostacoli alla rinascita di una piena vita religiosa. Paradossalmente, però, il senso di appartenenza alla chiesa, sopravvissuto all’ostracismo e alle persecuzioni riservate alla religione sotto il comunismo, in questi due decenni di libertà si è andato dissipando. Ora che il culto è tornato libero, ad esempio, ci sono tanti che scelgono di non battezzarsi.
Padre Paata vede le ragioni di tale scelta in parte nelle difficoltà economiche: mancano i soldi per fare una festa come si deve, secondo i grandiosi criteri locali; in parte nel timore di avere problemi con gli ortodossi in quanto cattolici.
Se pensiamo che in Georgia cristiani ortodossi e cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto in pace per secoli, raro esempio di tolleranza in epoche in cui tale virtù era poco praticata, si può dire che la fase attuale costituisce una rottura col passato. Il dopo Urss si è inaugurato con lo slogan «la Georgia ai georgiani». Un esasperato nazionalismo è stato iniettato nel sangue degli abitanti di questa terra generosa.  Questo nuovo corso ideologico ha fatto dell’Ortodossia la bandiera della rinascita nazionale. Essere georgiani s’identifica con l’essere ortodossi; per questo motivo oggi in Georgia l’unica chiesa riconosciuta e ufficialmente registrata dallo stato è quella ortodossa.

LA CRISI
All’indomani della fine del sistema sovietico i georgiani si sono trovati a fare i conti anche con una gravissima crisi economica. In Samtskhe-Javakheti, area prevalentemente rurale, le occupazioni tradizionali sono agricoltura, allevamento e produzione di latte. Negli anni Novanta la chiusura totale, o parziale, delle imprese alimentari e l’interruzione del sistema distributivo ebbero come conseguenza un drastico calo della produzione agricola e un declino nel numero degli animali.
La crisi cominciò a spingere molte persone fuori dei villaggi, della regione, o addirittura del paese. «Un tempo qui c’erano 300 famiglie, ora saranno al massimo 250. Molte case sono rimaste vuote», spiega padre Paata, «perché le persone si sono trasferite in città, o sono espatriate in cerca di lavori più remunerativi. A Vargavi, un villaggio a qualche chilometro da qui, sono rimasti solo in venticinque. Tutti anziani».
Sono arrivata a Khizabavra una domenica di fine agosto, giusto in tempo per assistere alla liturgia nella chiesa, tutta ridipinta e spaziosa ma semivuota. I fedeli erano in prevalenza bambini e ragazze, che sostenevano i canti. C’era anche qualche anziano. Gli uomini avevano preferito riunirsi a pochi passi dalla chiesa, sotto il grande albero accanto alla fontana, evidentemente un punto di ritrovo. Chiacchieravano o giocavano a carte. È il loro modo di svagarsi nel giorno di festa.
Tra di loro ce n’erano alcuni trasferiti in città e tornati al paese natale solo per qualche giorno di vacanza. Sono considerati fortunati perché sono riusciti a ottenere condizioni di vita più agevoli.  Gli «sfortunati» sono rimasti a lavorare nei campi o con gli animali. È una vita dura, perché il lavoro deve essere fatto quasi senza l’ausilio di macchine, troppo costose per essere acquistate da un singolo.  Così, chi può se ne va e chi non può tira avanti senza troppa convinzione, limitando il lavoro agricolo a una pura attività di sussistenza.
Questo decadimento dell’agricoltura ha portato a uno dei paradossi più sorprendenti dell’economia georgiana: un paese che sembra benedetto dal cielo per il suo clima e per la fertilità della terra, dove l’industria alimentare e conserviera dovrebbe prosperare, si rifornisce di frutta e verdura in gran parte dalla vicina Turchia. In piena estate le massaie di Tbilisi si lamentano di non riuscire più a trovare sul mercato pomodori e cetrioli nostrani, ma solo quelli turchi, fibrosi e insapori.
Con le loro ampie praterie gli altopiani dello Samtskhe-Javakheti sono luoghi ideali per il pascolo. Vi cresce un’erba fitta, succosa, ricca di fiori odorosi. Ai tempi sovietici alla comunità di Khizabavra furono date in dotazione una porzione di pascolo e una malga quasi al confine con la Turchia, dove nei mesi estivi venivano portate le mucche del kolkhoz, l’azienda agricola statale che raggruppava gli allevatori del villaggio. Vi si faceva il tradizionale formaggio georgiano, il suluguni, non stagionato e conservato in salamoia. Anche quest’attività non aveva retto alla crisi generale. Quando il kolkhoz era stato privatizzato e il suo patrimonio distribuito tra gli allevatori, costoro avevano cominciato a vendere le proprie mucche e la montagna si era andata vuotando.
Questo processo sembrava inarrestabile quando Temur e sua moglie Nana decisero di investire le proprie risorse per riprendere la produzione di formaggio. Non avevano molta esperienza in materia, ma avevano un sogno, maturato vedendo i compaesani lasciare le proprie case e non farvi più ritorno: ripopolare la montagna e riportarvi le attività tradizionali di modo che la gente avesse lavoro e potesse restare. Per far ciò, però, le loro risorse non bastavano. Bisognava incrementare gli animali, pagare l’affitto dei pascoli, ristrutturare la malga in rovina. Ne parlarono con padre Pawel Dyl, il camilliano che aveva preso il posto del primo, compianto, padre Pawel, morto in un incidente stradale nel 1999.

GLI UOMINI VENUTI DA BELLUNO
Il progetto appariva interessante: non solo avrebbe creato lavoro e fatto rivivere un’economia rispettosa del territorio, ma parte della produzione di formaggio sarebbe stata destinata all’asilo di Khizabavra e alle mense dei poveri gestite dai camilliani e da Caritas Georgia nelle città. Il sacerdote si offrì di aiutarli e si mise alla ricerca di uno sponsor. Approdò nel Bellunese, terra con una lunga tradizione nella gestione dei pascoli e nella produzione di formaggio. Caritas Belluno non era contraria a finanziare un progetto di sviluppo in un territorio che presenta caratteristiche simili a quelle della montagna dolomitica e inviò in Javakheti due esperti del Gruppo di Azione Locale Alto Bellunese.
«Non dimenticherò mai come avvenne in nostro primo incontro», racconta Temur. «Finalmente eravamo riusciti a portare alla malga gli italiani e dovevamo conquistare la loro fiducia, dimostrare quanto eravamo capaci di fare. Padre Pawel si era raccomandato di non fargli fare brutta figura ed eravamo tutti in tensione. Si trattava di far vedere come facevamo il formaggio. Mentre eravamo attorno al pentolone di latte che stava sul fuoco, si avvicina il nostro aiutante Sasha, con mani e braccia sporche fino al gomito, perché aveva tentato di aggiustare un vecchio trattore che non partiva. Alza un mignolo e lo immerge nel pentolone. “Non ci siamo ancora”, commenta, e torna al suo lavoro.
Sprofondai nello sconforto. Ora tutto è perduto, pensai, gli italiani non vorranno più sapee di noi e del nostro formaggio. Osservai le loro facce, pensando di trovarvi disappunto, ma vi lessi stupore. “Perché l’ha fatto?”, mi chiesero. “Per misurare la temperatura del latte”, spiegai. Scoppiarono in una fragorosa risata: “150 anni fa nelle nostre montagne non usavamo già più questo metodo!”, esclamarono. Questo episodio li convinse che dovevano assolutamente darci una mano».
Fu così che iniziò una felicissima collaborazione per la produzione di un formaggio molto speciale: il lavoro, i pascoli e il latte, sono georgiani, la tecnologia e la «ricetta», italiane. Molto è stato fatto da quel giorno del 2005, con gli sforzi di tante persone, in primo luogo di coloro che lavorano alla malga e dei due italiani, Luigi Pellegrini e Battista Attorni, che ogni anno vi trascorrono parte delle loro vacanze, controllano la qualità della produzione, si portano via un po’ di latte da analizzare. Ci sono, poi, la Caritas di Belluno-Feltre, le fondazioni Cariverona e San Zeno che hanno sponsorizzato il progetto, Caritas Georgia che segue la logistica e la parte amministrativa. Tanti sforzi che incominciano a dare i loro frutti.
Ora a 2.000 metri sull’altipiano c’è un piccolo caseificio, dotato di macchine italiane e organizzato secondo i migliori criteri d’igiene e sostenibilità. D’altra parte, è la natura stessa del luogo che spinge gli uomini a razionalizzare il più possibile il lavoro. Troppo impegnativo, e costoso, trasportare i bomboloni del gas su per l’orribile mulattiera: così si è pensato di sfruttare il salto d’acqua del vicino ruscello per produrre elettricità. L’operazione, in cui avevano fallito gli ingegneri chiamati da Tbilisi, è finalmente riuscita a un armeno del villaggio vicino, privo di diplomi ma vivo d’ingegno. Il prossimo passo sarà produrre combustibile biologico, utilizzando il letame che si accumula nella stalla.
Nel 2010, i due italiani hanno chiesto a Temur di anticipare la fienagione, che di solito nell’altopiano avviene a fine agosto, alla fase di prefioritura delle piante, quando il loro contenuto nutritivo è maggiore.  Se si migliora la qualità del fieno, dicono, gli animali si svilupperanno meglio e produrranno più latte. Così è stato fatto. Quando a fine agosto ho visitato la malga ho trovato due montagne di balle di fieno già pronte per l’inverno. Bisognerà aspettare la primavera per vedere se il nuovo sistema dà buoni risultati.

FRESCO E STAGIONATO
Oltre al tradizionale suluguni, ora alla malga di Khizabavra si fa uno squisito formaggio stagionato, una novità per la Georgia, dove il formaggio è per lo più fresco. Prodotto seguendo la ricetta del signor Battista, questo formaggio è così gradito al palato, che la scorsa estate si è aggiudicato il primo premio alla fiera alimentare di Sighnaghi, un’amena cittadina della Georgia orientale. È così buono, che non ho potuto trattenermi dal fae dono ai miei amici di Tbilisi e dal mettee una forma intera nella borsa prima di rientrare in Italia.  Alla prima occasione ne ho dato un pezzetto da assaggiare a un’amica di origini valtellinesi. Vi ha subito sentito qualcosa di famigliare: «Ha dentro il sapore dell’erba, proprio come quello che un tempo ci portavano dai nostri alpeggi».
Così il formaggio di Khizabavra, alla fine, ha messo d’accordo tutti: cattolici e ortodossi, italiani, georgiani e armeni; e sono sicura che ne sarebbero conquistati anche i turchi, se solo potessero assaggiarlo.

Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Eroi e terroristi in un paese ingiusto

Indiani mapuche e minatori, facce della stessa medaglia

Seppero resistere ai Conquistatori spagnoli, oggi i mapuche sono ridotti allo stremo, dispersi, vessati. In Cile, sono imprigionati con l’accusa di terrorismo per aver difeso la propria terra e il proprio modo di concepire l’esistenza.
Da una parte i mapuche «terroristi», dall’altra i minatori «eroi», usciti vivi dalle viscere della terra. In realtà, sia gli uni che gli altri sono vittime. Delle imprese minerarie, di quelle forestali, di un sistema ingiusto. Mapuche e minatori, facce di una stessa medaglia, che in Cile alcuni hanno cominciato a scoprire…

La pallottola apparteneva ad una Winchester calibro 12 in dotazione ad un carabiniere. Si conficcò nel cranio di Edmundo Alex Lemun Saavedra1, che morì dopo 5 giorni di agonia. Era il 12 novembre del 2002. Alex aveva soltanto 17 anni. Era uno studente appartenente ad una comunità mapuche. Aveva partecipato ad un’azione di recupero territoriale: terre mapuche finite in mano all’impresa forestale Mininco (del Gruppo Matte). L’autore dello sparo mortale, un maggiore dei carabinieri, è stato assolto dalla Corte marziale. E, a tutt’oggi, la famiglia di Alex Lemun non ha ricevuto alcun tipo di indennizzo da parte dello Stato e neppure le scuse dalle istituzioni di polizia.
Jaime Facundo Mendoza Collio2 aveva invece 24 anni, mapuche con qualche anno in più di Alex ma con lo stesso tragico destino. Morì a causa di uno sparo delle Forze speciali dei carabinieri, sparo ricevuto durante un’azione di recupero di terre. Era il 12 agosto del 2009. Come per Alex, anche per Facundo le forze dell’ordine hanno affermato che la loro azione fu un atto di legittima difesa, mentre i manifestanti mapuche hanno sostenuto che essi erano armati soltanto con boleadoras3 e bastoni4.
Veniamo ai giorni nostri. È il 12 luglio 2010, quando – in (sfortunata) coincidenza con il dramma dei minatori sepolti nella miniera -, 32 detenuti mapuche iniziano uno sciopero della fame.
Nelle carceri del Cile sono rinchiusi decine di mapuche accusati in primis di «associazione illecita terrorista» (asociación ilícita terrorista), azioni per recupero di terre e furto di legname ai danni di imprese forestali o latifondisti5. In realtà, la loro colpa è di aver rivendicato o difeso la loro terra da una spoliazione continua e devastante.
A questa situazione già grave, si aggiunge l’incarcerazione di minorenni. Luis Marileo Cariqueo, un adolescente mapuche rinchiuso da 7 mesi nel carcere minorile di Chol Cholo con l’accusa di terrorismo, nel novembre 2010 scrive: «La mia lotta è per la nostra libertà, per il nostro territorio. Non faccio parte di alcuna organizzazione. Il mio modo di pensare è il prodotto dei valori e dei principi tramandati dai nostri antenati. (…) Non credo di essere un pericolo per la società. Mi considero un ragazzo eguale a tutti gli altri che vivono nella comunità e che, insieme alle proprie famiglie, lottano giorno dopo giorno per un futuro migliore»6.
La protesta estrema dello sciopero della fame viena attuata per chiedere procedimenti giusti, l’applicazione di una giustizia obiettiva ed imparziale, ma soprattutto la abrogazione della Legge antiterrorismo (18.314), risalente all’epoca della dittatura del generale Pinochet, applicata nei confronti dei prigionieri mapuche. L’applicazione di quella legge – sostengono le comunità indigene – è una grave violazione dei diritti umani dei cittadini che esercitano il loro diritto alla protesta, domandano il diritto di proprietà sulle terre ancestrali, esigono il rispetto della propria forma di vita e della propria identità culturale.
Per cercare una soluzione, interviene mons. Ricardo Ezzati, arcivescovo cattolico di Conception, che si propone e viene accettato come mediatore tra governo e prigionieri7. Dopo 82 giorni di sciopero della fame, i mapuche imprigionati mettono fine alla protesta, ma i problemi tra Stato cileno e comunità indigene rimangono tutti sul tavolo. Insoluti.
I MAPUCHE, PRIGIONIERI DELLO «SVILUPPO»
Caso unico nella storia della Conquista, i Mapuche resistettero agli spagnoli, con cui arrivarono ad un accordo firmando il Trattato di Quillin (cfr. Tabella della cronistoria). Il loro declino iniziò quando lo Stato cileno ottenne l’indipendenza dalla Spagna, avvenuta nell’anno 1818. Con la sconfitta del 1883, il territorio ancestrale delle comunità mapuche si ridusse progressivamente da circa 10 milioni di ettari a soli 500 mila.
Oggi sui territori (ex) mapuche è arrivato il cosiddetto «sviluppo»: imprese nazionali ed inteazionali stanno sfruttando quella terra senza rispetto alcuno per le comunità indigene e per l’ambiente. Boschi, laghi, fiumi, estensioni marine, sottosuolo: tutto viene sfruttato. Ci sono le imprese forestali che, dopo aver abbattuto parte dei boschi nativi, hanno dato inizio a piantagioni di pino ed eucalipto (a crescita rapida, ma con inaridimento del suolo e conseguente riduzione della biodiversità)8. Le industrie principali sono quelle appartenenti ai gruppi Angelini e Matte, grandi produttori ed esportatori di cellulosa per l’industria della carta. Ci sono poi le imprese idroelettriche (tra cui Endesa, controllata dall’italiana Enel), che stanno costruendo centrali per la produzione di energia elettrica, sfruttando l’abbondante disponibilità d’acqua dei territori mapuche. E ancora le imprese minerarie in cerca di ferro e scandio.Ci sono infine le multinazionali norvegesi del salmone d’allevamento, che hanno portato gravi problemi ambientali nelle acque frequentate dalle comunità dedite alla pesca9.
In questo quadro di «sviluppo» senza regole, la cosa più insopportabile è che le comunità mapuche non sono state consultate. Nonostante il Cile abbia ratificato la Convenzione Ilo (Oit) 169 nel 2008 e questa sia entrata in vigore il 16 settembre 200910. L’articolo 6 della Convenzione prevede che «i Govei devono consultare i popoli interessati, attraverso appropriate procedure, in particolare attraverso le loro istituzioni rappresentative, ogni volta che si prendono in considerazione misure legislative o amministrative che li possano riguardare direttamente (…)». La risposta dello Stato alla comprensibile mobilitazione delle comunità mapuche è stata ed è la repressione e il carcere.
In data 8 ottobre 2010, la «Commissione etica contro la tortura» (Comisión etica contra la tortura)11 rilascia una dichiarazione durissima. «La mobilitazione mapuche – vi si legge – ha reso evidente al mondo che in Cile non esiste uno Stato democratico, che non c’è eguaglianza davanti alla legge e che, di conseguenza, non viviamo in uno Stato di diritto, ma in uno Stato di polizia e di repressione che viene meno ai suoi stessi impegni, contratti davanti alla comunità internazionale, in materia di diritti umani».

Paolo Moiola

NOTE
1 – Amnesty Inteational, Rapporto 2003, pag. 147.
2 – Amnesty Inteational, Rapporto 2010, pag. 198.
3 – Strumento indigeno con tre palle legate da lacci di cuoio. Venivano lanciate alle gambe degli animali per catturarli.
4 – L’8 novembre 2010 il magistrato militare ha condannato il carabiniere accusato dell’uccisione a 15 anni di carcere. La Corte militare potrebbe però ribaltare la sentenza.
5 – Si veda: www.paismapuche.org.
6 – Ancora su www.paismapuche.org.
7 – In termini esatti: «Facilitador de la mesa de dialogo entre el Gobieo y los Mapuches», si veda www.arzobispadodeconception.cl.
8 – Leslie Ray, La lingua della Terra. I Mapuche in Argentina e Cile, pag. 142.
9 – Sulle imprese e sulle multinazionali operanti in territorio mapuche si legga l’opuscolo curato da Sabrina Bussani dell’«Associazione per i popoli minacciati», Bolzano, www.gfbv.it.
10 – La Convenzione Ilo 169 sulle «popolazioni indigene e tribali» è stata adottata già nel 1989. Alla data del 13 novembre 2010, era però stata ratificata soltanto da 22 paesi. Molti stati, tra cui l’Italia e la Germania, sostengono di non avere interesse a ratificarla in quanto non esistono (esisterebbero) popolazioni indigene sui loro territori, ma anche considerando valida (e non lo è) questa obiezione il numero dei firmatari è molto basso. Il 13 settembre 2007 è, inoltre, stata approvata la «Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni».
11 – Si veda: www.contralatortura.org.

Paolo Moiola




«COME UN PESCE NELL’ACQUA»

DONATA CAIRO, missionaria italiana in cile

Oggi lavora a Copiapó, nella regione cilena di Atacama, conosciuta per i suoi deserti e le sue miniere. Un tempo lavorava come operaia tessile in Puglia. Anche per questo Donata Cairo lotta e combatte per i lavoratori, siano essi minatori, raccoglitori di uva o indios mapuche. Missionaria delle «Piccole sorelle di Gesù», suor Donata non dimentica le sue origini, ma neppure il suo carisma.

In gioventù, fu operaia in un maglificio (a Ugento, in provincia di Lecce). Poi conobbe il Movimento giovanile missionario, le idee di don Tonino Bello e Carlo Carretto e la sua vita cambiò. Entrò nella congregazione delle «Piccole sorelle di Gesù di Charles de Foucauld»1. Oggi Donata Cairo, questo il suo nome, vive e lavora a Copiapó, nella regione di Atacama, in Cile. A dispetto del deserto, nei dintorni della città cilena si estendono pregiati vigneti, dove lavorano moltissimi stagionali. A pochi chilometri da Copiapó c’è poi la miniera di San José, diventata famosa in tutto il mondo per via dell’incidente che, per 69 giorni (dal 5 agosto al 13 ottobre 2010), ha imprigionato sottoterra 33 lavoratori. 
Donata appartiene ad una piccola comunità di quattro religiose, tutte di diversa nazionalità. Temperamento combattivo (nel 2008 è stata anche in carcere), la missionaria italiana ha idee molto chiare.

Donata, mentre le telecamere del mondo erano puntate sulla vicenda dei 33 minatori intrappolati a 700 metri sotto terra, in molte carceri del Cile prigionieri mapuche erano in sciopero della fame nell’indifferenza generale. Come spiegare questa diversità di attenzione?
«È vero: mentre 33 persone sopravvivevano a 700 metri di profondità, altre 34 si lasciavano morire, perché sentivano di non avere diritto di vivere con dignità… La diversità del trattamento è dipesa dagli interessi economici e politici in gioco. Però, una cosa è comune: sia i minatori sia i mapuche sono vittime di un sistema economico ingiusto. E mi spiego. Il salvataggio dei minatori è stata una cosa buonissima. Si sono utilizzate risorse economiche e mediatiche mai viste in Cile. Gli indici di appoggio al governo erano caduti ai minimi termini, per il modo come si stava affrontando la ricostruzione del dopo terremoto (quello avvenuto il 27 febbraio 2010, ndr) e lo tsunami nel sud del paese. Il riscatto dei minatori ha fatto alzare, da un giorno all’altro, questi indici. Sui minatori non si è però affrontato il problema di fondo che è quello delle condizioni lavorative e della sicurezza sul lavoro, non solo nelle miniere. Essi sono stati trasformati in “eroi” dimenticando che, in primis, sono vittime. L’evento della miniera di San José è servito anche per nascondere il conflitto con il popolo mapuche. Accettare che in Cile esista un popolo indigeno è accettare la sua identitá. E l’identità mapuche è legata alla terra: un mapuche senza terra è una persona senza identità».

Cosa sta succedendo nei territori dei mapuche, suor Donata?
«I territori mapuche sono finiti nella disponibilità delle grandi imprese multinazionali e non. Dunque, oggi le terre (tra l’altro molto fertili) sono in mano all’oligarchia e alle imprese straniere: imprese idroelettriche, industrie del legno, allevamenti di bestiame, industrie della pesca. Oltre a ciò, le terre sono ancora fortemente militarizzate e per qualsiasi “reato” si applica la legge antiterrorista emanata da Pinochet2, ma ancora in vigore. Tutto ciò è utile per alimentare la paura e scoraggiare qualsiasi intento di far valere i propri diritti. Dunque, accade che la gente mapuche lavora su una terra, che dovrebbe essere sua, alle dipendenze di altri e per salari da fame. A chi conviene che i mapuche siano i proprietari della terra? A nessuno. Anzi, spesso sono gli stessi governanti ad essere i nuovi padroni. Le leggi le fanno e le applicano loro stessi. E, si badi bene, la situazione non si è creata soltanto con questo governo di destra. Anche con i governi di centrosinistra è stato lo stesso…».

Quella dei mapuche sembrerebbe una lotta disperata, senza possibilità di successo…
«Sì, è come uno scontro tra Davide e Golia. Però, almeno per ora, gli indios l’hanno spuntata, grazie all’intervento opportuno della Chiesa, nella persona di Ricardo Ezzati, un vescovo salesiano italiano che è in Cile da quando era giovanissimo. Il problema non è stato risolto, ma si sono fatti passi in avanti. Per lo meno, non si dovrebbe applicare la legge antiterrorismo. Pensa che qualcuno ha rischiato di farsi 60 anni di carcere per essere stato accusato di aver bucato un pneumatico di un camion. Un camion appartenente ad una impresa forestale che trasportava legname preso sulla terra mapuche…».

Dopo gli anni sotto la guida della Concertación, il Cile è tornato ad essere guidato dalla destra, tra l’altro abbastanza vicina alle idee pinochetiste. Il Cile sta cambiando in meglio, in peggio o tra i due schieramenti non c’è molta differenza?
«A livello macro-economico non c’è differenza, ma per i progetti sociali, per i più poveri, sì. Questo è un governo di immagine, mostra quello che non è, è megalomane. Figurati che invece di impegnarsi in toto alla ricostruzione dopo un terremoto così devastante (9,2 gradi Richter), si vuole fare un gran monumento per ricordare l’evento. Lo stesso atteggiamento è stato tenuto per i minatori: “Li trasformiamo in eroi, teniamo il paese e il mondo intero davanti agli schermi della Tv, senza raccontare che la gente continua a morire nelle miniere a causa delle condizioni insicure sul lavoro”. E, si badi bene, le miniere non sono miniere qualsiasi, sono miniere d’oro!».

Gli organismi economici inteazionali hanno sempre indicato il Cile come il miglior paese dell’America Latina in fatto di sviluppo economico e di applicazione del sistema neoliberista. Questo ha accentuato le differenze sociali all’interno della società cilena? Ad esempio, i cittadini sono tutti eguali quando necessitano di cure mediche e di istruzione?
«I cittadini cileni hanno libero accesso ai mezzi di comunicazione modei e tutte le novitá che esistono nel mondo (cellulari, internet, apparati vari…). Hanno anche libero accesso al credito per il consumo, cioè possono andare nelle grandi catene di negozi e comprare a rate ciò che vogliono. Tutto sembra facile ed accessibile e si pubblicizza in ogni modo, ma in realtà questo è il paese piú ingiusto del mondo. Si può comprare di tutto, ma non una casa, non si possono mandare a studiare i figli alle scuole superiori e se ti ammali, puoi anche morire perché l’accesso alla salute pubblica è molto ridotto. La salute è un business, per cui è accessibile solo a chi guadagna molto. Gli operai con cui noi condividiamo la vita, vivono con 230 euro al mese, e i prezzi sono a livello europeo. Un Kg di pane costa un euro e 40. Inutile parlarti del lavoratori stagionali dell’uva da esportazione, quella che tra poco avrete sulle vostre tavole. Noi Piccole sorelle ci siamo dentro dal 1975 ed io dal 1990. Condizioni di lavoro, salari, sicurezza erano spaventose. Per questo abbiamo portato avanti una difficile lotta. Finalmente, con il governo della presidente Bachelet, siamo arrivate ad ottenere alcune “conquiste”: non ci sono più bambini che lavorano, c’è il diritto a un contratto lavorativo, abbiamo bagni e acqua potabile accessibili durante il lavoro. Tutto questo, che a voi potrebbe sembrare ovvio, a noi è costato anni di lotta».

Come descriverebbe la Chiesa cilena?
«Una volta arrivata la democrazia, si è fatta avanti l’idea che la Chiesa  non si dovesse immischiare in altre tematiche, se non quelle ad essa proprie. Diciamo che è rientrata nella sacrestia. Questo non vuol dire che la gente di Chiesa non si sporchi le mani, ma gli orientamenti generali sono diventati altri. Sono stati nominati vari vescovi dell’Opus Dei, ed altri “de bajo perfil”, come dicono qui. Ma altri – una minoranza, certo – hanno continuato con le proprie scelte. La “teologia della liberazione” è ancora valida e le comunitá di base esistono ancora. Sicuramente, questo non fa notizia, anche perché non costituisce il tragitto principale.
Attualmente sembra che ci sia però un risorgere delle posizioni profetiche della Chiesa. I temi scottanti sono, ad esempio, quelli connessi al diritto all’acqua: alcune grandi imprese minerarie stanno distruggendo e contaminando i ghiacciai (che alimentano fiumi essenziali per la vita delle valli), per estrarre oro, e questo al sud, come al nord del paese. Basta vedere il “progetto Pascua-Lama” per avere un’idea delle devastazioni.
E poi le condizioni di lavoro di cui parlavo prima, e il conflitto mapuche. Su questi temi abbiamo avuto vescovi che hanno alzato la voce, ma la copertura mediatica del governo è tale da gettare “nuvole di fumo” su tutto».

Con la vittoria di Piñera si è parlato di un ritorno del pinochetismo. Durante la dittatura, il generale Augusto Pinochet non perdeva occasione per ricordare la sua venerazione per la Madonna. All’epoca, come si comportò la Chiesa cilena?
«Durante la dittatura militare, la Chiesa cilena ha avuto un ruolo fondamentale. Ha rischiato moltissimo, salvando molte vite umane. Anche noi nascondevamo gente nel sottotetto della casa, aiutavamo a saltare il muro dell’ambasciata italiana, offrivamo spazi nelle parrocchie per le riunioni… Molti sono potuti uscire dal paese perché nascosti nella macchina del vescovo, o perché vestiti da prete o da suora… Abbiamo avuto preti ammazzati dalla dittatura, come per esempio Antres Jarlan, Juan Alsina. Altri sono stati prigionieri, torturati e espulsi… Molti teologi, suore, parroci, partecipavano al “Movimento contro la tortura Sebastian Azevedo”, con proteste, manifestazioni pubbliche… Insomma, qui non è successo come, ad esempio, avvenuto in Argentina o in Perú. Diversa è la situazione nei paesi del Centro America, dove la posizione della Chiesa è stata ancora più chiara».

Toiamo ai mapuche e ai minatori. I primi vogliono difendere i loro diritti di popolo indigeno, i secondi vogliono un lavoro sicuro e con un salario dignitoso. Che succederà?
«I diritti degli uni e degli altri sono giusti. È difficile dire ciò che succederà, perché per cambiare veramente bisogna volerlo, avere volontà politica e un senso di solidarietà che non ci sono. Con il governo della Bachelet, c’era la speranza che qualcosa potesse andare in questo senso, ma con Piñera assolutamente niente. È solo immagine. Lui è un grandisimo impresario che ha scelto i ministri tra i gerenti e amministratori delle sue imprese. Speriamo che il popolo si risvegli da questo letargo che la propaganda mediatica gli ha provocato. Quello che temiamo maggiormente è che il fossato tra i piú ricchi e i piú poveri si allarghi sempre di più».

A proposito di poveri e di lotte, nel 2008 lei è stata in carcere per aver scioperato a fianco dei raccoglitori d’uva…
«Sì, in piena raccolta, nell’unico sciopero riuscito, venne la polizia e caricò tutti, e tra i molti c’ero anch’io… Ci tennero varie ore in cella in commissariato con l’accusa di disordine pubblico, ma poi ci rilasciarono tutti. Inutile dire lo scandalo sui giornali e in televisione, perché era dal tempo della dittatura militare che non succedeva che mettessero dentro una suora. Ricordo che io rimasi sola in una cella per diverse ore. In quella situazione mi dissi che l’unico modo per resistere era la preghiera. Allora, visto che sulle pareti della cella c’era scritto di tutto e di più, a ricordo della gente che era passata da lì, mi dissi che anch’io potevo fare testimonianza per altri: cominciai a pregare scrivendo sulle pareti i salmi recitati a memoria, passi del Vangelo, riflessioni. Non so se le mie scritte siano state utili a qualcuno, ma a me servirono per superare una situazione emotivamente difficile».

La sua esperienza in fabbrica l’ha aiutata ad essere più vicina ai lavoratori?
«Il fatto di provenire da un ambiente operaio, mi ha fatto sentire sempre “un pesce nell’acqua” e ho potuto vivere, giornire, lottare e sperare come loro e con loro. Scoprire che il Volto di Gesù “nazareno”, quotidiano, comune, è come me, come loro, mi ha dato la chiave di lettura, d’interpretazione della vita della gente comune, specialmente dei piú poveri. In un rapporto di  evangelizzazione reciproca, perché Gesù ha scelto questa quotidianità per fare una proposta di vita per tutti. Io sono qui senza mai dimenticare il nostro carisma».

E allora qual è il vostro carisma, suor Donata?
«Accogliere e costruire i valori del Regno; amare gratuitamente di un amore rispettoso e delicato; vivere in comunità nella comunione delle differenze e dei beni; essere una presenza tra gli esclusi; condividere la vita con i più poveri. In poche parole, noi Piccole sorelle siamo chiamate a vivere nei luoghi di esclusione dove il dolore umano è di casa. Qui vogliamo annunciare un Dio misericordioso che ci accompagna con l’amore e la speranza».

Paolo Moiola

(1) Si veda: www.piccolesorelledigesu.it; www.hermanitasdejesus.org.
(2) Legge antiterrorismo 18.314.

Paolo Moiola




Antogo, rito «magico» della pesca

Mali, paese dogon. Nella regione di Mopti, quasi al confine con il Burkina Faso, si staglia la Falesia di Bandiagara: un impressionante costone di roccia lungo 200 km e alto tra i 200 e i 300 metri. Tra i suoi anfratti vi abitarono popoli antichi fin dal III e II secolo avanti Cristo. Fu poi, tredici secoli più tardi, il paese dei tellem. I dogon, invece, vi si stabilirono intorno al XII – XIII secolo. Dal 1989 è patrimonio mondiale dell’Unesco.
Nella parte Nord della Falesia si trova il villaggio di Bamba, uno dei più antichi della zona, dove, «da sempre», ovvero dall’insediamento dell’etnia dogon in questo pezzo magico del Mali, si celebra il «Rito della Pesca»: Antogo in lingua dogon.
Nei pressi di Bamba si trova un lago dalle piccole dimensioni, ma dal grande potere.
Soumaila Guindo è un anziano guaritore dogon, originario di Bamba, ora residente a Bandiagara, «capitale» del paese dogon, ubicata sull’altipiano. Anche grazie a lui cerchiamo di capire e scoprire il fascino di un rituale unico che abbiamo avuto la fortuna di osservare e ora raccontare, senza essere capaci di svelae tutta la magia.
Sabato, giorno di mercato a Bamba. Da sempre. Stessa ora, stesso giorno, stesso mistero. Ore 15 e 15, un caldo indescrivibile, il sole, anch’egli in festa, brucia nel cielo, regalando timide ombre a pochi fortunati. In coincidenza con il sesto mese della stagione secca (Aprile-Maggio), il consiglio dei saggi di Bamba si riunisce per fissare la data del rituale. Durante i primi tre giorni di mercato del mese – in occasione di ogni mercato – un bastone viene piantato nel lago, a indicare l’approssimarsi del rituale, che infine si celebra al sesto giorno. I tre bastoni fungono da segnale, che arriva a tutti i villaggi dogon della Falesia. Antogo si celebra solo una volta l’anno, mentre durante tutti gli altri giorni è proibita a chiunque la pesca nel lago sacro.

Nell’antichità, si dice, l’intera zona era rigogliosa e ricoperta di fitte foreste, ed il lago – le cui acque da subito furono considerate sacre e popolate da geni – offrivano pesci in abbondanza. Il giorno di Antogo centinaia e centinaia di dogon provenienti da ogni angolo della Falesia e non solo, si ritrovano presso il lago di Bamba, per la celebrazione. Una fitta coice nera e silenziosa si disegna attorno al lago: è composta di ragazzini, uomini e anziani poco vestiti, alcuni dei quali portano una sorta di nassa con la quale catturano i pesci. Le donne non possono partecipare al rituale, per loro avvicinarsi al lago è proibito. Esistono varie spiegazioni a questo veto, alcune verosimili, altre meno; la più realistica – in linea con altri aspetti della complessa cosmogonia dogon che confina la donna lontano dalle dimensioni ritualistiche e magiche – vuole la donna intrinsecamente impura per via del ciclo mestruale.
Attoo al lago si notano tre gruppi più folti, ciascuno dei quali composto dalle famiglie più importanti di varie zone: il gruppo più folto è quello delle famiglie di Bamba, che raccoglie 33 villaggi. Ciascun gruppo, in un mistico silenzio collettivo, pronuncia formule rituali e nomi delle famiglie. Chiudono il giro quelli di Bamba, che, all’improvviso, annunciano l’inizio del rituale.
La folla si riversa nel lago, eccitata, convulsa, estasiata. Lo specchio d’acqua ormai non si vede più: ha inizio una danza felice, armonica e fangosa. I dogon si prodigano con mani, bocca e piedi per catturare il maggior numero di pesci, che ripongono in un’apposita borsa a tracolla fatta di pelli. La danza prosegue caotica. Le acque sacre rendono impossibile ferirsi con i pesci, nessuna spina, nessun taglio nei piedi nudi o nelle mani, mai, da sempre. L’acqua color fango disegna volti e corpi: l’intensità del momento è palpabile. Nemmeno 30 minuti dopo l’inizio della pesca un colpo di fucile sparato in aria segna la fine del rito. Le acque del piccolo lago tornano a calmarsi, non vi è più traccia di pesci, solo qualche ragazzino ancora sonda le stanche acque nella vana ricerca di un superstite pinnato.    
I pesci verranno tutti raccolti e portati presso l’anziano di Bamba, per poi essere ripartiti equamente tra tutti gli abitanti. Il rito simboleggia la pace e la coesione tra i villaggi, l’assenza di conflitti e la condivisione dei frutti di un bene comune.
Antogo è un evento toccante e potente, ricco di magia, che faticosamente resiste ai flussi di turisti sempre più presenti, dei bianchi curiosi, che, con difficoltà, accettano la quasi assoluta impenetrabilità del mistero.   

Matteo Bertolino

Il Fotografo

Matteo Bertolino
Nato a Torino e laureato in Scienze Politiche, Matteo consegue un master in Studi sullo sviluppo. La curiosità verso il mondo lo condurrà a lavorare nel settore della cooperazione internazionale in quattro continenti. La passione per la fotografia cresce parallelamente nel corso delle esperienze all’estero, portandolo a specializzarsi nel «reportage sociale». Matteo si occupa inoltre di «comunicazione per lo sviluppo», documentando progetti di cooperazione e realizzando materiale informativo e di sensibilizzazione attraverso l’uso della fotografia. Tra le varie esperienze, ha curato e organizzato un’esposizione fotografica presso un museo internazionale di El Salvador (Marte), che ha visto la collaborazione di artisti italiani e salvadoregni. Come fotografo freelance, Matteo collabora oggi con riviste, agenzie fotografiche e associazioni. Attualmente lavora in Bolivia, dove sta sviluppando diversi progetti fotografici.
www.matteobertolino.com.

Matteo Bertolino