Dove la vita vince la morte

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe Svanera, bresciano doc da Ome nella Franciacorta, è un veterano della Colombia e dell’Ecuador. Catapultato a Marialabaja nel 2005, è ormai di casa in una realtà che è un crogiolo di elementi contraddittori: schiavitù e libertà, violenza e pace, morte e vita, nero e bianco, Africa e America, agricoltura industriale e di sopravvivenza, grande fede e tradizioni ancestrali.
Lasciamoci guidare da lui alla scoperta di un mondo dove, nonostante tutto, si danza la vita.

NUOVA REALTà (Pasqua 2005)
Sono nuovamente in Colombia, vicino a Cartagena de Indias, alle prese con una realtà particolarmente interessante tra la popolazione afro-americana discendente degli africani portati qui come schiavi e in seguito  mescolati con i bianchi dominatori e gli indios ormai decimati.
Proprio nel porto di Cartagena sono arrivato per la prima volta il 23 novembre del 1973, per proseguire poi fino ai fiumi e alla selva del Caquetà. Adesso ritorno al punto di partenza. Sono con due confratelli nella parrocchia di Marialabaja a un’ora di macchina da Cartagena. Nel paese vivono circa 25.000 persone; altre 40.000 vivono in una serie di paesini sparsi nella campagna e nella foresta. Il primo contatto con la gente e con il territorio mi ha permesso di intravedere il fascino e la complessità della situazione e della cultura afro-americana o afro-colombiana caratteristica di questa regione in cui il 95% degli abitanti ha chiare fattezze africane con un colore della pelle che va dal nero più accentuato al bianco abbronzato.
Marialabaja riflette tutte le contraddizioni della Colombia e non mancano i problemi dovuti in particolare alla violenza che, come altrove, ha provocato molti morti e tante famiglie allo sbando. Diversi piccoli quartieri sono sorti in questi ultimi anni con le famiglie dei «desplazados» o sfollati il cui futuro è molto incerto. Senza terra, senza lavoro, cercano di non lasciarsi morire e di continuano a sperare. Nonostante tutto è gente stupenda, di una vitalità incredibile, accogliente e amabile; può sembrare strano, ma ho l’impressione che nonostante tutti i problemi reali in cui vivono, non smetterà mai di ballare e di divertirsi. La vita continua e… la festa pure!

Missione vera (Luglio 2005)
Mi sono buttato a capofitto in questa nuova realtà ed è come se da sempre fossi vissuto qui. Tutto mi è diventato familiare. Mi trovo benissimo: la gente, il territorio, il clima e la missione mi sembrano ideali per le mie attuali condizioni. Marialabaja è missione vera, non tanto per l’ambiente fisico, ma per la gente e la sua cultura tipica tutta da scoprire. E anche per l’estrema povertà e ignoranza (soprattutto religiosa) che si tocca con mano.
Qui c’è tutto, ma a troppa gente manca tutto. La terra è ricca e produttiva: due o tre raccolti all’anno, frutta abbondante e verdura fresca sempre. Una zona collinosa e una pianura fertile per coltivazioni e allevamento del bestiame, una grande riserva di acqua dolce e un sistema di irrigazione ben organizzato. Tutta la produzione ha il mercato assicurato nelle due città vicine di Cartagena e Barranquilla.
Nonostante queste condizioni ottimali, tanta gente riesce appena a sopravvivere, troppi bambini sono denutriti, tante persone e famiglie intere sono costrette ad emigrare spinte soprattutto dalla fame e dalla violenza.
In questi ultimi anni c’è stata una violenza assurda con autentiche stragi di civili, donne e bambini, e molti sfollati. Le cause di questa guerra sono da ricercarsi nella lotta per il controllo del territorio (strategicamente ed economicamente importante) tra la guerriglia e i paramilitari che sostengono il governo.
Questo scenario richiede alla missione di trovare risposte sempre nuove e di dedicarsi a fondo alla formazione delle persone. Per questo abbiamo aperto un «Centro pastorale» per ritiri e convivenze, mentre pensiamo ad un «Centro giovanile», senza dimenticare interventi immediati come l’attività degli asili che ora accoglie 160 bambini dai tre ai cinque anni.
La missione è, prima di tutto e sempre, annuncio di Gesù Cristo che porta necessariamente a creare le condizioni del suo Regno di giustizia, amore e pace. Non manca quindi il lavoro. Chi opera è sempre e unicamente Lui, che «fa nascere il sole su buoni e cattivi» e ha cura di tutte le sue pecorelle. Per questo siamo fiduciosi e come sempre … sereni!

Gli asili (Natale 2005)
In questi giorni a Marialabaja si è concluso l’anno scolastico e anche noi abbiamo chiuso gli asili. Essi sono nati cinque anni fa dall’intuizione di p. Salvatore Mura per rispondere al gravissimo problema di molte famiglie impossibilitate a mandare i bambini a scuola. I corsi di formazione per le maestre, le visite alle famiglie e le riunioni con le mamme, in maggioranza abbandonate dai mariti e con diversi figli a carico, hanno favorito la realizzazione del programma. Abbiamo anche migliorato la struttura e gli strumenti didattici, e, soprattutto, assicurato ai bimbi il pranzo giornaliero che è stato una vera benedizione per questi piccoli, anche perché a Marialabaja la gente non ha l’abitudine di fare pranzo e si alimenta soprattutto la sera. I bimbi che adesso fanno pranzo e cena hanno cambiato veramente aspetto!

Ritmi (Pasqua 2006)
Gli studenti sono tornati a scuola segnando un ritorno alla normalità, ma ci sono altri ritmi che qui regolano la vita.
C’è il ritmo dei contadini che aspettano ansiosamente il tempo del raccolto per dare un futuro migliore ai figli senza dover emigrare. C’è il ritmo scandito dalla politica, o meglio dalla «politicheria», segnato dalle varie elezioni amministrative e politiche con grande sfoggio di discorsi e feste a base di birra e rum, balli e divertimenti di ogni tipo. Non si può dimenticare che il Comune (chiamato qui Municipio) è la più grande impresa del paese e con un sindaco amico si può sperare in un posto di lavoro, altrimenti non servono né i titoli né la capacità professionale.
Il ritmo religioso è scandito anche dalle feste principali come Natale e Settimana Santa, ma la festa che si vive con maggior intensità e partecipazione popolare è certamente la festa del santo patrono delle diverse comunità con manifestazioni religioso-culturali non facili da capire per noi, eppure assolutamente coinvolgenti e partecipate dalla nostra gente, che si esprime soprattutto con balli fino all’esaurimento delle forze.

L’invasione
Ogni tanto qualche novità scuote il paese e tutta la regione. Il 9 dicembre 2005, 936 famiglie hanno dato vita a una invasione (invasione: contadini senza terra che occupano terre demaniali non coltivate, ndr.). Molti si sono poi ritirati, ma la maggioranza aspetta, inutilmente per adesso, l’assegnazione di uno spazio per costruire almeno una capanna di fango e paglia in cui rifugiarsi. Nel mese di marzo la presenza della guerriglia appena fuori del paese ha suscitato un certo allarme, dileguatosi poi dopo le elezioni amministrative. La nostra presenza su tutto il territorio ci permette di renderci conto personalmente della complessità della situazione e della necessità di alcuni interventi per assicurare la tranquillità e il progresso della regione. Facciamo del nostro meglio annunciando il Vangelo e favorendo condizioni di vita dignitose con la nostra gente.
Intanto continuiamo con le diverse attività. Hanno ripreso a funzionare gli asili e abbiamo aumentato il numero dei bimbi (adesso 180) e delle maestre (9 più una cornordinatrice) soprattutto per venire incontro alle necessità delle famiglie dell’invasione proprio nei pressi dell’asilo san Martin de Porres. Con quelle famiglie vorremmo iniziare anche dei piccoli progetti produttivi che possano permettere un miglioramento della qualità di vita. Il sogno è di arrivare a tutti i bimbi poveri e denutriti del territorio con altri piccoli programmi, ma per adesso questo è un sogno proibito, anche se nessuno mai ci proibirà di continuare a sognare come sogna «Dio Padre di tutti».

BULLERENGUE (Natale 2006)
Con la fine dell’anno scolastico i 180 bambini degli asili parrocchiali sono tornati a casa per le vacanze. Riprenderemo in febbraio 2007 con 225 alunni.
All’alba di Natale si sono spente le voci e il rullare dei tamburi della tredicesima edizione del festival nazionale del «Bullerengue»: il ballo tipico di Marialabaja con profonde espressioni di gioia e stupore per la vita che nasce e per le mille situazioni quotidiane della nostra gente. È un ballo intensamente vissuto perché esprime i sentimenti più profondi e dà spazio alle espressioni più significative. Questo è vero soprattutto dei quartieri più poveri dove si sopravvive non per le risorse economiche che spesso non ci sono, ma perché si ama la vita e così anche le situazioni più banali del vivere quotidiano trovano un significato. L’amore alla vita è sempre più grande delle tragedie quotidiane e deve essere cantato e ballato senza stancarsi mai. Per questo il ballo si chiama «Bullerengue», parola che indica una festa piena d’allegria in omaggio alla fertilità della donna.
Fa impressione constatare questa estrema vitalità nella danza e nella festa e la passività quasi totale di fronte alle situazioni di ingiustizia e di ordinaria sopraffazione causate da politici e amministratori corrotti che mantengono questo territorio nell’abbandono e sottosviluppo.

Eppure qualcosa si muove…
Ci sono persone che dimostrano una certa sensibilità, gruppi che si organizzano, giovani che cominciano ad assumere con orgoglio la propria cultura afro e iniziano timidamente a parlare di diritti-doveri e di partecipazione civica. Punto di riferimento di questa nuova tendenza è senza dubbio il nostro «Centro della Consolata» dove si svolgono incontri di ogni tipo: dall’agricoltura alla catechesi, dall’organizzazione popolare ai progetti produttivi, in un clima assolutamente familiare coronato dal tradizionale e saporito «sancocho» (minestrone).
In questi giorni si sta realizzando una tappa della «scuola afro-giovanile» per creare una maggiore coscienza e identità culturale nei giovani del territorio. Contemporaneamente ogni giorno si danno il tuo gruppi di «desplazados» (sfollati) che fanno mattoni di cemento per cominciare a costruire le proprie case aiutati dalla diocesi e dalla parrocchia. È un progetto di «autocostruzione» di 82 stanze per altrettante famiglie che stanno rispondendo con vero entusiasmo all’iniziativa.

Baldoria (Pasqua 2007)
Si dice che: «Anticamente, durante la Settimana Santa, mentre i bianchi spagnoli si dedicavano alle celebrazioni religiose, gli schiavi neri rimanevano liberi e si dedicavano… alla baldoria». Sembra proprio che questa tradizione continui ancora oggi anche se con manifestazioni sempre nuove.
Nella mentalità popolare infatti queste sono giornate di festa e di allegria. Ciò non toglie che molte persone il Venerdì Santo partecipino con devozione alla Via Crucis animata dai giovani che rappresentano con molta creatività i testi dei Vangeli. L’ambiente è di grande festa familiare e comunitaria. Le famiglie si ritrovano e ricuperano antiche tradizioni con piatti tipici come la «icotea» (piatto a base di tartaruga d’acqua dolce), il riso e fagioli neri e una straordinaria varietà di dolci fatti in casa. Dall’ambiente famigliare si passa poi alla «caseta» dove si balla e abbondano birra e rum, accompagnati dalla musica assordante dei «picò», e una folla di giovani e meno giovani si danno appuntamento nel «Canal» dove passa l’acqua per l’irrigazione delle risaie e la festa si fa sfrenata con bagni, giochi, musica, balli, alcornol, droga e dove puntualmente… ci scappa il morto!
Naturalmente ci sono anche persone che vivono la Settimana Santa in forma differente partecipando alle celebrazioni religiose abbinate a manifestazioni culturali molto belle, ma fa veramente impressione la folla che si raduna per la baldoria.
Da parte nostra cerchiamo ancora una volta di capire il fenomeno «culturale» nei suoi aspetti più positivi perché «la Pasqua» è libertà e risurrezione e quindi «festa»!

FESTE PATRONALI
Spesso la festa esplode proprio per esorcizzare le tragedie vissute e i gravi problemi quotidiani come è successo in questi giorni nella festa patronale di «San Josè de Playon» dove la gente ha potuto finalmente esprimersi dopo anni di terrore. Negli anni passati ci sono state decine di morti e moltissimi avevano dovuto abbandonare tutto e rifugiarsi altrove, subito sostituiti da altri sfollati che venivano dalla campagna. Adesso, insieme e con calma, stiamo tentando di creare una nuova comunità. Sono nate le prime organizzazioni e un comitato ha iniziato proprio con la ricostruzione e abbellimento della chiesa come segno di una nuova vita per questa regione. Il comitato ha organizzato in ogni dettaglio la festa patronale di san Giuseppe con la partecipazione di tutta la popolazione: messa, battesimi, manifestazioni culturali, solenne (e interminabile!) processione con il santo patrono accompagnato dalla banda, la quale ha poi animato il «fandango», ballo in onore del santo durante tutta la notte. Da anni questo non succedeva e la gente ha potuto sfogare finalmente i sentimenti più profondi, preludio per un futuro diverso da costruire insieme affrontando i problemi di salute, educazione, organizzazione comunitaria, economia e sviluppo.

RITORNA P. SALVATORE
(15 luglio 2007)
La novità più grande e più gradita di questo periodo è stato il «ritorno» del P. Salvatore Mura nella nostra parrocchia. P. Salvatore, sardo di Cagliari, da queste parti è un personaggio conosciuto perché, salvo alcuni anni in Italia, ha quasi completato 50 anni in Colombia di cui cinque come parroco di Marialabaja. Gli è toccato il periodo di maggiore violenza e si è guadagnato la stima e l’affetto di tutti perché avevano trovato in lui un vero pastore. A lui si deve, tra l’altro, l’avvio degli asili, che adesso sono una gran bella realtà, come pure l’acquisto della terra per le casette degli sfollati e di un terreno che stiamo attrezzando per realizzare la «cittadella sportiva» per i tanti giovani del nostro territorio.
Le iniziative non mancano. C’è entusiasmo e partecipazione, anche se le risorse sono scarse. Si cerca di coinvolgere la nostra gente in un progetto di costruzione della comunità alla luce del Vangelo, mantenendo i valori tradizionali e assicurando una vita degna dei figli di Dio con una minima sicurezza alimentare nel rispetto dell’ambiente, pur nell’indifferenza, se non ostilità, delle autorità locali.

Forum per la terra
(3 novembre 2007)
È la stagione secca. Pioverà pochissimo. I ragazzi potranno godersi le sospirate vacanze. Toeranno tanti che sono dovuti emigrare da questa terra incredibilmente fertile dove però non hanno potuto costruirsi un futuro a causa di mille ragioni, ma soprattutto per copla di politiche sociali e agrarie perlomeno discutibili.
Stiamo organizzando un Forum per studiare la nuova preoccupante situazione che si sta creando nel nostro territorio. Il Goveo colombiano si è buttato, come molti altri paesi del Sud del mondo, nella produzione del biodiesel e dell’etanolo. Da un momento all’altro enormi estensioni di terra adatte all’agricoltura e da sempre utilizzate per produrre alimenti, sono state destinate alla produzione di biocarburanti. E lo chiamano «progresso»! Il Municipio di Marialabaja è entrato in questa nuova, pericolosa e discutibile realtà. Nel giro di pochi anni sono stati seminati quasi cinquemila ettari di palma da olio africana per l’estrazione del biodiesel con la prospettiva di raggiungere i diecimila ettari. Questo territorio che da sempre si è considerato la «dispensa alimentare di Cartagena» corre il rischio di non produrre a sufficienza neppure per gli abitanti della regione.
E all’orizzonte si affaccia un altro pericolo: altrettanti ettari destinati alla coltivazione della canna da zucchero per produrre l’etanolo, l’altro biocarburante richiesto sul mercato internazionale.
Naturalmente questi progetti sono presentati dalla propaganda ufficiale come la soluzione ideale ai problemi della nazione e dei contadini colombiani. Si fanno mille promesse e si moltiplicano le offerte di ogni tipo ma la preoccupazione aumenta dal momento che, di fatto, diminuiscono gli alimenti e aumentano i prezzi…

la minaccia delle monocolture
Come missionari, anche se non siamo tecnici né economisti, siamo realmente preoccupati, e non bastano certo le dichiarazioni dei politici che promettono: «Non toccheremo un centimetro quadrato di selva. Non penetreremo la frontiera agrícola colombiana. Useremo una terra che è praticamente inefficiente».
Marialabaja, per esempio!?… Terra lussureggiante e fertilissima, destinata da sempre all’agricoltura tradizionale, con un sistema d’irrigazione tra i migliori in Colombia. Una vera pazzia; il prezzo da pagare al «progresso» e ancora una volta…fame! Il Vescovo Pedro Casaldaliga afferma che ci sono solamente «…due assoluti: Dio e la fame!»
Vi posso assicurare che non è per niente piacevole vedere continuamente bambini denutriti e dover necessariamente concludere che i responsabili siamo tutti noi infatuati del progresso e schiavi di un capitalismo selvaggio e distruttore. Non sarà certamente il Forum indetto dalla parrocchia a risolvere questi problemi. Speriamo comunque di creare una certa sensibilità che aiuti a prendere coscienza e trovare qualche alternativa che possa favorire la nostra gente. Intanto continuiamo con piccole iniziative per mantenere la speranza e magari indicare il cammino da seguire per un vero benessere.
Con il vostro aiuto, oltre agli asili  sta funzionando la piccola fattoria della Consolata, trasformata in un autentico giorniello, modello di coltivazioni tradizionali e piccolo centro per la trasformazione dei prodotti locali (riso, granoturco, frutta…). È la sede per i corsi di formazione di animatori e catechisti del paese e della campagna per costruire, alla luce della Parola di Dio, un mondo a misura d’uomo. Noi ci proviamo nella speranza che ancora una volta il piccolo Davide abbatta il gigante Golia! Naturalmente «se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i …manovali».
Continuiamo con le attività pastorali di sempre. Insieme cerchiamo di applicare e aggioare un progetto pastorale che risponda ai bisogni della nostra comunità afro.

NECROCARBURANTI
(Natale 2007)
Abbiamo realizzato il Forum lunedì 10 dicembre. Domenica 16 dicembre ci siamo riuniti in assemblea con la partecipazione dei rappresentanti dei 35 villaggi che compongono la parrocchia di Marialabaja. La conclusione del Forum non poteva essere più chiara: per la nostra gente e per il nostro territorio non si può parlare di biocarburanti (bio=vita) ma di necrocarburanti (necro=morte). Le ragioni sono molteplici e complesse, ma tutte conducono a politiche nazionali e inteazionali, basate sul solito capitalismo selvaggio che disprezza la vita delle persone e distrugge le risorse del pianeta per affermare gli interessi egoistici dei pochi di sempre.
Purtroppo però ci rendiamo conto che tutti siamo complici, e quindi responsabili, a causa del nostro stile di vita che esige tutte le comodità offerte dalla società in cui viviamo. Sarà possibile vivere diversamente, e quindi con sobrietà, a Marialabaja, a New York o a Milano senza divorare le risorse del creato? Non sarà forse anche questa la sfida del Povero che nasce a Betlemme e di un Natale che si rinnova ogni anno perché «tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza»? Probabilmente dovremmo lasciarci evangelizzare dalla nostra gente, dai poveri che nonostante tutto rimangono aggrappati alla vita e ai valori veri.

Senso della missione
(Pasqua 2008)
Qualsiasi bilancio naturalmente bisogna farlo alla luce della Pasqua, morte e risurrezione. Apparentemente la tragedia di Gesù appare come un fallimento, ma per noi tutti esplode la vita. La Risurrezione si afferma come la dimensione ultima della nostra esistenza e pervade la storia dell’umanità destinata a risorgere con Cristo per una nuova vita di giustizia, amore e pace. La missione va in questa direzione, vuole trasformare un mondo di morte nel trionfo della vita. Protagonista è sempre e solo il Signore risorto che si manifesta attraverso chi lo segue e lotta per un mondo diverso, qui e dappertutto, perché tutti abbiano vita e vita in abbondanza.
Nelle cosiddette «missioni» forse questo è più evidente perché i contrasti e le ingiustizie sono più palesi, ma la «missione» è per tutti sempre e dovunque.

Un bilancio provvisorio
In questi anni abbiamo accompagnato come missionari la nostra gente di Marialabaja, insieme abbiamo tentato di fare qualcosa e in parte pensiamo di esserci anche riusciti. Nella direzione giusta? Crediamo di sì. Con grandi risultati? Sicuramente no, anche perché non si può pensare di fare in tre anni quello che non si è fatto in trecento. A volte ci domandiamo e spesso ci chiedono: Vale la pena venire dall’Italia? Non è meglio lasciare che la gente viva come ha sempre vissuto? Perché disturbare e creare altre esigenze? Ogni popolo ha la sua cultura e la sua religione e bisogna lasciarlo vivere in pace. Se poi è vero che ci sono tanti problemi, è vero anche che esistono organizzazioni che lavorano per questa gente. In fin dei conti ha senso oggi essere missionari?
La risposta difficilmente può essere teorica. Per noi nasce da quello che viviamo e contempliamo nella Settimana Santa. La missione di Cristo si realizza attraverso la passione, morte e risurrezione per una novità di vita offerta a tutti e da realizzare insieme. Luis, il bambino che cresce nell’asilo e riceve un pranzo caldo, attenzione e affetto. Yoiner, il giovane che comincia a credere nel suo futuro. Yaneth, la donna sempre più cosciente della sua dignità. Julio, lo sfollato che riprende fiducia e si sforza per ricostruirsi una vita. Quando ci identifichiamo con le sofferenze e i bisogni della nostra gente, in particolare dei più poveri, e insieme cerchiamo soluzioni, viviamo la Pasqua e il suo mistero di morte e risurrezione. Questa è la missione. Il grido giornioso che il Signore è risorto e ha vinto definitivamente la morte. Qui e dappertutto. Anche da voi!
(1 – continua)

a cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Un’attività di rapina

Amazzonia: una diversa prospettiva (1a parte)

È comune pensare all’Amazzonia a partire da due immagini:
• la prima è quella di una natura esuberante, fatta di foreste, alberi giganteschi, animali selvaggi, grandi ricchezze minerarie, fiumi immensi, grande riserva d’acqua dolce, polmone verde della Terra;
• la seconda immagine è quella di una terra abitata da popolazioni primitive incapaci di profittare delle ricchezze che la natura offre loro e insediate in aree immense ampiamente sottoutilizzate.
Questo per noi occidentali; per gli indigeni dell’Amazzonia, Yanomami, Macuxí, Ingarikó, Patamona, Taurepang, Wapixana, Waimirí-Atroarí, Wai-Wai e altri, la foresta è il loro mondo, la loro casa, la loro terra ancestrale, la terra dei loro avi. La terra è la vita, la madre che da sempre fornisce loro tutto il necessario per vivere. è il luogo dove c’è tutto: la cacciagione, le piante, i fiumi e l’acqua, le montagne e loro stessi.
Sorvolando l’Europa si vede chiaramente come gli occidentali, cioè gli europei, hanno risolto la dicotomia predetta: praticamente non c’è più foresta; solo qua e là si possono vedere macchie di alberi spontanei che ancora resistono, ma sono sempre meno e sempre meno estese. È la soluzione che ha permesso agli europei di alimentare e di fornire di una massa enorme di beni le popolazioni locali che, nei secoli, sono cresciute talmente da doversi poi spostare in altri continenti, ove hanno esportato la loro cultura di sfruttamento delle risorse naturali fino ad annullare, in certe zone, la possibilità di sopravvivenza delle stesse.
Il nuovo eldorado
Questa cultura sta aggredendo ora anche la foresta Amazzonica; da quando essa è diventata il «Nuovo Eldorado» che richiama avidi latifondisti locali o stranieri o grandi multinazionali – che vedono la foresta amazzonica come un posto di frontiera da sfruttare sul piano economico e politico –, così come povera gente che arriva dal sertão semidesertico del Nordeste (Maranhão, Piauí, Ceará, Rio Grande do Norte, Paraíba, Peambuco, Alagoas, Sergipe, Bahia) per cercare un’alternativa alla loro miseria, per trovare oro o comunque uno spazio vergine da occupare e colonizzare per dare sostentamento a sé e alla propria famiglia.
È l’eterna situazione che si crea quando si ha un’enorme discrepanza fra le risorse naturali presenti in un territorio e la popolazione che ci vive. Così è stato dopo la scoperta dell’America e poi dell’Australia, continenti che presentavano un rapporto fra popolazione indigena e risorse naturali infimo rispetto allo stesso rapporto presente in Europa, ma così era stato anche al tempo delle migrazioni delle popolazioni indoeuropee dall’Asia verso l’Europa. Quando gli squilibri nei valori di questo rapporto sono rilevanti e del segno predetto, si crea un movimento di popolazione da dove essa è sovrabbondante verso dove è scarsa. La differenza è che oggi c’è anche la possibilità di mobilitare e trasferire ingenti capitali artificiali che permettono una rapida utilizzazione delle risorse naturali fisse.
strade e Immigrazione
La forte immigrazione dei nordestini (ma anche dei cariocas, paulistas e gauchos del Sud) nella zona amazzonica è recente e si può dire che sia stata favorita dalla costruzione, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di strade quali la rete transamazzonica, comprendente la Belem-Brasilia, la Cuiabá-Porto Velho-Perù, la Porto Velho-Manaus-Bõa Vista-Venezuela/Guyana, la Porto Velho-Imperatriz, la Cuiabá-Santarem, la Macapá-Bõa Vista-Colombia. Lo scopo della costruzione di tali strade era d’integrare il territorio amazzonico al resto del paese, permettendo lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie e vegetali in esso presenti nonché, assorbendo la popolazione eccedente del Nordeste, di alleggerire le tensioni economiche e sociali presenti in quest’ultima regione.
Gran parte di esse, per mancanza di manutenzione, ora non sono più utilizzate, se non per tratti limitati, ma la loro costruzione e quella di altre strade ha aperto delle brecce nella foresta che hanno creato le premesse per l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’introduzione di coltivazioni intensive (acacia mangium, riso e soia soprattutto) e dell’allevamento del bestiame.
fazendeiros
L’occupazione delle terre amazzoniche da parte dei bianchi iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione di attività agropastorali, come strategia per garantire la sicurezza militare della regione assicurando in essa la presenza di brasiliani (contro possibili invasori da fuori). I coloni immigrati (fazendeiros) ottennero via via dai governatori dello Stato dell’Amazzonia diritti di proprietà su terre di incontestabile occupazione indigena. Le leggi statali ampliarono l’estensione del territorio destinato all’occupazione privata, riducendo a esigue fasce di terra la parte riconosciuta agli indios.
Questo avvenne in uno stato di «convivenza pacifica» tra bianchi e indios, ma costituì un’effettiva espropriazione delle terre indigene da parte dei fazendeiros. Attraverso un sistema di relazioni di dipendenza, che andavano dal rapporto padrino-compare alla cessione di donne indigene ai padroni come domestiche e di bambini per farli educare nella fazenda alla cultura e ai modi dei bianchi, i fazendeiros stabilirono un meccanismo efficace di dominio e occupazione delle terre. Con questa strategia, gli indios si ritrovarono ben presto senza terre, con le loro case comunitarie (maloca, per usare un termine di origine guaraní alquanto diffuso) e i loro campi circondati dal bestiame dei padroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, gli agricoltori bianchi cominciarono a recintare le aree che dichiararono di loro proprietà e a registrarle nell’attesa di una regolamentazione, impedendo così agli indios anche l’accesso ai fiumi, ai laghi e alle riserve di selvaggina, e accusandoli di invadere le loro proprietà.
garimpeiros
Parallelamente si ebbe un’intensificazione delle immigrazioni di cercatori di oro e diamanti (garimpeiros). Le prime immigrazioni di garimpeiros risalgono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma la scoperta di importanti giacimenti minerari (oro, diamanti, cassiterite, bauxite, uranio ecc.) avvenne negli anni Ottanta: la «corsa all’oro» in Amazzonia esplose alla fine di quel decennio, quando migliaia di brasiliani di altre regioni ingrossarono le fila dei garimpeiros, che arrivarono in cerca di rapidi guadagni con la complicità delle forze politiche locali e federali. Gli invasori erano in gran parte senza alternative, cosicché il processo divenne irreversibile.
attività di rapina
L’estrazione di minerali è per sua natura un’attività di rapina nei confronti dell’ambiente (prende senza dar niente in cambio se non danni) e degli indios e della loro cultura, perché rapina è anche l’appropriazione delle terre a uso privato e l’attività di supposta acculturazione (forzata) degli indigeni. Allontanati dalla loro maloca e dalla loro cultura per essere inseriti in scuole e inteati, e acquisite le regole sociali di tipo occidentale, pochi ritornano nuovamente alle maloca stesse. La maggior parte resta nelle città, lavorando per i bianchi; anzi, coloro che tornano ai villaggi indigeni lo fanno per convincere i parenti a lasciare il luogo natale per trasferirsi in città, agendo negativamente nei confronti della cultura indigena.
Indigeni espulsi dalle loro terre o richiamati dalla città con il miraggio di nuovi modelli di vita, garimpeiros che non hanno fatto fortuna e disperati dell’assetato Nordeste, attirati dalla prospettiva di trovare fecondi raccolti nell’umido clima amazzonico o dalla propaganda politica (in periodo elettorale promette lotti di terra a chi decida di stabilirsi nella regione e assicuri un voto, per poi abbandonare gli immigrati al loro destino), si riversano in città, ove non trovano né accoglienza né appoggi e spesso alla fine sono costretti a vivere sotto teloni di plastica in uno dei diversi quartieri periferici delle poche città presenti.
città, tomba delle illusioni
Gli abitanti delle città sono quadruplicati nel corso degli anni Novanta, ma le possibilità di lavoro stabile sono rimaste contenute. A parte il miraggio del «funzionariato pubblico» presso le strutture del Goveo o della Prefettura, ciò che è accessibile è una varietà di lavori temporanei, soprattutto informali, che permettono la sopravvivenza, ma non offrono garanzie di sicurezza e stabilità economica.
La situazione di precarietà può trovare una spiegazione nel difficile adattamento degli indios che arrivano in città. Essi non conoscono i meccanismi del mercato del lavoro e generalmente non si relazionano con i bianchi – se non nella forma di rapporti di sudditanza – ma solamente con altri indios, parenti o amici. Questa situazione non caratterizza solamente chi è arrivato da poco in città, ma anche chi pur con molti anni di permanenza non riesce comunque a trovare le condizioni per lavori migliori e più stabili.
Così la maggioranza degli indios cittadini difficilmente ha un luogo di lavoro fisso o un contratto; essi prestano servizi temporanei, con un salario giornaliero o settimanale; sono i primi a essere licenziati in caso di difficoltà economica dell’impresa per cui lavorano e non sono per nulla tutelati dalla legge sul lavoro; fanno lavori quali il becchino, lo scaricatore di camion, il muratore e l’aiutante muratore, il guardiano notturno, il manovale. Le donne sono le più sfruttate, per lo più occupate quali domestiche e lavandaie.
non solo indios
Questa situazione vale per gli indios che hanno lasciato la foresta, ma anche per i contadini – quasi mai di professione, spesso privi di esperienza o attitudine al lavoro agricolo e abbandonati al loro destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta – i quali non hanno retto alla vita dura nella foresta e si sono riversati verso la città, e anche per i garimpeiros che non hanno fatto fortuna. Contadini e garimpeiros che devono vivere in situazioni di vita del tutto sconosciute: la foresta, il clima, le distanze enormi, l’isolamento, l’estrema difficoltà di qualsiasi contatto con il resto del Paese.
Sono tutti vittime dell’esclusione sociale, della mancanza dei servizi che dovrebbero essere foiti dalle amministrazioni pubbliche o dalla società civile come scuole e servizi sociali e sanitari. Invece le strutture sanitarie sono scarse e inadeguate, l’offerta educativa è insufficiente e non esistono servizi di orientamento e inserimento nel lavoro.
boom della coca
Per questi (contadini e garimpeiros, in special modo) si è aperta, in diverse zone della foresta amazzonica, una nuova via, quella della coltura della pianta della coca per ottenee la pasta. Il boom della coca è la conseguenza evidente del crollo delle illusioni dei coloni: non si fa nessuna fatica a convincerli che, con poco sforzo, in poco tempo e con grande abbondanza, si può accumulare denaro coltivando la coca. In effetti la coltivazione della coca è quella che si presenta, nella foresta amazzonica, come la più redditizia: secondo le diverse fonti, la rendita della coca risulta da cinque a dieci volte superiore a quella del caucciù; da dieci a venti volte superiore a quella del cacao. Più redditizia è ovviamente l’attività di chi dispone di piccoli laboratori per produrre la pasta di coca partendo dalle foglie della pianta. Ugualmente ben pagata, rispetto ai salari correnti, è l’attività dei raspachines, manodopera errante che passa di finca (campo – piantagione) in finca per la raccolta delle foglie di coca.
In realtà si tratta di stime di redditività comparata che si fermano al solo calcolo economico, al calcolo della redditività lorda, che non tiene conto delle forti diseconomie (costi economici e metaeconomici individuali, oltre che sociali) derivanti dall’illegalità, dallo stato di violenza e disordine sociale e famigliare che la narcoproduzione e il narcotraffico comportano.
Che poi – come si sente dire, con evidente confusione sul concetto di «bene» – la produzione della coca possa essere valutata, a livello macro-economico, come fatto positivo, poiché attiva reddito e occupazione, è fatto assai criticabile, in quanto confonde la promessa di benessere – reddito e occupazione – con la realtà del benessere – disponibilità di beni atti a migliorare la qualità della vita della popolazione (… e naturalmente questo non vale solo per la coca e la cocaina, ma anche per molti altri prodotti, che gonfiano i valori del PIL, ma non quelli del benessere anche solo materiale).
boom boomerang
Il boom della coca richiama alla mente precedenti bonanza (imprese altamente redditizie e relativamente facili, ma di breve durata, ndr.), quali quelle del caucciù, della china, delle pelli degli animali, del legno pregiato ricavato dalla deforestazione, del riso, del granoturco, della soia. Tutte hanno il comune denominatore dello sfruttamento irrazionale della foresta e delle terre in generale, a causa dell’ignoranza dei contadini in merito alle tecniche agricole e zootecniche appropriate al contesto locale. Molti contadini continuano a praticare la tecnica del «taglia e brucia», che danneggia gravemente l’ambiente locale, distruggendo le risorse forestali e favorendo l’erosione dei suoli fino a provocare veri e propri fenomeni di desertificazione. I terreni sono coltivati fino a esaurimento – senza conoscere tecniche appropriate e andando anche incontro a perdite economiche – e successivamente rivenduti ai latifondisti come pascolo, e i piccoli coloni sono sempre alla ricerca di nuove terre nella foresta.
(1 – continua)

Daniele Ciravegna

Daniele Ciravegna




Rischio o ricchezza?

Dialogo tra le religioni

«Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare» (rabbino Rivon Krygier).

In un’intervista pubblicata sul settimanale cattolico «Paris Notre-Dame», il rabbino Rivon Krygier, responsabile della comunità Adath Shalom (Assemblea della Pace), ha chiaramente indicato l’importanza e la necessità del dialogo tra le religioni: «Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare. Credo inoltre – ha continuato – che tutti noi siamo consapevoli che esiste una certa relatività della verità. Non si tratta d’indifferentismo o di relativismo. Diciamo semplicemente che in ogni religione esistono autentici valori spirituali e che possiamo arricchirci con la spiritualità dell’altro proprio grazie al dialogo. La spiritualità degli altri credenti ci aiuta a comprendere la nostra religione e a costruire insieme quella frateità universale insita nel progetto stesso delle nostre rispettive religioni».
Oggi le librerie traboccano di libri e riviste sulle religioni, tanto da indurci a parlare di rivincita del sacro. Anzi, si può dire che non si può comprendere il mondo senza le religioni. Le religioni però fanno anche paura, perché vengono percepite come un pericolo. È il paradosso che stiamo vivendo. Fondamentalismo, fanatismo, terrorismo sono spesso associati a una forma pervertita di islam e ora anche di induismo, come dimostra l’uccisione di cristiani nell’Orissa, uno Stato dell’India. Naturalmente non si tratta del vero islam o del vero induismo praticato dalla maggioranza dei suoi seguaci. Le religioni – lo sappiamo bene dalla storia – sono capaci di bene o di male. Possono predicare la pace o la guerra. Va comunque precisato che non sono le religioni e il loro messaggio che provocano e scatenano la violenza o la guerra, bensì i loro seguaci e la cattiva interpretazione che essi danno del messaggio originale contenuto nelle religioni.
cristiani:
dialoganti per natura
Nel dialogo tra le religioni i cristiani, per la natura stessa del messaggio evangelico, sono direttamente implicati. Il nostro Dio è infatti un Dio che dialoga con le tre persone della Trinità e dialoga con gli uomini mediante la venuta tra noi di suo figlio, Cristo Gesù, fatto uomo come noi e per noi. Pietro negli Atti ricorda che «Dio non fa eccezioni di persone e che ogni nazione che lo teme e pratichi la giustizia trova accoglienza presso di Lui» (10, 35). Gli fa eco il Concilio Vaticano II nel preambolo del decreto Nostra Aetate: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana, che ieri, come oggi, turbano profondamente il cuore umano».
I cristiani perciò non possono disinteressarsi degli altri credenti, di qualsiasi religione essi siano. Per i cristiani il dialogo si fonda su un Dio trino e unico, rivelato agli uomini come un Dio che dialoga con la Trinità e con gli uomini. Ogni cristiano è perciò invitato a imitare questo dialogo di comunione e di amore. Paolo lo ricorda bene nella prima lettera a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità». A questo scopo egli ha inviato il Figlio unigenito Gesù come «l’unico mediatore tra Dio e gli uomini» (2, 4-5). Ecco perché Gesù occupa un posto unico nella storia religiosa. Egli è più di un saggio, è più di un profeta. Nella sua stessa persona egli è «vero Dio e vero uomo». È unico poiché è il Figlio di Dio e perché è vissuto in un luogo e in un’epoca specifica, condividendo la nostra condizione umana.
COME VIVERE IL DIALOGO?
Se il dialogo interreligioso fa parte del messaggio di Gesù e della fede del cristiano, che cosa si deve fare per viverlo giorno per giorno? Vi è dialogo quando persone o gruppi di persone in disaccordo fra loro su un determinato argomento che ritengono essenziale tentano di dirimerlo con dimostrazioni, prove e ragioni, invece di usare la violenza, la derisione, lo scherno e il disprezzo.
Il dialogo religioso consiste allora nel promuovere tutte le possibili relazioni positive con persone e comunità «allo scopo – come spiega Dialogo e annuncio, documento pubblicato il 19.10.1991 dal “Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso” – di imparare a conoscersi e ad arricchirsi vicendevolmente, pur obbedendo alla verità e rispettando la libertà di ciascuno» (n. 9). Ciò significa che il dialogo interreligioso inizia sempre dal rispetto dell’altro, della sua persona, delle sue convinzioni, della sua formazione, della sua cultura. Il dialogo vissuto in questo modo diviene anche occasione per approfondire le nostre convinzioni umane e religiose, per rivedere le nostre idee preconcette e spogliarci dei nostri pregiudizi inveterati.
DAL CUORE
La fede religiosa è vissuta soprattutto nelle profondità del proprio cuore. Ce lo insegna la Sacra Scrittura: «JHVH parla al cuore» di Israele (Os 2, 16), Gesù è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), Maria «conserva nel suo cuore quanto ha visto e udito» (Lc 2, 19.51). Il cuore è una delle parole più importanti tra quelle che definiscono l’uomo biblico, immagine e somiglianza di Dio. E poiché gli uomini sono stati creati liberi di cercare Dio, essi sono liberi di sceglierlo o non sceglierlo. Lo afferma l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II quando «sottolinea che il dialogo interreligioso non è la conseguenza di una strategia o di un interesse, ma un’attività che ha le sue motivazioni, le sue esigenze e la sua propria dignità. Esso è richiesto dal rispetto che occorre avere verso tutto quello che lo Spirito ha operato nell’uomo». Grazie al dialogo la Chiesa intende scoprire «i semi del Verbo, le scintille di quella verità che illumina tutti gli uomini», semi e scintille che si trovano nelle persone e nelle diverse tradizioni religiose dell’umanità.
QUATTRO “DIALOGHI”
Questo dialogo si attua secondo quattro modalità. In primo luogo il «dialogo della vita», imparando a condividere le giornie e le sofferenze dell’esistenza umana con i membri di altre religioni. In secondo luogo il «dialogo delle opere», collaborando con gli altri a favore delle necessità fondamentali per la vita: cibo, pace, salute, ecc. La terza modalità di dialogo, quello «teologico», spesso riservato a specialisti, ci fa comprendere meglio la nostra eredità religiosa e ci permette di approfondire le Scritture delle altre religioni. Infine, il «dialogo tra differenti spiritualità» ci fa condividere le ricchezze che nascono dalla preghiera e dalla contemplazione di Dio.
UTOPIA?
Non è, questa, una visione semplicemente utopica, immaginaria, impossibile. Esistono uomini e nazioni che considerano il rispetto delle religioni come un valore essenziale per la pace nel mondo, per le proprie popolazioni e per tutta l’umanità. Benedetto XVI ha, per esempio, lodato l’apertura del popolo mongolo verso le altre religioni, definendolo un modello per l’intera umanità. Nel ricevere le credenziali del nuovo ambasciatore presso la Santa Sede (venerdì 29 maggio 2009), ha ricordato che l’attuale costituzione della Mongolia riconosce la libertà religiosa come «un diritto fondamentale», nonostante il regime comunista sia rimasto in carica per quasi 70 anni, fino al 1990, e la popolazione mongola di circa 3 milioni di abitanti sia per lo più composta di buddisti tibetani. Questa convivenza religiosa si può far risalire a Gengis Khan (1162-1227), il capo leggendario di tutti i mongoli, che estese il suo dominio fino a Pechino, al Tibet e al Turkestan invitando in Mongolia musulmani, cristiani e buddisti.
«Le persone che praticano la tolleranza religiosa – ha ricordato il papa – hanno il dovere di condividere la saggezza di questo principio con l’umanità intera, cosicché tutti gli uomini e tutte le donne possano percepire la bellezza della coesistenza pacifica e abbiano il coraggio di edificare una società rispettosa della dignità umana».
FRUTTI BUONI
Questa coesistenza è certo un bene per tutti gli uomini e tutte le nazioni. Alcune di esse, come quelle dell’Europa, l’hanno raggiunta dopo anni di guerre di religione o di laicismo esasperato; altre oggi sono un modello interessante di dialogo interreligioso, come per esempio la Bosnia-Erzegovina, dove, dopo un conflitto e una campagna di «pulizia etnica», convivono croati cattolici (17,3%), serbi ortodossi (13,3%) e musulmani bosniaci (49,2%). Nella sola Sarajevo, la capitale, coabitano musulmani, croati, serbi e una nutrita comunità di rom.
Gli accordi inteazionali degli anni Novanta hanno contribuito al progresso di questo paese dell’ex-Jugoslavia, introducendo nei loro ordinamenti una visione giuridica e religiosa ispirata ai principi della dignità della persona umana, che ha superato quella nazionalistica, parziale e strumentale. Segno che il dialogo è sempre possibile, anche in situazioni difficili e per alcuni aspetti ancora instabili.
Visitando la Terra Santa, la Palestina e la Turchia, il papa Benedetto XVI ha voluto incontrare i leader musulmani. Ha fatto lo stesso con gli esponenti della religione ebraica per favorire il dialogo interreligioso. Anche durante il suo ultimo viaggio in Africa (marzo 2009) ai rappresentanti musulmani del Camerun ha detto con evidente convinzione che «la ragione rifiuta ogni violenza religiosa». Egli sa che il futuro dell’umanità dipende dai nostri sforzi in questa direzione.
Qual è ora il nostro
compito?
Il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo tra le religioni, in un suo intervento a Malta, lo ha riassunto nei seguenti tre punti. Prima di tutto avere idee chiare sul contenuto della propria religione. L’ignoranza e l’ambiguità non permettono il dialogo. Ognuno di noi deve possedere una chiara identità e conoscenza di quello di cui e su cui vuole dialogare.
In secondo luogo è importante vivere seguendo le proprie convinzioni. Si deve essere dei credenti credibili. Nel dialogo interreligioso ci viene sempre chiesto «chi è il tuo Dio e come vivi la tua fede?». Questo tipo di dialogo avviene non tra le religioni, ma sempre tra credenti. Infine, non si deve aver paura di dire la verità circa la propria fede. Facendo così, il credente è onesto verso se stesso e verso gli altri. Non si può barare per arrivare a una facile conciliazione. Nello stesso tempo il messaggio religioso non è da conservare in una scatola chiusa. Lo si deve comunicare e testimoniare con coraggio.
Dialogo è dono
Dialogare è sempre una ricchezza e una grazia, un dono che viene da Dio. Tutti siamo chiamati a collaborare in diversa maniera con coloro che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Senza dubbio esistono anche dei rischi. Uno è quello del sincretismo, ma rimane un rischio relativo, nel senso che ogni credente che dialoga è portato ad approfondire la propria fede per rendersene ragione. Una grazia è invece la convinzione di poter dialogare, così come dialoga Dio con noi. Tutte le religioni possono aiutarci a raggiungere una migliore conoscenza della nostra identità cristiana. Nel documento Dialogo e annuncio, già citato, ci viene ricordato che «la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà al cristiano la garanzia di aver pienamente assimilato quella verità… Attraverso il dialogo i cristiani possono essere condotti ad accettare che la comprensione della loro fede debba essere purificata» (n. 49). E questo «per essere sempre pronti – come dice Pietro nella sua prima lettera – a spiegare meglio e a rendere ragione della speranza che è in noi». Tutti siamo cercatori di Dio e tutti possiamo aiutarci vicendevolmente a conoscerlo e amarlo.

Giampietro Casiraghi

Gianpietro Casiraghi




Caleidoscopio africano

Uno sguardo sugli abitanti del corno d’Africa

Il Coo d’Africa è popolato da 73 milioni di abitanti che parlano 188 idiomi diversi e sono raggruppati in 4 famiglie linguistiche: un mosaico affascinante per la diversità di usi, costumi e culture, testimonianze di una ricchezza umana inestimabile e di una civiltà antica ricca e raffinata, come quella aksumita.

Viaggio tra le popolazioni del Coo
Tra gli storici, inviati e giornalisti noi preferiamo l’uomo all’antica, che si avvicina all’Africa con timore reverenziale. Ci scontriamo con il giornalista che percorre l’Africa sorvolandola in aeroplano o osservandola da una vettura lanciata ad alta velocità, per poi pubblicare affrettate impressioni per altrettanto superficiali lettori: noi stiamo con chi predilige viaggiare da solo, a dorso di mulo o meglio a piedi, inoltrandosi in sentirneri non riportati dalle carte, scalando picchi arditi, affrontando le paludi, trascorrendo lungo tempo a contatto con le popolazioni per studiae i comportamenti, la storia, gli usi e i costumi. Diamo la nostra stima a chi cerca di leggere profondamente negli uomini e nella natura, a chi mette per iscritto ciò che ha elaborato, solleticato nel suo inconscio da stimoli veri, onesti, reali.
Solo così il visitatore del Coo potrà cogliere e poi riferire la vera realtà di ciò che rappresenta ancora oggi quella parte d’Africa nelle sue peculiari varietà climatiche, geografiche ed etnografiche. In particolare, solo così il nostro uomo riuscirà a farsi un’idea esatta dei rapporti interumani che esistono fra le numerose etnie che popolano quei luoghi e sarà in grado di distinguere la popolazione abissina, dominante, fra tutte le altre che non sono mai riuscite ad emergere; avrà la capacità di comprendere i tanti aspetti della religiosità professata nel Coo, tanto singolare quanto può esserlo un credo che si è espanso in un territorio vasto tre volte l’Italia, dove la tolleranza religiosa è un fatto reale che può destare solo tanta meraviglia.
È un mondo molto distante da quello europeo, fortunatamente e, almeno per ora, volutamente mantenuto ancorato alle proprie tradizioni. Unico neo, ma immenso, è la guerra, da ritenersi ormai endemica, che purtroppo colpisce la natura e le popolazioni e assorbe linfa vitale dai magri bilanci statali anche nei brevi periodi di tregua.
Il nostro ideale e solitario viaggiatore dovrà necessariamente avere un’unica preoccupazione: evitare le zone minate che interessano vaste aree del Coo. Non esistono mappe indicative, non esistono cartelli di segnalazione; è indispensabile chiedere lumi agli abitanti, che conoscono bene le zone anche perché ciascuno di loro, disgraziatamente, vi ha avuto un familiare ferito o ucciso. Se saprà comportarsi correttamente, lo straniero troverà, nelle genti del Coo, ospitalità e tutto quell’aiuto che può servire a un viandante, indipendentemente dal colore della pelle o dalla sua nazionalità.
Chi sono gli abitanti dell’Acrocoro, o meglio, chi vive nel Coo? Non si può parlare delle popolazioni che occupano l’Acrocoro senza ricordare quelle che vivono nel medio e bassopiano. Ci vuole un po’ di pazienza perché l’elenco è lungo e la superficie del Coo è tanto vasta.
quattro classi linguistiche
Si sostiene che solo in Etiopia vivono 178 popolazioni diverse: differenti per colore, lingua e costumi; in tutto raggiungono 60 milioni di individui; in Eritrea, abitata da 3 milioni di persone, ci sono 8 etnie ben distinte fra loro, alle quali vanno aggiunti i rashaida, che non sono autoctoni ma beduini arabi stabilitisi sulla costa eritrea nel 1869 con la migrazione di alcune centinaia di individui; la Somalia è popolata da 10 milioni di somali e da alcune centinaia di migliaia di bantu, presenti nel Giuba e nel basso Scebeli, introdotti nel Coo nel XIX secolo come schiavi dall’Africa centrale; 4 milioni di somali poi abitano l’Ogaden etiopico, il meridione della Repubblica di Gibuti, alcune zone della Dancalia etiopica e del Kenya orientale, territori che confinano tutti con l’Etiopia.
In conclusione il Coo è popolato da circa 73 milioni di abitanti che parlano 188 lingue diverse.
Ma non è finita! All’interno di ognuna di queste popolazioni, infatti, si possono trovare differenze di colore: gli afar, ad esempio, abitano la Dancalia e l’arcipelago delle Dahlac e si dividono, secondo una loro classificazione, in adomarà, assamarà e tatamarà, cioè uomini bianchi, uomini rossi e uomini neri, caratteristica derivante probabilmente dai diversi periodi nei quali si sono mescolate popolazioni negre locali con immigrazioni camitiche e poi semitiche.
Va ricordato che con il termine «semita» (da Sem, figlio di Noè) vengono indicate genti diverse, ma discendenti da antenati linguistici comuni. Il dibattito sull’esatto significato di «semita» è ancora aperto ma vi è un largo consenso nell’accettare che, da un punto di vista linguistico, il termine si riferisce oggi ad ebrei, arabi e alle genti che parlano le lingue tigrina, amarica e aramaica. La forma negativa del termine antisemita è invece usata nell’accezione di «anti-ebreo».
Il termine «camita» proviene da Cam, altro figlio di Noè. Cam, fra i suoi tanti figli, ebbe anche Cus e Put, dalla pelle di colore scuro; da loro deriverebbe anche il termine «cuscita», che in gergo significa «camita orientale».
L’Acrocoro è abitato in parte da individui di caagione molto chiara e da altri il cui colore della pelle è molto scuro. Tali variazioni possono ritrovarsi anche nello stesso ambito familiare. I tratti somatici degli individui possono variare drasticamente per la continua mescolanza delle genti, ma mentre è facile riconoscere l’eritreo, che presenta in genere un bel viso dai tratti marcati, o il somalo che ostenta invece lineamenti molto più dolci, non sempre è agevole distinguere un amara da un oromo o da un guraghe. E spesso non sono d’aiuto neppure gli usi e i costumi, perché esistono degli amara mussulmani e degli oromo cristiani.
In generale il Coo è quindi caratterizzato dalla eterogeneità delle sue genti, ma non è nostro compito elencare le caratteristiche fisiche o culturali delle varie popolazioni. Ci limiteremo ad elencare la loro classificazione e indicare i territori che attualmente occupano. Gli studiosi suddividono le popolazioni del Coo su base linguistica in quanto questo è l’unico criterio oggettivo per raggruppare tanti popoli con idiomi e costumi differenti (vedi riquadro pag. 64).
Tigrè o Tigrai?
Sidamo o Sidama?
Prima di procedere è necessario chiarire alcune incertezze che si riscontrano sui nomi delle popolazioni, anche da parte di eminenti studiosi.
Gli amara rappresentano la popolazione dominante dell’Acrocoro e abitano il cuore dell’Etiopia. Di statura alta, hanno in genere la pelle abbastanza chiara e lineamenti simili a quelli europei. I loro sorrisi sono belli e mostrano dentature bianche e perfette. Fieri della loro genealogia, hanno sempre un portamento altezzoso e trattano ancora oggi con sufficienza tutte le altre popolazioni.
Amara furono la maggior parte dei re e imperatori dell’Etiopia. Erano eccellenti guerrieri e spesso organizzavano spedizioni militari nel basso Omo e nella  regione dei laghi della Rift Walley con l’unico scopo di razziare bestiame e catturare i giovani migliori per fae degli schiavi.
Nelle loro passate conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse, sostituendoli con termini dal significato dispregiativo, o addirittura con un nome che indicava  lo stato di schiavitù. Ad esempio, la provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi fa parte della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigrè (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigrè in amarico significa «sotto il mio piede», cioè «servo». Tigrè è anche il nome di una popolazione dell’Eritrea settentrionale, nella cui struttura sociale i tigrè (servi) sono governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).
Un altro esempio ce lo foiscono i nara dell’Eritrea che sono meglio noti come baria, un antico termine aksumita che significa schiavo.
I somali poi, chiamavano gli oromo galo, che in senso dispregiativo vuole dire non mussulmano. Nell’antica lingua gheez il termine galla significa «schiavo» e gli amara hanno approfittato di questa somiglianza per chiamare galla gli oromo.
Gli uolaita sono stati chiamati uolamo, che deriva da uoi lam, la cui traduzione letterale è «oh! una mucca». Un ulteriore esempio di questo sarcasmo lo si ritrova nella provincia del Beghemedìr, regione di Gondar: Beghemedìr significa «terra di pecore». Dai beni-shangùl della regione di Asossa, vicino al confine sudanese, gli amara hanno derivato il nome scianchilla, o sciangalla, col significato di «negro», e lo hanno assegnato ai gumùz, abitanti lungo il confine sudanese e nel Uollega occidentale.
L’usanza di sbeffeggiare i vinti, indicandoli con nomi offensivi, era diffusa anche fra altre popolazioni del Coo. Gli oromo hanno chiamato giangerò, «scimmione», gli iama che abitano la valle dell’Omo, mentre gli agnuaa di Gambella sono chiamati iambo, «schiavo».
I caffini chiamano surma, «negro», le tribù ciai, tirma, zilmamo e altre nei dintorni di Maji.
A tal proposito una menzione  particolare merita il nome sidama. In lingua oromo (seconda lingua etiopica dopo l’amarico) sidama significa «straniero», termine riservato dagli oromo agli amara confinanti, con i quali spesso combattevano ferocemente.
I viaggiatori europei del XIX secolo, dopo aver attraversato le terre degli oromo, giunsero nel Caffa, all’altezza del medio corso dell’Omo, e constatarono che queste popolazioni non oromo erano chiamate sidama, e con tale nome continuarono a chiamarle. Oggi queste popolazioni sidama sono comprese nel gruppo omotico (vedi riquadro). Va precisato che una popolazione del gruppo cuscitico di nome sidamo, che abitava un tempo tutto l’altipiano del Bale, è stata spinta dagli oromo verso ovest e oggi abita una piccola regione a sud del lago Auassa.
Per complicare la confusione dei nomi, l’Amministrazione etiopica chiama sidama i sidamo, mentre chiama Sidamo tutta la provincia compresa fra i laghi della Rift Valley a ovest, e il corso del Ghennale (poi Giuba) a est, regione abitata prevalentemente da oromo.
Per ultimo citiamo gli abitanti di Harar, che molti continuano a chiamare aderè: chiamare gli abitanti di Harar aderè, anziché harari, è come chiamare galla un oromo, cioè è un insulto.
Dopo la conquista di Harar (1887), Menelik assegnò al cugino Maconnèn il governatorato di Harar e chiamò aderè, che significa «protetti», gli abitanti di Harar, che erano i discendenti di un’antica colonia aksumita e parlavano l’harari, una lingua derivata dal gheez. Oggi gli abitanti di Harar vogliono essere chiamati harari.
Come si sono formate
le popolazioni del Coo?
È interessante vedere come si sono formate queste popolazioni, che indicheremo complessivamente col nome biblico di «etiopici», ad eccezione dei rashaida che, come abbiamo detto, sono arabi, e dei bantu della Somalia, che sono i discendenti degli schiavi negri razziati dagli arabi nell’Africa equatoriale.
Sembra che la prima migrazione di popolazioni verso l’Africa si sia verificata alcune decine di migliaia di anni fa: genti negre si sono spostate dall’Asia all’Africa attraverso l’istmo di Suez; tale migrazione si è svolta molto lentamente, durando secoli se non addirittura millenni.
Queste popolazioni si diressero verso sud lungo il Nilo, costeggiarono a occidente il massiccio etiopico e si sparsero nell’Africa centro-meridionale dando origine al gruppo bantu. La retroguardia di questa migrazione si stabilì più a nord, nel Sahara centrale, insediandosi in parte anche sull’altipiano etiopico e dando origine ai nilo-sahariani: masai, nuba, dinka, scilluk, nara, cunama, gumùz e altre popolazioni oggi stanziate nell’ovest dell’Etiopia e in Kenya.
Successivamente si ebbe, a diverse ondate, sempre dall’Asia, una migrazione di genti dalla pelle più chiara, i camiti, che si divise in due rami: camiti settentrionali (berberi, egizi), e camiti orientali, detti anche cusciti, da Cush, nome biblico dell’Etiopia; parte di questi ultimi occupò l’altipiano etiopico: gli agau (pronuncia agò) a nord del Nilo Azzurro, i sidama a sud, oggi facenti parte del gruppo omotico; un’altra parte si stanziò a oriente del massiccio, lungo le coste del Mar Rosso e del Golfo di Aden, dando origine agli afar, agli oromo e ai somali.
La coda dei cusciti si fermò nel Sudan orientale, dando origine ai begia e ai beni-amer. Il colorito della pelle, oggi tendente al nero, indica che dopo il loro insediamento nell’Acrocoro ci furono ibridazioni con popolazioni negre.
Nel 1° millennio a.C. si ebbe una migrazione di popolazioni sudarabe, di pelle chiara, che avevano raggiunto un grado di civiltà elevatissimo, con un’agricoltura molto sviluppata, eserciti potenti, corti fastose e un sistema di scrittura. I minei e i sabei attraversarono il Mar Rosso, si attestarono sull’Acrocoro e fondarono, su un substrato di genti agau, il regno di Aksum. I sudarabi sono stati, nel corso dei secoli, assorbiti etnicamente dagli agau di pelle più scura; ma imposero la loro superiore cultura, dando vita al gruppo di popolazioni semitiche. Anche in questo caso la colorazione molto scura della pelle indica una mescolanza con popolazioni negre preesistenti, la frangia orientale dei nilo-sahariani.
Una successiva influenza araba si esercitò dopo l’avvento dell’islam, e interessò non solo la costa del Coo, ma gran parte dell’Africa, soprattutto sotto l’aspetto linguistico e religioso.
assetto geografico attuale
L’attuale assetto geografico delle popolazioni del Coo, dopo le importanti migrazioni che stabilirono gli insediamenti originari, ebbe inizio con l’espansione del regno di Aksum, che arrivò ad estendersi dalla Nubia fino ai confini della Somalia.
Nel VII secolo, dopo la conquista araba dell’Egitto, venuti a mancare i traffici importanti fra Egitto e Oriente, Aksum decadde rapidamente; tentò di risollevarsi, ma nel X secolo, quando era quasi ritornato all’apice della sua potenza, fu distrutto dalle orde sanguinarie di Essato, o Gudit, una regina agau che portò morte e distruzione nel regno e uccise 400 principi aksumiti, relegati, secondo un’antica tradizione, sull’amba di Debra Damo.
Le popolazioni minori del gruppo semitico, gli argobba, gli harari e i guraghe (originari dalla regione di Gura in Eritrea) sono discendenti di antiche colonie militari aksumite. Dalle distruzioni di Essato si salvò un solo principe, che si rifugiò nel sud del paese e diede origine alla stirpe degli amara, che ebbero il loro natale nell’alta valle del Bascillò nell’Uollo.
I somali vengono alla storia per la prima volta a partire dal 1536, quando Ahmed Gragn, sultano di Harar, invase l’Etiopia con un esercito di dancali e di somali, distrusse chiese e monasteri, bruciò tutti i testi antichi e depredò l’Etiopia di tutti i suoi tesori. I somali, una piccola tribù dislocata fra Harar e Giggiga, si espansero successivamente verso est e verso sud, scacciando dalla Somalia gli abitanti negri e oromo ed arrivarono, come si è già detto, fino al Kenya orientale. Sono quindi un’unica popolazione con un’unica lingua e molti dialetti.
Gli oromo, che stanziavano nella Somalia orientale e nell’Etiopia meridionale, spinti dalla pressione somala, si diressero a est nel Kenya orientale e a nord in Etiopia, dove si sparsero in gran parte del paese. Dialetti diversi oromo sono parlati nel Uollo, negli Arussi, nel Caffa, nello Scioa, nel Tigrai meridionale.

Alberto Vascon  e Nicky Di Paolo

Alberto Vascon e Nicky Di Paolo




Vivere per Cristo e per lui morire

Un altro martire cristiano in un paese senza pace

Shahbaz Bhatti, 42 anni, era il ministro per le minoranze religiose in Pakistan, cattolico e unico non musulmano nel governo. È stato assassinato dai talebani a Islamabad, il 2 marzo 2011, colpito da 25 proiettili.
Chi era
Shahbaz Bhatti, il ministro ucciso dai talebani pakistani, nacque il 9 settembre 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio cattolico di Kushpur, un villaggio fondato dai frati Domenicani in cui «Bhatti ricevette una formazione spirituale molto solida». Nel villaggio la convivenza con i fedeli musulmani (che lì sono in minoranza) è ancora «in perfetta armonia, all’insegna del dialogo di vita, e quell’esempio Bhatti lo portò con sé come modello in tutta la sua esperienza di impegno sociale e politico» – come ricordò l’Arcivescovo di Islamabad, Mons. Anthony Rufin, durante il suo funerale.
Suo padre Jacob, servì a lungo nell’esercito, poi si impegnò nel campo dell’istruzione, insegnando per molti anni, e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 fu ospitalizzato a Islamabad, dove peggiorò dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011; morì il 10 dello stesso mese. L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava a affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti dopo aver completato i suoi studi intraprese la carriera politica nel Pakistan People’s Party, il partito più riformatore del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto, con cui lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana. Shahbaz era sul convoglio insieme alla Bhutto al momento dell’attentato e riportò solo ferite leggere.
Bhatti ebbe sempre un’attenzione particolare per la situazione dei gruppi più discriminati del Paese. Era presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose (non musulmane) del Pakistan, che tuttora opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli diceva semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo».

(adattato da AsiaNews)

Il suo «testamento»
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un Venerdì Santo quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarlo senza provare vergogna».

(da www.consolata.org)
A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Diritti e tutela

Migliorare la salute matea e neonatale nel Sud del Mondo

I dati relativi alla salute matea e neonatale nel mondo rivelano una situazione di enorme disparità tra il Nord e il Sud del mondo: una donna in gravidanza nei paesi poveri corre un rischio 300 volte maggiore di morire a causa di complicazioni rispetto alla sua sorella dei paesi ricchi. Una donna muore ogni minuto per cause diverse soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e l’Asia meridionale. È una situazione inevitabile o si può prevenire?

È trascorso oltre un ventennio da quando la comunità sanitaria globale nel 1987 si riunì sotto gli auspici dell’Iniziativa «Mateità sicura» per concentrarsi soprattutto sulla mortalità matea, i cui dati oggi, come allora, rivelano una realtà globale in cui rimane estremamente fragile lo stato della donna in ambito sanitario. D’altro canto il divario nel rischio di mortalità matea tra il mondo industrializzato e molti paesi del Sud, soprattutto quelli meno sviluppati, è spesso definito «il più ampio divario del mondo». In altri termini, come ribadito recentemente (2009) anche da UNIFEM, il Fondo delle Nazioni Unite contro le disparità di genere, una donna del Sud del mondo è almeno 300 volte più esposta al rischio di morire a causa di complicazioni dovute alla gravidanza o al parto di una donna che vive nel ricco Nord. Eppure ancora
nel 2000, quando vennero definiti gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, oltre 600mila donne morivano ogni anno per complicazioni collegate alla gravidanza e al parto. Circa il 95% dei decessi matei avveniva nei paesi in via di sviluppo. Attualmente, secondo quanto riportato nel recente rapporto «La Condizione dell’infanzia nel mondo», redatto nel 2009 dall’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ogni anno più di mezzo milione di donne muore per cause associate alla gravidanza e al parto e circa 4 milioni di neonati muoiono entro 28 giorni dalla nascita. Inoltre, milioni di donne che sopravvivono al parto subiscono lesioni, infezioni, malattie e disabilità, spesso con conseguenze che durano tutta la vita. Dati certamente allarmanti che misurano il polso attuale della salute globale per le categorie cosiddette fragili.

CAMBIARE SI PUÒ
Nel moderno contesto globale quindi una donna muore ogni minuto per cause in gran parte prevenibili, soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e in Asia meridionale dove si stima un restante 35%, lasciando il mondo molto distante dal suo obiettivo di ridurre di tre quarti il tasso di mortalità matea tra il 1990 e il 2015 (il cosiddetto MDG 5, Traguardo A). Oltre ai decessi, però, disabilità, malattie, infezioni e lesioni inficiano permanentemente la salute di molte giovani donne, sebbene esistano soluzioni efficaci in termini di costi ed risultati. Si tratta di misure urgenti e radicali, di cui si fanno carico per lo più Ong e organismi inteazionali, nei pur delicati contesti sudmondisti. Dalla prevenzione sanitaria ai più complessi progetti di cooperazione, sarà possibile abbattere quel dato allarmante che stima ancora l’86% dei decessi neonatali come conseguenza diretta di patologie gravi (sepsi-polmonite, tetano e diarrea), asfissia e parto pretermine. Si stima inoltre che le patologie infettive rappresentino circa il 36% di tutti i decessi neonatali, causa principale di morte, soprattutto dopo la prima settimana. La modea ricerca applicata alla sanità sudmondista, ha dimostrato che circa l’80% delle morti legate alla gravidanza si potrebbero evitare se le donne avessero accesso ai servizi essenziali di prevenzione e assistenza sanitaria di base. L’adozione di pratiche igieniche durante il parto è fondamentale per prevenire le infezioni possibili in quel momento, ma ci sono altre complicazioni o malattie che devono essere riconosciute e trattate in tempo. Ugualmente le infezioni nei neonati devono essere riconosciute e trattate subito dopo il parto. Oltre il 40% dei decessi annuali di bambini sotto i cinque anni, l’equivalente di quasi 3,7 milioni di fanciulli, secondo le stime del-l’OMS, avviene nei primi 28 giorni di vita. Tre quarti di questi si verificano nei primi sette giorni di vita e anche la maggior parte di essi sono assolutamente prevenibili.

MODELLI VIRTUOSI
Questi decessi, pesantemente concentrati tra i gruppi di popolazione più svantaggiati all’interno dei paesi con poche risorse, riflettono una disuguaglianza sociale persistente e ingiusta che merita da tempo maggiore attenzione.
Va comunque ricordato che buona parte del lavoro di riduzione delle disuguaglianze va al di là delle possibilità del settore sanitario stesso. La causa di molte malattie non è la mancanza di antibiotici, ma di acqua pulita; le malattie cardiache non dipendono tanto dalla scarsità di unità coronariche, quanto dagli stili e dagli ambienti di vita. Di conseguenza, il settore sanitario deve attirare l’attenzione sulle «cause» alla radice delle disuguaglianze. Affidarsi troppo agli interventi medici è un modus vivendi troppo occidentale. Il modo migliore per aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la qualità della stessa sarebbe, senza dubbio, l’adozione, da parte di ogni governo, di politiche e programmi per la salute e l’uguaglianza sanitaria. Ma non solo. I progressi del paese nel campo dello sviluppo umano, soprattutto nell’istruzione matea e infantile, sono stati una delle più grandi storie di successo sud-mondista dei degli ultimi decenni. Proprio dal popoloso subcontinente asiatico è possibile evincere alcuni modelli sanitari virtuosi che hanno invece cambiato, in alcuni stati e regioni, l’inarrestabile catena di morte generata da povertà e dalla crescita demografica.

IL CASO DELLO SRI LANKA
Quella dello Sri Lanka, accanto a quella del sistema sanitario dello stato indiano del Kerala, è la storia più recente di un successo pianificato. Un paese a basso reddito, martoriato da una lunga guerra civile e dalle conseguenze devastanti dello tsunami del 2004, è riuscito a risollevarsi da una drammatica situazione di deprivazione sanitaria. Il tasso di mortalità neonatale dello Sri Lanka è diminuito da 340 su 100mila nati vivi nel 1960, a 43 su 100mila nati vivi nel 2005 e, oggi, il 98% dei parti avvengono negli ospedali. I tassi di assistenza prenatale – almeno una visita – e di assistenza qualificata al parto raggiungono il 99%. Questi risultati hanno avuto effetti positivi anche sulla sopravvivenza infantile: il tasso di mortalità sotto i cinque anni è diminuito da 32 su 1.000 nati vivi nel 1990, a 21 su 1.000 nel 2007. Gli ultimi dati disponibili indicano che anche il tasso di mortalità neonatale si è ulteriormente ridotto a circa 8 su 100mila nati vivi nel 2004. Anche nel settore dell’istruzione di base, le prestazioni dello Sri Lanka sono state straordinarie. Secondo le più recenti stime inteazionali, il tasso netto di iscrizione elementare è pari a oltre il 97% sia per i maschi che per le femmine, mentre i tassi di alfabetismo tra i giovani di età tra 15 e 24 anni raggiungono il 97% tra i maschi ed il 98% tra le femmine. I dati amministrativi indicano che il tasso di completamento della scuola primaria è del 100%. Tenuto perciò conto della correlazione positiva tra istruzione e sopravvivenza matea e infantile, questi sono i risultati di investimenti sostenuti in tutti e tre i settori. La chiave degli straordinari miglioramenti nella salute matea compiuti dallo Sri Lanka è stata l’estensione di un pacchetto sinergico di servizi sanitari e sociali ai poveri. Il sistema sanitario del paese, che risale alla fine del XIX secolo, ha posto come obiettivo innanzitutto la foitura universale di un’assistenza migliorata, i servizi igienico-sanitari e la gestione delle malattie. Successivamente, ha aggiunto interventi specifici per migliorare la salute delle donne e dei bambini. Nel corso degli anni, i governi hanno adottato un approccio prudente che dava la priorità ai servizi di assistenza sanitari per le madri ed i poveri, utilizzando le risorse economiche e umane in maniera giudiziosa. I miglioramenti ottenuti nella salute delle donne sono sostenuti e rafforzati da misure volte all’empowerment sociale e politico delle donne mediante l’istruzione, l’occupazione e l’impegno sociale. Le radici culturali e il passato coloniale foiscono inoltre una prospettiva unica sull’evoluzione della salute matea nel paese. Si tratta di una tradizione secolare che affonda le sue radici nei testi medici dei secoli IX e X, mentre alcune pratiche affina-tesi durante il periodo coloniale hanno visto l’istituirsi di alcune importanti professioni mediche. Quella ostetrica, ad esempio, grazie al governo coloniale britannico ha registrato i decessi per gravidanza fin dai primi anni del secolo scorso, garantendo così la raccolta di una grande quantità di informazioni e di conoscenze.
Precise competenze obbligatorie hanno inoltre contribuito a professionalizzare le ostetriche, mentre la politica di «non cercare il colpevole (della eventuale morte del neonato) a tutti i costi» ha aiutato a svolgere inchieste su invalidità e morti matee. I risultati sono stati sensazionali: la mortalità matea si è dimezzata tra il 1947 e il 1950 e solo dieci anni dopo, le percentuali dei decessi si sono ulteriormente dimezzate.
Una volta messe a punto le strutture e le reti sanitarie, il miglioramento di organizzazione e gestione clinica ha consentito allo Sri Lanka di ridurre il tasso di mortalità neonatale e matea del 50% ogni 6-11 anni. Inoltre, il livello di alfabetismo delle donne è aumentato dal 44 al 71% in poco più di vent’anni. Anche i tassi di assistenza qualificata al parto presso le strutture ospedaliere sono aumentati. Le ostetriche da più di cinquant’anni hanno contribuito all’ampliamento dei servizi pubblici di pianificazione familiare, oltre ad avere svolto nella sanità pubblica il proprio ruolo di assistenti ai parti. Ciò dal momento che l’assistenza domiciliare è diminuita dal 9% nel 1970 ad appena l’1,5% nel 2010.

PROBLEMI DA RISOLVERE
Malgrado i progressi significativi rimangono ancora problemi da risolvere, per lo più amplificati dalle nuove dinamiche transfrontaliere della globalizzazione. Negli ultimi anni, ad esempio, il paese registra un’importante carenza di operatori sanitari, molti dei quali mi-grati nei paesi occidentali; secondo il World Health Statistics, nei primi dieci anni del nuovo Millennio, il paese, ha stimato appena 6 medici e 17 infermiere-ostetriche ogni 10mila abitanti. Tuttavia i servizi si sono deteriorati a causa del giro di vite alle risorse finanziarie, con una spesa sanitaria di circa il 3,5% del PIL nel 2010. E il problema della sicurezza alimentare, soprattutto se i prezzi inteazionali degli alimenti rimarranno elevati, rischierà di inficiare parte dei buoni risultati fin qui conseguiti in ambito sanitario. Il paese presenta ancora condizioni marcate di malnutrizione tra i neonati ed i bambini sotto i cinque anni. Secondo le recenti stime foite dall’UNICEF, più di 1 neonato su 5 nasce sottopeso ed il 23% dei bambini sotto i cinque anni sono moderatamente o gravemente sotto-peso. E il miglioramento dei livelli di allattamento esclusivo al seno per i bambini di età inferiore a sei mesi, rispetto a quello attuale del 53%, sarà vitale per mantenere i risultati ottenuti dallo Sri Lanka nella mortalità neonatale ed infantile.

LOTTA ALLA POVERTÀ: ESSENZIALE PER LA SALUTE
Ecco alcune strategie virtuose nate dalla consapevolezza di come le politiche sanitarie che non promuovano una lotta alla povertà e alla disparità economica, o che considerino la salute una merce, abbiano come corollario una «catastrofe». Ma come è stato possibile un risultato come quello dello Sri lanka in un mondo dove la politica non indirizza più l’economia, dove le logiche di mercato rappresentano il motore dell’azione politica e dove impera ancora la convinzione che un modello di sviluppo economico possa essere garantito solo dalla libera concorrenza? Imparare dunque da alcuni stati del Sud del mondo è una nuova opportunità per comprendere come sia possibile consolidare la salute di donne e bambini con costi almeno quattro volte inferiori a quelli attualmente affrontati nella nostra società. Equità, partecipazione degli individui e multisettorialità sono gli elementi di base di una ricetta dal valore indiscusso, applicabile a livello globale. Strategie solide, risorse adeguate e impegno politico, possono invece garantire un successo consolidato nel tempo. Un fatto su cui vi invito a riflettere.
(2. continua)

Massimo Ruggiero

Massimo Ruggiero




A tutto gas

Viaggio in uno dei paesi più repressivi del mondo

Dal 12 marzo 2010, dopo 13 anni di attesa, la Chiesa cattolica è ufficialmente
riconosciuta in Turkmenistan, paese di forti contraddizioni politiche, economiche e sociali. Dopo 21 anni di regime qualcosa sta cambiando, ma il rispetto dei diritti umani è ancora un miraggio.

Fino a 90 anni fa il Turkmenistan, nella sua forma attuale, non esisteva. Il suo territorio, 85% formato dal deserto del Karakum, non ha mai fatto storia, ma è passato da un impero all’altro via via che vi si accampavano gli eserciti in marcia verso territori più ricchi. La sua storia si è confusa per secoli con quella della potenza di tuo: achemenide, greco-battriana, partica, sasanide, araba, mongola, persiana, finché le tribù turkmene (o turcomanne) costellarono la regione di isole feudali, con relative roccaforti, e cominciarono a ingaggiare scaramucce con le altre tribù e, soprattutto, depredare e fare schiavi tra le carovane di passaggio sulla via della seta.
Quando cominciarono a rapire pure i russi, lo zar mandò le forze militari contro le tribù ormai incontrollabili, facendo anche migliaia di vittime tra i gruppi resistenti (1881), finché tutti i territori centroasiatici furono sottomessi alla Russia, sotto l’amministrazione speciale del Turkestan (1885). Dopo la rivoluzione russa, questi territori furono divisi in 5 repubbliche, con confini ben definiti: nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Turkmena (1924).
comunismo senza fine
Le politiche sovietiche volte a collettivizzare l’agricoltura, trasformare il territorio, bandire la religione, scatenarono resistenze e guerriglie, ma alla fine riuscirono a cancellare le tradizionali divisioni etniche, linguistiche e claniche dei turkmeni nomadi, costringendoli anche con la forza a diventare stanziali, per coltivare il cotone. Per espandere tale coltura, il deserto del Karakum divenne teatro di importanti opere d’irrigazione, una delle quali attraversa il Paese dal confine usbeco a quello iraniano.
Ma la vera fortuna del Turkmenistan è stata la scoperta di giacimenti di gas metano e petrolio, che hanno permesso alla Repubblica di diventare uno dei maggiori fornitori energetici della Russia.
Negli anni ’80, il Turkmenistan non fu sfiorato dai venti di cambiamento che soffiavano nelle altre repubbliche sovietiche. Nel 1989 un gruppo di intellettuali turkmeni tentarono di fondare un partito progressista e di opposizione democratica, il Fronte popolare Agzybirlik (unità), ma fu subito bandito dal Partito comunista turkmeno (Pct), guidato da Saparmyrat Niyazov.
Al potere dal 1985 fino alla morte (2006), Niyazov ha governato il Paese in puro stile sovietico; anzi, peggio. Dichiarata unilateralmente l’indipendenza dall’Urss (1991), per i turkmeni il comunismo ha cambiato solo pelle: il Partito sovietico è diventato «Partito democratico turkmeno» (Pdt); la Costituzione, varata nel 1992, ha accresciuto i poteri del capo di Stato e di Goveo. Il potere politico assoluto ha permesso a Niyazov d’impadronirsi anche di quello economico, accaparrandosi i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio e gas naturale, di cui il Turkmenistan è quinto produttore mondiale. Disponendo di enormi finanze, il dittatore iniziò a progettare opere faraoniche e bizzarre e a plagiare letteralmente l’opinione pubblica, con promesse più che patealistiche: acqua, gas e luce gratis, benzina a prezzi stracciati, biglietti aerei per voli interni a circa 2 euro; gratuite anche istruzione, assistenza a partorienti e malati terminali.
Nel 1999, dopo un plebiscito, Niyazov fu «costretto» ad accettare la presidenza a vita; ma preferì farsi chiamare «Turkmenbashi», «padre e duce/guida dei turkmeni», mentre all’estero veniva accusato di essere «in preda a un delirio di onnipotenza da satrapo orientale».
Il culto della personalità del dittatore raggiunse il parossismo; nei suoi confronti, Stalin e Mao Tse Tung sembrano dei timidoni. Una serie di città sono state ribattezzate «Turkmenbashi», così pure aeroporti, numerose scuole; persino la montagna più alta del Paese e un meternorite caduto nel 1999 al confine con l’Uzbekistan portano il suo nome.
Il Paese fu letteralmente disseminato di statue e ritratti del dittatore e familiari; il suo volto cominciò a campeggiare su manifesti, banconote, bottiglie di vodka, scatole di tè, boccette di dopobarba… Cambiati i nomi dei mesi, gennaio si chiamò Turkmenbashi, aprile Gurbansoltan, nome di sua madre, usato per ribattezzare perfino il pane, ora chiamato: Gurbansoltanedzhe.
Per non sfigurare di fronte al «grande timoniere» dei cinesi, anche il «duce dei turkmeni» ha voluto scrivere il suo libretto, anzi un grosso libro in due volumi, intitolato Ruhnama (Libro dell’anima). Esso contiene i suoi precetti, il suo pensiero filosofico e folklore epico del suo popolo.
Per legge, il Ruhnama doveva essere accanto al Corano nelle moschee, in bella vista nelle librerie, scuole e uffici pubblici; tutti i cittadini dovevano impararlo pressoché a memoria; bisognava conoscerlo per superare il «test di moralità» per esercitare un pubblico impiego e per avere la patente di guida. Gli insegnanti devevano conoscerlo e diffonderlo, pena il licenziamento; giornalisti e studiosi erano invitati a scrivere periodicamente sui giornali elogi filologici dell’opera; i medici giuravano non su Ippocrate, ma su Turkmenbashi.
I «precetti» toccavano molti aspetti della vita quotidiana dei turkmeni: nessun uomo poteva portare la barba o capelli lunghi; vietata la musica registrata («uccide la nostra cultura» spiega), come pure opera e balletto; i cani erano banditi dalla capitale, Ashgabat, perché puzzano.
libertà religiosa cercasi
Bizzarrie e patealismo a parte, Niyazov è stato un despota tra i più oppressivi della storia: sotto di lui il Turkmenistan è diventato il terzo Stato al mondo con i più bassi livelli di libertà di stampa e di espressione, religiosa compresa: biblioteche e teatri rurali sono stati chiusi; oppositori politici incarcerati, esiliati o zittiti; giornalisti ridotti a impiegati statali; chiusi i canali televisivi privati; impedito l’accesso ai giornali stranieri.
Fin dall’indipendenza (1991) in Turkmenistan c’è stato un crescendo di attacchi contro i gruppi religiosi minoritari, da fare impallidire le purghe staliniane.
La Costituzione prevede la libertà di religione; ma il governo impone che ogni gruppo religioso sia registrato ufficialmente. Non esiste una religione di stato, ma un modesto risveglio islamico si è registrato dopo l’indipendenza, e il governo ha incorporato alcuni elementi della tradizione musulmana nei suoi sforzi di definire l’identità turkmena. Il governo dà qualche contributo per la costruzione di nuove moschee, quasi vuote eccetto durante il Ramadan.
Per ottenere la registrazione governativa, il gruppo religioso deve provare di essere composto da almeno 500 persone di età superiore ai 18 anni e residenti nella stessa città. Con tali requisiti possono ottenere il riconoscimento legale solo i musulmani sunniti (87% su 4,5 milioni di turkmeni) e i russi ortodossi (6,4%); le altre comunità religiose, pur presenti nel Paese, contano poche decine di fedeli e non possono radunarsi, fare proselitismo o distribuire materiale religioso.
Non è consentito neppure incontrarsi in case private: se vengono scoperti, e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia di sicurezza, i partecipanti sono soggetti a multe e arresti amministrativi e accuse penali, che si traducono in carcerazioni, torture, deportazioni ed espulsioni, sequestri e distruzioni di proprietà.
L’accanimento si riversa soprattutto sui leaders dei gruppi cristiani, per spezzae la resistenza e forzarli a rinunciare alla fede o a lasciare il Paese. Alcuni predicatori evangelici sono stati costretti ad abiurare la propria fede e giurare sul Ruhnama, il libro spirituale di Niyazov.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato sono soggetti a controllo, i musulmani soprattutto. Per impedire l’ingresso di movimenti islamici stranieri, il governo usa vari modi: vieta la distribuzione di materiale religioso islamico pubblicato fuori del Paese; paga lo stipendio al clero islamico e vieta l’insegnamento a certi imam; chiude scuole coraniche; seleziona e riduce al minimo i partecipanti ai pellegrinaggi alla Mecca.
La ragione di tale politica repressiva della libertà religiosa è spiegata chiaramente dall’ex ministro degli esteri turkmeno, Boris Shikhmuradov, rifugiatosi a Mosca perché in dissidio col regime: «Niyazov prende personalmente tutte le decisioni su ogni aspetto della vita del Paese, incluse le questioni religiose, sebbene egli non abbia alcuna idea di cos’è la religione. Egli non tollera alcun dissenso e si serve di servizi segreti e polizia di sicurezza per controllare il Paese».
nuovo corso?
Alla fine del 2006, il Turkmenbashi fu stroncato da un infarto. A sostituirlo fu chiamato il ministro della Sanità, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista sopravvissuto alle numerose purghe del passato. Convocate le elezioni per febbraio 2007, egli sconfisse i cinque concorrenti, ottenendo l’89% dei voti. Era ovvio che, dopo 21 anni di lavaggio del cervello, la gente scegliesse un uomo dello stesso calibro e spessore del defunto leader.
Al momento dell’insediamento, il nuovo presidente fece molte promesse di cambiamento. Per cominciare ha tolto dall’inno nazionale tutti i riferimenti a Niyazov, ha rimosso il suo libro (Ruhnama) da edifici pubblici e moschee, moltre statue e ritratti da tutto il paese, ha cancellato dai muri le sue scritte; gli impiegati pubblici non furono più obbligati a studiare a memoria i suoi precetti.
Di fatto, però, Gurbanguly Berdymukhamedov ha cercato di stabilire una nuova forma di culto della personalità presidenziale, pur rimuovendo dalla sua persona ogni sfumatura religiosa. Statue, ritratti, scritte del passato dittatore sono ora rimpiazzati con immagini e poster dell’attuale presidente. Agenti dell’amministrazione presidenziale vendono alle pubbliche istituzioni (scuole comprese) i suoi libri di medicina, di storia della sua famiglia e sui cavalli akhal-teke.
Ha liberato una dozzina di prigionieri politici; ha istituito un paio di commissioni per studiare la riforma delle leggi del Paese riguardanti i diritti umani. Ma i rapporti di agenzie inteazionali esprimono diverse preoccupazioni circa i rischi individuali dei cittadini in Turkmenistan sia a causa di sparizioni forzate sia soprattutto per un ferreo controllo dei media che porta alla repressione del dissenso.
«Tutti gli organi di informazione, sia di stampa che elettronici, sono rimasti sotto il controllo statale. Gioalisti che lavorano con media stranieri indipendenti sono stati vessati dalla polizia e dai servizi di sicurezza nazionale (Rapporto Amnesty 2009). Human Right Watch, nell’aggioamento riguardante il 2009, afferma che il governo «ha reso ancora più dura la repressione in un Paese già molto repressivo e autoritario». Nell’indice mondiale della libertà di stampa, il Turkmenistan rimane al terzultimo posto, prima della Corea del Nord e della Birmania.
Per rompere l’isolamento in cui era piombato il Paese negli ultimi due decenni, Berdymukhamedov ha allentato parecchie restrizioni sulla libertà di movimento e di religione. Lui stesso, nel suo primo viaggio all’estero si è recato in Arabia Saudita, per incontrare i monarchi e fare il suo pellegrinaggio alla Mecca.
Nel rapporto all’Onu del gennaio 2010, il governo turkmeno afferma di aver registrato 123 nuovi gruppi religiosi in tutto il Paese: di essi 100 sono musulmani sunniti e sciiti, 13 russi ortodossi; gli altri 10 includono battisti, pentecostali, avventisti, evangelici, Baha’i, Hare Krishna.
Lo stesso rapporto, tuttavia, ribadisce il bando delle attività dei gruppi non registrati, la proibizione per tutti i gruppi, compresi quelli approvati, di pubblicare e importare materiale religioso; sono riconfermate altre norme invasive nella vita delle singole comunità, come ispezioni improvvise e controlli sugli aiuti provenienti dall’estero.
chiesa cattolica  riconosciuta
Fino a pochi mesi fa, ai cattolici era consentito di celebrare e svolgere attività religiose solo nel territorio diplomatico della nunziatura di Ashgabat. Il 12 marzo 2010, il Ministero della Giustizia turkmeno li ha ufficialmente riconosciuti come «Chiesa cattolica romana in Turkmenistan», nonostante la comunità non abbia una guida di cittadinanza turkmena, come richiede la legge.
L’attesa di questa registrazione durava da 13 anni, da quando fu eretta la «Missione sui iuris del Turkmenistan», nel 1997, staccata dalla giurisdizione dell’amministratore apostolico per il Kazakistan e affidata a padre Andrzej Madej e a un altro confratello, Oblati di Maria Immacolata.
Entrambi erano entrati nel Paese con status diplomatico, come rappresentanti dello Stato Vaticano. D’ora in poi la Chiesa cattolica ha una «presenza pubblica» ufficiale, con tutti i benefici che questo implica, a livello giuridico e a livello pastorale.
La Chiesa cattolica conta un centinaio di battezzati, in maggioranza di etnia polacca e tedesca, altrettanti catecumeni e un gruppo di «simpatizzanti della fede cristiana»; la maggior parte di essi risiede nella capitale; alcune famiglie sono a Turkmenbashy, a Mary e in altre città e villaggi. Superiore della missione è padre Andrzej, coadiuvato da altri due missionari Oblati.
Il Turkmenistan, come le altre repubbliche dell’Asia centrale, è una terra di «prima evangelizzazione», con una comunità piccolissima, ma già stanno nascendo le prime vocazioni: una giovane è entrata in una comunità religiosa in Polonia; un’altra in un carmelo a Kiev; un giovane è nella famiglia degli Oblati; altri stanno facendo un cammino di discernimento vocazionale.
Le speranze per il futuro della missione sono buone: la Chiesa riscuote forti simpatie tra la popolazione, le cui tradizioni islamiche sono state indebolite dal processo di secolarizzazione del periodo sovietico. «Con la crescita della comunità, avremo bisogno di strutture e più spazio – spiega padre Andrzej -. Pensiamo di chiedere al governo anche l’autorizzazione per costruire la prima chiesa cattolica nella nostra missione. Nell’attesa… continuiamo a edificare con “pietre vive”».

Benedetto Bellesi

La triplice CRISI

Il Turkmenistan deve affrontare contemporaneamente tre crisi: alimentare, mercato del gas e finanziaria.
1)  La crisi del grano che ha duramente colpito la Russia negli ultimi mesi si ripercuote pesantemente anche sul Turkmenistan, che di solito acquistava grano sul mercato nero da Russia e Kazakistan. Secondo fonti non ufficiali, solo la capitale, dove vivono numerosi stranieri, riceve approvvigionamenti di cibo adeguati, mentre nel resto del paese la crisi alimentare è grave.
2)  Il Turkmenistan possiede la quarta maggiore riserva di gas del mondo (dopo Russia, Iran, Qatar), con una produzione di 75 miliardi di metri cubi all’anno, ma non sa più a chi venderlo, dopo che la Russia ha ridotto le importazioni (da 50 a 10 milioni di metri cubi all’anno). Ashgabat ha stretto accordi con Cina e Iran, che importano rispettivamente 5 e 15 miliardi di metri cubi all’anno; nel 2011 sarà in funzione un nuovo gasdotto diretto in Cina; ma Pechino, non intende pagare il gas più di 100 dollari ogni mille metri cubi (per fare un paragone: la Russia lo compera a 250 dollari e lo rivende in Europa a 350-500 dollari). Prendere o lasciare.
3)  Il calo delle esportazioni di gas, da cui proviene il 50% del Pil, provoca una grave crisi finanziaria. Il resto del Pil viene dal cotone (35-40%) e da «altre fonti», traffico di droga incluso. Il Paese ha costantemente bisogno di prestiti per la spesa corrente. La Cina ha prestato al governo turkmeno 4 miliardi di dollari, a condizione che ne investisse 3 per migliorare l’infrastruttura per l’energia, e ne ha offerti in prestito altri 5. Il governo preferirebbe attrarre investimenti di compagnie occidentali (Eni, Chevron, Conoco), ma dovrà stare ai patti, più di quanto non ha fatto in passato.
(Fondazione CDF)

Benedetto Bellesi




Il papa ama l’Africa

A due anni dal viaggio di Benedetto XVI

A quasi due anni dalla visita di Benedetto XVI nei paesi dell’Africa occidentale (17-23 marzo 2009) pochi si sono domandati quali sono stati i suoi sentimenti e quali i contenuti dei suoi messaggi. Ci accontentiamo di essere spettatori alla televisione o di leggere sui giornali la cronaca della sua accoglienza e delle dimostrazioni di gioia e di affetto che gli sono state riservate. Non sempre invece ci chiediamo lo scopo del suo viaggio apostolico e quali problemi sente dentro di sé quando pensa all’Africa e alle difficili condizioni della sua gente.

Proviamo allora a ripercorrere insieme questo suo primo viaggio «missionario» africano da pontefice che ha cura di tutte le Chiese, anche le più dimenticate, come sono in genere quelle di alcune parti del continente africano, per scoprire così quali sono i problemi che tormentano l’Africa.
«Con questa visita – ha ricordato prima di partire da Roma per il Camerun e l’Angola – intendo idealmente abbracciare l’intero continente africano: le sue mille differenze e la sua profonda anima religiosa; le sue antiche culture e il suo faticoso cammino di sviluppo e di riconciliazione; i suoi gravi problemi, le sue dolorose ferite e le sue enormi potenzialità e speranze. Intendo, inoltre, confermare nella fede i cattolici, incoraggiare i cristiani nell’impegno ecumenico, recare a tutti l’annuncio di pace affidato alla Chiesa dal Signore risorto». «Penso in particolare – ha ancora aggiunto – alle vittime della fame, delle malattie, delle ingiustizie, dei conflitti fratricidi e di ogni forma di violenza che purtroppo continua a colpire adulti e bambini, senza risparmiare missionari, sacerdoti, religiosi, religiose e volontari».
«Io amo l’Africa», ha detto ai giornalisti mentre il Boeing 777 dell’Alitalia lo portava da Roma a Yaoundé in Camerun. «Ho tanti amici africani già dai tempi in cui ero professore. Amo la gioia della fede, questa fede giorniosa che si trova in Africa».
Con la sua prima visita in Africa (marzo 2009) il papa ha infatti voluto promuovere la fede che caratterizza la Chiesa africana. Ma poiché la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non è mai una «società perfetta», ha fatto anche appello a «una purificazione» non tanto delle strutture estee, quanto piuttosto del cuore e della coscienza, perché le strutture sono il risultato di ciò che è il cuore.
Ha inoltre parlato dei moltissimi movimenti religiosi, che nascono come funghi in varie parti del continente, e ha ricordato che la fede cristiana è frutto di un annuncio sereno e giornioso, perché propone un Dio vicino all’uomo e dà vita a una grande rete di solidarietà umana e cristiana. Le stesse religioni tradizionali africane si aprono sempre più al messaggio evangelico, perché vedono che il Dio dei cristiani non è un Dio lontano, ma un Dio vicino a ciascuno di noi.
Durante il suo viaggio in Africa il papa ha ancora affrontato l’impatto che l’attuale crisi economica può aver avuto nei Paesi poveri e l’importanza dell’etica per un retto ordine economico mondiale. La causa della recessione – ha sottolineato – è soprattutto di carattere etico, perché «dove manca l’etica, la morale, non può esserci correttezza di rapporti». Questo vale non soltanto per i paesi più ricchi, ma anche per l’Africa, dove la corruzione è uno dei mali da sconfiggere.
È, quello di combattere la corruzione per il bene della gente, un compito quanto mai urgente e necessario di qualsiasi governo, ma lo è soprattutto di coloro che si dicono cristiani. «Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione e all’abuso di potere – ha affermato il papa rispondendo alle parole di benvenuto del presidente della Repubblica camerunese, Paul Biya – un cristiano non può mai rimanere in silenzio». Il messaggio del Vangelo esige di essere proclamato con forza e chiarezza, «così che la luce di Cristo possa brillare nel buio della vita delle persone». In Africa, come pure in tante parti del mondo, «innumerevoli uomini e donne anelano a udire una parola di speranza e di conforto».
In un tempo di scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di cambiamenti climatici, l’Africa soffre in modo sproporzionato rispetto ad altri continenti. Un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà, della malattia, in particolare dell’Aids, mentre il traffico di esseri umani, specialmente di donne e bambini inermi, sta diventando una modea forma di schiavitù, e i «conflitti locali lasciano migliaia di senza tetto e di bisognosi, di orfani e vedove».
Nelle parole del papa si percepiscono sentimenti di amarezza, di angoscia profonda, di rammarico e sofferenza. Egli chiede a gran voce riconciliazione, giustizia e pace. È quanto la Chiesa offre: «Non nuove forme di oppressione economica o politica, ma la libertà gloriosa dei figli di Dio, non rivalità interetniche e interreligiose, ma la rettitudine, la pace e la gioia del Regno di Dio, descritto in modo così appropriato da papa Paolo VI come civiltà dell’amore».
Appena toccato il suolo africano per la prima volta durante il suo pontificato, Benedetto XVI si è fatto portavoce del grido di giustizia e di pace che risuona in tutto il continente. Citando una frase di un sacerdote camerunese, il presidente Biya, che ha accolto il papa ed è al potere dal novembre 1982, si è chiesto «Come è possibile non ascoltare il grido di dolore dell’uomo africano?». È il grido di molte donne rimaste vedove e di innumerevoli bambini che sopravvivono come possono per strada.
Per questo il papa in Africa è stato accolto come una «benedizione». Lo ha detto il grande iman di Yaoundé, lo sceicco Ibrahim Moussa: «Nel Corano il profeta Maometto ci raccomanda di accogliere bene gli stranieri, perché spesso vengono in pace. Per noi, quindi, l’arrivo del papa è una benedizione». Lo sceicco ha perciò rivolto un appello ai musulmani invitandoli a «rispettare la religione degli altri e a unirsi per accogliere questo grande uomo». Anche le comunità protestanti del Camerun hanno considerato l’arrivo del papa «una grazia che non può lasciare un cristiano indifferente» e hanno ritenuto il suo arrivo «un avvenimento di grande portata spirituale».

Giampietro Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Diamo un calcio alla dittatura

Intervista ad Aung San Suu Kyi

La liberazione di Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per 15 anni, è di buon auspicio per il ritorno alla democrazia. Un cammino che richiede alla «Signora» di cambiare strategia: ricompattare il partito, dialogare con i militari, rispondere alle minoranze etniche, non inimicarsi la Cina. Ma l’Occidente deve mutare atteggiamento.

I sette giorni che cambiarono il Myanmar. Così potrebbe passare alla storia, nel Paese asiatico, la seconda settimana di novembre 2010. Alle prime elezioni dopo vent’anni tenutesi domenica 7, è seguita, ad appena sei giorni di distanza, la liberazione, tanto attesa quanto insperata, di Aung San Suu Kyi.
Pur rivelandosi un bluff istituzionale, le consultazioni generali hanno mostrato che la giunta militare sta cercando di riaprire la «road to democracy», il percorso politico e sociale che dovrebbe traghettare il Myanmar verso un regime democratico e pluralista.
Il rilascio della leader del movimento democratico birmano sarebbe la seconda importante tappa di questo tragitto, peraltro sconnesso e ricco di incongruenze.
«sgraditi» i giornalisti
Una di queste contraddizioni l’ho sperimentata direttamente, allorché, a poche ore dall’apertura dei cancelli della sua villa sul lago Inya, ho potuto avvicinare la «Signora», come viene spesso soprannominata Aung San Suu Kyi in Myanmar.
L’incontro avrebbe dovuto essere un primo approccio per un’intervista più estesa e dettagliata, per cui avevamo già concordato tempi e modalità, che però non ha mai potuto avere luogo. Il severo controllo del regime sull’informazione, atta a filtrare ogni notizia che trapela dal Myanmar, si è tramutato in un’immediata espulsione dal Paese. «Il visto turistico non permette di effettuare servizi giornalistici» è stata la spiegazione data da uno dei due funzionari che mi ha notificato l’allontanamento dalla nazione.
In effetti, il solo fatto di essere riuscito a ottenere un visto d’entrata a ridosso delle elezioni, dopo che le ambasciate di Roma, Bangkok, Singapore e Kuala Lumpur me lo avevano negato in quanto «persona non grata», è stato un successo. L’essere riuscito, tra mille difficoltà e continui cambi di hotel per non essere rintracciabile dalla polizia, a seguire tutto il percorso elettorale fino a incontrare Aung San Suu Kyi, è stato un ulteriore trionfo.
libertà senza compromessi
Dell’incontro con Aung San Suu Kyi riporto le poche frasi che ci siamo scambiati.
Finalmente libera. Ci credeva o pensava che la Giunta ritirasse all’ultimo momento anche questa promessa?
«Non mi sono mai posta il problema. La giunta e io abbiamo idee contrapposte sulla democrazia e ho sempre sostenuto che la mia libertà non dovesse essere un pegno utilizzato dalla giunta per raggiungere compromessi».
Libertà significa anche azione, responsabilità e quindi essere oggetto di critiche. Cosa farà come prima cosa?
«Vorrei girare il Paese, incontrare gente, sentire i problemi direttamente da loro. Fare, insomma, quello che ho sempre fatto quando la Giunta me lo permetteva».
In carcere ci sono ancora più di 2 mila prigionieri politici: la sua liberazione non rischia di far dimenticare al mondo queste persone dai nomi meno noti del suo?
«Ha ragione, la mia libertà non deve far dimenticare questi difensori della democrazia che, per le loro idee, sono ancora incarcerate e io mi batterò affinché anche loro possano vedere aprirsi le spranghe delle celle».
La Lega Nazionale per la Democrazia non si è presentata alle elezioni e quindi non avrà nessun rappresentante al Parlamento. Come pensa di continuare la sua lotta politica dall’esterno?
«Il problema non è l’assenza dei nostri rappresentanti al Parlamento. Del resto la nostra posizione è stata chiara fin dal principio: chi l’avesse voluto, poteva candidarsi liberamente alle elezioni. Il problema però, è che le consultazioni del 7 novembre, così come la costituzione, si sono dimostrate un colossale imbroglio. Parteciparvi significava accettare la costituzione e ingannare il popolo. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia e della verità».
Ma L’intransigenza non paga
Le poche frasi scambiateci e le successive interviste rilasciate a media inteazionali e locali, mostrano che Aung San Suu Kyi è sempre più determinata a continuare l’attività politica che le è valsa la popolarità mondiale e un Premio Nobel per la Pace nel 1991. Govei di tutto il mondo e organizzazioni a favore del movimento democratico birmano hanno salutato, a ragione, la liberazione di Suu con soddisfazione.
Ma valutando attentamente ciò che la Lady ha sino ad oggi detto, appare chiaramente un mutamento della sua prospettiva politica. Sembra che i lunghi anni di segregazione le abbiano insegnato che per cambiare il regime dei generali non serve il pugno di ferro, ma una tattica vincente, prerogativa indispensabile per ogni politico, che a lei, però, è sempre mancata.
All’interno della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), il partito da lei fondato nel 1988, sono sempre più numerosi coloro che si chiedono quali frutti abbia portato l’intransigenza mostrata sino ad oggi dal Segretario generale. Troppe, infatti, sono le occasioni mancate, a partire dal fallimento dei colloqui con Khin Nyunt, nel 2003, considerato da molti, e a ragione, come l’unico militare in grado di cambiare le sorti della nazione.
Pur continuando a rappresentare la maggioranza dell’elettorato birmano, l’Lnd sta perdendo pezzi. Un primo gruppo è stato espulso dalla stessa Aung San Suu Kyi nel 1997, un secondo, più consistente, nel 2003 all’indomani della rottura dei negoziati con Khin Nyunt, allora numero uno della giunta militare e principale interlocutore con il movimento democratico. Nell’ottobre 2008, cento membri dell’ala giovanile dell’Lnd hanno lasciato il partito perché il nepotismo non lasciava loro spazio; infine, nel maggio 2010, un altro gruppo di dissidenti guidato da Khin Maung Shwe, ex portavoce e membro del Comitato Centrale, ha deciso di formare il National Democratic Force per partecipare alle elezioni di novembre, contravvenendo alle decisioni del partito di boicottare le votazioni.
«Gli ideali e i principi di democrazia e di giustizia di cui sono intrisi gli animi delle persone che formano il nucleo storico della Lega Nazionale per la Democrazia, purtroppo si stanno dissolvendo» spiega Raymond Sumlut Gam, vescovo di Bhamo, che continua: «Molti membri che negli ultimi anni sono entrati nella Lega non sono poi molto differenti dagli amministratori militari che abbiamo oggi».
Occorre, a questo punto, chiedersi cosa succederebbe se improvvisamente Aung San Suu Kyi o un membro del movimento per la democrazia, potesse assumere le redini del governo. «Il popolo pretenderebbe cambiamenti radicali immediati che nessuno, attualmente, sarebbe in grado di garantire» afferma un diplomatico occidentale. «Ci sarebbe il rischio di un malcontento diffuso e la rabbia crescerebbe assieme al sentimento di frustrazione e di disperazione. Il Paese sarebbe seriamente esposto a disordini sociali» conclude il diplomatico, che pur rappresentando un governo che critica aspramente il regime militare, non esita ad esprimere il suo scetticismo su un improvviso cambiamento di regime.
strada molto diplomatica
La diplomazia, si sa, viaggia sempre su piani paralleli: ciò che viene detto quasi mai rispecchia la reale conduzione politica che viene discussa a porte chiuse.
Molto probabilmente è quanto accaduto con Aung San Suu Kyi. Non a tutti è piaciuto quanto la leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha detto appena liberata. La richiesta di dialogo e di incontro con Than Shwe a molti, specialmente a coloro che nel 2003 erano stati espulsi dal partito per aver criticato l’intransigenza di Aung San Suu Kyi verso Khin Nyunt, è apparsa un voltafaccia inconcepibile: «Than Shwe è il militare più ottuso e incapace che abbiamo mai avuto: perché ora Aung San Suu Kyi decide di voler aprire un negoziato con lui quando con Khin Nyunt ha interrotto le trattative?» si chiede polemicamente Zaw Lin Oo, del Myanmar Democratic Congress, un partito formato principalmente da esponenti democratici e attivisti birmani.
Anche l’assoluzione data alla Cina riguardo al suo coinvolgimento nella gestione economica delle risorse del Myanmar, è apparsa a molti incomprensibile. La dichiarazione secondo cui «non vi è alcuna prova che la Cina stia depredando le ricchezze della Birmania» ha dell’incredibile, se non dell’eresia, soprattutto per le centinaia di organizzazioni che in Occidente da anni si battono a fianco del Premio Nobel per la Pace e che hanno sempre sostenuto che Pechino, uno dei principali alleati di Naypyidaw, sia complice di un bracconaggio economico ai danni del popolo birmano.
Pur essendo stata agli arresti domiciliari negli ultimi sette anni, Aung San Suu Kyi non può non sapere che la più grande economia asiatica è pesantemente coinvolta nel depauperamento delle risorse naturali birmane. La Signora ha semplicemente capito che la chiave della svolta politica nel suo Paese si trova proprio in Cina ed è con essa, più che con i governi occidentali, che dovrà trovare un modus vivendi.
Lo stesso governo cinese ha tutto l’interesse affinché il processo di democratizzazione proceda in Myanmar. La Cina, come hanno dimostrato i recenti conflitti etnici del Kokang nel 2009 e negli stati Kayan e Mon nel novembre 2010, è indispensabile affinché i gruppi minoritari abbiano un interlocutore valido e affidabile. Aung San Suu Kyi, in quanto bamar e figlia di Aung San, che non gode di buona fama tra le etnie del Myanmar, non ha potere sulle periferie del Paese. Una svolta democratica che non escluda a priori i militari, indispensabili per mantenere unita la nazione, è quindi necessaria affinché non si ritorni sull’orlo dell’instabilità etnica. E la Cina potrebbe fare da mediatore tra il governo centrale, i movimenti democratici e le spinte autonomiste delle minoranze etniche.
boicottaggio: non serve più
A una studiosa di storia come Aung San Suu Kyi non è certamente sfuggito l’insegnamento delle vicende passate della nazione birmana: tutto, nel Paese, può essere rimesso in discussione in brevissimo tempo. Dal 1988, anno in cui rientrò in patria per assistere la madre morente, Aung San Suu Kyi ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari, venendo liberata in diverse riprese, per poi ritornare coercitivamente alla sua villa al N. 54 di University Avenue.
Gli stessi generali non sono immuni da improvvise defenestrazioni: Ne Win, il compagno dell’eroe nazionale e padre di Suu Kyi, Aung San, e protagonista del putsch che nel 1962 pose fine alla breve parentesi democratica birmana, è morto agli arresti domiciliari e il suo successore, Khin Nyunt, è tuttora segregato nella sua dimora a Yangon.
Than Shwe e Maung Aye, rispettivamente numero uno e due del regime, sanno che, giunti oramai alla fine della loro carriera, le piaggerie di cui sono stati circondati sino ad oggi, potrebbero tramutarsi in ostilità. I due generali stanno quindi preparando il terreno per una pensione tranquilla e ricca, per sé stessi e per i loro accoliti, ritagliandosi probabilmente un posto puramente onorifico all’interno del nuovo assetto istituzionale.
Anche sul boicottaggio economico e turistico, Aung San Suu Kyi si è detta pronta a rivedere le sue posizioni, «se il popolo vuole veramente che queste siano cambiate». Haral Bockman, presidente del Norwegian-Burma Committee e presidente della Democratic Voice of Burma, afferma che, «guardando nel passato, il solo Paese dove l’embargo ha avuto successo nel cambiare politica, è stato il Sud Africa. In altre nazioni, come Iraq o Iran, il boicottaggio non ha portato a nulla. Ma in Birmania i generali sono imbevuti di nazionalismo e un’apertura economica verso il Paese asiatico, potrebbe radicare ancora di più questo sciovinismo».
Eppure, viaggiando per il Myanmar, risulta chiaro che, specialmente nel campo turistico, la popolazione accoglie con favore l’arrivo degli stranieri, specialmente quelli che arrivano individualmente. «Chi è favorevole all’embargo non è mai stato in Birmania, non ha mai parlato con un birmano, non ha mai visto le condizioni in cui viviamo» polemizza Ka Bawi, uno studente di Mawalamyine, sulla costa orientale del Paese.
Del resto all’interno stesso della Lega Nazionale per la Democrazia, non ci sono visioni unanimi sul boicottaggio. La stessa Aung San Suu Kyi nel 1985 ha scritto un libro dal titolo inequivocabile: Let’s go to Burma. Ha Yanghwe, figlio del primo presidente della Repubblica Birmana e direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles, interrogato sulla questione, ha dichiarato che «i turisti che visitano il Paese tramite agenzie di viaggio locali private o hotel non statali, possono essere utili perché interagiscono con la gente; ma quelli che utilizzano agenzie governative o arrivano con pacchetti turistici, generalmente visitano solo monumenti e si godono il sole sulle spiagge. Questo è un turismo di cui beneficiano solo i generali ed è questo ciò che noi non accettiamo».
Anche l’ovest deve cambiare
Una voce controcorrente proviene dalla Chiesa cattolica: l’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, dice che «ufficialmente siamo contrari all’embargo, non solo per il Myanmar, ma per tutti i Paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma ferisce ancora di più i birmani. I generali hanno innumerevoli possibilità per aggirare l’embargo. Sono i semplici cittadini birmani a non poterlo fare».
Mons. Bo si inoltra anche nella delicata questione affrontata da Aung San Suu Kyi a proposito della Cina, avallando la nuova posizione assunta dall’eroina birmana: «Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leader militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi da utilizzare per riportare il Paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina affinché questa induca i militari ad accettare i cambiamenti. Come seconda cosa gli Stati Uniti devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e di imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti verso il Myanmar».
L’amministrazione Obama sembra aver capito che questa è la strada da intraprendere. Hillary Clinton si è detta disposta a rivedere la posizione di Washington sul problema del boicottaggio e a intraprendere un dialogo con la giunta militare. Da parte loro i generali sembrano finalmente disposti ad allentare la presa sul Paese. Le elezioni, seppur falsificate nei loro risultati, e ancor più il rilascio di Aung San Suu Kyi, potrebbero essere le prime pedine mosse sulla scacchiera birmana.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Pelle nera, cuore indio

Nabasanuka: evangelizzazione e culture

Padre Josiah K’Okal, missionario fra gli indios warao, del Venezuela, ci parla della sua comunità, dei progetti, delle sfide, ma anche del grande entusiasmo con cui affronta quotidianamente il suo lavoro di pastore nel delta del grande fiume Orinoco.

Josiah, sono passati ormai quattro anni da quando ci hai raccontato gli inizi della vostra missione nel delta del fiume Orinoco (cf. MC, marzo 2007). Sarebbe ora di fare il punto della situazione. Per esempio, ti avevamo lasciato alle prese con il sogno di costruire un salone multi-uso per la tua comunità, che ne è stato di quel progetto ambizioso?

Ambizioso, hai detto bene: infatti, continua ad essere un sogno. Alcune organizzazioni ci hanno aiutato con diversi progetti, ma poche di esse si sono impegnate con costruzioni perché il lavoro risulta essere troppo costoso. Il problema è rappresentato dal trasporto del materiale che avviene esclusivamente per via fluviale. Tuttavia, il salone resta una priorità.
La struttura del popolo warao è cambiata; un tempo le comunità erano «comunità-famiglia», numericamente ridotte, e quindi in grado di trovare facilmente posti in cui incontrarsi. Oggi questo è impossibile ed è necessario identificare luoghi dove recuperare l’abitudine a ritrovarsi, raccontare la propria storia, insegnare le tradizioni ai più giovani e ai bambini. Vorremmo anche creare una specie di biblioteca-museo della cultura warao all’interno dello stesso salone. Dovrebbe diventare un posto dove i warao possano investigare le radici della propria cultura. Il sogno c’è, un giorno si realizzerà.

Lo stato non potrebbe dare una mano? Mi sembra che la politica dell’attuale governo sia abbastanza aperta alla difesa del patrimonio indigeno.
Dobbiamo riconoscere che questo governo si è sforzato più di altri nel dare uno spazio e un riconoscimento ai popoli indigeni. Sono anche stati investiti più fondi nella costruzione di scuole. Questo non solleva però il governo dalle sue responsabilità. Mi spiego: nel comune Antonio Diaz, dove sorge la missione di Nabasanuka, vi sono quattro scuole secondarie. Quando arrivammo, nel 2006, ne esistevano soltanto due, mentre altre due hanno aperto recentemente. È un fatto apparentemente positivo, ma quando si va a guardare nel concreto si nota che, per esempio, mancano moltissime cose fondamentali, a partire dalle strutture. Parlo per esperienza personale, dato che io stesso insegno inglese in una di quelle scuole: non abbiamo aule, non abbiamo una sede propria. L’unico modo per garantire il normale svolgimento delle lezioni in uno spazio che sia idoneo è ritrovarci di pomeriggio nelle aule della scuola elementare. L’istituto è a carattere scientifico e non abbiamo laboratori, né di chimica, né di fisica, tanto meno di informatica. Mancano i libri di testo e se voglio usare il gesso per la lavagna me lo devo comprare di tasca mia. I professori sono pagati, ma come maestri di scuola primaria; nessuno riceve uno stipendio di scuola superiore. Continuano a a lavorare solo perché ci credono. Ho qui sul computer due rapporti inviati in passato al ministero dell’Educazione, ma … nulla, non ci hanno degnati neppure di una risposta.

E per quanto riguarda la salute?

In Nabasanuka c’è un ambulatorio di quelli che chiamiamo «Centro di attenzione integrale di secondo livello», che secondo la legislazione del Venezuela prevede la presenza di un medico residente. Ne abbiamo avuto qualcuno in passato, ma oggi non più. Inoltre, non ci sono farmaci; a volte riceviamo la visita di medici di passaggio e non hanno medicine con cui trattare i pazienti.
Quello della salute è un vero problema: per andare da Nabasanuka a Tucupita, che è la capitale dello Stato e sede dell’ospedale a cui fare riferimento, un’imbarcazione normale impiega almeno quattro ore. Se il motore della barca è meno potente se ne possono impiegare anche sei e, inoltre, a Nabasanuka non abbiamo un’ambulanza fluviale. Abbiamo prestato anche l’imbarcazione della missione per portare pazienti, ma più di una volta abbiamo dovuto constatare con molto dolore la morte di persone che si sarebbero salvate se avessero avuto l’opportunità di essere trasferite tempestivamente all’ospedale.
E poi c’è la tragedia del combustibile…

In che senso?

Devi partire dal presupposto che per i warao l’unico mezzo di comunicazione e trasporto è il motoscafo e lungo il fiume ci sono moltissime imbarcazioni a motore. Bisogna riconoscere che il Goveo ha fatto investimenti affinché le comunità indigene abbiano più imbarcazioni e si possano muovere più agevolmente per il fiume, ma alle barche serve la benzina e qui sta il problema. Nei caños, ovvero nei canali del delta, c’è un solo luogo oltre a Tucupita dove si può comprare combustibile, e bisogna a volte fare code di quattro giorni per poterlo acquistare. Ecco allora che nella stessa Tucupita c’è chi lo vende al mercato nero, evitandoti lunghissime attese ma facendo pagare fino a dieci volte il prezzo corrente. Ci sarebbe anche un altro posto più vicino, Curiaco, ma la gente preferisce a volte andare fino a Tucupita perché Curiaco si trova vicino al confine con la Guyana inglese; lì c’è molto contrabbando e traffico di carburanti e uno corre il rischio di andarvi senza riuscire ad approvigionarsi.
Per rispondere alla domanda iniziale: il governo ha una chiara linea a favore degli indigeni, la qual cosa è positiva; ma, allo stesso tempo, queste buone intenzioni non vengono tradotte in pratica dalle autorità locali. Ci si ricorda dei warao in tempo di campagna elettorale; allora sì che c’è una presenza continua dei politici… ma dopo?

La missione dovrebbe tenere una proiezione verso la città. Come state vivendo questa sfida

Ormai i warao non si trovano più soltanto nei canali del delta. Oggi si muovono seguendo flussi migratori di vario tipo. Ci sono coloro che emigrano per sempre e vanno in città, convinti che la vita sull’Orinoco non porterà loro alcun futuro. Poi ci sono quelli che emigrano perché vogliono fare studiare i loro figli e non possono mandarli in città da soli. Una caratteristica sorprendente dei warao è che sono capaci di spostarsi con tutta la famiglia, arrangiarsi con qualche lavoretto, tirarsi su una baracca alla bene e meglio, pur di accompagnare due figli che vanno a fare le scuole superiori in città. Terzo, ci sono quelli che vanno e vengono. Si spostano soprattutto per motivi di salute, visto che nel delta non ci sono centri di attenzione medica, oppure per incassare soldi che lo stato deve loro, come il personale infermieristico o gli insegnanti che vanno a ritirare lo stipendio. Il paradosso, cosa che trovo sommamente ingiusta, è che la gente spende per andare in città gran parte dei soldi che va a incassare. È mai possibile che non si possa trovare il sistema di fare arrivare i pagamenti direttamente a Nabasanuka e negli altri centri all’interno del delta?
Infine ci sono quelli che vanno temporaneamente a chiedere l’elemosina. Per il warao andare a chiedere l’elemosina non è propriamente mendicare, ma piuttosto un vero e proprio lavoro. Del resto, per loro tutto viene dalla natura e se qualcuno ha di più deve condividerlo con chi non ha. Una volta in città le donne e i bambini vanno a chiedere l’elemosina, mentre gli uomini rimangono a casa a guardare la baracca che si sono costruiti oppure vanno in giro a cercare di guadagnare qualche bolivar. Le famiglie si fermano in città un mese o due, il tempo di raccogliere un po’ di soldi, qualche vestito che la gente dà loro, e poi ritornano alla loro comunità. A volte si spingono fino a Caracas.

Non c’è il rischio che l’indio emigrante perda i suoi valori culturali e religiosi?

In effetti ci siamo resi conto che i warao che andavano in città non frequentavano più la chiesa, mentre nelle loro comunità sono fedelissimi a tutte le funzioni. Appena arrivano in città iniziano invece a vedere la chiesa come un qualcosa che appartiene al criollo, al bianco, qualcosa che non sentono più loro.
La migrazione crea molte baraccopoli, cresciute ai margini della città; e lì, oltre al lavoro pastorale, c’è molto da fare nell’organizzare le nuove comunità. Occorre infatti accettare il fatto che sono nuove realtà, cresciute in un contesto urbano e che come tali vanno trattate. È nata da questa presa di coscienza la nostra decisione di andare in città. Oggi, un missionario della Consolata, padre Zachariah Kariuki, keniano, vive a Tucupita e lavora in questo settore. La sua presenza è importante affinché i warao possano sentirsi accompagnati, fare chiesa. Nel nostro piano pastorale cerchiamo anche di includere elementi della loro spiritualità tradizionale, come la cura della natura, l’ecologia, perché tutta la loro vita di popolo è nata totalmente immersa nella natura. È importante aiutarli a pensare come possono vivere oggi in una città, senza i loro fiumi e con la presenza dell’inquinamento: una bella sfida.

Come la spiritualità warao influenza lo stile missionario?

Il warao è molto rispettoso del divino. Alcuni antropologi affermano che i warao non hanno Dio, ma nei miei pochi anni di esperienza ho scoperto di avere a che fare con un popolo profondamente spirituale, che vive il rapporto con l’essere supremo sullo stile dell’Antico Testamento, con grande paura del castigo che può essere comminato, ma anche con grande rispetto.
In secondo luogo, secondo la loro cosmovisione, tutto merita di essere rispettato e trattato con dignità perché ogni cosa ha il suo spirito: l’acqua ha il suo spirito, la foresta ha il suo spirito… Ne consegue che uno non può entrare in una selva e iniziare a tagliare alberi così come gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.
Per i warao la vita è una sola realtà. Noi, che siamo intrisi di cultura occidentale, tendiamo a frammentare la vita, distinguendo per esempio ciò che è politico da ciò che è invece religioso, economico. Essi, al contrario, hanno una visione olistica della vita. La chiesa non è vista soltanto come un luogo dove la gente va a pregare, ma come uno spazio dove la comunità si incontra in assemblea.
Un altro elemento importante è la fiducia. Il warao è una persona che dimostra la fiducia che nutre in te e, di conseguenza, si aspetta che tu ce l’abbia nei suoi confronti. Nel nostro lavoro siamo quindi chiamati, come missionari, a dimostrare che noi vogliamo loro bene, ma anche che abbiamo fiducia in loro.
La famiglia occupa un luogo simbolico importante nella comunità warao. La prima cosa che un warao ti chiede, anche un bambino, è il tuo nome, poi il nome dei tuoi genitori, quanti fratelli hai… e hanno una memoria tremenda perché qualsiasi nome tu dica loro, se riguarda la tua famiglia, viene ricordato. La famiglia dorme in una sola casa. Risulta per esempio molto strano ad essi che noi e le suore dormiamo ciascuno nella propria stanza. Il valore warao della famiglia ha influenzato molto il nostro stesso modo di vivere. Viviamo con ciò che è necessario, cercando di condividere uno stile povero e semplice, cercando di condividere molto il poco che abbiamo.

Parlando della famiglia, parliamo anche della vostra famiglia. Pur riservandovi spazi fisici separati, avete creato una comunità di vita fatta da missionari e missionarie della Consolata, in linea con le scelte dei nostri istituti. Cosa ci puoi raccontare al riguardo?

Ciò che fino ad oggi siamo riusciti a costruire a Nabasanuka è stato il frutto di una riflessione e di un cammino fatto insieme, un progetto dinamico che si è venuto realizzando poco a poco. In teoria si erano fatte delle ipotesi, poi la realtà ci ha insegnato qualcosa di diverso.
Quando le sorelle arrivarono, il piano prevedeva la costruzione di una casa per loro, da eseguirsi il prima possibile. Ricordo bene il momento in cui ricevetti una lettera da Suor Ivana, una delle tre missionarie italiane che con padre Wilson, brasiliano, e il sottoscritto formano la nostra comunità. Ivana mi scriveva: «Abbiamo deciso che non è conveniente costruire una casa indipendente, ma preferiamo costruire una piccola estensione della casa attuale e continuare a vivere insieme». Quella lettera conteneva una delle decisioni più sagge da noi prese nel corso della nostra esperienza missionaria. Viviamo in mezzo a un popolo molto semplice e povero e avere due case, con strutture complicate, non era ideale per l’ambiente in cui ci trovavamo a vivere. Una volta salvaguardati gli spazi personali, il resto si poteva provare a condividere. Eravamo convinti che il nostro modo di vivere sarebbe stato più eloquente di tante parole.
Volevamo fare un’esperienza che fosse più di un semplice lavoro in équipe; una vera e propria comunità: preghiamo insieme, pianifichiamo insieme, cuciniamo e laviamo insieme le nostre cose, condividendo ciò che appartiene alla vita quotidiana di ogni famiglia.
Facciamo tutto noi, al punto che l’unico impiegato della missione è colui che guida la barca.
Una delle chiavi del successo del nostro stare insieme è stata quella di provare a condividere da subito la nostra storia: «Chi sei tu, da dove vieni, che cosa hai fatto finora?». Questo esercizio ci ha aiutato molto, ci ha fatto arrivare al cuore l’uno dell’altra. Una delle cose molto belle di cui facciamo oggi tesoro è che quando uno di noi non c’è per una ragione o per l’altra, il resto della comunità ne sente la mancanza. Per noi hanno contato l’esperienza, l’apertura all’altro, il lavorare insieme, il voler vivere fianco a fianco ed accettarci per quello che siamo. Ci siamo resi immediatamente conto, sin dall’inizio, che avevamo dei pregiudizi reciproci, ma abbiamo avuto la forza e la saggezza di condividerli. Questo ci ha fatto sperimentare la nostra umanità e la nostra fragilità, aiutandoci a riconoscere che abbiamo ricevuto una formazione differente e veniamo da culture differenti.

Come hai vissuto da africano in quel contesto?

Ti racconto un aneddoto. Ero a Nabasanuka da circa tre mesi. In una cittadina vicino a Tucupita, dove vanno molti warao, viveva un sacerdote che io ancora non conoscevo. Un giorno ci incontriamo e lui mi dice: « Ah, tu sei K’Okal, il famoso K’Okal». «Famoso perché?». «Sai – mi risponde – sono venuti alcuni da Nabasanuka a dirmi che avevano un problema serio: era arrivato un padre negro! Al che ho chiesto loro qual era il problema, se li maltrattavi o mancavi loro di rispetto». «No No – è stata la risposta –  assolutamente. È solo che è davvero “molto” negro».
Questo popolo non aveva mai visto un sacerdote nero. Anzi, i pochi neri con cui erano entrati in contatto erano gente della Guyana, passata di lì rubando motori, comprando la loro roba per niente, sfruttandoli. Chiaro che c’era una certa repulsione nei confronti del colore della mia pelle. Oggi mi chiamano bare mekoro, padre negro, ma lo dicono con moltissimo affetto.
Credo che al di là del colore, la missione offra sempre e a tutti la possibilità di fare lo stesso tipo di esperienza.  Ciò che le persone cercano in un missionario è una persona che sappia farsi fratello nella realtà in cui vivono, accettandole, aprendo loro il suo cuore.
A livello personale, ti posso dire che da quando sono arrivato a Nabasanuka sono cresciuto nella consapevolezza di essere luo, di appartenere a questa cultura del Kenya in cui sono nato e cresciuto. Questo mi aiuta non poco nel momento in cui mi relaziono con la cultura indigena. Il popolo warao è stato sfruttato, da sempre, anche a livello culturale e l’autostima di molti è finita sotto i tacchi. Un giorno ero in città, in banca, quando improvvisamente mi sono imbattuto in una donna warao che conoscevo; era una professionista, oggi deputata dipartimentale. Pensando di farle un piacere mi sono avvicinato e le ho rivolto la parola con il poco warao che avevo appreso e lei, acidamente, mi ha redarguito per averle parlato nella sua lingua in pubblico, in città. Le provocava vergogna. Questa è stata un’esperienza che mi ha nel contempo ferito e fatto riflettere. Vorrei che la gente indigena si sentisse fiera, orgogliosa e felice di essere ciò che è. Per questo mi sento luo e sono contento di esserlo, di tornare a casa e poter parlare la mia lingua, leggerla, usarla nella liturgia.
Il mio sentirmi tale ha fatto sì che oggi possa dire loro che è possibile imparare lo spagnolo, l’inglese, ciò che si vuole, senza perdere ciò che è proprio e, anzi, sentendosi orgogliosi di ciò che per cultura ti appartiene.
Se non aiutiamo queste culture a conservarsi, possono rapidamente perdersi. In un ambiente, come quello indigeno, il ruolo del missionario è estremamente delicato. Io credo che se un domani si dovesse perdere la cultura del popolo a noi affidato, Dio ce ne chiederà conto. Un politico può visitare frequentemente una comunità al fine di conquistae il voto, può anche costruirsi una casa in mezzo ad essa, ma il suo modo di vivere sarà sempre distinto da quello della gente. Il missionario può avvicinarsi di più al cuore vitale di un popolo perché è stato inviato a condividere con esso la Parola di Dio, e anche la sua stessa vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli