Le «ricette» di Aminata

Senegal: incontro con la «sindachessa» di Louga

In Senegal, per una donna, è difficile avere accesso a cariche pubbliche. Le donne sono relegate ai lavori domestici. Ma il Corano non c’entra e occorre sensibilizzare entrambi i sessi sui diritti delle donne. È la battaglia di Aminata Ndiaye, già ministro, ora sindaco di Louga. Le sue battaglie vanno dalla lotta contro le mutilazioni genitali, alla democrazia partecipativa, al turismo come veicolo di sviluppo e di contrasto dell’emigrazione. L’abbiamo incontrata.

«Se si applicasse davvero quel che prescrive il Corano, la donna dovrebbe starsene tutto il giorno in panciolle, servita e riverita dal marito». Parola di Aminata Mbengue Ndiaye, senegalese. Già ministro della Donna e della Solidarietà nazionale ai tempi del governo di Abdou Diouf, Aminata è oggi presidente del movimento femminile del Partito socialista senegalese e «sindachessa» di Louga, nel Nord del paese. L’abbiamo incontrata in occasione del meeting internazionale «Turismo responsabile, lotta alla povertà e co-sviluppo» organizzato a Torino lo scorso ottobre (vedi box) allo scopo di promuovere il turismo responsabile come volano per la crescita economica e culturale dei paesi africani.
«In Senegal la donna è spesso costretta a prendere in mano le redini della famiglia e provvedere al mantenimento di tutti con il suo lavoro, complice anche l’elevata emigrazione maschile che costringe molti giovani a cercare lavoro all’estero» continua Aminata. Lei, che oggi ha 50 anni, è da sempre paladina dei diritti umani e delle donne: non a caso la prima legge africana contro le mutilazioni genitali fu varata proprio in Senegal, nel ’99, mentre Aminata Mbengue era Ministro della Donna e della Famiglia.
Tradizioni da cambiare
La carriera politica di questa «militante dello sviluppo», come lei stessa si definisce, è iniziata quand’era giovanissima, appena terminati gli studi all’École economique di Dakar: agente per lo sviluppo rurale, prima donna a capo di una sezione di formazione regionale, nel ’95 fu eletta sindaco di Louga, sua città natale, e nel ’98 direttrice del Segretariato di Stato. Dal marzo 2009 è stata riconfermata primo cittadino di Louga, mandato che ricoprirà fino al 2014. Qualcuno sussurra persino che potrebbe essere tra i papabili alle prossime elezioni presidenziali del 2012. Ma lei tiene i piedi per terra, e gli occhi puntati alle condizioni della stragrande maggioranza delle sue connazionali: «Nel nostro paese è molto difficile per le donne avere accesso alle cariche pubbliche, da loro ci si aspetta che accudiscano i figli e si occupino delle faccende domestiche». Un atteggiamento dovuto a tradizioni ataviche che relegano la donna in secondo piano. «Ma la religione non c’entra nulla» tiene a precisare Aminata Mbengue, «l’Islam esprime una posizione avanguardista di tutela delle donne; nel Corano ad esempio è scritto: se devi picchiare una donna, fallo con un filo di cotone! Il problema sono le interpretazioni fuorvianti che ne vengono date da parte di alcune etnie, favorevoli alla subordinazione della donna».
Da questo punto di vista si rende necessario «un duplice lavoro di sensibilizzazione, che renda le donne consapevoli dei propri diritti e faccia capire agli uomini, leader religiosi e politici, l’importanza di rispettarli». Un indubbio passo avanti è stata la legge votata in parlamento lo scorso 24 maggio, che ha sancito la parità di genere nelle liste elettorali. In Senegal – cosa da far invidia all’Italia e riprova, secondo Aminata, che l’Islam non pone veti all’emancipazione femminile – su 30 ministri, ben 10 sono donne.
mutilazioni: no grazie
«La nuova legge crea finalmente una situazione di equità politica e sociale, visto che le donne in Senegal rappresentano il 52% della popolazione, cioè la maggioranza» dice Aminata. La normativa dischiude loro nuove possibilità a tutti i livelli, dall’Assemblea nazionale fino alle casse rurali dei singoli municipi, con implicazioni non solo politiche ma anche economiche. Tuttavia «la legge da sola non basta, perché le donne non sono ancora abituate a parlare liberamente in pubblico, in presenza degli uomini, per esprimere le loro esigenze e i loro punti di vista. Quel che serve adesso è attivare percorsi di formazione perché le donne diventino più consapevoli delle proprie capacità ma anche più preparate e competenti, in modo da rendere davvero un buon servizio al loro paese».
Sull’importanza della formazione Aminata Mbengue Ndiaye si è sempre battuta, anche prima di diventare portavoce per l’Africa alla Conferenza mondiale delle donne tenutasi a Pechino nel ‘95, quando prese una netta posizione contro le mutilazioni genitali femminili. Da allora in questo ambito si sono fatti molti passi avanti, come l’introduzione della legge che punisce con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chi compie queste pratiche invalidanti. Ma, anche qui, la legge da sola non basta. «Proprio perché si radicano nella cultura tradizionale e pre-islamica del Senegal, queste usanze risultano difficili da estirpare. Bisogna cambiare la mentalità delle persone, a cominciare dalle donne stesse, sia quelle che hanno subito le mutilazioni e a loro volta si tramandano la pratica di madre in figlia, sia le donne che la effettuano e per cui si devono creare occasioni di lavoro alternative». In quest’ottica, l’alfabetizzazione di ragazze e bambine sul tema dei diritti e la diffusione di maggiori conoscenze igienico-sanitarie sulle gravidanze e i parti, contribuiscono spesso all’abbandono delle vecchie pratiche, cui si rinuncia nel corso di elaborati rituali in cui si depongono simbolicamente a terra coltelli, forbici, ecc. Aminata si dice ottimista: «Oggi le mutilazioni sono molto diminuite, penso che la prossima generazione non le farà più».
Democrazia made in Louga
Ma la battaglia di Aminata Mbengue Ndiaye non riguarda solo i diritti delle donne. Perché «promuovere tali diritti rappresenta un vantaggio per tutta la società: le donne infatti sono più attente alle esigenze e al benessere non solo individuali, ma di tutta la famiglia e dell’intera collettività». Un modo di essere e di fare che si rispecchia perfettamente nello stile di governo della «sindachessa», ispirato alla «democrazia partecipativa» sul modello dei Forum sociali di Porto Alegre, cui Aminata del resto ha sempre preso parte e da cui ha tratto l’idea di creare nel proprio paese i primi bilanci partecipativi.
«Non ho mai creduto nei processi contorti della politica, ma non prendo nessuna decisione senza aver prima consultato la gente», ci spiega lei con semplicità. Così nel primo anno del suo attuale mandato ha creato undici Consigli di quartiere in modo da avvicinare la municipalità alla popolazione, direttamente interpellata per giungere poi a formulare insieme una diagnosi precisa delle varie necessità. Questo lavoro di consultazione ha coinvolto tutte le realtà della società civile nessuna esclusa, dalle donne ai giovani, dai portatori di handicap alle associazioni professionali, dai gruppi sportivi a quelli culturali, permettendo l’emergere delle priorità da affrontare nei diversi quartieri: la pulizia delle strade, l’elettrificazione di alcune zone, il sostegno all’imprenditorialità…
Raccogliendo le idee di tutti si è poi elaborata una Carta dei consigli di quartiere, in cui si sono definite le linee guida e le procedure secondo cui orientare gli interventi concreti. «Così facendo nessuno dirà che “il sindaco ha scelto” questa o quella priorità, ma che è stata la gente a decidere», spiega Aminata con una punta d’orgoglio.

Ricette anti diaspora

Tra i temi caldi dell’agenda politica di Aminata ha un posto importante la lotta all’emigrazione clandestina. Un problema cui la «sindachessa» si è sensibilizzata nel corso del tempo e dei numerosi viaggi in Europa, dove ha potuto incontrare le associazioni dei migranti senegalesi e conoscere le loro reali condizioni di vita. «Per loro è dura, tutti vogliono tornare indietro, ma in Senegal queste cose non si sanno». Perciò, ancora una volta, il lavoro di sensibilizzazione e formazione è il primo passo da compiere. Non solo per informare i giovani intenzionati ad andarsene sui rischi e le difficoltà legate alla vita da clandestino, ma anche «perché, se proprio non vogliono rinunciare a partire, lo facciano almeno dopo aver studiato e acquisito titoli e competenze da poter spendere in modo proficuo sul mercato del lavoro occidentale».
Intanto, madame Ndiaye si impegna per creare concrete occasioni d’impiego nella sua città, così da contribuire ad arrestare quell’emorragia di braccia e cervelli ormai tristemente nota come «diaspora senegalese». In quest’ottica si colloca l’impegno della «sindachessa» a favore del turismo responsabile, che l’ha portata in Italia di recente (si veda anche MC dicembre 2009). «La prima volta che sono venuta nel vostro paese è stato 30 anni fa, quando viaggiavo in cerca di appoggio per i gruppi femminili del Senegal e ho conosciuto l’Ong Cisv di Torino» racconta. Oggi, insieme a Cisv e Fondazioni4Africa, cerca di promuovere il turismo responsabile a Louga, che rappresenta un centro culturale di primaria importanza in Senegal e ogni anno attrae migliaia di visitatori, soprattutto nel periodo tra Natale e capodanno in cui si svolge il Fesfop, Festival internazionale di folklore e percussioni. «Il turismo è importante perché promuove lo sviluppo, crea posti di lavoro e occasioni di reddito, anche per le donne, impegnate ad esempio nelle attività ricettive e artigianali.
Ma la cosa più importante per me è che contribuisce a ricostruire l’immagine dell’Africa agli occhi dell’Occidente» dice Aminata. «E forse la pratica del turismo responsabile permetterà agli occidentali di guardare con occhi diversi gli africani immigrati nei loro paesi: smettendo di vederli, come spesso accade, con fastidio, disprezzo o paura».

Stefania Garini

Stefania Garini




Un paradiso a rischio di estinzione

Viaggio in un paese pieno di fascino e contraddizioni

Dagli orrori causati dai gas tossici della città di Bhopal alle isole Andamane, passando per città cariche di glorie passate, l’India è un succedersi di contraddizioni: il progresso e la modeità più avanzata contrastano con sacche di grande arretratezza; i sogni di un futuro migliore si scontrano con i rischi di degrado ambientale e di scomparsa di antiche culture.

Sono passati 25 anni dal disastro di Bhopal e solo oggi è arrivata la sentenza, vergognosamente mite, per i colpevoli: due anni di galera per sole 7 persone ritenute responsabili dell’incidente che provocò decine di migliaia di morti, invalidi, ciechi e bimbi nati con malformazioni. La fuoriuscita di 40 tonnellate di gas tossici proveniva da un impianto di produzione di pesticidi della multinazionale americana Union Carbide.

Un italiano a Bhopal
A Bhopal scopro una regione bella, ricca di monumenti storici e artistici, alcuni ancora sconosciuti agli stessi indiani. Vi rimango alcuni giorni e capisco che Bhopal vuole dimenticare: la vita va avanti, nonostante gli orrori vissuti in questi anni.
La città è un importante polo industriale; in albergo incontro un italiano che ci viene sovente per lavoro. Ludovico è un tecnico veneto che, come tanti nostri connazionali, ha portato nel mondo la professionalità e la tecnologia italiana. Ora raccoglie i risultati di un serio impegno. «L’azienda per cui lavoro da tanti anni è di proprietà del governo francese ed è presente in Italia, Brasile, Cina e India – mi spiega, mentre si sta riposando presso la piscina dell’albergo storico sulla collina di Bhopal -. Produciamo interruttori, trasformatori e blindati elettrici, ma qui in India si fanno le porcellane».
Il costo della manodopera è 10 volte più basso che in Italia, ma quello che mi sorprende è che tali prodotti vengono fatti a Bhopal e commercializzati nella stessa India. «Il mercato europeo è scarso, quindi produciamo e vendiamo nei paesi emergenti. Chiaramente la tecnologia è ancora in mano italiana».
Con un diploma di perito, conseguito a San Donà del Piave più di 40 anni fa, Ludovico potrebbe godersi la pensione, ma l’azienda ha ancora bisogno della sua esperienza. Le proposte che ha ricevuto erano molto buone e lui in fondo ama il suo lavoro, anche se è stato sovente testimone dello sfruttamento dei lavoratori. «In India ho visto donne vestite di sari colorati, accompagnate dai loro bambini, lavorare nelle fonderie. E quelle di ghisa sono le peggiori».
Il sogno di Kallebhai
Dopo le visite al complesso buddista di Sanchi, con lo stupa più bello del subcontinente, e alle pitture rupestri di Bimbetka, risalenti fino al Paleolitico, proseguo con degli amici verso nord su strade dissestate. Giungiamo al piccolo villaggio di Udayapur, dove siamo intervistati da fotoreporter indiani, sorpresi di incontrare degli stranieri in un sito fuori dai circuiti turistici.
Ammiriamo il tempio originale e spettacolare in arenaria rossa, colonne e contrafforti cesellati con decorazioni geometriche e figurative, ma dobbiamo ripartire per Chanderi, unico luogo dove è possibile peottare nella foresteria governativa.
Statura piccola, capelli corti e rossi di henné, sempre sorridente, Kallebhai mi racconta la sua vita, in ottimo inglese: «Da bambino ho sofferto la fame. Per dare cena a me e i miei fratelli, mia madre bolliva le foglie che raccoglievo nei campi».
A 13 anni Kallebhai andò a lavorare in una bottega, dove un giorno conobbe alcuni studiosi, incaricati dal governo di esaminare i numerosi monumenti della zona, da secoli in stato di abbandono. Lavorando con gli archeologi imparò l’inglese, la storia e l’arte della regione di Chanderi. Oggi, 20 anni dopo, è guida abilitata dal Ministero dei beni culturali dello stato.
«Un tempo Chanderi era una grande città – mi dice, indicandomi le antiche fortificazioni sulle colline -. Vi regnava la potente dinastia Rajput, fino al 1527, quando fu sconfitta da Babur, capostipite dei Moghul originario dell’Asia Centrale; perché le donne non cadessero in mano nemica, il Raja ordinò la pratica suicida del jauhar».
Oggi, l’antica città regale si presenta come un villaggio di case modeste dove non manca mai un telaio con un ragazzino al lavoro. Ce ne sono più di 3 mila e danno lustro alla città di Chanderi con i suoi tessuti di finissimo cotone e lavorati a mano.
Kallebhai abita la casa degli anziani genitori con i quattro fratelli e le loro famiglie. Come da tradizione, vi è posto anche per due capre e una mucca, che si vedono girare tranquille per le vie fino a sera, quando trovano la via di casa per la mungitura.
Il sogno di Kallebhai sarebbe di avere una casa tutta sua. La figlia ha 14 anni ed è un’abile disegnatrice, il maschio è un birbone di 4 anni. «Con un lavoro saltuario come il mio – spiega – non è facile vivere. La stagione dura qualche mese in inverno e si lavora in media due volte la settimana».
Lasciamo Chanderi e attraversiamo una campagna ferma nel tempo. I lavori agricoli sono fatti senza l’aiuto di macchine, ceci e grano sono sparsi sulla strada affinché i rari camion di passaggio possano sgranarli. I villaggi non hanno la luce elettrica e la sera i lumi a petrolio rischiarano le bancarelle.

Dalla città dei nababbi al Gange
Il treno per Lucknow viaggia con 7 ore di ritardo. La nebbia ha fermato aerei e treni a Delhi. Tutti i collegamenti sono in ritardo, si viaggia a vista, poiché in un solo giorno vi sono stati 6 incidenti sulle linee ferroviarie. Ci arriviamo alle tre del mattino e troviamo la nostra guida Prakash che ci aspetta.
La guida chiama subito un anziano facchino con baffi e capelli bianchi, divisa rossa e sguardo fiero, e lo carica dei nostri bagagli, che lui mette sulla testa uno sull’altro. Prakash nota la mia indignazione e mi tranquillizza: «Costoro sono abituati a reggere fino a 40 kg; hanno sviluppato i muscoli del collo, è il loro mestiere».
Lucknow, capitale del Uttar Pradesh, è la città natale del presidente dello stato federale, una signora potente e corrotta, che si cura solo dei suoi concittadini, lasciando il resto dello stato nel degrado. La città è piacevole, ricca di moschee, monumenti e palazzi dei nababbi, dinastie sciite che governarono la regione dal 17° secolo. Gli architetti e artisti che arricchirono la città di monumenti erano di origine persiana o afghana. Il luogo più emozionante è però il Residency, dove gli inglesi si difesero dall’aggressione dei ribelli durante quella che in India chiamano la prima guerra d’indipendenza e che dagli occidentali è conosciuta come la rivolta dei Sepoy, del 1856.
Varanasi è la città sacra degli induisti. Dal quartiere Cantonment, una volta abitato dagli inglesi del Raj e ora centro alberghiero per turisti, attraversiamo vie intasate da un traffico incredibile di bus, auto e rikshò; quindi ci infiliamo nei luridi vicoli della città antica, tra mucche, cumuli di immondizia, e finalmente raggiungiamo i ghat, le gradinate che scendono sulla riva del Gange, dove hanno luogo abluzioni, cremazioni, offerte e altri rituali induisti.
Oggi le pire sono solo due; ma accanto ai ghat c’è anche un grande foo crematorio. Dovrebbe essere un luogo mistico, ma mi causa un certo turbamento, per cui lo abbandono volentieri per recarmi in periferia, dove nei primi anni dell’800 fu costruita una notevole università, col supporto inglese e il contributo dei principi marajà. Il campus è vasto e ricco di parchi ombrosi. Vi sono numerose facoltà, 130 corsi di laurea e 18 mila studenti.
Swati, Shitka, Cutee e Amrita, studentesse curiose e sorridenti, mi fermano e mi chiedono notizie del mio paese e mi raccontano dei loro studi scientifici e informatici.

Calcutta: casa di Madre Teresa
Ritoo volentieri in questa caotica città, ricca di stimoli e fermenti culturali. Accanto al tempio di Kali, dea dalle quattro braccia, simbolo di distruzione e purificazione, sorge la casa di Madre Teresa. Entro e mi trovo in una vasta sala, dove sono allineati i letti dei malati, assistiti da un gruppo di medici e infermieri, volontari dalla pelle bianca. C’è silenzio e odore di pulito, pareti e pavimenti di cemento, vasche dove anche una suora sta lavando panni insanguinati.
Suor Anila, albanese di Scutari, ci parla sorridente del loro lavoro senza sosta: «Ritoo a casa ogni 4 anni; una volta all’anno abbiamo 8 giorni di ritiro spirituale».
Calcutta è una metropoli dagli aspetti contraddittori. Negozi e locali aprono dopo le dieci, ma fin dalle prime ore del mattino si vedono uomini seminudi che si lavano ai bocchettoni dell’acqua sui larghi marciapiedi; ben presto anche le bancarelle con fornelli sono al lavoro, occupando anche le vie più eleganti. Tè speziato con latte, frittelle di melanzane e patate, una grande varietà di cibo di strada gustoso ed economico.
Il centro vittoriano è ricco di palazzi e monumenti, mentre il quartiere dei librai è vivacissimo e trafficato, con centinaia di librerie affollate.
Percorrendo una via affollata dove anche un vecchio tram riesce a farsi largo tra rikshò, veicoli a motore e pedoni, raggiungo la casa di Tagore, in un quartiere un tempo elegante e residenziale. È il poeta, scrittore e filosofo indiano bengalese più conosciuto in Occidente, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Uno dei 5 Nobel nati a Calcutta.
Il paradiso… a rischio
Dopo 14 anni ritorno nelle Andamane, un rosario di isole nel golfo del Bengala, al largo delle coste birmane e malesi. Ricoperte di foreste di alberi giganteschi, la fauna ricca e varia, un tempo erano abitate solo da aborigeni dalla pelle scura e capelli crespi e da gruppi tribali di origine malese e mongolide.
Al taglio del legname pregiato, iniziato nell’800 e praticato ancora oggi, si sono aggiunte le piattaforme marine delle multinazionali per lo sfruttanmento del petrolio. L’impatto con la nostra «civiltà» ha costretto gli aborigeni ad abbandonare habitat e costumi: nonostante il governo indiano abbia riservato loro alcune isole, sembrano destinati a scomparire.
Anche la capitale Port Blair è molto cambiata: da porto esotico e remoto ha preso l’aspetto di un’affollata città bengalese, per via dei profughi provenienti da Calcutta, Bangladesh e Birmania. Questo perché dopo la spartizione del Bengala orientale nel 1947, quando milioni di fuggiaschi si rifugiarono a Calcutta provocando il collasso della città, il governo indiano decise di portarli in parte nelle isole andamane. Nel territorio selvaggio, privo di strade, acqua e luce, i coloni sopravvissero in condizioni durissime e tagliarono le foreste di preziose essenze, come il padauk, simile al teak, per poter coltivare riso, canna, palma da betel e allevare capre e bufali.
Mentre le isole più remote sono riservate agli aborigeni e altre sono off limits per ragioni militari, Havelock è stata scelta per nuovi insediamenti turistici. Gli abitanti non parlano ancora l’inglese, ma possono contare su qualche piccolo guadagno lavorando nei locali pubblici, nella pesca e come autisti di tuktuk (taxi a tre ruote).
Purtroppo alcune spiagge di Havelock sono discariche all’aperto, ripulite raramente solo nei pressi dei villaggi turistici. Il mare e i coralli hanno perso colore e splendore, restano numerose le tridacne, annegate nella massa corallina ingrigita. I pesci sono belli, ma rari e scappano veloci appena ci si avvicina.
Ho visto galleggiare in mare aperto un isolotto di plastica, un intrico di bottiglie, corde, sacchi,  mentre eravamo diretti a South Button, uno scoglio senza approdi, regno dell’aquila pescatrice delle Andamane e vero paradiso per le immersioni subacquee.
Incontri… vari
Mi tuffo in un mare ricchissimo di vita e colori, con grandi ventagli di madrepore e pesci di barriera. Ho un incontro con un pesce balestra, bello e aggressivo, da cui devo difendermi e fuggire con decisi colpi di pinne. Sono poi circondata da un gigantesco branco di pesci fucilieri gialli che si muovono come se fossero guidati da una musica. Vedo sul fondo un serpente marino, molto velenoso, a strisce gialle e nere, e un polpo scuro, che emette inchiostro e si rifugia nel corallo, guardandomi con un occhio dal fondo della tana. Non è facile provare emozioni altrettanto forti nei mari più belli del mondo.
Originario del nord del Pakistan, di religione sikh, ma senza turbante e senza barba, tagliata non ricorda quando, Andra Singh  ha modi garbati e un buon inglese, con accento americano. È lui che serve in tavola nel ristorantino di Mangit, la nostra guida di Havelock.
«Con la spartizione dell’India nel ‘47 la mia famiglia si rifugiò in Kashmir, dove aveva commerci ben avviati e terreni coltivati a mele», inizia a raccontare Andra. Emigrato negli Usa, ha lavorato per otto anni alla Boeing di Seattle; poi ha voluto girare il mondo e si è fermato qualche anno in Australia. Ritornato nel nord est dell’India, si è impegnato nella difesa dei diritti umani delle popolazioni locali, tribali, dell’Himachal Pradesh. Ora che è approdato ad Havelock riesce a dare un tocco di classe a questa locanda, che Mangit ha ricavato tra la sua capanna e la strada, l’unica che attraversa l’isola.
Qui conosciamo Baman e Roxan giovane coppia di turisti parsi. Nati a Yazd, in Iran, sono riparati a Mumbay con la famiglia durante la rivoluzione khomeinista, ma si recano sovente a trovare i parenti. Mumbay ha una importante comunità parsi, e Baman gestisce una proprietà nel nord del Maharastra, dove si coltiva la sapota, un frutto marrone, originario del Messico.
Ci scambiamo gli indirizzi. Domani partiamo tutti, ritorniamo in continente, a Chennay, per qualche giorno di visite prima del ritorno in Italia.

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Il grande vuoto

Maghreb: il lungo braccio di Al Qaeda

Il Sahara è sempre stato il «paese di nessuno». Oggi vi fioriscono traffici illegali di armi, droga e migranti. I gruppi terroristi legati ad Al Qaeda hanno iniziato ad essere attivi tre anni fa. Rapiscono gli stranieri creando il «vuoto». Le cancellerie occidentali abbassano la «linea rossa» di sicurezza, i turisti cambiano destinazioni e le Ong si ritirano. Le popolazioni sono abbandonate. Intanto i tuareg, vogliono prendere le armi, per cacciare questa minaccia dai loro territori.

A Gao, città del nord del Mali, conobbi un doganiere, approdato da poco alla pensione, che per gran parte della sua vita aveva prestato servizio nelle zone di frontiera tra Mali, Niger e Algeria. Affascinato dalla personalità di quell’uomo, gli chiesi quante fossero, a suo avviso, le persone che ogni giorno perdono la vita nel tentativo di attraversare il re dei deserti, il Sahara, abbandonate da qualche passeur senza scrupoli, che li avrebbe dovuti condurre verso le sponde del Mediterraneo. Il doganiere mi disse in modo perentorio: «Figlio mio, solo gli avvoltorni ti possono rispondere». Questa affermazione ci permette di capire l’impotenza di uno Stato come il Mali nell’amministrare, controllare e difendere un territorio desertico così vasto: solo il Nord del paese copre una superficie grande quasi tre volte l’Italia.
Il Sahara dell’Africa Occidentale è un’area di circa 4.000.000 di chilometri quadrati e comprende la Mauritania, il Nord del Mali e del Burkina Faso, il Niger ed il Sud dell’Algeria. Terra ancestrale di popolazioni nomadi come i tuareg e i peulh, suddivisa geometricamente a tavolino dai coloni, oggi questa immensa fascia desertica, più che al fascino delle carovane del sale, si presta a traffici illeciti come quello della droga, delle armi, dell’emigrazione clandestina e al dilagare del terrorismo.
È in questa terra di nessuno, lontano da ogni forma di controllo possibile che Al Qaeda per il Maghreb Islamico (Aqmi), da ormai quasi tre anni, sta seminando il terrore nelle popolazioni locali e nelle comunità di stranieri, per lo più cooperanti e impiegati di società minerarie, che abitano e frequentano quelle zone.

Ma chi è Aqmi?
Qualche esperto di geopolitica, come Jeremy Keenan, sostiene che Aqmi sia stata creata ad arte dai servizi segreti americani e algerini ai fini di destabilizzare una zona ancora tutto sommato stabile, come l’Africa Occidentale. L’obiettivo sarebbe potee giustificare la militarizzazione e di conseguenza il controllo totale (risorse del sottosuolo comprese). Altri sostengono che si tratti di cellule terroristiche salafiste, formate alla guerriglia in Afghanistan o in alcune aree dell’Africa, come in Somalia. Queste vogliono estendere il raggio d’azione di Al Qaeda in zone in cui ci sono forti interessi occidentali, approfittando del fatto che questi si scontrano spesso con quelli delle popolazioni.
Alcuni leader locali si dichiarano «confusi» e affermano che oggi all’interno di queste zone «vedono installarsi dei predicatori, alcuni originari del Pakistan, venuti per insegnare il salafismo (corrente nell’Islam che promuove il ritorno alle origini, alla purezza della religione, senza contaminazioni, ndr.). Le prediche sono seguite da costruzioni di pozzi, aiuti alle popolazioni e naturalmente dall’edificazione di moschee». Mentre altri pensano: «Non sono terroristi, ma leggono e strumentalizzano l’Islam a fini politici».
Se pochi anni fa i combattenti di Aqmi erano circa un centinaio, oggi le stime parlano di oltre  mille unità, mentre nuove cellule nascono ovunque.
I governi dei paesi del Sahara ostentano coesione e dichiarano al mondo di volersi unire nella lotta contro il terrorismo, che non fa che peggiorare le già precarie condizioni di vita delle loro popolazioni.
Il 30 settembre scorso ad Algeri, i responsabili degli eserciti di Niger, Mauritania, Mali e Algeria hanno creato un centro unificato di servizi segreti, allo scopo di contrastare il terrorismo nel Sahel. Costituito da alti ufficiali dei quattro paesi, il centro servirà per lo scambio di informazioni «sulle attività dei gruppi terroristi nella regione, la loro creazione e gli spostamenti».  Il centro sarà il braccio operativo del Consiglio dello stato maggiore regionale che già collega gli eserciti e la sua direzione verrà assegnata a rotazione.

La strategia di Aqmi
Intanto alcuni rappresentanti della società civile iniziano a denunciare con forza la presunta collusione tra poteri centrali, in particolare forze armate e polizia, con i terroristi. I militanti di Aqmi mirano infatti ad esercitare il controllo in stile mafioso, basato sulla complicità e sul racket, su queste zone in cui i traffici illegali generano interessi colossali per tutti, tranne che per le popolazioni, che pagano a duro prezzo la destabilizzazione socio-politica delle regioni in cui abitano.
I gruppi di Aqmi minacciano gli stranieri nelle aree dell’immediato Sud del Sahara, il Sahel, che siano essi operatori delle Ong o impiegati delle multinazionali minerarie. Cercano così di scoraggiae la presenza, per isolare la regione e trasformarla nella nuova roccaforte del terrorismo islamico. Nel momento in cui scriviamo sono sette gli ostaggi (cinque occidentali e due africani) in mano al movimento terrorista, imprigionati in qualche anfratto delle colline rocciose del Nord del Mali. Rapiti a metà settembre nei pressi di Arlit (Nord Niger), sono dipendenti di Areva, il gigante francese del nucleare civile. Areva ha grossi interessi nelle miniere di uranio in Niger.
Intanto le Ong, che per deontologia devono essere vicine alle popolazioni più bisognose, si trovano di fronte a scelte difficili. Da una parte lasciare sole le comunità di queste zone, tra le più povere e depresse del mondo, significa condannarle alla miseria assoluta. D’altra parte non possono esporre fisicamente il loro personale, straniero o locale, ai rischi dell’insicurezza.
Anche i finanziatori principali dei progetti di cooperazione stanno riducendo gli investimenti in quelle zone, poiché non sussistono le condizioni minime necessarie per le realizzazioni. E mentre i turisti non si vedono più da tempo e le Ong abbandonano quelle aree, le forze militari francesi e americane s’installano, in barba alla sovranità dei paesi ospiti. Il pretesto è garantire l’incolumità degli europei che continuano a lavorare nel campo dell’estrazione delle materie prime (petrolio, uranio, oro, ecc.), attività che non hanno subito nessun rallentamento.

L’economia locale a picco
Le condizioni d’insicurezza, gli allarmismi delle ambasciate europee in Africa e la grande enfasi mediatica data agli atti di terrorismo, hanno fatto crollare il già precario turismo nei paesi dell’Africa Occidentale. La drastica riduzione dei viaggiatori in Mali, una delle mete preferite del continente africano per la sua varietà paesaggistica e culturale, ha piegato l’economia di intere comunità che avevano investito nel turismo integrato su scala famigliare (guide, autisti, albergatori, artigiani). Stessa sorte per Niger e Mauritania.  Quest’ultima ha investito negli ultimi anni denaro pubblico e privato nella promozione del turismo d’avventura. Point Afrique, la storica compagnia aerea che effettua voli charter nella zona saheliana, ha annullato sei destinazioni su sette, licenziando l’80% del personale africano con evidenti ulteriori ricadute sull’economia locale legata all’indotto del turismo.
Una crisi economica che non fa altro che giovare ad Aqmi, pronta a radicarsi in contesti nei quali la povertà diventa disperazione.
Cosa ancora più grave: i gruppi di Al Qaeda hanno una strategia subdola, quella di reclutare persone, soprattutto giovani, che per un motivo o per l’altro hanno fallito il loro percorso di emigrazione verso l’Europa. Questi, oltre ad essere senza lavoro nutrono un senso di rancore nei confronti del mondo occidentale. Spinti dalla disperazione ed arenati in qualche città del Sahel, si vendono per pochi dollari ad Aqmi, per compiere atti di manovalanza criminale nei confronti degli occidentali: dal furto di auto, alle rapine armate, fino ad arrivare al sostegno logistico alle incursioni finalizzate al sequestro di persone.

Cosa dicono i popoli del deserto
L’attivismo terroristico delle cellule di Aqmi nel Sahara, ha portato in secondo piano la questione dei tuareg, minorità etnica che da anni lotta per l’autodeterminazione, cercando di preservare il proprio stile di vita ancestrale nomade. Popolo che gli Stati «modei» vorrebbero rendere sedentario per poterlo meglio amministrare. I capi tribù e rappresentanti della società civile tuareg del Mali si stanno organizzando per incontrare i responsabili di alcuni gruppi di salafisti di Aqmi, allo scopo di chiedere loro di tornare al Nord del Sahara e lasciarli abitare liberamente la terra dei loro antenati.
Se la maggior parte della popolazione tuareg non ha nessuna complicità con i terroristi e neppure attrazione ideologica per il fanatismo religioso, è pur vero che alcuni giovani si sono venduti ad Al Qaeda. Durante il recente attacco che l’esercito mauritano ha perpetrato nel Nord del Mali contro gruppi armati (19 settembre), sono stati uccisi quattro uomini tuareg che ne facevano parte. Ed è proprio verso i giovani di questa etnia che si rivolgono i terroristi. Partecipare ad un’azione di banditismo e contribuire al sequestro di una persona fornisce loro in qualche giorno un guadagno pari a 10 anni di stipendio.
Per questo motivo Ibrahim Ag Bahanga (ex leader della ribellione tuareg) e altri responsabili, da diverse settimane hanno lanciato una sensibilizzazione dei giovani della loro etnia, affinché non si integrino nelle bande di Aqmi. Ma vanno oltre e vogliono dare una risposta armata ai terroristi e ai trafficanti di droga, per riprendere il controllo del loro territorio ancestrale.
Questione delicata, se si pensa che fino a due anni fa i tuareg del Mali e del Niger erano in ribellione contro i rispettivi governi.
La destabilizzazione del Sahel ad opera dei gruppi armati legati ad Al Qaeda facilita la presenza militare occidentale in zone ad elevata concentrazione di materie prime. Al contrario, la popolazione si vede privata del turismo e degli investimenti delle Ong, le uniche due risorse utili ad alimentare un’economia già molto fragile.

Marco Alban e Marco Bello

Marco Alban e Marco Bello




Insieme appassionatamente

Kibiti: dove musulmani e cristiani lavorano insieme

Nata una ventina di anni fa, fatta crescere dalle missionarie della Consolata e fecondata dalla vita spesa da padre Adalberto Galassi, l’«Unione di musulmani e cristiani del Rufiji» (Uwawaru) sta realizzando progetti di sviluppo finanziati da varie entità della Regione Marche. La solidarietà tra Nord e Sud rende possibile anche la convivenza pacifica e produttiva di cristiani
e musulmani.

Durante il mio primo viaggio in Tanzania, nel 2007, parlando con suor Zita Amanzia Danzero, missionaria della Consolata, nota studiosa ed esperta di islam e del mondo musulmano in generale, sentii per la prima volta parlare di UWAWARU (Umoja wa Waislamu na Wakristu Rufiji, Unione di musulmani e cristiani del Rufiji). L’esperienza di un’associazione di musulmani e cristiani, nata nel 1998 con lo scopo di impegnarsi insieme nello sviluppo, nell’aiuto e nel progresso della propria comunità, mi interessava proprio.
Dopo aver respirato polvere rossa per chilometri e chilometri, lungo la strada che va a sud, in Mozambico, arrivammo «rosse» a Kibiti, un villaggio in pieno bush, dove le missionarie della Consolata sono presenti nella missione dal 1991 con dispensario, mateità e scuola matea per le famiglie dei villaggi vicini.
uniti tutto è possibile
Quest’area, attraversata dal fiume Rufiji, è una delle più depresse del Tanzania, completamente abbandonata dal governo. I villaggi sono di case di fango e la gente è visibilmente provata dalla povertà. Acqua e luce sono un miraggio.
La popolazione di questi villaggi è costituita in prevalenza da musulmani tanzaniani; ma ci sono anche alcuni arabi, arrivati diversi secoli fa da Zanzibar e Arabia Saudita; tra di loro sono molti i fondamentalisti.
Sono riuscita a incontrare tre dei rappresentanti dell’Uwawaru, due musulmani e uno cristiano cattolico. Risposero a tuo alle mie domande, ma con una voce unica. Tutti e tre ripetevano la parola insieme. «Insieme ci siamo resi conto che era fondamentale trovare una soluzione per il futuro dei nostri figli, delle nostre famiglie. Insieme abbiamo parlato e deciso di unirci per dar vita a un’associazione che operasse adesso e in futuro non secondo gli esclusivi dettami religiosi degli uni o degli altri, ma per il progresso di questa zona e per il bene del villaggio, della comunità».
Avevo di fronte tre semplici uomini la cui saggezza e perspicacia erano disarmanti per me che venivo da un mondo dove il terrorismo islamico aveva creato un’islamofobia dilagante tanto da non concepire possibile il dialogo interreligioso. E a 9.000 km di distanza dal mio mondo, in una zona di povertà estrema ho capito davvero le parole di amici e saggisti che insistevano sull’esistenza di vari tipi di islam. E l’islam africano di questi vecchi capi, non ancora contagiato dal fondamentalismo che pur iniziava già a farsi strada, era tutt’altra cosa da quello da me temuto.
l’identità etnica prevale     su quella religiosa
Le popolazioni della zona del Rufiji sono musulmane, ma si rifanno a secoli di tradizioni, insite nel dna africano, di accoglienza, solidarietà, altruismo e rispetto.
Piena dei miei pregiudizi su fondamentalismo e guerra santa, continuai a interrogare i tre capi dell’Uwawaru, chiedendo loro come fossero così certi che le future generazioni potessero continuare a portare avanti i principi di questa associazione insieme.
Mi ero già imbattuta in altri villaggi alla periferia di Dar es Salaam in gruppi di giovani fondamentalisti, indottrinati dai sauditi che da anni avevano scelto la costa dell’Est Africa per una campagna di proselitismo. Ma i due musulmani mi spiegarono con estrema semplicità la loro realtà. «Noi siamo nati e cresciuti insieme. Noi siamo africani e tanzaniani prima ancora che musulmani e cristiani. Noi siamo fratelli, nonostante i nostri avi vengano da posti diversi. Per noi esiste un unico Dio che noi musulmani chiamiamo Allah, i cristiani invece Gesù. Il rispetto vissuto nella povertà e nelle difficoltà di questa zona non porterà mai uno di noi a far del male a un fratello tanzaniano solo perché non musulmano.
E anche in futuro, i nostri figli conserveranno la memoria e le esperienze dei loro padri e non succederà nulla. Sicuramente ci saranno in Tanzania anche gruppi influenzati da fondamentalisti, ma il nostro popolo è stato forgiato dall’esempio di vita e dagli insegnamenti del Mwalimu Nyerere (presidente del Tanzania dal 1964 al 1985) che ha saputo istruire le menti e i cuori dei tanzaniani, dimostrando come la pace e la collaborazione siano alla base della civiltà di un popolo. Sono certo che i nostri figli sapranno cosa fare della loro vita», conclude Iddi Rashidi.
Dalla convivenza alla
cooperazione
Uno dei momenti fondamentali di apertura al dialogo con i musulmani di Kibiti, racconta suor Ida Luisa Costamagna, è stato la partecipazione a un funerale insieme al cappuccino padre Alfeo. «Saputo della morte di un importante capo musulmano del villaggio, andammo a dare il pole, le condoglianze. Furono sorpresi e apprezzarono il gesto di vicinanza e condivisione nel lutto. Ricordo che ci togliemmo le scarpe e pregammo con loro. Certamente quel gesto ci aprì le porte non solo delle loro capanne, ma di una convivenza tranquilla e rispettosa, che continua ad andare avanti benissimo. Fu allora che iniziammo seminari, momenti di scambio e di preghiera insieme che continuano ancora oggi».
«Ricordo la profonda gioia – continua suor Zita – e il nuovo senso di missione sperimentati durante il mio primo incontro con un gruppo di musulmani e cristiani in questa zona. Narrai loro semplicemente il mio percorso verso la comprensione della loro fede e recitai in arabo la prima sura del Corano. I musulmani si mostrarono sorpresi e felici allo stesso tempo. Era infatti la prima volta che sentivano una suora cattolica parlare la lingua della loro fede. Si susseguirono altri incontri e crebbe anche un rapporto di stima reciproca. Dapprima riflettemmo insieme sui molti problemi presenti nella società odiea. Questo ci convinse dell’importanza di incontrarci, musulmani e cristiani, per ulteriori riflessioni e formazione. Fu programmata una serie di seminars su temi sociali come: Aids, aborto, spaccio e uso di droga, diritti umani di donne e bambini».
Dopo numerosi incontri nacque l’associazione Uwawaru. Gli inizi si devono all’opera del padre cappuccino e di alcune missionarie della Consolata; ma la nascita ufficiale risale al 1998. Non fu un cammino facile, dato che in quest’area c’è una forte presenza di musulmani integralisti che spesso minacciavano i musulmani di buona volontà che lavoravano alla formazione di tale Unione. Arrivarono al punto di rivolgersi al governo centrale, dicendo che l’Unione era haram -proibita- secondo il Corano.
Ma l’iniziativa riuscì ad affermarsi grazie alla tenacia di un altro missionario, padre Adalberto Galassi, maceratese, scomparso precocemente a 61 anni, nel 2002. Da quel momento suo fratello Vittorio ha continuato a portare avanti le opere avviate dal missionario scomparso e continua ancora oggi, con attività di sensibilizzazione a sostenere i progetti dell’Uwawaru e altre opere della parrocchia di Kibiti (vedi M.C. maggio 2008).
All’inizio del 2003, tre mesi dopo la morte del missionario, l’Unione ottenne il riconoscimento ufficiale del governo tanzaniano. L’anno seguente, nel mese di novembre fu organizzato un incontro per riflettere insieme su un’iniziativa comune a beneficio dei membri dell’Unione e della popolazione locale. Così fu deciso un progetto per lo sviluppo dell’agricoltura; progetto avviato e continuato grazie al sostegno degli amici marchigiani che hanno coinvolto anche l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo).
Sicurezza Alimentare
e lotta alla malaria
Nel 2009 mi trovavo proprio a Kibiti, e là incontrai Vincenzo Russo, un esponente dell’Iscos Marche, e Ilaria Bracchetti, incaricata di accompagnare l’Uwawaru e lo svolgimento del progetto di agricoltura. Mi entusiasmò da subito il progetto che l’Iscos Marche aveva pensato di realizzare per lo sviluppo agricolo e la lotta alla malaria nel distretto del Rufiji. È un’opera grandiosa che mira a costituire una vera e propria cornoperativa agricola. La somma stanziata è di 360 mila euro, co-finanziata dalla Regione Marche, Provincia di Macerata, Pensionati Cisl Marche e Iscos Marche.
«Il progetto – mi spiegò Vincenzo Russo – si concentra all’interno dei due sottodistretti di Kibiti, con 78.384 abitanti, e di Ikwiriri, con 25.339 abitanti. È una zona dove non ci sono infrastrutture, è difficile trovare acqua potabile e la situazione sanitaria è allarmante. Gli obiettivi del progetto sono essenzialmente due: il primo è la riduzione della povertà, attraverso lo sviluppo della produttività agricola della zona, la commercializzazione delle produzioni locali e l’aumento dei redditi delle famiglie dei due sottodistretti; il secondo, altrettanto fondamentale, è il miglioramento dello stato di salute della popolazione, contrastando l’incidenza della malaria».
I partner del progetto sono i membri dell’Uwawaru, con le relative famiglie. è l’associazione che gestisce in prima persona gran parte delle attività; il distretto del Rufiji assicura il supporto istituzionale al progetto, tramite agronomi, uffici sanitari, locali e amministrativi; la diocesi di Dar es Salaam, che già gestisce i due dispensari della zona, garantisce credibilità e fiducia nell’intervento.
Vincenzo continuò a snocciolare le principali attività legate al progetto: realizzazione di una campagna formativa finalizzata a migliorare le conoscenze agronomiche e gestionali degli agricoltori dei due sottodistretti; formazione e supporto di un’associazione promuovente l’agricoltura meccanizzata; creazione di punti d’accesso alla foitura di materiali e strumenti agricoli a prezzo agevolato anche conpagamenti “in natura”; costruzione della sede dell’Uwawaru, con magazzino e rimessa per gli attrezzi; acquisto e messa in funzione dei macchinari agricoli e di trasporto (trattore, carro agricolo, erpice, camion, etc.); sperimentazioni di nuove colture e pratiche agronomiche; messa in produzione di 40 ettari di terreno; studio sulla commercializzazione dei prodotti dei due sottodistretti, per accorciare e migliorare la filiera e ottenere un giusto guadagno dalla produzione.
«I beneficiari del progetto agricolo non sono solo i membri dell’Uwawaru con le relative famiglie (4 mila persone circa), ma anche altri 400 e più agricoltori di Kibiti e Ikwiriri, oltre i 600 neonati e loro mamme e più di mille persone che beneficeranno della profilassi contro la malaria. Speriamo di realizzare il tutto in tre anni», concluse Vincenzo.
entusiasmo contagioso
L’entusiasmo di Vincenzo e di altri membri dell’Iscos Marche che si sono alternati era contagioso. Ancora una volta ebbi la prova che i progetti efficaci, i cui finanziamenti vanno totalmente a destinazione, non sono fatti dalle organizzazioni inteazionali di cooperazione, ma da Ong senza potere di acceso ai famosi fondi mondiali e generalmente sconosciute alla massa, benché operino da tempo in numerosi paesi del mondo.
Non mi stupì il fatto che dietro a un progetto del genere ci fosse la Regione Marche, la Provincia di Macerata, i pensionati marchigiani della Cisl e l’Iscos Marche. Li avevo conosciuti bene i marchigiani durante i miei anni di studio a Macerata: gente onesta, brillante e soprattutto buona.
Tanto di cappello ai marchigiani: di fronte a un progetto di tal valore sociale ed economico, lasciatemi dire che possiamo sfatare il mito del marchigiano «tirchio»!
Eppur si muove
A distanza di un anno chiamai Ilaria Bracchetti, che rappresenta l’Iscos Marche nella gestione del progetto direttamente  sul terreno in Tanzania. Ho sempre apprezzato la volontà e la determinazione di Ilaria, che è la sola mzungu non missionaria in quella zona difficile. «Sono arrivata a Ikwiriri nel settembre 2009 – mi scrisse Ilaria -. In quell’anno sono state avviate le attività di campo vere e proprie. Il mio impegno si è focalizzato nel cornordinamento e appoggio al partner locale, l’Uwawaru, per coinvolgere la popolazione nella organizzazione di una cornoperativa agricola, nella campagna per la lotta alla malaria e nella costruzione dei locali necessari, terminati all’inizio dello scorso settembre».
Le fotografie inviate da Ilaria alla Iscos Marche descrivono con chiarezza la nuova sede della Uwawaru: essa è costituita di un magazzino, tre uffici, una sala riunioni, con un computer in funzione, e relativi annessi (bagni, casetta del guardiano, cistee per l’acqua e fognature) per un totale di 193 mq. Il metodo adottato, cioè la partecipazione della gente, l’utilizzo di manodopera e materiali reperibili in loco, ha rallentato i tempi per l’ultimazione dell’edificio, ma hanno contribuito ad aumentare il senso di appartenenza del progetto al gruppo coinvolto.
«Nella scorsa stagione agricola, che va da novembre a marzo, si è sperimentata la coltivazione dei primi 10 acri di terreno. Per la ristrettezza nei tempi di pianificazione, non si sono avuti i risultati sperati», continua Ilaria. «In compenso l’esperienza è stata un buon tavolo di prova per capire sia le potenzialità tecniche dell’associazione che per testae le capacità di cornordinamento».
«Benché fin dalla sua nascita si sia sempre dimostrata volonterosa, l’Uwawaru ha mostrato scarsa capacità manageriale, non avendo l’esperienza necessaria. Perciò, l’anno passato è servito, soprattutto, per iniziare ad allenare l’Associazione in campo organizzativo, per affrontare e programmare il carico di lavoro e le fasi inerenti alla realizzazione del progetto».
«La base volontaria su cui opera l’Uwawaru – continua Ilaria – mi ha obbligato ad aggiustare le mie aspettative circa tempi e modalità di lavoro. Sicuramente anche la mia estraneità alla comunità, la mia presenza come “specialista” del tutto scollegata dal contesto missionario con cui in precedenza l’associazione si era rapportata, ha destato timori e riserve che solo il martellante e quotidiano lavoro ha un po’ dissolto, rendendo così possibile instaurare un rapporto di fiducia.
Inoltre, il contesto di vita in un villaggio nel bush tanzaniano è stato sicuramente difficile per me stessa e non privo di momenti di sconforto o di paura di non farcela. Ma la convinzione che con la tenacia si possano vincere le difficoltà e le resistenze, mi ha portato comunque a continuare ed affrontare questo secondo anno con nuove idee e la speranza che il lavoro svolto fin qui possa cominciare a dare frutti concreti».
crescere insieme
Anche Vincenzo Russo, responsabile del progetto Iscos Marche, ribadisce le difficoltà iniziali nell’accompagnare un gruppo di persone nella formazione di un’associazione economicamente sostenibile e indipendente. «Il processo di costruzione della sede di lavoro ha rappresentato non solo la realizzazione pratica, ma una crescita “didattica” e tecnica dell’associazione. La componente agricola non ha avuto le rese sperate. Purtroppo abbiamo iniziato tardi, a settembre, e non è stato possibile impostare il lavoro come avremmo desiderato, ma siamo fiduciosi».
Vincenzo conclude la chiacchierata con la prospettiva e l’auspicio che in futuro l’Uwawaru diventi un’entità che si autosostiene e autonoma. Da parte mia, auguro soprattutto che l’«Unione dei musulmani e cristiani del Rufiji» diventi un esempio contagioso. Nata e cresciuta indubbiamente con il sostegno dei missionari, che hanno ascoltato, consigliato e pungolato nel cammino di unione per un fine di sviluppo comune a prescindere dalla differenze di fede, l’Uwawaru dimostra che la convivenza civile, pacifica e produttiva tra cristiani e musulmani è possibile.

Romina Remigio

Romina Remigio




«Voi non meritate i nostri aiuti»

Un paese (difficile) devastato dalle alluvioni

Violenze e discriminazioni contro le donne e contro i non-musulmani, vicinanza a movimenti terroristici, possesso di arsenale nucleare. È il Pakistan, paese che nei mesi scorsi è stato devastato da alluvioni, che hanno provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. Nonostante l’entità della tragedia, gli aiuti inteazionali sono arrivati con il contagocce. Per questo si è parlato di «vittime di serie B». Ma è giusto che il Pakistan venga aiutato meno perché considerato – a torto o a ragione – poco meritevole? È giusto far pagare a donne e bambini sbagli ed intolleranze? L’aiuto non dovrebbe essere un atto di generosità disinteressata e di umana pietà?

Inumeri – pur ballerini – sono impressionanti: 20,2 milioni di persone coinvolte, un’area interessata estesa 50 mila chilometri quadrati, 2,4 milioni di ettari di raccolti andati perduti, oltre 1,9 milioni di case distrutte o danneggiate(1).
Sono le conseguenze delle inondazioni monsoniche che la scorsa estate – dal 22 luglio al 16 settembre – hanno colpito il Pakistan, un paese già prostrato dai conflitti interni e dai problemi usuali di una nazione in via di sviluppo. Una catastrofe, insomma. Eppure, rispetto ad altre tragedie (il terremoto di Haiti, ad esempio), ci sono state meno immagini in televisione, meno giornalisti inviati sul posto, meno campagne di solidarietà, meno Sms per raccogliere fondi. Che sia stato perché, in un mondo sempre più interconnesso (forse la forma più visibile della globalizzazione), le tragedie sembrano ormai essere all’ordine del giorno? O perché il Pakistan è un paese troppo diverso (per religione, cultura e tradizioni) e troppo ambiguo (i suoi presunti legami con il terrorismo internazionale) per meritare i nostri aiuti?

TRA TALIBAN E KASHMIR
Con oltre 180 milioni di abitanti, il Pakistan è il sesto paese più popolato del mondo e il secondo più grande stato musulmano dopo l’Indonesia. È un paese afflitto da enormi problemi fin dalla sua nascita (1947), ma accentuati a partire dal novembre 2001, quando Stati Uniti e Gran Bretagna cacciarono il governo talebano del vicino Afghanistan, dando inizio a quell’interminabile conflitto da cui oggi tutti vorrebbero ritirarsi(2).
A parte l’annoso contenzioso con l’India per il controllo della regione del Kashmir, il problema del Pakistan sta proprio lungo il confine con l’Afghanistan, dove due vaste province sono ormai fuori controllo: le «Aree tribali ad amministrazione federale» (Federally Administered Tribal Areas, Fata) e la «Provincia della frontiera nord-ovest» (North West Frontier Province, Nwfp).
In queste zone, imperversano gruppi armati collegati ai talebani. In particolare, nella Swat Valley, zona densamente popolata perché ricca di acqua e vegetazione, la situazione è molto difficile. «Negli ultimi due anni – scrive Amnesty Inteational -, i talebani hanno distrutto più di 200 scuole nello Swat, oltre un centinaio delle quali erano scuole femminili. Secondo le autorità locali, questi attacchi hanno interrotto gli studi di più di 50.000 alunni, dalla scuola primaria all’università»(3).
Il governo centrale, dopo gli anni (1999-2008) del generale Musharraf (despota protetto dagli Stati Uniti di George W. Bush), è ora guidato dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, personaggio poco limpido, già coinvolto in vari scandali. Il governo Zardari gode oggi di molta impopolarità, dentro e fuori del paese, per l’incapacità di contrastare la violenza e la pessima gestione dell’emergenza durante le alluvioni.
A causa della pluralità e complessità dei problemi, è facile prevedere che la polveriera Pakistan occuperà per molto tempo i notiziari inteazionali.
Quanto alle recenti alluvioni, è da dire che la situazione è stata resa ancora più difficile dalle tradizioni – sociali e religiose – vigenti presso le popolazioni colpite. Ad esempio: le donne vittime dell’alluvione potevano (e possono) essere visitate soltanto da personale medico femminile, cosa molto difficile  vista la carenza dello stesso(4). Si è inoltre parlato di discriminazioni verso i pakistani non-musulmani (cristiani ed hindù) nella distribuzione degli aiuti. Cosa certamente da stigmatizzare (ove, come pare, sia confermata)(5), ma che – purtroppo – capita frequentemente nelle società diseguali, con molti soggetti più deboli. Un esempio ci è stato offerto anche dagli Stati Uniti all’epoca – era il 2005 – dell’uragano Katrina. È risaputo che gli afroamericani, appartenenti agli strati più poveri della popolazione, furono gli ultimi ad essere soccorsi e quelli che sopportarono le conseguenze più pesanti del disastro.

MATRIMONI COMBINATI E DRAMMI FAMILIARI
In Italia ci sono circa 80-100 mila pakistani, il 70 per cento dei quali vive nel Nord Italia. La maggiore concentrazione si registra nella città e nella provincia di Brescia.
Nonostante l’abbinamento (mediatico) di pakistani uguale terroristi, in Italia la comunità pakistana vive in tranquillità. Essa è stata oggetto di attenzione da parte dei media soltanto in occasione di alcuni fatti di sangue avvenuti in famiglia. L’ultimo risale al 3 ottobre, in provincia di Modena.
Un pakistano, Ahmad Khan Butt, ha ucciso la moglie Begm Shnez e ferito gravemente Nosheen, la figlia ventenne che non voleva accettare un matrimonio combinato. L’uomo è stato aiutato dal figlio maggiore, Humair, di 19 anni.
La tragedia ha fatto ricordare un altro delitto avvenuto nell’estate del 2006 in una famiglia pakistana che viveva a Sarezzo, in provincia di Brescia. Hina Saleem, poco più che ventenne, era stata uccisa dal padre e da alcuni parenti maschi. La sua colpa: essere fidanzata con un italiano.
Nosheen e Hina, ragazze pakistane, volevano scegliere il proprio destino come le coetanee italiane: troppo per le loro famiglie d’origine, legate a tradizioni ancestrali. Abbiamo parlato di pakistani, ma  le circostanze si ripetono anche per altri. Nel settembre 2009, in provincia di Pordenone, Sanaa Dafani, 18 anni, marocchina, è stata uccisa dal padre, perché fidanzata con un italiano(6).
Davanti a questi fatti, il giudizio popolare – sospinto da politici e media interessati – è di solito perentorio ed inappellabile: «Visto? Gli immigrati non si adatteranno mai al nostro modo di vivere!».
In realtà, è probabile che sia vero il contrario: è la rapida integrazione nel paese d’adozione dei figli degli immigrati che porta a conflitti familiari, soprattutto in presenza di culture molto diverse, come nei casi di cui abbiamo fatto cenno.

GLI AIUTI INTERNAZIONALI E LE EMERGENZE CHE VERRANNO
Tutto questo giustifica meno compassione e meno aiuto verso i disperati del Pakistan? Le colpe di governanti e gruppi fondamentalisti vanno fatte pagare anche a gente innocente – bambini e donne in primis – bisognosa di aiuto? «Sarà che il Pakistan ci evoca terrorismo, immigrazione, talebani, un mondo sconosciuto e quindi pericoloso,… Sarà? – ha scritto Gianmarco Marzocchini, direttore della Caritas diocesana di Reggio Emilia -. Ma mi chiedo e vi chiedo il perché tante emergenze nazionali e inteazionali vengano considerate di Serie B!»(7).
Queste osservazioni valgono oggi per il Pakistan, ma sono ripetibili per molte altre situazioni, del presente e del passato. È vero che ci sono emergenze più emergenze di altre, ma morti e sofferenti si somigliano ovunque. O forse no?
Proviamo a fare qualche altra considerazione… Quando accade un’emergenza internazionale (un terremoto, una siccità, un’inondazione), i singoli stati concedono aiuti (intendendo soltanto aiuti non militari) in base a considerazioni geopolitiche e, in ogni caso, le promesse iniziali, fatte per rispondere all’emozione del momento, non sono mai rispettate. Si calcola che venga donato al massimo il 40% di quanto promesso. Rimangono le raccolte presso i singoli cittadini fatte da chiese (la Caritas, ad esempio), Ong, associazioni umanitarie ed agenzie Onu. È altamente probabile che, nel prossimo futuro, le emergenze inteazionali aumentino sempre più, vuoi per gli sconvolgimenti climatici, vuoi per le pressioni demografiche, vuoi per le instabilità sociali e politiche. Sarebbe bello che prevalesse sempre l’aiuto disinteressato, che non guarda alle diversità culturali, geografiche, etniche e religiose. Oggi, troppo spesso, sembrano invece prevalere criteri dettati da calcolo politico, ignoranza, fanatismo e pregiudizio. 

Paolo Moiola

Note

1 – Questi dati, aggioati all’8 ottobre 2010, sono quelli divulgati dalle Nazioni Unite. Sono reperibili, assieme ad altre informazioni, sul sito: www.unportal.un.org.pk.
2 – Mentre scriviamo queste righe, altri 4 soldati italiani sono stati uccisi in Afghanistan (9 ottobre 2010), portando a 34 il totale dei morti dell’Italia in questo conflitto, che nel 2011 entrerà nel suo decimo anno.
3 – Amnesty Inteational, La situazione dei diritti umani nel mondo. Rapporto 2010, Fandango Libri, Roma 2010, pag. 335.
4 – Si legga: Caritas Pakistan issues call for female doctors, 3 settembre 2010 su www.cathnewsasia.com.
5 – La fonte principale, poi ripresa da vari media, è Fides. In particolare, Cristians and Muslim confirm discrimination in aid distribution, pubblicato il 15 settembre 2010 su www.fides.org.
6 – Si legga il reportage di Robert Fisk, per «The Independent»: The crimewave that shames the world. Tradotto e pubblicato in Italia dal settimanale «Internazionale», n. 867, 8 ottobre 2010.
7 – Si veda: www.caritasreggiana.it.

Paolo Moiola




HUSSAIN E KARAMULLAH

Reportage

Due fratelli afghani, di professione commercianti, emigrati a Peshawar, in Pakistan, parlano del loro paese e dei talebani.

Peshawar (frontiera nord-ovest). Soltanto il Khyber Pass separa Peshawar dal confine afghano. La città, che sotto un’apparenza trascurata nasconde le vestigia di un tempo, è abitata quasi totalmente da gente pashtun, etnia cui appartengono anche i talebani. Stringo in mano un bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit. «A Peshawar va’ a trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi aveva detto. Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è impresa delle più semplici.
Finalmente trovo la porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.
Un uomo dalla folta capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un altro è seduto per terra intento nella lettura del Corano, mentre in un angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.
Appena spiego di essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno studiando l’inglese con un maestro».
Muhammad Hussain è il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per comprare tappeti per i nostri negozi». Per voi musulmani io sono un «infedele»: che significa? «Sta scritto che l’ultimo profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito avranno successo nel mondo e dopo il mondo; quelli che non saranno musulmani saranno messi all’inferno. Nel sacro Corano Allah onnipotente dice: “Io sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con quanto scritto nel sacro Corano, nessuna religione è accettabile al di fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in pace».
Karamullah, il fratello più giovane, è sposato e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria simpatia per i talebani (…) (*).
I due giovani studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando bicchieri fumanti, colmi di un thé che riempie la stanza di profumi speziati.
Tra un sorso e l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici: «I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».
Alle cinque in punto Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende  il suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a conversare con me.
Non ti sembra – gli chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per far comprendere agli altri che rubare è male».
Obietto che il male è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se i paesi coloniali non li incoraggiassero».
Mi accorgo che il tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega di Hussain e Karamullah. Fuori è sceso il buio e il grande bazar si è quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A dispetto delle nostre grandi diversità.

Paolo Moiola

(*) Il viaggio raccontato in questo reportage è avvenuto anni fa, quando i talebani  erano al governo dell’Afghanistan. Lo riproponiamo, pur tagliato in alcune sue parti (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2001), perché rimane significativo ed attuale.

AHMAD EJAZ, GIORNALISTA PAKISTANO

PREGIUDIZI E VERITÀ

Condanna la pratica e la violenza dei «matrimoni combinati». Chiede che si dia più spazio al «giornalismo etnico». Difende il suo paese, ma ne condanna i dittatori e i fondamentalisti. Sulla questione della convivenza ha un’idea precisa, anche perché lui, Ahmad Ejaz, ha sposato una donna italiana.

Ahmad Ejaz  è un pakistano da molti anni in Italia. Gioalista, è caporedattore di Azad (Libertà), rivista mensile in lingua urdu distribuita in 5.000 copie nei phone centers e nei negozi pakistani. Abbiamo sentito Ejaz subito dopo un tragico fatto di cronaca.

Ejaz, come spiegare agli italiani – spesso impreparati, prevenuti, aizzati o usati – l’omicidio della donna pakistana di Novi Modena (3 ottobre) e quello, quasi identico, di Hina Sallem a Brescia nel 2006?
«La donna di Novi è stata uccisa da un uomo ignorante di nazionalità pakistana. Lui fa parte di una cultura limitata e crudele che non ha niente a che fare con la cultura millenaria pakistana. Padre e figlio  non hanno ucciso soltanto la propria moglie o madre, ma hanno tolto la vita ad una persona. Mentre la figlia, la povera Nosheen, sta in coma. Nel gennaio 2005, a Bologna, un pakistano di nome Hafiz aveva ucciso Silvia de Paolis; nel 2006 Hina Saleem e adesso Shahnaz Begum. Pochi sanno che questi tre uomini vengono dalla stessa regione del Pakistan».

Come comportarsi davanti a questi fatti? E soprattutto cosa fare?
«Bisogna aprire un dibattito all’interno della comunità pakistana. Lo so che anche gli italiani uccidono le proprie donne, ma io vorrei salvare altre possibili vittime dei maschi pakistani confusi che hanno scelto di vivere in Italia.
Per questo, bisogna creare  nuove figure tra gli immigrati: persone che facciano da leader o mediatori per spiegare la cultura italiana e per capire la propria.
Occorrerebbe anche cambiare la legge sulla cittadinanza: lo straniero che nasce in Italia deve essere cittadino italiano. Così le seconde generazioni potrebbero avere un po’  più di libertà nelle loro scelte. Inoltre, dovremmo dare più importanza al giornalismo etnico, per parlare con le prime generazioni. In Italia, tra l’altro, ancora non esiste un numero verde per salvare le ragazze costrette ai matrimoni combinati e non esiste un ufficio internazionale che tuteli i loro diritti».

Le inondazioni hanno devastato il tuo paese. Ma gli italiani non sono stati generosi come in altre occasioni…
«Hai ragione: è stato tempestivo ed intenso l’aiuto dell’Italia per Haiti, mentre non è stato così per il mio paese. Ci sono diversi pregiudizi verso il Pakistan. Dopo l’11 settembre, il Pakistan è stato sempre protagonista per il suo ruolo, sia positivo che negativo, nella guerra al terrorismo. Si pensa pregiudizialmente che noi aiutiamo i talebani, ma allo stesso tempo siamo i più grandi alleati degli Usa. In realtà, le nostre frontiere sono calde e il nostro esercito non le controlla tutte. Al Nord vigono le leggi tribali: questo significa che in alcune zone del Pakistan ci sono stati liberi come San Marino in Italia. Nel Nord del paese il problema non sono i talebani, ma è il “talibanismo”, che è abbastanza radicato(1). Voglio ricordare che noi siamo musulmani, ma non siamo arabi e non parliamo arabo; noi preghiamo in arabo come lingua sacra, senza capire il suo significato. L’islam è la nostra religione, ma la nostra cultura è del subcontinente indiano. I fondamentalisti cercano di arabizzare la nostra cultura, ma non riusciranno mai».

D’accordo, ma i talebani sono pashtun e non arabi…
«È vero che i taliban sono pashtun, ma il modello che propongono è il modello delle società arabe. Per esempio, la sharia, la sunnah. Nel subcontinente abbiamo un islam indiano: il matrimonio, la morte, il modo di pensare, i vestiti, la credenza nelle tombe dei santi popolari che portano alla rincarnazione, tutte queste sono abitudini indiane. Il problema è che la nostra società di oggi è diventata talmente insicura di sé che alcuni pensano e vedono nell’islam fondamentalista una soluzione».

A parte il fondamentalismo, alcuni comportamenti del tuo paese certamente non favoriscono il dialogo. Ad esempio, le discriminazioni verso i non-musulmani.
«Il Pakistan nasce nel 1947. Subito dopo si sviluppa il fenomeno della discriminazione linguistica contro i bengalesi. Così, nel 1971, il Pakistan dell’Est (oggi Bangladesh) si stacca dal Pakistan dell’Ovest. Poi , per più di 40 anni, i generali dell’esercito comandano il paese, schiacciando ogni speranza di democrazia.
Ma il vero dittatore è stato il  generale Zia Ul- Haq, avendo alimentato le discriminazioni razziali, etniche e religiose. Sono sue le leggi contro i non musulmani soprattutto contro i Qadiani(2). Il fondamentalismo statale ha eliminato tutto il lavoro interculturale fatto nei secoli precedenti. Oggi in Pakistan la guerra tra sciiti e sunniti è spaventosa. Anche i cristiani hanno sofferto molto a causa della legge sulla blasfemia(3), fatta sempre dal generale Zia Ul- Haq. Quando un paese sceglie di essere monoculturale significa che ha scelto il suicidio».

In Occidente è quasi un’equazione matematica: islamici=terroristi. Ad intervalli regolari, si dice che Osama Bin Laden, Ayaman al-Zawahiri e il Mullah Omar vivano tranquillamente in Pakistan. Che ne pensi?
«In tutti i paesi islamici negli anni ‘60 e ‘70 era fallito il progetto della identità nazionale, perché – dopo il colonialismo – questa ricetta era superficiale: i popoli di questi paesi non avevano mai praticato il nazionalismo. Al contrario, l’identità religiosa per loro era molto più facile e vicina. Purtroppo, dopo la crescita dell’identità religiosa, è subentrato anche il fondamentalismo politico per dare una risposta ai nostri dittatori di stile occidentale e corrotti fino al collo. Chiaro che, dove cresce il fondamentalismo, si sviluppa anche il  terrorismo».

Ejaz, il Pakistan ha gravi problemi di sottosviluppo, eppure è una potenza nucleare…
«Si chiama “bomba dei poveri”. Una buona parte del budget nazionale va speso per sostenere l’esercito più forte nel mondo islamico, ma allo stesso tempo un popolo di 180 milioni di persone soffre di povertà, malattie e carestia. Questa bomba serve per rispondere al nemico India, ma l’India cresce economicamente, mentre il Pakistan è sempre più povero e pericoloso per il mondo».
Toiamo all’Italia. Secondo te, è possibile una convivenza civile e rispettosa tra pakistani ed italiani?
«Ci sono tanti pregiudizi da combattere. Pakistan e Italia sono due paesi che possono costruire ponti di amicizia per salvare i milioni di poveri in Pakistan. Noi 100 mila pakistani stiamo lavorando in Italia come braccia per sollevare la economia di questo nostro secondo paese. Non ci sono ponti culturali tra due paesi. Dobbiamo e possiamo costruire la amicizia mettendo da parte i nostri stereotipi, preconcetti e egocentrismi».

Tu hai sposato un’italiana. Ci puoi raccontare qualcosa?
«Mia moglie e io siamo persone appartenenti a due culture diverse. A casa nostra, la Bibbia e il Corano stanno nello stesso scaffale della libreria. Abbiamo due figli di 9 e 5 anni. Valentina è stata 9 volte in Pakistan e io rispetto molto la famiglia e la cultura di mia moglie. Siamo insieme da 20 anni. Problemi ce ne sono, ma quelli quotidiani. I nostri figli hanno nomi italiani e cognomi pakistani. Sono bambini di due culture».
Paolo Moiola

1 – Sui talebani si legga: Jonathan Steele, La terra dei taliban, Internazionale n. 865, 24 settembre 2010. Inoltre, secondo il New York Times del 19 ottobre 2010, si stanno svolgendo trattative di alto livello tra governo afghano, Nato e talebani per arrivare ad un accordo di pace nel paese.
2 – Corrente dell’islam, condannata come eretica e costituzionalmente non-musulmana (1973), poi perseguitata sotto i governi del generale Zia.
3 – Introdotta nel 1986, commina la morte a coloro che sono accusati di offesa al profeta Maometto. Nel 1998, il vescovo cattolico John Joseph si uccise per contestare la norma.


Paolo Moiola




La missionaria non va in pensione …

A conclusione del centenario delle Missionarie della Consolata

Nata nel 1920, missionaria da 70 anni, suor Corona Nicolussi, da Besenello sulla sponda destra dell’Adige a pochi chilometri da Trento, infermiera e ostetrica, è in Kenya dal 1954, salvo 11 anni in Etiopia. Ha avviato ospedali, fatto nascere bambini, aiutato le donne e combattuto, sempre, contro la miseria materiale e spirituale.

Era l’aprile del 1989 quando ci incontrammo in Kenya, esattamente nella missione di Maralal, dove ero appena stato destinato. Suor Corona era la suora incaricata del dispensario. Non la ricordavo, ma lei mi riconobbe subito visto che aveva curato le mie influenze e altri piccoli acciacchi studenteschi durante i primi anni settanta quando studiavo teologia a Torino. Aveva già i suoi begli anni, essendo nata nel 1920, ma là, nella terra dei Samburu, marciava dritta come un fuso, instancabile e zelante, dedita ai malati a tutte le ore, con quel suo piglio risoluto che sapeva frasi ubbidire, sul terreno della salute, anche dai missionari maschi, spesso riottosi quando si trattava di farsi curare, come se la malattia fosse una debolezza da nascondere.
Tra l’agosto 1990 e giugno 1991 ebbe molto lavoro extra. Per i Samburu era il tempo delle grandi circoncisioni con il passaggio di gruppi di età: il gruppo dei Lkiroro (circoncisi nel 1976) era sostituito dai nuovi guerrieri Lmeoli. Migliaia di giovani furono circoncisi nel distretto, centinaia e centinaia anche nella missione di Maralal. La suora, con il personale del dispensario, fu presente al maggior numero possibile di cerimonie di iniziazione per cercare di contenere gli eventuali danni fatti dai circoncisori, e soprattutto impedire lo spandersi dell’Aids. Una mattina di giugno del 1991 la portai in una grande lorora (villaggio della circoncisione) a dieci km da Maralal, dove oltre 120 giovani dovevano essere circoncisi, senza contare le ragazze/sorelle. Avevamo in macchina diversi litri di disinfettante puro, antidolorifici, antibiotici, emostatici, garze e tutto quello che era necessario al caso. Sr. Corona seguì personalmente l’operazione su oltre sessanta giovani, avendo cura di disinfettare il coltello del circoncisore prima e dopo, assicurandosi che tutto fosse fatto correttamente mentre io facevo luce con una grossa pila. Si cominciò alle prime luce dell’alba ed erano già oltre le 8,30 quando finimmo di controllare tutti i giovani, alcuni ancora giovanissimi di circa dieci anni. Stavamo sorbendo il tè e gustando un meritato riposo presso la capanna di una cristiana, quando all’improvviso un grido: «Sista (kiswahili da sister, sorella-suora-infermiera) corri, c’è un giovane che perde sangue, un altro è là, anche qui, vieni anche da noi…». Borsa del pronto soccorso alla mano lei, bidoncino del disinfettante io, per un bel po’ trotterellammo su è giù per il vasto campo a rattoppare i casi più disperati, salvo dovee poi portare alcuni all’ospedale perché l’emorragia non si poteva fermare.
Anni dopo, incontrando alcuni di quei giovani, ringraziavano ancora ricordando che se non fosse stato per la suora e la missione probabilmente sarebbero morti dissanguati!

Ma chi è suor Corona?
Da birichina a suora
Ricordando la sua gioventù sr. Corona non riesce ancora oggi a capacitarsi di come sia potuta diventare una missionaria. Carattere impetuoso e vivace, amante dello sport e della buona compagnia, non particolarmente devota, la giovane Corona non aveva niente che potesse far supporre una inclinazione alla vita religiosa, visto che non aveva certo il «collo storto» popolarmente associato con la vita da suora. Ma la lettura di una rivista missionaria che una paesana aveva portato di ritorno da Torino doveva cominciare a seminare dei dubbi nella sua sicurezza. «Ero una birichina – mi ha raccontato durante una lunga chiacchierata in quel di Gitoro, nel Meru, dove oggi fa la «pensionata» -, ma le storie di quelle suore in Etiopia che avevano sofferto tanto durante la guerra, mi erano rimaste dentro. Cominciai a pensare che forse anch’io sarei potuta essere una missionaria. Lo dissi in giro, chiedendo pareri. Nessuno ci credeva e si prendevano gioco di me. Andai allora a piedi al santuario della Madonna di Pinè (poco più di 20 km dal mio paese), e là mi decisi. Era il 1937. Nel 1938 feci la vestizione come suora della Consolata e nel 1940 emisi i primi voti religiosi».

Destinazione Kenya
Diventata infermiera professionale e ostetrica, andò in Inghilterra per avere i titoli necessari ad essere la caposala di un ospedale keniano. Da là nel 1954 fu mandata nel Meru, all’ospedale di Nkubu che, appena aperto, non era ancora riconosciuto dal governo. La struttura di base c’era: pronto soccorso, reparto uomini, reparto donne, mateità, isolamento, sala operatoria illuminata da una lampada a pressione che perdeva petrolio, farmacia e cucina. C’erano due suore, suor Silveria e suor Gesualda, sovraccariche di lavoro, anche perché dovevano provvedere le medicine ai dispensari di tutta la diocesi di Meru. Mancavano però le latrine, che pure erano state costruite ben distanti dall’ospedale, ma erano state demolite dalla gente che le riteneva disdicevoli. Proprio quello delle latrine fu il primo problema che sr. Corona ebbe da affrontare con gli ispettori del governo coloniale inglese che volevano vederle a tutti i costi prima di dare l’approvazione definitiva all’ospedale. Ci volle del bello e del buono per convincerli a posticipare l’ispezione. Quando tornarono una decina di giorni più tardi, trovarono una batteria dei bei cessi nuovi fiammanti (che nessuno usava). La sista rimase quattro anni a Nkubu da dove curò anche l’inizio dell’ospedale di Chuka con la sua nuova mateità.
In realtà in quei tempi ben poche donne andavano a partorire all’ospedale. Nel Meru era ancora fatto tutto in casa. Ma quanta sofferenza per le donne! Sr. Corona narra con vivezza una delle sue prime esperienze. «Era già sera, avevo fatto il mio giro di controllo nell’ospedale e tutto andava bene. All’improvviso mi chiamano, non dall’ospedale, ma da fuori perché c’è una donna che è grave. Seguo rapida il messaggero; arrivo ad una capanna attorniata da un sacco di gente; entro, vedo una giovane donna legata al palo centrale della capanna in preda a dolori atroci, sta per partorire, ma il bimbo è rovesciato e non può nascere. Brusca, ordino di portarla all’ospedale; le donne di casa resistono, la nonna soprattutto, ma poi la paura prevale. Portano la giovane in mateità, riesco così a far girare il bambino che nasce bene. Piccolo e madre sono salvi».

La sofferenza delle donne
Quell’esperienza le aprì gli occhi sulla sofferenza delle donne, vittime delle tradizioni e dell’ignoranza e spesso maltrattate soprattutto se sterili o se partorivano solo figlie. Era sempre colpa della donna. Neanche le infermiere credevano che il sesso del bambino fosse determinato dal seme dell’uomo e che l’uomo potesse essere sterile al pari di una donna. Di fronte a tutta questa sofferenza, la sista inventò un approccio tutto personale. Qualsiasi fosse la ragione per cui una donna veniva all’ospedale, lei faceva sempre un esame completo, la curava e poi le dava le raccomandazioni necessarie per condurre bene a termine la gravidanza. Stupite che la suora conoscesse la loro condizione, le donne cominciarono pian piano ad aver fiducia e così si recavano all’ospedale a partorire. Quando poi la gente si rese conto che all’ospedale i malati guarivano, anche i bambini portati in condizioni estreme dopo essere stati trattati inutilmente dai guaritori tradizionali, cominciarono a lasciare sul prato dell’ospedale i bambini moribondi per cui avevano perso ogni speranza e che, secondo le loro tradizioni, avrebbero dovuto essere abbandonati alle iene nella foresta. Le suore li raccoglievano e, curati bene, guarivano. La gente pensava che risorgessero dalla morte.
La morte era un’altra causa di tanta sofferenza, non solo per la perdita della persona cara, ma anche per tutti i tabù ad essa legati. Toccare un morto era impensabile. Chi per sbaglio lo faceva era escluso dalla comunità e dalla famiglia e doveva pagare multe e passare attraverso pesanti rituali di purificazione, particolarmente umilianti per le donne. Quante volte aveva dovuto lei stessa – per fortuna era giovane e forte allora – portare al cimitero il corpo di bambini o persone morte perché, a causa del terrore per il tabù, il massimo che poteva chiedere al personale dell’ospedale era scavare la fossa!

Dal Kenya all’Etiopia
Dopo Nkubu e Chuka, ormai ben stabiliti, nel 1963 fu mandata ad avviare il Nazareth Hospital, a due passi da Nairobi. L’ospedale era ancora in costruzione, così cominciò nella casa del colono inglese da cui le suore della Consolata avevano acquistato la terra (era l’anno dell’indipendenza, e gli inglesi vendevano volentieri). Lasciato il Nazareth nelle mani di sr. Prisca Gobbo, nel 1970 dovette ricominciare di nuovo. Ad Ishiara, nell’Embu, i sacerdoti fidei donum di Venezia avevano costruito un nuovo ospedale, ma le suore che dovevano venire a gestirlo non erano arrivate. Allora le superiore pensarono ancora a sr. Corona. Mentre era ad Ishiara a ricominciare ancora una volta, missionari e missionarie della Consolata erano riusciti ad ottenere il permesso di rientrare in Etiopia, da dove erano stati cacciati insieme all’esercito italiano sconfitto. La suora trentina, ormai esperta, fu scelta per iniziare la nuova avventura. Ci volle tutto il suo coraggio, condito da tanta fede e un pizzico d’incoscienza, per accettare. La richiesta le era arrivata all’ora di pranzo per mezzo di una lettera portata a mano, e la superiora voleva una risposta immediata a mezzo delle stesse messaggere. «Mi sono ritirata un po’ e mi sono detta, “Signore, l’Etiopia è la terra del Fondatore e della Madonna. Ho visto tanti missionari che hanno veramente sofferto perché sono stati espulsi da là. Come faccio a rifiutare?”. Mi spaventava la lingua, ma come avevo imparato il kemeru, il kiswahili, un po’ di kikamba e persino un po’ di gucialati per capirmi con gli indiani che venivano all’ospedale, imparerò anche l’amarico. Povera me, non sapevo che era scritto in quella maniera».
In attesa del visto, sr. Corona passò un paio di anni a Torino, dove servì nell’infermeria di Casa Madre e del seminario teologico, allora ancora pieno di oltre sessanta chiassosi giovanotti, tra cui il sottoscritto. Il 22 agosto 1974 partì per Addis Abeba dove familiarizzò con l’amarico. l’11 settembre dello stesso anno ci fu il colpo di stato comunista contro l’imperatore Hailé Selassié e tanta gente fu uccisa. Rimase in Etiopia per 11 anni, prima nel Wollega e poi ad Asella. «Sono stati anni molto difficili. C’era sempre soldati in giro, tutto era nazionalizzato, nessuno era più padrone di niente, nessuno poteva andare in chiesa e la domenica gli uomini erano al lavoro comunitario e le donne dovevano far da mangiare per i militari. Era una vita molto dura, in mezzo a tanta povertà. In quelle condizioni mi sono ammalata, ero molto debole e stanca, in più ho avuto una reazione allergica ad una medicina. Sono dovuta tornare in Italia per farmi curare».
In mezzo ai clashes
Una volta rimessa in sesto, fu rispedita in Kenya. Per alcuni anni fu nel dispensario di Maralal (dove ci incontrammo), poi nel 1992 fu trasferita a Mombasa, zona di Likoni. E là, per due volte, si trovò con la missione invasa dalla gente a causa dei clashes (scontri tribali), la prima volta nel 1992, la seconda nel 1997. «La prima volta arrivarono 10.000 rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con sr. Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai p. Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Erano proprio tanti. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».
Finita l’emergenza a Mombasa, la sua superiora (allora era sr. Leonella, la suora che fu uccisa a Mogadiscio nel 2006), le chiese di andare con una suora comboniana a Maella. Maella era nella Rift Valley. Là c’erano stati violenti scontri tribali con molti morti e numerosi rifugiati interni, oltre mezzo milione secondo alcune stime. L’associazione delle suore del Kenya aveva preso a cuore la situazione, perché davvero la gente viveva nella miseria. Ma tutte le speranze svanirono prima di Natale 1997. Invece di una nuova distribuzione di terre, come era stato promesso, arrivò la polizia e caricò tutti su grossi camion disperdendoli qua e là nel paese. Fu un’operazione brutale. Anche il sacerdote che era là fu picchiato e buttato per terra. Era p. Kaiser (John Anthony, missionario americano dei Maryknoll), un uomo che amava la gente e la difendeva. Per questo fu ucciso alcuni anni dopo (il 24 agosto 2000).
Vita da pensionata speciale
Intanto anche per sr. Corona gli anni passavano. A ottant’anni la trovai a Gitoro, vicino alla città di Meru, dove le suore della Consolata hanno una casa per suore anziane ma ancora autosufficienti. Là queste pensionate speciali trovano il modo di non annoiarsi. Una visita le prigioni, un’altra lavora nel dispensario, una terza ha fondato una scuola per ragazzi di strada, una quarta visita gli ammalati a domicilio, una quinta si occupa di orfani e sr. Corona è diventata la paladina delle donne più povere e derelitte degli slums. Cominciò visitandole, creando rapporti di fiducia e amicizia. Nacque l’Irene Women Group (il gruppo delle donne della serva di Dio Irene Stefani). Insieme, con l’aiuto di benefattori, costruirono una scuoletta nello slum, 12 metri e mezzo per 6, dove 65 bambini stavano pigiati ma contenti. Poi emerse il problema delle vedove e delle donne abbandonate dai mariti, senza lavoro e mezzi di sussistenza, incapaci anche di pagare il misero affitto che gli strozzini, speculando sui poveri, caricavano per tuguri da 2 metri x 3. Nacque così il progetto del Consolata Village: dare a quelle donne una casetta con un pezzo di terra dove potessero vivere e lavorare, guadagnandosi il cibo quotidiano. Ne usufruiscono oggi circa 40 famiglie.
Sr Corona ha oggi 90 anni e continua ad uscire ogni giorno per andare a trovare le sue donne e insieme fare nuovi progetti, perché le case non bastano e ci vuole una scuola. «Chi te lo fa fare?», le ho chiesto. «Soltanto per amore di Quello che è lassù e per amore della gente. A volte viene da mollare, soprattutto quando ti imbatti in scansafatiche e lazzaroni. Ma poi vedi quelle donne che si danno da fare, che hanno voglia di uscire dalla miseria, allora si va avanti, si soffre con loro. Ci vuole tanto coraggio e tanta pazienza». «Progetti per il tuo futuro?» «Di andare incontro al Signore. Intanto vado avanti fin che posso ad aiutare la gente per amor di Dio. Poi se il Signore mi chiama, che sia in una capanna o in chiesa, lui è il padrone e io sono contenta che sia fatta la sua volontà. Sono felice di essere arrivata fino a questo punto. Sono nelle sue mani e quando mi chiama: eccomi!».

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Il crogiuolo delle religioni

Dove la religione è chiave per capire un paese

Con sei italiani dell’associazione Impegnarsi Serve in Corea per cercare di capire qualcosa di un paese che non è solo uno dei giganti economici del mondo o quello con il confine più militarizzato del mondo, ma anche quello in cui diverse religioni coesistono in armonia.

Siamo partiti con i vestiti leggeri per la Corea, dove ad agosto fa caldo. Eravamo in sei dell’associazione Impegnarsi serve, una onlus da tempo fiancheggiatrice dei Missionari della Consolata con cui ha fatto molti progetti. Alcuni di noi erano già stati in Kenya, Tanzania e Roraima (Brasile) per seguire i progetti che l’associazione aveva là iniziato. Ma perché andare in Corea? Già dallo scorso anno avevamo sentito il bisogno di aprire i nostri orizzonti sul dialogo interreligioso come dimensione nuova della missione senza fermarci solo ai problemi di sviluppo e promozione umana. Così, quest’anno 2010, il nostro gruppetto, tre uomini e tre donne, si è recato in Corea, mentre un altro nostro gruppo è andato in Costa d’Avorio con il medesimo obiettivo. L’approccio è stato di tipo esperienziale: attraverso i viaggi di conoscenza vogliamo promuovere qui in Italia una visione della solidarietà che non sia semplicemente l’aiuto portato a persone lontane in situazioni di bisogno, ma conoscenza e dialogo con culture e situazioni differenti che possono portare a un reciproco arricchimento. P. Giordano Rigamonti, l’anima della nostra associazione, ci aveva preparato con poche raccomandazioni: umiltà – grande, rispetto – molto, umanità – tanta, curiosità – discreta.
Corea, passando dalla porta del ju e del li
Dopo 24 ore di viaggio siamo sbarcati a Seoul e subito abbiamo assaggiato il caldo/umido della Corea che ci ha accompagnato per tutti e venti i giorni della nostra permanenza. Non conoscevamo l’Asia e il primo impatto con una cultura e un popolo così diversi non è stato semplice. Abbiamo viaggiato tanto, ma mai ci era capitato di essere così smarriti di fronte a una lingua tanto diversa e quindi impossibile da decifrare per noi. Per nostra fortuna p. Diego Cazzolato, superiore dei missionari della Consolata in Corea, ci ha accompagnato sempre. La sua guida è stata preziosa non solo come indispensabile traduttore, ma soprattutto perché piano piano ci ha spiegato le radici storiche e culturali del popolo coreano e ci ha dato le chiavi di lettura che ci hanno permesso di avvicinarci ad un mondo così diverso.
Per capire veramente una cultura bisogna conoscee la religione. Forti di questa certezza, ci siamo messi di buona volontà ad approfondire e studiare, ma p. Diego ci ha subito spiegato che in Corea le religioni sono molte e quindi il problema diventa difficile. Non a caso i missionari della Consolata hanno scelto il dialogo interreligioso come una delle vie specifiche della loro presenza missionaria in quella nazione.
Ci siamo accostati per primo al Buddismo, la religione più diffusa oggi in Corea, abbiamo poi incontrato rappresentanti del Ch’on-do-kyo (la via del cielo, una religione nazionale e nazionalista coreana), del Buddismo Won, del Confucianesimo e per finire abbiamo conosciuto una sciamano. Così, quasi con un percorso a ritroso nel tempo dalla religione più recente a quella più antica, abbiamo tentato di conoscere le varie religioni e vedere come nel tempo si siano sovrapposte e siano diventate, in alcuni casi con evidenti fenomeni di sincretismo, il fondamento su cui è costruita l’identità della Corea di oggi.
Da subito ci siamo chiesti come sia possibile che tante religioni convivano in Corea senza scontrarsi. Speravamo di scoprie in fretta il segreto per portarlo da noi (Lombardia), dove la convivenza tra cristiani e musulmani sembra diventare ogni giorno più difficile. Così p. Diego ci ha spiegato che i coreani hanno un forte senso di appartenenza e che il fatto stesso di essere coreani supera qualsiasi altra differenza, anche religiosa. Probabilmente un così forte senso di appartenenza è frutto della loro storia. Il confuciano principio del ju, rispetto e reciprocità, e quello del li, lealtà, permeano ancora oggi le relazioni nella società coreana, mentre un forte nazionalismo è la conseguenza della ribellione al colonialismo giapponese fortemente appoggiata dal Ch’on-do-kyo. La cosa certa è che tutto questo non è trasportabile qui da noi.
Superata la prima delusione di non trovare una risposta facile, non ci è rimasto che continuare il nostro viaggio di conoscenza nella speranza di trovare altre strade. Subito abbiamo capito che il percorso non era facile. Con la sua umanità p. Diego ci ha guidato, spiegandoci innanzi tutto che cosa non è il dialogo interreligioso per portarci poi a comprenderne il vero significato.
Dialogo interreligioso
Dialogo interreligioso non è studio delle altre religioni, non è ecumenismo, non è il tentativo di raggiungere l’unità tra le varie religioni, non è uno sforzo per convertire gli altri.
Ma allora cosa è?
C’è stata una discussione tra di noi. Il punto in questione era il come porci nell’incontro con persone di una religione diversa: è giusto dichiarare da subito la propria religione o è una forma di rispetto e di vera volontà di dialogo il non dichiarare da subito la propria appartenenza?
P. Diego ci ha suggerito di iniziare ogni mattina con la preghiera e la messa. Dopo un po’ abbiamo capito che un dialogo interreligioso deve necessariamente partire da una forte identità e da una grande conoscenza e consapevolezza della propria religione. è stato bello trovarsi giorno dopo giorno più uniti intorno al caratteristico altare basso che si usa in Corea. Dopo la messa c’era tutto il tempo per le nostre esplorazioni.
Fatto un giro nella città di Seoul, abbiamo visitato per primo il centro del dialogo interreligioso di Okkil inaugurato dai missionari nel 1999. Subito siamo stati colpiti dalla mancanza di simboli della nostra religione, solo una Madonna in granito immersa nella quiete del giardino circostante che, ci hanno spiegato, vuole rappresentare la madre che accoglie tutti. Spesso i simboli laici o religiosi di appartenenze rischiano di costituire un ostacolo e anche un motivo di offesa reciproca. Per questo è importante trovarsi in uno spazio aperto favorevole all’incontro, al confronto, al dialogo nel rispetto dell’altro.
Il dialogo interreligioso è un cammino tutt’altro che semplice. «Il dialogo interreligioso è l’incontro di persone appartenenti a diverse religioni, che avviene in un’atmosfera di libertà e di apertura, con il fine di ascoltare l’altro, cercando di capire la sua religione, nella speranza di trovare possibilità di collaborazione» (card. Arinze).
In virtù delle relazioni che da anni tiene con le varie religioni, partecipando anche a incontri ufficiali, p. Diego ci ha fatto incontrare alcune persone appartenenti alle 5 religioni più importanti nel paese e ci ha anche guidato a conoscere la storia della Chiesa Cattolica sudcoreana con i suoi tanti martiri. La storia del cattolicesimo in Corea è relativamente recente (fine del XVIII secolo) ed è segnata da due grandi persecuzioni: 1866 e 1901 (vedi box pag. 56). I protestanti, oggi la maggioranza dei cristiani coreani, ebbero via libera nel 1882 grazie ad un trattato con gli Stati Uniti.
Incontri
Alcuni incontri sono stati più formali, altri ci hanno toccato di più. Due sono state le esperienze che più ci hanno aiutato a capire: il soggiorno (chiamato temple stay) nel tempio Hwa-gye-sa del buddismo zen e l’incontro con la mudang Choung-Sun-Deo, una sciamano (vedi box a destra).
Non è stato facile alzarsi alle 3 del mattino e pregare per 7 ore in posizione zen, ma provare a condividere il serio impegno religioso e le belle forme di spiritualità dei monaci buddisti ci ha affascinato e fatto riscoprire la bellezza e la serenità della preghiera. Canti, preghiere e suoni lenti e ritmati aiutano a entrare in relazione con il divino; riscoprire alcuni di questi metodi può essere importante per tutti.
L’ultimo incontro, quello con la sciamano è stato senza dubbio il più sfidante. Parlare con lei, scoprire la storia della sua chiamata e conoscere l’impegno con cui porta avanti la sua missione è stata per noi una vera sorpresa. Il nostro naturale scetticismo nei confronti di ogni forma di religiosità diversa, ha dovuto cedere alla precisa sensazione che qualcosa di soprannaturale fa parte dell’esperienza di Choung-Sun-Deo. Sicuramente è la sua personale consapevolezza di essere in contatto con gli spiriti che la spinge a farsi carico di coloro che soffrono e le chiedono aiuto.
Le sciamano donne sono considerate quasi come le nostre streghe di un tempo, emarginate dalla società, ma cercate poi di nascosto quando c’è la necessità di risolvere qualche problema. Abbiamo avuto la possibilità di assistere a un kud, il rito in cui la sciamano entra in contatto con lo spirito di un morto, nel nostro caso con quello del marito di una signora che aveva chiesto di essere aiutata a rappacificarlo perché suicida. È stata un’esperienza forte che ha suscitato molti interrogativi.
INTERROGATIVI E SPERANZE
Abbiamo avuto solo un piccolo assaggio delle varie religioni, ma nell’esperienza al tempio, così come durante la preghiera con i monaci e le monache del Buddismo Won, abbiamo sentito che qualcosa di misterioso e spirituale stava accadendo.
Questo comune sentire tra noi  partecipanti al viaggio ci ha fatto riflettere molto. Se è vero che anche queste sono religioni e come tali sono alla ricerca di Dio o comunque dell’assoluto, come dobbiamo porci noi nei loro confronti? P. Diego ci ha rassicurato: «Che lo Spirito di Dio è presente anche in esse; che contengono i Semi della Parola; che c’è in esse molto di buono e santo che merita il rispetto e l’attenzione della Chiesa; che è possibile un dialogo vero, fatto anche di scambio di esperienze spirituali, con le persone di altre religioni; che possiamo aiutarci a vicenda nel cammino verso Dio; che possiamo lavorare insieme per il bene dell’umanità e per la costruzione del Regno».
Sicuramente questa nostra breve esperienza ha di molto aumentato il nostro rispetto verso le altre religioni. Ma la domanda «perché esistono tante religioni (se una sola è vera)?» si è insinuata dentro di noi. Questa è la sintesi di p. Diego. «Certamente Dio ha i suoi cammini, molte volte sconosciuti a noi, per farsi presente a tutti gli uomini, e per parlare al loro cuore. Le stesse religioni non cristiane credo che costituiscano alcuni di questi cammini. Mi sembra di poter affermare che il Signore Risorto attira a Sé le altre religioni, in una maniera misteriosa che io non conosco e che i teologi si affannano di chiarire e capire, e ciò le rende, per i loro fedeli, un mezzo concreto per fornire qualche risposta ai quesiti fondamentali dell’essere umano, e per offrire un cammino concreto di ricerca e comunione con il Mistero di Dio».

Laura Poretti

Laura Poretti




Neghelli parla romagnolo

Gambo: l’opera di padre Tarcisio Rossi continuata da un compaesano

Il sogno di p. Tarcisio Rossi (+ 2005), stroncato dalla morte, è continuato e portato a termine da un compaesano: ecco la storia di un silenzioso volontario di Cesena, Bruno Fusconi, che da oltre 20 anni coinvolge amici e benefattori romagnoli nella missione di Gambo, in Etiopia.

È la 19° volta che il signor Bruno Fusconi torna a Gambo. Da quando ha stretto una solida amicizia con il compaesano di Cesena, padre Tarcisio Rossi, ogni anno ha speso 3-4 mesi in Etiopia, prima per aiutare il suo concittadino, poi per continuae l’opera.
Nel 2004, padre Tarcisio progettò la costruzione di un nuovo centro missionario a Neghelli, a 40 km da Gambo, ma non ne vide  che gli inizi, essendo deceduto all’inizio di settembre del 2005. Il signor Bruno, come promesso all’amicoe conterraneo, continuò quel progetto, che si può considerare ormai realizzato con l’inaugurazione della chiesa, avvenuta l’estate scorsa.
Ma l’opera principale è stato l’asilo, aperto nel 2008 con una sessantina di alunni; oggi sono 130 e c’è posto per altri 70. «Gli scolaretti di 4 e 5 anni – racconta Bruno – sono seguiti da personale qualificato; vestono una divisa azzurra con camicia rosa: per molti di essi sono i primi indumenti di qualità ed è la prima volta che possono giocare in un luogo sicuro e pulito. Tra insegnanti, assistenti e personale vario, l’asilo dà lavoro a 13 persone, il che significa sostegno per 13 famiglie: è stato adottato per intero dalla ditta Origel di Cesena, che si è impegnata a sostenee le spese».
È infatti bussando alla porta di ditte, banche, club, associazioni e amici cesenati e romagnoli che il signor Fusconi è riuscito a costruire le varie strutture di Neghelli: case per le suore, abitazioni per i missionari e personale di servizio, salone polivalente e la chiesa. Ma sono molte le opere di utilità pubblica che portano la sua firma in questi 20 anni di volontariato nella missione di Gambo: linee elettriche, pozzi per l’acqua, strade, scuole elementari e medie, cappelle e sostegno a varie iniziative dei missionari e missionarie della Consolata, come borse di studio, corsi di formazione per la promozione della donna, progetti di microcredito.

«Dopo due ore e mezza di cammino su una pista fangosa, suor Eudoxia e io siamo saliti fino a 2.600 metri di altitudine, per raggiungere la frazione di Alamgana, dove i cattolici costituiscono il 90 per cento della popolazione. Essi ci attendevano nel salone parrocchiale per la chiusura dell’anno di formazione di un gruppo di donne, pronte per avviare attività di microcredito», racconta Bruno. Le iniziative di emancipazione femminile sono portate avanti con successo dalle suore e il signor Fusconi dà il suo valido supporto, con  l’aiuto dei benefattori.
«Abbiamo consegnato a una trentina di donne un prestito in denaro con cui iniziare un’attività in proprio – continua -. Più che un esercizio di microcredito, mi sembrava di partecipare alla creazione di una vera e propria Cassa Rurale, con documenti da compilare, firme del beneficiario e controfirma del rispettivo marito o da un conoscente».
Tale procedura rafforza l’importanza dell’atto sottoscritto. Prima di ricevere il prestito la donna deve frequentare i corsi di formazione in cui impara a leggere e scrivere e riceve istruzioni su come gestire la propria attività. Inoltre, porre la firma in un documento conferisce alle donne il senso di autostima, d’importanza e di autorità in seno alla propria famiglia.
Le attività intraprese da queste donne sono varie: acquisto di una mucca da latte, una pecora già gravida (per avere subito agnellino e latte), galline per la produzione di uova, sementi varie per le coltivazioni, esercizio di piccoli commerci… tutto per rispondere almeno in parte alle necessità della famiglia.
Attualmente i corsi di formazione sono stati organizzati in sette comunità della missione, con la partecipazione di 560 donne, delle quali 218 hanno avuto accesso al microcredito. Molte di esse hanno già restituito il prestito.
Mentre aumentano i partecipanti ai gruppi già costituiti, altre comunità chiedono di poter godere di tale iniziativa: le donne hanno capito che l’alfabetizzazione e l’esercizio di una microattività è l’unica strada per uscire dall’emarginazione, diventare protagoniste della gestione familiare e reclamare la parità con gli uomini in seno alla famiglia e alla società.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Regala la vita

La salute matea e infantile, chiave di volta degli obiettivi del  millennio

La salute matea e infantile, quinto Obiettivo del Millennio, è di importanza cruciale per raggiungere anche gli altri obiettivi in ambito sanitario e socio – economico. Ma i risultati ottenuti finora sono ancora lontani dall’essere soddisfacenti.
Lo stato dell’arte della salute matea
«Fra gli obiettivi del Millennio, la salute matea è quello più lontano dall’essere raggiunto. Eppure, questo obiettivo è fondamentale per raggiungere tutti gli altri». Con queste parole il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha aperto la conferenza durante la quale è stata lanciata, lo scorso 22 settembre, la nuova Strategia globale per la salute matea e infantile dell’ONU. «Se in alcuni Paesi ci sono stati segni di miglioramento», ha proseguito il Segretario Generale, «le donne che muoiono per malattie legate alla gravidanza e al parto sono ancora centinaia di migliaia. Una disgrazia che non possiamo più tollerare», ha concluso Ban Ki Moon. Per questo, con la nuova strategia saranno stanziati quaranta miliardi di dollari per salvare la vita di sedici milioni di donne e bambini.
Secondo i dati ONU, delle oltre 350 mila donne che muoiono annualmente durante la gravidanza o il parto, il 99% vive nei Paesi in via di sviluppo. In Africa sub-sahariana una donna incinta su trenta perde la vita, a fronte di un rischio pari a uno su 5.600 nei Paesi sviluppati. Ogni anno, un milione di bambini resta senza madre; la loro probabilità di morire prematuramente è dieci volte più alta rispetto agli altri bambini. I dati sono indubbiamente allarmanti e lo diventano ancora di più se si considera che l’80% dei decessi di donne incinte sono causati da emorragie, infezioni, travaglio complicato, interruzioni di gravidanza praticate con metodi non sicuri e malattie ipertensive. Si tratta, cioè, di patologie che potrebbero essere contenute semplicemente mettendo a disposizione delle madri e dei loro bambini dei servizi sanitari adeguati, gestiti da personale qualificato e in strutture dotate dell’attrezzatura necessaria per intervenire tempestivamente. Nel caso della trasmissione del virus HIV da madre a figlio, inoltre, un’assistenza sanitaria adeguata è fondamentale per ridurre il rischio di contagio, che aumenta durante il travaglio,  il parto e con l’allattamento al seno.
Gli interventi che, nel corso di questi anni di impegno per il raggiungimento degli obiettivi del millennio, hanno dimostrato maggior efficacia sono quelli che hanno saputo tenere in considerazione le specificità delle singole realtà alle quali si applicavano. Nel caso della salute matea e infantile, infatti, ad avere maggiore successo non sono stati progetti mastodontici che prevedevano grandi investimenti e trasferimenti di tecnologie, bensì iniziative più limitate che però valorizzavano le risorse locali e superavano difficoltà apparentemente non collegate all’ambito sanitario, come quelle relative ai trasporti. Ad esempio, nelle zone rurali e isolate si sono rivelati decisivi la formazione di levatrici tradizionali, la creazione di comitati sanitari di villaggio a livello di comunità di base e la costruzione di reti di piccoli centri sanitari in grado di assistere le pazienti quando la situazione delle strade e delle vie di comunicazione rende difficoltosi gli spostamenti delle donne incinte all’ospedale di riferimento.

l’esempio di Neisu
«è proprio per innestare il servizio di salute matea nel contesto socio–culturale del Paese», conferma il personale dell’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, in Repubblica Democratica del Congo, «che abbiamo scelto di investire sulla formazione delle levatrici tradizionali, figure di importanza fondamentale in un contesto rurale isolato come quello di un villaggio della provincia prientale congolese».
La popolazione locale, infatti, si affida da tempo immemore ai servizi di queste donne quando si tratta di assistere una donna incinta nella gravidanza e nel parto. Le donne incinte e le loro famiglie ripongono completa fiducia nella figura della levatrice tradizionale, che conosce le tecniche, radicate nella cultura locale, per favorire il parto. Tuttavia, ci sono numerosi casi in cui l’assistenza delle levatrici, nonostante la loro competenza, non è sufficiente per evitare l’insorgere di complicazioni che possono mettere a rischio la vita di partorienti e neonati. Per questo, reclutare e formare queste donne perché possano arricchire le loro conoscenze tradizionali con nozioni tipiche della medicina modea ha significato dotarle, nel rispetto della cultura locale, degli strumenti necessari a riconoscere una situazione potenzialmente rischiosa e orientare in tempo le future mamme verso i servizi della rete sanitaria dell’ospedale di Neisu.
Questa rete, con il suo ospedale di riferimento e gli undici centri sanitari periferici, è in grado di fornire alle donne con gravidanze difficoltose l’assistenza e le terapie necessarie a limitare in modo decisivo i rischi di decesso della madre o del neonato.

Clinica di Modjo e
dispensario di Alendu
In occasione della campagna di Natale 2010 Regala la vita, Missioni Consolata Onlus ha deciso di concentrare i suoi sforzi su progetti che, come quelli finora coronati da successo, privilegiano strutture relativamente piccole e molto radicate nel tessuto socio-culturale locale. In particolare, quest’anno la campagna sarà incentrata sulla Catholic Clinic di Modjo, in Etiopia, e sul Saint Luke Dispensary di Alendu, in Kenya. Si tratta di due strutture sanitarie collocate in una posizione strategica che permette loro, nonostante le dimensioni limitate, di fare la differenza nelle zone di competenza poiché vanno a inserirsi in contesti nei quali i servizi sanitari di buona qualità sono praticamente assenti o non riescono a fare fronte a una richiesta di assistenza troppo elevata.
Modjo è una cittadina di circa quarantamila abitanti che si trova 75 chilometri a sud-est di Addis Abeba, la capitale etiope. È una realtà in rapida espansione poiché si trova al crocevia di diverse strade che collegano le regioni dell’Etiopia tra loro e con il Kenya. Questo rapido sviluppo comporta problemi di gestione tra i quali quello sanitario è uno dei principali: il passaggio di merci e persone, infatti, induce scompensi che creano, tra l’altro, malnutrizione, disoccupazione, carenza di abitazioni e di igiene, in un contesto dove le strutture sanitarie pubbliche sono per il momento inadeguate a far fronte alla richiesta di assistenza crescente legata all’espansione della città.
La Catholic Clinic, gestita dai missionari della Consolata in collaborazione con le Suore della Carità, cerca di raccogliere queste sfide in ambito sanitario e di rispondere alle esigenze della popolazione locale. Il progetto relativo alla salute matea, in particolare, mira a rendere pienamente operativa la mateità per permettere alle 1.300 donne che si rivolgono annualmente alla clinica di godere dell’assistenza sanitaria pre- e post-natale e ai neonati di ricevere fin da subito le cure necessarie per evitare malnutrizione e malattie che potrebbero pregiudicare seriamente la crescita dei bambini.
Alendu è un villaggio vicino a Kisumu, sulle rive del lago Vittoria. Nonostante le ingenti risorse ittiche del lago e la possibilità, almeno in alcune aree, di trovare terreno fertile, la zona di Kisumu non ha beneficiato finora di uno sviluppo sufficiente a migliorare significativamente la condizione dei suoi abitanti: mancano le infrastrutture, l’agricoltura è quasi solo di sussistenza, la carenza di acqua potabile e i regolari allagamenti durante le piogge favoriscono la diffusione di malattie conseguenti alla mancanza di strutture d’igiene adeguate (vedi MC gennaio 2010 pag. 55).
Il dispensario Saint Luke è stato aperto dai missionari della Consolata nel 2009 e sta ampliando le sue attività anche di conseguenza all’aumento delle richieste di assistenza ricevute dal vicino ospedale di Chiga, che ora fatica a soddisfare tutti i pazienti che si rivolgono annualmente alle sue strutture. In particolare, nell’ambito della salute matea, il dispensario di Saint Luke ha appena lanciato un progetto di assistenza alle madri affette da HIV e alle madri single, inserendole in un programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio. Alle donne coinvolte nel progetto verrà foita assistenza sanitaria, terapia anti-retrovirale ove necessario e formazione su come evitare il contagio.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti