La cittadella della salute

Una cardiologa all’ospedale di Ikonda

L’ospedale di Ikonda  è una delle opere più care ai missionari della Consolata in Tanzania.
Ad esso hanno dedicato passione e competenza molti missionari e missionarie della Consolata e tantissimi volontari da ogni parte d’Italia, e non solo. Anna Gennari, cardiologa, è una di questi volontari. Scopriamo l’ospedale con i suoi occhi.

La prima impressione che ho provato arrivando all’ospedale di Ikonda è stata di meraviglia: nonostante avessi parlato con diversi medici che erano già stati là e avessi visto la documentazione  fotografica non ero davvero  preparata a quello che ho trovato. Dopo due giorni di viaggio, in mezzo a una regione bellissima, ma poverissima, che vive di agricoltura di sussistenza e un lungo percorso su una strada sterrata attraverso villaggi privi di acqua ed energia elettrica, davanti ai miei occhi è apparsa una struttura nuova, perfettamente curata e pulita con prati verdi, piante e fiori e vialetti di ghiaia. Al nostro arrivo ci riceve Padre Sandro Nava, anima e amministratore dell’ospedale, con una piccola festa di benvenuto.
L’ospedale, una struttura bianca ad un piano, è nuovissimo e perfetto sia come costruzione che come manutenzione; ha 270 letti per i ricoverati che, in certi periodi, possono diventare anche più di 300! All’ingresso un servizio di accettazione, svolto dalle infermiere che effettuano un primo triage (smistamento/selezione), e  controllano frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura di tutti i pazienti, che così vengono smistati ai vari ambulatori. Anche nei momenti di maggiore affluenza (i pazienti arrivano spesso a gruppi con i pulmini di pubblico servizio e, ovviamente, senza prenotare) questo lavoro si svolge con code ordinate di persone tranquille ed educate.
con gli occhi dell’ospite
Il giorno stesso del mio arrivo sono condotta a fare un giro di tutto l’ospedale dalla dott. Manuela Buzzi, che tutti chiamano familiarmente Manu, vero pilastro dell’organizzazione. Come farmacista ella svolge il lavoro di approvvigionamento di tutti i farmaci e i materiali di consumo e li smista quotidianamente alla farmacia intea e ai vari reparti secondo le esigenze. Questo lavoro già molto impegnativo è reso più difficile da diversi problemi: la lontananza dalla fonte di approvvigionamento che è, per quasi tutto, Dar es Salaam, le pessima condizioni delle strade soprattutto nella stagione delle piogge e la precarietà organizzativa dei distributori centrali che a volte rimangono sprovvisti di farmaci o ne danno in quantità inferiore alle richieste e anche alle promesse! Si rende perciò necessario fare delle scorte a lungo termine prevedendo i consumi. Il miracolo è che non manca quasi mai niente e poiché questo è ormai risaputo dalla popolazione, chi ha bisogno di un farmaco particolare chiede all’ospedale di Ikonda invece che a Dar es Salaam!
Visito così tutti i reparti di degenza: la pediatria, la mateità, la medicina e la chirurgia per donne e uomini, le malattie infettive. Le camere, grandi a tre letti, sono separate dai bagni con acqua corrente calda e fredda (a Ikonda, durante i mesi invernali – da giugno ad agosto – fa proprio freddo, con delle belle brinate). C’è persino un reparto a pagamento con camere singole per chi se lo può permettere. Completano il tutto il blocco operatorio con due sale ben attrezzate, la grande farmacia e il laboratorio di analisi. Due corridoi sono riservati agli ambulatori, radiologia ed ecografia. All’esterno dell’edificio principale ci sono l’ambulatorio per i malati di AIDS e tutti i servizi: la lavanderia e stireria, alla centrale termica, la centrale elettrica, la produzione dell’ossigeno, la casa dei missionari della Consolata, quelle degli infermieri, dei volontari e delle suore, l’asilo, i magazzini. Appena fuori dai cancelli dell’ospedale ci sono un ostello per le gestanti che vi sono accolte se provengono da molto lontano, e un grande un edificio per alloggiare i parenti dei ricoverati che devono provvedere il cibo per i rispettivi congiunti degenti. Una piccola città insomma dove la vita scorre tranquilla e organizzata.

Subito al lavoro
Il primo giorno, durante la riunione del mattino alle 8 precise, ci sono le presentazioni e sono introdotta ai vari colleghi, medical officers e infermieri capi dei vari reparti e …inizio il mio lavoro vero e proprio. L’ambulatorio di Cardiologia ha già molte richieste perché del mio arrivo ha dato notizia anche il parroco del villaggio di Ikonda durante la messa della domenica, e perché altri tre colleghi mi hanno preceduto in questo lavoro. Mi affianca il dott. Abdon, tanzaniano, che ha già preso confidenza con i problemi di diagnosi e terapia dell’ipertensione, dello scompenso cardiaco, ce delle valvulopatie e inizia a familiarizzarsi con elettrocardiogramma ed ecografia, ma ha soprattutto un buon modo di parlare con i pazienti (ovviamente in kiswahili) ai quali traduce anche mie eventuali domande. Come tutte le persone che ho conosciuto durante il mio soggiorno a Ikonda è tranquillo e gentile in modo spontaneo, ciò che ha reso più facile il mio lavoro.
Durante la mattina, visitiamo un gran numero di persone, richiedendo, per alcune, esami supplementari (raggi-x, esami di laboratorio, …). Queste aspettano quindi di essere riviste se possibile nel pomeriggio, a volte anche il giorno dopo! Il problema del tempo è vissuto in un modo decisamente meno stressante che nel mondo occidentale. La difficoltà maggiore, soprattutto all’inizio, è affrontare delle patologie già avanzate senza documentazione di precedenti visite o esami: in effetti il ricorso all’ospedale è spesso visto come rimedio estremo di situazioni già molto gravi o per altri versi non rimediabili.
Il lavoro, specie nei primi giorni è stato intenso, ma sempre tranquillo perché a Ikonda si impara presto a non essere assillati dal tempo: si fa tutto con la necessaria calma e alla fine della giornata si trova sempre il tempo per fare una passeggiatina nei dintorni, per leggere un libro, ricevere e scrivere qualche e-mail o preparare qualche utile aggioamento di cardiologia per il personale locale che ne ha fatto specifica richiesta. La vita ad Ikonda trascorre serena, scandita dagli orari dei pasti che si consumano con i missionari e gli altri volontari che prestano la loro opera in ospedale. Dopo cena un appuntamento con le informazioni dall’Italia tramite la TV satellitare e poi una passeggiatina fino a casa sotto il magnifico cielo stellato dell’Africa .

La clinica mobile
Una mattina sono uscita con la clinica mobile: una fuoristrada con due infermiere che ogni giorno del mese visita un diverso villaggio della regione per un controllo dei bambini fino a cinque anni di età e delle loro mamme. Il viaggio, su strade sterrate piuttosto accidentate, richiede da una a due ore. Nel villaggio di tuo visitato si radunano tutte le mamme con i loro bambini che sono visti e pesati, mentre le mamme, riunite poi in un locale-consultorio, ricevono indicazioni sull’alimentazione e l’igiene. I nati da donne sieropositive sono seguiti secondo un preciso protocollo di controlli e sono registrati in un apposito libro. Il legame tra l’ospedale e le esigenze della popolazione è molto stretto, e il servizio sanitario offerto non viene somministrato dall’alto, ma è partecipato e apprezzato da tutta la popolazione. Durante la clinica l’atmosfera è serena e festosa: le mamme chiacchierano mentre i bambini giocano tutt’intorno.
Vi voglio raccontare un piccolo episodio che aiuta a capire la situazione: un pomeriggio, guidati dalla Dott. Manuela, siamo andati a visitare l’ospedale Regionale di Machete, organizzato e finanziato dal governo Tanzaniano, a circa 1 ora e mezza di strada. La sensazione è stata quella di abbandono e degrado, con pochissimi ricoverati di cui quattro puerpere. Chiediamo di fotografarle e loro acconsentono, ma chiedono di avere una copia della foto. Manuela dice: “Certo, ma dovete venire a prenderla a Ikonda” e una di loro: “Verrò la prima volta che sono ammalata!”.
La Tanzania gode di una situazione politica stabile e senza guerre da molti anni e la popolazione ha un atteggiamento veramente riconoscente nei riguardi di tutti coloro che si prodigano per la loro salute; un misto di gentilezza, rispetto e riconoscenza che rende più lieve il compito di fare i medici e più difficile il momento del commiato… molti (volontari) infatti tornano perché lasciano là un pezzetto di cuore.

Anna Gennari

Anna Gennari




Il potere, prima di tutto

Costa d’Avorio: la battaglia di Abidjan

Due presidenti, due primi ministri, due governi, 179 morti e centinaia di feriti, violazioni massicce dei diritti umani. Il paese che era il più prospero dell’Africa dell’Ovest è di nuovo in balia della stupidità dei suoi dirigenti. Laurent Gbagbo, al potere da 10 anni, ha perso le elezioni ma non vuole passare la mano.

Guerra civile o riconciliazione nazionale? La Costa d’Avorio sta camminando sul filo del rasoio. Le elezioni del 28 novembre, che avrebbero dovuto porre il sigillo su un decennio di instabilità politica e sociale, non sono riuscite ad aprire una transizione democratica. Il risultato ottenuto è il caos, con i due candidati, Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara, che si proclamano vittoriosi. Una comunità internazionale che appoggia apertamente Ouattara. Il rischio di sanzioni da parte di Francia e Stati Uniti. Le forze armate che sostengono Gbagbo e gli ex ribelli del Nord che appoggiano Ouattara. Ma da dove nasce questa crisi? E quali sono state le cause scatenanti?

Gbagbo e la Francia
Tutto ha origine nel 2000. «In quell’anno – spiegano alcuni osservatori ivoriani – il generale Robert Guei, che aveva perso le elezioni, non si rassegnava a lasciare la scena e voleva mantenere il potere a tutti i costi. I sostenitori di Laurent Gbagbo, allora sfidante, scesero per strada, sostenuti dalle forze armate, per impedire la vittoria di Guei». Laurent Koudou Gbagbo sale quindi al potere. Nato da una famiglia di etnia bété a Gagnoa il 31 maggio 1945, professore di storia all’università di Cocody-Abidjan, successivamente diventa preside della facoltà di Lingue e culture. Nel 1982 entra in politica fondando il Fronte popolare ivoriano (Fpi). Sono gli anni del potere quasi assoluto del presidente-padre della patria Félix Houphouët-Boigny, sostenuto massicciamente dalla Francia, l’ex potenza coloniale, che in Costa d’Avorio mantiene forti interessi commerciali. Nel 1985, il presidente costringe Gbagbo all’esilio (che terminerà solo nel 1988). Gbagbo partecipa alle elezioni presidenziali del 1990, ricevendo però solo l’11% dei voti. Ci riprova nel 2000 e il consenso popolare premia il suo programma che vuole rompere con il passato.
Quali sono gli elementi di novità introdotti da Gbagbo? A differenza dei suoi predecessori, Gbagbo, che è un leader nazionalista fortemente legato alle etnie del Sud, non fa nulla per compiacere la Francia. È significativo il fatto che la sua prima visita all’estero sia stata in Italia e non in Francia. Ciò ha irritato moltissimo Parigi. Oltre al fatto che Gbagbo cerca nuove alleanze sia a livello politico sia a livello economico (guardando con interesse a nuovi partner tra i quali Stati Uniti e Cina). Questa «indipendenza» non può essere accettata da Parigi che, tra gli anni Novanta e Duemila, non ha ancora rinunciato alla politica egemonica sull’Africa occidentale.

La ribellione
La politica di Gbagbo non scontenta solo la Francia, ma anche il Nord del paese (e le sue etnie) sempre più relegato ai margini della vita politica nazionale e discriminato dal Sud egemone. Così, il 19 settembre 2002, ribelli delle regioni settentrionali tentano di rovesciarlo. Il golpe fallisce e si trasforma in una rivolta. La versione, diffusa da alcuni giornalisti francesi e dai sostenitori di Gbagbo, parla di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un potere politico nazionalista e intellettualmente autonomo. La versione ufficiale francese è invece di soldati ribelli che tentano di conquistare Abidjan, Bouaké e Korhogo. Non riescono a prendere Abidjan, ma hanno successo nelle altre due città. Il paese si spacca: il Sud controllato dai governativi, il Nord dai ribelli.
Dopo alcuni mesi di combattimento viene raggiunto un primo accordo tra le parti che prevede l’arrivo dei peacekeeper francesi a controllare la linea del cessate il fuoco.
Dopo altri tentativi di accordo, lo stallo si rompe solo nel 2007 con la firma a Ouagadougou (Burkina Faso) di un’intesa che prevede il disarmo dei ribelli, il loro arruolamento nelle forze armate ivoriane e, soprattutto, nuove elezioni. Secondo l’accordo, Gbagbo deve rimanere in carica (i ribelli ne avevano chiesto la destituzione), ma con un nuovo governo di unità nazionale guidato da un primo ministro «neutrale»: il leader della ribellione Guillaume Soro.
I rapporti tra Gbagbo e la Francia intanto continuano a deteriorarsi. All’inizio di novembre del 2004, in seguito al rifiuto di abbandonare le armi da parte dei ribelli, Gbagbo ordina raid aerei contro le loro basi. Durante un attacco a Bouaké, vengono uccisi nove soldati francesi. Il governo ivoriano dichiara che si tratta di un errore, ma i francesi sostengono sia stato voluto e distruggono gran parte delle forze aeree militari ivoriane.

Il rivale Ouattara
Il mandato di Gbagbo scade nel 2005, ma viene più volte prorogato. E quindi anche le elezioni vengono rimandate. Le parti non riescono a trovare un’intesa sui criteri per il riconoscimento della cittadinanza ivoriana, requisito indispensabile per potersi iscrivere alle liste elettorali. I sostenitori di Gbagbo sono a favore di criteri restrittivi del riconoscimento della cittadinanza, nel tentativo di limitare l’accesso alle ue della gente del Nord, in gran parte musulmani di origine burkinabè (arrivati in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao e di caffé) o di etnie diverse da quelle che abitano le regioni meridionali. Tra molti dissidi, la registrazione degli elettori viene portata a termine quest’anno e le elezioni vengono fissate il 31 ottobre. Il primo tuo ha visto il successo di Laurent Gbagbo (38,3%) seguito da Alassane Ouattara (32,1%) che così hanno avuto accesso al ballottaggio, tenutosi il 28 novembre. Al terzo posto, l’ex presidente Henri Konan Bedié (25,2 %), ora alleato di Ouattara.
Alassane Dramane Ouattara, 68 anni, è un politico ivoriano di lungo corso. Nominato primo ministro dal presidente Félix Houphouët-Boigny è rimasto in carica dal 1990 al 1993 (assumendo per alcuni mesi gli incarichi presidenziali in sostituzione del presidente malato). Dopo la morte di Houphouët-Boigny, Ouattara ricopre ruoli prestigiosi prima al Fondo monetario internazionale (Fmi) e poi alla Banca centrale dell’Africa occidentale (Bceao), istituzioni per le quali aveva già lavorato negli anni Ottanta. Ma non tralascia la politica. Nel 1994 aderisce al Rassemblement des Républicains (Rdr), un partito che ha la sua base elettorale fra le etnie del Nord. Ma Ouattara paga cara la sua provenienza e il suo essere rappresentante delle regioni settentrionali. Per evitare la sua elezione, infatti, il rivale Henri Konan Bedié promuove una modifica della Costituzione che impedisce di candidarsi a chiunque non sia figlio di entrambi i genitori ivoriani. Il padre di Ouattara non ha origini ivoriane. Per questo motivo Alassane non riesce a candidarsi né nel 1995 né nel 2000. Di fronte alla ribellione del 2002, va in esilio in Francia, da dove toerà nel 2006.
Arroccato al potere
La sua candidatura alle presidenziali del 2010 mette in serio pericolo la rielezione di Gbagbo. E, infatti, i primi risultati delle elezioni del 28 novembre, resi pubblici il 3 dicembre dalla Commissione elettorale (l’organismo che ha gestito tutta la consultazione), danno la vittoria proprio a Ouattara (51,4%) con Gbagbo sconfitto (48,6%). Ma poche ore dopo la pubblicazione di questi risultati, il presidente del Consiglio costituzionale (organo supremo al quale la Costituzione ivoriana affida il compito di valutare la validità delle elezioni), Paul Yao N’Dre, un fedelissimo di Gbagbo, annulla il voto in alcune regioni settentrionali. Secondo i giudici, in queste zone, i sostenitori di Ouattara avrebbero impedito a quelli di Gbagbo di votare.
«È vero – spiega un commentatore ivoriano – ci sono stati casi in cui i sostenitori di Ouattara hanno impedito a quelli di Gbagbo di esercitare il voto. E gli osservatori inteazionali hanno registrato queste violazioni. Però, come ha fatto notare Choi, il rappresentante del Segretario generale dell’Onu, anche se tutte le contestazioni presentate da Gbagbo fossero riconosciute valide, non sarebbero in grado di invalidare il secondo tuo e di rovesciare gli esiti delle ue».
Gbagbo comunque si proclama vincitore e sabato 4 dicembre giura nelle mani del presidente del Consiglio costituzionale. Ouattara fa lo stesso e giura solennemente in una cerimonia che si è tenuta all’Hotel du Golf, un prestigioso albergo di Abidjan (dove Ouattara risiede, protetto dai caschi blu dell’Onu).
Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) riconoscono la vittoria di Ouattara. Lo stesso fa la Francia e gli Stati Uniti.

Crisi
La tensione sale alle stelle. Si registrano ben presto scontri tra i sostenitori dei due presidenti. Almeno 179 morti e centinaia di feriti in pochi giorni.
Mentre l’Alto commissariato ai diritti umani dell’Onu denuncia violazioni massive e casi di rapimenti nottui e uccisioni selettive, ad opera delle Forze di difesa e di sicurezza (Fds), corpo militare fedele a Gbagbo.
Nei giorni successivi la pressione internazionale su Gbagbo diventa forte. Da più parti il presidente viene invitato a lasciare il potere. In un’intervista rilasciata venerdì 10 dicembre al quotidiano pubblico (a lui vicino) Frateité Matin, Gbagbo apre a un possibile dialogo con l’avversario: «Se c’è un problema bisogna sedersi e parlare». Una dichiarazione che può essere interpretata come un’apertura nei confronti di Ouattara.
In questo senso lavorano anche i rappresentanti religiosi. Tre arcivescovi guidati dal presidente della Conferenza episcopale, monsignor Joseph Aké, si sono recati da Gbagbo invitando a lasciare spazio ai negoziati. Esponenti musulmani e di altre fedi hanno seguito la stessa strada sottolineando che nessuno vuole che il Paese precipiti nuovamente in un conflitto interno.
Economia in difficoltà
La prima vittima di questa crisi politica è il sistema economico. Già duramente messa alla prova dalla rivolta del 2002, l’economia ivoriana stava lentamente riprendendo. Il tasso di crescita del Pil era aumentato del 3,6% dal 2008 al 2009. Nei primi giorni di dicembre, però, l’esito incerto delle elezioni (che ha causato un blocco decisionale e ha portato con sé anche il coprifuoco per gran parte della giornata) ha di fatto rallentato ogni attività. Il 14 dicembre 130 camion provenienti da Mali e Burkina Faso (paesi senza sbocco al mare e che si servono dei porti ivoriani) erano fermi al porto di Abidjan in attesa che le merci venissero scaricate e imbarcate sui mercantili. I negozi, ma anche le banche, gli uffici e molte fabbriche erano chiuse o marciavano a rilento. I prezzi di molti beni di prima necessità sono aumentati del 50%. Anche il settore del cacao (che rappresenta il 40% delle esportazioni e il 10% del Pil), già in difficoltà per la disorganizzazione della filiera e la corruzione dilagante, ne sta risentendo. L’incertezza politica rischia di far chiudere molte aziende e di allontanare gli investimenti stranieri.
Il 20 dicembre l’Unione europea dà seguito all’ultimatum e decide sanzioni contro Gbagbo, sua moglie Simone, e persone a loro fedeli, tra cui il presidente del Consiglio costituzionale e il direttore della Radio Televisione e alte cariche dell’esercito.
Si attende una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo della missione Onuci (10.000 caschi blu e 900 francesi), che l’auto proclamato presidente Gbabgo vuole mettere alla porta.

Enrico Casale

Enrico Casale




Haiti: la voce della società civile

Il libro

Pezzo d’Africa nei Caraibi, Haiti è la prima repubblica «nera» indipendente del mondo. Ma questo primato l’ha sempre pagato caro. Ancora oggi, c’è chi vuole negarglielo. Esce in Italia il primo libro-testimonianza di questo popolo. Tre domande agli autori.

Perché questo libro?
«Sui mass media italiani (ma anche stranieri) a parte rare eccezioni, non si è mai presentato il punto di vista degli haitiani di fronte alla tragedia del 12 gennaio 2010. Le testimonianze erano sempre quelle del cornoperante, del funzionario delle Nazioni Unite o del missionario. Noi abbiamo voluto invertire questo schema.
L’idea è stata quella di mettere in luce le caratteristiche del popolo haitiano e sottrarre al lettore lo stereotipo di un popolo sfortunato che può vivere solo con l’aiuto delle grandi potenze. Per far questo si presenta il punto di vista di personaggi, leader, della società haitiana a diversi livelli. Vogliamo far conoscere Haiti attraverso una lente diversa: quella di un paese che rinasce dalla popolazione locale che vi abita e ne è la linfa vitale. Mostrae il vero volto facendo parlare gli haitiani che vogliono essere protagonisti di questa ricostruzione: sociologi, intellettuali, artisti, donne impegnate nei movimenti femminili, politici, giornalisti, religiosi, personalità del mondo vudù, leader contadini. Di fatto sono loro che “scrivono” il libro».

Parlando di Haiti si pensa a terremoto, uragani,
colera. Calamità di ogni genere. Non viene in mente che ci possa essere una società civile organizzata.
«Ad Haiti i movimenti sociali, sono stati fondamentali in alcune fasi della storia. Intendiamo il movimento contadino, quello femminista e quello operaio, le associazioni per la difesa dei diritti umani, i media indipendenti, e molti altri. I movimenti degli anni ’70-’80 riuscirono a cacciare il dittatore Duvalier e a portare un loro membro a capo del paese. Fu un caso molto significativo a livello di America Latina, di uno Stato in cui il potere era diventato emanazione della base. Ma anche un esempio troppo “scomodo” per i vicini Stati Uniti. Questa esperienza fu repressa nel sangue e si fece di tutto per indebolire la società civile haitiana.
Oggi assistiamo a una tragedia dopo la tragedia. La comunità internazionale, Usa in testa, con la “scusa” della ricostruzione sta mettendo il futuro del paese sotto tutela. Gli sta, di fatto, rubando l’indipendenza. E il popolo haitiano rischia, ancora una volta, di restare escluso anche dai piani per il proprio sviluppo. Ma la società civile fa sentire la sua voce e noi siamo andati a raccoglierla».

Una parte del libro è consacrata agli haitiani in Italia. Qual è il loro peso nel processo di ricostruzione?
«Gli haitiani qui da noi non sono molti. Ma, per loro caratteristica, sono molto legati al paese di origine. In questa fase di ricostruzione, la diaspora (come si fanno chiamare) può essere fondamentale per un appoggio economico e intellettuale. Certo i numeri importanti sono gli haitiani di Stati Uniti, Canada e Francia. Ma gli haitiani d’Italia si sono subito attivati con sensibilizzazioni sul paese e raccolte fondi per dare assistenza. È una realtà, quella dei migranti, che fa parte della nostra società, ma allo stesso tempo ci permette di capire meglio anche paesi così lontani come Haiti».

Dalla prefazione
«Questo libro ci porta in mezzo agli haitiani, ad ascoltare la loro voce, le loro visioni sulla ricostruzione o “rifondazione” del Paese e della società. Le “forze vive” della nazione chiedono di partecipare alla definizione del futuro, ma questo diritto viene loro sottratto dai grandi della terra grazie alla complicità del governo haitiano. Ascoltare queste voci ci porterà a creare un legame di solidarietà con questo popolo, per andare oltre la carità» .
Maurizio Chierici

Marco Bello, Alessandro Demarchi, Haiti, l’innocenza violata. Chi sta rubando il futuro del Paese? ,
Infinito Edizioni, Roma, 2011, € 13,00.
www.infinitoedizioni.it.




Il formaggio di malga khizabavra

Una storia di cooperazione partita dal palato

Isolata e senza prospettive la zona si era spopolata. Poi, nel 2005, Temur e Nana pensarono che con le mucche e i pascoli avrebbero potuto cambiare il presente e il futuro di Khizabavra.
Con l’aiuto dei missionari camilliani, della Caritas e di alcuni esperti venuti da Belluno è nato un caseificio che produce un formaggio apprezzato da tutti: cattolici e ortodossi, georgiani, armeni e italiani. 

Il Javakheti è un altopiano che si estende dal confine armeno-turco fino alla valle del Mtkvari, il principale corso d’acqua della Georgia. Il fiume scorre in un ampio corridoio inciso nell’altopiano, le cui pareti, le coste dei monti, salgono dapprima assai ripide per poi bruscamente distendersi in ampie praterie. La strada che porta a Khizabavra sale erta fino a raggiungere il limite di questa balza da dove la vista si spalanca sul pianoro, in fondo al quale si scorge il borgo raccolto intorno alla chiesa. Qui gli abitanti sono georgiani, ma se si sale ancora, addentrandosi nell’altipiano, s’incontrano villaggi interamente armeni. La convivenza tra i due gruppi etnici non è mai stata semplice. Da secoli georgiani e armeni si contendono primati culturali, artistici, religiosi, nonché la terra, su cui hanno sempre vissuto insieme.  
Le rivalità etniche, rimaste sopite sotto il regime sovietico, si sono risvegliate con l’istituzione della repubblica indipendente di Georgia, quando gli armeni del Javakheti si sono sentiti, e non del tutto a torto, cittadini di seconda categoria. Sono nati partiti politici che chiedevano maggiore autonomia dal governo centrale, il quale, dal canto suo riservava poche attenzioni a questo territorio isolato e arretrato. Fortunatamente, a differenza di Abkhazia e Ossezia, le aspirazioni irredentiste non hanno portato a un conflitto armato, sebbene le condizioni per una secessione ci fossero qui molto più che altrove. Il Javakheti, infatti, non solo confina con l’Armenia, ma è abitato per il 95% da armeni.

L’ARRIVO DEI CATTOLICI
La fine del regime comunista ha creato le condizioni per una rinascita religiosa in tutto il territorio dell’Urss, e la Georgia non ha fatto eccezione. Nel paese c’è una presenza cattolica non numerosa ma di vecchia data. Negli anni Novanta cominciarono ad arrivare i primi sacerdoti cattolici per prendersi cura delle comunità di fedeli che stavano riorganizzandosi e tentando di riaprire le chiese rimaste chiuse per decenni.
Sebbene la Georgia sia un paese tradizionalmente cristiano ortodosso, i rapporti con il mondo cattolico nei secoli sono stati generalmente non conflittuali, e in certi periodi, apertamente amichevoli. Così in disparte com’era rispetto al teatro delle dispute teologiche che occuparono i cristiani nel corso del primo millennio, la Georgia non ha vissuto il dramma della frattura tra le chiese d’Oriente e d’Occidente, consumatosi con lo scisma del 1054. Solo nel XIII secolo prese coscienza che era avvenuta una separazione tra la sua chiesa e quella di Roma, ma nessun atto ufficiale la sancisce. I missionari cattolici erano accolti con benevolenza dai signori georgiani, che, tra l’altro, speravano di ottenere dall’Occidente cattolico un aiuto contro i più potenti vicini musulmani; aiuto che non giunse mai.
Francescani e domenicani furono i primi ad arrivare in Georgia proprio nel XIII secolo. Nel 1329 fu istituito a Tbilisi (capitale della Georgia) il vescovato cattolico. Nel XVII secolo anche i teatini e i cappuccini fondarono proprie missioni nel paese. Intoo ad esse si crearono piccole comunità cattoliche che sono giunte fino a noi, attraverso secoli di dominazione musulmana e settant’anni di ateismo di stato. Queste comunità erano rimaste senza pastori durante il periodo sovietico, per cui, non appena fu possibile, furono inviati loro sacerdoti dall’Europa. Vi arrivarono gli stimmatini da Verona e i camilliani dalla Polonia. Ai polacchi la Santa Sede ha tradizionalmente affidato la cura dei fedeli cattolici nei paesi dell’area ex sovietica, contando sulla loro conoscenza del russo, che ha continuato a essere lingua di comunicazione anche dopo il crollo dell’Urss. La scelta degli italiani si spiega, invece, per le evidenti affinità di carattere che esistono tra i due popoli.

I CAMILLIANI E PADRE PAATA
La presenza cattolica in Samtskhe-Javakheti è concentrata in alcuni insediamenti: ad Arali, Vale, Ude, Khizabavra e Vargavi. Khizabavra fu affidata ai camilliani. Il primo fu padre Pawel Szczepanek nel 1997. Lui e i suoi confratelli, che nel frattempo avevano aperto una missione permanente aTbilisi, si dovettero rimboccare le maniche. Si trattava di ricominciare quasi da zero un’attività pastorale dopo decenni di vuoto totale.
Sotto il regime comunista la chiesa cattolica, costruita nel 1898 dall’architetto Varzelashvili, era stata chiusa e adibita a deposito, la casa parrocchiale era diventata un distaccamento della scuola locale. Adesso gli edifici non recano più le tracce del triste passato sovietico. La casa parrocchiale ha ripreso la sua funzione originaria ed è stata completamente ristrutturata. La grande chiesa in cima al villaggio è fresca di pittura. Un busto a Varzelashvili, il cui figlio fu fucilato nel 1937, è stato posto nel giardinetto accanto alla scuola. Caritas Georgia ha aperto un ambulatorio, dove si possono ricevere gratuitamente assistenza e farmaci, i camilliani hanno costruito un asilo per circa settanta bambini.
Molto più difficile, però, si è dimostrato ricostruire una vita di comunità. I fedeli dovevano riprendere pratiche di culto abbandonate da decenni senza sacerdoti che parlassero la loro lingua. Ai camilliani toccò imparare il georgiano e dedicarsi al catechismo, alla formazione dei giovani, all’attività pastorale con adulti e anziani, in attesa che i primi seminaristi locali terminassero gli studi e potessero sostituirsi a loro. Ora a Khizabavra c’è finalmente un sacerdote georgiano, padre Paata.
Sembrerebbe, dunque, che ormai non rimanessero più ostacoli alla rinascita di una piena vita religiosa. Paradossalmente, però, il senso di appartenenza alla chiesa, sopravvissuto all’ostracismo e alle persecuzioni riservate alla religione sotto il comunismo, in questi due decenni di libertà si è andato dissipando. Ora che il culto è tornato libero, ad esempio, ci sono tanti che scelgono di non battezzarsi.
Padre Paata vede le ragioni di tale scelta in parte nelle difficoltà economiche: mancano i soldi per fare una festa come si deve, secondo i grandiosi criteri locali; in parte nel timore di avere problemi con gli ortodossi in quanto cattolici.
Se pensiamo che in Georgia cristiani ortodossi e cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto in pace per secoli, raro esempio di tolleranza in epoche in cui tale virtù era poco praticata, si può dire che la fase attuale costituisce una rottura col passato. Il dopo Urss si è inaugurato con lo slogan «la Georgia ai georgiani». Un esasperato nazionalismo è stato iniettato nel sangue degli abitanti di questa terra generosa.  Questo nuovo corso ideologico ha fatto dell’Ortodossia la bandiera della rinascita nazionale. Essere georgiani s’identifica con l’essere ortodossi; per questo motivo oggi in Georgia l’unica chiesa riconosciuta e ufficialmente registrata dallo stato è quella ortodossa.

LA CRISI
All’indomani della fine del sistema sovietico i georgiani si sono trovati a fare i conti anche con una gravissima crisi economica. In Samtskhe-Javakheti, area prevalentemente rurale, le occupazioni tradizionali sono agricoltura, allevamento e produzione di latte. Negli anni Novanta la chiusura totale, o parziale, delle imprese alimentari e l’interruzione del sistema distributivo ebbero come conseguenza un drastico calo della produzione agricola e un declino nel numero degli animali.
La crisi cominciò a spingere molte persone fuori dei villaggi, della regione, o addirittura del paese. «Un tempo qui c’erano 300 famiglie, ora saranno al massimo 250. Molte case sono rimaste vuote», spiega padre Paata, «perché le persone si sono trasferite in città, o sono espatriate in cerca di lavori più remunerativi. A Vargavi, un villaggio a qualche chilometro da qui, sono rimasti solo in venticinque. Tutti anziani».
Sono arrivata a Khizabavra una domenica di fine agosto, giusto in tempo per assistere alla liturgia nella chiesa, tutta ridipinta e spaziosa ma semivuota. I fedeli erano in prevalenza bambini e ragazze, che sostenevano i canti. C’era anche qualche anziano. Gli uomini avevano preferito riunirsi a pochi passi dalla chiesa, sotto il grande albero accanto alla fontana, evidentemente un punto di ritrovo. Chiacchieravano o giocavano a carte. È il loro modo di svagarsi nel giorno di festa.
Tra di loro ce n’erano alcuni trasferiti in città e tornati al paese natale solo per qualche giorno di vacanza. Sono considerati fortunati perché sono riusciti a ottenere condizioni di vita più agevoli.  Gli «sfortunati» sono rimasti a lavorare nei campi o con gli animali. È una vita dura, perché il lavoro deve essere fatto quasi senza l’ausilio di macchine, troppo costose per essere acquistate da un singolo.  Così, chi può se ne va e chi non può tira avanti senza troppa convinzione, limitando il lavoro agricolo a una pura attività di sussistenza.
Questo decadimento dell’agricoltura ha portato a uno dei paradossi più sorprendenti dell’economia georgiana: un paese che sembra benedetto dal cielo per il suo clima e per la fertilità della terra, dove l’industria alimentare e conserviera dovrebbe prosperare, si rifornisce di frutta e verdura in gran parte dalla vicina Turchia. In piena estate le massaie di Tbilisi si lamentano di non riuscire più a trovare sul mercato pomodori e cetrioli nostrani, ma solo quelli turchi, fibrosi e insapori.
Con le loro ampie praterie gli altopiani dello Samtskhe-Javakheti sono luoghi ideali per il pascolo. Vi cresce un’erba fitta, succosa, ricca di fiori odorosi. Ai tempi sovietici alla comunità di Khizabavra furono date in dotazione una porzione di pascolo e una malga quasi al confine con la Turchia, dove nei mesi estivi venivano portate le mucche del kolkhoz, l’azienda agricola statale che raggruppava gli allevatori del villaggio. Vi si faceva il tradizionale formaggio georgiano, il suluguni, non stagionato e conservato in salamoia. Anche quest’attività non aveva retto alla crisi generale. Quando il kolkhoz era stato privatizzato e il suo patrimonio distribuito tra gli allevatori, costoro avevano cominciato a vendere le proprie mucche e la montagna si era andata vuotando.
Questo processo sembrava inarrestabile quando Temur e sua moglie Nana decisero di investire le proprie risorse per riprendere la produzione di formaggio. Non avevano molta esperienza in materia, ma avevano un sogno, maturato vedendo i compaesani lasciare le proprie case e non farvi più ritorno: ripopolare la montagna e riportarvi le attività tradizionali di modo che la gente avesse lavoro e potesse restare. Per far ciò, però, le loro risorse non bastavano. Bisognava incrementare gli animali, pagare l’affitto dei pascoli, ristrutturare la malga in rovina. Ne parlarono con padre Pawel Dyl, il camilliano che aveva preso il posto del primo, compianto, padre Pawel, morto in un incidente stradale nel 1999.

GLI UOMINI VENUTI DA BELLUNO
Il progetto appariva interessante: non solo avrebbe creato lavoro e fatto rivivere un’economia rispettosa del territorio, ma parte della produzione di formaggio sarebbe stata destinata all’asilo di Khizabavra e alle mense dei poveri gestite dai camilliani e da Caritas Georgia nelle città. Il sacerdote si offrì di aiutarli e si mise alla ricerca di uno sponsor. Approdò nel Bellunese, terra con una lunga tradizione nella gestione dei pascoli e nella produzione di formaggio. Caritas Belluno non era contraria a finanziare un progetto di sviluppo in un territorio che presenta caratteristiche simili a quelle della montagna dolomitica e inviò in Javakheti due esperti del Gruppo di Azione Locale Alto Bellunese.
«Non dimenticherò mai come avvenne in nostro primo incontro», racconta Temur. «Finalmente eravamo riusciti a portare alla malga gli italiani e dovevamo conquistare la loro fiducia, dimostrare quanto eravamo capaci di fare. Padre Pawel si era raccomandato di non fargli fare brutta figura ed eravamo tutti in tensione. Si trattava di far vedere come facevamo il formaggio. Mentre eravamo attorno al pentolone di latte che stava sul fuoco, si avvicina il nostro aiutante Sasha, con mani e braccia sporche fino al gomito, perché aveva tentato di aggiustare un vecchio trattore che non partiva. Alza un mignolo e lo immerge nel pentolone. “Non ci siamo ancora”, commenta, e torna al suo lavoro.
Sprofondai nello sconforto. Ora tutto è perduto, pensai, gli italiani non vorranno più sapee di noi e del nostro formaggio. Osservai le loro facce, pensando di trovarvi disappunto, ma vi lessi stupore. “Perché l’ha fatto?”, mi chiesero. “Per misurare la temperatura del latte”, spiegai. Scoppiarono in una fragorosa risata: “150 anni fa nelle nostre montagne non usavamo già più questo metodo!”, esclamarono. Questo episodio li convinse che dovevano assolutamente darci una mano».
Fu così che iniziò una felicissima collaborazione per la produzione di un formaggio molto speciale: il lavoro, i pascoli e il latte, sono georgiani, la tecnologia e la «ricetta», italiane. Molto è stato fatto da quel giorno del 2005, con gli sforzi di tante persone, in primo luogo di coloro che lavorano alla malga e dei due italiani, Luigi Pellegrini e Battista Attorni, che ogni anno vi trascorrono parte delle loro vacanze, controllano la qualità della produzione, si portano via un po’ di latte da analizzare. Ci sono, poi, la Caritas di Belluno-Feltre, le fondazioni Cariverona e San Zeno che hanno sponsorizzato il progetto, Caritas Georgia che segue la logistica e la parte amministrativa. Tanti sforzi che incominciano a dare i loro frutti.
Ora a 2.000 metri sull’altipiano c’è un piccolo caseificio, dotato di macchine italiane e organizzato secondo i migliori criteri d’igiene e sostenibilità. D’altra parte, è la natura stessa del luogo che spinge gli uomini a razionalizzare il più possibile il lavoro. Troppo impegnativo, e costoso, trasportare i bomboloni del gas su per l’orribile mulattiera: così si è pensato di sfruttare il salto d’acqua del vicino ruscello per produrre elettricità. L’operazione, in cui avevano fallito gli ingegneri chiamati da Tbilisi, è finalmente riuscita a un armeno del villaggio vicino, privo di diplomi ma vivo d’ingegno. Il prossimo passo sarà produrre combustibile biologico, utilizzando il letame che si accumula nella stalla.
Nel 2010, i due italiani hanno chiesto a Temur di anticipare la fienagione, che di solito nell’altopiano avviene a fine agosto, alla fase di prefioritura delle piante, quando il loro contenuto nutritivo è maggiore.  Se si migliora la qualità del fieno, dicono, gli animali si svilupperanno meglio e produrranno più latte. Così è stato fatto. Quando a fine agosto ho visitato la malga ho trovato due montagne di balle di fieno già pronte per l’inverno. Bisognerà aspettare la primavera per vedere se il nuovo sistema dà buoni risultati.

FRESCO E STAGIONATO
Oltre al tradizionale suluguni, ora alla malga di Khizabavra si fa uno squisito formaggio stagionato, una novità per la Georgia, dove il formaggio è per lo più fresco. Prodotto seguendo la ricetta del signor Battista, questo formaggio è così gradito al palato, che la scorsa estate si è aggiudicato il primo premio alla fiera alimentare di Sighnaghi, un’amena cittadina della Georgia orientale. È così buono, che non ho potuto trattenermi dal fae dono ai miei amici di Tbilisi e dal mettee una forma intera nella borsa prima di rientrare in Italia.  Alla prima occasione ne ho dato un pezzetto da assaggiare a un’amica di origini valtellinesi. Vi ha subito sentito qualcosa di famigliare: «Ha dentro il sapore dell’erba, proprio come quello che un tempo ci portavano dai nostri alpeggi».
Così il formaggio di Khizabavra, alla fine, ha messo d’accordo tutti: cattolici e ortodossi, italiani, georgiani e armeni; e sono sicura che ne sarebbero conquistati anche i turchi, se solo potessero assaggiarlo.

Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Eroi e terroristi in un paese ingiusto

Indiani mapuche e minatori, facce della stessa medaglia

Seppero resistere ai Conquistatori spagnoli, oggi i mapuche sono ridotti allo stremo, dispersi, vessati. In Cile, sono imprigionati con l’accusa di terrorismo per aver difeso la propria terra e il proprio modo di concepire l’esistenza.
Da una parte i mapuche «terroristi», dall’altra i minatori «eroi», usciti vivi dalle viscere della terra. In realtà, sia gli uni che gli altri sono vittime. Delle imprese minerarie, di quelle forestali, di un sistema ingiusto. Mapuche e minatori, facce di una stessa medaglia, che in Cile alcuni hanno cominciato a scoprire…

La pallottola apparteneva ad una Winchester calibro 12 in dotazione ad un carabiniere. Si conficcò nel cranio di Edmundo Alex Lemun Saavedra1, che morì dopo 5 giorni di agonia. Era il 12 novembre del 2002. Alex aveva soltanto 17 anni. Era uno studente appartenente ad una comunità mapuche. Aveva partecipato ad un’azione di recupero territoriale: terre mapuche finite in mano all’impresa forestale Mininco (del Gruppo Matte). L’autore dello sparo mortale, un maggiore dei carabinieri, è stato assolto dalla Corte marziale. E, a tutt’oggi, la famiglia di Alex Lemun non ha ricevuto alcun tipo di indennizzo da parte dello Stato e neppure le scuse dalle istituzioni di polizia.
Jaime Facundo Mendoza Collio2 aveva invece 24 anni, mapuche con qualche anno in più di Alex ma con lo stesso tragico destino. Morì a causa di uno sparo delle Forze speciali dei carabinieri, sparo ricevuto durante un’azione di recupero di terre. Era il 12 agosto del 2009. Come per Alex, anche per Facundo le forze dell’ordine hanno affermato che la loro azione fu un atto di legittima difesa, mentre i manifestanti mapuche hanno sostenuto che essi erano armati soltanto con boleadoras3 e bastoni4.
Veniamo ai giorni nostri. È il 12 luglio 2010, quando – in (sfortunata) coincidenza con il dramma dei minatori sepolti nella miniera -, 32 detenuti mapuche iniziano uno sciopero della fame.
Nelle carceri del Cile sono rinchiusi decine di mapuche accusati in primis di «associazione illecita terrorista» (asociación ilícita terrorista), azioni per recupero di terre e furto di legname ai danni di imprese forestali o latifondisti5. In realtà, la loro colpa è di aver rivendicato o difeso la loro terra da una spoliazione continua e devastante.
A questa situazione già grave, si aggiunge l’incarcerazione di minorenni. Luis Marileo Cariqueo, un adolescente mapuche rinchiuso da 7 mesi nel carcere minorile di Chol Cholo con l’accusa di terrorismo, nel novembre 2010 scrive: «La mia lotta è per la nostra libertà, per il nostro territorio. Non faccio parte di alcuna organizzazione. Il mio modo di pensare è il prodotto dei valori e dei principi tramandati dai nostri antenati. (…) Non credo di essere un pericolo per la società. Mi considero un ragazzo eguale a tutti gli altri che vivono nella comunità e che, insieme alle proprie famiglie, lottano giorno dopo giorno per un futuro migliore»6.
La protesta estrema dello sciopero della fame viena attuata per chiedere procedimenti giusti, l’applicazione di una giustizia obiettiva ed imparziale, ma soprattutto la abrogazione della Legge antiterrorismo (18.314), risalente all’epoca della dittatura del generale Pinochet, applicata nei confronti dei prigionieri mapuche. L’applicazione di quella legge – sostengono le comunità indigene – è una grave violazione dei diritti umani dei cittadini che esercitano il loro diritto alla protesta, domandano il diritto di proprietà sulle terre ancestrali, esigono il rispetto della propria forma di vita e della propria identità culturale.
Per cercare una soluzione, interviene mons. Ricardo Ezzati, arcivescovo cattolico di Conception, che si propone e viene accettato come mediatore tra governo e prigionieri7. Dopo 82 giorni di sciopero della fame, i mapuche imprigionati mettono fine alla protesta, ma i problemi tra Stato cileno e comunità indigene rimangono tutti sul tavolo. Insoluti.
I MAPUCHE, PRIGIONIERI DELLO «SVILUPPO»
Caso unico nella storia della Conquista, i Mapuche resistettero agli spagnoli, con cui arrivarono ad un accordo firmando il Trattato di Quillin (cfr. Tabella della cronistoria). Il loro declino iniziò quando lo Stato cileno ottenne l’indipendenza dalla Spagna, avvenuta nell’anno 1818. Con la sconfitta del 1883, il territorio ancestrale delle comunità mapuche si ridusse progressivamente da circa 10 milioni di ettari a soli 500 mila.
Oggi sui territori (ex) mapuche è arrivato il cosiddetto «sviluppo»: imprese nazionali ed inteazionali stanno sfruttando quella terra senza rispetto alcuno per le comunità indigene e per l’ambiente. Boschi, laghi, fiumi, estensioni marine, sottosuolo: tutto viene sfruttato. Ci sono le imprese forestali che, dopo aver abbattuto parte dei boschi nativi, hanno dato inizio a piantagioni di pino ed eucalipto (a crescita rapida, ma con inaridimento del suolo e conseguente riduzione della biodiversità)8. Le industrie principali sono quelle appartenenti ai gruppi Angelini e Matte, grandi produttori ed esportatori di cellulosa per l’industria della carta. Ci sono poi le imprese idroelettriche (tra cui Endesa, controllata dall’italiana Enel), che stanno costruendo centrali per la produzione di energia elettrica, sfruttando l’abbondante disponibilità d’acqua dei territori mapuche. E ancora le imprese minerarie in cerca di ferro e scandio.Ci sono infine le multinazionali norvegesi del salmone d’allevamento, che hanno portato gravi problemi ambientali nelle acque frequentate dalle comunità dedite alla pesca9.
In questo quadro di «sviluppo» senza regole, la cosa più insopportabile è che le comunità mapuche non sono state consultate. Nonostante il Cile abbia ratificato la Convenzione Ilo (Oit) 169 nel 2008 e questa sia entrata in vigore il 16 settembre 200910. L’articolo 6 della Convenzione prevede che «i Govei devono consultare i popoli interessati, attraverso appropriate procedure, in particolare attraverso le loro istituzioni rappresentative, ogni volta che si prendono in considerazione misure legislative o amministrative che li possano riguardare direttamente (…)». La risposta dello Stato alla comprensibile mobilitazione delle comunità mapuche è stata ed è la repressione e il carcere.
In data 8 ottobre 2010, la «Commissione etica contro la tortura» (Comisión etica contra la tortura)11 rilascia una dichiarazione durissima. «La mobilitazione mapuche – vi si legge – ha reso evidente al mondo che in Cile non esiste uno Stato democratico, che non c’è eguaglianza davanti alla legge e che, di conseguenza, non viviamo in uno Stato di diritto, ma in uno Stato di polizia e di repressione che viene meno ai suoi stessi impegni, contratti davanti alla comunità internazionale, in materia di diritti umani».

Paolo Moiola

NOTE
1 – Amnesty Inteational, Rapporto 2003, pag. 147.
2 – Amnesty Inteational, Rapporto 2010, pag. 198.
3 – Strumento indigeno con tre palle legate da lacci di cuoio. Venivano lanciate alle gambe degli animali per catturarli.
4 – L’8 novembre 2010 il magistrato militare ha condannato il carabiniere accusato dell’uccisione a 15 anni di carcere. La Corte militare potrebbe però ribaltare la sentenza.
5 – Si veda: www.paismapuche.org.
6 – Ancora su www.paismapuche.org.
7 – In termini esatti: «Facilitador de la mesa de dialogo entre el Gobieo y los Mapuches», si veda www.arzobispadodeconception.cl.
8 – Leslie Ray, La lingua della Terra. I Mapuche in Argentina e Cile, pag. 142.
9 – Sulle imprese e sulle multinazionali operanti in territorio mapuche si legga l’opuscolo curato da Sabrina Bussani dell’«Associazione per i popoli minacciati», Bolzano, www.gfbv.it.
10 – La Convenzione Ilo 169 sulle «popolazioni indigene e tribali» è stata adottata già nel 1989. Alla data del 13 novembre 2010, era però stata ratificata soltanto da 22 paesi. Molti stati, tra cui l’Italia e la Germania, sostengono di non avere interesse a ratificarla in quanto non esistono (esisterebbero) popolazioni indigene sui loro territori, ma anche considerando valida (e non lo è) questa obiezione il numero dei firmatari è molto basso. Il 13 settembre 2007 è, inoltre, stata approvata la «Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni».
11 – Si veda: www.contralatortura.org.

Paolo Moiola




«COME UN PESCE NELL’ACQUA»

DONATA CAIRO, missionaria italiana in cile

Oggi lavora a Copiapó, nella regione cilena di Atacama, conosciuta per i suoi deserti e le sue miniere. Un tempo lavorava come operaia tessile in Puglia. Anche per questo Donata Cairo lotta e combatte per i lavoratori, siano essi minatori, raccoglitori di uva o indios mapuche. Missionaria delle «Piccole sorelle di Gesù», suor Donata non dimentica le sue origini, ma neppure il suo carisma.

In gioventù, fu operaia in un maglificio (a Ugento, in provincia di Lecce). Poi conobbe il Movimento giovanile missionario, le idee di don Tonino Bello e Carlo Carretto e la sua vita cambiò. Entrò nella congregazione delle «Piccole sorelle di Gesù di Charles de Foucauld»1. Oggi Donata Cairo, questo il suo nome, vive e lavora a Copiapó, nella regione di Atacama, in Cile. A dispetto del deserto, nei dintorni della città cilena si estendono pregiati vigneti, dove lavorano moltissimi stagionali. A pochi chilometri da Copiapó c’è poi la miniera di San José, diventata famosa in tutto il mondo per via dell’incidente che, per 69 giorni (dal 5 agosto al 13 ottobre 2010), ha imprigionato sottoterra 33 lavoratori. 
Donata appartiene ad una piccola comunità di quattro religiose, tutte di diversa nazionalità. Temperamento combattivo (nel 2008 è stata anche in carcere), la missionaria italiana ha idee molto chiare.

Donata, mentre le telecamere del mondo erano puntate sulla vicenda dei 33 minatori intrappolati a 700 metri sotto terra, in molte carceri del Cile prigionieri mapuche erano in sciopero della fame nell’indifferenza generale. Come spiegare questa diversità di attenzione?
«È vero: mentre 33 persone sopravvivevano a 700 metri di profondità, altre 34 si lasciavano morire, perché sentivano di non avere diritto di vivere con dignità… La diversità del trattamento è dipesa dagli interessi economici e politici in gioco. Però, una cosa è comune: sia i minatori sia i mapuche sono vittime di un sistema economico ingiusto. E mi spiego. Il salvataggio dei minatori è stata una cosa buonissima. Si sono utilizzate risorse economiche e mediatiche mai viste in Cile. Gli indici di appoggio al governo erano caduti ai minimi termini, per il modo come si stava affrontando la ricostruzione del dopo terremoto (quello avvenuto il 27 febbraio 2010, ndr) e lo tsunami nel sud del paese. Il riscatto dei minatori ha fatto alzare, da un giorno all’altro, questi indici. Sui minatori non si è però affrontato il problema di fondo che è quello delle condizioni lavorative e della sicurezza sul lavoro, non solo nelle miniere. Essi sono stati trasformati in “eroi” dimenticando che, in primis, sono vittime. L’evento della miniera di San José è servito anche per nascondere il conflitto con il popolo mapuche. Accettare che in Cile esista un popolo indigeno è accettare la sua identitá. E l’identità mapuche è legata alla terra: un mapuche senza terra è una persona senza identità».

Cosa sta succedendo nei territori dei mapuche, suor Donata?
«I territori mapuche sono finiti nella disponibilità delle grandi imprese multinazionali e non. Dunque, oggi le terre (tra l’altro molto fertili) sono in mano all’oligarchia e alle imprese straniere: imprese idroelettriche, industrie del legno, allevamenti di bestiame, industrie della pesca. Oltre a ciò, le terre sono ancora fortemente militarizzate e per qualsiasi “reato” si applica la legge antiterrorista emanata da Pinochet2, ma ancora in vigore. Tutto ciò è utile per alimentare la paura e scoraggiare qualsiasi intento di far valere i propri diritti. Dunque, accade che la gente mapuche lavora su una terra, che dovrebbe essere sua, alle dipendenze di altri e per salari da fame. A chi conviene che i mapuche siano i proprietari della terra? A nessuno. Anzi, spesso sono gli stessi governanti ad essere i nuovi padroni. Le leggi le fanno e le applicano loro stessi. E, si badi bene, la situazione non si è creata soltanto con questo governo di destra. Anche con i governi di centrosinistra è stato lo stesso…».

Quella dei mapuche sembrerebbe una lotta disperata, senza possibilità di successo…
«Sì, è come uno scontro tra Davide e Golia. Però, almeno per ora, gli indios l’hanno spuntata, grazie all’intervento opportuno della Chiesa, nella persona di Ricardo Ezzati, un vescovo salesiano italiano che è in Cile da quando era giovanissimo. Il problema non è stato risolto, ma si sono fatti passi in avanti. Per lo meno, non si dovrebbe applicare la legge antiterrorismo. Pensa che qualcuno ha rischiato di farsi 60 anni di carcere per essere stato accusato di aver bucato un pneumatico di un camion. Un camion appartenente ad una impresa forestale che trasportava legname preso sulla terra mapuche…».

Dopo gli anni sotto la guida della Concertación, il Cile è tornato ad essere guidato dalla destra, tra l’altro abbastanza vicina alle idee pinochetiste. Il Cile sta cambiando in meglio, in peggio o tra i due schieramenti non c’è molta differenza?
«A livello macro-economico non c’è differenza, ma per i progetti sociali, per i più poveri, sì. Questo è un governo di immagine, mostra quello che non è, è megalomane. Figurati che invece di impegnarsi in toto alla ricostruzione dopo un terremoto così devastante (9,2 gradi Richter), si vuole fare un gran monumento per ricordare l’evento. Lo stesso atteggiamento è stato tenuto per i minatori: “Li trasformiamo in eroi, teniamo il paese e il mondo intero davanti agli schermi della Tv, senza raccontare che la gente continua a morire nelle miniere a causa delle condizioni insicure sul lavoro”. E, si badi bene, le miniere non sono miniere qualsiasi, sono miniere d’oro!».

Gli organismi economici inteazionali hanno sempre indicato il Cile come il miglior paese dell’America Latina in fatto di sviluppo economico e di applicazione del sistema neoliberista. Questo ha accentuato le differenze sociali all’interno della società cilena? Ad esempio, i cittadini sono tutti eguali quando necessitano di cure mediche e di istruzione?
«I cittadini cileni hanno libero accesso ai mezzi di comunicazione modei e tutte le novitá che esistono nel mondo (cellulari, internet, apparati vari…). Hanno anche libero accesso al credito per il consumo, cioè possono andare nelle grandi catene di negozi e comprare a rate ciò che vogliono. Tutto sembra facile ed accessibile e si pubblicizza in ogni modo, ma in realtà questo è il paese piú ingiusto del mondo. Si può comprare di tutto, ma non una casa, non si possono mandare a studiare i figli alle scuole superiori e se ti ammali, puoi anche morire perché l’accesso alla salute pubblica è molto ridotto. La salute è un business, per cui è accessibile solo a chi guadagna molto. Gli operai con cui noi condividiamo la vita, vivono con 230 euro al mese, e i prezzi sono a livello europeo. Un Kg di pane costa un euro e 40. Inutile parlarti del lavoratori stagionali dell’uva da esportazione, quella che tra poco avrete sulle vostre tavole. Noi Piccole sorelle ci siamo dentro dal 1975 ed io dal 1990. Condizioni di lavoro, salari, sicurezza erano spaventose. Per questo abbiamo portato avanti una difficile lotta. Finalmente, con il governo della presidente Bachelet, siamo arrivate ad ottenere alcune “conquiste”: non ci sono più bambini che lavorano, c’è il diritto a un contratto lavorativo, abbiamo bagni e acqua potabile accessibili durante il lavoro. Tutto questo, che a voi potrebbe sembrare ovvio, a noi è costato anni di lotta».

Come descriverebbe la Chiesa cilena?
«Una volta arrivata la democrazia, si è fatta avanti l’idea che la Chiesa  non si dovesse immischiare in altre tematiche, se non quelle ad essa proprie. Diciamo che è rientrata nella sacrestia. Questo non vuol dire che la gente di Chiesa non si sporchi le mani, ma gli orientamenti generali sono diventati altri. Sono stati nominati vari vescovi dell’Opus Dei, ed altri “de bajo perfil”, come dicono qui. Ma altri – una minoranza, certo – hanno continuato con le proprie scelte. La “teologia della liberazione” è ancora valida e le comunitá di base esistono ancora. Sicuramente, questo non fa notizia, anche perché non costituisce il tragitto principale.
Attualmente sembra che ci sia però un risorgere delle posizioni profetiche della Chiesa. I temi scottanti sono, ad esempio, quelli connessi al diritto all’acqua: alcune grandi imprese minerarie stanno distruggendo e contaminando i ghiacciai (che alimentano fiumi essenziali per la vita delle valli), per estrarre oro, e questo al sud, come al nord del paese. Basta vedere il “progetto Pascua-Lama” per avere un’idea delle devastazioni.
E poi le condizioni di lavoro di cui parlavo prima, e il conflitto mapuche. Su questi temi abbiamo avuto vescovi che hanno alzato la voce, ma la copertura mediatica del governo è tale da gettare “nuvole di fumo” su tutto».

Con la vittoria di Piñera si è parlato di un ritorno del pinochetismo. Durante la dittatura, il generale Augusto Pinochet non perdeva occasione per ricordare la sua venerazione per la Madonna. All’epoca, come si comportò la Chiesa cilena?
«Durante la dittatura militare, la Chiesa cilena ha avuto un ruolo fondamentale. Ha rischiato moltissimo, salvando molte vite umane. Anche noi nascondevamo gente nel sottotetto della casa, aiutavamo a saltare il muro dell’ambasciata italiana, offrivamo spazi nelle parrocchie per le riunioni… Molti sono potuti uscire dal paese perché nascosti nella macchina del vescovo, o perché vestiti da prete o da suora… Abbiamo avuto preti ammazzati dalla dittatura, come per esempio Antres Jarlan, Juan Alsina. Altri sono stati prigionieri, torturati e espulsi… Molti teologi, suore, parroci, partecipavano al “Movimento contro la tortura Sebastian Azevedo”, con proteste, manifestazioni pubbliche… Insomma, qui non è successo come, ad esempio, avvenuto in Argentina o in Perú. Diversa è la situazione nei paesi del Centro America, dove la posizione della Chiesa è stata ancora più chiara».

Toiamo ai mapuche e ai minatori. I primi vogliono difendere i loro diritti di popolo indigeno, i secondi vogliono un lavoro sicuro e con un salario dignitoso. Che succederà?
«I diritti degli uni e degli altri sono giusti. È difficile dire ciò che succederà, perché per cambiare veramente bisogna volerlo, avere volontà politica e un senso di solidarietà che non ci sono. Con il governo della Bachelet, c’era la speranza che qualcosa potesse andare in questo senso, ma con Piñera assolutamente niente. È solo immagine. Lui è un grandisimo impresario che ha scelto i ministri tra i gerenti e amministratori delle sue imprese. Speriamo che il popolo si risvegli da questo letargo che la propaganda mediatica gli ha provocato. Quello che temiamo maggiormente è che il fossato tra i piú ricchi e i piú poveri si allarghi sempre di più».

A proposito di poveri e di lotte, nel 2008 lei è stata in carcere per aver scioperato a fianco dei raccoglitori d’uva…
«Sì, in piena raccolta, nell’unico sciopero riuscito, venne la polizia e caricò tutti, e tra i molti c’ero anch’io… Ci tennero varie ore in cella in commissariato con l’accusa di disordine pubblico, ma poi ci rilasciarono tutti. Inutile dire lo scandalo sui giornali e in televisione, perché era dal tempo della dittatura militare che non succedeva che mettessero dentro una suora. Ricordo che io rimasi sola in una cella per diverse ore. In quella situazione mi dissi che l’unico modo per resistere era la preghiera. Allora, visto che sulle pareti della cella c’era scritto di tutto e di più, a ricordo della gente che era passata da lì, mi dissi che anch’io potevo fare testimonianza per altri: cominciai a pregare scrivendo sulle pareti i salmi recitati a memoria, passi del Vangelo, riflessioni. Non so se le mie scritte siano state utili a qualcuno, ma a me servirono per superare una situazione emotivamente difficile».

La sua esperienza in fabbrica l’ha aiutata ad essere più vicina ai lavoratori?
«Il fatto di provenire da un ambiente operaio, mi ha fatto sentire sempre “un pesce nell’acqua” e ho potuto vivere, giornire, lottare e sperare come loro e con loro. Scoprire che il Volto di Gesù “nazareno”, quotidiano, comune, è come me, come loro, mi ha dato la chiave di lettura, d’interpretazione della vita della gente comune, specialmente dei piú poveri. In un rapporto di  evangelizzazione reciproca, perché Gesù ha scelto questa quotidianità per fare una proposta di vita per tutti. Io sono qui senza mai dimenticare il nostro carisma».

E allora qual è il vostro carisma, suor Donata?
«Accogliere e costruire i valori del Regno; amare gratuitamente di un amore rispettoso e delicato; vivere in comunità nella comunione delle differenze e dei beni; essere una presenza tra gli esclusi; condividere la vita con i più poveri. In poche parole, noi Piccole sorelle siamo chiamate a vivere nei luoghi di esclusione dove il dolore umano è di casa. Qui vogliamo annunciare un Dio misericordioso che ci accompagna con l’amore e la speranza».

Paolo Moiola

(1) Si veda: www.piccolesorelledigesu.it; www.hermanitasdejesus.org.
(2) Legge antiterrorismo 18.314.

Paolo Moiola




Antogo, rito «magico» della pesca

Mali, paese dogon. Nella regione di Mopti, quasi al confine con il Burkina Faso, si staglia la Falesia di Bandiagara: un impressionante costone di roccia lungo 200 km e alto tra i 200 e i 300 metri. Tra i suoi anfratti vi abitarono popoli antichi fin dal III e II secolo avanti Cristo. Fu poi, tredici secoli più tardi, il paese dei tellem. I dogon, invece, vi si stabilirono intorno al XII – XIII secolo. Dal 1989 è patrimonio mondiale dell’Unesco.
Nella parte Nord della Falesia si trova il villaggio di Bamba, uno dei più antichi della zona, dove, «da sempre», ovvero dall’insediamento dell’etnia dogon in questo pezzo magico del Mali, si celebra il «Rito della Pesca»: Antogo in lingua dogon.
Nei pressi di Bamba si trova un lago dalle piccole dimensioni, ma dal grande potere.
Soumaila Guindo è un anziano guaritore dogon, originario di Bamba, ora residente a Bandiagara, «capitale» del paese dogon, ubicata sull’altipiano. Anche grazie a lui cerchiamo di capire e scoprire il fascino di un rituale unico che abbiamo avuto la fortuna di osservare e ora raccontare, senza essere capaci di svelae tutta la magia.
Sabato, giorno di mercato a Bamba. Da sempre. Stessa ora, stesso giorno, stesso mistero. Ore 15 e 15, un caldo indescrivibile, il sole, anch’egli in festa, brucia nel cielo, regalando timide ombre a pochi fortunati. In coincidenza con il sesto mese della stagione secca (Aprile-Maggio), il consiglio dei saggi di Bamba si riunisce per fissare la data del rituale. Durante i primi tre giorni di mercato del mese – in occasione di ogni mercato – un bastone viene piantato nel lago, a indicare l’approssimarsi del rituale, che infine si celebra al sesto giorno. I tre bastoni fungono da segnale, che arriva a tutti i villaggi dogon della Falesia. Antogo si celebra solo una volta l’anno, mentre durante tutti gli altri giorni è proibita a chiunque la pesca nel lago sacro.

Nell’antichità, si dice, l’intera zona era rigogliosa e ricoperta di fitte foreste, ed il lago – le cui acque da subito furono considerate sacre e popolate da geni – offrivano pesci in abbondanza. Il giorno di Antogo centinaia e centinaia di dogon provenienti da ogni angolo della Falesia e non solo, si ritrovano presso il lago di Bamba, per la celebrazione. Una fitta coice nera e silenziosa si disegna attorno al lago: è composta di ragazzini, uomini e anziani poco vestiti, alcuni dei quali portano una sorta di nassa con la quale catturano i pesci. Le donne non possono partecipare al rituale, per loro avvicinarsi al lago è proibito. Esistono varie spiegazioni a questo veto, alcune verosimili, altre meno; la più realistica – in linea con altri aspetti della complessa cosmogonia dogon che confina la donna lontano dalle dimensioni ritualistiche e magiche – vuole la donna intrinsecamente impura per via del ciclo mestruale.
Attoo al lago si notano tre gruppi più folti, ciascuno dei quali composto dalle famiglie più importanti di varie zone: il gruppo più folto è quello delle famiglie di Bamba, che raccoglie 33 villaggi. Ciascun gruppo, in un mistico silenzio collettivo, pronuncia formule rituali e nomi delle famiglie. Chiudono il giro quelli di Bamba, che, all’improvviso, annunciano l’inizio del rituale.
La folla si riversa nel lago, eccitata, convulsa, estasiata. Lo specchio d’acqua ormai non si vede più: ha inizio una danza felice, armonica e fangosa. I dogon si prodigano con mani, bocca e piedi per catturare il maggior numero di pesci, che ripongono in un’apposita borsa a tracolla fatta di pelli. La danza prosegue caotica. Le acque sacre rendono impossibile ferirsi con i pesci, nessuna spina, nessun taglio nei piedi nudi o nelle mani, mai, da sempre. L’acqua color fango disegna volti e corpi: l’intensità del momento è palpabile. Nemmeno 30 minuti dopo l’inizio della pesca un colpo di fucile sparato in aria segna la fine del rito. Le acque del piccolo lago tornano a calmarsi, non vi è più traccia di pesci, solo qualche ragazzino ancora sonda le stanche acque nella vana ricerca di un superstite pinnato.    
I pesci verranno tutti raccolti e portati presso l’anziano di Bamba, per poi essere ripartiti equamente tra tutti gli abitanti. Il rito simboleggia la pace e la coesione tra i villaggi, l’assenza di conflitti e la condivisione dei frutti di un bene comune.
Antogo è un evento toccante e potente, ricco di magia, che faticosamente resiste ai flussi di turisti sempre più presenti, dei bianchi curiosi, che, con difficoltà, accettano la quasi assoluta impenetrabilità del mistero.   

Matteo Bertolino

Il Fotografo

Matteo Bertolino
Nato a Torino e laureato in Scienze Politiche, Matteo consegue un master in Studi sullo sviluppo. La curiosità verso il mondo lo condurrà a lavorare nel settore della cooperazione internazionale in quattro continenti. La passione per la fotografia cresce parallelamente nel corso delle esperienze all’estero, portandolo a specializzarsi nel «reportage sociale». Matteo si occupa inoltre di «comunicazione per lo sviluppo», documentando progetti di cooperazione e realizzando materiale informativo e di sensibilizzazione attraverso l’uso della fotografia. Tra le varie esperienze, ha curato e organizzato un’esposizione fotografica presso un museo internazionale di El Salvador (Marte), che ha visto la collaborazione di artisti italiani e salvadoregni. Come fotografo freelance, Matteo collabora oggi con riviste, agenzie fotografiche e associazioni. Attualmente lavora in Bolivia, dove sta sviluppando diversi progetti fotografici.
www.matteobertolino.com.

Matteo Bertolino




Attivarsi contro la tratta

La tratta di esseri umani è un’orrenda realtà

Mary e Scikò avevano sempre sognato di vedere il mondo. Ragazze adolescenti cresciute in una famiglia povera, avevano finito a stento le scuole primarie con il sogno di andare alla secondaria frustrato dalla povertà e dalla concorrenza dei fratelli maschi su cui le poche risorse della famiglia si erano concentrate. A loro era rimasto solo il lavoro nei campi.
Un giorno, tornando dal lavoro, le due furono accostate da un camionista che chiese loro informazioni: stava andando a Nairobi e non sapeva districarsi nel labirinto delle strade di campagna. Le ragazze accettarono di salire sul camion del simpatico autista, liete della novità, per guidarlo alla strada principale. Per passare il tempo lui raccontò loro di Nairobi, dei grattacieli, delle macchine veloci, dei grandi centri commerciali e di tante altre meraviglie. Le ragazze, affascinate, a loro volta raccontarono con un pizzico d’amarezza della loro vita da contadine e dei loro sogni infranti. L’autista si mostrò molto partecipe e comprensivo e, come per gioco, le invitò ad andare con lui nella grande città, anche subito: là, due ragazze sveglie come loro  avrebbero avuto un mare di possibilità, un buon lavoro, una bella paga e un futuro brillante. A Mary e Scikò sembrava di sognare, accettarono la proposta senza esitazione e andarono a Nairobi con il simpatico forestiero.

Città, fascino e trappola
Arrivate nella casa dell’autista benefattore a Nairobi, il suo atteggiamento cambiò: chiese a Scikò di dormire con lui e, al suo rifiuto, la violentò brutalmente. La mattina successiva consegnò Mary a un suo cugino, perchè ne divenisse la serva.
Mary, picchiata e violentata ogni giorno, iniziò a lavorare per l’uomo ribellarsi terrorizzata com’era dalla grande città con il suo rumore, la folla in continuo movimento, il correre dei matatu e il gran numero di macchine. Capiva ben poco della lingua parlata nella città, perché lo swahili parlato là era molto diverso da quello usato a casa, inonltre non conosceva nessuno e non sapeva a chi rivolgersi.
La sorte di Scikò fu anche peggiore. L’autista la tenne per sé fino a quando si trasferì in Uganda per lavoro, quando la cedette ad un suo amico, autista di matatu. Questi non solo la violentò regolarmente, ma le impose anche di soddisfare gli amici che invitava. In breve Scikò fu contagiata da malattie veneree. Cacciata senza pietà, abbandonata e senza mezzi di sussistenza, Scikò trovò rifugio presso una prostituta locale che, avendo pietà di lei, la introdusse nel mondo della prostituzione.
Quella di Scikò e Mary è una delle tante storie che accadono nelle aree rurali del Kenya o negli slum delle grandi città, senza il privilegio di finire sui giornali o nei gossip delle radio locali, che pure non sono indifferenti al problema.
In passato, in Kenya, si è anche parlato di bambini scomparsi, di matrimoni fasulli tra europei e ragazze locali sparite poi nel nulla in Occidente, di loschi traffici sulla costa, di turisti a caccia di bambini e bambine, di uomini malati di AIDS, africani, convinti che il sesso fatto con una vergine abbia proprietà terapeutiche.

Tante storie, tanti miti.
In Kenya abbondano i miti circa il traffico degli esseri umani. Purtroppo, questi non solo non descrivono il fenomeno adeguatamente, ma ne rendono la comprensione più difficile. La gente generalmente è portata a pensare che la tratta avvenga in qualche remota parte del mondo, lontano, manovrata da trafficanti e predatori bianchi, ma la realtà è ben diversa. Donne e bambini sono trafficati nelle città e nei villaggi del Kenya e questo spesso succede per opera di amici, conoscenti e perfino membri della famiglia. Sono trafficati verso l’estero, ma anche all’interno della nazione; viaggiano in aereo, in macchine e matatu, ricevono promesse di impieghi ben retribuiti e vita facile, ma finiscono sempre per essere sfruttati come prostitute o lavoratori forzati. Quel che importa è che essi, sia i trafficati che i trafficanti, sono i nostri cugini, fratelli, sorelle, vicini, amici: persone come noi.
Abbondano le storie terrificanti di uomini, donne e bambini sfruttati localmente o all’estero sia per la prostituzione che per il lavoro forzato o il trapianto di organi. Il traffico di esseri umani esiste e bisogna domandarsi: cosa si può e si deve fare per fermarlo? Esso non è un crimine come tutti gli altri. è molto di più e costituisce una seria minaccia al futuro dell’Africa e dell’intero continente africano. Il traffico di esseri umani tocca le persone e le famiglie sul vivo e distrugge delle risorse umane che non possono essere semplicemente ricostruite con gli aiuti dei paesi occidentali.
Attivarsi contro la tratta
Per questo un gruppo di persone interessate e preoccupate stanno cercando di mettersi insieme e formare un’organizzazione chiamata Awareness Against Human Trafficking – (Consapevolezza contro il traffico di umani). I membri fondatori contano missionari e missionarie cattolici, attivisti dei diritti umani di fede cristiana non e attivisti di giustizia e pace impegnati a promuovere pratiche di buon governo. L’idea di fondo è che insieme si può fare molto di più che da singoli individui. Lo scopo dell’agenzia che si sta formando è quello di sradicare, o almeno di ridurre significativamente il fenomeno della tratta in Kenya, anche se sembra un’impresa impossibile. Per farlo le Nazioni Unite e altre agenzie impegnate nel settore credono che la strada più efficace sia quella di creare consapevolezza in tutti quegli ambiti della società che possono essere più facilmente infiltrati dai trafficanti (per questo hanno pubblicato manuali ad hoc in molte lingue che mirano all’addestramento specifico della polizia, dei magistrati e di attivisti a livello di base, reperibili sull’internet nel sito internet dell’UNODOC, United Nations Office on Drugs and Crime, www.unodoc.org). Applicando questi stessi metodi, lo scopo dell’agenzia è quello di rendere i normali cittadini, la gente comune dei villaggi, insegnanti, operatori della salute e impiegati governativi, consapevoli di quello che la tratta è e non è, facendo conoscere i trucchi dei trafficanti, insegnando come fare per evitare di essere venduti in schiavitù e come sfuggie in caso di necessità. Pur di salvare la vita di persone, vale la spesa raccogliere la sfida.

UNA LOTTA SENZA TREGUA
C’è molto da fare per sradicare la tratta in Kenya. Il fenomeno deve essere affrontato in modo sistematico e scientifico perché la tratta è una realtà in continuo mutamento, che si adatta con incredibile rapidità al cambiare delle situazioni. I trafficanti imparano velocemente e usano sempre nuove tecniche, nuove rotte e nuove strategie per sfruttare gli altri. Così per stare al loro passo, gli attivisti anti-tratta devono tenersi aggioati e formarsi in modo permanente.
In questo contesto l’azione dei volontari si svolge su due fronti: formazione di attivisti sul territorio e realizzazione di un programma di assistenza e recupero delle vittime, la cui dignità e diritti umani sono stati violati e la cui salute fisica e psicologica è stata severamente compromessa. Per raggiungere lo scopo Haart lavora in collaborazione con tutte le forze già esistenti, tra cui Solwodi (Solidarity with Women in Distress) in Mombasa, un progetto diocesano attivo da molti anni in quell’area ad alto influsso turistico.
I volontari hanno già cominciato ad operare e lo scorso settembre hanno fatto il primo corso di formazione di animatori anti-tratta. Un gruppo di venti persone proveniente da tutti gli angoli del Kenya sono stati preparati su come organizzare campagne di sensibilizzazione sul territorio e su come raccogliere dati riguardanti casi di tratta. I volontari sono stati reclutati sia a livello di base che tra persone con delle sociali o governative. Dopo il corso ora lavorano in gruppi di tre volontari nelle proprie zone per far conoscere i danni causati dalla tratta e documentare storie di vittime. Presto a questo primo nucleo si aggiungeranno altri volontari da altre regioni del Paese per estendere il più possibile la rete degli attivisti.
IL FUTURO A RISCHIO
La tratta degli schiavi ha segnato l’Africa profondamente, e le conseguenze sono ancora visibili oggi perché la condizione della donna, soprattutto nel suo ruolo di soggetto principale dei lavoro nei campi, sarebbe certamente diversa se la tratta non fosse mai esistita. Mentre l’Africa sta tentando a fatica di lasciarsi alle spalle le conseguenze di quella tragedia, ecco che la nuova tratta di esseri umani mette a rischio il futuro stesso del continente, soprattutto il futuro delle donne. La nuova tratta, anche se apparentemente condotta con il consenso delle persone trafficate, ma non per questo meno violenta e disumana, può avere delle conseguenze ancora più gravi di quella passata. Solo il suo totale sradicamento può fare sì che il prossimo decennio sia davvero quello della donna africana. Per ottenere questo c’è ancora molto lavoro da fare.

Radek Malinowski
è un gesuita polacco ed è uno dei promotori della nuova agenzia contro la tratta nell’Africa dell’Est.
(Il testo è stato tradotto e adattato da Gigi Anataloni)

Radek Malinowski




Le mani nelle urne

Reportage: al voto la perla delle Antille

Sull’isola caraibica anche le elezioni sono imposte dalla comunità internazionale. Sebbene non ci siano le condizioni per realizzarle. Così, tra la mancanza di documenti di identità, liste di votanti incomplete e seggi improvvisati, si consumano, senza quasi elettori, le consultazioni farsa volute (e pagate) da Onu e Unione europea. Per un governo stabile e gestibile.

La mattina di domenica 28 novembre, Port-au-Prince sembra un’altra città. Non c’è il terribile traffico di ogni giorno, le strade sono quasi deserte, l’ordinanza per le elezioni prevede il blocco del traffico, possono circolare solo veicoli autorizzati e tap-tap, i mezzi di trasporto locale. Molta gente cammina.
Da due mesi, le strade della capitale hanno iniziato a tingersi di colori, di volti e di numeri. A poco a poco, i muri non erano piu sufficienti, così i manifesti appena usciti di stampa venivano affissi su altri manifesti, collocati qualche giorno prima. Al 26 di Novembre, ultimo giorno di campagna elettorale, si constata che non solo gli spazi pubblici classici sono stati invasi ma anche altri mezzi di propaganda piu modei sono stati messi in azione, dai messaggi sui cellullari agli annunci via facebook. La campagna elettorale ad Haiti è stata intensa, vivace e soprattutto, mediatica. La stampa locale ha parlato di «americanizzazione» della campagna o di «guerra di immagine», ovvero di una propaganda fatta di poster e striscioni invece che di messaggi chiari e dibattiti sul contenuto dei programmi di azione di ciascun candidato. Il motivo di fondo è che i principali candidati non hanno programmi politici chiari, ma hanno slogan, bei sorrisi, camioncini che diffondono musica e uomini cartello in maschera che girano per le strade.

Paura del colera

Più che  dai numeri dei 19 candidati alla presidenza e dei 66 partiti politici in corsa per le elezioni presidenziali e legislative, i mesi di ottobre e novembre ad Haiti, sono stati segnati da cifre ben più spaventose, che contavano, giorno dopo giorno, l’aumentare dei morti per colera.
Le stesse organizzazioni umanitarie del settore sanitario affermano che nessuno riesce a fornire dati aggioati e costanti sul numero delle vittime e dei ricoverati. I nuovi casi aumentano in tutto il paese, ormai i 10 Dipartimenti sono stati toccati. L’epidemia è arrivata in capitale, dove a un anno dal terremoto,  sotto le tende di oltre 1.200 campi di sfollati, vivono in condizioni precarie oltre 1.3 milioni di persone. Al 25 di novembre il numero di decessi per colera, secondo il rapporto del ministero della Salute pubblica e della Popolazione,  ha raggiunto quota 1.603 mentre in 30.000 hanno contratto la malattia.
Su una cosa però concordano gli esperti in epidemologia, inviati da vari paesi e istituzioni: la diffusione del colera ad Haiti continuerà a crescere nei prossimi sei mesi e si prevede toccherà 200.000 persone.

Impossibile votare

«Vivo in questa tendopoli dal 12 di gennaio 2010, ho la mia carta d’identità, ma il mio nome non è sull’elenco per poter votare. Perché?». Incontriamo Marie Carole il giorno del voto davanti al seggio allestito in una tenda presso il campo degli sfollati dedicato a Jean-Marie Vincent (padre confortano ucciso durante la dittatura di Raoul Cédras, ndr) a Port-au-Prince, nei pressi di Carrefour Aviation. Nel campo vivono circa 40.000 persone, ma sulle liste per votare appaiono poche centinaia di elettori. È uno dei due seggi monitorati dai carabinieri del colonnello Mangialavori, che ringraziamo per la disponibilità.
Un giovane rappresentante del seggio cerca i nomi sull’elenco all’ingresso della tenda e la sua risposta è sempre la stessa: «Mi spiace, il suo nome non c’è, non può votare».
Davanti sono dislocate le «forze di pace», i caschi blu dell’Onu, in assetto da combattimento, per garantire il «regolare svolgimento delle elezioni». Sono i militari della Minustah, Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione di Haiti, presenti nel paese dal 2004. Si susseguono le visite di giornalisti stranieri che accendono le telecamere, incitano la folla a fare un poco di chiasso per avere le immagini giuste per le news della sera, e se ne vanno.
A un certo punto arriva una macchina, un uomo con occhiali da sole scende e distribuisce poster e volantini del candidato Michel Martelly. I giovani del campo si infiammano, invocano il nome del cantante, la campagna elettorale sembra non essersi chiusa.
Chiediamo agli ufficiali del seggio quanta gente ha votato e non ci sanno rispondere, ma le ue si vedono piuttosto vuote. Non sanno dirci cosa faranno delle schede non utilizzate.

Pochi elettori molte frodi

Alla sera del 28 novembre, mentre gli elicotteri della Minustah sorvolano incessantemente Port-au-Prince per sorvegliare le manifestazioni nelle strade, i rapporti degli osservatori e dei media concordano nel dichiarare una partecipazione molto bassa e brogli evidenti. Come le liste elettorali parziali, prive dei nomi di molti elettori ma che spesso includono nomi di defunti, persone che hanno votato più volte, irregolarità nella presenza dei rappresentanti dei partiti, intimidazioni. Neanche il candidato Jude Célestin ha trovato il suo nome iscritto nel registro dei votanti, ma lui, a differenza di Marie Carole, è riuscito lo stesso a votare, attraverso firmando un documento.
Ancora prima della chiusura dei seggi, 12 candidati alla presidenza, inclusi Mirlande Manigat e Martelly, chiedono l’annullamento dello scrutino per brogli e invitano la stampa internazionale a denunciare gli eventi. Il bilancio a fine giornata è di 4 morti e manifestazioni di protesta in varie zone del paese.
Bisognerà attendere oltre una settimana prima che i risultati dei conteggi ufficiali, svolti nel dibattuto Centro di tabulazione, vengano resi noti e nel frattempo può succedere di tutto. Lo scenario è aperto anche a un possibile secondo tuo nel caso in cui nessun candidato non abbia raggiunto la maggioranza assoluta.

Un presidente legittimo?

Georges, 37 anni, autista, ha una certezza: «Queste elezioni non cambieranno nulla per gente come me, non sono le prime votazioni che vengono organizzate ad Haiti, ma ogni nuovo presidente, una volta in carica, si rivela un bandito. Sono tutti banditi, chi più chi meno. Ha votato per il cantante, almeno lui non è un politico di professione».
Le elezioni di un nuovo presidente sono state spinte dalla comunità internazionale, anche se le condizioni di base per svolgere un processo trasparente e democratico non erano presenti.
La percezione che si ha dalla gente è di grande frustrazione: un nuovo presidente, 99 deputati e 11 senatori, eletti in modo legittimo o illegittimo, non cambieranno la situazione. Il paese continuerà ad affidarsi ad altri attori inteazionali, alle Ong, alle congregazioni religiose, alle Nazioni Unite per cercare di risolvere i problemi.

Chi ha voluto le elezioni

La Delegazione della Commisione europea, la Minustah, l’ambasciatore americano ad Haiti, il rappresentante della missione di monitoraggio elettorale Osa – Caricom, Colin Granderson (Organizzazione degli stati americani e Comunità caraibica): tutti, in diverse conferenze stampa svoltesi nella settimana pre-elettorale, hanno espresso il loro supporto allo svolgersi delle elezioni nella data stabilita e hanno esortato il popolo haitiano a partecipare in massa e pacificamente al voto.
La comunità internazionale, che da subito dopo il terremoto ha spinto per pianificare le elezioni come da programma – il mandato di del presidente Préval scade il 7 febbraio 2011 – ha finanziato ampiamente la consultazione elettorale con 29 milioni di dollari.
Kenneth Merten, ambasciatore Usa ad Haiti, sottolinea: «Non ci sarebbe alcun beneficio a rimandare le elezioni, come alcuni candidati hanno richiesto. Gli Stati Uniti contano su questo voto per avere dei partner in Haiti capaci di prendere decisioni chiave per lo sviluppo del paese».
Per l’Unione europea, che ha sborsato per le elezioni 7 milioni di euro, tutto era pronto perché il processo elettorale si svolgesse in modo regolare: «Haiti ha bisogno di stabilità politica» ha spiegato Lut Fabert, rappresentante Ue ad Haiti. «Siamo in piena fase di ricostruzione di un paese e abbiamo bisogno di un governo capace di gestire la situazione».
Erano previsti 5.500 osservatori elettorali, tra nazionali e inteazionali e la Minustah ha lanciato dal 19 novembre l’«Operazione Bonjour», per favorire un clima di sicurezza, con pattugliamenti costanti e capillari nel paese, al fine di rassicurare gli elettori e contrastare il clima di violenza, che secondo i caschi blu, è stato fomentato da alcuni attori che usano la paura per boicottare il processo elettorale. L’Onu, oltre a 5.082 militari, schiera 3.000 agenti di polizia internazionale, ai quali si aggiungono oltre 4.000 poliziotti haitiani.
Tra chi invece non sostiene le elezioni spicca la storica organizzazione contadina Tet Kole ti Peyizan Ayisien (Unione dei piccoli contadini haitiani). Sostengono che le elezioni sono state organizzate e volute dalla comunità internazionale e dal governo in carica con lo scopo di piazzare il loro candidato che difenda i loro interessi: «Le elezioni si svolgeranno in un quadro di governo subalterno a delle forze di occupazione straniere». Dichiarava l’organizzazione a due settimane dal voto.

Candidati originali

Dei 19 candidati iniziali iscritti per la corsa alla presidenza, ne spiccano tre che i sondaggi pre-elettorali davano favoriti. Molti dei candidati, una volta ricevuti i finanziamenti statali che gli spettavano, 2 milioni di gourdes – circa 50.000 dollari – per organizzare la campagna, sono spariti; tanto, di quei fondi non devono rendere conto a nessuno.
Mirlande Manigat, già parlamentare e prima dama nel 1988, quando suo marito, Leslie Manigat, fu eletto presidente e rovesciato 4 mesi dopo. In testa ai sondaggi con il 30% dei voti, è costituzionalista e vice rettrice dell’Università Quisqueya. I Manigat fondarono il partito Rdnp (Raggruppamento dei democratici nazionali progressisti). Mirlande rappresenterebbe la rottura con il passato di Préval, ma se eletta, dovrà scendere a molti compromessi. Dal momento che Rdnp non ha candidati né al Senato né alla Camera, non avrebbe una maggioranza in parlamento per sostenerla. Ha però tessuto alleanze con vari gruppi, come il Collettivo per il rinnovamento haitiano (Coreh), il Gruppo 77 e altri. Anche la sua campagna è stata marcata da messaggi mediatici forti, da cartelli imponenti e dall’utilizzo di Facebook: «siamo tutti d’accordo» è il suo slogan.
Jude Célestin è il candidato supportato dal Goveo in carica, delfino, nonché cognato di Préval; ha 48 anni, ingegnere, nessun passato politico. Capo del dipartimento dei lavori pubblici, deve rendere conto solo al presidente. Il suo partito è Inite (Unità, in creolo) fondato da Préval a fine 2009, il suo slogan è «100% Haiti», il colore è il giallo, di cui ha tappezzato le città; lo stesso colore delle migliaia di t-shirt che sono state regalate nella campagna. Ha spesso collegato la sua propaganda al programma Cash for work (soldi per lavoro) sostenuto dal governo, per creare impiego tra gli sfollati vittime del terremoto. Célestin, in caso di vittoria, avrebbe l’appoggio di una maggioranza quasi sicura in parlamento. Gareggiano infatti per Inite anche 92 candidati (su 816) alla camera dei deputati e 11 (su 96) per il senato.
Michel Martelly «Sweet Mickey» è la grande sorpresa di queste elezioni. Non ha nessun passato politico, è un cantante controverso che ha vissuto diversi anni negli Stati Uniti. Nelle piazze ha attirato grandi folle ed è stato in grado di usare mezzi di comunicazione innovativi, come la chiamata automatica a tutti i numeri di cellulare delle due più grosse compagnie di telefonia mobili. I giovani hanno votato per Micky, come ci conferma Evienne, studentessa di Petion Ville di 19 anni.

Confusione sui registri

Malgrado le dichiarazioni dei rappresentanti della comunità internazionale, problemi evidenti nell’organizzazione di elezioni regolari e trasparenti vengono riscontrati e denunciati dalla società civile: l’Oni (Office National d’Identification), istituzione incaricata di distribuire oltre 411.000 nuove carte d’identità (necessarie anche per votare), si ritrova al giorno prima del voto con lunge file di gente in attesa davanti ai suoi uffici. L’Oni sembra aver sottostimato il suo incarico e molti haitiani non hanno potuto votare perché non in possesso  della carta d’identità. Questo è il sentimento comune a Petion Ville, dove la gente in coda dalle 4 del mattino, spesso non riusciva a ritirare la carta.
La lista elettorale conta 4.7 milioni di registrati ma anche su questo dato ci sono informazioni discrepanti. Infatti, tra l’elenco pubblicato dal Consiglio elettorale provvisorio (Cep) e quella dell’Oni c’è una differenza di 71.030 elettori.
Il Cep ha aggiunto ulteriore confusione pubblicando una lista di seggi all’ultimo minuto, includendone diversi nuovi, anche molto distanti da dove gli elettori andavano normalmente a votare. Inoltre parecchi nuovi seggi sono stati creati volutamente in zone di forte influenza di determinati candidati. Il Cep ha operato, a sua discrezione, anche una serie di sostituzioni dei supervisori e dei membri dei seggi, che secondo la legge elettorale dovevano essere tirati a sorte da elenchi foiti dai partiti 60 giorni prima del voto.
Solomon, haitiano, ha studiato a Cuba e oggi lavora per una Ong internazionale. Lui non è andato a votare, perché: «Il voto truccato e l’elezione di un candidato già scelto dalla comunità internazionale e dalla classe dominante non risponde a ciò di cui ha bisogno Haiti».

Ermina Martini

Ermina Martini




Fratel Cico e il suo camioncino

In Roraima tra siccità e piogge abondanti

Fratel Francesco Bruno detto Cico, classe 1946 da Pinerolo, è in Roraima da molti anni. Dalla missione di Camarà, ben a nord di Boa Vista verso i confini con la Guiana, ha mandato messaggi agli amici durante tutto il 2010. Ve ne presentiamo qui degli stralci che fotografano la vita missionaria dal vivo con straordinaria freschezza.

4 marzo 2010
Sono a Boa Vista da tre giorni per partecipare all’incontro di pastorale indigenista (con tutti i missionari che lavorano con gli indigeni) e oltre a star seduti tutto il giorno e sentire tante parole, non ci sono molte novità di rilievo.
Due sono i problemi preoccupanti. In primo luogo la siccità che perdura da parecchi mesi e certamente sarà la causa di fame in molti villaggi, visto persino molte piante da frutta molto resistenti alla siccità, sono morte. Se continua così ancora un mese, in molti villaggi non ci sarà nemmeno acqua per bere, altro che piantare e coltivare.
In secondo luogo c’è la campagna elettorale in pieno svolgimento (deputati, senatori) a livello statale e federale. Per facilitare la campagna elettorale non esiste nessun controllo su quelli che entrano nelle riserve indigene a caccia di voti o per altre finalità e con molte promesse, mentre continuano le pressioni, calunnie e controlli contro missionari e chiesa in genere.
Noi missionari, abbiamo esaminato e riflettuto circa il nostro lavoro di evangelizzazione con gli indigeni, e abbiamo deciso di fare un triennio di studio e formazione, sia tra di noi, sia con gli indigeni, anche per fare un piano in comune, tenendo presenti le differenze regionali, statali e federali (il Brasile è grande!), altrimenti si continua con iniziative locali e personali che finiscono quando cambia il missionario, e questo succede sovente, con relative perplessità e difficoltà per i catechisti e collaboratori e la gente in generale.
Intanto io continuo a visitare i villaggi e rimango di media due giorni per villaggio e piano, piano comincio a conoscere la geografia e la gente molto simpatica e cordiale, e cerco di ascoltare e poi rispondere alle loro molte richieste. Le strade non esistono, ma ci sono dei sentirneri praticabili e si può passare in qualsiasi posto (compresi pantani, laghi e torrenti) grazie alla siccità. Fino a quando non piove si va in giro, accompagnati da molta polvere e bel sole caldo. Potete immaginare il tipo di “strada” visto che per andare in un villaggio a circa 40 km, ho impiegato due ore con la moto da cross.
Sono pure stato in giro a visitare i laghi, i pochi che non si sono prosciugati, assieme a un tecnico per vedere le possibilità di allevare pesci e le prospettive sembrano buone. Il progetto serve sia per creare sicurezza alimentare, sia in un futuro ancor lontano, per avere fonti di sostentamento economico.
23 marzo 2010
Tanti Cordiali auguri di Buona Pasqua! Da ieri sono a Boa Vista per aggiustare il camioncino, fare commissioni e se va tutto bene, domani ritorno alla missione e soliti giri e visite nei villaggi. Non ci sono grandi novità, la siccità perdura, ma in qualche parte di Roraima comincia a piovere e speriamo che almeno per Pasqua piova, altrimenti saranno guai seri per la popolazione.
12 aprile 2010
Finalmente è caduta la pioggia, due volte per un ora e la speranza per la gente che abita quella regione, è ritornata. Gli agricoltori però devono aspettare qualche giorno per seminare o piantare, altrimenti gli insetti vari che nascono con la pioggia, mangiano tutte le pianticelle appena nate e si moltiplicano, mentre se nascono e non trovano niente da mangiare, non si sviluppano a milioni.
2 Maggio 2010
La siccità è finita e in cambio adesso abbiamo acqua e pantani nella strada e i viaggi sono diventati più difficili e per alcuni villaggi impossibili. Piove quasi tutti i giorni. Tutto è verde, eccetto le macchie rosso-marrone delle piante morte per la siccità.
Il camioncino continua a darmi problemi, ho dovuto cambiare il filo dell’acceleratore e sbloccare i cilindretti dei freni, che erano arrugginiti. Intanto ho fatto circa 2.000 km in un mese, per visitare i villaggi e per organizzare l’allevamento pesci.
Nella missione manca spesso l’acqua (per fortuna piove e abbiamo acqua piovana) e sono pure stato dove c’è la presa d’acqua in due sorgenti diverse e ci vuole circa un ora di cammino in dura salita tra buchi e enormi sassi. Ho pulito dalla sabbia e foglie i piccoli bacini delle prese e messo una protezione, ma l’acqua non è arrivata. Il motivo è che i tubi, mal connessi, non sopportano il peso e si rompono o staccano. Non ho misurato bene, ma penso che siano almeno 10 km di tubi di cui almeno 2 km scoperti e bruciacchiati dal fuoco, e per risolvere il problema si dovrà sostituirli con quelli di ferro, resistenti alla pressione e al fuoco.
Per l’allevamento pesci, abbiamo già messo due gabbie speciali per mettere un migliaio di pesci di qualità in ciascuna, e ne stiamo preparando altre tre, delle cinque che abbiamo trovato abbandonate e praticamente ricuperato con poche spese. La prossima settimana un tecnico che ha promesso i pesci gratis, li porterà nel lago, e i pesci rimarranno nelle gabbie fino a raggiungere una dimensione tale da potersi difendere dai predatori.
Ho partecipato ai “festeggiamenti e commemorazioni” per la liberazione della terra indigena, nel villaggio di Camarà, dove molti testimoni hanno raccontato le violenze subite e i vari passi per raggiungere il riconoscimento, da parte del governo e degli invasori, che la terra di questa regione era ed è degli abitanti indigeni da sempre.
18 maggio 2010
Sono appena arrivato a Boa Vista dalla missione, e sinceramente in vari momenti del viaggio, pensavo di non arrivare oggi a causa dei ponti rotti, allagamenti, traghetto precario e pantani vari. Con le piogge i disagi per i viaggi aumentano ogni giorno, ma nonostante questo, sono stato in 4 villaggi dove la gente ha partecipato attivamente alle riunioni e funzioni.
Nelle riunioni si è parlato dei problemi locali ed eventuali soluzioni, specialmente in campo religioso, sociale e anche economico. In campo politico si deve avere molta pazienza, perché la gente, stanca degli inganni dai vari politicanti di tuo, è allergica parlare di politica, anche di quella vera che riguarda il bene comune.
Acqua, energia elettrica e strade sono praticamente inesistenti, e poi occorre pensare e stimolare la gente ad allevare animali e bestiame e anche prodotti agricoli, visto che caccia e pesca sono due attività millenari in estinzione, ma la grande difficoltà e passare da cacciatori pescatori, a coltivatori e allevatori.
Non ci sono telefoni, TV, giornali e cose simili, ma io non ne sento la mancanza, e anche il vitto non è molto vario (riso, fagioli, carne o pesce) quando c’è e quando non c’è va bene lo stesso, cosi non ci sono problemi di cure dimagranti.
4 giugno 2010
Sono stato in Lethem, Guiana per un incontro tra missionari, catechisti e tre vescovi delle tre diocesi che confinano tra Venezuela, Brasile e Guiana. Circa 50 persone per tentare di fare un lavoro di evangelizzazione insieme.
Inutile dire che ha piovuto tutto il tempo, e forte.
18 giugno 2010
Sono appena arrivato (a Boa Vista, da dove posso collegrami all’internet) dopo un viaggio “allucinante” di 250 km con pioggia, pantani, allagamenti, torrenti in piena, ponti pericolanti, crateri e buche di varie dimensioni. Il fatto è che lunedì 14 ho tentato di passare su quello che restava di un ponte e sono rimasto bloccato e in bilico con una ruota sul vuoto. Ho faticato tutta la mattina per uscire, ma ce l’ho fatta solo grazie all’aiuto di p. Carlos (Alarcon che con p. Samuel Wachira e fratel Cico formano gruppo missionario di Camarà) che col suo camioncino ha letteralmente trascinato fuori il mio. Se cadeva nell’acqua potevo dire addio al mio vecchio e utile camioncino. Sono comunqeu riuscito a ripartire nel pomeriggio.
Chi mi ha visto appena arrivato, ha detto che ero sconvolto, stravolto e sfigurato. La tecnica impiegata per superare i pantani è questa: prima di passare con l’automezzo, scendo e, a piedi nudi, attraverso il pantano per sentire se il fondo è solido e se ci sono buchi o solchi profondi, e poi se è possibile passo, altrimenti cerco un’alternativa… che non sempre esiste. Purtroppo dalla strada principale (quella descritta prima) alla missione sono 19 km e ogni giorno aumentano i buchi e solchi, lasciati da altri mezzi pesanti, e lunedì mattina ho impiegato tutto il mattino nei vari sondaggi coi piedi, per percorrere i 19 km.
É pure caduto un tirante dello sterzo, ma per fortuna in un tratto di sabbia compatta e non in un pantano, così ho potuto rimettere il pezzo avariato in posizione (provvisoria) senza fare un bagno nella melma. Si è pure rotto un pezzo del motorino di avviamento (uno di quelli fissi che non dovrebbe mai rompersi) ed è già la terza volta di quest’anno che riparo il motorino di avviamento, sempre per motivi e guasti diversi.
Nonostante questo, il lavoro continua, ho visitato tre villaggi, per la preparazione al battesimo e alla prima comunione. Il metodo, oltre che parlare, richiede l’impiego di canti, dinamiche e giochi di prestigio, celebrazioni e, alla sera, proiezioni di filmati sulla Bibbia più cartoni animati.
29 agosto 2010
Le cose che abbondano in questi ultimi 5 mesi sono: pioggia, zanzare e moscerini vari, giorno e notte. Sto per perdere la pazienza per causa dei tre motivi di cui sopra e anche per la strada impraticabile. La gente semplice, forse abituata a questo, è sempre sorridente, e francamente l’ ammiro molto. Inutile dire che aspetto con ansia che smetta un po’ di piovere e che le strade siano meno popolate da pantani e acquitrini, e che si possa transitare senza traumi…
Anche i canditati (siamo in piena campagna elettorale) tentano di passare e visitare i villaggi in cerca di voti (anche se sarebbe proibito per loro entrare in aree indigene), ma nessuno, e dico nessuno, si muove per aggiustare la strada. Io sono l’unica eccezione: quando vedo pietroni e pietre, li carico sul camioncino e li scarico nei buchi della strada. sono solo gocce in un oceano e mi ci vorrebbe una pala meccanica e un camion ribaltabile… altro cha a mano. Abbiamo cancellato vari incontri e visite a causa della pioggia e della strada intransitabile.
Una buona notizia è che il gruppo di amici del Co.Ro. di Torino (Coordinamento Roraima), ha approvato e finanziato tre progetti per questa regione, uno è la sostituzione dei tubi dell’acquedotto del villaggio di Camarà e due per allevamento pesci e bestiame gestito dai catechisti della regione.
24 settembre 2010
Sono stato alcuni giorni alla sede della missione, dopo quasi due mesi passati altrove, per causa della strada intransitabile. Ho fatto circa 300 km per evitare pantani, torrenti e ponti pericolanti, ma sono arrivato. È inutile dire che il cortile era invaso dalle erbacce e foglie. Ho fatto un po’ di pulizia. Ho dovuto riparare il tosaerba e il generatore di corrente elettrica, e anche il piccolo mulino del villaggio, che non funzionavano bene e ci faceva tribolare.
Nel villaggio di Camarà, ho visitato la scuola, con relativi giochi di prestigio e animazione vocazionale, e abbiamo anche celebrato con la comunità e pregato. Soltanto l’ultimo giorno della permanenza nel villaggio è arrivata un po’ d’acqua dai rubinetti, ma io avevo messo tutti i recipienti che avevo sotto le grondaie, e siccome piove ancora molto, ne ho avuto a sufficienza per il bagno, per bere e fare il bucato.
Abbiamo già contrattato un camion per portare i tubi di ferro per l’acquedotto di Camarà e anche quelli di cemento per fare il pozzo a san Pedro, e l’autista mi ha assicurato che li porterà in ottobre se la strada sarà praticabile…
L’ allevamento pesci funziona bene, anche se ci si arriva al lago solo a piedi o a cavallo. Appena possibile, metteremo pesci nel secondo lago; intanto nel primo lago i pesci crescono bene. Alcuni catechisti passano giorni sul posto, per aiutare a mettere il mangime che purtroppo dobbiamo comprare, perché il raccolto cereali è in ritardo a causa pioggia eccessiva.
Sono stato in un villaggio, per dei battesimi con padre Carlos. Nello stesso villaggio ho pure aiutato a fare il recinto per un allevamento di pecore.
Ancora una notizia triste. È morto a causa di un fulmine, il figlio del cornordinatore dei catechisti. Il giovane era in visita da suo fratello, che abita in un altro villaggio. Ho ho saputo la notizia della disgrazia solo due giorni dopo, e pensare che ero passato là appena un’ora prima.
Nel villaggio di Sete Estrelas un temporale ha distrutto completamente la cappella, e della scuola è rimasto solo il tetto pericolate.
La strada più breve per raggiungere la missione, per quel che ho potuto osservare, è quasi praticabile e il livello medio dell’acqua è sceso di circa 40 centimetri, per cui dove prima erano 50 centimetri adesso sono solo 10. Nelle regione pianeggiante alcuni lunghi tratti sono ancora impraticabili, invasi da oltre un metro di acqua, e se ci sono, si prendono scorciatornie e o alternative, oppure si aspetta il tempo necessario per il defluire dell’acqua, con molta pazienza.
Intanto fino al 3 ottobre, continua la campagna elettorale, e poi ci vorrà magari fino a dicembre per i vari leaderes indigeni rimettersi dalle illusioni e risultati elettorali negativi, e tutto il resto passa in secondo piano.
31 ottobre 2010
Ottobre, mese missionario, l’ho trascorso quasi sempre in giro nei villaggi, per varie feste patronali, battesimi, un incontro di catechisti e per altri impegni vari. Tra questi c’è stata anche un assemblea diocesana per studiare il tema della campagna della frateità del 2011 sul tema: «Frateità e la vita nel pianeta Terra», più un incontro con i missionari che lavorano nelle comunità indigene. In alcune di queste attività, mi hanno aiutato padre Carlos Eduardo e Suor Alda Raffaella.
Si può anche affermare che gli ultimi sei mesi sono stati caratterizzati da piogge abbondanti, e ancora più abbondante propaganda elettorale, con relativa delusione visto che nessun candidato indigeno o dei poveri è stato eletto, solo i più grandi nemici degli indigeni. Oggi termina il secondo tuo di votazione, per il presidente della repubblica e per i governatori, che non hanno raggiunto la maggioranza il primo tuo al tre ottobre. La gente semplice, distratta dalle promesse elettorali e da comizi di tutti i tipi, anche nelle comunità indigene, dimentica letteralmente i suoi diritti e i suoi doveri e anche di coltivare e allevare.
Ho passato molti momenti felici con persone semplici, che raccontano tante cose interessanti della loro vita, tradizioni e modo di vedere il mondo e anche storie di popoli estinti ma che alcuni di loro hanno conosciuto.
21 novembre 2010
Si può davvero dire che quest’anno è stato caratterizzato e condizionato da due elementi: primo, la pioggia che continua ad ostacolare viaggi e programmi, e, secondo, la campagna elettorale con tantissime feste e riunioni organizzate dai candidati e loro leccapiedi per guadagnare voti. Un anno disastroso per gli indigeni. Nessuno dei  loro candidati ha ottenuto voti sufficienti per essere eletto, così per altri quattro anni si continuerà con la stessa musica. La sola cosa positiva è stata l’elezione della nuova Presidente, che ha vinto nonostante tutte le campagne di calunnie contro di lei, organizzate dai potenti che vorrebbero ritornare al governo e affossare il processo democratico in corso nel Brasile. Gli indigeni sono delusi, smarriti, confusi e divisi a causa del processo elettorale estremamente violento, disonesto e corrotto.
Per noi missionari, non è facile mantenere una posizione serena e aiutarli a disceere le cose veramente utili e importanti per la loro vita e per le loro comunità. Ci sono anche motivi di speranza, molti catechisti e alcuni leaderes sono veramente impegnati e vale la pena aiutarli e sostenerli nella loro difficile missione.
Adesso vi descrivo alcuni giorni, per avere un idea di come le cose «vanno e non vanno» da queste parti.
Lunedì 8/11 viaggio verso la missione di Camarà, in compagnia di suor Alda Raffaella, su una strada molto difficile, data la forte pioggia del sabato precedente. Il traghetto è guasto ma con l’ultimo viaggio prima di essere riparato, ci trasporta alla sponda opposta e continuiamo il viaggio.
Martedì prendo la moto e vado in un villaggio a circa 20 km per confermare che ci sarà un assemblea di catechisti e leaderes. è il solito viaggio tra pietre, sabbia, melma e acquitrini. Al pomeriggio passo in un altro villaggio per riparare il generatore di corrente che non funziona, e al primo bullone mi scappa la chiave e buco carne e unghia del pollice.
Mercoledì riparto con la moto e, dopo circa 20 km, mentre viaggio spensierato in quinta marcia per un sentirnero battuto da biciclette, prendo una buca, sbando e faccio un bel ruzzolone e, per fortuna, cado sullo zainetto pieno di chiavi e attrezzi e mi rompo una costola. Non vi dico la fatica per rialzare la moto e riprendere il viaggio. La sera, dopo 12 ore di viaggio e 180 km, sono di ritorno alla missione avendo consegnato l’invito ai catechisti e leaderes di oltre metà dei villaggi della regione invitandoli all’assemblea mensile che si terrà nel villaggio di san Francesco. Giovedì pomeriggio, col camioncino carico del materiale necessario per l’incontro, continuo il giro per consegnare gli inviti negli altri villaggi, sempre cambiando marcia e guidando con la mano sinistra, visto che il braccio destro è quasi inutilizzabile. A notte decido di dormire in un villaggio e riprendere il viaggio l’indomani. Verso mezzanotte inizia a piovere, cosi nel viaggio di ritorno alla missione, 80 km, tutto sotto la pioggia e nella melma, impiego due ore solo per fare gli ultimi 15 km completamente allagati.
Sabato preghiera con la comunità di Camarà per festeggiare la SS. Consolata e le suore della Consolata che compiono 100 anni dalla loro fondazione. Dopo pranzo il sonnellino è interrotto bruscamente da una chiamata urgente: il camion che sta portando i tubi per l’acquedotto di Camarà è rimasto impantanato. Non vi dico la tortura del viaggio con la mia costola incrinata. Risultato: i tubi sono sul posto e adesso occorre aspettare che la comunità di Camarà trovi il tempo per collocarli al loro posto, hanno molti lavori in programma e anch’io non ho molto tempo disponibile per questo lavoro. Penso proprio che fino al prossimo anno dovremo continuare a fare il bagno con un mezzo secchio d’acqua.
Domenica 14/11 andiamo in un altro villaggio per pregare e esporre il quadro della Consolata, e al pomeriggio riporto la suora Alda a casa sua in Normandia (quasi al confine con la Guiana).
Lunedì riparto alle 6,30 e passo con il camioncino a raccogliere i catechisti e leaderes nei punti prestabiliti. Rientro alle sei di sera, molti non si sono presentati con scuse varie, ma poi sono arrivati con altri mezzi di fortuna…
Martedì, il cornordinatore dei catechisti da inizio all’assemblea tra preghiere, canti e procede intensa  con relazioni di tutti i presenti, esame della campagna elettorale e discussioni varie sul cosa fare e come fare per il 2011. Tra il resto hanno confermato l’impegno per l’allevamento del bestiame e dei pesci, e anche ad aumentare le loro piantagioni e continuare gli incontri di studio e formazione e visite nei villaggi.
Mercoledì sera, dopo aver riportato alcuni catechisti ai loro villaggi, non riesco a dormire a causa di fitte dolorose al mio pollice che, dopo 10 giorni dalla ferita, ha fatto infezione. Così al mattino di giovedì, invece di ritornare alla missione, vado a Boa Vista per curarlo. Il venerdì passa tra commissioni varie, anche l’acquisto di una canoa per il progetto di allevamento dei pesci, e la riparazione del motorino di avviamento del camioncino. La sera, quando faccio un controllo per vedere se la spia dell’olio funziona, il motore si blocca. Oggi sabato, invece di partire, ho smontato il motore e trovato il difetto nella pompa dell’olio che devo sostituire assieme alle bronzine. Molto lavoro, ma danno limitato! Penso che martedì il camioncino sarà di nuovo in condizioni di affrontare viaggi lunghi in giro per i villaggi.
Le richieste sono tante e se non succedono altre cose storte, sarò in giro tutto il mese di dicembre e festeggerò il Natale in un villaggio tra la gente semplice e simpatica.

Francesco Bruno

Francesco Bruno