Chiesa nel mondo

PAKISTAN
SHAHBAZ BHATTI MARTIRE
   
La Conferenza Episcopale del Pakistan, riunita in assemblea dal 20 al 25 marzo a Multan, ha deciso di inoltrare ufficialmente alla Santa Sede la richiesta di proclamare Shahbaz Bhatti, il ministro federale per le minoranze religiose ucciso il 2 marzo scorso all’età di 42 anni, “martire e patrono della libertà religiosa”. La richiesta è stata presentata in assemblea dal vescovo di Multan, mons. Andrew Francis, delegato per il Dialogo interreligioso, ed è stata approvata all’unanimità dai vescovi. Essi hanno reso un tributo a Bhatti, riconoscendo la sua opera in favore delle minoranze religiose e dei cristiani e ricordando la sua autentica testimonianza di fede giunta fino al sacrificio della vita. Nella seconda settimana di aprile, invece, i vescovi e i fedeli cattolici si sono riuniti a Islamabad per commemorare Bhatti, a 40 giorni dalla morte. Il Ministro pakistano, di fede cattolica, che si era battuto per la soppressione della legge sulla blasfemia, è stato assassinato nella capitale pakistana per mano di un gruppo di uomini armati, dal volto coperto.
(Zenit)

SVIZZERA
ACQUA E PACE
    
In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, celebratasi il 22 marzo, la Rete Ecumenica dell’Acqua ha lanciato la campagna “Acqua e Pace Giusta” nel corso della quale, per sette settimane, a partire da lunedì 7 marzo, si sono susseguite riflessioni quaresimali settimanali sulla connessione tra l’accesso all’acqua, i conflitti per questa grande risorsa e la costruzione di una pace giusta. Di settimana in settimana, nella pagina web sono state proposte riflessioni bibliche insieme ad altre iniziative individuali e di congregazioni religiose. La Rete Ecumenica dell’Acqua è una iniziativa di Chiese, organizzazioni e movimenti cristiani che promuovono l’acqua come diritto umano e lavorano a favore dell’accesso di tutti attraverso iniziative a base comunitaria realizzate in tutto il mondo.
(Fides)

ITALIA
IL CROCIFISSO     
NELLE SCUOLE
      
La sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo a favore dell’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane ha ricevuto il plauso della Santa Sede, per la quale si tratta di una decisione che “fa storia” nel riconoscimento della libertà religiosa. La Corte riconosce «ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale». Dal canto suo, il cardinale Péter Erdő, Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), ha espresso soddisfazione per la sentenza, definendola «un segno di buon senso, di saggezza e di libertà. Oggi è stata scritta una pagina di storia – ha dichiarato -. Si è aperta una speranza non solo per i cristiani, ma per tutti i cittadini europei, credenti e laici, che si erano sentiti profondamente lesi dalla sentenza precedente e sono preoccupati di fronte a procedimenti che tendono a sgretolare una grande cultura come quella cristiana e a minare in definitiva la propria identità. Considerare la presenza del crocifisso nello spazio pubblico come contraria ai diritti dell’uomo sarebbe stato negare l’idea stessa di Europa. Senza il crocifisso l’Europa che oggi conosciamo non esisterebbe. Per questo motivo la sentenza è prima di tutto una vittoria per l’Europa», ha concluso il cardinale.
(Zenit)

INDIA
CARITA’ E CONVERSIONI
   
Quando George Palliparampil, oggi vescovo di Miao, ha iniziato il suo ministero, nella parte nord-orientale dell’India, il suo lavoro missionario era illegale e ha dovuto subire interrogatori da parte della polizia. Nonostante i perduranti ostacoli, questo è il luogo in cui la Chiesa cattolica è cresciuta di più negli ultimi 30 anni, con più di 10.000 battesimi di adulti ogni anno, nonostante il divieto alle conversioni. Oggi, più del 40% dei circa 900 mila abitanti di Arunachal Pradesh è cattolico e il loro numero è in rapida crescita. Secondo mons. Palliparampil ciò che ha favorito la rapida diffusione della fede è stato il «convincimento della gente di poter trovare nella Chiesa qualcuno che cammini con loro. Non qualcuno che viene per imporre programmi o progetti, ma qualcuno che si è lasciato coinvolgere in ogni aspetto della loro vita e loro l’hanno accolto». Un agente di polizia ha confessato: «Non vi sono villaggi in cui questi missionari non siano andati. Hanno dormito nelle loro case tribali, mangiano con i tribali, i loro figli vanno nelle loro scuole in tutta l’India e curano i loro ammalati non per fini di conversione, ma perché queste persone guariscano, per fini puramente umanitari. Quando arrivano queste persone [i missionari cristiani], i tribali vogliono solo far parte del Cristianesimo». «E questo – conclude il vescovo – è ciò che sta avvenendo. Non è una sorta di conversione imposta come alcune persone hanno tentato di far passare. È pura accoglienza».
(Zenit)

KUWAIT
NOSTRA SIGNORA DI ARABIA
   
Il 16 gennaio 2011, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, ha proclamato, nella cattedrale del Kuwait, la Beata Vergine Maria Nostra Signora di Arabia, patrona di tutti i Paesi del Golfo, e cioè: Kuwait, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman. «Questo “nuovo” titolo della Madonna ha toccato il cuore della gente», dice mons. Camillo Ballin, vicario apostolico in Kuwait. Qui in Kuwait la Madonna non ha fatto apparizioni come a Lourdes, a Fatima e altrove, ma lei è sempre stata presente e qui è riuscita a portare Gesù prima ancora che vi arrivasse l’islam. Infatti, nell’isola di Failaka, appartenente al Kuwait, ci sono i resti di una chiesa, probabilmente nestoriana, del quinto secolo. Come pure altri importanti resti archeologici di chiese di quel tempo si trovano anche in altri Paesi del Golfo. A Lei abbiamo voluto dedicare tutto il Golfo perché preceda e accompagni il nostro ministero. Sono note le varie e complicate situazioni di questi Paesi, dove a volte si può godere di una limitata tolleranza della libertà di culto, ma a volte tale libertà non è assolutamente permessa. In questo intricato labirinto, dove in una sola chiesa dobbiamo celebrare in 5 riti e in 12 lingue, lei ci deve indicare il cammino perché la diversità non sia divisione ma unità».
(Camillo Ballin)

MALAYSIA
SOLO PER CRISTIANI
   
In seguito alla polemica legata all’uso della parola “Allah” per significare “Dio”, il governo aveva proibito l’uso del termine da parte dei cristiani. Essi, hanno fatto ricorso dimostrando che l’uso del termine “Allah” data ancora dal 1600 e la Corte suprema ha dato loro ragione. Ed ora 30 mila bibbie in lingua malay, ferme alla dogana, sono state sbloccate e possono essere distribuite con la sovrascritta: ‘Solo per cristiani’ al fine di evitare confusioni e conversioni.
(Asia news)

Sergio Frassetto




Porto Alegre dieci anni dopo

Dakar 2011: il Forum visto dai contadini

Da Porto Alegre a Dakar: il Forum sociale mondiale compie 10 anni. E lo fa in Africa.
I problemi organizzativi non mancano, ma partecipazione ed entusiasmo sono elevati. Importante la presenza dei movimenti contadini di tutto il mondo. Sono loro che producono il cibo per l’intero pianeta.

Dopo Bamako, Mali (2006) e Nairobi, Kenya (2007), si è svolto a Dakar, in Senegal, il terzo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra d’Africa.
La manifestazione è così giunta alla sua decima edizione ed ha ormai compiuto 10 anni. Nato nel 2001 a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, si è poi svolto nella stessa città nel 2002, 2003 e 2005. In Asia, a Mumbai è stata organizzata l’edizione del 2004, mentre nel 2006 i movimenti sociali hanno optato per un Forum detto «policentrico», ovvero due incontri che si sono svolti, a una settimana di distanza a Caracas e a Bamako appunto. Dall’anno successivo, il Forum è diventato biennale.
Quest’anno a Dakar, tra il 6 e l’11 febbraio la prestigiosa università Cheikh Anta Diop è stata invasa da 75 mila persone. Oltre il doppio di quelle previste dagli organizzatori. Hanno partecipato attivisti dei movimenti di 123 paesi, di cui ben 43 africani (quasi ogni stato del continente, visto che oggi sono 53). Presenti anche i rappresentanti dei popoli «senza stato» palestinese e kurdo.
«C’è stata una forte mobilitazione a tutti i livelli, il numero di partecipanti che aspettavamo è stato largamente superato, il bilancio è quindi molto positivo da questo punto di vista». Tira le prime conclusioni Samba Gueye, presidente del Cncr (Consiglio nazionale di concertazione dei rurali), la piattaforma nazionale che riunisce contadini, allevatori e pescatori di tutto il Senegal. È una delle grosse associazioni senegalesi attive nella preparazione del Forum. «È vero che dal punto di vista organizzativo ci sono stati dei problemi» ammette.
Il rettore dell’Università, di recente nomina, ha dichiarato, a lavori iniziati, di non essere al corrente del Forum. Così le lezioni e gli esami non sono stati sospesi e si è creata una competizione sulle aule. Più volte è successo che fosse in corso un seminario del Forum e arrivassero gli studenti senegalesi che dovevano sostenere un esame. Gli occupanti venivano così invitati ad andarsene. In tutta fretta gli organizzatori hanno dovuto allestire dei tendoni negli spazi vuoti del campus universitario, per ovviare al problema. Queste sovrapposizioni di spazi hanno fatto saltare completamente la programmazione ed è diventato difficile individuare ora e luogo degli incontri di interesse.

Soddisfazione senegalese
«È la prima volta che si tiene nel nostro paese un avvenimento di questo tipo e siamo stati tutti sorpresi dell’entusiasmo che ha suscitato» racconta il dottor Mamadou Cissé, rappresentante dell’Ong italiana Cisv in Senegal. «Avevamo molti dubbi sul fatto che le organizzazioni del Senegal sentissero loro il Forum, sulla percezione che la società civile mondiale sarebbe venuta da noi». «Nonostante le difficoltà di programmazione, ho sentito la presenza di una forte volontà di ritrovarsi a discutere sulle diverse tematiche» continua il dottor Cissé.
«Riconosco grande coraggio e perseveranza a tutte le organizzazioni della società civile, che malgrado i problemi organizzativi, sono riuscite a sedersi intorno a un tavolo, sotto delle tende, o semplicemente da qualche parte per mancanza di una sala. È stata importante la comunione tra i diversi attori che hanno partecipato e si sono confrontati».
Si dice che sia stato il Forum sociale peggio organizzato, ma è stato certo molto partecipato, soprattutto dagli africani. È riuscito a coinvolgere la popolazione senegalese, la sua società civile, cosa successa in tono minore ad esempio a Nairobi nel 2007.
Le donne, in particolare quelle africane, sono state protagoniste degli incontri e hanno fatto sentire la loro voce. Secondo alcuni questo è stato un elemento caratterizzante del Forum di Dakar.
«Anche a livello delle tematiche sviluppate c’è stata molta partecipazione: per noi è un obiettivo raggiunto» continua soddisfatto Samba Gueye.
Giustizia ecologica, crisi mondiale, migrazioni, sovranità alimentare, accesso all’acqua e all’igiene, leggi e buon governo, sprechi militari e altri sono i principali temi trattati in quasi 1.000 incontri dalle 1.205 organizzazioni iscritte al Forum di Dakar.  Per la prima volta, il Forum mondiale di Teologia e Liberazione si è svolto direttamente all’interno del Fsm, per dare la possibilità a tutti di parteciparvi. Circa 80 teologi, di differenti tradizioni e regioni del mondo, si sono incontrati su «Relazione tra spiritualità ed etica a partire dal dialogo tra tradizioni religiose e pratiche sociali». Tra i temi affrontati, quello del legame tra ricchezza, povertà ed ecologia, per una «Liberazione dal capitalismo come sistema di accumulo».
Fsm declinato al «rurale»
Tra i movimenti sociali in Africa, quelli più importanti sono i movimenti contadini. Forse perché la grande massa degli africani è impiegata in campagna e vive di agricoltura, allevamento, pesca. A Dakar ha partecipato la sempre presente rete mondiale Via Campesina, ma anche la piattaforma continentale africana e quella dell’Africa dell’Ovest, il Roppa (Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa dell’Ovest) di cui fa parte il Cncr.
Alcune questioni preoccupano i produttori agricoli africani, sfide fondamentali anche per i consumatori, come lo dimostrano le attuali rivolte del pane in Nord Africa.
Samba Gueye parla animatamente di un tema caldo, quello dell’«accaparramento della terra» da parte delle multinazionali (noto anche come land grabbing, vedi MC ottobre 2010, ndr).
«C’è stata convergenza e solidarietà tra tutti i contadini del mondo su alcuni temi. Ad esempio l’appropriazione delle terre. Stiamo mettendo in piedi dei meccanismi e continueremo a costruire alleanze per quanto concee il problema fondiario e l’accaparramento di questa risorsa. Abbiamo discusso molto e abbiamo preso delle misure per mobilitarci ancora di più verso i nostri governi e, allo stesso tempo, incontrare altri settori della società civile, per unire i nostri sforzi e agire insieme per fermare il fenomeno. Perché se non mettiamo un freno, avremo dei contadini senza terra oppure degli operai agricoli».
Ma oltre ai grandi leader contadini, all’incontro di Dakar erano presenti produttori di diversi paesi del continente. E non solo.
«Il Forum in sé non produce risultati concreti – dice Malick Sow -. Ci offre delle tribune, per poter discutere di tematiche che sono al centro delle preoccupazioni dei produttori: l’accaparramento delle terre, ad esempio, ci accomuna e ci spinge a fare delle alleanze con altri attori». Malick è un agricoltore della regione di Louga, nel Nord del Senegal. È anche il segretario generale della sua associazione la Federazione delle organizzazioni contadine di Louga. Pragmatico, meno diplomatico, va dritto al dunque: «Nella nostra regione esiste questo fenomeno. Abbiamo dei produttori che sono stati vittime dell’accaparramento. Li abbiamo portati al Forum e hanno dato una testimonianza molto forte sulla loro esperienza, spiegando qual è l’impatto sulla produzione e sulla vita quotidiana. In questo modo sono entrati in contatto con dei giuristi che hanno preso l’impegno di essere al loro fianco per cercare modi e possibilità di rientrare nella loro parcella di produzione. Questo è un risultato concreto». E continua: «Inoltre come associazione abbiamo preso contatto con un centro ricerche e stiamo cercando di mettere insieme produttori e consumatori su questa problematica. Perché se si priva della terra il produttore, questi troverà comunque il modo di nutrire la sua famiglia, mentre il consumatore corre più rischi di non riuscirvi. Tutti devono capire che è loro interesse che il produttore non sia privato della terra».

Ogm e microcredito
Malick snocciola diverse questioni importanti: «Un altro problema, quello delle sementi Ogm, ha avuto molto spazio nelle discussioni. Grazie agli incontri abbiamo potuto pensare a collaborazioni con altri settori che hanno i nostri stessi interessi e pensare ad azioni concrete per lottare contro l’introduzione di queste sementi in Senegal. Un’altra preoccupazione fondamentale è la questione del finanziamento rurale. Quali sono le possibilità per mettere in piedi un sistema di finanziamento dell’agricoltura adattato alle esigenze dei produttori? Abbiamo identificato una collaborazione con altri attori latino americani. E ancora, importante per noi è la questione della migrazione. Si è parlato di co-sviluppo (nome tecnico per indicare azioni di migranti in appoggio ai loro villaggi di origine, ndr). Noi siamo in zone ad alto potenziale di migrazione e dobbiamo riflettere sul modo in cui i migranti possano investire in azioni a carattere economico per migliorare la produzione agricola».
Malick vede come risultato concreto anche i contatti e il confronto con i movimenti di altri continenti: «Ci sono molte esperienze interessanti in alcuni paesi latinoamericani, come Brasile, Colombia, Venezuela. Esperienze diverse, ma noi stiamo cercando di capire come tradurle nella nostra realtà socio culturale. Ci sono contatti stabiliti grazie al Forum e vedremo come continuare questa collaborazione e questo scambio, e mettere in piedi azioni concrete».
Samba Gueye spiega il lavoro svolto sulle questioni più legate alle pressioni inteazionali:
«Abbiamo parlato di sicurezza e sovranità alimentare, perché i popoli devono continuare a sfamare la propria gente, rurale o urbana, con la produzione agricola, ma per questo ci vogliono delle politiche coerenti. Abbiamo anche denunciato gli Ape (Accordi di partenariato economico che l’Unione europea sta siglando con diversi paesi, ndr) e quelli dell’Omc (Organizzazione mondiale del commercio). Si è discusso molto dei biocarburanti, le colture che ci sono imposte e alle quali siamo contrari. Si è parlato della diffusione delle monocolture a scapito della produzione famigliare e di controllo dell’acqua, come risorsa di irrigazione. Per questo dobbiamo denunciare i paesi ricchi che vogliono prendere acqua e terre fertili e lasciarci quelle aride».

Il vento del Nord
Si respirava, nell’atmosfera del Forum, un’attenzione particolare alle lotte di liberazione nei paesi arabi e alla cacciata dei dittatori in Egitto e Tunisia. Due eventi che hanno visto la mobilitazione delle masse, della società civile e soprattutto dei giovani di questi paesi. A indicare che c’è una grande stanchezza verso i regimi autoritari.
Taoufik Ben Abdallah, figura storica del Fsm, membro dei consigli africano e internazionale e uno tra i principali organizzatori di Dakar, poco prima dell’inizio dei lavori aveva detto: «La situazione in Tunisia, Costa d’Avorio ed Egitto ha un’eco nel mondo per rivitalizzare situazioni comuni in tanti paesi. Vogliamo che il Fsm 2011 sia come un ricettacolo di energie e capacità dei popoli per migliorare la propria vita. Vogliamo un Forum per le alternative popolari e democratiche e per valori universali condivisi».

Marco Bello
Si ringraziano per la collaborazione Simone Pettoruso e Sara Fischetti da Dakar, e per le foto Mara Alberghetti.

DAKAR 2011: impressioni di un partecipante «speciale»

Uniti dalla stessa passione

Dalla manifestazione di apertura, ricca di colori e ritmi africani, all’invasione pacifica dell’università. Donne, uomini, giovani dei movimenti di mezzo mondo si sono ritrovati per una settimana di confronto. Il racconto di un volontario italiano che da anni vive in Senegal.

«L’Afrique organise, le Sénégal accueille» (l’Africa organizza, il Senegal accoglie): i manifesti lungo le caotiche strade di Dakar non lasciano dubbi, il decimo Forum Sociale Mondiale sarà un evento marcato da una forte impronta, quella del calore e dei ritmi senegalesi. O meglio, africani.
L’appuntamento con il Forum è per domenica 6 febbraio nella grande piazza davanti alla Rts, principale televisione nazionale. Alle 13, nonostante il caldo, la piazza è già un insieme colorato e rumoroso di delegazioni dei vari paesi, con minibus che contribuiscono con megafoni e musica, mentre gli immancabili djembé (tipico di tamburo, ndr) raccolgono i più coraggiosi per qualche passo di danza.
Appena arrivati ci mettiamo alla ricerca delle associazioni con le quali la Cisv lavora quotidianamente nel paese. I loro striscioni diventano immediatamente i nostri. I saluti, qualche scambio di attese sul Forum che sta per cominciare e subito siamo rapiti da un altro cartello, striscione o semplicemente dal piacere di vedere che la società civile senegalese con la quale condividiamo sforzi e speranze è presente in massa all’appuntamento. Poco dopo il lungo corteo inizia la sua marcia in direzione della Check Anta Diop, l’università di Dakar. Dai palazzi e dai marciapiedi i più applaudono, partecipando a rendere la manifestazione un evento indimenticabile, mix unico di colori e rivendicazioni pacifiche, ma determinate. Dai movimenti dell’America Latina per l’accesso alla terra dei popoli indigeni, ai comitati di sans papier delle banlieue parigine, fino alle donne della Casamance che chiedono la fine di una guerra che da 20 anni colpisce il Sud del Senegal, tutti sembrano legati da un filo comune e dalla stessa voglia di farsi sentire, ognuno con i propri slogan, canti e ritmi. I grandi viali di Dakar, irriconoscibili senza la confusione dei taxi e dei car rapide, ci accompagnano fino all’ingresso dell’università dove il corteo aspetta gli interventi del presidente Abdoulaye Wade, di Lula ed Evo Morales (presidente della Bolivia). L’accoglienza riservata a questi ultimi permette fin da subito di capire quali sono i punti di riferimento dei movimenti presenti a Dakar.
Il Forum è ufficialmente aperto e per noi, la «delegazione» Cisv, arriva il momento di rimboccarsi le maniche, entrare in contatto con il Comitato organizzativo e cominciare ad allestire il nostro stand. Avendo partecipato alle riunioni di preparazione del Forum sappiamo che non sarà facile muoverci all’interno di un’organizzazione degli spazi e degli eventi che si preannuncia tutt’altro che perfetta. E la nostra impressione trova conferma.
Le magliette gialle dei volontari incaricati di gestire l’evento vengono sommerse di partecipanti in cerca di informazioni, gli stand iniziano ad animarsi e lo spazio destinato alla Cisv prende forma grazie a una paziente ricerca di tavoli, sedie, tessuti e quanto sia necessario per renderlo un punto di incontro e scambio di esperienze. E così per tutta la durata del Forum l’équipe della Cisv ha «invaso» l’università, non solo con la presenza allo stand, ma anche con seminari organizzati direttamente o con la partecipazione agli atelier che ogni giorno riempiono il campus universitario. Più di cento seminari al giorno, oltre a proiezioni di film, spettacoli teatrali e musicali, il tutto secondo la logica dell’auto-organizzazione, che prevede improvvisazione, adattabilità e una buona dose di pazienza.

Sfogliando il lungo programma degli eventi si ha immediatamente la percezione dell’ampiezza e della varietà dei gruppi di partecipanti presenti a Dakar, con la possibilità di ascoltare esperienze e proposte, problemi e soluzioni, a volte mischiando lingue diverse o approfittando dei traduttori spontanei tra il pubblico. Capita quindi, che durante un seminario sulla microfinanza, si sieda accanto a noi Alex Zanotelli, o che sotto una tenda si possano vedere Naomi Klein e il presidente del Roppa (Rete di organizzazioni contadine dell’Africa dell’Ovest), Djibo Bagna, mentre discutono di accaparramento di terre, problemi globali e alternative locali. O ancora che politici europei si nascondano tra i partecipanti per sentire le ragioni della società civile. Ed è con questo spirito che durante i sei giorni del Forum le strade del campus universitario hanno visto una folla disordinata andare su e giù verso le facoltà di Lettere, Diritto e Scienze tecnologiche le quali hanno ospitato i partecipanti nelle aule o, più sovente, nelle tende all’esterno dei palazzi, in un incrocio decisamente atipico con gli studenti che si recavano alle lezioni abituali. Altra meta dei partecipanti è stata il villaggio che ospitava le attività sul tema della migrazione, di grande attualità nelle sue diverse sfaccettature, allestito presso il prestigioso Istituto Fondamentale d’Africa nera (Ifan). E nella zona di più recente costruzione dell’università, l’Ucad II, gli stand delle associazioni sono stati luoghi di conoscenza tra realtà diverse in cui i contatti si concretizzano e le idee si moltiplicano. Tra questi punti di incontro impossibile non includere anche lo stand della Cisv, in cui lo striscione, le foto appese e i molti volantini sul tavolo hanno attirato centinaia di persone, incuriosite dal nostro lavoro in Senegal e, più in generale, dalle iniziative che la «comunità per il mondo» realizza in Africa e America Latina.
Fino a venerdì 11 febbraio, giorno degli ultimi seminari, prima dei saluti e dell’augurio che il Forum possa continuare a crescere. Consapevoli che una parte di questo percorso, dal 2001 ad oggi, è passato da qui, dalla Check Anta Diop di Dakar e dai suoi viali stracolmi di colori e persone.
Noi, con la stanchezza e la soddisfazione di questi giorni, torniamo alle nostre attività, a Louga, Dahra, Ross Bethio, Sippo e agli altri angoli di Senegal, con in più l’impressione di far parte di un grande movimento eterogeneo ma unito dalla stessa passione per il futuro.

Simone Pettoruso, da Dakar

Marco Bello e Simone Pettoruso




Isole favolose delle spezie

Reportage dall’arcipelago delle Molucche

Conteso per secoli da portoghesi, spagnoli, inglesi e olandesi per
le sue spezie (una volta più preziose dell’oro), diventato suo malgrado parte dell’Indonesia, l’arcipelago delle Molucche ha visto la pacifica convivenza dei suoi abitanti turbata da scontri sanguinosi tra cristiani e musulmani. Toata la pace, sono tornati i turisti.

Ritoo alle origini
Il viaggio è molto lungo dall’Europa. L’ultimo dei 5 voli mi porta ad Ambon, dove sbarco insieme a un folto gruppo di famiglie miste di molucchesi che ritornano in patria con coniugi olandesi e figli. Wilma è una signora olandese che mi invita per Natale a casa sua, nell’isola di origine della famiglia del marito.
«Ritorniamo tutti gli anni a Saparua per le vacanze» mi spiega Theo, il marito dalla pelle scura, nato in Olanda in un ex campo di concentramento nazista, da genitori costretti a emigrare dall’arcipelago nel ‘51.
La testimonianza di Theo mi farà approfondire la storia recente delle Molucche, conosciute come isole delle spezie, da secoli percorse da commercianti e avventurieri cinesi, malesi, arabi ed europei.
Dopo la seconda guerra mondiale e dopo aver combattuto i giapponesi al fianco degli olandesi, migliaia di soldati di Ambon e delle Molucche del sud rimasero fedeli all’Olanda. Molti erano cristiani e, temendo di passare sotto il governo di Giava, proclamarono una repubblica indipendente, che ebbe vita breve.
Quando l’Olanda, su pressione americana, accettò l’indipendenza dell’Indonesia, si preoccupò di mettere in salvo coloro che erano stati fedeli all’esercito reale olandese e rischiavano di venire massacrati.  
I genitori di Theo erano tra i 12.500 che furono trasportati in Olanda. Avevano già un bimbo, altri 12 nacquero nel campo di concentramento. Privati di documenti e di nazionalità, non potevano ritornare in patria, rischiavano di venire uccisi per la loro fedeltà all’Olanda.
Le famiglie condivisero per 12 anni gli spazi angusti e angosciosi del campo di concentramento. Il loro sonno era tormentato da incubi; alcuni, la notte, credevano di sentire ancora i gemiti degli ebrei.
I bambini, numerosi, frequentavano le scuole e col tempo anche i loro genitori riuscirono a inserirsi e abitare case decorose. Anche in Olanda il dopoguerra fu segnato dalla voglia di riprendere vita e speranza.
Wilma ha 7 tra fratelli e sorelle e ha trovato la felicità accanto a Theo. Piccolo di statura, occhiali e sorriso bonario. Negli anni la coppia ha dovuto superare prove difficili, come la morte del secondogenito in un incidente. «Era il più bello dei tre» si confida Theo, quando mi complimento per la prestanza dei due ragazzi.
Poi Wilma mi indica una cicatrice, lasciata da un’operazione a cuore aperto che ha dovuto subire. «La vita in Olanda è molto ben organizzata per chi ha famiglia» mi conferma la cognata, che è arrivata col marito olandese e il figlio. «Qui in Indonesia non vi è alcuna forma di sicurezza sociale, una malattia grave ti porta alla tomba, ma per le vacanze è un luogo meraviglioso».

Itawaka, 20 dicembre 2010
Raggiungo Saparua sul motoscafo carico di merci e persone. Salgo su un ojeck, il taxi-moto che mi conduce alla fermata del bemo, il pulmino che attraversa l’isola e mi porta a Itawaka, il villaggio dei Papilaja.
Striscioni e bandiere bordano la strada; la gente è intenta a dipingere le facciate delle case e le recinzioni: mancano solo quattro giorni a Natale. I chiodi di garofano sono stesi ad asciugare sulle stuoie lungo le strade e le donne raccolgono le noci moscate in grandi ceste.
In chiesa si celebrano matrimoni, due o tre al giorno, seguiti da pranzi dove è costume mangiare carne di cane.
Arrivo a casa di Theo quando la famiglia è riunita in veranda, accanto alla tomba del nonno, mancato tre anni fa. «I bambini gli fanno compagnia» mi spiega Wilma. In cucina si sta preparando la papeda, una polentina che pare colla, da servire con sughi speziati, fatta con la farina di sago, una palma che cresce su queste isole. Estrarre la polpa bianca dal tronco è un lavoro complesso e faticoso, che ho visto fare lungo i fiumi, perché occorre acqua per lavare e tritare la dura massa del sago, palma che ha consentito la sopravvivenza durante guerre e carestie. 

AMBON
La strada che collega l’aeroporto ad Ambon si snoda lungo la baia, bordata da piante esotiche, giardini e casette curate, un vero paradiso tropicale. Fino a un anno fa erano ancora molti i segni lasciati dal conflitto che insanguinò queste isole tra il 1998 e il 2002. Chiedo ai miei nuovi amici il perché di quella strage e tutti sono concordi nel ritenere responsabile il governo di Jakarta, che, cogliendo l’occasione di un incidente tra le due comunità, inviò l’esercito a maggioranza islamica. Cristiani e musulmani avevano convissuto pacificamente per secoli nelle isole. Ma le aspirazioni all’indipendenza delle Molucche dovevano essere represse, fomentando divisioni, rancori e vendette, terribili nella tradizione delle isole. L’intervento portò distruzione e morte, gli incendi bruciarono case e chiese ad Ambon e rasero al suolo interi villaggi sulle isole.
L’Indonesia è sovente percorsa da moti di ribellione, isole come  Sumatra, Papua e Sulawesi, ricchissime di minerali, petrolio, gas, oro, uranio, vedono dirottare i proventi verso la capitale, mentre la popolazione soffre. Le ribellioni vengono sedate dall’esercito, che riceve lauti compensi direttamente dalle multinazionali e compagnie petrolifere (Exxon).
Oggi sento che si vuole dimenticare e si aspira a una vita migliore. Sono stati costruiti alberghi per ospitare i partecipanti alle manifestazioni inteazionali di vela, che coinvolgono anche la vicina Australia. Il mare e le barriere coralline delle isole sono splendidi, ma difficilmente raggiungibili. Il traffico è in aumento, con auto nuove. Molte le moto e i bejack, carretti spinti sulle biciclette, da uomini che si rompono le reni, come a Calcutta e in Bangladesh.

Cattedrale
Credo di capire il perché di tante chiese. Tutti hanno un figlio, un nipote, qualcuno che sta male. L’ospedale è nuovo, ma le cure sono da pagare; a chi non ha denaro non resta che pregare.
Ambon è punteggiata dai campanili delle chiese protestanti, numerose come le diverse denominazioni. Le belle chiese cattoliche costruite dai portoghesi nel 1500 furono rase al suolo dai calvinisti olandesi, quando presero possesso dell’arcipelago. Gli altri eleganti edifici coloniali furono bombardati dagli alleati, quando Ambon divenne il quartier generale giapponese dal 1942 al 1944.
Accanto alla cattedrale la biblioteca è curata dall’anziano vescovo olandese, che mi riceve tra gli scaffali colmi di libri, pubblicazioni e sculture in pietra e legno, provenienti da Papua e Tanimbar. «Mi chiamo Andre Sol e ho 95 anni» mi dice orgoglioso e sorridente il vescovo, oramai in pensione. Giunto nel 1946 nelle Molucche, conserva vivacità e spirito critico. «La comunità cinese di Ambon, molto abbiente, ha voluto finanziare la nostra nuova, splendida cattedrale. Troppo ricca. Gesù era povero; bastava fare una semplice tettornia con il clima caldo che abbiamo».
Andre mi consiglia di visitare le isole Kei, avamposto dei cattolici in un paese segnato dalla forte presenza di protestanti e islamici. Poi mi consegna un libro che mi aiuterà a capire meglio la gente di Molucca, scritto una trentina di anni fa da un’insegnante di inglese australiana: nei due anni vissuti lavorando presso l’università di Ambon, accumulò esperienze forti e profonde e seppe descrivere con arguzia e affetto gli aspetti più significativi della cultura nelle isole.

CERAM
Quello che ho visto durante le immersioni nel mare delle Molucche è meraviglioso. Ceram è l’isola madre, l’isola misteriosa, dove la resistenza al regime di Jakarta si è prolungata fino a metà degli anni ‘70. Foreste impenetrabili la proteggono; i fiumi che scendono dai monti si possono risalire, portandosi appresso le seghe per liberare il passaggio della barca dai rami. Il petrolio viene estratto anche qui,  ma in luoghi remoti, che non vedremo, perché l’isola è grande, lunga più di 300 km e le strade sono poche e impervie.
La giungla è abitata da un’etnia particolare, gli alifuru, che usano portare una bandana rossa e fino alla seconda guerra mondiale erano noti come cacciatori di teste.
Per raggiungere la costa nord e il villaggio su palafitte di Sawai, dobbiamo cercare posto sul veicolo 4×4 che lo collega al capoluogo Masohi, trasportando persone, cose e casse di pesci. Dobbiamo superare una serie di catene montuose, in 4 ore di curve e ripide salite. L’ultimo tratto di strada risulta essere una pista piena di buche e fango.
La notte si scatenano violenti temporali, ma il giorno può essere radioso, con passaggi di nubi che si arrossano al tramonto. La capanna di bambù in cui alloggiamo ha l’assito che di notte lascia filtrare la luce della luna, riflessa sull’acqua. L’umidità sale e la mattina ci troviamo con gli indumenti bagnati.
Tra le palafitte sotto casa veleggiano leggiadri pesci pipistrello; le strade del villaggio risuonano delle grida e delle risa di tanti bambini; gli uomini sono intenti a scavare con scalpelli i tronchi che diventeranno sampan, leggere imbarcazioni. Le donne lavano e si lavano allegre, tuffandosi nei canali d’acqua dolce e fresca, che scende dalle alte pareti di roccia che circondano l’abitato.
La scuola si trova su un’altura e dall’altra parte della baia vi è un villaggio cristiano. La sera il muezzin chiama alla preghiera, le bambine vestono una mantellina bianca con cuffia e si recano in moschea, separate dagli altri fedeli da un drappo appeso.

KEI KECIL
Traghetti e speed boats collegano le varie isole dell’arcipelago, ma i viaggi sono lunghi e pieni d’incognite. Per le isole Kei ho trovato due posti sul volo che parte da Ambon all’alba.
Jan Pieterszoon Coen è ricordato come lo spietato condottiero che assicurò all’Olanda il monopolio del commercio delle spezie, dopo aver sconfitto i portoghesi, che per primi erano giunti nelle isole Molucche, nel 1512.
La popolazione di Banda, le isole della noce moscata, che si era rifiutata di sottostare alle sue imposizioni, fu sterminata e i pochi sopravvissuti fuggirono alle Kei, isole remote che rimangono ancora oggi il centro più importante del cattolicesimo delle Molucche.
I gesuiti arrivarono a Kei nel 1888; le Missioni del Sacro Cuore di Gesù li sostituirono nel 1920. Sede vescovile, nel 1946 Kei inviò a Papua i missionari cattolici  e gli insegnanti con le loro famiglie per portare il messaggio cristiano.
Kei Kecil (piccola) è unita a Dullah da un ponte. Lungo la via principale si notano le insegne di scuole cattoliche, con ampi spazi verdi e campi sportivi. Veniamo fermate da tre studenti in divisa, il più grande si chiama Feri e studia turismo nell’istituto  Santa Teresia, gestito dalle suore del Sacro Cuore.
Feri vuol farci conoscere Olav Luis, l’insegnante d’inglese che ci invita a scambiarci il numero di telefono. Feri non ci lascerà più, i suoi sms mi seguiranno per tutto il resto del viaggio. Lo porteremo con noi nelle visite a Dullah, l’isola dove abita con la famiglia, ma che non conosce. Prendiamo in affitto un vecchio bemo e raggiungiamo i villaggi, tutti islamici, dove i bimbi ci guardano attoniti. Spaventati dai nostri visi estranei, scoppiano a piangere e corrono dai fratellini.
Anche queste isole hanno tradizioni simili alle altre che abbiamo visitato. I villaggi, i cui abitanti possono essere di religione diversa, hanno una forma di gemellaggio, detta Pela che li coinvolge nei casi di bisogno.
Il matrimonio tra gli abitanti dei due villaggi, che possono essere anche situati su isole diverse, sono considerati incestuosi e puniti severamente, anche con la morte.
Kei ha una particolarità, le tre caste: la maggior parte della gente appartiene alla casta media e non ha problemi, che invece toccano coloro che appartengono alla casta inferiore o a quella superiore.
L’ultima sera visitiamo la famiglia di Feri, che abita una casa di fango, tra i campi di manioca, l’unica coltura possibile, a parte il cocco e le banane, in un’isola fatta di corallo. La stanza è rischiarata da un lume a petrolio che manda un fumo acre. In cucina è pronta la cena a base di pesce secco e manioca bollita.
Paulina è una mamma bella e stanca, nativa di Kisar, isola non lontana da Timor Est; anche il marito è un bell’uomo, gentile. Così pure i 5 figli. Per noi hanno disteso un foglio di plastica sul pavimento e hanno appeso delle tende alle pareti.
Ci salutiamo. «Devi ritornare –  insiste Feri -; ti potrò accompagnare a Kei Besar, l’isola grande, dove sono nato e dove vive la famiglia di papà».

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Dove la vita vince la morte

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe Svanera, bresciano doc da Ome nella Franciacorta, è un veterano della Colombia e dell’Ecuador. Catapultato a Marialabaja nel 2005, è ormai di casa in una realtà che è un crogiolo di elementi contraddittori: schiavitù e libertà, violenza e pace, morte e vita, nero e bianco, Africa e America, agricoltura industriale e di sopravvivenza, grande fede e tradizioni ancestrali.
Lasciamoci guidare da lui alla scoperta di un mondo dove, nonostante tutto, si danza la vita.

NUOVA REALTà (Pasqua 2005)
Sono nuovamente in Colombia, vicino a Cartagena de Indias, alle prese con una realtà particolarmente interessante tra la popolazione afro-americana discendente degli africani portati qui come schiavi e in seguito  mescolati con i bianchi dominatori e gli indios ormai decimati.
Proprio nel porto di Cartagena sono arrivato per la prima volta il 23 novembre del 1973, per proseguire poi fino ai fiumi e alla selva del Caquetà. Adesso ritorno al punto di partenza. Sono con due confratelli nella parrocchia di Marialabaja a un’ora di macchina da Cartagena. Nel paese vivono circa 25.000 persone; altre 40.000 vivono in una serie di paesini sparsi nella campagna e nella foresta. Il primo contatto con la gente e con il territorio mi ha permesso di intravedere il fascino e la complessità della situazione e della cultura afro-americana o afro-colombiana caratteristica di questa regione in cui il 95% degli abitanti ha chiare fattezze africane con un colore della pelle che va dal nero più accentuato al bianco abbronzato.
Marialabaja riflette tutte le contraddizioni della Colombia e non mancano i problemi dovuti in particolare alla violenza che, come altrove, ha provocato molti morti e tante famiglie allo sbando. Diversi piccoli quartieri sono sorti in questi ultimi anni con le famiglie dei «desplazados» o sfollati il cui futuro è molto incerto. Senza terra, senza lavoro, cercano di non lasciarsi morire e di continuano a sperare. Nonostante tutto è gente stupenda, di una vitalità incredibile, accogliente e amabile; può sembrare strano, ma ho l’impressione che nonostante tutti i problemi reali in cui vivono, non smetterà mai di ballare e di divertirsi. La vita continua e… la festa pure!

Missione vera (Luglio 2005)
Mi sono buttato a capofitto in questa nuova realtà ed è come se da sempre fossi vissuto qui. Tutto mi è diventato familiare. Mi trovo benissimo: la gente, il territorio, il clima e la missione mi sembrano ideali per le mie attuali condizioni. Marialabaja è missione vera, non tanto per l’ambiente fisico, ma per la gente e la sua cultura tipica tutta da scoprire. E anche per l’estrema povertà e ignoranza (soprattutto religiosa) che si tocca con mano.
Qui c’è tutto, ma a troppa gente manca tutto. La terra è ricca e produttiva: due o tre raccolti all’anno, frutta abbondante e verdura fresca sempre. Una zona collinosa e una pianura fertile per coltivazioni e allevamento del bestiame, una grande riserva di acqua dolce e un sistema di irrigazione ben organizzato. Tutta la produzione ha il mercato assicurato nelle due città vicine di Cartagena e Barranquilla.
Nonostante queste condizioni ottimali, tanta gente riesce appena a sopravvivere, troppi bambini sono denutriti, tante persone e famiglie intere sono costrette ad emigrare spinte soprattutto dalla fame e dalla violenza.
In questi ultimi anni c’è stata una violenza assurda con autentiche stragi di civili, donne e bambini, e molti sfollati. Le cause di questa guerra sono da ricercarsi nella lotta per il controllo del territorio (strategicamente ed economicamente importante) tra la guerriglia e i paramilitari che sostengono il governo.
Questo scenario richiede alla missione di trovare risposte sempre nuove e di dedicarsi a fondo alla formazione delle persone. Per questo abbiamo aperto un «Centro pastorale» per ritiri e convivenze, mentre pensiamo ad un «Centro giovanile», senza dimenticare interventi immediati come l’attività degli asili che ora accoglie 160 bambini dai tre ai cinque anni.
La missione è, prima di tutto e sempre, annuncio di Gesù Cristo che porta necessariamente a creare le condizioni del suo Regno di giustizia, amore e pace. Non manca quindi il lavoro. Chi opera è sempre e unicamente Lui, che «fa nascere il sole su buoni e cattivi» e ha cura di tutte le sue pecorelle. Per questo siamo fiduciosi e come sempre … sereni!

Gli asili (Natale 2005)
In questi giorni a Marialabaja si è concluso l’anno scolastico e anche noi abbiamo chiuso gli asili. Essi sono nati cinque anni fa dall’intuizione di p. Salvatore Mura per rispondere al gravissimo problema di molte famiglie impossibilitate a mandare i bambini a scuola. I corsi di formazione per le maestre, le visite alle famiglie e le riunioni con le mamme, in maggioranza abbandonate dai mariti e con diversi figli a carico, hanno favorito la realizzazione del programma. Abbiamo anche migliorato la struttura e gli strumenti didattici, e, soprattutto, assicurato ai bimbi il pranzo giornaliero che è stato una vera benedizione per questi piccoli, anche perché a Marialabaja la gente non ha l’abitudine di fare pranzo e si alimenta soprattutto la sera. I bimbi che adesso fanno pranzo e cena hanno cambiato veramente aspetto!

Ritmi (Pasqua 2006)
Gli studenti sono tornati a scuola segnando un ritorno alla normalità, ma ci sono altri ritmi che qui regolano la vita.
C’è il ritmo dei contadini che aspettano ansiosamente il tempo del raccolto per dare un futuro migliore ai figli senza dover emigrare. C’è il ritmo scandito dalla politica, o meglio dalla «politicheria», segnato dalle varie elezioni amministrative e politiche con grande sfoggio di discorsi e feste a base di birra e rum, balli e divertimenti di ogni tipo. Non si può dimenticare che il Comune (chiamato qui Municipio) è la più grande impresa del paese e con un sindaco amico si può sperare in un posto di lavoro, altrimenti non servono né i titoli né la capacità professionale.
Il ritmo religioso è scandito anche dalle feste principali come Natale e Settimana Santa, ma la festa che si vive con maggior intensità e partecipazione popolare è certamente la festa del santo patrono delle diverse comunità con manifestazioni religioso-culturali non facili da capire per noi, eppure assolutamente coinvolgenti e partecipate dalla nostra gente, che si esprime soprattutto con balli fino all’esaurimento delle forze.

L’invasione
Ogni tanto qualche novità scuote il paese e tutta la regione. Il 9 dicembre 2005, 936 famiglie hanno dato vita a una invasione (invasione: contadini senza terra che occupano terre demaniali non coltivate, ndr.). Molti si sono poi ritirati, ma la maggioranza aspetta, inutilmente per adesso, l’assegnazione di uno spazio per costruire almeno una capanna di fango e paglia in cui rifugiarsi. Nel mese di marzo la presenza della guerriglia appena fuori del paese ha suscitato un certo allarme, dileguatosi poi dopo le elezioni amministrative. La nostra presenza su tutto il territorio ci permette di renderci conto personalmente della complessità della situazione e della necessità di alcuni interventi per assicurare la tranquillità e il progresso della regione. Facciamo del nostro meglio annunciando il Vangelo e favorendo condizioni di vita dignitose con la nostra gente.
Intanto continuiamo con le diverse attività. Hanno ripreso a funzionare gli asili e abbiamo aumentato il numero dei bimbi (adesso 180) e delle maestre (9 più una cornordinatrice) soprattutto per venire incontro alle necessità delle famiglie dell’invasione proprio nei pressi dell’asilo san Martin de Porres. Con quelle famiglie vorremmo iniziare anche dei piccoli progetti produttivi che possano permettere un miglioramento della qualità di vita. Il sogno è di arrivare a tutti i bimbi poveri e denutriti del territorio con altri piccoli programmi, ma per adesso questo è un sogno proibito, anche se nessuno mai ci proibirà di continuare a sognare come sogna «Dio Padre di tutti».

BULLERENGUE (Natale 2006)
Con la fine dell’anno scolastico i 180 bambini degli asili parrocchiali sono tornati a casa per le vacanze. Riprenderemo in febbraio 2007 con 225 alunni.
All’alba di Natale si sono spente le voci e il rullare dei tamburi della tredicesima edizione del festival nazionale del «Bullerengue»: il ballo tipico di Marialabaja con profonde espressioni di gioia e stupore per la vita che nasce e per le mille situazioni quotidiane della nostra gente. È un ballo intensamente vissuto perché esprime i sentimenti più profondi e dà spazio alle espressioni più significative. Questo è vero soprattutto dei quartieri più poveri dove si sopravvive non per le risorse economiche che spesso non ci sono, ma perché si ama la vita e così anche le situazioni più banali del vivere quotidiano trovano un significato. L’amore alla vita è sempre più grande delle tragedie quotidiane e deve essere cantato e ballato senza stancarsi mai. Per questo il ballo si chiama «Bullerengue», parola che indica una festa piena d’allegria in omaggio alla fertilità della donna.
Fa impressione constatare questa estrema vitalità nella danza e nella festa e la passività quasi totale di fronte alle situazioni di ingiustizia e di ordinaria sopraffazione causate da politici e amministratori corrotti che mantengono questo territorio nell’abbandono e sottosviluppo.

Eppure qualcosa si muove…
Ci sono persone che dimostrano una certa sensibilità, gruppi che si organizzano, giovani che cominciano ad assumere con orgoglio la propria cultura afro e iniziano timidamente a parlare di diritti-doveri e di partecipazione civica. Punto di riferimento di questa nuova tendenza è senza dubbio il nostro «Centro della Consolata» dove si svolgono incontri di ogni tipo: dall’agricoltura alla catechesi, dall’organizzazione popolare ai progetti produttivi, in un clima assolutamente familiare coronato dal tradizionale e saporito «sancocho» (minestrone).
In questi giorni si sta realizzando una tappa della «scuola afro-giovanile» per creare una maggiore coscienza e identità culturale nei giovani del territorio. Contemporaneamente ogni giorno si danno il tuo gruppi di «desplazados» (sfollati) che fanno mattoni di cemento per cominciare a costruire le proprie case aiutati dalla diocesi e dalla parrocchia. È un progetto di «autocostruzione» di 82 stanze per altrettante famiglie che stanno rispondendo con vero entusiasmo all’iniziativa.

Baldoria (Pasqua 2007)
Si dice che: «Anticamente, durante la Settimana Santa, mentre i bianchi spagnoli si dedicavano alle celebrazioni religiose, gli schiavi neri rimanevano liberi e si dedicavano… alla baldoria». Sembra proprio che questa tradizione continui ancora oggi anche se con manifestazioni sempre nuove.
Nella mentalità popolare infatti queste sono giornate di festa e di allegria. Ciò non toglie che molte persone il Venerdì Santo partecipino con devozione alla Via Crucis animata dai giovani che rappresentano con molta creatività i testi dei Vangeli. L’ambiente è di grande festa familiare e comunitaria. Le famiglie si ritrovano e ricuperano antiche tradizioni con piatti tipici come la «icotea» (piatto a base di tartaruga d’acqua dolce), il riso e fagioli neri e una straordinaria varietà di dolci fatti in casa. Dall’ambiente famigliare si passa poi alla «caseta» dove si balla e abbondano birra e rum, accompagnati dalla musica assordante dei «picò», e una folla di giovani e meno giovani si danno appuntamento nel «Canal» dove passa l’acqua per l’irrigazione delle risaie e la festa si fa sfrenata con bagni, giochi, musica, balli, alcornol, droga e dove puntualmente… ci scappa il morto!
Naturalmente ci sono anche persone che vivono la Settimana Santa in forma differente partecipando alle celebrazioni religiose abbinate a manifestazioni culturali molto belle, ma fa veramente impressione la folla che si raduna per la baldoria.
Da parte nostra cerchiamo ancora una volta di capire il fenomeno «culturale» nei suoi aspetti più positivi perché «la Pasqua» è libertà e risurrezione e quindi «festa»!

FESTE PATRONALI
Spesso la festa esplode proprio per esorcizzare le tragedie vissute e i gravi problemi quotidiani come è successo in questi giorni nella festa patronale di «San Josè de Playon» dove la gente ha potuto finalmente esprimersi dopo anni di terrore. Negli anni passati ci sono state decine di morti e moltissimi avevano dovuto abbandonare tutto e rifugiarsi altrove, subito sostituiti da altri sfollati che venivano dalla campagna. Adesso, insieme e con calma, stiamo tentando di creare una nuova comunità. Sono nate le prime organizzazioni e un comitato ha iniziato proprio con la ricostruzione e abbellimento della chiesa come segno di una nuova vita per questa regione. Il comitato ha organizzato in ogni dettaglio la festa patronale di san Giuseppe con la partecipazione di tutta la popolazione: messa, battesimi, manifestazioni culturali, solenne (e interminabile!) processione con il santo patrono accompagnato dalla banda, la quale ha poi animato il «fandango», ballo in onore del santo durante tutta la notte. Da anni questo non succedeva e la gente ha potuto sfogare finalmente i sentimenti più profondi, preludio per un futuro diverso da costruire insieme affrontando i problemi di salute, educazione, organizzazione comunitaria, economia e sviluppo.

RITORNA P. SALVATORE
(15 luglio 2007)
La novità più grande e più gradita di questo periodo è stato il «ritorno» del P. Salvatore Mura nella nostra parrocchia. P. Salvatore, sardo di Cagliari, da queste parti è un personaggio conosciuto perché, salvo alcuni anni in Italia, ha quasi completato 50 anni in Colombia di cui cinque come parroco di Marialabaja. Gli è toccato il periodo di maggiore violenza e si è guadagnato la stima e l’affetto di tutti perché avevano trovato in lui un vero pastore. A lui si deve, tra l’altro, l’avvio degli asili, che adesso sono una gran bella realtà, come pure l’acquisto della terra per le casette degli sfollati e di un terreno che stiamo attrezzando per realizzare la «cittadella sportiva» per i tanti giovani del nostro territorio.
Le iniziative non mancano. C’è entusiasmo e partecipazione, anche se le risorse sono scarse. Si cerca di coinvolgere la nostra gente in un progetto di costruzione della comunità alla luce del Vangelo, mantenendo i valori tradizionali e assicurando una vita degna dei figli di Dio con una minima sicurezza alimentare nel rispetto dell’ambiente, pur nell’indifferenza, se non ostilità, delle autorità locali.

Forum per la terra
(3 novembre 2007)
È la stagione secca. Pioverà pochissimo. I ragazzi potranno godersi le sospirate vacanze. Toeranno tanti che sono dovuti emigrare da questa terra incredibilmente fertile dove però non hanno potuto costruirsi un futuro a causa di mille ragioni, ma soprattutto per copla di politiche sociali e agrarie perlomeno discutibili.
Stiamo organizzando un Forum per studiare la nuova preoccupante situazione che si sta creando nel nostro territorio. Il Goveo colombiano si è buttato, come molti altri paesi del Sud del mondo, nella produzione del biodiesel e dell’etanolo. Da un momento all’altro enormi estensioni di terra adatte all’agricoltura e da sempre utilizzate per produrre alimenti, sono state destinate alla produzione di biocarburanti. E lo chiamano «progresso»! Il Municipio di Marialabaja è entrato in questa nuova, pericolosa e discutibile realtà. Nel giro di pochi anni sono stati seminati quasi cinquemila ettari di palma da olio africana per l’estrazione del biodiesel con la prospettiva di raggiungere i diecimila ettari. Questo territorio che da sempre si è considerato la «dispensa alimentare di Cartagena» corre il rischio di non produrre a sufficienza neppure per gli abitanti della regione.
E all’orizzonte si affaccia un altro pericolo: altrettanti ettari destinati alla coltivazione della canna da zucchero per produrre l’etanolo, l’altro biocarburante richiesto sul mercato internazionale.
Naturalmente questi progetti sono presentati dalla propaganda ufficiale come la soluzione ideale ai problemi della nazione e dei contadini colombiani. Si fanno mille promesse e si moltiplicano le offerte di ogni tipo ma la preoccupazione aumenta dal momento che, di fatto, diminuiscono gli alimenti e aumentano i prezzi…

la minaccia delle monocolture
Come missionari, anche se non siamo tecnici né economisti, siamo realmente preoccupati, e non bastano certo le dichiarazioni dei politici che promettono: «Non toccheremo un centimetro quadrato di selva. Non penetreremo la frontiera agrícola colombiana. Useremo una terra che è praticamente inefficiente».
Marialabaja, per esempio!?… Terra lussureggiante e fertilissima, destinata da sempre all’agricoltura tradizionale, con un sistema d’irrigazione tra i migliori in Colombia. Una vera pazzia; il prezzo da pagare al «progresso» e ancora una volta…fame! Il Vescovo Pedro Casaldaliga afferma che ci sono solamente «…due assoluti: Dio e la fame!»
Vi posso assicurare che non è per niente piacevole vedere continuamente bambini denutriti e dover necessariamente concludere che i responsabili siamo tutti noi infatuati del progresso e schiavi di un capitalismo selvaggio e distruttore. Non sarà certamente il Forum indetto dalla parrocchia a risolvere questi problemi. Speriamo comunque di creare una certa sensibilità che aiuti a prendere coscienza e trovare qualche alternativa che possa favorire la nostra gente. Intanto continuiamo con piccole iniziative per mantenere la speranza e magari indicare il cammino da seguire per un vero benessere.
Con il vostro aiuto, oltre agli asili  sta funzionando la piccola fattoria della Consolata, trasformata in un autentico giorniello, modello di coltivazioni tradizionali e piccolo centro per la trasformazione dei prodotti locali (riso, granoturco, frutta…). È la sede per i corsi di formazione di animatori e catechisti del paese e della campagna per costruire, alla luce della Parola di Dio, un mondo a misura d’uomo. Noi ci proviamo nella speranza che ancora una volta il piccolo Davide abbatta il gigante Golia! Naturalmente «se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i …manovali».
Continuiamo con le attività pastorali di sempre. Insieme cerchiamo di applicare e aggioare un progetto pastorale che risponda ai bisogni della nostra comunità afro.

NECROCARBURANTI
(Natale 2007)
Abbiamo realizzato il Forum lunedì 10 dicembre. Domenica 16 dicembre ci siamo riuniti in assemblea con la partecipazione dei rappresentanti dei 35 villaggi che compongono la parrocchia di Marialabaja. La conclusione del Forum non poteva essere più chiara: per la nostra gente e per il nostro territorio non si può parlare di biocarburanti (bio=vita) ma di necrocarburanti (necro=morte). Le ragioni sono molteplici e complesse, ma tutte conducono a politiche nazionali e inteazionali, basate sul solito capitalismo selvaggio che disprezza la vita delle persone e distrugge le risorse del pianeta per affermare gli interessi egoistici dei pochi di sempre.
Purtroppo però ci rendiamo conto che tutti siamo complici, e quindi responsabili, a causa del nostro stile di vita che esige tutte le comodità offerte dalla società in cui viviamo. Sarà possibile vivere diversamente, e quindi con sobrietà, a Marialabaja, a New York o a Milano senza divorare le risorse del creato? Non sarà forse anche questa la sfida del Povero che nasce a Betlemme e di un Natale che si rinnova ogni anno perché «tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza»? Probabilmente dovremmo lasciarci evangelizzare dalla nostra gente, dai poveri che nonostante tutto rimangono aggrappati alla vita e ai valori veri.

Senso della missione
(Pasqua 2008)
Qualsiasi bilancio naturalmente bisogna farlo alla luce della Pasqua, morte e risurrezione. Apparentemente la tragedia di Gesù appare come un fallimento, ma per noi tutti esplode la vita. La Risurrezione si afferma come la dimensione ultima della nostra esistenza e pervade la storia dell’umanità destinata a risorgere con Cristo per una nuova vita di giustizia, amore e pace. La missione va in questa direzione, vuole trasformare un mondo di morte nel trionfo della vita. Protagonista è sempre e solo il Signore risorto che si manifesta attraverso chi lo segue e lotta per un mondo diverso, qui e dappertutto, perché tutti abbiano vita e vita in abbondanza.
Nelle cosiddette «missioni» forse questo è più evidente perché i contrasti e le ingiustizie sono più palesi, ma la «missione» è per tutti sempre e dovunque.

Un bilancio provvisorio
In questi anni abbiamo accompagnato come missionari la nostra gente di Marialabaja, insieme abbiamo tentato di fare qualcosa e in parte pensiamo di esserci anche riusciti. Nella direzione giusta? Crediamo di sì. Con grandi risultati? Sicuramente no, anche perché non si può pensare di fare in tre anni quello che non si è fatto in trecento. A volte ci domandiamo e spesso ci chiedono: Vale la pena venire dall’Italia? Non è meglio lasciare che la gente viva come ha sempre vissuto? Perché disturbare e creare altre esigenze? Ogni popolo ha la sua cultura e la sua religione e bisogna lasciarlo vivere in pace. Se poi è vero che ci sono tanti problemi, è vero anche che esistono organizzazioni che lavorano per questa gente. In fin dei conti ha senso oggi essere missionari?
La risposta difficilmente può essere teorica. Per noi nasce da quello che viviamo e contempliamo nella Settimana Santa. La missione di Cristo si realizza attraverso la passione, morte e risurrezione per una novità di vita offerta a tutti e da realizzare insieme. Luis, il bambino che cresce nell’asilo e riceve un pranzo caldo, attenzione e affetto. Yoiner, il giovane che comincia a credere nel suo futuro. Yaneth, la donna sempre più cosciente della sua dignità. Julio, lo sfollato che riprende fiducia e si sforza per ricostruirsi una vita. Quando ci identifichiamo con le sofferenze e i bisogni della nostra gente, in particolare dei più poveri, e insieme cerchiamo soluzioni, viviamo la Pasqua e il suo mistero di morte e risurrezione. Questa è la missione. Il grido giornioso che il Signore è risorto e ha vinto definitivamente la morte. Qui e dappertutto. Anche da voi!
(1 – continua)

a cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Un’attività di rapina

Amazzonia: una diversa prospettiva (1a parte)

È comune pensare all’Amazzonia a partire da due immagini:
• la prima è quella di una natura esuberante, fatta di foreste, alberi giganteschi, animali selvaggi, grandi ricchezze minerarie, fiumi immensi, grande riserva d’acqua dolce, polmone verde della Terra;
• la seconda immagine è quella di una terra abitata da popolazioni primitive incapaci di profittare delle ricchezze che la natura offre loro e insediate in aree immense ampiamente sottoutilizzate.
Questo per noi occidentali; per gli indigeni dell’Amazzonia, Yanomami, Macuxí, Ingarikó, Patamona, Taurepang, Wapixana, Waimirí-Atroarí, Wai-Wai e altri, la foresta è il loro mondo, la loro casa, la loro terra ancestrale, la terra dei loro avi. La terra è la vita, la madre che da sempre fornisce loro tutto il necessario per vivere. è il luogo dove c’è tutto: la cacciagione, le piante, i fiumi e l’acqua, le montagne e loro stessi.
Sorvolando l’Europa si vede chiaramente come gli occidentali, cioè gli europei, hanno risolto la dicotomia predetta: praticamente non c’è più foresta; solo qua e là si possono vedere macchie di alberi spontanei che ancora resistono, ma sono sempre meno e sempre meno estese. È la soluzione che ha permesso agli europei di alimentare e di fornire di una massa enorme di beni le popolazioni locali che, nei secoli, sono cresciute talmente da doversi poi spostare in altri continenti, ove hanno esportato la loro cultura di sfruttamento delle risorse naturali fino ad annullare, in certe zone, la possibilità di sopravvivenza delle stesse.
Il nuovo eldorado
Questa cultura sta aggredendo ora anche la foresta Amazzonica; da quando essa è diventata il «Nuovo Eldorado» che richiama avidi latifondisti locali o stranieri o grandi multinazionali – che vedono la foresta amazzonica come un posto di frontiera da sfruttare sul piano economico e politico –, così come povera gente che arriva dal sertão semidesertico del Nordeste (Maranhão, Piauí, Ceará, Rio Grande do Norte, Paraíba, Peambuco, Alagoas, Sergipe, Bahia) per cercare un’alternativa alla loro miseria, per trovare oro o comunque uno spazio vergine da occupare e colonizzare per dare sostentamento a sé e alla propria famiglia.
È l’eterna situazione che si crea quando si ha un’enorme discrepanza fra le risorse naturali presenti in un territorio e la popolazione che ci vive. Così è stato dopo la scoperta dell’America e poi dell’Australia, continenti che presentavano un rapporto fra popolazione indigena e risorse naturali infimo rispetto allo stesso rapporto presente in Europa, ma così era stato anche al tempo delle migrazioni delle popolazioni indoeuropee dall’Asia verso l’Europa. Quando gli squilibri nei valori di questo rapporto sono rilevanti e del segno predetto, si crea un movimento di popolazione da dove essa è sovrabbondante verso dove è scarsa. La differenza è che oggi c’è anche la possibilità di mobilitare e trasferire ingenti capitali artificiali che permettono una rapida utilizzazione delle risorse naturali fisse.
strade e Immigrazione
La forte immigrazione dei nordestini (ma anche dei cariocas, paulistas e gauchos del Sud) nella zona amazzonica è recente e si può dire che sia stata favorita dalla costruzione, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di strade quali la rete transamazzonica, comprendente la Belem-Brasilia, la Cuiabá-Porto Velho-Perù, la Porto Velho-Manaus-Bõa Vista-Venezuela/Guyana, la Porto Velho-Imperatriz, la Cuiabá-Santarem, la Macapá-Bõa Vista-Colombia. Lo scopo della costruzione di tali strade era d’integrare il territorio amazzonico al resto del paese, permettendo lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie e vegetali in esso presenti nonché, assorbendo la popolazione eccedente del Nordeste, di alleggerire le tensioni economiche e sociali presenti in quest’ultima regione.
Gran parte di esse, per mancanza di manutenzione, ora non sono più utilizzate, se non per tratti limitati, ma la loro costruzione e quella di altre strade ha aperto delle brecce nella foresta che hanno creato le premesse per l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’introduzione di coltivazioni intensive (acacia mangium, riso e soia soprattutto) e dell’allevamento del bestiame.
fazendeiros
L’occupazione delle terre amazzoniche da parte dei bianchi iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione di attività agropastorali, come strategia per garantire la sicurezza militare della regione assicurando in essa la presenza di brasiliani (contro possibili invasori da fuori). I coloni immigrati (fazendeiros) ottennero via via dai governatori dello Stato dell’Amazzonia diritti di proprietà su terre di incontestabile occupazione indigena. Le leggi statali ampliarono l’estensione del territorio destinato all’occupazione privata, riducendo a esigue fasce di terra la parte riconosciuta agli indios.
Questo avvenne in uno stato di «convivenza pacifica» tra bianchi e indios, ma costituì un’effettiva espropriazione delle terre indigene da parte dei fazendeiros. Attraverso un sistema di relazioni di dipendenza, che andavano dal rapporto padrino-compare alla cessione di donne indigene ai padroni come domestiche e di bambini per farli educare nella fazenda alla cultura e ai modi dei bianchi, i fazendeiros stabilirono un meccanismo efficace di dominio e occupazione delle terre. Con questa strategia, gli indios si ritrovarono ben presto senza terre, con le loro case comunitarie (maloca, per usare un termine di origine guaraní alquanto diffuso) e i loro campi circondati dal bestiame dei padroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, gli agricoltori bianchi cominciarono a recintare le aree che dichiararono di loro proprietà e a registrarle nell’attesa di una regolamentazione, impedendo così agli indios anche l’accesso ai fiumi, ai laghi e alle riserve di selvaggina, e accusandoli di invadere le loro proprietà.
garimpeiros
Parallelamente si ebbe un’intensificazione delle immigrazioni di cercatori di oro e diamanti (garimpeiros). Le prime immigrazioni di garimpeiros risalgono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma la scoperta di importanti giacimenti minerari (oro, diamanti, cassiterite, bauxite, uranio ecc.) avvenne negli anni Ottanta: la «corsa all’oro» in Amazzonia esplose alla fine di quel decennio, quando migliaia di brasiliani di altre regioni ingrossarono le fila dei garimpeiros, che arrivarono in cerca di rapidi guadagni con la complicità delle forze politiche locali e federali. Gli invasori erano in gran parte senza alternative, cosicché il processo divenne irreversibile.
attività di rapina
L’estrazione di minerali è per sua natura un’attività di rapina nei confronti dell’ambiente (prende senza dar niente in cambio se non danni) e degli indios e della loro cultura, perché rapina è anche l’appropriazione delle terre a uso privato e l’attività di supposta acculturazione (forzata) degli indigeni. Allontanati dalla loro maloca e dalla loro cultura per essere inseriti in scuole e inteati, e acquisite le regole sociali di tipo occidentale, pochi ritornano nuovamente alle maloca stesse. La maggior parte resta nelle città, lavorando per i bianchi; anzi, coloro che tornano ai villaggi indigeni lo fanno per convincere i parenti a lasciare il luogo natale per trasferirsi in città, agendo negativamente nei confronti della cultura indigena.
Indigeni espulsi dalle loro terre o richiamati dalla città con il miraggio di nuovi modelli di vita, garimpeiros che non hanno fatto fortuna e disperati dell’assetato Nordeste, attirati dalla prospettiva di trovare fecondi raccolti nell’umido clima amazzonico o dalla propaganda politica (in periodo elettorale promette lotti di terra a chi decida di stabilirsi nella regione e assicuri un voto, per poi abbandonare gli immigrati al loro destino), si riversano in città, ove non trovano né accoglienza né appoggi e spesso alla fine sono costretti a vivere sotto teloni di plastica in uno dei diversi quartieri periferici delle poche città presenti.
città, tomba delle illusioni
Gli abitanti delle città sono quadruplicati nel corso degli anni Novanta, ma le possibilità di lavoro stabile sono rimaste contenute. A parte il miraggio del «funzionariato pubblico» presso le strutture del Goveo o della Prefettura, ciò che è accessibile è una varietà di lavori temporanei, soprattutto informali, che permettono la sopravvivenza, ma non offrono garanzie di sicurezza e stabilità economica.
La situazione di precarietà può trovare una spiegazione nel difficile adattamento degli indios che arrivano in città. Essi non conoscono i meccanismi del mercato del lavoro e generalmente non si relazionano con i bianchi – se non nella forma di rapporti di sudditanza – ma solamente con altri indios, parenti o amici. Questa situazione non caratterizza solamente chi è arrivato da poco in città, ma anche chi pur con molti anni di permanenza non riesce comunque a trovare le condizioni per lavori migliori e più stabili.
Così la maggioranza degli indios cittadini difficilmente ha un luogo di lavoro fisso o un contratto; essi prestano servizi temporanei, con un salario giornaliero o settimanale; sono i primi a essere licenziati in caso di difficoltà economica dell’impresa per cui lavorano e non sono per nulla tutelati dalla legge sul lavoro; fanno lavori quali il becchino, lo scaricatore di camion, il muratore e l’aiutante muratore, il guardiano notturno, il manovale. Le donne sono le più sfruttate, per lo più occupate quali domestiche e lavandaie.
non solo indios
Questa situazione vale per gli indios che hanno lasciato la foresta, ma anche per i contadini – quasi mai di professione, spesso privi di esperienza o attitudine al lavoro agricolo e abbandonati al loro destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta – i quali non hanno retto alla vita dura nella foresta e si sono riversati verso la città, e anche per i garimpeiros che non hanno fatto fortuna. Contadini e garimpeiros che devono vivere in situazioni di vita del tutto sconosciute: la foresta, il clima, le distanze enormi, l’isolamento, l’estrema difficoltà di qualsiasi contatto con il resto del Paese.
Sono tutti vittime dell’esclusione sociale, della mancanza dei servizi che dovrebbero essere foiti dalle amministrazioni pubbliche o dalla società civile come scuole e servizi sociali e sanitari. Invece le strutture sanitarie sono scarse e inadeguate, l’offerta educativa è insufficiente e non esistono servizi di orientamento e inserimento nel lavoro.
boom della coca
Per questi (contadini e garimpeiros, in special modo) si è aperta, in diverse zone della foresta amazzonica, una nuova via, quella della coltura della pianta della coca per ottenee la pasta. Il boom della coca è la conseguenza evidente del crollo delle illusioni dei coloni: non si fa nessuna fatica a convincerli che, con poco sforzo, in poco tempo e con grande abbondanza, si può accumulare denaro coltivando la coca. In effetti la coltivazione della coca è quella che si presenta, nella foresta amazzonica, come la più redditizia: secondo le diverse fonti, la rendita della coca risulta da cinque a dieci volte superiore a quella del caucciù; da dieci a venti volte superiore a quella del cacao. Più redditizia è ovviamente l’attività di chi dispone di piccoli laboratori per produrre la pasta di coca partendo dalle foglie della pianta. Ugualmente ben pagata, rispetto ai salari correnti, è l’attività dei raspachines, manodopera errante che passa di finca (campo – piantagione) in finca per la raccolta delle foglie di coca.
In realtà si tratta di stime di redditività comparata che si fermano al solo calcolo economico, al calcolo della redditività lorda, che non tiene conto delle forti diseconomie (costi economici e metaeconomici individuali, oltre che sociali) derivanti dall’illegalità, dallo stato di violenza e disordine sociale e famigliare che la narcoproduzione e il narcotraffico comportano.
Che poi – come si sente dire, con evidente confusione sul concetto di «bene» – la produzione della coca possa essere valutata, a livello macro-economico, come fatto positivo, poiché attiva reddito e occupazione, è fatto assai criticabile, in quanto confonde la promessa di benessere – reddito e occupazione – con la realtà del benessere – disponibilità di beni atti a migliorare la qualità della vita della popolazione (… e naturalmente questo non vale solo per la coca e la cocaina, ma anche per molti altri prodotti, che gonfiano i valori del PIL, ma non quelli del benessere anche solo materiale).
boom boomerang
Il boom della coca richiama alla mente precedenti bonanza (imprese altamente redditizie e relativamente facili, ma di breve durata, ndr.), quali quelle del caucciù, della china, delle pelli degli animali, del legno pregiato ricavato dalla deforestazione, del riso, del granoturco, della soia. Tutte hanno il comune denominatore dello sfruttamento irrazionale della foresta e delle terre in generale, a causa dell’ignoranza dei contadini in merito alle tecniche agricole e zootecniche appropriate al contesto locale. Molti contadini continuano a praticare la tecnica del «taglia e brucia», che danneggia gravemente l’ambiente locale, distruggendo le risorse forestali e favorendo l’erosione dei suoli fino a provocare veri e propri fenomeni di desertificazione. I terreni sono coltivati fino a esaurimento – senza conoscere tecniche appropriate e andando anche incontro a perdite economiche – e successivamente rivenduti ai latifondisti come pascolo, e i piccoli coloni sono sempre alla ricerca di nuove terre nella foresta.
(1 – continua)

Daniele Ciravegna

Daniele Ciravegna




Rischio o ricchezza?

Dialogo tra le religioni

«Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare» (rabbino Rivon Krygier).

In un’intervista pubblicata sul settimanale cattolico «Paris Notre-Dame», il rabbino Rivon Krygier, responsabile della comunità Adath Shalom (Assemblea della Pace), ha chiaramente indicato l’importanza e la necessità del dialogo tra le religioni: «Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare. Credo inoltre – ha continuato – che tutti noi siamo consapevoli che esiste una certa relatività della verità. Non si tratta d’indifferentismo o di relativismo. Diciamo semplicemente che in ogni religione esistono autentici valori spirituali e che possiamo arricchirci con la spiritualità dell’altro proprio grazie al dialogo. La spiritualità degli altri credenti ci aiuta a comprendere la nostra religione e a costruire insieme quella frateità universale insita nel progetto stesso delle nostre rispettive religioni».
Oggi le librerie traboccano di libri e riviste sulle religioni, tanto da indurci a parlare di rivincita del sacro. Anzi, si può dire che non si può comprendere il mondo senza le religioni. Le religioni però fanno anche paura, perché vengono percepite come un pericolo. È il paradosso che stiamo vivendo. Fondamentalismo, fanatismo, terrorismo sono spesso associati a una forma pervertita di islam e ora anche di induismo, come dimostra l’uccisione di cristiani nell’Orissa, uno Stato dell’India. Naturalmente non si tratta del vero islam o del vero induismo praticato dalla maggioranza dei suoi seguaci. Le religioni – lo sappiamo bene dalla storia – sono capaci di bene o di male. Possono predicare la pace o la guerra. Va comunque precisato che non sono le religioni e il loro messaggio che provocano e scatenano la violenza o la guerra, bensì i loro seguaci e la cattiva interpretazione che essi danno del messaggio originale contenuto nelle religioni.
cristiani:
dialoganti per natura
Nel dialogo tra le religioni i cristiani, per la natura stessa del messaggio evangelico, sono direttamente implicati. Il nostro Dio è infatti un Dio che dialoga con le tre persone della Trinità e dialoga con gli uomini mediante la venuta tra noi di suo figlio, Cristo Gesù, fatto uomo come noi e per noi. Pietro negli Atti ricorda che «Dio non fa eccezioni di persone e che ogni nazione che lo teme e pratichi la giustizia trova accoglienza presso di Lui» (10, 35). Gli fa eco il Concilio Vaticano II nel preambolo del decreto Nostra Aetate: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana, che ieri, come oggi, turbano profondamente il cuore umano».
I cristiani perciò non possono disinteressarsi degli altri credenti, di qualsiasi religione essi siano. Per i cristiani il dialogo si fonda su un Dio trino e unico, rivelato agli uomini come un Dio che dialoga con la Trinità e con gli uomini. Ogni cristiano è perciò invitato a imitare questo dialogo di comunione e di amore. Paolo lo ricorda bene nella prima lettera a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità». A questo scopo egli ha inviato il Figlio unigenito Gesù come «l’unico mediatore tra Dio e gli uomini» (2, 4-5). Ecco perché Gesù occupa un posto unico nella storia religiosa. Egli è più di un saggio, è più di un profeta. Nella sua stessa persona egli è «vero Dio e vero uomo». È unico poiché è il Figlio di Dio e perché è vissuto in un luogo e in un’epoca specifica, condividendo la nostra condizione umana.
COME VIVERE IL DIALOGO?
Se il dialogo interreligioso fa parte del messaggio di Gesù e della fede del cristiano, che cosa si deve fare per viverlo giorno per giorno? Vi è dialogo quando persone o gruppi di persone in disaccordo fra loro su un determinato argomento che ritengono essenziale tentano di dirimerlo con dimostrazioni, prove e ragioni, invece di usare la violenza, la derisione, lo scherno e il disprezzo.
Il dialogo religioso consiste allora nel promuovere tutte le possibili relazioni positive con persone e comunità «allo scopo – come spiega Dialogo e annuncio, documento pubblicato il 19.10.1991 dal “Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso” – di imparare a conoscersi e ad arricchirsi vicendevolmente, pur obbedendo alla verità e rispettando la libertà di ciascuno» (n. 9). Ciò significa che il dialogo interreligioso inizia sempre dal rispetto dell’altro, della sua persona, delle sue convinzioni, della sua formazione, della sua cultura. Il dialogo vissuto in questo modo diviene anche occasione per approfondire le nostre convinzioni umane e religiose, per rivedere le nostre idee preconcette e spogliarci dei nostri pregiudizi inveterati.
DAL CUORE
La fede religiosa è vissuta soprattutto nelle profondità del proprio cuore. Ce lo insegna la Sacra Scrittura: «JHVH parla al cuore» di Israele (Os 2, 16), Gesù è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), Maria «conserva nel suo cuore quanto ha visto e udito» (Lc 2, 19.51). Il cuore è una delle parole più importanti tra quelle che definiscono l’uomo biblico, immagine e somiglianza di Dio. E poiché gli uomini sono stati creati liberi di cercare Dio, essi sono liberi di sceglierlo o non sceglierlo. Lo afferma l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II quando «sottolinea che il dialogo interreligioso non è la conseguenza di una strategia o di un interesse, ma un’attività che ha le sue motivazioni, le sue esigenze e la sua propria dignità. Esso è richiesto dal rispetto che occorre avere verso tutto quello che lo Spirito ha operato nell’uomo». Grazie al dialogo la Chiesa intende scoprire «i semi del Verbo, le scintille di quella verità che illumina tutti gli uomini», semi e scintille che si trovano nelle persone e nelle diverse tradizioni religiose dell’umanità.
QUATTRO “DIALOGHI”
Questo dialogo si attua secondo quattro modalità. In primo luogo il «dialogo della vita», imparando a condividere le giornie e le sofferenze dell’esistenza umana con i membri di altre religioni. In secondo luogo il «dialogo delle opere», collaborando con gli altri a favore delle necessità fondamentali per la vita: cibo, pace, salute, ecc. La terza modalità di dialogo, quello «teologico», spesso riservato a specialisti, ci fa comprendere meglio la nostra eredità religiosa e ci permette di approfondire le Scritture delle altre religioni. Infine, il «dialogo tra differenti spiritualità» ci fa condividere le ricchezze che nascono dalla preghiera e dalla contemplazione di Dio.
UTOPIA?
Non è, questa, una visione semplicemente utopica, immaginaria, impossibile. Esistono uomini e nazioni che considerano il rispetto delle religioni come un valore essenziale per la pace nel mondo, per le proprie popolazioni e per tutta l’umanità. Benedetto XVI ha, per esempio, lodato l’apertura del popolo mongolo verso le altre religioni, definendolo un modello per l’intera umanità. Nel ricevere le credenziali del nuovo ambasciatore presso la Santa Sede (venerdì 29 maggio 2009), ha ricordato che l’attuale costituzione della Mongolia riconosce la libertà religiosa come «un diritto fondamentale», nonostante il regime comunista sia rimasto in carica per quasi 70 anni, fino al 1990, e la popolazione mongola di circa 3 milioni di abitanti sia per lo più composta di buddisti tibetani. Questa convivenza religiosa si può far risalire a Gengis Khan (1162-1227), il capo leggendario di tutti i mongoli, che estese il suo dominio fino a Pechino, al Tibet e al Turkestan invitando in Mongolia musulmani, cristiani e buddisti.
«Le persone che praticano la tolleranza religiosa – ha ricordato il papa – hanno il dovere di condividere la saggezza di questo principio con l’umanità intera, cosicché tutti gli uomini e tutte le donne possano percepire la bellezza della coesistenza pacifica e abbiano il coraggio di edificare una società rispettosa della dignità umana».
FRUTTI BUONI
Questa coesistenza è certo un bene per tutti gli uomini e tutte le nazioni. Alcune di esse, come quelle dell’Europa, l’hanno raggiunta dopo anni di guerre di religione o di laicismo esasperato; altre oggi sono un modello interessante di dialogo interreligioso, come per esempio la Bosnia-Erzegovina, dove, dopo un conflitto e una campagna di «pulizia etnica», convivono croati cattolici (17,3%), serbi ortodossi (13,3%) e musulmani bosniaci (49,2%). Nella sola Sarajevo, la capitale, coabitano musulmani, croati, serbi e una nutrita comunità di rom.
Gli accordi inteazionali degli anni Novanta hanno contribuito al progresso di questo paese dell’ex-Jugoslavia, introducendo nei loro ordinamenti una visione giuridica e religiosa ispirata ai principi della dignità della persona umana, che ha superato quella nazionalistica, parziale e strumentale. Segno che il dialogo è sempre possibile, anche in situazioni difficili e per alcuni aspetti ancora instabili.
Visitando la Terra Santa, la Palestina e la Turchia, il papa Benedetto XVI ha voluto incontrare i leader musulmani. Ha fatto lo stesso con gli esponenti della religione ebraica per favorire il dialogo interreligioso. Anche durante il suo ultimo viaggio in Africa (marzo 2009) ai rappresentanti musulmani del Camerun ha detto con evidente convinzione che «la ragione rifiuta ogni violenza religiosa». Egli sa che il futuro dell’umanità dipende dai nostri sforzi in questa direzione.
Qual è ora il nostro
compito?
Il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo tra le religioni, in un suo intervento a Malta, lo ha riassunto nei seguenti tre punti. Prima di tutto avere idee chiare sul contenuto della propria religione. L’ignoranza e l’ambiguità non permettono il dialogo. Ognuno di noi deve possedere una chiara identità e conoscenza di quello di cui e su cui vuole dialogare.
In secondo luogo è importante vivere seguendo le proprie convinzioni. Si deve essere dei credenti credibili. Nel dialogo interreligioso ci viene sempre chiesto «chi è il tuo Dio e come vivi la tua fede?». Questo tipo di dialogo avviene non tra le religioni, ma sempre tra credenti. Infine, non si deve aver paura di dire la verità circa la propria fede. Facendo così, il credente è onesto verso se stesso e verso gli altri. Non si può barare per arrivare a una facile conciliazione. Nello stesso tempo il messaggio religioso non è da conservare in una scatola chiusa. Lo si deve comunicare e testimoniare con coraggio.
Dialogo è dono
Dialogare è sempre una ricchezza e una grazia, un dono che viene da Dio. Tutti siamo chiamati a collaborare in diversa maniera con coloro che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Senza dubbio esistono anche dei rischi. Uno è quello del sincretismo, ma rimane un rischio relativo, nel senso che ogni credente che dialoga è portato ad approfondire la propria fede per rendersene ragione. Una grazia è invece la convinzione di poter dialogare, così come dialoga Dio con noi. Tutte le religioni possono aiutarci a raggiungere una migliore conoscenza della nostra identità cristiana. Nel documento Dialogo e annuncio, già citato, ci viene ricordato che «la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà al cristiano la garanzia di aver pienamente assimilato quella verità… Attraverso il dialogo i cristiani possono essere condotti ad accettare che la comprensione della loro fede debba essere purificata» (n. 49). E questo «per essere sempre pronti – come dice Pietro nella sua prima lettera – a spiegare meglio e a rendere ragione della speranza che è in noi». Tutti siamo cercatori di Dio e tutti possiamo aiutarci vicendevolmente a conoscerlo e amarlo.

Giampietro Casiraghi

Gianpietro Casiraghi




Caleidoscopio africano

Uno sguardo sugli abitanti del corno d’Africa

Il Coo d’Africa è popolato da 73 milioni di abitanti che parlano 188 idiomi diversi e sono raggruppati in 4 famiglie linguistiche: un mosaico affascinante per la diversità di usi, costumi e culture, testimonianze di una ricchezza umana inestimabile e di una civiltà antica ricca e raffinata, come quella aksumita.

Viaggio tra le popolazioni del Coo
Tra gli storici, inviati e giornalisti noi preferiamo l’uomo all’antica, che si avvicina all’Africa con timore reverenziale. Ci scontriamo con il giornalista che percorre l’Africa sorvolandola in aeroplano o osservandola da una vettura lanciata ad alta velocità, per poi pubblicare affrettate impressioni per altrettanto superficiali lettori: noi stiamo con chi predilige viaggiare da solo, a dorso di mulo o meglio a piedi, inoltrandosi in sentirneri non riportati dalle carte, scalando picchi arditi, affrontando le paludi, trascorrendo lungo tempo a contatto con le popolazioni per studiae i comportamenti, la storia, gli usi e i costumi. Diamo la nostra stima a chi cerca di leggere profondamente negli uomini e nella natura, a chi mette per iscritto ciò che ha elaborato, solleticato nel suo inconscio da stimoli veri, onesti, reali.
Solo così il visitatore del Coo potrà cogliere e poi riferire la vera realtà di ciò che rappresenta ancora oggi quella parte d’Africa nelle sue peculiari varietà climatiche, geografiche ed etnografiche. In particolare, solo così il nostro uomo riuscirà a farsi un’idea esatta dei rapporti interumani che esistono fra le numerose etnie che popolano quei luoghi e sarà in grado di distinguere la popolazione abissina, dominante, fra tutte le altre che non sono mai riuscite ad emergere; avrà la capacità di comprendere i tanti aspetti della religiosità professata nel Coo, tanto singolare quanto può esserlo un credo che si è espanso in un territorio vasto tre volte l’Italia, dove la tolleranza religiosa è un fatto reale che può destare solo tanta meraviglia.
È un mondo molto distante da quello europeo, fortunatamente e, almeno per ora, volutamente mantenuto ancorato alle proprie tradizioni. Unico neo, ma immenso, è la guerra, da ritenersi ormai endemica, che purtroppo colpisce la natura e le popolazioni e assorbe linfa vitale dai magri bilanci statali anche nei brevi periodi di tregua.
Il nostro ideale e solitario viaggiatore dovrà necessariamente avere un’unica preoccupazione: evitare le zone minate che interessano vaste aree del Coo. Non esistono mappe indicative, non esistono cartelli di segnalazione; è indispensabile chiedere lumi agli abitanti, che conoscono bene le zone anche perché ciascuno di loro, disgraziatamente, vi ha avuto un familiare ferito o ucciso. Se saprà comportarsi correttamente, lo straniero troverà, nelle genti del Coo, ospitalità e tutto quell’aiuto che può servire a un viandante, indipendentemente dal colore della pelle o dalla sua nazionalità.
Chi sono gli abitanti dell’Acrocoro, o meglio, chi vive nel Coo? Non si può parlare delle popolazioni che occupano l’Acrocoro senza ricordare quelle che vivono nel medio e bassopiano. Ci vuole un po’ di pazienza perché l’elenco è lungo e la superficie del Coo è tanto vasta.
quattro classi linguistiche
Si sostiene che solo in Etiopia vivono 178 popolazioni diverse: differenti per colore, lingua e costumi; in tutto raggiungono 60 milioni di individui; in Eritrea, abitata da 3 milioni di persone, ci sono 8 etnie ben distinte fra loro, alle quali vanno aggiunti i rashaida, che non sono autoctoni ma beduini arabi stabilitisi sulla costa eritrea nel 1869 con la migrazione di alcune centinaia di individui; la Somalia è popolata da 10 milioni di somali e da alcune centinaia di migliaia di bantu, presenti nel Giuba e nel basso Scebeli, introdotti nel Coo nel XIX secolo come schiavi dall’Africa centrale; 4 milioni di somali poi abitano l’Ogaden etiopico, il meridione della Repubblica di Gibuti, alcune zone della Dancalia etiopica e del Kenya orientale, territori che confinano tutti con l’Etiopia.
In conclusione il Coo è popolato da circa 73 milioni di abitanti che parlano 188 lingue diverse.
Ma non è finita! All’interno di ognuna di queste popolazioni, infatti, si possono trovare differenze di colore: gli afar, ad esempio, abitano la Dancalia e l’arcipelago delle Dahlac e si dividono, secondo una loro classificazione, in adomarà, assamarà e tatamarà, cioè uomini bianchi, uomini rossi e uomini neri, caratteristica derivante probabilmente dai diversi periodi nei quali si sono mescolate popolazioni negre locali con immigrazioni camitiche e poi semitiche.
Va ricordato che con il termine «semita» (da Sem, figlio di Noè) vengono indicate genti diverse, ma discendenti da antenati linguistici comuni. Il dibattito sull’esatto significato di «semita» è ancora aperto ma vi è un largo consenso nell’accettare che, da un punto di vista linguistico, il termine si riferisce oggi ad ebrei, arabi e alle genti che parlano le lingue tigrina, amarica e aramaica. La forma negativa del termine antisemita è invece usata nell’accezione di «anti-ebreo».
Il termine «camita» proviene da Cam, altro figlio di Noè. Cam, fra i suoi tanti figli, ebbe anche Cus e Put, dalla pelle di colore scuro; da loro deriverebbe anche il termine «cuscita», che in gergo significa «camita orientale».
L’Acrocoro è abitato in parte da individui di caagione molto chiara e da altri il cui colore della pelle è molto scuro. Tali variazioni possono ritrovarsi anche nello stesso ambito familiare. I tratti somatici degli individui possono variare drasticamente per la continua mescolanza delle genti, ma mentre è facile riconoscere l’eritreo, che presenta in genere un bel viso dai tratti marcati, o il somalo che ostenta invece lineamenti molto più dolci, non sempre è agevole distinguere un amara da un oromo o da un guraghe. E spesso non sono d’aiuto neppure gli usi e i costumi, perché esistono degli amara mussulmani e degli oromo cristiani.
In generale il Coo è quindi caratterizzato dalla eterogeneità delle sue genti, ma non è nostro compito elencare le caratteristiche fisiche o culturali delle varie popolazioni. Ci limiteremo ad elencare la loro classificazione e indicare i territori che attualmente occupano. Gli studiosi suddividono le popolazioni del Coo su base linguistica in quanto questo è l’unico criterio oggettivo per raggruppare tanti popoli con idiomi e costumi differenti (vedi riquadro pag. 64).
Tigrè o Tigrai?
Sidamo o Sidama?
Prima di procedere è necessario chiarire alcune incertezze che si riscontrano sui nomi delle popolazioni, anche da parte di eminenti studiosi.
Gli amara rappresentano la popolazione dominante dell’Acrocoro e abitano il cuore dell’Etiopia. Di statura alta, hanno in genere la pelle abbastanza chiara e lineamenti simili a quelli europei. I loro sorrisi sono belli e mostrano dentature bianche e perfette. Fieri della loro genealogia, hanno sempre un portamento altezzoso e trattano ancora oggi con sufficienza tutte le altre popolazioni.
Amara furono la maggior parte dei re e imperatori dell’Etiopia. Erano eccellenti guerrieri e spesso organizzavano spedizioni militari nel basso Omo e nella  regione dei laghi della Rift Walley con l’unico scopo di razziare bestiame e catturare i giovani migliori per fae degli schiavi.
Nelle loro passate conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse, sostituendoli con termini dal significato dispregiativo, o addirittura con un nome che indicava  lo stato di schiavitù. Ad esempio, la provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi fa parte della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigrè (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigrè in amarico significa «sotto il mio piede», cioè «servo». Tigrè è anche il nome di una popolazione dell’Eritrea settentrionale, nella cui struttura sociale i tigrè (servi) sono governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).
Un altro esempio ce lo foiscono i nara dell’Eritrea che sono meglio noti come baria, un antico termine aksumita che significa schiavo.
I somali poi, chiamavano gli oromo galo, che in senso dispregiativo vuole dire non mussulmano. Nell’antica lingua gheez il termine galla significa «schiavo» e gli amara hanno approfittato di questa somiglianza per chiamare galla gli oromo.
Gli uolaita sono stati chiamati uolamo, che deriva da uoi lam, la cui traduzione letterale è «oh! una mucca». Un ulteriore esempio di questo sarcasmo lo si ritrova nella provincia del Beghemedìr, regione di Gondar: Beghemedìr significa «terra di pecore». Dai beni-shangùl della regione di Asossa, vicino al confine sudanese, gli amara hanno derivato il nome scianchilla, o sciangalla, col significato di «negro», e lo hanno assegnato ai gumùz, abitanti lungo il confine sudanese e nel Uollega occidentale.
L’usanza di sbeffeggiare i vinti, indicandoli con nomi offensivi, era diffusa anche fra altre popolazioni del Coo. Gli oromo hanno chiamato giangerò, «scimmione», gli iama che abitano la valle dell’Omo, mentre gli agnuaa di Gambella sono chiamati iambo, «schiavo».
I caffini chiamano surma, «negro», le tribù ciai, tirma, zilmamo e altre nei dintorni di Maji.
A tal proposito una menzione  particolare merita il nome sidama. In lingua oromo (seconda lingua etiopica dopo l’amarico) sidama significa «straniero», termine riservato dagli oromo agli amara confinanti, con i quali spesso combattevano ferocemente.
I viaggiatori europei del XIX secolo, dopo aver attraversato le terre degli oromo, giunsero nel Caffa, all’altezza del medio corso dell’Omo, e constatarono che queste popolazioni non oromo erano chiamate sidama, e con tale nome continuarono a chiamarle. Oggi queste popolazioni sidama sono comprese nel gruppo omotico (vedi riquadro). Va precisato che una popolazione del gruppo cuscitico di nome sidamo, che abitava un tempo tutto l’altipiano del Bale, è stata spinta dagli oromo verso ovest e oggi abita una piccola regione a sud del lago Auassa.
Per complicare la confusione dei nomi, l’Amministrazione etiopica chiama sidama i sidamo, mentre chiama Sidamo tutta la provincia compresa fra i laghi della Rift Valley a ovest, e il corso del Ghennale (poi Giuba) a est, regione abitata prevalentemente da oromo.
Per ultimo citiamo gli abitanti di Harar, che molti continuano a chiamare aderè: chiamare gli abitanti di Harar aderè, anziché harari, è come chiamare galla un oromo, cioè è un insulto.
Dopo la conquista di Harar (1887), Menelik assegnò al cugino Maconnèn il governatorato di Harar e chiamò aderè, che significa «protetti», gli abitanti di Harar, che erano i discendenti di un’antica colonia aksumita e parlavano l’harari, una lingua derivata dal gheez. Oggi gli abitanti di Harar vogliono essere chiamati harari.
Come si sono formate
le popolazioni del Coo?
È interessante vedere come si sono formate queste popolazioni, che indicheremo complessivamente col nome biblico di «etiopici», ad eccezione dei rashaida che, come abbiamo detto, sono arabi, e dei bantu della Somalia, che sono i discendenti degli schiavi negri razziati dagli arabi nell’Africa equatoriale.
Sembra che la prima migrazione di popolazioni verso l’Africa si sia verificata alcune decine di migliaia di anni fa: genti negre si sono spostate dall’Asia all’Africa attraverso l’istmo di Suez; tale migrazione si è svolta molto lentamente, durando secoli se non addirittura millenni.
Queste popolazioni si diressero verso sud lungo il Nilo, costeggiarono a occidente il massiccio etiopico e si sparsero nell’Africa centro-meridionale dando origine al gruppo bantu. La retroguardia di questa migrazione si stabilì più a nord, nel Sahara centrale, insediandosi in parte anche sull’altipiano etiopico e dando origine ai nilo-sahariani: masai, nuba, dinka, scilluk, nara, cunama, gumùz e altre popolazioni oggi stanziate nell’ovest dell’Etiopia e in Kenya.
Successivamente si ebbe, a diverse ondate, sempre dall’Asia, una migrazione di genti dalla pelle più chiara, i camiti, che si divise in due rami: camiti settentrionali (berberi, egizi), e camiti orientali, detti anche cusciti, da Cush, nome biblico dell’Etiopia; parte di questi ultimi occupò l’altipiano etiopico: gli agau (pronuncia agò) a nord del Nilo Azzurro, i sidama a sud, oggi facenti parte del gruppo omotico; un’altra parte si stanziò a oriente del massiccio, lungo le coste del Mar Rosso e del Golfo di Aden, dando origine agli afar, agli oromo e ai somali.
La coda dei cusciti si fermò nel Sudan orientale, dando origine ai begia e ai beni-amer. Il colorito della pelle, oggi tendente al nero, indica che dopo il loro insediamento nell’Acrocoro ci furono ibridazioni con popolazioni negre.
Nel 1° millennio a.C. si ebbe una migrazione di popolazioni sudarabe, di pelle chiara, che avevano raggiunto un grado di civiltà elevatissimo, con un’agricoltura molto sviluppata, eserciti potenti, corti fastose e un sistema di scrittura. I minei e i sabei attraversarono il Mar Rosso, si attestarono sull’Acrocoro e fondarono, su un substrato di genti agau, il regno di Aksum. I sudarabi sono stati, nel corso dei secoli, assorbiti etnicamente dagli agau di pelle più scura; ma imposero la loro superiore cultura, dando vita al gruppo di popolazioni semitiche. Anche in questo caso la colorazione molto scura della pelle indica una mescolanza con popolazioni negre preesistenti, la frangia orientale dei nilo-sahariani.
Una successiva influenza araba si esercitò dopo l’avvento dell’islam, e interessò non solo la costa del Coo, ma gran parte dell’Africa, soprattutto sotto l’aspetto linguistico e religioso.
assetto geografico attuale
L’attuale assetto geografico delle popolazioni del Coo, dopo le importanti migrazioni che stabilirono gli insediamenti originari, ebbe inizio con l’espansione del regno di Aksum, che arrivò ad estendersi dalla Nubia fino ai confini della Somalia.
Nel VII secolo, dopo la conquista araba dell’Egitto, venuti a mancare i traffici importanti fra Egitto e Oriente, Aksum decadde rapidamente; tentò di risollevarsi, ma nel X secolo, quando era quasi ritornato all’apice della sua potenza, fu distrutto dalle orde sanguinarie di Essato, o Gudit, una regina agau che portò morte e distruzione nel regno e uccise 400 principi aksumiti, relegati, secondo un’antica tradizione, sull’amba di Debra Damo.
Le popolazioni minori del gruppo semitico, gli argobba, gli harari e i guraghe (originari dalla regione di Gura in Eritrea) sono discendenti di antiche colonie militari aksumite. Dalle distruzioni di Essato si salvò un solo principe, che si rifugiò nel sud del paese e diede origine alla stirpe degli amara, che ebbero il loro natale nell’alta valle del Bascillò nell’Uollo.
I somali vengono alla storia per la prima volta a partire dal 1536, quando Ahmed Gragn, sultano di Harar, invase l’Etiopia con un esercito di dancali e di somali, distrusse chiese e monasteri, bruciò tutti i testi antichi e depredò l’Etiopia di tutti i suoi tesori. I somali, una piccola tribù dislocata fra Harar e Giggiga, si espansero successivamente verso est e verso sud, scacciando dalla Somalia gli abitanti negri e oromo ed arrivarono, come si è già detto, fino al Kenya orientale. Sono quindi un’unica popolazione con un’unica lingua e molti dialetti.
Gli oromo, che stanziavano nella Somalia orientale e nell’Etiopia meridionale, spinti dalla pressione somala, si diressero a est nel Kenya orientale e a nord in Etiopia, dove si sparsero in gran parte del paese. Dialetti diversi oromo sono parlati nel Uollo, negli Arussi, nel Caffa, nello Scioa, nel Tigrai meridionale.

Alberto Vascon  e Nicky Di Paolo

Alberto Vascon e Nicky Di Paolo




Vivere per Cristo e per lui morire

Un altro martire cristiano in un paese senza pace

Shahbaz Bhatti, 42 anni, era il ministro per le minoranze religiose in Pakistan, cattolico e unico non musulmano nel governo. È stato assassinato dai talebani a Islamabad, il 2 marzo 2011, colpito da 25 proiettili.
Chi era
Shahbaz Bhatti, il ministro ucciso dai talebani pakistani, nacque il 9 settembre 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio cattolico di Kushpur, un villaggio fondato dai frati Domenicani in cui «Bhatti ricevette una formazione spirituale molto solida». Nel villaggio la convivenza con i fedeli musulmani (che lì sono in minoranza) è ancora «in perfetta armonia, all’insegna del dialogo di vita, e quell’esempio Bhatti lo portò con sé come modello in tutta la sua esperienza di impegno sociale e politico» – come ricordò l’Arcivescovo di Islamabad, Mons. Anthony Rufin, durante il suo funerale.
Suo padre Jacob, servì a lungo nell’esercito, poi si impegnò nel campo dell’istruzione, insegnando per molti anni, e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 fu ospitalizzato a Islamabad, dove peggiorò dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011; morì il 10 dello stesso mese. L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava a affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti dopo aver completato i suoi studi intraprese la carriera politica nel Pakistan People’s Party, il partito più riformatore del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto, con cui lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana. Shahbaz era sul convoglio insieme alla Bhutto al momento dell’attentato e riportò solo ferite leggere.
Bhatti ebbe sempre un’attenzione particolare per la situazione dei gruppi più discriminati del Paese. Era presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose (non musulmane) del Pakistan, che tuttora opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli diceva semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo».

(adattato da AsiaNews)

Il suo «testamento»
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un Venerdì Santo quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarlo senza provare vergogna».

(da www.consolata.org)
A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Diritti e tutela

Migliorare la salute matea e neonatale nel Sud del Mondo

I dati relativi alla salute matea e neonatale nel mondo rivelano una situazione di enorme disparità tra il Nord e il Sud del mondo: una donna in gravidanza nei paesi poveri corre un rischio 300 volte maggiore di morire a causa di complicazioni rispetto alla sua sorella dei paesi ricchi. Una donna muore ogni minuto per cause diverse soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e l’Asia meridionale. È una situazione inevitabile o si può prevenire?

È trascorso oltre un ventennio da quando la comunità sanitaria globale nel 1987 si riunì sotto gli auspici dell’Iniziativa «Mateità sicura» per concentrarsi soprattutto sulla mortalità matea, i cui dati oggi, come allora, rivelano una realtà globale in cui rimane estremamente fragile lo stato della donna in ambito sanitario. D’altro canto il divario nel rischio di mortalità matea tra il mondo industrializzato e molti paesi del Sud, soprattutto quelli meno sviluppati, è spesso definito «il più ampio divario del mondo». In altri termini, come ribadito recentemente (2009) anche da UNIFEM, il Fondo delle Nazioni Unite contro le disparità di genere, una donna del Sud del mondo è almeno 300 volte più esposta al rischio di morire a causa di complicazioni dovute alla gravidanza o al parto di una donna che vive nel ricco Nord. Eppure ancora
nel 2000, quando vennero definiti gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, oltre 600mila donne morivano ogni anno per complicazioni collegate alla gravidanza e al parto. Circa il 95% dei decessi matei avveniva nei paesi in via di sviluppo. Attualmente, secondo quanto riportato nel recente rapporto «La Condizione dell’infanzia nel mondo», redatto nel 2009 dall’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ogni anno più di mezzo milione di donne muore per cause associate alla gravidanza e al parto e circa 4 milioni di neonati muoiono entro 28 giorni dalla nascita. Inoltre, milioni di donne che sopravvivono al parto subiscono lesioni, infezioni, malattie e disabilità, spesso con conseguenze che durano tutta la vita. Dati certamente allarmanti che misurano il polso attuale della salute globale per le categorie cosiddette fragili.

CAMBIARE SI PUÒ
Nel moderno contesto globale quindi una donna muore ogni minuto per cause in gran parte prevenibili, soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e in Asia meridionale dove si stima un restante 35%, lasciando il mondo molto distante dal suo obiettivo di ridurre di tre quarti il tasso di mortalità matea tra il 1990 e il 2015 (il cosiddetto MDG 5, Traguardo A). Oltre ai decessi, però, disabilità, malattie, infezioni e lesioni inficiano permanentemente la salute di molte giovani donne, sebbene esistano soluzioni efficaci in termini di costi ed risultati. Si tratta di misure urgenti e radicali, di cui si fanno carico per lo più Ong e organismi inteazionali, nei pur delicati contesti sudmondisti. Dalla prevenzione sanitaria ai più complessi progetti di cooperazione, sarà possibile abbattere quel dato allarmante che stima ancora l’86% dei decessi neonatali come conseguenza diretta di patologie gravi (sepsi-polmonite, tetano e diarrea), asfissia e parto pretermine. Si stima inoltre che le patologie infettive rappresentino circa il 36% di tutti i decessi neonatali, causa principale di morte, soprattutto dopo la prima settimana. La modea ricerca applicata alla sanità sudmondista, ha dimostrato che circa l’80% delle morti legate alla gravidanza si potrebbero evitare se le donne avessero accesso ai servizi essenziali di prevenzione e assistenza sanitaria di base. L’adozione di pratiche igieniche durante il parto è fondamentale per prevenire le infezioni possibili in quel momento, ma ci sono altre complicazioni o malattie che devono essere riconosciute e trattate in tempo. Ugualmente le infezioni nei neonati devono essere riconosciute e trattate subito dopo il parto. Oltre il 40% dei decessi annuali di bambini sotto i cinque anni, l’equivalente di quasi 3,7 milioni di fanciulli, secondo le stime del-l’OMS, avviene nei primi 28 giorni di vita. Tre quarti di questi si verificano nei primi sette giorni di vita e anche la maggior parte di essi sono assolutamente prevenibili.

MODELLI VIRTUOSI
Questi decessi, pesantemente concentrati tra i gruppi di popolazione più svantaggiati all’interno dei paesi con poche risorse, riflettono una disuguaglianza sociale persistente e ingiusta che merita da tempo maggiore attenzione.
Va comunque ricordato che buona parte del lavoro di riduzione delle disuguaglianze va al di là delle possibilità del settore sanitario stesso. La causa di molte malattie non è la mancanza di antibiotici, ma di acqua pulita; le malattie cardiache non dipendono tanto dalla scarsità di unità coronariche, quanto dagli stili e dagli ambienti di vita. Di conseguenza, il settore sanitario deve attirare l’attenzione sulle «cause» alla radice delle disuguaglianze. Affidarsi troppo agli interventi medici è un modus vivendi troppo occidentale. Il modo migliore per aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la qualità della stessa sarebbe, senza dubbio, l’adozione, da parte di ogni governo, di politiche e programmi per la salute e l’uguaglianza sanitaria. Ma non solo. I progressi del paese nel campo dello sviluppo umano, soprattutto nell’istruzione matea e infantile, sono stati una delle più grandi storie di successo sud-mondista dei degli ultimi decenni. Proprio dal popoloso subcontinente asiatico è possibile evincere alcuni modelli sanitari virtuosi che hanno invece cambiato, in alcuni stati e regioni, l’inarrestabile catena di morte generata da povertà e dalla crescita demografica.

IL CASO DELLO SRI LANKA
Quella dello Sri Lanka, accanto a quella del sistema sanitario dello stato indiano del Kerala, è la storia più recente di un successo pianificato. Un paese a basso reddito, martoriato da una lunga guerra civile e dalle conseguenze devastanti dello tsunami del 2004, è riuscito a risollevarsi da una drammatica situazione di deprivazione sanitaria. Il tasso di mortalità neonatale dello Sri Lanka è diminuito da 340 su 100mila nati vivi nel 1960, a 43 su 100mila nati vivi nel 2005 e, oggi, il 98% dei parti avvengono negli ospedali. I tassi di assistenza prenatale – almeno una visita – e di assistenza qualificata al parto raggiungono il 99%. Questi risultati hanno avuto effetti positivi anche sulla sopravvivenza infantile: il tasso di mortalità sotto i cinque anni è diminuito da 32 su 1.000 nati vivi nel 1990, a 21 su 1.000 nel 2007. Gli ultimi dati disponibili indicano che anche il tasso di mortalità neonatale si è ulteriormente ridotto a circa 8 su 100mila nati vivi nel 2004. Anche nel settore dell’istruzione di base, le prestazioni dello Sri Lanka sono state straordinarie. Secondo le più recenti stime inteazionali, il tasso netto di iscrizione elementare è pari a oltre il 97% sia per i maschi che per le femmine, mentre i tassi di alfabetismo tra i giovani di età tra 15 e 24 anni raggiungono il 97% tra i maschi ed il 98% tra le femmine. I dati amministrativi indicano che il tasso di completamento della scuola primaria è del 100%. Tenuto perciò conto della correlazione positiva tra istruzione e sopravvivenza matea e infantile, questi sono i risultati di investimenti sostenuti in tutti e tre i settori. La chiave degli straordinari miglioramenti nella salute matea compiuti dallo Sri Lanka è stata l’estensione di un pacchetto sinergico di servizi sanitari e sociali ai poveri. Il sistema sanitario del paese, che risale alla fine del XIX secolo, ha posto come obiettivo innanzitutto la foitura universale di un’assistenza migliorata, i servizi igienico-sanitari e la gestione delle malattie. Successivamente, ha aggiunto interventi specifici per migliorare la salute delle donne e dei bambini. Nel corso degli anni, i governi hanno adottato un approccio prudente che dava la priorità ai servizi di assistenza sanitari per le madri ed i poveri, utilizzando le risorse economiche e umane in maniera giudiziosa. I miglioramenti ottenuti nella salute delle donne sono sostenuti e rafforzati da misure volte all’empowerment sociale e politico delle donne mediante l’istruzione, l’occupazione e l’impegno sociale. Le radici culturali e il passato coloniale foiscono inoltre una prospettiva unica sull’evoluzione della salute matea nel paese. Si tratta di una tradizione secolare che affonda le sue radici nei testi medici dei secoli IX e X, mentre alcune pratiche affina-tesi durante il periodo coloniale hanno visto l’istituirsi di alcune importanti professioni mediche. Quella ostetrica, ad esempio, grazie al governo coloniale britannico ha registrato i decessi per gravidanza fin dai primi anni del secolo scorso, garantendo così la raccolta di una grande quantità di informazioni e di conoscenze.
Precise competenze obbligatorie hanno inoltre contribuito a professionalizzare le ostetriche, mentre la politica di «non cercare il colpevole (della eventuale morte del neonato) a tutti i costi» ha aiutato a svolgere inchieste su invalidità e morti matee. I risultati sono stati sensazionali: la mortalità matea si è dimezzata tra il 1947 e il 1950 e solo dieci anni dopo, le percentuali dei decessi si sono ulteriormente dimezzate.
Una volta messe a punto le strutture e le reti sanitarie, il miglioramento di organizzazione e gestione clinica ha consentito allo Sri Lanka di ridurre il tasso di mortalità neonatale e matea del 50% ogni 6-11 anni. Inoltre, il livello di alfabetismo delle donne è aumentato dal 44 al 71% in poco più di vent’anni. Anche i tassi di assistenza qualificata al parto presso le strutture ospedaliere sono aumentati. Le ostetriche da più di cinquant’anni hanno contribuito all’ampliamento dei servizi pubblici di pianificazione familiare, oltre ad avere svolto nella sanità pubblica il proprio ruolo di assistenti ai parti. Ciò dal momento che l’assistenza domiciliare è diminuita dal 9% nel 1970 ad appena l’1,5% nel 2010.

PROBLEMI DA RISOLVERE
Malgrado i progressi significativi rimangono ancora problemi da risolvere, per lo più amplificati dalle nuove dinamiche transfrontaliere della globalizzazione. Negli ultimi anni, ad esempio, il paese registra un’importante carenza di operatori sanitari, molti dei quali mi-grati nei paesi occidentali; secondo il World Health Statistics, nei primi dieci anni del nuovo Millennio, il paese, ha stimato appena 6 medici e 17 infermiere-ostetriche ogni 10mila abitanti. Tuttavia i servizi si sono deteriorati a causa del giro di vite alle risorse finanziarie, con una spesa sanitaria di circa il 3,5% del PIL nel 2010. E il problema della sicurezza alimentare, soprattutto se i prezzi inteazionali degli alimenti rimarranno elevati, rischierà di inficiare parte dei buoni risultati fin qui conseguiti in ambito sanitario. Il paese presenta ancora condizioni marcate di malnutrizione tra i neonati ed i bambini sotto i cinque anni. Secondo le recenti stime foite dall’UNICEF, più di 1 neonato su 5 nasce sottopeso ed il 23% dei bambini sotto i cinque anni sono moderatamente o gravemente sotto-peso. E il miglioramento dei livelli di allattamento esclusivo al seno per i bambini di età inferiore a sei mesi, rispetto a quello attuale del 53%, sarà vitale per mantenere i risultati ottenuti dallo Sri Lanka nella mortalità neonatale ed infantile.

LOTTA ALLA POVERTÀ: ESSENZIALE PER LA SALUTE
Ecco alcune strategie virtuose nate dalla consapevolezza di come le politiche sanitarie che non promuovano una lotta alla povertà e alla disparità economica, o che considerino la salute una merce, abbiano come corollario una «catastrofe». Ma come è stato possibile un risultato come quello dello Sri lanka in un mondo dove la politica non indirizza più l’economia, dove le logiche di mercato rappresentano il motore dell’azione politica e dove impera ancora la convinzione che un modello di sviluppo economico possa essere garantito solo dalla libera concorrenza? Imparare dunque da alcuni stati del Sud del mondo è una nuova opportunità per comprendere come sia possibile consolidare la salute di donne e bambini con costi almeno quattro volte inferiori a quelli attualmente affrontati nella nostra società. Equità, partecipazione degli individui e multisettorialità sono gli elementi di base di una ricetta dal valore indiscusso, applicabile a livello globale. Strategie solide, risorse adeguate e impegno politico, possono invece garantire un successo consolidato nel tempo. Un fatto su cui vi invito a riflettere.
(2. continua)

Massimo Ruggiero

Massimo Ruggiero




A tutto gas

Viaggio in uno dei paesi più repressivi del mondo

Dal 12 marzo 2010, dopo 13 anni di attesa, la Chiesa cattolica è ufficialmente
riconosciuta in Turkmenistan, paese di forti contraddizioni politiche, economiche e sociali. Dopo 21 anni di regime qualcosa sta cambiando, ma il rispetto dei diritti umani è ancora un miraggio.

Fino a 90 anni fa il Turkmenistan, nella sua forma attuale, non esisteva. Il suo territorio, 85% formato dal deserto del Karakum, non ha mai fatto storia, ma è passato da un impero all’altro via via che vi si accampavano gli eserciti in marcia verso territori più ricchi. La sua storia si è confusa per secoli con quella della potenza di tuo: achemenide, greco-battriana, partica, sasanide, araba, mongola, persiana, finché le tribù turkmene (o turcomanne) costellarono la regione di isole feudali, con relative roccaforti, e cominciarono a ingaggiare scaramucce con le altre tribù e, soprattutto, depredare e fare schiavi tra le carovane di passaggio sulla via della seta.
Quando cominciarono a rapire pure i russi, lo zar mandò le forze militari contro le tribù ormai incontrollabili, facendo anche migliaia di vittime tra i gruppi resistenti (1881), finché tutti i territori centroasiatici furono sottomessi alla Russia, sotto l’amministrazione speciale del Turkestan (1885). Dopo la rivoluzione russa, questi territori furono divisi in 5 repubbliche, con confini ben definiti: nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Turkmena (1924).
comunismo senza fine
Le politiche sovietiche volte a collettivizzare l’agricoltura, trasformare il territorio, bandire la religione, scatenarono resistenze e guerriglie, ma alla fine riuscirono a cancellare le tradizionali divisioni etniche, linguistiche e claniche dei turkmeni nomadi, costringendoli anche con la forza a diventare stanziali, per coltivare il cotone. Per espandere tale coltura, il deserto del Karakum divenne teatro di importanti opere d’irrigazione, una delle quali attraversa il Paese dal confine usbeco a quello iraniano.
Ma la vera fortuna del Turkmenistan è stata la scoperta di giacimenti di gas metano e petrolio, che hanno permesso alla Repubblica di diventare uno dei maggiori fornitori energetici della Russia.
Negli anni ’80, il Turkmenistan non fu sfiorato dai venti di cambiamento che soffiavano nelle altre repubbliche sovietiche. Nel 1989 un gruppo di intellettuali turkmeni tentarono di fondare un partito progressista e di opposizione democratica, il Fronte popolare Agzybirlik (unità), ma fu subito bandito dal Partito comunista turkmeno (Pct), guidato da Saparmyrat Niyazov.
Al potere dal 1985 fino alla morte (2006), Niyazov ha governato il Paese in puro stile sovietico; anzi, peggio. Dichiarata unilateralmente l’indipendenza dall’Urss (1991), per i turkmeni il comunismo ha cambiato solo pelle: il Partito sovietico è diventato «Partito democratico turkmeno» (Pdt); la Costituzione, varata nel 1992, ha accresciuto i poteri del capo di Stato e di Goveo. Il potere politico assoluto ha permesso a Niyazov d’impadronirsi anche di quello economico, accaparrandosi i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio e gas naturale, di cui il Turkmenistan è quinto produttore mondiale. Disponendo di enormi finanze, il dittatore iniziò a progettare opere faraoniche e bizzarre e a plagiare letteralmente l’opinione pubblica, con promesse più che patealistiche: acqua, gas e luce gratis, benzina a prezzi stracciati, biglietti aerei per voli interni a circa 2 euro; gratuite anche istruzione, assistenza a partorienti e malati terminali.
Nel 1999, dopo un plebiscito, Niyazov fu «costretto» ad accettare la presidenza a vita; ma preferì farsi chiamare «Turkmenbashi», «padre e duce/guida dei turkmeni», mentre all’estero veniva accusato di essere «in preda a un delirio di onnipotenza da satrapo orientale».
Il culto della personalità del dittatore raggiunse il parossismo; nei suoi confronti, Stalin e Mao Tse Tung sembrano dei timidoni. Una serie di città sono state ribattezzate «Turkmenbashi», così pure aeroporti, numerose scuole; persino la montagna più alta del Paese e un meternorite caduto nel 1999 al confine con l’Uzbekistan portano il suo nome.
Il Paese fu letteralmente disseminato di statue e ritratti del dittatore e familiari; il suo volto cominciò a campeggiare su manifesti, banconote, bottiglie di vodka, scatole di tè, boccette di dopobarba… Cambiati i nomi dei mesi, gennaio si chiamò Turkmenbashi, aprile Gurbansoltan, nome di sua madre, usato per ribattezzare perfino il pane, ora chiamato: Gurbansoltanedzhe.
Per non sfigurare di fronte al «grande timoniere» dei cinesi, anche il «duce dei turkmeni» ha voluto scrivere il suo libretto, anzi un grosso libro in due volumi, intitolato Ruhnama (Libro dell’anima). Esso contiene i suoi precetti, il suo pensiero filosofico e folklore epico del suo popolo.
Per legge, il Ruhnama doveva essere accanto al Corano nelle moschee, in bella vista nelle librerie, scuole e uffici pubblici; tutti i cittadini dovevano impararlo pressoché a memoria; bisognava conoscerlo per superare il «test di moralità» per esercitare un pubblico impiego e per avere la patente di guida. Gli insegnanti devevano conoscerlo e diffonderlo, pena il licenziamento; giornalisti e studiosi erano invitati a scrivere periodicamente sui giornali elogi filologici dell’opera; i medici giuravano non su Ippocrate, ma su Turkmenbashi.
I «precetti» toccavano molti aspetti della vita quotidiana dei turkmeni: nessun uomo poteva portare la barba o capelli lunghi; vietata la musica registrata («uccide la nostra cultura» spiega), come pure opera e balletto; i cani erano banditi dalla capitale, Ashgabat, perché puzzano.
libertà religiosa cercasi
Bizzarrie e patealismo a parte, Niyazov è stato un despota tra i più oppressivi della storia: sotto di lui il Turkmenistan è diventato il terzo Stato al mondo con i più bassi livelli di libertà di stampa e di espressione, religiosa compresa: biblioteche e teatri rurali sono stati chiusi; oppositori politici incarcerati, esiliati o zittiti; giornalisti ridotti a impiegati statali; chiusi i canali televisivi privati; impedito l’accesso ai giornali stranieri.
Fin dall’indipendenza (1991) in Turkmenistan c’è stato un crescendo di attacchi contro i gruppi religiosi minoritari, da fare impallidire le purghe staliniane.
La Costituzione prevede la libertà di religione; ma il governo impone che ogni gruppo religioso sia registrato ufficialmente. Non esiste una religione di stato, ma un modesto risveglio islamico si è registrato dopo l’indipendenza, e il governo ha incorporato alcuni elementi della tradizione musulmana nei suoi sforzi di definire l’identità turkmena. Il governo dà qualche contributo per la costruzione di nuove moschee, quasi vuote eccetto durante il Ramadan.
Per ottenere la registrazione governativa, il gruppo religioso deve provare di essere composto da almeno 500 persone di età superiore ai 18 anni e residenti nella stessa città. Con tali requisiti possono ottenere il riconoscimento legale solo i musulmani sunniti (87% su 4,5 milioni di turkmeni) e i russi ortodossi (6,4%); le altre comunità religiose, pur presenti nel Paese, contano poche decine di fedeli e non possono radunarsi, fare proselitismo o distribuire materiale religioso.
Non è consentito neppure incontrarsi in case private: se vengono scoperti, e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia di sicurezza, i partecipanti sono soggetti a multe e arresti amministrativi e accuse penali, che si traducono in carcerazioni, torture, deportazioni ed espulsioni, sequestri e distruzioni di proprietà.
L’accanimento si riversa soprattutto sui leaders dei gruppi cristiani, per spezzae la resistenza e forzarli a rinunciare alla fede o a lasciare il Paese. Alcuni predicatori evangelici sono stati costretti ad abiurare la propria fede e giurare sul Ruhnama, il libro spirituale di Niyazov.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato sono soggetti a controllo, i musulmani soprattutto. Per impedire l’ingresso di movimenti islamici stranieri, il governo usa vari modi: vieta la distribuzione di materiale religioso islamico pubblicato fuori del Paese; paga lo stipendio al clero islamico e vieta l’insegnamento a certi imam; chiude scuole coraniche; seleziona e riduce al minimo i partecipanti ai pellegrinaggi alla Mecca.
La ragione di tale politica repressiva della libertà religiosa è spiegata chiaramente dall’ex ministro degli esteri turkmeno, Boris Shikhmuradov, rifugiatosi a Mosca perché in dissidio col regime: «Niyazov prende personalmente tutte le decisioni su ogni aspetto della vita del Paese, incluse le questioni religiose, sebbene egli non abbia alcuna idea di cos’è la religione. Egli non tollera alcun dissenso e si serve di servizi segreti e polizia di sicurezza per controllare il Paese».
nuovo corso?
Alla fine del 2006, il Turkmenbashi fu stroncato da un infarto. A sostituirlo fu chiamato il ministro della Sanità, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista sopravvissuto alle numerose purghe del passato. Convocate le elezioni per febbraio 2007, egli sconfisse i cinque concorrenti, ottenendo l’89% dei voti. Era ovvio che, dopo 21 anni di lavaggio del cervello, la gente scegliesse un uomo dello stesso calibro e spessore del defunto leader.
Al momento dell’insediamento, il nuovo presidente fece molte promesse di cambiamento. Per cominciare ha tolto dall’inno nazionale tutti i riferimenti a Niyazov, ha rimosso il suo libro (Ruhnama) da edifici pubblici e moschee, moltre statue e ritratti da tutto il paese, ha cancellato dai muri le sue scritte; gli impiegati pubblici non furono più obbligati a studiare a memoria i suoi precetti.
Di fatto, però, Gurbanguly Berdymukhamedov ha cercato di stabilire una nuova forma di culto della personalità presidenziale, pur rimuovendo dalla sua persona ogni sfumatura religiosa. Statue, ritratti, scritte del passato dittatore sono ora rimpiazzati con immagini e poster dell’attuale presidente. Agenti dell’amministrazione presidenziale vendono alle pubbliche istituzioni (scuole comprese) i suoi libri di medicina, di storia della sua famiglia e sui cavalli akhal-teke.
Ha liberato una dozzina di prigionieri politici; ha istituito un paio di commissioni per studiare la riforma delle leggi del Paese riguardanti i diritti umani. Ma i rapporti di agenzie inteazionali esprimono diverse preoccupazioni circa i rischi individuali dei cittadini in Turkmenistan sia a causa di sparizioni forzate sia soprattutto per un ferreo controllo dei media che porta alla repressione del dissenso.
«Tutti gli organi di informazione, sia di stampa che elettronici, sono rimasti sotto il controllo statale. Gioalisti che lavorano con media stranieri indipendenti sono stati vessati dalla polizia e dai servizi di sicurezza nazionale (Rapporto Amnesty 2009). Human Right Watch, nell’aggioamento riguardante il 2009, afferma che il governo «ha reso ancora più dura la repressione in un Paese già molto repressivo e autoritario». Nell’indice mondiale della libertà di stampa, il Turkmenistan rimane al terzultimo posto, prima della Corea del Nord e della Birmania.
Per rompere l’isolamento in cui era piombato il Paese negli ultimi due decenni, Berdymukhamedov ha allentato parecchie restrizioni sulla libertà di movimento e di religione. Lui stesso, nel suo primo viaggio all’estero si è recato in Arabia Saudita, per incontrare i monarchi e fare il suo pellegrinaggio alla Mecca.
Nel rapporto all’Onu del gennaio 2010, il governo turkmeno afferma di aver registrato 123 nuovi gruppi religiosi in tutto il Paese: di essi 100 sono musulmani sunniti e sciiti, 13 russi ortodossi; gli altri 10 includono battisti, pentecostali, avventisti, evangelici, Baha’i, Hare Krishna.
Lo stesso rapporto, tuttavia, ribadisce il bando delle attività dei gruppi non registrati, la proibizione per tutti i gruppi, compresi quelli approvati, di pubblicare e importare materiale religioso; sono riconfermate altre norme invasive nella vita delle singole comunità, come ispezioni improvvise e controlli sugli aiuti provenienti dall’estero.
chiesa cattolica  riconosciuta
Fino a pochi mesi fa, ai cattolici era consentito di celebrare e svolgere attività religiose solo nel territorio diplomatico della nunziatura di Ashgabat. Il 12 marzo 2010, il Ministero della Giustizia turkmeno li ha ufficialmente riconosciuti come «Chiesa cattolica romana in Turkmenistan», nonostante la comunità non abbia una guida di cittadinanza turkmena, come richiede la legge.
L’attesa di questa registrazione durava da 13 anni, da quando fu eretta la «Missione sui iuris del Turkmenistan», nel 1997, staccata dalla giurisdizione dell’amministratore apostolico per il Kazakistan e affidata a padre Andrzej Madej e a un altro confratello, Oblati di Maria Immacolata.
Entrambi erano entrati nel Paese con status diplomatico, come rappresentanti dello Stato Vaticano. D’ora in poi la Chiesa cattolica ha una «presenza pubblica» ufficiale, con tutti i benefici che questo implica, a livello giuridico e a livello pastorale.
La Chiesa cattolica conta un centinaio di battezzati, in maggioranza di etnia polacca e tedesca, altrettanti catecumeni e un gruppo di «simpatizzanti della fede cristiana»; la maggior parte di essi risiede nella capitale; alcune famiglie sono a Turkmenbashy, a Mary e in altre città e villaggi. Superiore della missione è padre Andrzej, coadiuvato da altri due missionari Oblati.
Il Turkmenistan, come le altre repubbliche dell’Asia centrale, è una terra di «prima evangelizzazione», con una comunità piccolissima, ma già stanno nascendo le prime vocazioni: una giovane è entrata in una comunità religiosa in Polonia; un’altra in un carmelo a Kiev; un giovane è nella famiglia degli Oblati; altri stanno facendo un cammino di discernimento vocazionale.
Le speranze per il futuro della missione sono buone: la Chiesa riscuote forti simpatie tra la popolazione, le cui tradizioni islamiche sono state indebolite dal processo di secolarizzazione del periodo sovietico. «Con la crescita della comunità, avremo bisogno di strutture e più spazio – spiega padre Andrzej -. Pensiamo di chiedere al governo anche l’autorizzazione per costruire la prima chiesa cattolica nella nostra missione. Nell’attesa… continuiamo a edificare con “pietre vive”».

Benedetto Bellesi

La triplice CRISI

Il Turkmenistan deve affrontare contemporaneamente tre crisi: alimentare, mercato del gas e finanziaria.
1)  La crisi del grano che ha duramente colpito la Russia negli ultimi mesi si ripercuote pesantemente anche sul Turkmenistan, che di solito acquistava grano sul mercato nero da Russia e Kazakistan. Secondo fonti non ufficiali, solo la capitale, dove vivono numerosi stranieri, riceve approvvigionamenti di cibo adeguati, mentre nel resto del paese la crisi alimentare è grave.
2)  Il Turkmenistan possiede la quarta maggiore riserva di gas del mondo (dopo Russia, Iran, Qatar), con una produzione di 75 miliardi di metri cubi all’anno, ma non sa più a chi venderlo, dopo che la Russia ha ridotto le importazioni (da 50 a 10 milioni di metri cubi all’anno). Ashgabat ha stretto accordi con Cina e Iran, che importano rispettivamente 5 e 15 miliardi di metri cubi all’anno; nel 2011 sarà in funzione un nuovo gasdotto diretto in Cina; ma Pechino, non intende pagare il gas più di 100 dollari ogni mille metri cubi (per fare un paragone: la Russia lo compera a 250 dollari e lo rivende in Europa a 350-500 dollari). Prendere o lasciare.
3)  Il calo delle esportazioni di gas, da cui proviene il 50% del Pil, provoca una grave crisi finanziaria. Il resto del Pil viene dal cotone (35-40%) e da «altre fonti», traffico di droga incluso. Il Paese ha costantemente bisogno di prestiti per la spesa corrente. La Cina ha prestato al governo turkmeno 4 miliardi di dollari, a condizione che ne investisse 3 per migliorare l’infrastruttura per l’energia, e ne ha offerti in prestito altri 5. Il governo preferirebbe attrarre investimenti di compagnie occidentali (Eni, Chevron, Conoco), ma dovrà stare ai patti, più di quanto non ha fatto in passato.
(Fondazione CDF)

Benedetto Bellesi