Un futuro insieme

Inervista a Michael Van Heerden

Sedici anni dopo le prime elezioni democratiche, il Sudafrica fa il punto della situazione.
Il paese si sente finalmente libero, ma molti restano soffocati nelle spire della miseria: un nuovo ruolo profetico per la chiesa cattolica post-apartheid.

Dottorato in filosofia all’Università di Lovanio e un lavoro di responsabilità come preside del Saint Augustine College di Johannesburg, l’università cattolica sudafricana, padre Michael Van Heerden, è oggi una delle voci cattoliche più ascoltate. Ci parla delle contraddizioni e delle speranze di un paese che si sforza di lasciarsi alle spalle le grigie ombre del passato per costruire un futuro arcobaleno in cui regnino giustizia e pace… per tutti.

Che cosa significa essere un cattolico, oggi, in Sudafrica?
La grande sfida consiste nel dare una nuova immagine alle relazioni inter-etniche: lavorare e vivere insieme. Nel corso degli anni la chiesa è sempre stata interpellata a questo riguardo; è sovente accorsa in aiuto di altre realtà e ha saputo conquistarsi il rispetto di molti gruppi sociali. È stata capace di dimostrare, attraverso l’esempio, che cosa significa superare un conflitto culturale o conflitti tra gruppi linguistici ed economici differenti.
È un impegno nuovo e stimolante, se si pensa che, in passato, la chiesa cattolica era vista come un corpo estraneo, un prodotto d’importazione. Durante l’apartheid eravamo definiti il «pericolo romano» (romse gevaar), un nemico da temere insieme al pericolo rosso (comunista) e nero (etnico).
Trovarsi ora al centro dell’attenzione sapendo che ciò che si dice viene finalmente preso in considerazione è francamente confortante. Siamo pienamente accettati e visti come un esempio di ciò che il paese vorrebbe o dovrebbe essere; mi riferisco, ovviamente, al carattere universale e inclusivo della chiesa.

In passato, l’esistenza di un nemico comune, l’apartheid, era servito come fattore di unificazione fra le chiese di varia denominazione. Questa unione ha segnato l’inizio di un dialogo ecumenico fra le chiese? È progredito con il tempo? Come?
Certo, durante l’apartheid ci fu molta cooperazione fra le chiese. In quei giorni era facile trovare un terreno d’intesa, perché la realtà stessa presentava moltissimi spunti e temi su cui confrontarsi. Uno dei segnali più importanti fu la pubblicazione del Kairos Document (nel 1985, in pieno stato di emergenza), un testo fondamentale, una lettura teologica e politica e una chiara denuncia nei confronti del governo. Prodotto da teologi cattolici insieme a rappresentanti del Consiglio delle chiese sudafricane, il testo definiva senza mezzi termini l’apartheid come un peccato.
La fine dell’apartheid ha segnato un punto di svolta; le chiese in Sudafrica hanno dovuto ri-pensarsi e cercare di definire il loro ruolo in una nazione che sta velocemente cambiando. Un sentimento diffuso è che nel paese, oggi, si stia affermando un profondo individualismo. Uno degli aspetti negativi della nuova Costituzione, tra le più liberali al mondo, sta, per esempio, nel suo eccessivo liberalismo e in una delle sue conseguenze più deleterie che è l’ormai imperante relativismo.
Le chiese hanno capito che è il momento di riunirsi nuovamente e incentrare il loro dialogo su come fronteggiare il relativismo che si sta diffondendo a macchia d’olio nel paese. Dobbiamo dare il nostro contributo a livello morale: come stabilire dei valori in una società secolarizzata? Come dare significato a questi valori? Come vivere in una società relativistica?
Tale tema sta diventando materia di dialogo non più soltanto ecumenico, ma interreligioso. Esiste una piccola percentuale della popolazione musulmana e hindu che sostiene insieme a noi il bisogno di dialogare sui valori. La libertà, tanto agognata prima e sbandierata dopo il 1994, corre il rischio di rivelarsi un boomerang per la popolazione, perché molti la intendono come il diritto del singolo di fare finalmente ciò che gli pare.
Se si vuole creare una nazione basata sull’unità nella diversità, c’è bisogno di adottare dei valori comuni. Alcuni affermano che tali valori sono già contenuti nella Costituzione, cosa che sotto alcuni aspetti è vera. Sappiamo, però, che la Costituzione è in fondo un documento e il modo di leggere documenti del genere dipende dalla visione del mondo che uno ha: si può leggere lo stesso testo in molti modi diversi e alcune di queste letture o interpretazioni possono risultare distruttive per i valori che si vogliono proporre.

Nel recente passato la chiesa cattolica ha offerto svariate figure profetiche, veri e propri esempi di testimonianza per il paese e per l’intera cristianità; penso, per esempio a mons. Denis Hurley, la cui statura non è inferiore a quella del più famoso arcivescovo anglicano Desmond Tutu. In che cosa consiste la profezia cristiana in Sudafrica oggi?
Per certi versi Tutu è stata una figura più conosciuta e spesso più «vocale», ma mons. Hurley ha lavorato molto di più alla radice dei problemi, per cercare di cambiare le cose. Sebbene anche Hurley denunciasse apertamente la discriminazione razziale, il suo impegno principale era rivolto a stravolgere i fondamenti reali dell’apartheid. È questa l’eredità che gli sopravvive e che ci coinvolge oggi.
Non molto tempo fa ho avuto modo di parlare con mons. Kevin Dawling, vescovo di Restenburg, che fu incaricato del dipartimento di Giustizia e pace della Conferenza episcopale negli anni della transizione verso la democrazia. Mi commentava come, già all’inizio del cammino democratico del paese, i vescovi avessero individuato la giustizia economica come obbiettivo centrale verso cui indirizzare la voce profetica della chiesa.
Già allora risultava chiaro come gran parte della trasformazione vissuta dal paese non fosse in realtà una vera trasformazione. Bianchi ricchi sono stati sostituiti o affiancati da neri ricchi, ma non si è prodotto nessun cambiamento economico radicale che toccasse la grande maggioranza nera e povera del paese. È aumentata significativamente la classe media, e una buona percentuale di essa è composta oggi da neri, ma esiste ancora una larghissima fascia di popolazione nera che non ha visto cambiare minimamente il proprio stato. C’è bisogno di giustizia economica per i più poveri: e questo deve essere il tema centrale del nostro annuncio profetico.
Chiaramente, insieme alla giustizia economica vanno associati temi come corruzione, disoccupazione, Hiv-Aids. La maggior parte delle persone resta intrappolata in una situazione da cui non riesce a liberarsi. Parlo di miseria, difficoltà estrema ad accedere a un livello educativo anche minimo, a un servizio sanitario decente, a costruire strutture familiari adeguate. È povertà che si auto-riproduce e che va contrastata.

Il Sudafrica ha rappresentato un esempio per il modo pacifico in cui è stata vissuta la transizione dal regime dell’apartheid alla democrazia. Come spiega le manifestazioni di estremismo razzista, tanto bianco che nero, e le recenti violenze xenofobe?
Una delle frasi più care a Mandela è quella che, descrivendoci, parla del Sudafrica come di una «nazione arcobaleno». Lo siamo; e non solo, io credo, per la grande differenza di razze, nazioni e lingue, ma anche per la particolare geografia politica sudafricana. La forza del Sudafrica sta nella cosiddetta maggioranza dei gruppi minoritari. Mi spiego: sebbene i due gruppi etnici più numerosi del paese, gli Zulu e gli Xosa, insieme formano la maggioranza relativa, rappresentano comunque soltanto il 40% della popolazione. Esiste un significativo 60% composto dall’insieme degli altri gruppi minori. Questa, in un certo senso, è una situazione salutare per la democrazia, una garanzia di stabilità, che obbliga i gruppi a lavorare insieme.
Detto questo, bisogna però ricordare come nel periodo di transizione verso un governo democratico le aspettative di tutti erano aumentate enormemente. Alcune di esse erano giustificate, realizzabili e sono state in parte soddisfatte; altre aspettative erano invece irrealistiche, ma invece di essere scoraggiate sono state fatte oggetto di promesse, creando nella gente un’insoddisfazione di fondo.
Inoltre, oggi, assistiamo al fenomeno di persone provenienti da altri paesi africani che entrano nel nostro territorio e, sebbene non sia necessariamente vero, si insinua la percezione che la loro presenza possa privare i sudafricani di opportunità di lavoro. Del resto, occorre ricordare che molta della violenza scatenatasi verso gli stranieri avviene presso comunità molto povere in cui, quotidianamente, c’è già una continua battaglia per la sopravvivenza. In questi mesi assistiamo a una continua protesta nei confronti delle autorità, incapaci di garantire servizi basilari alle fasce più povere della popolazione.
Ecco che si ritorna al fattore della giustizia economica; molte comunità, soprattutto le più povere, stanno dicendo al paese: «Non abbiamo combattuto per la democrazia per non avere nulla in cambio. Pretendiamo di avere anche noi una parte nell’intero arricchimento del paese e nella distribuzione delle risorse». È una protesta legittima e, sebbene questi rigurgiti di xenofobia siano una pessima espressione di questa protesta, sono parte di un malcontento generalizzato di gente che è stufa e rifiuta di stare seduta ad accettare passivamente tutto, corruzione compresa.
Aspettano una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità da parte del governo. Chiedono servizi: elettricità, condotte fognarie, contributo per la casa… tutte cose promesse e mai garantite. Nel momento in cui non degenera in una violenza xenofoba, ingiustificata e da condannare, questo conflitto in atto potrebbe persino essere visto come un segno che la democrazia sta prendendo piede nel paese.

Questa situazione di forte contrasto non potrebbe però dare vita a estremismi mai sopiti?
Penso che lo stesso fenomeno si verifichi praticamente in tutto il mondo: i due gruppi estremi, la destra e la sinistra, sono normalmente rappresentativi di persone che si sentono deprivate del potere. Il vecchio governo mantenne artificialmente una larga fetta della popolazione bianca a un livello privilegiato. Ora che questi privilegi sono di fatto decaduti se ne possono vedere immediatamente le conseguenze: per la prima volta nella mia vita vedo dei bianchi chiedere l’elemosina per le strade. Questa situazione dà forza a un estremismo bianco.
La stessa cosa succede con l’estremismo «nero»; prendiamo il caso del giovane politico Julius Malema (leader dell’African National Congress Youth League, Ancyl, la sezione giovanile del partito di governo); sebbene a livello personale egli sia più che benestante, trova buon gioco nell’insistere sul senso di insoddisfazione delle classi nere più povere. Essere populista è un modo facile per diventare popolare.
Credo comunque che lo «zoccolo» di centro sia sufficientemente ampio da mantenersi compatto e resistere alla pressione di entrambi gli estremismi. La maggior parte della popolazione lo ha dimostrato chiaramente anche prima della fine dell’apartheid, quando venne indetto un referendum (17 marzo 1992) e gli stessi bianchi votarono per avere un cambiamento, una nuova Costituzione. Ci si rese conto che non si poteva proseguire in quel modo: bisognava cambiare per il bene del paese e per evitare la guerra civile.
La gente continua a nutrire e vivere gli stessi sentimenti, nonostante che il bullismo estremista cerchi ogni tanto di appannare i sogni democratici della popolazione. La parte migliore di noi emerge in momenti come quello della Coppa del Mondo. Lì si è potuto toccare con mano come la maggioranza, bianca o nera che sia, creda in un nuovo Sudafrica e voglia contribuire a costruire la nazione.

Come vede il Sudafrica del futuro e come dovrebbero affrontare, oggi, il fenomeno giovanile lo stato e la chiesa?
Quando ci si occupa di educazione superiore, una delle domande più assillanti riguarda il come educare i giovani e dar loro un futuro. È un problema vissuto dall’intero continente africano. In Sudafrica viviamo oggi il grosso problema di studenti che abbandonano la scuola superiore. Oggi, nel paese solo il 16% dei giovani accede all’università, laddove la media europea si aggira intorno al 45% e la percentuale del continente africano è del 6%; questi sono i nostri due parametri di riferimento.
Il problema è questo: quando si preparano giovani accademicamente, occorre anche garantire loro adeguate opportunità di lavoro. Lo stiamo facendo? Una delle cose che il paese ha appreso dalla Coppa del Mondo è stata proprio la necessità di procurare impieghi per il settore giovanile. Oggi, però, la Coppa del Mondo è finita… e allora?
Non guasterebbe, forse, se alcune delle imprese sudafricane fossero ancora di proprietà dello stato; anche a costo di lavorare in perdita. Quel disavanzo sarebbe in realtà un investimento per il futuro.
Penso, ad esempio, alle ferrovie. Nel «vecchio» Sudafrica, quando il National Party prese il controllo del paese togliendolo ai britannici, buona parte della popolazione afrikaners viveva in situazioni di grande povertà e uno dei mezzi usati dal governo per sollevae le condizioni economiche fu l’impiegae un gran numero nel servizio ferroviario. Non solo la gente riceveva un lavoro, ma anche una formazione professionale. Sebbene le ferrovie chiudessero i loro bilanci in rosso, contribuivano a offrire innanzitutto un servizio efficiente di trasporto al paese e, in secondo luogo, la possibilità per molte persone di affrancarsi dalla povertà.
Come le ferrovie anche altre imprese, oggi private o semi private, potrebbero essere potenziali bacini di impiego per molti giovani. Viste anche le condizioni sociali, l’aumento della criminalità, ecc., a lungo termine potrebbe essere conveniente per lo stato mantenere alcune imprese che non danno reddito, invece di pagare un costo sociale due volte più elevato in termini di lotta alla criminalità e mantenimento del servizio carcerario.
Infine, ho appena finito di leggere un libro che analizzava la famiglia come capitale sociale. Dare sostegno e stabilità alla famiglia è senza dubbio una forma di investimento che aiuterebbe a tagliare i costi di prevenzione e lotta contro l’illegalità e il crimine. Oggi, la causa che sta alla radice dell’aumento di criminalità in questo paese è il crollo della famiglia.

Che cosa può dire della Campagna contro il traffico di persone organizzata in occasione dei campionati del mondo?
La Coppa del Mondo è stata un’importante cassa di risonanza per quello che era ed è un problema del paese. Ho letto che il Brasile si sta preparando a sfruttare l’evento dei prossimi campionati, che si giocheranno lì fra quattro anni, associandovi una campagna per contrastare il fenomeno della prostituzione minorile. Oggi, molte strade del traffico passano attraverso il Sudafrica. Il paese sta diventando un crocevia per il traffico delle persone, smistando «merce umana» fra i mercati asiatici e Sud/Nord americani.
Sappiamo bene che la Coppa del Mondo ha solo gettato luce su questa realtà, ma i problemi restano da risolvere. Posti come Citta del Capo stanno diventando mete di turismo sessuale. È un problema che dobbiamo affrontare seriamente come nazione e deve diventare una priorità del governo.

Una domanda finale rivolta al filosofo. Che cosa può oggi offrire il Sudafrica al continente africano in fatto di pensiero? E la chiesa cattolica che parte può avere in questo processo?
Una cosa che il Sudafrica può certamente offrire al resto del continente è una riflessione matura sui pro e contro del fenomeno «industrializzazione», fattore in cui il paese vanta una grande esperienza, soprattutto nel settore minerario. Penso, per esempio, ad alcuni scritti di Heidegger che vertono sulla strumentalizzazione delle relazioni e su come questo fatto svilisca la dignità del lavoratore e dello stesso datore di lavoro.
Anche una riflessione sulla diversità interculturale; su questo tema si sono sviluppati vari esperimenti di pensiero, su quali potevano essere i migliori modelli, capaci di facilitare il dialogo fra le differenze. In questo ambito, la chiesa è vista come un interlocutore importante proprio per la sua esperienza in merito.
In effetti, il Sudafrica non è soltanto un crogiuolo di culture, ma anche di filosofie. Per esempio, molte università statali, di fondazione britannica, seguono una tradizione analitica; la chiesa, invece, segue una tradizione continentale, cosa che rende possibile un buon dialogo e produce ricchezza di pensiero.
Un altro passo importante che si sta cercando di dare consiste nel far dialogare il pensiero originale sudafricano con il resto della filosofia del continente. Direi che questa è una delle priorità filosofiche del momento. Sicuramente possiamo imparare tutti dall’esperienza dell’altro. Prima vivevamo come chiusi, intrappolati in un sistema che non ci permetteva un’apertura verso l’esterno. Oggi possiamo trarre beneficio da tutta una riflessione africana che è venuta via via maturando nei campi della filosofia e della teologia.
In Sudafrica certamente qualcosa si sta facendo; uno dei temi emergenti nei circoli filosofici sudafricani è l’esplorazione del concetto di «ubuntu»: che significato ha il concetto di comunità oggi, a confronto con la modeità, davanti al fenomeno dell’urbanizzazione, in un contesto prettamente africano? Cosa significa e che senso ha, oggi, condividere e preoccuparsi per il bene comune? Mi sembrano temi importanti con i quali il Sudafrica di oggi deve assolutamente confrontarsi.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Ricordando Roberto

La scomparsa del dottor Topino

Medico impegnato nei temi della salute pubblica e dell’ecologia, spirito libero per natura e critico per forma mentis, da alcuni anni Roberto Topino collaborava con Missioni Consolata, curando in particolare le seguitissime pagine di «Nostra madre terra». Una rubrica che continuerà con Rosanna Novara, moglie di Roberto e biologa.

La notizia della scomparsa di Roberto Topino mi ha raggiunto in Sudafrica; mi ha trovato, ma non mi ha colto di sorpresa. Da mesi, ormai, con silenzio, discrezione e preghiera accompagnavamo il difficile cammino che aveva intrapreso per resistere all’incedere costante della malattia.
Roberto, insieme alla moglie Rosanna, ha collaborato alla nostra rivista durante tutto il periodo della mia direzione, dando lustro e prestigio alle pagine di Missioni Consolata attraverso interventi competenti, puntuali e aggioati, che facevano della rubrica «Nostra madre terra» uno degli spazi di riflessione più attesi e commentati dai lettori della rivista. In questi anni, Roberto ci ha aiutato ad approfondire il tema ecologico, legandolo in modo indissolubile alla salute dell’umanità e al benessere del pianeta. L’impegno verso l’integrità del creato rappresenta l’estrema frontiera della missione e, nel contempo, un richiamo insistente alla giustizia e all’armonia, che di tale integrità sono garanti. Roberto ci ha messo passione e cuore, aspettandosi come contropartita soltanto qualche copia della rivista da distribuire agli amici e continuare così la sua opera di divulgazione al servizio della salute.
Ho saputo della morte di Roberto mentre stavo approfondendo il concetto di Ubuntu, uno dei contributi originali che l’Africa sub-sahariana sta offrendo in fatto di riflessione etica. «Ubuntu» significa umanità con gli altri e verso gli altri, e definisce l’individuo nella sua relazione con chi lo circonda e con cui condivide la terra e le sue ricchezze. A proposito di questo concetto, scrisse una volta Desmond Tutu: «Troppo frequentemente pensiamo a noi stessi soltanto come a degli individui, separati gli uni dagli altri, laddove invece siamo interconnessi. Ciò che facciamo interessa il mondo intero; quando facciamo il bene questo si propaga e diventa bene per l’umanità». Si tratta di un messaggio che Roberto Topino ha tacitamente sottoscritto con la sua testimonianza e la sua lotta a servizio della salute di tutti, anche attraverso le pagine di Missioni Consolata. Grazie di tutto.

Ugo Pozzoli

Lo scorso 1 settembre ci ha lasciati Roberto Topino. Medico, specialista in medicina del lavoro, Roberto aveva 58 anni. Era sposato con Rosanna Novara e padre di Valentina,15 anni, studentessa liceale. Si era laureato e specializzato all’Università di Torino, città dove ha sempre lavorato. Oltre che per la sua famiglia e la medicina, aveva una grande passione per la musica. A casa sua c’è un organo e una montagna di audiocassette, Cd e intramontabili dischi in vinile, soprattutto di musica lirica.
Dal dicembre 2005, Roberto era un assiduo collaboratore di Missioni Consolata. In particolare, con la moglie Rosanna, biologa specializzata in oncologia, curava Nostra madre terra, rubrica seguitissima dai lettori, che spesso scrivevano per sapee di più, per parlare con gli autori e, a volte, per criticarli.
Per chi non ha avuto la fortuna di conoscere Roberto di persona, per intuire chi fosse, è sufficiente leggere i suoi scritti. Perché – al contrario di molti che dicono una cosa e poi nella realtà quotidiana fanno l’opposto o comunque si comportano in maniera incoerente – Roberto era ciò che scriveva. E ciò che scriveva – fosse amianto, Ogm, guerre, rifiuti tossici, energia nucleare o droghe – era di norma fortemente critico, ma sempre poggiando su basi scientifiche solide e documentate. Ovvero mai con approssimazione, per sentito dire, per partito preso o per ideologia.
Oltre alla competenza medica e scientifica, mai influenzata da interessi di lucro (come accade a troppi medici e scienziati), Roberto era sorretto da una fortissima tempra morale, che lo faceva indignare davanti alle ingiustizie. Un’indignazione che non rimaneva confinata nella persona, ma si traduceva in denuncia pubblica. Su Missioni Consolata, ma anche su decine di altri strumenti di comunicazione – svariati blog, Facebook, YouTube – attraverso i quali diffondeva informazioni, fotografie e filmati. 
Roberto è morto a causa di un tumore, che lo ha portato via in soli 3 mesi. Uno dei temi su cui spesso interveniva erano proprio le patologie neoplastiche fossero esse causate dalle polveri dell’amianto, dalle radiazioni o dall’inquinamento. Era convinto che alcune concause dei tumori potessero essere ridotte o eliminate attraverso un’esistenza più sana e ambienti di lavoro più salubri. In ciò facilitato dal fatto di lavorare all’Inail, dove si occupava di infortuni e invalidità. Tra le sue battaglie principali, c’era quella in favore dei troppi lavoratori uccisi dalle polveri dell’amianto («Quasi ogni giorno incontro una persona affetta da mesotelioma pleurico», raccontava) e quella contro gli inceneritori. «È sempre più evidente – scriveva Roberto – che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia».
Girava per Torino con la sua (vecchia) bicicletta e un cellulare con cui faceva anche foto e filmati. Da un anno nella borsa teneva anche… un contatore geiger. La sua ultima denuncia riguardava una pavimentazione stradale fatta con graniti un po’ troppo radioattivi.
Aveva già presentato un ricco elenco di inchieste per i prossimi numeri di Missioni Consolata (con la quale – tra l’altro – collaborava in maniera totalmente gratuita). Erano argomenti impegnativi, come l’alcolismo, gli infortuni sul lavoro, la chirurgia estetica, ma anche il testamento biologico. Un testamento che, ad inizio di luglio, aveva già scritto per se stesso e che, dal suo letto, mi aveva letto prima di consegnarmene una copia. Lo aveva diffuso anche su YouTube, filmandosi con la telecamera del computer portatile che teneva sul letto su cui da giugno era ormai immobilizzato.
Non potrà completare i suoi progetti. Ma l’amata moglie Rosanna continuerà a curare la rubrica Nostra madre terra. Il modo migliore per tenere in vita Roberto.

Paolo Moiola

Ugo Pozzoli e Paolo Moiola




La «terza» via

Paolo Deriu: storia di un laico in missione

Da piccolo gli piacevano i dinosauri. Così scoprì che in Africa erano arrivati i primi ominidi. Pensava di fare il paleontologo. Poi lavoro e università, fino a un’ottima laurea in economia. Ma Paolo era sensibile alla sofferenza e alla miseria, così inizia a lavorare per alcune Ong.
Ma un giorno incontra i missionari della Consolata.

Da Lichinga, capoluogo del Niassa, provincia nel Nord del Mozambico, occorre percorrere 135 km di una strada asfaltata per arrivare a Malanga. Il paesaggio che si attraversa è superbo, montagne aguzze ed ampie vallate. Alberi e campi a perdita d’occhio. Si arriva nel distretto di Majune, povero in quella che è ritenuta la provincia più isolata e depressa del paese.
Qui vivono le etnie Makúa e Ayao, mentre il potere è saldamente in mano ai capi tradizionali e agli stregoni.
«C’è ancora un cattivo utilizzo delle tecniche di coltivazione e una brutta abitudine all’assistenza e al dono». Chi parla è Paolo Deriu, laico missionario della Consolata.
Alto, con il viso ovale, capelli a caschetto. Tranquillo e pacato, con gli occhi sempre vispi dietro a spessi occhiali. Paolo ha un lungo percorso come missionario, laico per l’appunto.

Vocazione laica
Dopo di tre anni a Mecanhelas, sempre nella provincia del Niassa, e un periodo in Italia, è tornato in Mozambico nella missione di Majune. Qui è in comunità con padre Felix Odongo del Kenya e fratel Aires Osmarin brasiliano.
«Io non avevo molti legami con la chiesa, andavo a messa la domenica. Però mi interessava la questione dell’aiuto ai paesi del Sud del Mondo, così mi ero messo nelle Ong, prima come volontario con Mani Tese e poi a livello professionale con Fratelli dell’Uomo. Questa era una organizzazione laica, non aveva contatti con la missione. Poi alcuni amici mi hanno detto che all’Università Cattolica di Milano, dove ho studiato, un sacerdote voleva mettere in piedi un gruppo missionario. Io pensavo che fosse positivo per gli studenti avere una qualche istituzione che li mettesse in contatto con i paesi del Sud». Quel prete era padre Francesco Giuliani, missionario della Consolata, e fu il primo contatto con l’Istituto Missioni Consolata. Tra i due si creò subito intesa.
«Abbiamo fatto un po’ di pubblicità, ed è nato questo gruppo chiamato Spazio aperto, che più tardi è diventato una Onlus, e adesso appoggia alcuni progetti anche a Majune».
In quel periodo Paolo inizia a conoscere il significato di essere missionario e cerca subito di approfondire.
«Io mi interrogavo, perché noi nelle Ong non conoscevamo bene la realtà nel Sud del Mondo, in Africa Occidentale nel mio caso. Erano tante le storie di inganni, fondi che non arrivavano, progetti che non funzionavano. Avrei voluto che questo nostro lavoro fosse più sul campo, più con la gente, e il mondo missionario mi sembrava avesse qualche ipotesi in più per aiutare queste persone. Così mi sono detto: voglio vedere come si fa ad essere missionario».
Paolo scopre che le scelte possibili sono diverse: consacrarsi, prendere i voti, o anche diventare sacerdote. Un’opzione alternativa è vivere la missione come laico.
«Essere padre era un po’ troppo, non ho mai avuto la vocazione di essere consacrato, né padre, né fratello. Allora ho pensato, proviamo come laico missionario, una scelta all’avanguardia, all’epoca nella Consolata non c’era quasi niente. Così sono stato ammesso al postulantato di Alpignano con padre Giordano Rigamonti. Qui ho approfondito la mia conoscenza dell’Istituto, ma anche della religione, il che è stato molto utile».
Paolo difende i due concetti, il laicato e l’essere missionario.
«Anche se io come laico non ho i voti, con padri e fratelli facciamo un lavoro molto simile. Quando siamo qui in missione è più evidente di quando si lavora in Italia. Noi laici, come i fratelli, non diciamo messa, non confessiamo. Il nostro lavoro è entrare in comunità e portare il messaggio di Gesù, ognuno come sa farlo. C’è chi ha la vocazione per incontri di catechesi, chi per orientare gli animatori. Personalmente a me piace di più lavorare sul campo, con le persone per organizzare qualcosa con loro nei settori dell’economia o del sociale. Qualcosa che rimanga, aiuti la popolazione a vivere meglio».

Missione per far crescere
Provenendo dal mondo delle Ong Paolo si porta dietro il concetto di sviluppo, oltre che alla sensibilità per i diritti umani.
«Io comincio un lavoro pensando che domani saranno loro a prenderlo in mano. Ma qua dicono: se il missionario va in Italia, chi prenderà il suo posto? Deve prenderlo uno del Mozambico perché il nostro lavoro è farli crescere, non perpetrare la nostra presenza. Però lamento che ci sono tante situazioni in cui il missionario straniero è la testa e i mozambicani o gli africani stanno a guardare. Falegnamerie, scuole, fattorie, c’è sempre il missionario italiano (o straniero) a capo. Quando vedremo il missionario mozambicano fondare una scuola per aiutare i più poveri? È questo che dobbiamo vedere: le persone del posto che si preoccupano, sentono pena per il loro.
Ma in fatto di solidarietà tra la gente di qua siamo ancora un po’ carenti».
Paolo ripete che la terra nella zona è fertile, si possono fare tre raccolti all’anno, ma c’è ancora un attendismo troppo elevato verso gli stranieri e quindi dipendenza. Lui segue una ventina di progetti di tipo economico e sociale, tutti con aiuti che provengono dall’estero, ma sta lavorando al «Progetto zero», ovvero zero aiuti da fuori. C’è anche il problema della rarità di animatori seri, fondamentali per lavorare sul campo. «Troppo spesso essere animatore, o catechista, viene vista come una posizione sociale, almeno qui a Majune. Altrove sono più seri».
C’è poi un lavoro da fare sui diritti umani.
«I diritti umani sono una questione importante, però io vedo che talvolta, per comodità, è un tema che si trascura. Ad esempio hanno bruciato vivo un malato di mente che rubacchiava nei mercati, una notte il proprietario di una bancarella gli ha versato sopra la benzina e gli ha dato fuoco. Le ustioni erano così avanzate che è morto durante il trasferimento all’ospedale di Lichinga. La domenica successiva neanche una parola a messa. Solo io, negli avvisi, mi sono sentito in dovere di richiamare che era morta una persona, anche se era musulmana. Ucciso in modo barbaro. Gli animatori mi hanno chiesto perché bisognava parlarne e io ho risposto: non ti posso ammazzare un giorno per strada come se niente fosse.
Poi c’è la questione politica, il 22 novembre è l’anniversario dell’assassinio del giornalista Carlos Cardoso, ma nessuno ne vuole parlare. Sono cose importanti. Il peggio è che i deboli qua non sono tutelati. Se una donna venuta da un altro paese o da un altro distretto, sposa un uomo di qui, ma poi divorzia o perde il marito, non ha nessuna protezione. Questi sono problemi gravi e noi dobbiamo sempre essere presenti».

L’impegno per l’infanzia
«Io penso che qui a Majune i bambini siano una categoria molto negletta, perché sono trascurati: igienicamente, nei vestiti, nel cibo. Possono cadere nel fuoco, essere uccisi a calci dal padre ubriaco. Hanno pochi diritti e sono molto abbandonati a se stessi. Circolano di notte da soli, in mezzo agli ubriachi e nessuno si preoccupa».
Paolo è molto fiero di mostrarci un progetto sull’infanzia. È un asilo per sessanta bambini, nel villaggio di Malila. I missionari sono riusciti a coinvolgere la comunità, e le mamme a tuo cucinano il pasto fornito, però, dalla parrocchia. Ci sono alcuni bimbi che gli saltano addosso e gli si appendono al collo. E lui, sempre impassibile, forse per le sue origini olandesi, si lascia intenerire.
Ma Paolo lavora anche con gli anziani. Molti vivono in solitudine, non hanno famiglia, hanno difficoltà a procurarsi da mangiare e sono abbandonati. È il caso di Apita Costa, detta Solzinha (solitaria). I missionari hanno sensibilizzato alcuni giovani affinché si occupino di questi anziani.

Tante sfide, alcune soddisfazioni
Oltre al piacere di essere «sul campo», come dice lui, e avere il contatto con le persone, il nostro missionario laico ci racconta soddisfazioni e sfide di questa scelta.
«Una grande soddisfazione è quando le persone capiscono che vuoi lavorare con loro e per loro e non vuoi essere il loro padrone. Iniziano a rimboccarsi le maniche, ad avere idee e proposte, iniziative, e il tuo lavoro può crescere ancora di più. Quando ci sono dei risultati sul campo, che non è soltanto dire: il malato è guarito, il pazzo è tornato normale. Se vediamo gruppi di persone che dicono: bene adesso siamo noi che aiutiamo i nostri simili.
Le sfide sono tantissime perché quando diventi missionario, laico o religioso che sia, devi andare a vivere in un altro paese. Per esempio se vieni in Mozambico per passare un mese hai un certo spirito, se devi stare tre anni o più il punto di vista cambia notevolmente. L’adattamento, la lingua.  Abituati alle città, in questi villaggi dove non c’è niente di speciale, occorre uno sforzo. Inoltre capire che molti ti considerano solo una mucca da mungere, e tu vorresti fare amicizia, relazionarti da pari a pari. Anche questo è difficile da accettare.
Però c’è sempre della brava gente che lavora. La nostra sfida è scoprire quelli che sono più in gamba, più onesti, quelli che non hanno tanti problemi in testa. Con loro costruire qualcosa di forte e aiutare i più deboli che hanno anche bisogno di modelli».
Essere missionario vuole sovente dire vivere e lavorare con dei confratelli. E anche questo non è sempre cosa facile.
«Se sei in comunità bisogna cercare di evitare di essere persone complicate, capricciose, brontolone. In missione è una sofferenza, perché già dobbiamo spendere molte energie, se poi abbiamo un ambiente teso in casa non si lavora più. Spesso le comunità sono composte da persone di varie nazionalità. Cerchiamo di capirci gli uni con gli altri di evitare soprattutto il rifiuto. Non classificare definitivamente la gente: con quello non si può parlare, con quell’altro non c’è intesa. Questo atteggiamento bloccherebbe tutto. Dobbiamo prendere la persona com’è, talvolta tollerare. Possiamo fare delle osservazioni, ma è importante che dopo la tempesta torni il sereno. Vedi certe case dove i padri si sono chiusi ognuno nella sua zona, e parlano ma non comunicano».

Consigli pratici
Abbiamo chiesto a Paolo che consigli darebbe a chi è interessato a inoltrarsi sulla strada del laicato missionario.
«Colui che vuole vivere qualche tempo come laico missionario deve parlare a lungo con persone che sono già state per vari anni nel paese. È bene che sappia cosa lo aspetta, e non parta con idee strane. Molti pensano ancora che l’Africa sia il continente dei villaggi, della solidarietà, della natura incontaminata e degli anziani. Però l’Africa sta cambiando molto e qui, come in Europa, l’individualismo, la sete dei soldi, sono delle realtà molto forti. Mi dicono che talvolta nella famiglia di oggi nessuno si aiuta, ed è molto peggio della famiglia di ieri dove tutti si aiutavano.
C’è sempre il rischio di chiudersi, nella tristezza, nella rassegnazione e aspettare che il tempo passi.
La persona che va in missione deve avere una formazione di primo piano. Molti hanno la buona volontà, però c’è la solitudine in agguato. Ad esempio il rapporto con gli animatori, con la gente è un punto delicato.
Dobbiamo stimare i nostri collaboratori, cristiani, musulmani. Invece alcuni coltivano un po’ di disprezzo, anche giustificato in parte dalle delusioni che hanno sofferto, le piccole truffe, inganni, vedere l’animatore ubriaco. Da qui cominciamo a essere non dico razzisti ma poco ci manca: “Non si può fare niente con questa gente, sono fatti così”. Ci sono alcuni aspetti che lasciano un po’ perplessi nelle loro abitudini, ma non possiamo lasciarci andare a questo.
E poi non bisogna prendere troppo sul serio i problemi e le difficoltà, fare dei drammi perché alle volte certe cose le ingigantiamo molto dal nostro punto di vista». In Italia non si fa molta promozione di questa «terza via» per fare il missionario. Cosa proporresti?
«Io penso che noi laici dovremmo impegnarci di più per promuovere questa strada. Ci vorrebbe una figura carismatica, un “Allamano dei laici”. È un po’ difficile oggi da trovare, non è facile saper trascinare delle persone, soprattutto in un mondo come quello occidentale dove tutti sono oberati di lavoro e di preoccupazioni e i tempi si fanno sempre più stretti. Ci sono delle persone di buona volontà che portano avanti il laicato, ma non possiamo pretendere che siano sempre i padri a prendere l’iniziativa per incoraggiarlo.
Quando siamo in missione, occorre che anche noi ci interroghiamo su cosa fare per il laicato missionario italiano. È una responsabilità alla quale siamo chiamati».

Il rientro dalla missione
Paolo decide di rientrare in Italia nel giugno dello scorso anno, dopo altri quattro anni di missione.
«Pensavo di dare una sistemata alla mia vita: ogni volta che rientro la mia famiglia si occupa di me, ma non è più pensabile a una certa età. Avrei anche continuato la missione, ma ci sono molte incertezze sul futuro, l’Istituto non ha il dovere di occuparsi di noi finito il servizio. È una situazione che dà poche prospettive».
Questo è un punto debole del laicato missionario. Al momento non esiste un meccanismo che consenta al laico rientrato di inserirsi in comunità italiane e svolgere servizio in madrepatria. Può succedere, ci sono alcune esperienze di questo tipo (vedi box) ma non è sistematico. Anche in Spagna e Portogallo i laici missionari della Consolata hanno alcune comunità. Per dare solidità a questo modo di fare missione sarebbe importante creare un legame forte tra le comunità di vita nel paese di origine e colui che parte. Questo è importante durante il periodo all’estero e fondamentale per reintegrare il laico nella vita italiana al suo rientro. Il missionario dovrebbe essere inviato da un gruppo, che lo appoggia e al quando torna qualcun altro potrà partire, per dare continuità al suo lavoro.
«La prima volta che sono partito ho mantenuto i contatti, la seconda invece questa cosa non ha funzionato. Al mio rientro dalla missione l’Istituto mi ha proposto di lavorare nella pastorale dei migranti».
Paolo è stato inserito nell’équipe della Consolata che presta servizio nell’Ufficio migranti della diocesi di Torino.
«Dopo tanti anni di Africa, tornando in Italia ci sentiamo un po’ spaesati. L’Europa era il nostro mondo, ma in Africa sviluppiamo un’altra sensibilità. In missione trovavo una carica di umanità nonostante tutti i difetti, che non sempre si riesce a riscontrare qui. Dopo un po’ di tempo ci si adatta, ma neanche tanto».

Marco Bello

Marco Bello




La felicità non si trova per strada

«Chicas y chicos de la calle» a Buenos Aires

Hanno dormito per le strade. Hanno conosciuto la violenza. Hanno rubato ed assunto droghe. Hanno vissuto come adulti pur non essendo adulti. Abbiamo visitato due strutture familiari che accolgono bambine e bambini di strada. Strutture piccole, ma che raggiungono lo scopo: dare ai ragazzi un tetto per la notte e quel po’ di affetto e attenzione, che non hanno trovato nelle loro famiglie.

Buenos Aires. Il lavandino è nel cortile, davanti alla porta della piccola abitazione. I ragazzi pelano le patate, tagliano le carote, lavano i pomodori. 
Altri ragazzi sono in strada, una strada non trafficata di Barracas, a preparare la legna, recuperata da cassette e vecchi mobili.  Il fuoco per l’asado sarà acceso lì fuori, senza troppe formalità.
Gli invitati sono ragazzi e ragazze in apparenza normali. Normali nell’indossare maglie extralarge, normali nel modo di portare i jeans o la tuta, normali negli atteggiamenti spavaldi, normali nei gesti e nel modo di scherzare, di ascoltare musica o di abbordare l’altro sesso. In apparenza, abbiamo detto. Perché nella realtà questi giovani – l’età varia dagli 8 ai 16 anni – hanno già sperimentato troppo nella loro ancora breve esistenza. Una vita in strada, senza famiglia, a contatto con la droga, la polizia, il sesso a pagamento, i furti, il carcere, le botte, gli abusi sessuali.
Ecco, arrivano il vassoio con la carne da cuocere e la salsa di pomodoro, di cui Mario va tanto fiero. Mario Sotero è il padrone di casa e l’organizzatore della festa. Da ex ragazzo di strada, nel suo piccolo, da anni Mario si dedica al recupero di giovani e giovanissimi, che si sono persi ma che sono ancora recuperabili. Ci siamo conosciuti alcuni anni fa al Santa, una struttura di recupero dei salesiani di Buenos Aires dove Mario fa l’istruttore di arti marziali.
Mario è amato dai ragazzi. Uno di loro, cappellino calato sulla fronte, dice:  «Tutti i ragazzi vogliono bene a Mario. Perché lui è sempre molto buono con noi». 
Anche se non sempre la sua bontà viene premiata. Nella sua voglia di fare e di aiutare, Mario ha infatti subito – un po’ per ingenuità, un po’ per sfortuna – anche un rovescio, costoso per il portafogli e per l’autostima. Le autorità locali gli hanno demolito una casetta, costruita con i soldi risparmiati e il lavoro suo e dei ragazzi, che avrebbe dovuto fungere da rifugio per la notte.  Si è ripreso e ha reiniziato a darsi da fare per aiutare i ragazzi di strada di Buenos Aires.
Leo sta controllando il fuoco sotto la griglia delle cai. Ha 17 anni, ma sembra più giovane. È stato sulle strade dall’età di 11 fino a 15. «In casa mi picchiavano. La vita di strada è dura. Non ti puoi lavare. Gira droga».
Come vivevi?, gli chiediamo. «Rubando alle vecchie nel centro di Buenos Aires: la borsa, la catenina, gli anelli. Ora, con l’aiuto di Mario, sono uscito. Ho un lavoro in nero, ma è un lavoro. Per il futuro mi piacerebbe studiare, formare una famiglia e lavorare con i bambini di strada».
Leo porta con sé un fratello più piccolo, Juan. Juan ha occhi grandi e una faccia pulita da bambino spaurito. «Sono andato via di casa perché mio papà mi picchiava. Sono andato con Leo, mio fratello. Sono stato in strada per un anno. Ora vivo nel parador di Tina». Juan non è mai andato a scuola e, dalle sue risposte, pare un bambino molto fragile. «Da grande vorrei insegnare karate come Mario», spiega.
Alejandro Daniel ha 14 anni, capelli neri ed un fisico robusto:  «La mia mamma aveva un fidanzato. Un giorno lui venne e mi disse che dovevo andarmene di casa perché voleva stare con mia madre. Risposi che andava bene. Presi il mio zainetto e me ne andai. Allora avevo 13 anni. Adesso vivo nel parador di Tina, una casa per i ragazzi di strada».
Nell’anno passato in strada hai fatto cose cattive? «Sì, molte – risponde Alejandro con tono grave -. Non avevo da mangiare e dunque rubavo alle persone, soprattutto nel centro di Buenos Aires. Con un amico che guidava la moto rubavo le borse alle persone. Per fortuna, la polizia non mi ha mai preso. Ora non rubo più». Hai mai conosciuto tuo padre? «Mio papà lavora in Paraguay, ma non lo vedo da quando avevo 11 anni. È triste. Ma ora spero che la mia vita migliori. Da grande, mi piacerebbe fare il tecnico dei computer».

Famiglie normali cercasi
Alcuni dei ragazzi presenti da Mario dormono al Parador Tina, una casa d’accoglienza che prende il nome dalla sua fondatrice ed animatrice, la signora Tina.
Andiamo a visitarla, approfittando ancora una volta di un asado, una delle principali attività ricreative degli argentini, indipendentemente dallo stato sociale, dall’età, dalla stagione.
La casa è in mattoncini rossi. E non si distingue dalle altre della via, se non per quella sobria insegna accanto alla porta d’entrata: Fundación «Ayudemos a crecer».
Tina Romero Ortiz (intervista a pag.46) è più manager di Mario Sotero e all’ingresso della casa di Pasaje Doctor Madera 1558 ha affisso sulla parete tutte le autorizzazioni rilasciate dalle autorità preposte, nonché alcuni diplomi e riconoscimenti per l’attività svolta.
Passato il corridoio d’entrata, oltre la parete delle autorizzazioni, a sinistra c’è una prima stanza adibita ad ufficio della Fondazione e a destra una camera dove trovano posto 5 letti.  Si passa poi ad una sala comune e alla cucina.  Un piccolo patio porta ad altre due stanze con letti a castello.  Il parador di Tina è piccolo e spartano, ma è molto accogliente e soprattutto ricrea tutti gli ambienti tipici di una casa familiare. Ovvero il contrario di quello che potrebbe essere un istituto per minori in difficoltà.
Una scala in ferro porta al piano superiore, dove c’è una saletta con un televisore e una bella terrazza, oltre ad un angolo attrezzato con le griglie per cuocere la carne. La festa sarà qui. Il tavolo è già imbandito con piatti di empanadas e bevande, mentre la carne sta ancora cuocendo sulla parilla. Mancano del tutto sia il vino che la birra, «per non dare il cattivo esempio ai ragazzi», spiega Tina. Un gruppetto di ragazzi è seduto attorno ad un tavolino a giocare a carte, mentre una radio portatile funziona ad alto volume. La musica è forte ma, alzando un po’ la voce, si riesce ancora a comunicare. 
Lucas, orecchino sul lobo destro, racconta senza remore: «Sono andato in strada perché avevo problemi con mia mamma che mi picchiava molto. Mio papà non l’ho mai conosciuto. Sono stato in strada per 2 mesi e mezzo. Adesso sono qui da Tina». Lucas è un tipo sveglio e chiede la telecamera per filmare la serata. Impara subito, anche a fare le interviste.
Jorge, minuto, capelli biondi, parla così rapidamente che si fa fatica a seguirlo: «La mia mamma se ne andava con il suo fidanzato e mi lasciava a casa con il mio fratello più piccolo. Poi io ho cominciato ad andare e tornare da casa, ma lei non mi voleva più. In strada ho iniziato a prendere droghe: paco, porro, merca, pastiglie. Il paco è la più pericolosa: ti uccide».

Una vita diversa
Joaquin ha 17 anni ed è stato in strada un anno: «Non è facile perché la polizia ti mena». Che facevi?, chiediamo. Joaquin si scheisce e ride di gusto. «Rubava», suggerisce un compagno. Nazareno di anni ne ha 12: «La strada ti insegna cose brutte. A rubare, a prendere droga. Io consumavo porro e merca». Parlando con i ragazzi, una cosa risalta subito: tutti sono felici di aver lasciato la strada e di aver iniziato un percorso di vita diverso. 
Le ragazze presenti sono soltanto due. Una, giovanissima, è agli ultimi mesi di gravidanza. L’altra si chiama Antonella, 12 anni, capelli lunghi, occhi molto belli ma tristi. Vita dura quella di Antonella, che non ha conosciuto né la mamma né il papà. Dice di avere due fratelli, ma più piccoli di lei. «Quando stavo per strada, mi drogavo con il paco, ma non ho mai rubato. Per mangiare, la sera andavo a recuperare gli scarti del McDonalds».  Chiediamo ad Antonella se le farebbe piacere conoscere i suoi genitori. «No», risponde senza tentennamenti.  E per il futuro, cosa vorresti? Scuote la testa, senza rispondere, ma quando le suggeriamo se le piacerebbe andare a scuola e poi trovare un lavoro, fa un cenno di assenso.
Paula lavora come assistente sociale nel parador. È entusiasta e positiva. «Mi piace molto lavorare qui – dice con un ampio sorriso -. I ragazzi mi danno molto. Io sono cresciuta in una famiglia umile, ma – al contrario dei nostri ospiti – ho avuto un’infanzia felice. Questa per me è come la continuazione della mia famiglia».
È trascorsa la mezzonotte. Tina, Mario, Paula avvertono i ragazzi che è ora di chiudere la festa. Al parador di Tina ci sono regole precise. E tutti le rispettano.

Paolo Moiola

A colloquio con Tina Ortiz
PARADOR TINA

Robustiana Romero de Ortiz detta Tina è una signora che parla con il tono pacato di una nonna,  ma che ha il grande pregio di essere chiara e di sapere ciò che vuole.

Tina, come ha cominciato ad occuparsi di ragazzi di strada?
«Ho cominciato a lavorare con loro nel 1998 in una chiesa giudeo-messianica guidata da un pastore giudeo. Cominciammo servendo ai ragazzi due pasti al giorno. Oggi ne serviamo 250».

Alla settimana?
«No! 250 al giorno… Poi è successo che i ragazzi iniziarono a domandare ogni giorno di più, ma nella chiesa era impossibile lavorare con tutta quella gente. Così, con molti sacrifici e con i soldi dei miei due nipoti, decidemmo di comprare una casa. Nel 2000 ne trovammo una nel quartiere San Cristobal. Poi, per questioni di norme legali, nel 2001 ci siamo trasformati in fondazione, la Fondazione “Ayudemos a crecer”. Ma a causa di una nuova legge, quella casa non era più adeguata e quindi abbiamo comprato questa, nel barrio di Barracas. Abbiamo impiegato 4 mesi per ristrutturarla e altri 8 per ottenere l’abilitazione».

Quanti ragazzi accogliete qui dentro?
«La notte dormono qui 16 bambini. Mentre d’inverno, durante il giorno, possiamo arrivare a 30. Vengono a fare una doccia, a mangiare, a guardare un attimo la televisione o a seguire qualche corso».

Dunque, se i ragazzi transitano di qui, a cosa serve esattamente un parador?
«Il parador è una struttura intermedia, tra la strada e una struttura consolidata come l’hogar. Se il ragazzo riesce a rimanere nel parador per 2 o 3 mesi, significa che può essere pronto per un hogar».
Chi sono i frequentatori di questo parador?
«Qui arrivano bambini della strada, che consumano droghe. Paco o qualsiasi altra».

E qui, com’è fatta una loro giornata?
«Durante l’estate, si alzano, fanno colazione e vanno alla colonia. Arrivano verso le cinque del pomeriggio. Fanno merenda. Poi c’è qualche attività. O vanno a giocare a pallone: il calcio è la cosa che più piace. Qui vicino ci sono campi e giardini pubblici. Per fortuna, perché se giocassero qui dentro, con la palla romperebbero tutto!».

Ricevete degli aiuti pubblici per lavorare con i ragazzi?
«Per il comedor riceviamo aiuti dal governo di Buenos Aires che ci dà gli alimenti. All’inizio ricevevamo aiuti da qualche chiesa, ma oggi questo è diventato difficile perché ciascuna chiesa ha le proprie necessità. Ognuna ha costituito una propria fondazione che si occupa della gente del barrio dove opera. La realtà è che, giorno dopo giorno, crescono i bisogni. Per parte mia, posso dire che avevo dei risparmi raccolti in 45 anni di lavoro, risparmi che ora non ci sono più, dato che sono stati investiti nella ristrutturazione di questa casa».

Tina, perché ha scelto di seguire i ragazzi di strada?
«Noi – intendo io, i miei fratelli, mamma e papà – eravamo molto poveri, ma Dio ci aiutò molto. Abbiamo potuto studiare. Dunque, abbiamo sentito l’obbligo di ringraziarlo per ciò che ci aveva dato. Non so se molto o poco però abbiamo ricevuto. Questo vogliamo insegnare ai ragazzi: che possono uscire dalla loro situazione e che un domani loro stessi potranno aiutare altri».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il deserto è rifiorito

Primi battesimi ad Arvaiheer

Dopo quattro anni di studio della lingua e cultura del paese, nel 2007 i Missionari della Consolata hanno aperto la missione di Arvaiheer, a 340 km dalla capitale. Il giorno di Pentecoste di quest’anno hanno raccolto i primi frutti: sei donne hanno ricevuto il battesimo.

L’inverno è stato particolarmente rigido in tutta la Mongolia, causando la morte di alcuni milioni di capi di bestiame. E ad Arvaiheer, ai margini del deserto dei Gobi, neve e gelo hanno provocato un autentico disastro. Grazie alla solidarietà ricevuta attraverso la campagna «Mongolia: emergenza gelo», abbiamo potuto aiutare le famiglie più bisognose, provvedendo loro cibi, abiti, carbone, farina e fieno per gli animali.
Con la fine dell’inverno, la steppa e il deserto hanno ricominciato ad inverdire. Anche in questi angoli sperduti dell’Asia la vita vince sempre sulle difficoltà e sulle disperazioni e sulla morte. E non solo in senso materiale.
Lo scorso 23 maggio, domenica di Pentecoste, è stato un giorno di festa tutta speciale per la missione di Arvaiheer: 6 donne del paese hanno infatti ricevuto il battesimo. Dal nostro arrivo in Mongolia nel 2003, a parte la breve esperienza nella capitale, nel quartiere dell’aeroporto di Ulaanbaatar, sono questi i frutti visibili della nostra presenza di evangelizzazione in questo paese.
Sappiamo che quanto rimane nascosto nel cuore delle persone, senza riscontri estei, ha un valore immenso, che sfugge alla logica del computo e delle statistiche; non sono queste le cose che ci interessano. Nondimeno desideriamo ringraziare il Signore per queste scelte di vita sulle quali si costruisce la comunità cristiana.
Le sei nuove sorelle in Cristo hanno fatto una scelta di vita radicale, se si pensa al contesto in cui vivono e alla novità del messaggio cristiano per tutta questa popolazione. Battogoo (Lucia) è la più giovane (23 anni) e la più timida: cresce con tanta cura il suo figlioletto Byambadorj, senza la presenza del marito, e non è la sola in questa situazione; Perlimaa (Rita) e Diimaa (Elisabetta) sono due sorelle di una numerosa famiglia, la prima ex-operaia al tempo del comunismo e la seconda insegnante d’asilo in pensione; Narantuya (Caterina) e Otgonbayr (Maddalena) abitano nello stesso terreno, ma una vive di espedienti con figli e nipoti a carico, mentre l’altra ha marito e due figli; infine Deejit (Anna) si è stabilita da tre anni ad Arvaiheer, dopo aver perso il bestiame in aperta campagna, e vive con madre, figlia e nipoti in una piccola ger regalatale dalle sorelle.
Con noi hanno percorso un cammino di scoperta della fede e poi di preparazione ai sacramenti per più di due anni. In questo tempo di condivisione e di scambio ci hanno aperto spiragli veri sulle loro famiglie, spesso in situazioni difficili, a volte affaticate dalla povertà e dalle prove di una vita non facile, dove il contatto con il limite e le fragilità (la morte soprattutto) non è ancora stato esorcizzato dalla tecnologia e dalle illusioni del consumismo.
Per noi è stata una grazia vedere come queste vite erano già segnate misteriosamente dalla presenza di Dio che le ha guidate a questo incontro personale con Gesù.
La decisione di chiedere il battesimo l’hanno presa lo scorso autunno e passo dopo passo è cresciuto in loro il desiderio di entrare in questa vita nuova di perdono, misericordia e comunione intima con Dio. L’unione fra di loro è andata via via aumentando, soprattutto negli ultimi mesi, in cui hanno anche avuto la possibilità di incontrare altri mongoli cattolici in un viaggio ad Ulaanbaatar, accompagnate dai loro catechisti, suor Lucia e padre Eesto.
Il giorno in cui abbiamo chiesto loro un colloquio personale di verifica erano emozionate e un po’ impaurite dal dubbio di non ricordarsi qualche punto della catechesi; invece hanno dimostrato di aver recepito almeno i punti essenziali della dottrina cristiana e soprattutto hanno manifestato spontaneamente un vero desiderio di abbracciare la vita dello Spirito.
Una di loro l’avevamo vista recarsi al monastero buddista per riconsegnare l’altarino tradizionale, di cui conserva il rispetto dovuto alla tradizione, ma che non si sente più di tenere nella ger come oggetto di culto.
Tale evento è stato per noi un momento anche di intensa preghiera, che ha coronato un lungo periodo di preparazione e segnato l’inizio di un cammino altrettanto lungo, anzi per sua natura destinato a non finire.

La vita della grazia, infatti, si innesta in noi con potenza, ma necessita di continue riprese e risurrezioni quotidiane. Come quella che abbiamo sperimentato la vigilia di Pentecoste. Sapevamo di certi dissapori che erano venuti a crearsi nel gruppo, per via di malintesi, pettegolezzi e ferite di questo genere. Secondo la tradizione buddista il diffamare gli altri attraverso mezze verità e giudizi calunniosi è uno dei 10 «peccati» più gravi e ne abbiamo toccato con mano gli effetti nefasti: persone in lite tra di loro, che si discreditano a vicenda presso gli altri col raccontare i peccati altrui e così «rovinare il nome» di quella famiglia.
Non potevamo arrivare al battesimo senza una riconciliazione vera: così abbiamo organizzato un momento di chiarimento, dopo la condivisione della Parola di Dio del sabato pomeriggio. In presenza delle interessate, abbiamo esposto il problema e dichiarato che per chi abbraccia la vita cristiana non ci può essere spazio per falsità e inganni; quindi abbiamo invocato lo Spirito e invitato le presenti a dirsi una volta per tutte la verità.
C’è stata tensione, ma poi le lacrime hanno rotto gli argini e si sono dette quello che si dovevano dire; il passo successivo è stato quello di alzarsi dal proprio posto e tendere la mano a ciascuna delle altre, chiedendo scusa e offrendo il proprio perdono. Infine padre Eesto ha letto il brano della lettera di Giacomo sulla necessità di controllare la propria lingua: «Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare!» (Gc 3,5).
Il seguito è stato un sospiro di sollievo e un ritorno del sorriso su volti bagnati dal pianto; è stato così bello vedere di nuovo la vita negli occhi di quelle donne, mentre bevevano un tè a casa nostra per festeggiare la riconciliazione!

Poi il gran giorno di Pentecoste: la luce entra dal tondo centrale della ger-cappella proprio a illuminare le camicie bianche, cucite in stile mongolo che le neo-battezzate adesso indossano ogni domenica.
Grande partecipazione di tutta la comunità, occhi incuriositi di bambini e adulti mentre l’acqua gocciola dalla testa nel fonte battesimale. L’atmosfera raccolta ha facilitato la liturgia, con i suoi segni sobri ed essenziali, ben preparati da tutti.
Dopo la messa un momento di festa organizzato dalle altre donne della comunità: sembrava di essere a un banchetto tradizionale, non tanto per cibi raffinati (che non c’erano), ma per la solennità semplice delle tradizioni mongole, con bambini che recitano poesie interminabili, giovani che mettono in scena atti di commediole e adulti che cantano le lodi della madre, compresa la madrina, suor Lucia, che si è vista regalare una camicia tradizionale di colore azzurro, come il cielo.
Desideriamo ringraziare con voi il Signore per questo momento di celebrazione delle sue lodi; lo facciamo insieme alla Consolata, madre nostra e di tutti i figli e figlie di Dio di ogni popolo e nazione. Evviva!

Daniele Giolitti

Daniele Giolitti




Sulle orme dello zio

Quando l’esempio non muore

Amazzonia, missione Catrimani, questa la meta del nostro viaggio. Fino a due anni fa neanche ci conoscevamo, ma la curiosità e l’interesse per la figura di padre Giovanni Calleri ci portano oggi a partire per una regione sperduta a nord ovest del Brasile, Roraima.
Quarant’anni, tanto ha atteso questo viaggio per essere realizzato. p. Calleri, missionario della Consolata originario di Carrù (CN), diocesi di Mondovì venne ucciso nel 1968 durante una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí; da allora nessun parente si è recato in quei luoghi, anche se diverse iniziative sono state portate avanti per mantenee vivo il ricordo. Ultima fra le quali è stata la mostra «Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio», un percorso di conoscenza e animazione missionaria nei luoghi che ne avevano visto il passaggio e il lavoro pastorale prima che il furore missionario lo portasse nel suo amato Brasile. Come non lasciarsi trasportare dall’entusiasmo sempre crescente? Così è nata e ha preso forma l’idea di ripercorrere le orme di p. Giovanni.
Non sappiamo di preciso a cosa stiamo andando incontro, quali possano essere le difficoltà e la realtà che ci troveremo davanti, abbiamo solo voglia di capire le motivazioni che spingono un uomo a sposare una causa, fino a perdere la vita per essa.
La città dei contrasti
P. Giovanni giunse in Brasile nel 1965, atterrando a San Paolo, dirigendosi poi a Manaus, e quindi a Boa Vista, Belem, il Catrimani, Porto Alegre, e infine, nella terra dei Waimiri Atroarí, dove la sua missione ha avuto il suo completamento.
Anche il nostro viaggio alla ricerca di segnali, storie, testimoni e luoghi che ci rivelino il suo passaggio ha inizio da Manaus. Il caldo umido si fa subito sentire rendendo l’aria difficile da respirare.  Metropoli strappata al verde dell’Amazzonia, ricca e povera in un’alternanza di tempi storici e di distanze di quartieri, a Manaus i contrasti sembrano correre vicini senza mescolarsi, come le acque chiare del Rio Solimões con quelle scure del Rio Negro.
Visitandone il centro, la città ci appare brulicante di vita e di commercio: conseguenza fastosa del periodo dell’oro giallo e di quello nero, la gomma. Ci dirigiamo verso il porto: dobbiamo comprare le amache per le notti in foresta. Il mercato, ricco di spezie, erbe medicinali, animali, carriole di frutta e verdura, ci cattura in un’avvolgente atmosfera di colori, odori e rumori. Missione compiuta, acquistiamo le amache con relativa corda: ci viene consigliato di comprare delle amache matrimoniali, dotate di una corda lunga almeno tre metri per parte in modo da riuscire a legare l’amaca anche quando non si hanno appigli vicini. Sono segreti che si riveleranno preziosi nelle aree indigene.
I contrasti iniziano ad apparirci sempre più evidenti. Dalla balconata del Teatro Amazonas l’obiettivo della macchina fotografica si posa dapprima sulla piazzetta antistante, dai tenui colori pastello, abbellita da alberi verdi e da caffetterie segnalate nelle guide turistiche, per poi inquadrare in lontananza i quartieri grigi e poveri di Manaus. Se il Teatro costituisce la principale attrazione della città – qui si spingono i pochi turisti che visitano Manaus prima delle escursioni in foresta – il panna e il rosa della facciata in stile europeo e la cupola dorata, che riprende i colori della bandiera brasiliana, stonano con la povertà di Manaus, soprattutto con quella delle favelas che appaiono a poca distanza dal nostro privilegiato punto di osservazione. «A chi troppo e a chi niente», pensiamo osservando grandi supermercati e i grattacieli delle multinazionali, che si innalzano su una distesa di baracche.  
Un’immagine che si rafforza quando, accompagnate dai missionari, visitiamo le zone povere della città: il bairro Santa Tereza, il quartiere di Santa Etelvina e la realtà delle palafitte che si reggono l’una sull’altra lungo gli igarapé (piccoli fiumi), ricettacolo di spazzatura e di zanzare portatrici di dengue e malaria.
Sono quartieri che si espandono tra la zona Nord della città, vicino ai nuovi distretti industriali, e intorno al centro. Si sono sviluppati negli anni a seguito delle ondate migratorie e presentano differenze nel tipo di costruzioni, in quanto le favelas più vecchie sono ormai dotate di qualche «comfort» in più rispetto a quelle appena costruite in un bairro di invasione in una periferia in costante crescita. Tuttavia le pessime condizioni igieniche, l’odore che si respira, la luce elettrica che arriva nelle case abusivamente (è impressionante vedere quanti fili vengano attaccati a un traliccio della compagnia elettrica!), accomunano queste realtà così come corruzione, mercato nero, prostituzione, traffico di droga e di persone.
Dai racconti dei missionari che ci accompagnano apprendiamo le problematiche e le difficoltà che si incontrano a lavorare in questo contesto, come, ad esempio, il creare comunità in un luogo così marcato dalla diversità etnica e culturale delle persone che vi abitano. Noi, chiaramente, ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che vediamo, ma ci sono persone che sanno vincere questa prima sensazione e che non rinunciano a lottare per portare anche solo un segnale di presenza e speranza. Una tra queste, è p. Ruggero Ruvoletto, che conosciamo nel bairro di Santa Etelvina, tutto intento nei preparativi della festa che si sarebbe svolta la sera stessa e che, per la prima volta, avrebbe coinvolto varie comunità vicine. Purtroppo, dopo neanche un mese dal nostro rientro in Italia, veniamo a sapere della tragica uccisione di questo missionario della diocesi di Padova, partito dall’Italia con l’intento di fare del bene, cosa che ha fatto finché gliene è stata data la possibilità.
Lungo la BR-174
Sveglia all’alba, addolcita dal pane fresco, dalla papaia e dalla marmellata di guajava che i padri ci fanno trovare per colazione, zaini sul furgone coperti da teli per ripararli dagli improvvisi acquazzoni che si incontrano attraversando l’Equatore, si parte!
Emozione, eccitazione, curiosità, consapevolezza del significato che ha per noi questa tappa del viaggio, malinconia al tempo stesso, questi i sentimenti che ci accompagnano lungo la BR-174: ci sentiamo immerse nella storia e siamo vigili a ogni dettaglio e segnale che ci parli di p. Giovanni.
La prima sosta è per visitare la «Escola Municipal Padre Calleri» posta ai confini tra la città e la foresta, costruita per accogliere i bambini delle diverse realtà circostanti che la raggiungono, chi in scuolabus, chi in canoa, chi a piedi. Ci fa piacere che questa scuola porti il nome di p. Giovanni soprattutto perché le sue classi miste (sia per età che per provenienza culturale), i colori allegri dell’edificio e i programmi di studio che la direttrice ci illustra, ci trasmettono una sensazione positiva.
A pochi chilometri dalla scuola il paesaggio inizia a cambiare; la BR-174 si addentra nella foresta e una volta penetrati nella riserva indigena Waimiri Atroarí l’asfalto cede il posto alla terra rossa, unica concessione governativa garantita agli indios per la salvaguardia del loro territorio. Un tempo una targa in metallo fissata su un tronco sul ciglio della strada commemorava la spedizione di p. Calleri; oggi rimane solo il tronco: la targa è stata purtroppo rubata. Un cartello avverte che non si possono fare foto, buttare spazzatura, disturbare gli animali, fermarsi; con gentilezza aggiunge: «Os Waimiri Atroarí agradecem boa viagem». Proseguiamo, accompagnati dagli auguri di buon viaggio della gente del posto.
Lungo il percorso, altri segnali indicano la presenza di p. Giovanni: nella piazza di Caracaraì, paesone rurale non distante da Boa Vista, sorge una statua che ritrae p. Calleri con una donna india e un bambino, inaugurata pochi anni fa in ricordo del lavoro che il missionario svolse con gli indigeni.
«Seja bem-vindo nesta cidade» (Sii il benvenuto nella nostra città), così ci saluta a Boa Vista la Rua Padre Calleri – alle volte scritto con una L soltanto, alle volte con due.).
Siamo arrivate nella città che conserva i resti di nostro zio: mentre leggiamo e rileggiamo la targa posta sotto l’altare maggiore della chiesa matrice, sentiamo tutti i nostri famigliari vicini. Ci hanno accompagnato nel lavoro di recupero della memoria, sostenuto, incoraggiato e sicuramente, vista la distanza che ci separa, ci staranno pensando. Non è l’ultimo incontro che faremo con i resti e con i ricordi di p. Giovanni, ma è sicuramente il più intimo.
In città scopriamo che si sta diffondendo la voce del viaggio delle sobrinhas netas (pronipoti) di p. Calleri e divertite ci lasciamo intervistare dalla radio FM Monte Roraima:
«Quale messaggio può trasmettere p. Calleri ai giovani?» ci domandano; ce lo siamo chiesto molte volte presentando la mostra alle tante scolaresche del cuneese che hanno avuto modo di visitarla.
«Speriamo che l’esempio di p. Calleri sia di incoraggiamento per i giovani a percorrere strade anche difficili per perseguire le proprie idee e quello in cui si crede».
Queste parole ci guideranno anche nelle aree indigene…
La regione de Las Serras
«Influenza suina a Roraima. La Funai sospende l’entrata di visitatori nelle terre indigene».
Con questi titoli i giornali locali aprivano in quei giorni le loro edizioni. Erano i giorni caldi della febbre suina e noi vivevamo nell’incertezza più assoluta: saremmo mai riuscite a visitare le aree indigene?
In questi luoghi non avere certezze è prassi comune, lo avremmo capito dopo poco. I missionari sono abituati a questa situazione e ormai non si lasciano più scoraggiare.
Devono essere gli indios a farci entrare nella loro terra, i missionari in questo tratto non possono venire con noi in quanto anch’essi considerati «visitatori». Il 15 agosto partiamo quindi con alcuni Macuxí, tra cui il leader della comunità (tuxaua); ci penseranno loro a farci superare i posti di blocco. Nella complessità dello stato di Roraima, la Raposa Serra do Sol, area indigena che comprende cinque comunità (Macuxí Wapichana, Tuarepang, Ingariko e Patamona), costituisce una realtà peculiare: situata nella punta Nord-est della Cabeça do Cachorro (regione dalla forma a testa di cane), al confine con la Guiana e con il Venezuela, è un’area continua indigena, continua nonostante all’interno di quest’area sia presente il municipio di Uiramutã, non indio, e il Goveo abbia intenzione di costruire delle centrali idroelettriche (come quella della Cachoeira do Tamanduá, Rio Cotingo). Ci mettiamo in marcia per Uiramutã, sperando di poter proseguire per Maturuca, centro della comunità Macuxí.
Il viaggio in macchina è lungo, su strada sterrata, e il nostro portoghese stentato non aiuta il dialogo con l’autista. Bastano però alcuni sguardi, rassicuranti.
Arriviamo ad un fiume, aspettiamo, passa un pulmino della Funai, attimi di paura, poi il fuoristrada sale su una zattera e dopo pochi minuti siamo dall’altra parte del fiume Uraricuera; la prima difficoltà è superata.
Da qui a Uiramutã sono ettari e ettari di savana, la vegetazione è bassa, brulla, alcune vacche bianche ci attraversano la strada, libere. Libertà, vale la pena lottare per essa, e il popolo Macuxí lo sa bene.
Giungiamo al posto di blocco… tensione, preoccupazione di tutti, anche degli indios che però provano a tranquillizzarci. Lo superiamo, e dopo soli pochi metri ci fermiamo a bere qualcosa, ormai non siamo più in pericolo, siamo tra amici.
La regione delle montagne (las Serras) ci accoglie con il tramonto di Maturuca e con tutta la comunità vestita a festa con abiti tradizionali che canta e danza per noi.
I giorni seguenti visitiamo i progetti che la comunità sta realizzando per far fronte ai cambiamenti climatici e alla conseguente carenza di cibo: gli orti comunitari, con manioca, riso, etc., e la pescicoltura. I leaders delle comunità della Raposa e i cornordinatori locali ci parlano della storia della lotta per il riconoscimento e l’omologazione dell’area, avvenuta nel 2005, e dell’attuale organizzazione delle comunità. I Macuxí sono un popolo fiero, consapevole dei propri diritti e con la voglia di lottare per essi e per la terra che è stata lasciata loro dagli antenati e custodisce quindi tutta la storia e la tradizione di questo popolo.
Il lavoro che i missionari hanno sviluppato negli anni in questa regione è stato di appoggio fondamentale alla lotta per i diritti dei popoli indigeni. La festa per l’accoglienza si unisce al momento del distacco della comunità da p. Tiago (Giacomo Mena), che dopo tanti anni a Maturuca lascia la guida della missione. È un momento di grande intensità a cui anche noi assistiamo, commosse e felici al tempo stesso di essere qui a partecipare a questo passaggio storico.
Come il benvenuto, anche il congedo è un momento di festa. Jacir, storico tuxaua indigeno, ci dona, in quanto nipoti di p. Calleri, una collana di semi in ricordo della spedizione, impegnandosi a raccontare ai Waimiri Atroarí presenti nel CIR (Consiglio Indigeno di Roraima) la vera storia del massacro e il nostro viaggio sulle orme di p. Giovanni.
Nel cuore della foresta
I nuvoloni che si addensano all’orizzonte non aiutano ad affrontare con tanta tranquillità il volo che ci porta alla missione Catrimani, partendo da una pista clandestina, sperduta nei campi della periferia di Boa Vista. L’aereo è minuscolo, cinque posti, mai preso uno così piccolo. Saliamo e iniziamo a sorvolare la foresta.
Atterriamo sulla storica pista, costruita più di quarant’anni fa da p. Calleri e p. Bindo Meldolesi, che si allunga sulla terra rossa a poca distanza dal fiume. L’arrivo appaga di tutti gli scossoni e timori del viaggio: non appena scendiamo dall’aereo scorgiamo le casette verdi della missione e gruppetti di indios che ci attendono incuriositi. Sanno del nostro arrivo e hanno raggiunto la missione per conoscerci. Rimaniamo inevitabilmente colpite dai loro corpi nudi, colorati di rosso e oati di perline e piume, ma presto comprendiamo quanto la fisicità qui sia vissuta naturalmente e liberamente, in un rispetto autentico del pudore.
La loro lingua, per noi incomprensibile, non si rivela però un ostacolo, a breve ci troviamo sedute con Maria Zinha, leader indigena di una delle comunità più vicine alla missione, e con delle bambine molto curiose con le quali iniziamo una comunicazione espressa attraverso gesti, disegni e sorrisi.
P. Corrado e p. Laurindo ci accompagnano nell’esplorazione in terra Yanomami. Amache e provviste alla mano, partiamo in barca per la visita alle comunità più lontane dalla missione.
La prima sosta è presso una comunità indigena la cui maloca (casa comune) è spaziosa ma, a differenza di altre, è tutta chiusa ad eccezione di un piccolo foro in cima; il fumo dei fuochi accesi all’interno e l’odore di cibo reso ancora più acre dal caldo e dall’umidità fanno sì che l’aria sia pesante da respirare. Gli indios si dondolano nelle loro amache rosse appese a sostegni in legno, preparano le focacce di tapioca o tessono; ci guardiamo incuriositi, noi e loro. Chiediamo il permesso di scattare qualche foto, rimaniamo affascinate dai colori di un piccolo tucano che i bambini tengono con sé, ma presto torniamo alla barca e via di nuovo contro corrente.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la comunità indigena presso cui passeremo la notte: siamo allo stesso tempo eccitate e titubanti all’idea di dormire in maloca. Gli Yanomami dimostrano nei nostri confronti un’attenzione e una sensibilità che non ci saremmo aspettate: consapevoli delle nostre difficoltà ad adattarci all’ambiente chiuso e comune della maloca, ci riservano due piccole costruzioni estee. Appendiamo le nostre amache e ci lasciamo cullare per un riposo pomeridiano, che non si rivela però essere troppo lungo. Poco dopo infatti insieme agli indios ci immergiamo esitanti nelle acque fangose del fiume, piacevole momento di sollievo dal caldo umido.
Visitiamo i campi di manioca coltivati dagli indios e ci avventuriamo all’interno della foresta, dove la vegetazione si fa più fitta e a stento la luce riesce a filtrare. I bambini ridono della nostra goffaggine nel muoverci nel loro habitat e un po’ per dispetto, un po’ per vanto, si arrampicano ovunque.
Il calare del sole ci riserva un incontro con tutta la comunità. Vengono invocati gli spiriti degli antenati con danze e canti delle donne, che si tengono per mano quasi a formare un cerchio, espressione di tutta la comunità raccolta in questo momento. Le donne nel popolo Yanomami sono le custodi della famiglia, della tradizione e dei valori comunitari. Proprio il concetto di comunità assume in questo luogo delle sfumature nuove per noi: qui il singolo è parte integrante della comunità, in un modello allargato di famiglia che è fonte di protezione, riferimento e sopravvivenza.  
Dopo le reciproche presentazioni, i tuxaua ci illustrano la loro organizzazione, i loro progetti e condividono con noi i ricordi che hanno di p. Calleri. Gli indios che l’hanno conosciuto – ai tempi erano bambini – lo ricordano come un uomo molto generoso e un gran lavoratore. In quegli anni p. Calleri infatti stava costruendo la missione Catrimani e la pista dell’aereo e si serviva molto dell’aiuto degli indios, ripagandoli poi con coltelli e altri beni che questi non possedevano. L’affermazione che ci colpisce di più è quella del tuxaua Carrera, secondo il quale per gli indios Yanomami l’incontro con p. Calleri è stato il primo contatto positivo con i bianchi.
Quando usciamo dalla maloca, il cielo è completamente stellato. Titiri, lo spirito della notte, ci accompagna.
Facciamo ritorno a Boa Vista in un turbinio di emozioni, e ci tornano alla mente le parole che p. Giovanni scrisse nel ’65 ai parenti in Italia:
«Qui ho avuto l’impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso quasi completamente dalla nostra Europa, uomini e cose. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi civilizzati fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente. Costì mi pare che stiamo già passando in una fase vecchia di vita, qui una fase nuova e fresca. Per cui non demoralizzarci ma guardare con un occhio anche a questi per completare le nostre vedute. In conclusione: qui non si tratta solo di battezzare, sarebbe facile, bensì di impostare un mondo che in un domani ci potrà anche essere utile».
Prima di rientrare in Italia abbiamo sfruttato ancora per qualche giorno le bellezze di questo splendido paese. Dopo l’esperienza vissuta a Roraima e le emozioni provate nel ripercorrere i passi di nostro zio, lasciandosi invadere dai luoghi e dalle voci che ne avevano popolato la storia, non restava però davvero altro da raccontare.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto

PADRE GIOVANNI CALLERI

Padre Giovanni Calleri nasce a Carrù il 15 aprile 1934 e a soli 11 anni entra in seminario a Mondovì. Da sacerdote esercita il suo ministero dapprima in diocesi, distinguendosi da subito per la sua personalità esuberante e dinamica che non lascia indifferenti, soprattutto i giovani. Questi aspetti del suo carattere lo accompagnano anche nel suo compito di missionario della Consolata in Brasile, dove arriva nel 1964. Insieme a padre Bindo Meldolesi costruisce la Missione del Catrimani, in una zona dell’Amazzonia ancora pressoché inesplorata, e inizia un cammino di reciproca conoscenza e scambio culturale insieme agli indios Yanomami.
Nel 1968 parte per una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí, ma dopo poco meno di un mese si perdono i contatti con i membri della spedizione, i cui corpi senza vita verranno ritrovati il 30 novembre dello stesso anno.
L’assassinio di padre Giovanni Calleri e dei suoi compagni di spedizione si inserisce in una delle tante pagine buie che hanno segnato l’insediamento dell’uomo bianco in territorio amazzonico. Nel 1967 il governo brasiliano inizia la costruzione della strada BR-174 per collegare Manaus con Boa Vista e il Venezuela, abbattendo grandi estensioni di foresta e attraversando il territorio degli indios Waimiri Atroarí, che si oppongono al passaggio della strada. Padre Calleri individua un’area limitrofa in cui istituire un «parco protetto» per preservare il gruppo indigeno e la sua identità etnico-culturale. Il piano di contatto da lui elaborato potrebbe garantire il successo della spedizione ed evitare ai Waimiri Atroarí violente ripercussioni. Purtroppo, la riserva si trova nel cuore di un’area ricca di minerali al cui sfruttamento mirano i potentati economici brasiliani ed americani, che si mobilitano subito per impedire la riuscita del progetto.
Sebbene la versione ufficiale incolpi del massacro gli stessi indios Waimiri Atroarí che non vogliono la costruzione della BR-174 sulla loro terra, ricerche seguenti condotte in modo particolare da padre Silvano Sabatini, rivelano scenari molto più complessi ed inquietanti.

Per approfondire la storia di padre Calleri:
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica. La spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri Atroarí, Emi, Bologna 2001.
Marco Bello, «Massacro. Complotti, interessi, bugie», in Missioni Consolata, settembre 2008.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto




Come una goccia di rugiada

Mukululu –  Gallarate: quando lacrime di gioia e di dolore diventano gocce di vita e fraternità

 

Le gocce della foresta pluviale del Nyambene sono tra quelle più fotografate al mondo. Io stesso le ho fotografate per vent’anni. Non sono gocce diverse dalle altre, è sempre e solo acqua, eppure quelle hanno un fascino tutto speciale, perché da quelle gocce dipende ormai la vita di migliaia di persone. Vi riassumo qui quarant’anni di una storia, che forse avete già letto altre volte su queste pagine.

GOCCE, MILIONI, MILIARDI DI GOCCE

C’era una volta una regione ai piedi del Monte Kenya, tutta terra vulcanica fertilissima, dove fiumi, ruscelli o sorgenti sparivano ingoiati dal terreno dopo una vita fugace. L’acqua era il cruccio e la fatica più grande delle donne. Se ne trovava poca e a grandi distanze. I bambini soffrivano; la poliomielite era di casa.
Un giorno, negli anni Sessanta, un missionario dal cuore (P. Franco Soldati) grande creò a Tuuru un centro per i piccoli malati di polio. Vi si facevano miracoli di carità. All’acqua provvedeva la pioggia. Poi venne una grande siccità, ma nessuno aveva il cuore di rimandare i piccoli là da dove erano venuti. Il vescovo del posto (Mons. Lorenzo Bessone di Meru), che doveva fare il burbero, ma burbero non era, convocò senza preamboli un giovane fratello missionario che si era già fatto notare per la sua capacità di risolvere situazioni impossibili. «I bambini hanno bisogno di acqua», gli disse. «Pensaci tu». Il giovane, che mago non era, ma aveva intelligenza, volontà e cuore da vendere, si mise all’opera e trovò l’acqua lontano, lontano, nascosta nella foresta su un vulcano addormentato, il Nyambene. Giuseppe si chiamava, della famiglia degli Argese da Martina Franca, la terra dei trulli, dove l’acqua è sempre stata un bene più prezioso dell’oro.

Una foresta generosa

Senza soldi e tanto ingegno si mise all’opera per far sì che i piccoli polio di Tuuru potessero bagnarsi nelle salubri acque della foresta del Nyambene. Motori e pompe fuori questione, si alleò con la gravità e in men che non si dica, si fa per dire, il progetto fu pronto. Con l’aiuto del vescovo si trovarono anche i finanziatori, generosi ed efficienti, della Misereor di Germania. «Compera uno scavatore e il lavoro sarà fatto in un attimo», gli dissero. Fece due conti. Uno scavatore = lavoro per 100 operai per tre anni. Comperò pale, picconi e carriole; formò sul campo muratori e carpentieri, falegnami e scalpellini, idraulici e tubisti. Ed ecco là: nel 1971 a Tuuru bastava aprire un rubinetto e l’acqua scorreva in abbondanza. Ma …
Ma non erano solo i piccoli di Tuuru ad aver bisogno di acqua. Lungo i 25 chilometri del tracciato quante capanne, quanti villaggi, quante scuole. Acqua, più acqua, ancora acqua. Però la sorgente iniziale era davvero piccola.
Come accontentare tutti? Osservazione e gambe buone furono gli alleati di fratel Mukiri (già, perché la gente aveva cominciato a chiamarlo così, il silenzioso). L’osservazione, che gli fece notare come i canali appena scavati si riempissero d’acqua ogni santo giorno. Le gambe buone, che lo portarono ad esplorare ogni angolo della vasta foresta alla scoperta di sorgenti e rivoletti d’acqua.
Da dove veniva quell’acqua che invadeva gli scavi, visto che non c’erano né sorgenti né ruscelli né scrosci di pioggia nottua? Quel che osservava era solo la gran nebbia mattutina e la rugiada abbondante in un ciclo continuo tra la foresta e l’atmosfera. Saltò allora dentro gli scavi e cominciò a studiare il terreno, strato dopo strato. Ed ecco lì il segreto svelato: un leggero manto di argilla impermeabile raccoglieva tutta l’acqua immagazzinata dall’humus della foresta. Evaporazione, condensazione, nebbia, gocce di rugiada sulle foglie, inumidimento dell’humus: un ciclo vitale continuo dove la foresta assorbiva l’umidità dell’atmosfera anche durante i periodi senza pioggia.
Da qui allo scavo di gallerie che seguissero lo strato sotterraneo di argilla, il passo fu breve. Le gocce, milioni, miliardi di gocce divennero rivoletti. I rivoletti, convogliati nell’acquedotto, si trasformarono in vita per cento, mille, centomila persone in più.

Un lungo cammino

Dopo quarant’anni i risultati sono là, davanti a tutti. C’è una rete di oltre 250 chilometri di tubi con molti serbatorni sparsi sul territorio; ci sono centinaia di water points (lett. punti acqua) e rubinetti comunitari, in villaggi, posti di mercato e case; decine di scuole e centri di salute possono riempire i loro serbatorni, e oltre 270 mila persone e quasi 70 mila animali beneficiano dell’acqua della foresta pluviale del Nyambene. Ogni giorno, quando le stagioni sono regolari, 3 milioni e mezzo di litri vengono distribuiti (ca. 13 litri per persona, non contando gli animali). Non molti secondo i nostri standard (noi consumiamo in media 80 litri a testa al giorno!), molto meglio di quando di litri ne avevano solo 40 per famiglia alla settimana, ma ancora molto lontano dal livello minimo di 25 litri per persona al giorno suggerito dalle Nazioni Unite.
Durante i periodi di siccità, che non mancano mai, l’acqua viene razionata e ridotta a un milione e mezzo di litri al giorno, equivalente a solo 6 litri a testa. Poco sì, ma … è vero, dopo quarant’anni di lavoro c’è ancora molto da fare per assicurare quello che è un bene essenziale e un diritto fondamentale di ogni uomo (checché ne dicano certe convenzioni interazionali manipolate dalle lobby dei signori dell’acqua che ne vogliono la privatizzazione a tutti i costi).
Evidenzio poi, tra gli altri, due grossi risultati: il centro per bambini polio a Tuuru è quasi senza clienti e, dopo quarant’anni, il progetto continua a funzionare, cresce ed è pieno di nuove idee. Se pensate che questo sia un risultato da poco, basta ricordare che moltissimi altri progetti contemporanei o simili sono disastrati o defunti.

Verso il luogo di costruzione dell’URA Dam 3

Un sogno che cerca altri sognatori

L’ultimo sogno? Fare una diga in foresta per creare un grande bacino artificiale sul torrente Ura (che si perde presto nel fiume Tana), e poter immagazzinare la maggior quantità possibile di acqua, sfruttando le piogge torrenziali caratteristiche del posto. Ci sono già due piccole dighe che insieme immagazzinano 63,5 milioni di litri di acqua, il sufficiente per ammortizzare 20 giorni di distribuzione durante i periodi di siccità o di disastri naturali. Ma è niente quando la siccità dura per mesi, come è successo già più volte, l’ultima l’anno scorso, 2009, quando fu necessario razionare l’acqua per oltre cinque mesi. Così il non più giovane Giuseppe (il prossimo novembre avrà 78 anni) accarezza un sogno: una nuova doppia diga che raccolga prima 500 milioni e poi un miliardo di litri, allora sì, i lunghi periodi di siccità non farebbero più paura, e ci sarebbe acqua anche per orti e piccoli campicelli.
Questo sogno non è di ieri, Giuseppe, i suoi amici e collaboratori del Tuuru Water Scheme (TWS) ci stanno lavorando dal 2006. I progetti sono pronti nei minimi particolari, persone generose ci hanno lavorato per anni con Mukiri. Il tutto è stato studiato in ogni dettaglio, secondo la filosofia che ha caratterizzato il TWS fino ad ora: rispetto, difesa e miglioramento dell’ambiente, coinvolgimento della popolazione locale e tecnologia non invasiva. Questi sono i tre capisaldi che hanno  fatto sì che il TWS sia ancora vivo e funzionante, esempio studiato e copiato in tutto il mondo.
Una meraviglia ecologica
Entrare nella foresta del Nyambene è come entrare in una cattedrale gotica. Lasciato il campo di Mukululu, dove Fratel Giuseppe Argese ha la base, si sale attraverso una strada sterrata stretta che zigzaga nel verde di splendidi campi di tè che assediano la foresta da tutti i lati. Entrati nella foresta viene subito da guardare in su in cerca della luce che penetra a stento tra il fitto fogliame, gli alberi enormi come colonne che sostengono il cielo. La foresta è una fragile e stupenda meraviglia ecologica, un prodotto di milioni di anni di paziente lavoro della natura su quello che resta di un vulcano spento, una delle tante bocche ai piedi del maestoso vulcano che era il Monte Kenya.
In questa foresta centinaia di uomini hanno lavorato per oltre quarant’anni a caccia di acqua, e il loro impatto è minimale. Le piste sono strette e zigzaganti tra albero ed albero, abbastanza per passare con un trattore o un fuoristrada. Dove si è lavorato, altri alberi sono stati piantati; dove i lavori sono di tanto tempo fa, la foresta ha riconquistato i suoi spazi perduti. Una pattuglia attenta di guardiani protegge dai boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato, come la canfora. I sentieri sono rinforzati con paletti per farne delle scalinate onde evitare inutili erosioni. I disastri naturali sono curati, anche a costo di enormi sacrifici, come è successo l’anno scorso, quando dopo una notte in cui sono caduti 200 millimetri di pioggia, si sono registrate grosse frane, cedimenti negli sbarramenti e occlusioni ai punti di raccolta acqua.
C’è poi il piano di cintare la foresta, registrata dal governo come area protetta, per evitare le intrusioni, il disboscamento e l’impoverimento del manto boschivo a difesa di un’area essenziale alla vita di tante persone. Il tutto accompagnato anche da un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole e nelle comunità locali, tante volte manipolate da affaristi o politicanti senza scrupoli che vorrebbero mettere le mani su una realtà dalle grandi potenzialità economiche (legname) e politiche (controllo di voti e mani sui fondi di gestione e mantenimento del progetto TWS).

Che possiamo fare?

In questi quarant’anni si sono spesi (bene) miliardi di lire in un progetto amato dalla gente e stimato a livello internazionale. Il finanziamento locale (la gente paga 2 centesimi di euro per ogni 20 litri di acqua, ma non tutti pagano) serve per la manutenzione ordinaria, il rinnovamento delle linee, i salari del personale impiegato nella gestione e manutenzione della rete. Per il grande sogno, la nuova diga con relativo bacino, sono necessari circa un milione di euro.
Sono in molti a crederci: la Diocesi di Meru, il TWS, gruppi di amici ed Onlus (anche la nostra) e Ong varie. Fratel Giuseppe è sereno su questo. Ha cominciato senza soldi e la Provvidenza ci ha pensato. Se anche questa è un’opera che Dio vuole, i soldi arriveranno.
Per gli ampliamenti a livello locale, piccole linee aggiuntive e nuovi punti di distribuzione, si punta invece molto sulla cooperazione locale con l’aiuto di mini progetti sostenuti da amici in tutto il mondo. È in questo contesto che l’esperienza seguente trova il suo spazio. Vi lascio a Samuele Cattaneo, che condivide con noi una storia bellissima.

LA FONTANA DI SUSANNA

Gianluca Water Point

Quante volte chi – come noi – ha figli in età scolare si è domandato il senso dei ripetuti regali di fine anno scolastico o di fine ciclo propinati alle insegnanti? Quante discussioni sfibranti sono state fatte circa il colore della cintura o la caratura della collanina, o la pietra dell’anellino – dell’ennesimo anellino di cui talune insegnanti magari prossime alla pensione hanno pieni i cassetti? Per i nostri tre figli Isacco, Noemi e Susanna, un sacco di volte. Forse per questo motivo, quando Noemi concluse la scuola dell’infanzia, come rappresentanti di classe proponemmo, ai genitori dei bambini che avrebbero definitivamente salutato la maestra Donatella, di pensare a qualcosa di diverso, e forse a lei più gradito. Donatella è stata insegnante d’asilo anche di Isacco, che ora ha 11 anni: la conosciamo bene fin da quel tragico anno (Isacco era al suo secondo anno di scuola materna) in cui in un incidente stradale perse Gianluca, suo unico figlio diciannovenne, dopo più di un mese di terapia intensiva. Con tantissima fatica Dona(tella) si è rialzata dalla grande tristezza, e ha continuato a far crescere con amore i nostri figli e i figli di molte altre famiglie di Gallarate. E dunque quale regalo migliore poteva esserci se non quello di dedicare a Gianluca qualcosa di speciale? Di certo Dona l’avrebbe gradito più che non l’ennesimo ciondolo d’oro bianco … Bisognava solo trovare qualcosa di più comprensibile e utile tanto a chi riceveva, quanto a chi offriva il dono, in questo caso famiglie di bimbi di 5/6 anni. In quell’anno a scuola Dona aveva trattato ampiamente il tema dell’acqua, all’interno di un percorso di educazione ambientale, facendo comprendere quanto questa sia un dono prezioso, da rispettare e non sprecare, soprattutto pensando a quei paesi che ne soffrono l’estrema scarsità. L’acqua è un diritto di tutti, e di tutto bisogna fare perché tutti ne abbiano disponibilità. Perché allora non dedicare a Gianluca la costruzione di un pozzo? Ci siamo subito informati presso diverse associazioni ed ONG, laiche ed ecclesiali, ma ci siamo subito scoraggiati: l’importo minimo per l’escavazione di un pozzo nelle diverse microrealizzazioni a noi note non era inferiore ai 2.500 euro; noi avremmo al massimo potuto raccoglierne 500, almeno inizialmente …

L’incontro con Mukiri

La Provvidenza ha poi fatto sì che la nostra ricerca incrociasse la storia di Fratel Argese e della sua opera come fratello missionario della Consolata in Kenya. Là, da quarant’anni, Mukiri, il silenzioso, unendo ingegno e fatica al naturale fenomeno della rugiada mattutina prodotta dalla fortissima escursione termica lungo le pendici del Monte Nyambene, ha realizzato un sistema idrico che eroga acqua potabile in centinaia di punti di distribuzione ed evitando così decine di chilometri a piedi per l’approvvigionamento d’acqua. Contattati i missionari della Consolata a Torino scoprimmo che con le nostre forze avremmo potuto realizzare un punto di distribuzione per rendere più usufruibile l’acqua di Mukiri. Ecco cosa avremmo regalato a Dona come segno di riconoscenza per l’affetto e la dedizione educativa di quegli anni: un rubinetto aperto in Kenya, a circa 5.800 km da Gallarate!
«Dal Cielo, dove Gianluca abita tra le braccia del Padre Buono, scende la rugiada. Le mani silenziose di Mukiri l’hanno incanalata in mille zampilli che dissetano la gente di Mukululu, e gli allievi grandi di Dona, che lasciano la scuola materna, “hanno aperto” un altro rubinetto, quello della Fontana di Gianluca. Altri bambini berranno da lì, ricordandosi dei loro amici italiani, della loro maestra e di suo figlio».
Con non poche difficoltà queste parole ci aiutarono a convincere gli altri genitori, un po’ frastornati dalla novità dell’iniziativa, e una sera, tutti in pizzeria insieme a Dona, i bambini alternarono la lettura della filastrocca «La fontana di Gianluca» con le loro grida ripetute come tam tam nella savana. Pochi mesi dopo, grazie alla fattiva collaborazione di P. Adolfo De Col, giungeva a Dona la foto del «Gianluca’s water point», come là ormai viene chiamato.
Questa nano-realizzazione ebbe poi un seguito imprevedibile: l’idea di dedicare alla memoria di una persona cara una parte dell’impianto di distribuzione idrica del progetto acqua di Mukiri raccolse altre adesioni: ormai sono numerose le “fontane” che hanno un nome italiano sulle colline del Nyambene.
Ma lo Spirito non aveva smesso di soffiare …

Una goccia di nome Susanna

Pochi anni dopo, nel 2007, Isacco doveva partecipare alla sua messa di Prima Comunione. E anche qui si ripeteva il solito rito consumistico del regalo che ci lasciava tanti dubbi. Pensammo allora che le fontane di Mukiri potevano essere anche qualcosa di diverso da cippi funerari: perché non suggerire ai missionari della Consolata il meccanismo delle “bomboniere solidali” della Caritas Ambrosiana? Al posto dei soldi gettati in angioletti in gesso o in peltro, potevamo offrire gocce di rugiada per una nuova fontana in Kenya, non più dedicata alla memoria di un defunto, ma come segno vivo di una promessa di vita cristiana, di volta in volta arricchita dai doni sacramentali. Iniziammo così a versare le nostre prime offerte per «Isaac’s water point», la Fontana di Isacco. In calce alla targa della fontana, non più una data di morte, ma la scritta «Jesus give him Living Water, Living Bread» (Gesù, donagli l’Acqua viva, il Pane vivo).
Poi il 27 dicembre 2008, alle ore 8.50, un’altra goccia cadde sul Monte Nyambene. Non era una goccia di rugiada, ma la prima di tante lacrime versate da quella mattina per la morte improvvisa di Susanna, la nostra piccola di tre anni e mezzo, stroncata in meno di 48 ore da una polmonite fulminante… «Guidami, Luce Gentile nel buio che mi avvolge, Guidami Tu. La notte è oscura e la casa è lontana, Guidami tu. Custodisci i miei passi. Non ti chiedo di vedere l’orizzonte lontano, un passo alla volta è abbastanza per me …» (J. H. Newman).
Ci fece subito visita la direttrice dell’asilo, insieme a Dona (Susanna da tre mesi aveva iniziato, ancora con lei, la scuola materna): «Molti genitori vorrebbero offrire dei fiori, ma ho preferito prima chiedere a voi»… Guardo negli occhi Daniela (mia moglie) e subito rispondiamo che avremmo preferito dirottare questi soldi … in un’altra fontana. «Susanna’s water point – A life that is lit and that will never stop shining»: una vita che si accende e non si spegnerà mai, furono le parole che ci disse il nostro Vescovo in quei giorni e che ora si leggono sull’insegna di quella fontana in Kenya.
Alla fine della celebrazione della «Nascita al Cielo di Susanna» c’era la necessità di parlare ai numerosissimi bambini presenti: cosa dire per rendere meno dolorosa la partenza della loro amica, o compagna o sorella dei loro compagni di scuola? Forse bastava spiegare che le nostre lacrime dovevano trasformarsi in gocce di rugiada, e raccontare di nuovo la storia di Mukiri: «… E sapete, bambini? Da oggi, per la generosità di molti tra i presenti e in ricordo della vostra compagna di scuola, di queste fontane di rugiada, ce ne sarà una in più, a disposizione di tutte le mamme dell’Ura Valley, a nord del vulcano Nyambene. La chiameremo la Fontana di Susanna. Perché a Susanna piaceva scavare e giocare con la terra. Perché nelle sue ultime ore Susanna aveva una gran sete e oggi dal Cielo sarebbe contenta di offrire un po’ d’acqua a chi la prova tutti i giorni in terra d’Africa. Perché anche Susanna è un po’ come una goccia di rugiada, che una mattina è caduta, piccolissima, nella terra, che ora sembra non esserci più, ma che non smetterà mai di dissetare con la sua vivacità le arsure della nostra esistenza».

Nano-realizzazioni

Il testo girò nelle scuole, la notizia della micro realizzazione si diffuse tra le famiglie, gli allievi e le orchestre in cui suona Daniela, tra i colleghi di lavoro, il Nuoto Club a cui sono iscritti i nostri figli, parenti e amici. Nel giro di pochi mesi la somma raccolta fu così consistente che ci ha permesso di offrire, oltre alla Fontana di Susanna, anche la cucina e la sala mensa dell’Asilo Infantile di Mukululu, là dove Mukiri, dopo averne dissetato i corpi, ora disseta anche la mente dei bambini del Nyambene!
La notizia della Fontana di Susanna ha ridato nuovo vigore all’idea della nano-realizzazione: sono sempre più numerose le persone che si sono rivolte ai missionari della Consolata per dedicare un punto di distribuzione idrica a persone defunte o a testimonianza di un sacramento ricevuto.
Forse un giorno avremo la possibilità di unirci a quanti ogni anno partecipano alla carovana dei missionari della Consolata in Kenya, e lavare le nostre quotidiane lacrime alla Fontana di Susanna. Per ora ci basta gioire, ogni mattina presto, nel vedere una goccia di rugiada velare l’erba sotto casa: anche a 6.000 km da lì Susanna, in braccio a Dio Padre, sta dissetando nello stesso modo qualche suo e nostro fratello africano.

Gigi Anataloni e Samuele Cattaneo

La cascata dell’Ura, all’origine del torrente Ura, è dentro nel cuore della foresta. Qui c’è sempre acqua.




«Sono un ribelle permanente»

Incontro con Adolfo Pérez Esquivel

Guerra e pace, economia e neoliberismo, risorse e multinazionali, governi e diritti umani. Tutti temi
su cui il premio Nobel per la pace ha posizioni nette, senza ambiguità. Un personaggio che confida nella forza della fede e della spiritualità. Un personaggio che, con identica sincerità, non ha paura di criticare Barack Obama o elogiare Fidel Castro.


Buenos Aires. Porta gli occhiali ed ha i capelli bianchi «sparati» alla Einstein.
Le pareti del suo ufficio presso la Fundación Servicio Paz y Justicia (Serpaj) dicono molto. Ci sono quadri: «Questa è una tappa della Via Crucis latinoamericana che dipinsi nel 1991»(1). Ci sono foto: immagini storiche e foto di incontri con religiosi e politici di ogni dove. «Qui sono con Fidel Castro, un uomo molto capace e solidale, a dispetto dei forti attacchi che subisce. È uno dei grandi statisti del nostro tempo». Lui si chiama Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace dell’anno 1980. Nato a Buenos Aires nel 1931, professore di architettura, pittore e scultore, Esquivel ha ricevuto il riconoscimento dell’Accademia svedese per la sua lotta durante la dittatura argentina, ma da allora – e sono ormai passati 30 anni – non ha mai smesso di lottare per affermare e difendere i diritti umani nel mondo.

Lei è premio Nobel per la pace come il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Come si sente?
«Sono rimasto sorpreso – risponde con un sorriso -, ma gli ho inviato una lettera di complimenti.
Ho scritto ad Obama che mi aveva sorpreso la sua designazione, ma che ora, in quanto premio Nobel, doveva essere coerente, lavorando e lottando per la pace. Però, lamentabilmente, Obama ha subito una metamorfosi. Ogni giorno di più si sta mimetizzando con George Bush. Non può essere che installi 7 basi militari in Colombia, che concordi con la riattivazione della IV Flotta della marina, che mandi 30.000 soldati in Afghanistan in una guerra persa, aggiungendo morte e dolore alla vita di quelle genti. Inclusa a quella dei soldati Usa e della Nato che tornano morti o irrecuperabili per il resto dell’esistenza.
Queste sono le guerre dei paesi ricchi contro i paesi impoveriti. Sono guerre economiche e per l’appropriazione delle risorse naturali.
Se questa è la politica degli Stati Uniti e di Obama, niente ha a che vedere con la pace. Credo che la pace sia un’altra cosa. La pace è un progetto di vita. Obama ha un progetto di morte(2)».

Tuttavia, l’elezione di Obama ha generato molte speranze, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti…
«Io capisco che Obama è arrivato al governo, ma non al potere. Una cosa è ciò che Obama può volere come persona, altra è ciò che può fare come capo di una potenza che gli impone condizioni. Lui è schiavo di alcuni centri di potere: il complesso militare statunitense, il Pentagono, la Cia, le grandi imprese multinazionali».

Lei insiste sempre molto sul ruolo che le imprese multinazionali hanno nella situazione mondiale.
«Le multinazionali non hanno frontiere e si muovono nel mondo in funzione di saccheggiare le risorse dei popoli. Le Nazioni Unite hanno lanciato un allarme sulla sovranità alimentare. Secondo la Fao, ogni giorno nel mondo muoiono di fame 35.000 bambini. Come si chiama questo?
Questa è la sfida che dobbiamo affrontare. Le grandi multinazionali lavorano sulle monocolture. Ma la natura non ha mai creato monocolture, ma diversità per generare l’equilibrio. Stanno distruggendo una creazione di Dio. Soltanto piantando il seme della solidarietà e del lavoro, si possono generare la pace e la vita».

Per tornare alla domanda iniziale, allora perché l’Accademia svedese ha assegnato il premio Nobel per la pace a Barack Obama?
«Francamente non lo so. Come – a dire il vero – non so perché lo diedero a me. Credo che si sbagliarono anche nel mio caso. Perché io sono un ribelle permanente di fronte alle ingiustizie.
Sì, un ribelle, ma nella speranza».

La chiesa, la fede,
la speranza

Un ribelle di base cristiana…
«Sì, io ho una base cristiana, che
per me è fondamentale. La mia fonte è il vangelo. Io sono cresciuto con i francescani. E seguo molto quella spiritualità, come quella di Charles de Foucauld».

Si dice spesso che la chiesa stia sempre con il potere…
«No, non la chiesa, ma la gerarchia e comunque non tutta. Guardate le pareti di questo ufficio… Lì sta Evaristo As, vescovo di San Paolo. Qui sta la foto di mons. Angelelli, un martire, assassinato dalla dittatura militare. Pensiamo a una figura come mons. Romero…
Io sono un uomo di meditazione e preghiera. Per me l’azione deve avere un retroterra trascendente. Ci sono valori e principi. Tutte le persone sono fratelli o sorelle, anche se sono miei nemici.
Quando si dice “ama anche il tuo
nemico”, cosa si sta dicendo? Di non fare loro danno, ma di cercare di trasformae il cuore.
Io sono un sopravvivente e l’unica
cosa che mi sostenne in quei momenti fu la fede. Quando, dopo 32 giorni in un calabozo(3) immondo (perché non entrava né luce né altro), aprirono la porta, vidi sul muro che un prigioniero precedente aveva scritto con il proprio sangue: “Dios no mata” (Dio non uccide). Questo è una testimonianza di fede profonda».

Ci dica qualcosa di più sulla sua prigionia durante la dittatura…
«Fui 14 mesi in prigione e quindi in libertà vigilata. Il 5 di maggio del 1977 mi presero e, incatenato, mi misero su un aereo della morte che volò alcune ore sul Rio de la Plata ed il mare. Alla fine decisero di non gettarmi fuori a causa delle forti pressioni inteazionali.
Debbo ringraziare Dio per essere
ancora qui a lavorare e a testimoniare. Dunque, come non si può avere fede? E non una fede distruttiva. Per me la fede è vita».

Si spieghi…
«Nel senso dell’allegria del vivere e non dell’angustia esistenziale. A volte la chiesa dice: “In questa valle di lacrime…”. Ma no, ciò che abbiamo è un mondo con ricchezze straordinarie da condividere. Le lacrime ci sono, ma sono la guerra, l’Iraq, l’Afghanistan, la fame, la povertà, i bambini a cui hanno rubato la speranza della vita».
A dispetto di tutto, lei parla ancora di speranza…
«Perché, nonostante tutto, abbiamo la capacità di trasformare la realtà. E questa è la speranza».

Un tribunale
per l’ambiente

Come presidente dell’Accademia internazionale di Scienze ambientali di Venezia, cosa pensa del recente vertice di Copenhagen?
«Credo che l’unica cosa che si è ottenuta a Copenhagen(4) è che non si è approvato nulla. Si è capito che c’è una guerra tra i paesi poveri o impoveriti e quelli ricchi, che vogliono appropriarsi delle risorse e che per questo mettono in campo gli eserciti, le forze multinazionali, l’Organizzazione mondiale, del commercio, il Fondo internazionale, la Banca mondiale…
Questo è il tragico.
Attraverso l’Accademia delle scienze di Venezia, di cui io sono presidente, abbiamo proposto la costituzione del Tribunale penale internazionale per l’ambiente e un Osservatorio internazionale sul comportamento ambientale delle imprese multinazionali che sono le principali responsabili della distruzione dell’ambiente.
Si pensi alle imprese minerarie o a quelle della soia. Si pensi alle imprese contaminanti del Nord che vengono mandate in America Latina, Africa ed Asia. Sono le multinazionali che si appropriano dei semi e se un contadino li usa, lo accusano di essere un delinquente».
E qui dove vede la speranza?
«Per esempio, il movimento dei
contadini senza terra dell’America Latina che si sta diffondendo anche in Africa e in Asia tentando in tal modo di stabilire dei vincoli Sud-Sud. Questi contadini vogliono la terra per lavorarla, non per sfruttarla; per dare vita, non per dare morte. Al contrario delle multinazionali che stanno distruggendo per guadagnare di più e in poco tempo. Altra cosa a cui occorre prestare molta attenzione è il movimento degli indigeni, che stanno recuperando la memoria e la lingua e che si stanno organizzando. Altro elemento importante sono i movimenti delle donne, che stanno avanzando in tutti i campi con la loro sensibilità, con il loro diverso modo di pensare. Sono leader straordinarie per le sfide che ci attendono».

L’uomo, la tecnologia e
l’accelerazione del tempo

A quali sfide si riferisce?
«Abbiamo avuto enormi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, che ci hanno portato ad un processo di “accelerazione del tempo”. Ma in questa accelerazione noi abbiamo perso la capacità di analisi e il ritmo con la natura. Non abbiamo più tempo per guardare il sole, l’acqua, gli insetti. Siamo entrati in una dinamica che ci fa dimenticare di essere umani e ci fa diventare schiavi della tecnologia. Dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberare la parola. In una parola, dobbiamo pensare».

È azzardato dire che spesso la gran parte dei media non aiuta a pensare?
«I mezzi di comunicazione non
stanno a servizio della gente, ma del potere. Non permettono di pensare e non informano, al contrario disinformano. E condizionano. Quando fui in Iraq, ci fu una strage di centinaia di bambini e mamme. La sola cosa che la Cnn disse è che due bombe intelligenti – perché adesso le bombe “pensano” – erano entrate per i canali di ventilazione di un bunker militare e avevano ucciso delle persone.
Una parola può essere tanto distruttiva come un’arma. E poi la menzogna, che è – come diceva Ghandi – la madre di tutte le violenze. Su una menzogna si sono fatte le guerre d’Iraq e di Afghanistan e praticamente tutte le guerre.
Oggi i mezzi di comunicazione ci
impongono il pensiero unico. Per questo, abbiamo necessità della ribellione sociale, politica e dello spirito. Per liberarci e per recuperare il senso di essere persone».

«Essere persone» sembrerebbe una ovvietà…
«Nel teatro greco, gli attori usavano maschere, che fungevano anche da amplificatore della voce. Quando si toglievano la maschera, gli attori smettevano di essere personaggi e tornavano ad essere persone. Nella nostra società ci sono persone che continuano ad essere personaggi e non si tolgono la maschera per paura di vedere se stessi. Sta capitando ai nostri politici, sta capitando ad Obama. Sta capitando a molti – politici, presidenti, premi Nobel – che si comportano come personaggi avendo paura di essere persone».

Ad ogni persona fanno capo dei diritti proprio in quanto persona. Lei ha combattuto per i diritti umani negli anni della dittatura. Com’è oggi la situazione?
«I diritti umani non sono soltanto
quelli per cui abbiamo combattuto contro la dittatura. Sono anche quelli economici, sociali e culturali. Sono quelli di educazione, di lavoro, di informare e di essere informato. Sono quelli della cosiddetta “terza generazione”, dove ad esempio si parla del diritto all’ambiente. In breve, i diritti umani sono integrali e indivisibili. Come la democrazia è indivisibile dai diritti umani».

Tutti parlano di diritti umani, ma alla prova dei fatti la realtà è spesso diversa…
«È vero. Ci sono governi che hanno firmato, ma che non hanno ratificato gli accordi. Per esempio, gli Stati Uniti che fino al giorno d’oggi non hanno ratificato la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”(5). Come può essere che una grande potenza che si atteggia a difensore della democrazia si opponga?
Questo va molto al di là della volontà personale di Obama. È la politica degli Stati Uniti che impone la propria volontà al resto del pianeta. Ma tutto questo può terminare perché nessuna società è statica. Come i diritti umani che sono una dinamica permanente della vita. Una dichiarazione non è una lettera morta. C’è una dinamica nella società e nelle coscienze. Credo che nei prossimi anni assisteremo a cambi fondamentali.
Oggi c’è uno svuotamento di valori e  di contenuti, ma non dobbiamo disperare».

La fame in Argentina:
incredibile, ma vero

Come vede l’Argentina dopo gli anni del tracollo economico?
«È un paese ricchissimo, ma impoverito. E purtroppo non gli si permette di uscire da questa situazione di impoverimento. C’è una sorta di sottomissione.
Quando ci sono 10 milioni di persone in condizioni di povertà su un totale di 40, la situazione è allarmante. Quando, in un paese produttore di alimenti, muoiono di fame 25 bambini al giorno…».

Al giorno?
«Al giorno, al giorno, secondo dati ufficiali dell’Unicef. Ma la realtà è più drammatica. Il mio amico dom Helder Camara – che vedete in quella foto – raccontava che, quando egli dava un piatto di cibo ad un povero, si commentava: “Questo vescovo è un santo”. Ma quando cominciò a chiedere perché ci sono i poveri, l’opinione cambiava: “Questo vescovo è comunista”.
Non possiamo fermarci agli effetti, senza ricercare le cause. Perché c’è la povertà? Perché si espellono i contadini dalle campagne? Perché le imprese minerarie transnazionali si portano via tutti i minerali strategici? In tutto questo, c’è una grande complicità dei governi».

United Colours
of Benetton

Anche dell’attuale governo argentino?
«Del nostro governo attuale come dei precedenti. Insomma, dobbiamo domandare perché i poveri sono aumentati in un paese dove nessuno dovrebbe morire di fame. Dobbiamo attaccare le cause. Dobbiamo domandare perché si svende la terra ad un signore che voi conoscete bene…».

Si riferisce a Benetton?
«Benetton possiede più di un milione di ettari(6). E ha tolto 385 ettari ad una famiglia mapuche(7). Oltre ad essere immorale, questo è ingiusto. Ma quando protestiamo, dobbiamo anche fare una domanda: chi vendette questa terra a Benetton?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Al voto… senza fretta

Il Paese si prepara alle elezioni

Dopo 50 anni di dittatura quasi ininterrotta, la giunta militare ha promesso libere elezioni.
Ma l’opposizione è divisa, movimenti etnici e spinte separatiste richiedono ancora la presenza dei militari nel governo: la piena democrazia è ancora un miraggio, ma il futuro sarà meglio del regime attuale.
Lo sperano tutti.

Da quando Win ha saputo che ero un giornalista, ho dovuto cambiare hotel. «Mi dispiace – si è scusato – ma è diventato troppo pericoloso tenerti qui tra i miei clienti. Alcuni funzionari hanno già fatto domande e mi hanno fatto capire che i tuoi articoli non sono piaciuti».  
Non che ne sia rimasto particolarmente sorpreso; padre Philip, sacerdote cattolico della cattedrale di St. Mary, mi aveva avvertito: «Ogni hotel che ospita stranieri ha almeno un informatore tra lo staff. Continuando a frequentare lo stesso albergo, prima o poi verranno a sapere chi sei».
Speravo che, scegliendo un alloggio da quattro soldi, riuscissi a mimetizzarmi, ma alla fine quel giorno è arrivato: ho fatto le valige e mi sono cercato un’altra stanza. Prima di andarmene, Win mi ha abbracciato sussurrandomi: «Spero che presto la situazione cambi: i militari non possono durare per sempre».
INCERTEZZE… CERTE
Per sempre no di certo, a lungo, invece, sì. Probabilmente Win, che si avvia verso la settantina, non riuscirà a vedere l’auspicato cambiamento. Prima, infatti, dovranno sparire i due generali che dominano la scena politica del paese: Than Shwe e Maung Aye. Entrambi sono malati e vecchi, è vero, ma da anni stanno manovrando l’Spdc (State Peace and Development Council), la giunta militare che governa la nazione, affinché alla loro dipartita poco o nulla cambi. Tutti e due sanno che in Myanmar non è mai accaduto che vi fosse un trasferimento di poteri pacifico. La loro unica preoccupazione, quindi, è trovare il modo di mettersi da parte volontariamente, preservando gli interessi economici e politici delle loro famiglie.
Nel frattempo tutto rimane come sospeso. Il futuro del Myanmar rimane drammaticamente certo nelle proprie incertezze. È certo che nel 2010 si terranno le elezioni generali, ma non è ancora dato sapere quando verranno aperte le ue. È certo che i militari continueranno ad avere un ruolo fondamentale nel governo del Paese, ma non si sa chi sarà chiamato a gestirlo. È certo che Aung San Suu Kyi non potrà ricoprire cariche istituzionali, ma non si sa se il governo manterrà la promessa di liberarla a novembre. È certo, infine, che la popolazione non si aspetta rivelazioni clamorose dai risultati elettorali, ma non è chiaro in quale verso muterà la situazione sociale ed economica.
«L’insicurezza rende tutto più difficile da affrontare – racconta Htway, uno studente universitario di Yangon -. È frustrante osservare che tutte le speranze di una rinascita vengono spente quando incominciavamo a credere nel cambiamento».
Zeya, sua amica, aggiunge: «A questo punto preferirei sapere che niente cambierà in Myanmar. Almeno avrei una certezza su cui costruire la mia vita. Non voglio più lottare per un’illusione».
C’È POCO DA RIDERE
Non tutti, per fortuna, la pensano come Zeya.
A Mandalay, ad esempio, U Pa Pa Lay e U Lu Zaw, in arte The Moustache Brothers, da anni sfidano la censura rappresentando ogni sera, in una stanzina di tre metri per quattro, uno spettacolo satirico che mette in ridicolo la giunta militare. La popolarità riscossa tra i turisti in visita nella vecchia capitale, ha contribuito a proteggerli da eventuali rappresaglie.
La fama nazionale, invece, non è servita al dentista U Maung Thura, più noto con il soprannome di Zarganar, la cui comicità, più pungente e diretta, non ha riscontrato, tra gli stranieri, lo stesso entusiasmo riscosso dai Moustache Brothers. Questo è stato sufficiente perché i suoi denti fossero spaccati dalle spranghe dei militari. «Oramai sono un dentista senza denti. Chi andrebbe a farsi curare da un dentista che ha perso tutti i suoi denti?» ha scherzato qualche anno fa, quando l’ho incontrato poche settimane prima che fosse di nuovo rimesso in prigione.
Le sue battute restano memorabili e vengono ancora sussurrate nelle serate conviviali e goliardiche: «In Birmania i dentisti non hanno lavoro perché nessuno osa aprire bocca»; oppure la famosa storiella di tre ragazzini che si ritrovano a raccontare le gesta dei loro parenti: un cugino senza braccia che ha attraversato a nuoto l’Ayeyarwady, un fratello senza gambe che ha scalato la montagna più alta del paese, risultano ben poca cosa rispetto allo zio del terzo ragazzino che «pur essendo senza testa, governa un’intera nazione!».
ELEZIONI A SORPRESA
Eppure, anche se l’orizzonte sembra cupo, qualche timido raggio di sole sembra si stia infiltrando tra le nubi. Le elezioni, ad esempio, che dopo l’amara esperienza del 1990 il governo cercherà di manipolare, sono pur sempre una tappa verso quella «road map to democracy» disegnata dalla giunta per ridare al Myanmar una parvenza di partecipazione popolare alla gestione del potere.
«I generali vogliono evitare di ripetere l’esperienza traumatizzante delle elezioni del 1990, quando la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) conquistò la maggioranza assoluta dei voti – spiega Sean Tuell, professore di Economia alla MacQuarie University di Sydney -; per questo la data sarà comunicata il più tardi possibile per non lasciare ai partiti tempo di organizzarsi.
Nel 1990, infatti, il regolamento per la registrazione era stato promulgato venti mesi prima la scadenza elettorale e i candidati dell’opposizione avevano avuto la possibilità di compiere una sorta di campagna elettorale, conquistando così la fiducia di gran parte della popolazione. La Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi che nel 1990 aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ha deciso di non partecipare alle consultazioni. La dichiarazione di astensione di Aung San Suu Kyi, nasconde però la realtà di un dibattito interno alla Lnd, che rimane fortemente diviso tra chi vorrebbe comunque aderire alle elezioni e chi, invece, è contrario.
Win Tin, uno dei leader storici del partito, ha criticato l’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, per aver incoraggiato il governo birmano a organizzare le elezioni del 2010 in modo accettabile per la comunità internazionale. «Non è la comunità internazionale che deve essere accontentata, ma è il popolo birmano» ha giustamente replicato Win Tin.
Tre erano le condizioni imposte dalla Lega nazionale per la democrazia affinché avesse potuto prendere in considerazione un suo coinvolgimento: il rilascio di tutti i prigionieri politici, la riforma della Costituzione approvata nel 2008 in un referendum farsa e la supervisione internazionale del voto.
«L’unico punto accettabile per i militari sarebbe stato il terzo – risponde Bertil Lintner, giornalista svedese che, da Bangkok, segue le vicende birmane -. Degli altri due, solo la liberazione dei prigionieri politici può essere messa sul tavolo delle trattative dalla giunta».
PER STRADE DIVERSE
Nel frattempo le fratture intee alla Lnd si sono allargate, sancendo la spaccatura del partito lungo la crepa di chi segue la linea della dirigenza storica, capeggiata da Aung San Suu Kyi e Win Tin, e chi, invece, preferisce cogliere l’occasione di intrufolarsi nello spiraglio di democrazia che le elezioni lasciano trasparire. Sarà quindi interessante vedere quale posizione prenderà il bacino elettorale democratico: si asterrà o piuttosto dirotterà il proprio voto sui membri della Lnd che, in dissidenza con la Signora, hanno deciso di partecipare alle consultazioni?
In attesa di un verdetto, alcuni leaders si sono già mossi: il National Unity Party, il partito emanazione del vecchio Burma Socialist Programme Party che nel 1990 aveva avuto il 22% dei voti, è sceso in lizza in una nuova veste, meno legata ai militari. Il Democratic Party di Thu Wai e la Graduated Old Student Democratic Association, di idee democratiche, ma critici verso la Lnd, uniranno le proprie forze e anche Sandar Win, figlia di Ne Win, sembra voglia formare una propria lista.
Nelle aree tribali, dove la Lnd e l’icona di Aung San Suu Kyi non sono così inossidabili come nelle regioni Bamar, i movimenti si stanno muovendo l’uno per contro proprio. Per molti di loro, la nuova costituzione assicura una partecipazione alle decisioni locali maggiore di ogni altra precedente, compresa quella del 1947, garantendo la costituzione di sei regioni autonome per i Wa, i Naga, i Danu, i Pa-O, i Pa Laung e i Kokang e la rappresentanza nei governi locali di 135 etnie. «Tutti i gruppi etnici con una popolazione maggiore di 57 mila unità hanno diritto ad avere un loro rappresentante – contesta Pu Cin Sian Thang, portavoce del United Nationalities Alliance, una coalizione di dodici partiti etnici contrari alla costituzione – ma non c’è alcun censimento che attesti la popolazione. Su che base potremmo rivalerci di questo diritto?».
Il Karen National Union, che già aveva rigettato la costituzione del 1947 scegliendo la via della completa indipendenza, ha ribadito il rifiuto di partecipare alle prossime elezioni, a differenza di altri gruppi etnici, come i Kachin, che negli ultimi vent’anni hanno concluso accordi di cessate il fuoco con Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar.
«Dobbiamo difendere i nostri diritti e la costituzione approvata nel 2008, pur con i suoi difetti, contiene dei semi di democrazia. È per questo che abbiamo deciso di partecipare alle elezioni» mi dice James Lum Dau, vice ministro degli Esteri del Kachin Independence Organization e uno dei fondatori del Kachin State Progressive Party.
PROBLEMI A VENIRE
I maggiori problemi, però, nasceranno dopo che i risultati avranno stabilito quale governo dovrà imporre la legge nel paese. Con il 25% dei seggi riservato ai militari, i generali continueranno ad avere un ruolo attivo nella politica del Myanmar, ma per la prima volta dal 1962 ai civili verranno aperte alcune nuove opportunità.
«L’appoggio dei militari sarà comunque indispensabile per approvare gli emendamenti – spiega un giornalista birmano – ma un 25% è sempre meglio che un 100%».
In effetti, alcuni analisti hanno fatto notare che la soglia voluta dai militari potrebbe essere un primo passo di una transizione indolore verso un governo democratico e civile, visto che un improvviso ritiro del Tatmadaw (l’esercito birmano) da ogni forma di potere, potrebbe far piombare il paese nel caos e in una sanguinosa guerra civile con la periferia. È anche per questo che le nuove autorità avranno il difficile compito di disarmare quei gruppi etnici che, nonostante abbiano firmato l’armistizio, continuano ad avere propri eserciti.
Per rendere più accettabile la smobilitazione, la costituzione birmana prevede la formazione delle cosiddette «Forze di guardia alle frontiere». Le armi non saranno più rivolte verso l’interno e verso i soldati del governo centrale, bensì verso l’esterno e usate contro altri gruppi etnici ribelli (cosa, del resto, che già accade). Il problema è che sino ad ora nessuno, tranne il Democratic Kayin Buddhist Army, ha accettato la proposta.
Uno dei punti principali su cui ci si confronterà, sarà l’elezione del presidente, che dovrà essere residente in Myanmar da almeno 20 anni (e quindi vengono esclusi tutti i dissidenti), non essere sposato con stranieri (in questo caso Aung San Suu Kyi, in quanto vedova, potrebbe essere eletta) e non avere figli con passaporto straniero (è questa la clausola che esclude la Lady dalla presidenza).
Anche qui, i militari hanno il diritto di presentare uno dei tre candidati che, quasi sicuramente, non sarà Than Shwe, notoriamente refrattario ai viaggi e agli incontri con stranieri, in particolare occidentali. Ma l’orgoglioso generale non ama neppure essere «comandato», men che meno da una figura, come quella del presidente, che potrebbe essere ricoperta da un civile. Si pensa, quindi, che i militari creeranno una posizione ad hoc, estea al governo, ma altrettanto autorevole; una sorta di Grande Leader o Leader Supremo.
Ed archiviato Than Shwe, rimane il numero due, Maung Aye, l’unico generale che non ha ancora trovato una collocazione nel dopo elezioni e, per questo, potrebbe rappresentare un pericolo nella stabilità nazionale. L’accantonamento di Maung Aye, infatti, porterebbe alla rovina tutta la sua famiglia e l’entourage.
Un’aperta rivolta all’interno stesso dei ranghi militari, potrebbe, inoltre, invogliare i gruppi etnici più refrattari a Naypyidaw, a riprendere la lotta per l’indipendenza. Un’eventualità, questa, che destabilizzerebbe l’intera regione sud orientale dell’Asia, chiazzata da migliaia di minoranze, le quali non si sono mai sottomesse ai governi centrali. Cina, India e Thailandia, in particolare, le nazioni confinanti con il Myanmar e che hanno tutte grossi problemi con le etnie tribali a ridosso delle proprie frontiere, non gradirebbero di certo un paese poco controllato.
La guerra d’Indocina con i suoi tragici lasciti non è ancora scomparsa dalla memoria delle diplomazie mondiali e poco più a ovest, l’Afghanistan è un preciso monito verso chi chiede democrazia senza avere le basi su cui costruirla.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli